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il manifesto, 9 luglio 2017

Amburgo. Centomila per alcunii partecipanti, 80mila per altri, 76mila nell’annuncio ufficiale degliscrupolosi organizzatori. Comunque tante e diverse persone hanno saputosconfiggere la paura, creata da esponenti governativi e dai media nazionali elocali, dopo gli scontri della notte.

Migliaia di giovani avevanoinfatti tenuto impegnate le forze dell’ordine per almeno quattro ore, travenerdì e sabato, in un vero e proprio «riot urbano»: erette e incendiatediverse barricate nel quartiere di Sternschanze, la polizia tenuta lontana dallancio di sassi e due supermercati interamente saccheggiati. Al di là delcontributo di alcuni gruppi organizzati, è stato evidente il coinvolgimentoattivo di migliaia di giovani abitanti di Amburgo, prevalentemente immigrati diseconda generazione, in una sorta di «carnevale di riappropriazione eautodifesa delle strade» dal dispositivo di militarizzazione, che si era vistoall’opera negli ultimi giorni.
Solo verso le due del mattino gli apparati di sicurezza sono riusciti ariprendere il controllo della situazione: con ripetute cariche, l’uso degliidranti e il lancio massiccio di gas lacrimogeni e irritanti, ma anche con ilrastrellamento di interi isolati, a mitra spianato, ad opera dei repartispeciali Sek.
Pesanteil bilancio dellanottata: secondo fonti ufficiali, sono 213 gli agenti feriti, un centinaio imanifestanti (ma molti hanno preferito rivolgersi per le cure alla Saniautogestita), per fortuna nessuno in modo grave, e 203 le persone fermate.Questo clima non ha scoraggiato, anzi, quanti si sono presentati, a partiredalle 11 di sabato mattina, in Deichtorplatz. La stessa composizione del corteoha saputo esprimere tutta la ricchezza di contenuti della mobilitazioneanti-G20. Ad aprire la marcia la rappresentanza delle delegazioniinternazionali presenti ad Amburgo: tra questi i greci della rete Diktyo e delCity Plaza occupato, i sindacalisti francesi di Sud-Solidaires, molti attivistiscandinavi e olandesi. Poi, forte di almeno 7.000 presenze lo spezzone dellecomunità curde in Germania, molte donne e molti giovani, uniti sotto le paroled’ordine del «confederalismo democratico», pronti a difendere l’esperienzadella Rojava autonoma e a denunciare le ambigue relazioni tra il governo Merkele il regime del sultano Erdogan. Subito dopo, in più di diecimila, le attivistee gli attivisti delle reti di movimento «post-autonome» tedesche, la «SinistraIntervenzionista» e «Ums Ganze», protagonisti della giornata dei blocchi divenerdì e, a seguire, i gruppi autonomi e anarchici di «Welcome to hell».
Particolarmentevivace, come da tradizione, il blocco dei tifosi del Sankt Pauli, ilcui stadio è stato uno dei punti di riferimento per la preparazione nell’ultimoanno della protesta contro il vertice. Significativo lo spezzone dei movimentidei migranti e delle associazioni di solidarietà, a partire da quelle impegnateanche nel Mediterraneo, come Sea Watch e Jugend Rettet, a marcare come laquestione della libertà di movimento, dell’apertura dei confini e diun’accoglienza solidale e degna, sia tema decisivo di qualsiasi propostapolitica globale. Poi arrivava l’arancione di Attac; le «tute bianche» deimovimenti contro i cambiamenti climatici e per una radicale conversioneecologica del sistema produttivo nella coalizione Ende Gelände; le bandiererosse del partito die Linke; gli striscioni del sindacato Ver.di, deimetalmeccanici della Ig Metall e di alcune sezioni della stessa confederazioneDgb.
Un arcobaleno di colori e di proposte di rottura con il modellorappresentato dai Venti Grandi e in sostanza difeso da un corteo, «Hamburgzeigt Haltung», convocato dai socialdemocratici e associazioni collaterali innome di un generico «sostegno ai diritti umani», che avrebbe volutocontrobilanciare le contestazioni, ma che ha raccolto circa 4mila partecipanti.
Dasegnalare provocazionidella polizia: un attacco con gli idranti ai margini della piazza conclusiva e,soprattutto, diversi controlli, perquisizioni e fermi nei confronti diattivisti che venissero riconosciuti come «italiani, francesi o spagnoli».Inutili arroganze, a lavori del summit ampiamente conclusi, di cui ha fatto lespese anche l’europarlamentare della Lista Tsipras, Eleonora Forenza (poirilasciata; mentre scriviamo altre persone sono ancora in stato di fermo).

Ma al di là di questo, la riuscita della manifestazione della«Solidarietà senza confini» ha degnamente concluso una settimana dimobilitazione e lotta capace di mostrare, in modalità assai differenti fraloro, un campo ricco di proposte alternative all’esito, semplicementedisastroso, del vertice dei G20. Come tali conflitti e tali alternative sianocapaci di connettersi, convergere e costruire forza comune, in modo dariequilibrare, se non rovesciare, i rapporti di potere dati, è questionestrategica ancora tutta da affrontare.

TgCom News24 e A.Zoratti, Sbilanciamoci online, 5-6 luglio 2017 (i.b)

TGCom News24, 6 luglio 2017
CETA: ACCORDO DI LIBERO SCAMBIO
EU E CANADA ENTRA IN VIGORE
di Carlo Max Botta

L’accordo di libero scambio tra la UE e il Canada entra in vigore, anche se in forma provvisoria in attesa delle ratifiche parlamentari dei vari stati membri.

Siamo di fronte a un’altra minaccia molto preoccupante partorita nelle stanze segrete della Commissione Europea, la commissione che oggi rappresenta probabilmente il nido mondiale delle lobby. Il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement ) è un trattato simile al TTIP stipulato tra l’UE e il Canada.

Tribunali aziendali. Come il contestatissimo TTIP, anche il CETA prevede un nuovo sistema giuridico, aperto solo alle società e agli investitori stranieri. Questo permetterà alle aziende canadesi di citare in giudizio il governo (nel nostro caso l’Italia) per ‘ingiustizia’ ogni volta che i loro profitti vengono considerati a rischio. Lo stesso vale per un gran numero di società americane che hanno interessi in Canada. In poche parole le lobby potranno istituire una sorta di tribunale sovranazionale privato la cui giurisdizione si pone addirittura al di sopra del nostro ordinamento giuridico.

Una vera follia. Sarà l’ennesima entità indipendente autopotenziata che tutelerà gli interessi delle lobby, svincolandosi allo stesso tempo da ogni giudizio sia morale che politico (come appunto la BCE, il FMI e la stessa Commissione Europea)! Una sorta di dittatura togata che a suon di miliardi potrà mettere in difficoltà qualsiasi Stato che provi ad intralciare gli interessi delle lobby e delle multinazionali.

Il CETA elimina sia le barriere tariffarie (dazi doganali appunto) che quelle non tariffarie, ovvero dei livelli minimi di standard qualitativi previsti per tutte le categorie di prodotto scambiato, inclusi quelli agricoli e sanitari, con enormi ripercussioni negative in termini sociali, economici, ambientali e salutari.

Il Canada ad esempio produce un grano che richiede trattamenti chimici per ovviare alla mancanza del clima ottimale per farlo maturare: sole e sana ventilazione (come ad esempio le aree del sud Italia). Queste sostanza oltre che cancerogene sono pericolosissime in termini genetici.

In merito a tale aspetto sono stati analizzate (su mandato della Coldiretti pugliese) alcune note marche di pasta italiane che hanno adoperato negli ultimi lotti il grano canadese. Dai risultati emerge che tali paste manifestano livelli altissimi di sostanze velenose che nei grani italiani sono pressoché inesistenti.

Inoltre va sottolineato, l’incredibile revisione di tolleranza della Commissione Europea, infatti gli euro-commissari hanno alzato il tasso di tolleranza dell’80% di tali veleni per facilitare appunto il commercio di questi prodotti sulle nostre tavole (tolleranze che prima del CETA erano proibite addirittura già per alimenti destinati agli animali in allevamento).

Tali nuovi livelli di “idoneità” rendono la pasta pericolosa ai bambini al di sotto dei 3 anni (livelli di DON), pertanto già oggi i packaging dovrebbero riportare obbligatoriamente che “il prodotto non può essere somministrato a bimbi di età inferiore ad anni 3“. Capite che invece di migliorare la salubrità alimentare, tali accordi legalizzano l’esatto contrario?

Nessun notiziario però racconta ciò che lo scrivente ha vissuto personalmente a Bruxelles, parlo del modus operandi di tali trattati. Le regole sono più ferree dei vecchi apparati come il KGB sovietico. Giudicate voi se esagero. Innanzitutto a nessun parlamentare è concesso entrare nelle stanze in cui le multinazionali, lobbisti e commissari europei discutono le sessioni del trattato.

I membri accreditati alla commissione che possono entrare nelle “stanze segrete” non possono portarvi all’interno il telefonino, nessun apparecchio elettronico, ancor meno registratori, nessun foglio di carta per appunti e nemmeno una banale biro! Capite la follia? Se fosse una cosa bella e lodevole per il popolo perchè tutta questa ossessionata segretezza? Con una corretta informazione non verrebbe più tollerata questa linea vile ed ingannevole di promozione della lobby UE.

Lo scopo del CETA è quello di ridurre il regolamento per affari. Potrebbero venir meno a tutto campo le basi di tutele per cittadini, lavoratori, consumatori, ambiente ecc; in quanto ritenuti «ostacoli agli scambi». In poche parole anche la nostra Costituzione che si basa sulla salvaguardia della salute e di quei diritti inalienabili, per il CETA è un ostacolo intollerabile (ecco il motivo del tribunale sovranazionale).

Una minaccia per i servizi pubblici. Se non è abbastanza chiaro, lo Stato sarà obbligato attraverso il CETA a cedere alle multinazionali i servizi pubblici inalienabili, fra questi cito ad esempio energia, acqua e sanità. Chi avrà la possibilità economica potrà “comprarsi” tali servizi, mentre per gli altri non ci sarà alcuna pietà o Un orrore che cancellerà ogni dignità del cittadino, specie per le future generazioni.

CETA è una minaccia per l’ambiente. Vengono legalizzati usi di idrocarburi altamente inquinantiattualmente proibiti in Europa oltre ad alzare i livelli di tolleranza di inquinamenti in più campi (che si manifesteranno appunto intolleranti per la salute e per l’ambiente)

Insomma questa Europa impone solo provvedimenti e direttive che, guarda caso, sono tutte, ripeto, tutte azioni che si vedono in netto contrasto con la nostra Costituzione, ma soprattutto in contrapposizione con le esigenze reali e le volontà dei cittadini.

Sbilanciamoci online, 5 luglio 2017
LA LUNGA MARCIA DEL CETA
di Alberto Zoratti

Non è bastato Justin Trudeau, il primo ministro canadese in visita in Italia durante il G7 di Taormina, a far calmare gli animi accesi sul CETA, l’accordo di libero scambio tra UE e Canada sulla strada della ratifica parlamentare. Ci hanno provato, descrivendo il leader canadese come un novello Kennedy, salito sulla trincea della lotta al cambiamento climatico e della difesa delle libertà economiche dinanzi all’America First di Donald Trump. “Un leader femminista”, come ha avuto modo di presentarlo la presidentessa della Camera Laura Boldrini, all’interno di una narrazione che preparava la strada al processo più sostanziale dell’approvazione del trattato.

La lunga corsa inizia da lontano. Era il 2009 e gli accordi di libero scambio di seconda generazione (che comprendono cioè sia l’abbattimento dei dazi che delle barriere non tariffarie) erano appena venuti alla luce. In quel momento gli occhi erano puntati sull’accordo con la Corea del Sud, trattato molto sensibile non solo per i nostri produttori di riso ma anche per le nostre case automobilistiche, che vedevano nei colossi sudcoreani dei possibili competitori. E dove non ha potuto l’agricoltura ci hanno pensato le auto, considerato che l’unico veto all’approvazione dell’accordo con la Corea al Consiglio Europeo dell’ottobre 2011 fu proprio italiano.

Fu in quel brodo primordiale che prese forma il CETA, negoziato in modo opaco e sostanzialmente segreto (le questioni legate alla trasparenza vennero affrontate solo con il TTIP alcuni anni dopo, grazie alle ingenti mobilitazioni e alle pressioni della società civile) fino al settembre 2014, quando con una stretta di mano Unione Europea e Canada suggellarono un accordo che a quanto diceva l’allora Commissario europeo De Gutch avrebbe dovuto vedere la luce in breve tempo. “EU only”, pensavano: dopotutto venne interpretato come “accordo non misto”, cioè di pura competenza europea, e avrebbe avuto il fast track della sola ratifica europarlamentare.

Ma le cose non furono così semplici. Da una parte la mobilitazione della società civile, che spinse fortemente per il carattere misto dell’accordo (cioè con competenze concorrenti Stati membri – Unione europea) e che portò alla decisione di renderlo tale nel Consiglio Europeo del luglio 2016. Nei primi mesi del 2017 la Corte di Giustizia Europea confermò la posizione mista, con una sentenza sull’accordo Unione Europea – Singapore sul suo capitolo investimenti (che era al centro della contesa). Questo fu il caso in cui l’Italia perse quel minimo scatto di orgoglio di pochi anni prima: la Campagna Stop TTIP Italia pubblicò nel giugno 2016 un carteggio privato tra il Ministro Carlo Calenda e la Commissaria Malmstrom in cui l’Italia sosteneva l’ipotesi del carattere EU only. Che in parole semplici significava: evitiamo la ratifica del nostro Parlamento, per correre più veloci verso l’approvazione.

Altri furono gli ostacoli in questa corsa contro il tempo, che vedeva come spade di Damocle le elezioni francesi, quelle potenziali italiane, le tedesche e la stessa Brexit. Nell’ottobre 2016 toccò alla piccola Vallonia, il cui parlamento è titolato a ratificare accordi commerciali (conditio sine qua non per la ratifica del Parlamento belga), e al suo primo ministro Paul Magnette. La lotta di Davide contro Golia durò quasi un mese, velato di minacce, pressioni e intimidazioni. Ma il piccolo parlamento nordeuropeo riuscì comunque nell’impresa di far mettere nero su bianco alcune “linee rosse” da non superare, non ultime la questione dello sviluppo sostenibile e quello della tutela degli investimenti.

Già, perchè a far fronte alle proteste della società civile ci pensava la retorica europea secondo la quale questi accordi di nuova generazione, come TTIP e Ceta, avrebbero garantito alti standard sociali e ambientali. Peccato che il capitolo specifico sia solamente consultivo, che il rispetto alle Convenzioni dell’OIL sia sottolineato ma per nulla rafforzato con meccanismi di enforcement chiari, a differenza di ciò che riguarda la questione investimenti dove un arbitrato specifico ha la possibilità di imporre richiesta di compensazione economica davanti a un arbitrato a quei Governi (nazionali o locali) accusati di distorsione del mercato (o di esproprio indiretto, con un’interpretazione molto ampia). Uno sbilanciamento molto pericoloso, che rischia di diminuire lo spazio di agibilità degli Stati.

Un esempio di come questi due ambiti siano in conflitto lo si trova in Germania, vicino ad Amburgo, dove la Vattenfall (impresa energetica scandinava con molti interessi nel nucleare e nel termoelettrico tedesco), facendo leva su un accordo internazionale di liberalizzazione dell’energia di cui Germania e Svezia sono firmatari (Energy Charter Treaty) è riuscita a far modificare a sua favore una norma sull’emissione di acque di scarico dalla sua centrale termoelettrica alla periferia della città tedesca grazie alla denuncia davanti a un arbitrato. La causa è finita in patteggiamento, con la municipalità di Amburgo che ha scelto di allentare le norme. Peccato che pochi anni dopo, con una sentenza resa pubblica nell’aprile scorso, la Corte di Giustizia Europea ha strigliato il Governo tedesco proprio perché quell’allentamento negli standard è andato contro le norme di tutela ambientale comunitaria.

Anche il CETA presenta un capitolo sulla tutela degli investimenti. Al posto dell’arbitrato classico investitore – Stato (ISDS) una mobilitazione internazionale durata più di un anno ha indotto l’Unione Europea a proporre un dispositivo riformato: un po’ più trasparente e pubblico, ma ispirato agli stessi principi dei vecchi arbitrati. Pochi passi avanti e parziali, secondo le campagne internazionali, che chiedono che il capitolo sia stralciato definitivamente o congelato.

Ma d’altra parte, cosa potrebbe accadere? Il recente caso Ombrina Mare è significativo: l’impresa energetica Rockhopper, propietaria dell’impianto denuncia l’Italia davanti a un arbitrato dell’Energy Charter Treaty con una possibile richiesta di 13 milioni di euro (i dati però non sono pubblici) per il ritiro della concessione di prospezione e di estrazione di idrocarburi dall’Adriatico. Un’azione prevedibile, considerato che sono già diverse le cause a cui l’Italia dovrà rispondere, sempre sotto l’ombrello dell’ECT, per la rimodulazione degli incentivi al fotovoltaico, ma che evidentemente non scalfisce la piena fiducia delle istituzioni negli arbitrati, qualunque struttura abbiano.

Lo sbilanciamento è talmente evidente che lo scorso 3 luglio, a un seminario con la società civile organizzato a Bruxelles dalla direzione commercio internazionale – DG Trade – della Commissione europea proprio sul capitolo “Sviluppo sostenibile” dei trattati di libero scambio, Georgios Altintzis dell’ITUC (International Trade Union Confederation, la confederazione internazionale dei sindacati) sottolineava come il modello proposto negli accordi commerciali sia inaccettabile: problemi con la Corea del Sud sulla libertà di associazione sindacale, con il Guatemala e il Salvador sempre sul rispetto delle Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL) o con la Colombia per il rispetto della Convenzione CITES sulle specie protette, non riescono a essere affrontati e risolti perchè il meccanismo è troppo farraginoso e inconcludente. “Bisognerebbe far sottostare l’approvazione dei trattati di libero cambio da parte dei Parlamenti alla ratifica e applicazione delle Convenzioni OIL e di quelle ambientali” ha sottolineato con forza Altintzis, ma Madeleine Tuininga, direttrice del dipartimento Commercio e Sviluppo sostenibile della DG Trade ha chiarito come “esistano approcci differenti, ognuno con i suoi pro e contro”. In attesa del documento annunciato dalla Commissione Europea sullo sviluppo sostenibile e il commercio, queste parole non depongono a favore di un sostegno incontrastato all’attuale politica commerciale comunitaria.

Criticità evidenti, quindi, ma almeno con il CETA le indicazioni geografiche sono protette, così sottolinea il Ministero dello Sviluppo Economico. “In Canada riceveranno protezione”, ricorda Coldiretti, “un elenco di 171 prodotti ad indicazione geografica dell’Unione Europea tra cui figurano 41 nomi italiani rispetto alle 289 denominazioni Made in Italy registrate”. I produttori canadesi potranno continuare ad utilizzare il termine Parmesan ma anche produrre e vendere, come già fanno, Gorgonzola, Asiago, Fontina (anche se con l’indicazione Made in Canada). Il prosciutto di Parma Dop con il CETA potrà entrare in Canada, ma in coesistenza con quello dell’azienda privata che ne ha registrato il marchio. Una vittoria? Non sembrerebbe.

Eppure nonostante questi limiti e queste criticità, il Governo italiano corre verso una ratifica impedendo un vero dibattito nel Paese. Alla fine di giugno alla Commissione Esteri del Senato una maggioranza PD – Forza Italia, con l’assenza di Articolo Uno MDP, ha spianato la strada verso Palazzo Madama.

Ma in strada, o meglio in piazza – il 5 luglio a piazza Montecitorio – scendono anche la Campagna Stop TTIP Italia, Coldiretti, Slow Food, CGIL, Greenpeace e molti altri, per chiedere uno Stop immediato alla ratifica, e l’apertura di un serio dibattito attorno al tema degli impatti sociali e ambientali non solo del CETA, ma anche degli altri trattati che la Commissione europea sta negoziando, nonostante le critiche e gli avvertimenti provenienti dalla società civile e dal mondo produttivo della piccola e media impresa.

Riferimenti
Sull'argomento abbiamo pubblicato diversi articoli. Segnaliamo in particolare l'appello di Alex Zonatelli e la delucidazione di Monica di Sisto

il manifesto, 2 luglio 2017 (m.p.r.)

Dal cuore di Old Dakha, la capitale del Bangladesh, bisogna prendere dei piccoli battellini per attraversare il Buriganga e raggiungere l’altra sponda. Su questo largo fiume dalle acque nere come la pece si viene traghettati su piroghe sottili e dall’equilibrio apparentemente instabile.

C’è un gran traffico di umanità, animali, utensili che, per qualche centesimo, si spostano dalla riva dove troneggia il Palazzo rosa di Ahsan Manzil, una volta sede del «nababbo» (nawab), a un quartiere anonimo dall’altra parte del fiume che scorre verso il Golfo del Bengala. Pieno di negozi di tessuti naturalmente, una delle grandi ricchezze del Bangladesh che ogni anno frutta al Paese 30 miliardi di dollari in valuta. Le fabbriche però, grandi o piccole, sono lontane dal centro città: stanno a Savar, dove si è consumato il dramma del Rana Plaza, o ad Ashulia, distretti suburbani industriali. In pieno centro c’è invece il cuore della produzione di un altro grande bene primario del Bangladesh che se ne va tutto in esportazione: il cuoio. Decine di fabbriche dove si fa la concia delle pelli: la prima lavorazione e quella più tossica che trasforma la materia prima nel prodotto base che può poi diventare scarpa o borsetta. A un pugno di isolati dal Palazzo rosa, nel distretto di Kamrangirchar e in quello gemello di Hazaribagh, divisi dal Buriganga, si lavora in condizioni bestiali anche con l’aiuto di ragazzi di 8 anni.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il 90% di chi lavora in queste fabbriche di veleni che si sciolgono nel fiume non supera i cinquant’anni. Pavlo Kolovos, il responsabile di tre cliniche di Medici Senza Frontiere a Kamrangirchar, spiega che «la metà dei pazienti che viene negli ambulatori di Msf lo fa per problemi legati al lavoro: malattie della pelle, intossicazioni, insufficienze respiratorie…». «Le nostre inchieste - dice Deborah Lucchetti della campagna Abiti Puliti - mostrano come l’esposizione al cromo, quando viene trattato in maniera non adeguata e si trasforma in cromo esavalente, possa portare anche al tumore. Senza contare che gli scarti delle lavorazioni vanno a finire in falde e terreni espandendo il danno anche oltre la fabbrica».

Il paradosso è che la materia prima - cotone o cuoio - non sempre viene dal Bangladesh che pure è un grande produttore di uno dei migliori cotoni del mondo. E non sempre i semilavorati finiscono, come avveniva una volta, nei Paesi dove hanno sede le grandi firme americane o europee che sono le vere regine del mercato dell’abbigliamento, dalla gonna allo stiletto, dalla t-shirt al mocassino. Uno dei grandi produttori mondiali di cotone ad esempio è l’Uzbekistan. È una produzione antica come il mondo che un tempo rese famosa la Valle di Fergana. E il cotone uzbeco va a finire in Bangladesh che non ne produce abbastanza per alimentare un’industria che vale il 90% dell’export nazionale. Quanto al cuoio, la pelle conciata, prima di andare a finire come scarpa nelle boutique di via Montenapoleone o di Bond Street, fa strade molto diverse. Magari arriva in Serbia oppure, ancora in Asia, in Indonesia, Cina, Cambogia.

Condizioni critiche anche dietro al cuoio lavorato nei laboratori del Bangladesh
Due recenti inchieste ci aiutano a gettare una luce, anche se assai sinistra, su questa retrovia dei nostri abiti e delle nostre scarpe. Cominciamo dall’Uzbekistan. Un rapporto di Human Rights Watch mette sotto accusa il finanziamento di svariati milioni di dollari concesso dalla Banca mondiale all’Uzbekistan proprio nel campo del cotone. Si chiama aiuto allo sviluppo. Ma se si va a far visita al campo di cotone vero e proprio si scoprono cose molto spiacevoli: nel dossier We Can’t Refuse to Pick Cotton Hrw sostiene che il cotone viene raccolto anche da minori e, in gran parte, da gente che non avrebbe nessuna voglia di raccoglierlo (per 5 euro al giorno). Hrw non è l’unica organizzazione ad aver messo sotto la lente la filiera del cotone uzbeco e soprattutto i suoi finanziamenti. Come quello per l’irrigazione – oltre 300 milioni di dollari – nei distretti di Turtkul, Beruni, Ellikkala nel Karakalpakstan dove il cotone conta per il 50% delle terre arate, in un Paese che è il quinto produttore mondiale ed esporta in Cina, Bangladesh, Turchia, Iran.

In quelle zone, dice il rapporto, lavoro forzato e minorile continuano. E la Banca mondiale lo sa perché un gruppo misto - Uzbek-German Forum for Human Rights - glielo ha già fatto sapere da un paio d’anni. Ma anziché sospendere i finanziamenti, la Banca mondiale li ha allargati. Per la verità anche la Banca mondiale sta attenta alle condizioni di lavoro e anzi il lavoro minorile è un mantra assoluto nella scala dei diritti da rispettare. Ma i burocrati di Washington non hanno sempre il tempo e la voglia di guardare oltre le carte e così hanno chiesto all’Ufficio internazionale del lavoro di fare accertamenti. L’Ilo l’ha fatto e ha stilato un rapporto dove si citano «progressi».

Ma gli attivisti di Hrw fanno notare che, per stessa ammissione dell’Ilo, non solo un terzo dei raccoglitori è stato obbligato a lavorare (quasi un milione di lavoratori su tre), ma le autorità avevano messo in guardia gli intervistati. Lo stesso rapporto ammette che «…molti intervistati sembravano essere stati preparati alle domande». Secondo Hrw la Banca mondiale e la International Finance Corporation (Ifc), un’agenzia della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, dovrebbero immediatamente sospendere ogni finanziamento fino a che il governo non riesca a dimostrare che non esiste più lavoro minorile e lavoro forzato.


E nelle fabbriche cambogiane usate dai marchi sportivi più famosi le cose non vanno meglio
Passando alla Cambogia, qualche giorno fa il britannico The Observer ha pubblicato un’inchiesta condotta con la ong Danwatch sugli incidenti nelle fabbriche cambogiane di alcune delle più note marche sportive: Nike, Puma, Asics e VF Corporation. Solo nell'ultimo anno, più di 500 dipendenti di quattro diverse fabbriche che lavorano per le firme occidentali sono state ricoverate in ospedale. Svenimenti di massa. Il problema è il caldo, la mancanza di ventilazione e di regole sui limiti sopportabili in giornate di lavoro anche di dieci ore. I prodotti chimici usati per la produzione fanno il resto. Insomma si lavora così. Lontano dai negozi a quattro luci che esibiscono scarpette e tailleur. Nell’ombra asfissiante del grande supermercato asiatico.

la Repubblica, 28 giugno 2017 (m.p.r.)

New York. Cinque giganti americani stanno rivoluzionando le nostre abitudini di consumo. L’Europa vuole evitare che questo si traduca in un oligopolio incontrollato, soffocante, distruttivo per i diritti dei consumatori, per il libero mercato, la competizione, l’innovazione. Oggi tocca a Google, domani potranno essere Amazon e Facebook, Apple o Ebay. La posta in gioco è immensa: i consumatori abbandonano velocemente comportamenti consolidati, lo shopping online cresce con prepotenza, in America è già in atto il tramonto dei centri commerciali e tutta la grande distribuzione soffre una crisi profonda. Il rischio del nuovo scenario è che la libertà di scelta del consumatore sia più immaginaria che reale; i nuovi metodi di manipolazione delle nostre scelte sono più subdoli che mai. La decisione europea tenta di costringere uno dei giganti digitali a cambiare strada. Ci riuscirà? A vantaggio di chi?

Google Shopping è uno dei protagonisti più formidabili nel nuovo mondo del consumo. Figlio del motore di ricerca Google, è diventato lo spazio virtuale dove i nostri desideri e i nostri soldi cercano di tradursi in acquisti. Catalogo virtuale di tutto ciò che è in vendita, guida intelligente, promette un accesso rapido, semplificato, in pochi clic e frazioni di secondo percorriamo più “scaffali e vetrine” che in settimane di passeggiate tra grandi magazzini, boutique o ipermercati. È tutto più facile, e siamo grati a chi ha disegnato un mondo così fluido e confortevole. Ma l’inganno c’è. In realtà siamo meno sovrani che mai. Il consumatore è docile preda di un algoritmo che lo guida verso il risultato deciso da altri.
Google Shopping non fa mistero della sua regola principe: ordina i risultati delle nostre ricerche dando priorità agli annunci a pagamento. È una grande macchina di raccolta pubblicitaria e di manipolazione delle scelte di spesa. Applica alla Rete l’antica pratica dei supermercati che si fanno pagare dalle grandi marche per piazzare i loro prodotti negli scaffali più visibili e più accessibili. Ma su Google Shopping quel trucco antico raggiunge una potenza immensamente superiore, è molto più raffinato. L’algoritmo fa scomparire dall’universo online altri servizi specializzati nella spesa comparativa, che offrono cataloghi intelligenti, recensioni, paragoni su qualità-prezzo.
I rivali potenziali, tutto ciò che introduce concorrenza a vantaggio del consumatore, viene relegato “molte pagine” più in là, ben lontano dai nostri sguardi frettolosi. Peggio ancora se usiamo lo smartphone, dove lo spazio è più ridotto e quindi finiamo per accontentarci delle opzioni iniziali.
La magia dell’algoritmo spiega la storia fantastica di Google, che alla sua prima quotazione in Borsa nel 2004 collocò l’azione a un prezzo di 85 dollari e oggi ne vale quasi mille. Con un tesoro di guerra di 172 miliardi di asset, può ben permettersi di pagare la multa europea senza che questo sconquassi il suo bilancio. Più problematico invece sarà mettere le mani nell’algoritmo per aprirlo alla concorrenza. Anche perché nel frattempo i maggiori rivali sviluppano strategie alternative per occupare lo spazio online. Amazon – che da sempre si distingue perché assomiglia più a un grande magazzino virtuale, mentre Google è più “catalogo di annunci” – ha fatto notizia di recente rafforzandosi nella distribuzione di prodotti alimentari freschi con la scalata alla catena salutista Whole Foods. Apple dal canto suo sta investendo sul ruolo di banca o carta di credito con lo smartphone come sistema di pagamento.
I primi a trarre beneficio della sanzione europea su Google dovrebbero essere i siti alternativi specializzati nel “giudizio comparativo”, nel raffronto qualità-prezzo tra prodotti concorrenti. Sono piccoli ma agguerriti, tra questi alcune società inglesi come Foundem e Kelkoo che furono le prime a promuovere azioni legali contro Google Shopping. «Per più di un decennio – ha detto il chief executive di Foundem – il motore di ricerca di Google ha deciso cosa leggiamo, usiamo e compriamo online. Se nessuno interviene a controllarlo, questo guardiano dell’accesso alla Rete non conosce limiti al suo potere». Gli esperti di Bruxelles hanno dimostrato che quando Google Shopping iniziò a manipolare il suo algoritmo per “retrocedere” i concorrenti sempre più lontano dagli occhi dei consumatori, i siti rivali videro sparire dall’80% al 90% dei propri utenti.
L’Europa è ormai la vera protagonista mondiale delle politiche antitrust, dopo che l’America si è arresa allo strapotere oligopolistico dei suoi big. Ora si apre una sfida nuova, in cui le autorità di Bruxelles dovranno vigilare sulle modifiche che Google introdurrà nel suo servizio. Senza trascurare gli altri Padroni della Rete, che con strategie diverse perseguono la stessa occupazione sistematica della nostra attenzione e del nostro potere d’acquisto.

la Repubblica, 25 giugno 2017

Fra tante analisi, accuse e difese del neoliberismo, la vera domanda è quella posta da un celebre saggio di Colin Crouch, sulla sua “strana non-morte”. Come ha fatto a sopravvivere al suo palese fallimento, uscendo rafforzato da una crisi che avrebbe dovuto distruggerlo? Perché, dopo tanti avvisi di sfratto, continua a restare il paradigma di riferimento delle politiche globali – una specie di zombie, come lo chiamò Paul Krugman sul New York Times? Se l’interpretazione del neoliberismo si fermasse alle formule correnti che lo dipingono solo come generatore di povertà, nemico della democrazia e fomentatore di conflitti sociali, la sua lunga resistenza resterebbe inspiegata. Probabilmente c’è qualcosa di più da comprendere, prima di contrastarlo con strumenti adeguati al reale livello in cui si muove.

Già Pierre Dardot e Christian Laval, nel loro Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista (DeriveApprodi), fanno un primo passo in questa direzione. Diversamente da quanti vedono nel neoliberismo un meccanismo puramente economico, essi lo considerano un vero sistema di governo della società, che modella in base alle proprie esigenze. Esso penetra nella stessa vita del lavoratore, facendone una sorta di imprenditore di se stesso. L’individuo non deve limitarsi ad avere un’impresa, ma deve esserlo, adoperando la sua medesima vita come un capitale umano su cui investire. In questo quadro la politica non si è eclissata, come spesso si dice, ma adeguata a tale orientamento. Siamo lontani dalle analisi economicistiche di Thomas Piketty, che attribuisce l’aumento delle disuguaglianze alla divaricazione tra tassi di crescita del reddito nazionale e tassi di rendimento del capitale. In realtà la strategia neoliberista è assai più capillare. Essa richiede da un lato interventi politici coerenti; dall’altro una modificazione radicale delle rappresentazioni simboliche che incidono profondamente sulla psicologia degli individui.
Un contributo ancora più sottile alla comprensione del fenomeno viene adesso dall’ultimo libro di Massimo De Carolis, Il rovescio della libertà ( Quodlibet 2017). Tutt’altro che essere una forza negativa, impegnata soltanto nello smantellamento dello Stato sociale, il neoliberismo ha colto le potenzialità innovative contenute nella crisi della civiltà moderna. Contrariamente ai filosofi che vi hanno visto soltanto nichilismo e alienazione, esso ne ha legato i passaggi traumatici a un vero e proprio progetto antropologico. Piuttosto che condannare gli animal spirits, vale a dire la potenziale concorrenza degli individui, li ha valorizzati, incanalandoli in istituzioni capaci di contenerne la carica conflittuale entro limiti accettabili. Da qui una netta svolta rispetto al liberismo classico. Se questo intendeva ridurre al minimo ogni regolamentazione, immaginando che la libera fluttuazione dei prezzi determinasse un equilibrio ottimale, il neoliberismo affida alle istituzioni il compito di governare tale processo, proteggendolo, almeno in teoria, dall’ingerenza di fattori devianti.
Intanto bisogna distinguere, all’interno della galassia neoliberista, la scuola austriaca di Friedrich von Hayek e Ludwig Mises, influente soprattutto nel mondo anglosassone, da quella tedesca rappresentata da Walter Eucken, Alexander Rüstow, Wilhelm Röpke, riunita, già negli anni Quaranta del secolo scorso, intorno alla rivista Ordo. Se i primi si muovono ancora nel solco classico della riduzione al minimo dei vincoli sociali, i secondi abbandonano la via tradizionale del laissez faire, sostenendo un forte interventismo da parte dello Stato, che deve garantire la stabilità monetaria, difendere l’economia dall’inflazione, imporre il pareggio di bilancio. Che tale ideologia governi ancora la società tedesca è facile vedere.
Se si leggono libri come Civitas humana di Röpke e Human Action di Mises con gli occhiali fornitici da Michel Foucault vi riconosciamo una vera e propria “politica della vita”, tesa a disciplinarla secondo le esigenze del mercato. Al suo centro l’assunzione in positivo degli istinti biologici degli individui, destinati a produrre una continua dinamizzazione dei processi sociali. Quelle stesse mutazioni profonde delle società ipermoderne, interpretate dai filosofi primonovecenteschi come sintomi regressivi dello spirito europeo, vengono valorizzate come risorse innovative dai teorici neoliberisti.
Come tale progetto sia andato incontro a una serie di fallimenti epocali è dimostrato dagli effetti distruttivi delle attuali politiche neoliberiste, sempre più gestite da grandi agglomerati economico- politici a vantaggio dei ceti più abbienti con uno spettacolare incremento delle disuguaglianze. Quella in atto è una sorta di rifeudalizzazione del mercato che tende ad atrofizzare le stesse potenze che ha liberato, in un intreccio opaco tra affari e potere. In questo modo la crisi, assunta come forma di governo, alimenta nuove crisi, spingendo fasce sempre maggiori di popolazione verso la soglia di povertà.
Ma la resistenza a questi processi involutivi deve essere condotta allo stesso livello di discorso. E cioè deve basarsi sulle medesime potenzialità innovative evocate, e tradite, dal progetto neoliberista. Le dinamiche di globalizzazione e i processi di tecnologizzazione delle competenze sono troppo avanzati per tentare di bloccarli dall’alto. Non resta che cercare di guidarli in una direzione diversa. Le nostre classi politiche appaiono largamente inadeguate. Ma, se si vuole spezzare l’avvitamento della crisi su se stessa, non c’è altra strada.

cagliaripad.it, 25 giugno 2017 (c.m.c.)

In questi giorni è in discussione in Senato il Ceta( Comprehensive Economic and Trade Agreement), l’accordo commerciale ed economico fra il Canada e la UE. Se sarà approvato sarà un’altra vittoria del trionfante mercato globale. Infatti il Ceta è uno dei sette trattati internazionali di libero scambio che sono: Ttip, Tpp, Tisa, Nafta, Alca e Cafta. Sono le sette teste dell’Idra. Il profeta dell’Apocalisse aveva descritto il grande mercato che era l’Impero Romano come una Bestia dalle sette teste. E il profeta aggiungeva che «una delle sue teste sembrò colpita a morte, ma la sua piaga mortale fu guarita» (Ap. 13,3).

Così oggi alcune teste della Bestia sembrano colpite a morte, perché Trump si è scagliato contro il TTIP (Accordo commerciale tra USA e UE), contro il Tpp(Accordo commerciale tra USA e nove paesi del Pacifico) e il NAFTA (Accordo commerciale fra USA, Canada e Messico). Sembravano colpite a morte, ma ora vengono riproposte sotto nuove forme, soprattutto il Ttip. La ‘Bestia’ infatti, nelle sue varie teste, sembra che stia lì lì per morire, ma riprende subito vita. Non dobbiamo quindi mai allentare l’attenzione su questi Accordi che sono il cuore pulsante del grande mercato globale. Soprattutto in questo momento dobbiamo stare molto attenti al Ceta.

Da anni è in atto una forte campagna in Europa contro il Ceta, con forti pressioni sul Parlamento europeo. Ma nonostante tutto questo, il 30 ottobre 2016 la UE ha firmato il Trattato e il 15 febbraio 2017 anche il Parlamento Europeo lo ha ratificato con 408 voti favorevoli e 254 contrari. Ma ci resta ancora una speranza:il Trattato deve essere approvato da tutti i Parlamenti dei 27 Stati. La resistenza nei parlamenti francesi e spagnoli è forte. Ora il testo del Trattato è in discussione nel nostro Senato, dove è stata incardinata l’8 giugno scorso. Dobbiamo tutti mobilitarci perché questo Accordo non venga approvato. Il 5 luglio, al mattino, ci sarà un sit-in davanti al Senato e al pomeriggio una manifestazione indetta dalla Coldiretti davanti al Parlamento.

Per noi questo trattato è «un gigantesco regalo alle multinazionali e un’ ulteriore limitazione al ruolo e alle competenze di governi ed enti locali ai danni dei diritti e delle tutele di milioni di cittadini e consumatori.» Così lo definisce la deputata europea Eleonora Forenza. Infatti il Ceta non prevede solo un’abolizione della quasi totalità dei dazi doganali (già molto bassi) , ma soprattutto l’eliminazione di gran parte delle “barriere non tariffarie”, ovvero norme tecniche standard e criteri di conformità dei diversi prodotti di cui gli Stati si dotano per proteggere la salute, l’ambiente, i consumatori e i lavoratori.

«Chi ha a cuore il futuro dell’agricoltura di piccola scala e della produzione alimentare di qualità – scrive Carlo Petrini – non può che sperare che l’Accordo venga rigettato. Ancora una volta siamo di fronte a una misura volta a promuovere, sostenere, difendere e affermare esclusivamente gli interessi della grande industria a scapito dei cittadini e dei piccoli produttori». Il Ceta è un attacco al diritto al lavoro, agli standard ambientali, alla difesa dei beni comuni e dei servizi pubblici. In questo trattato vi sono clausole che impediscono la ripubblicizzazione dei servizi idrici e dei trasporti.

Per queste ragioni chiediamo ai senatori di bocciare l’Accordo. Invece Pierferdinando Casini, presidente della Commissione Esteri del Senato, sta premendo perché si arrivi al più presto al voto. Le Commissioni Difesa e Affari Costituzionali hanno dato il loro ok. Ora tocca a noi premere sui senatori e senatrici dei nostri territori, scrivendo lettere, inviando e-mail. Ma in questo momento abbiamo bisogno della voce forte dei nostri vescovi italiani. Per questo mi appello ai nostri vescovi, alla CEI perché si esprimano sul Ceta.

Non possono continuare a rimanere in silenzio su un Trattato che rafforzerà la tirannia dei mercati e delle multinazionali a scapito dei cittadini soprattutto i più deboli. Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium attacca con forza «l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria» perché «negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale,che impone in modo unilaterale e implacabile le sue leggi e le sue regole»(56).

E’ questo lo scopo dei Trattati di libero scambio, fra cui il Ceta. Se verrà approvato, il Ceta aprirà le porte al TTIP che è di nuovo riproposto dagli USA e poi al Tisa (Accordo sul commercio dei servizi) che stanno segretamente preparando. Quest’ultimo Accordo è il più pericoloso, perché porterà alla privatizzazione dei servizi pubblici, dall’acqua alla sanità, dalla scuola al welfare.

E poi tocca a noi , laici e credenti, unirci insieme, fare rete per dire NO all’Idra dalle sette teste e un SI’ a un mondo più equo, più solidale, più sicuro per tutti.

il Fatto Quotidiano on line,18 giugno 2017 (m.p.r.)

Ci sono volute le immagini raccapriccianti di un inferno di cemento, lamiere, plastica e vetro per aprire nel Regno Unito il dibattito sui privilegi delle classi più abbienti. E già, perché a Londra, dopo la tragedia della Grenfell Tower non si è parlato delle diseguaglianze di reddito – tema ormai trito e ritrito – ma dell’ingiustizia perpetrata da un sistema dove i poveri sono diventati invisibili e, tutt’al più, diventano numeri quando si trasformano nei corpi carbonizzati delle vittime di un incendio. Per chi voglia capire cosa sta succedendo nel Regno Unito, perché si è votato Brexit e perché il filo-marxista Corbyn ha portato a casa il 40 per cento dei voti, suggerisco di usare come parole guida ingiustizia e Grenfell Tower. Quest’ultima faceva parte della vecchia Londra, una città popolata dagli sfollati alla fine della seconda guerra mondiale, una città che sembrava una fetta di formaggio gruviere, tanti erano le voragini scavate dalle bombe dei blitz.

Al loro posto, dal 1945 fino agli anni Settanta, vennero eretti complessi di case popolari, palazzi e grattacieli che come ha commentato una residente della Grenfell Tower oggi assomigliano più a piccionaie che a edifici residenziali. Una o massimo due camere da letto incastrate una sopra all’altra con al centro due ascensori puzzolenti e una singola scala. Protezione contro gli incendi inesistente. Ma tutto ciò avveniva nel dopoguerra.

Nelle case popolari andarono a vivere i poveri, i senza tetto e chiunque non avesse la possibilità di vivere in una casa propria. Ma la vita non era così difficile. I governi laburisti e conservatori costruirono intorno a questi centri scuole, ospedali, uffici postali e così via, pietre miliari della vita societaria. E a tutti questi servizi accedevano anche coloro che avevano una casa loro. La parola d’ordine era dunque integrazione.

Fu la signora Thatcher a offrire ai residenti delle case popolari la possibilità di acquistare a prezzi stracciati l’appartamento in cui vivevano. Potevano diventare landlord e farci quel che volevano. Successe negli anni Ottanta e da allora molti di questi palazzi e grattacieli sono stati privatizzati e ristrutturati, gli appartamenti venduti o affittati. Ed è esattamente quello che è successo alla Grenfell Tower. Ciò spiega perché tra i dispersi c’erano stranieri, come il profugo siriano o la coppia di giovani italiani, andati a Londra a cercare fortuna.

Nonostante la privatizzazione degli appartamenti, le parti comuni sono rimaste pubbliche e le ristrutturazioni sono state a carico delle circoscrizioni. Quasi tutte non hanno trasformate torri come la Grenfell in edifici sicuri, a norma con le moderne regole anti-incendio. Sono costruzioni vecchie, che spesso non possono essere migliorate, bisognerebbe buttarle giù e ricostruirne di nuove, ma lo Stato non ha i soldi per farlo. Allora cosa si fa? Ci si concentra sull’aspetto esteriore, pretendendo che si siano fatte grandi cose.

Molti hanno detto che si è voluto abbellire la Grenfell Tower perché si affacciava sui giardini delle case dei multimiliardari di Holland Park e Kensington, ma la verità è ancora più cruda. Nell’era dell’austerità ingannare gli inquilini e l’elettorato è diventata un’arte. E come i padroni di case coprono le crepe con una mano di vernice così lo Stato britannico ha coperto con pannelli di alluminio i pericoli della Grenfell Tower.

Ma torniamo all’ingiustizia, tema che in questa Londra di metà giugno, stranamente calda e luminosa, rischia di diventare una buccia di banana per la signora May. A est della città, intorno alla City e anche a sud, dall’altra parte del fiume, negli ultimi dieci anni sono sorti grattacieli spettacolari dove si sono ubicate le imprese più ricche del mondo. Alcuni, specialmente quelli lungo il fiume, a Dockland, ospitano appartamenti con viste mozzafiato sulla città, simili a quelle dei piani più alti di Grenfell Tower. Lì però i sistemi di sicurezza sono tutti a norma, ci sono gli allarmi anti-incendio che aprono automaticamente rubinetti incastrati nei soffitti da dove scorrono fiumi e fiumi di acqua; ci sono scale anti incendio accessibilissime e tanti ascensori.

Queste costruzioni appartengono al settore privato mentre le case popolari rientrano in quello pubblico. Due pesi e due misure, insomma, chi ha costruito i nuovi edifici ha dovuto farlo seguendo regole che non sono state rispettate nella ristrutturazione di quelli vecchi.

Come i grattacieli anche la popolazione di Londra si bipartisce intorno alla dicotomia pubblico/privato dove vige il principio di due pesi e due misure. I ricchi non usano l’Nhs, il sistema sanitario pubblico, non fanno la fila per mesi per fare la chemio, non mandano i figli alla scuola pubblica, a stento usano la metro… I ricchi abitano la Londra del settore privato dove tutto funziona, tutto è sicuro e tutto è costosissimo.

Per chi, come i residenti della Grenfell Tower, sopravvive all’interno del settore pubblico Londra è invece un inferno: sovrappopolata, con lavori sottopagati, sporca e con sempre meno servizi pubblici. Con la scusa dell’austerità i governi conservatori, e ahimè, prima di loro anche quelli laburisti, hanno tagliato i fondi al settore pubblico e fatto orecchie da mercante alle proteste dei residenti delle case popolari. Grenfell Tower è solo la punta dell’iceberg, ce ne sono centinaia di migliaia di edifici simili in tutto il Regno Unito pronti a prendere fuoco per un corto circuito.

La rabbia dei sopravvissuti è diretta verso tutti questi governi che si sono avvicendati dagli anni Ottanta in poi, una classe politica che ha tagliato le tasse ai ricchi, ha aperto le frontiere agli stranieri e quando l’economia ha iniziato a perdere quota ha introdotto politiche di austerità sulla pelle dei meno abbienti e dei poveri. Comportamenti ingiusti che hanno prodotto la tragedia di Grenfell.

La voce dei sopravvissuti è la voce di una nazione che vuole cambiare, che è stufa delle promesse da marinaio dei governi e che vede di buon occhio le proposte ‘socialiste’ di Corbyn, perchè da sempre abita nel settore pubblico, l’unico che conosce, ma anche non ne può più di un’Europa guidata da politici che di loro non ne vogliono sapere.

il manifesto, 17 giugno 2017

I paradossi scandiscono da sempre la produzione teorica di Slavoj Zizek. È in base al loro uso smodato che il filosofo sloveno occupa da anni il centro della scena pubblica. È in base ad essi che si è gettato a testa bassa contro le ipocrisie, le contraddizioni della produzione culturale mainstream. Lo ha fatto nel denunciare l’apparente ragionevolezza del politicamente corretto o la tesi sull’attuale sistema di vita come imperfetto, ma che è senza alternative. Zizek ha mostrato e dimostrato che la tolleranza, il rispetto delle minoranze, il diritto alla diversità sono spesso le sbarre che definiscono i confini di un vivere sociale dove sono stigmatizzati gli antagonismi sociali. Per far questo ha attinto a piene mani nella fantascienza, nella musica rock, nelle serie televisive, individuando nella cultura pop il contesto obbligato per decostruire il pensiero dominante. Spesso però i paradossi e le iperboli di Zizek offuscavano il lavoro teorico che vi era alla loro base. Alla fine i paradossi e le iperboli scivolavano via come sabbia. E nulla rimaneva nelle mani del lettore.

Il libro che Ponte alle Grazie, la casa editrice che ha pubblicato gran parte della torrentizia produzione di Zizek, ha mandato alle stampe Il coraggio della disperazione (pp. 412, euro 20), una raccolta di scritti a commento dell’ultimo biennio, scegliendo un registro diverso, a tratti antitetico a quello del passato. Più che fare sfoggio di brillanti paradossi e iperboli, Zizek si propone di fare i conti con i paradossi presenti nelle opere di autori conservatori (Peter Sloderdijk), liberal (Paul Krugman e Joseph Stiglitz) e della cosiddetta «sinistra radicale» che invita a declinare il populismo in senso progressista, perché solo così si riuscirebbe a parlare alla «gente» e al «popolo».

I temi dai quali prende spunto Zizek sono la crescita dei partiti xenofobi in Europa, la crisi dell’Unione europea, la Brexit, l’esperienza politica di Syriza in Grecia, quella di Podemos in Spagna, la novità politica costituita dalle figure politiche di Bernie Sanders e Jeremy Corbin, il politicamente corretto del femminismo statunitense mainstream, la politicizzazione della religione islamica e protestante, il relativismo culturale. Infine, l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. Temi dunque legati alla contingenza, perché solo dalla contingenza, afferma l’autore, parafrasando una tesi di Alain Badiou, è possibile fare filosofia.

Il prologo è programmatico. Viviamo in tempi disperati, afferma Zizek, perché non possiamo immaginare nessuna credibile alternativa al capitalismo globale. Risibili sono le proposte di una dolce decrescita o sulla diffusione virale di cooperative sociali e produttive non mercantili. Velleitario è anche il richiamo a fantasmatiche fuoriuscite dal capitalismo fondate su modi di produzioni locali o autoctoni. Sono tutte esperienze che rafforzano il capitalismo, sentenzia Zizek. Giudizio impietoso. E talvolta errato quando affronta il mutuo soccorso o la cooperazione sociale autorganizzata cresciuta in questa ultima decade. I loro limiti, semmai, non vanno cercati nell’incapacità di sviluppare antagonismo, bensì nella visione semplicistica del Politico e dei rapporti sociali di produzione che veicolano.

In ogni caso, vanno proprio nella direzione auspicata da Zizek. Consentono cioè di guadagnare tempo, mantenere aperta la possibilità di sovvertire lo status quo. Sono infatti istituzioni di contropotere aperte a una sperimentazione propedeutica all’accumulo di potenza politica da usare quando le condizioni la richiedono. Più o meno, come Zizek auspicava nel 2015 alla Grecia di Syriza.

Da Slavoj Zizek ci si aspetterebbe un j’accuse contro il «tradimento» di Alexis Tsipras e del suo governo rispetto il referendum vittorioso che chiedeva di non accettare il ditkat della Troika europea. Invece nessun dito puntato, Syriza non aveva alternativa, chiosa Zizek.

L’errore che ha compiuto questo governo di sinistra sta nel non aver immaginato una politica dei due tempi: accettare l’austerity e lavorare ad allargare i margini di iniziativa politica e sociale a favore di operai, impiegati, disoccupati, pensionati. L’austerity, sostiene Zizek, doveva essere usata come leva per modernizzare la struttura statale e come ariete contro l’oligarchia. Bisognava cioè salvare il capitalismo da se stesso per poi immaginare un suo superamento, evocando un celebre passo di un saggio del «marxista irregolare» Yanis Varoufakis, in queste pagine dipinto come l’unico esponente politico lucido sulla portata del braccio di ferro tra la Grecia e l’Unione europea.

In Grecia la posta in gioco era quella di pensare a come gestire il potere in una condizione sfavorevole, avversa, ricomponendo il nesso tra modernizzazione e lotta di classe. Non c’è rivoluzione se non c’è modernizzazione, sentenzia il filosofo sloveno. La matassa da sbrogliare è quindi sempre quella che solo la Rivoluzione di Ottobre e la vittoria dell’armata rossa in Cina nel 1949 erano riuscite a dipanare. Come governare un paese in una situazione di rapporti di forza sfavorevoli?

Il primo paradosso che va interrogato è dato quindi dal proposito di salvare il capitalismo da se stesso e al contempo immaginare un suo superamento. Ma i paradossi, oltre che interrogati vanno smontati, destrutturati per evidenziare le trappole e gli esiti conservativi dello status quo che contengono. La disperazione può, sì, dare la buona dose di adrenalina teorica, ma poi occorre passare a un più prosaico e niente affatto disperato momento costruttivo, aperto all’impossibile ma ancorato ai rapporti sociali. Ogni momento «destituente» è infatti effimero se non presente al tempo stesso il carattere costituente che l’antagonismo prefigura. Per Zizek l’antagonismo è un misteriosofico «uno che si divide in due», citando nuovamente la frase ad effetto che Alain Baidiou ha usato per immaginare una «politica comunista».

L’encomiabile tentativo si interrogare i paradossi del reale oscura per le sue ambivalenze. Sono queste che vanno quindi interpellate, sciolte, come nel caso del populismo di sinistra. Zizek svolge una critica pungente al concetto di gente – «la gente non esiste», scrive a ragione Zizek – e al concetto di popolo, unità indistinta ed espressione di un’astrazione tesa a legittimare un sovrano o un parlamento che dovrebbero rappresentarli. Ma quando si trova vis-à-vis con i rapporti sociali di produzione e le soggettività che agiscono in essi, si ritrae per incamminarsi su strade note.

Il populismo è dunque visto, a ragione, come un dispositivo politico che risponde alla marxiana falsa coscienza. Non esiste, infatti, il popolo come unità organica, definita da un territorio e dei confini. Il populismo si costruisce a partire da un Altro da sé, da un esterno che nel capitalismo globale non è lo «straniero», bensì la casta, l’oligarchia, che parassitariamente si appropriano della ricchezza prodotta e che si fanno forti del loro essere senza patria. È il vecchio e mai tramontato «socialismo degli imbecilli», anticamera del fascismo e del nazismo.

A sinistra, invece, i balbettii sulla possibilità di usare il frame populista sono mimetici. Il popolo è un aggregato di operai, disoccupati, precari, ceto medio impoverito, espressioni di interessi sociali e culturali parziali che una sintesi superiore ricomporrà. Da qui la nostalgia della forma politica del partito che ha il potere di ricomporre al suo interno le parzialità in base proprio a una sintesi superiore esterna al popolo. Un miraggio, per Zizek.

Qui la consultazione dei paradossi però si arresta. Zizek richiama la moltitudine in quanto categoria del Politico; ne sottolinea la forza performativa, ma poi scantona perché vi vede tracce di un vitalismo – la potenza del fare, lo «strutturalismo delle passioni» – che l’antropologia filosofia «pessimista» che scandisce il libro avversa, perché considerata, chissà perché, anticamera di una adesione allo status quo. Per Zizek è infatti la disperazione il sentimento che consente di pensare l’impossibile – la rivoluzione, forse -, non la potenza del desiderio o del comune riscoperto come ripetono alcuni teorici marxisti o alcune filosofe femministe (Zizek cita Judith Butler e Frédéric Lordon). Più che la disperazione, viene il sospetto, il coraggio giunge però da quell’esercizio di un ottimismo della ragione, che scommette sull’impossibile intravisto proprio in quelle esperienze di autorganizzazione sociali senza le quali non sarebbe immaginabile pensare l’impossibile.

il manifesto, 3 giugno 2017 (c.m.c.)

“Un intervento necessario perché altrimenti il sistema economico, non solo bancario, andrebbe in crisi», dichiaravano nell’aprile 2016 il sempiterno presidente di Acri (le fondazioni bancarie) Giuseppe Guzzetti e Claudio Costamagna, presidente di Cassa Depositi e Prestiti, in merito all’avvio del Fondo Atlante. Fondo di 4,25 miliardi, creato per sostenere la ricapitalizzazione delle banche in difficoltà e risolvere il problema delle sofferenze, finanziato, fra gli altri, con 500 milioni di Cassa Depositi e Prestiti.L’intervento salva-banche, sempre secondo i due autorevoli presidenti, si era reso necessario perché l’Italia è un paese molto «bancocentrico», dove le imprese e le famiglie per avere prestiti e mutui si rivolgono alle banche, le quali «se falliscono mandano in crisi l’intero sistema».

Da non credere: dopo aver azzerato in 25 anni il controllo pubblico sulle banche – nel ’92 era pari al 74,5% – ed aver privatizzato persino Cassa Depositi e Prestiti, oggi ci si stupisce che famiglie e imprese per chiedere prestiti vadano in banca.. Ma tant’è.

Il Fondo si è da subito cimentato con gli aumenti di capitale di Veneto Banca e della Popolare di Vicenza, con l’obiettivo di evitare a qualunque costo che, dopo Popolare Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara, altre banche, di ben maggiori dimensioni, finissero in risoluzione, innescando una crisi di sfiducia rovinosa per l’intero sistema bancario.

Ma già in questa prima operazione, dovendo il Fondo coprire tutta la ricapitalizzazione delle banche venete e non solo una parte come inizialmente previsto, le risorse a disposizione del Fondo si sono rapidamente esaurite e, con esse, la fiducia degli investitori di portare a casa i rendimenti del 6% allora vagheggiati. Prosciugate le risorse sul primo obiettivo -la ricapitalizzazione delle banche- nell’agosto 2016 è stato creato Atlante 2 per intervenire sulle sofferenze bancarie. Questa volta il Fondo raggiunge solo 1,7 miliardi (di cui una parte proveniente dal Fondo Atlante), e l’entusiasmo di Giuseppe Guzzetti si è già trasformato in aperta delusione «il contenuto numero di adesioni rischia di vanificare in larga misura lo scopo per cui Atlante è nato: non solo strumento per governare alcune emergenze, ma intervento per creare un vero mercato dei crediti deteriorati».

Un anno dopo, il fallimento è conclamato, certificato dalla svalutazione che banche come Unicredit e IntesaSanpaolo hanno fatto del proprio investimento in Atlante.

Oggi la situazione per le due banche venete è, per usare un eufemismo,in salita. L’intervento dello Stato (20 miliardi di garanzie pubbliche approvati per il salvataggio di una serie di banche) può essere messa in campo solo ottemperando alla richiesta della Ue di individuare 1 miliardo da soggetti privati, in modo da alleggerire il peso dell’intervento pubblico. Soldi che nessun privato è intenzionato a mettere e tanto meno il Fondo Atlante, che ha dichiarato inesistenti le condizioni per qualsiasi ulteriore investimento nelle due banche.

Nel frattempo, Atlante 2 acquista crediti deteriorati delle banche in sofferenza: è recentissimo l’acquisto da Banca Marche, Banca Etruria e CariChieti di 2,2 miliardi lordi, tra sofferenze e incagli, pagati 713 milioni, pari al 32,5% del loro valore, una soglia decisamente più alta della media delle transazioni di mercato. La tipica copertura di una falla, senza alcuna strategia: le banche, attraverso Atlante, comprano i crediti deteriorati pagandoli più di quanto varrebbero sul mercato, con l’intento di dirottare verso quel soggetto i soldi dei risparmiatori esasperati che non vogliono sentir più parlare di subordinate e cercano qualcosa di «sicuro».

Da qualsiasi punto la si osservi, la crisi sistemica delle banche sembra aggrovigliarsi su se stessa.

«E’ evidente che quello di Taormina è stato un estremo tentativo di salvare l’immagine di un Occidente che attraversa una crisi irreversibile e che non riesce nemmeno a trovare al suo interno un minimo di strategia comune». il manifesto, 28 maggio 2017 (c.m.c.)

Quello che si è svolto a Taormina sarà ricordato come il G7 più inutile, ridicolo, patetico della storia di questi incontri a livello internazionale. Un disperato tentativo di portare all’indietro le lancette della storia, a prima dell’89, della caduta del muro di Berlino. Come si fa, infatti, ad escludere oggi grandi potenze come la Cina o l’India che contano il 38 per cento degli abitanti della terra ed il 30 per cento del Pil mondiale?

Come si fa a convocare un meeting che si autodefinisce dei Grandi e ad escludere la Russia, la seconda potenza militare del mondo e con un apparato di intelligence tra i più efficienti, proprio quando un tema prioritario è quello del terrorismo. Come si fa a pensare che l’Italia, con tutto l’affetto per il nostro paese e l’orgoglio di appartenenza, possa far parte dei 7 Grandi della terra ? Forse perché ha il debito pubblico, in rapporto al Pil più grande del mondo dopo il Giappone! Ed è mai possibile pensare che il paese del sol levante in stagnazione cronica, con un peso decrescente sulla scena mondiale possa rappresentare «da solo» l’Asia , il continente dove negli ultimi trent’anni si è spostato il baricentro dell’economia mondiale? Oppure, c’è da domandarsi, che peso può avere il Canada oggi, la cui popolazione è poco più di quella della capitale cinese e , malgrado il simpatico e progressista presidente Trudeau, il suo valore aggiunto all’economia mondo è inferiore a quello della California.

E’ evidente che quello di Taormina è stato un estremo tentativo di salvare l’immagine di un Occidente che attraversa una crisi irreversibile e che non riesce nemmeno a trovare al suo interno un minimo di strategia comune. Trovare l’accordo per una lotta senza quartiere al terrorismo, senza individuare cause e attori principali, è assolutamente ridicolo se non avesse conseguenze tragiche. Lo sanno bene le famiglie siriane che vedono i loro bambini morire sotto le bombe dei Grandi , e lo sanno tutti ormai che l’Arabia Saudita gioca un ruolo fondamentale nella strategia terroristica su scala mondiale, paese con cui Trump ha stretto pochi giorni fa un accordo per un centinaio di miliardi di forniture di armi da guerra. Certo che va combattuto l’Isis, ma lo si può fare veramente solo mettendo fuori gioco chi lo finanzia, e ridefinendo la categoria di «terrorismo» che oggi viene usata a senso unico.

Nella stupenda cornice del sito siciliano, più volte richiamata e sottolineata da tutti i media, suonava patetico, non so trovare definizione migliore, il discorso del nostro presidente del Consiglio che pensava di convincere Trump , di ammorbidirlo grazie alla bellezza di Taormina ed all’energia magmatica dell’Etna. Come se il presidente Usa fosse un bambinone cattivello che bisognava rabbonire, e non l’espressione di potenti interessi delle lobby del petrolio e del carbone che gli ordinano di boicottare gli accordi di Parigi sul clima, e dell’industria degli armamenti che aveva bisogno di rilanciare il mercato mondiale delle armi pesanti.

Donald Trump si sta dimostrando un ottimo rappresentante di questi interessi forti e consolidati negli Usa, ed ha bisogno di tutto il loro appoggio per affrontare il difficile momento, il Russia-gate, che dovrà affrontare tornando in patria. Probabilmente questo incredibile quanto rozzo presidente della superpotenza Usa non avrà vita lunga , sul piano politico, ma ha rappresentato plasticamente la fine dell’egemonia nordamericana e l’inizio della sua inarrestabile caduta. Insieme all’Occidente, a partire dalla Ue che non è più in grado di trovare una sua autonomia, di difendere la sua dignità e la sua storia, di giocare il ruolo che le spetta nel bacino del Mediterraneo.

Quello di Taormina non è stato un meeting tra i Grandi della Terra, ma un triste incontro tra i rappresentanti della Alleanza Atlantica come ai tempi della guerra fredda. E’ il canto del cigno dell’Occidente, che non vuole vedere il suo tramonto e si rifugia nostalgicamente tra le braccia dell’ anfiteatro greco più famoso del mondo, con lo sguardo rivolto al passato glorioso mentre il vento della storia lo sta travolgendo, come nell’Angelus Novus di Paul Klee : « Questa tempesta lo spinge irreversibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui nel cielo» (Walter Benjamin)
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Guardian rintraccia le origini e lo sviluppo di quella teoria neoliberale che dagli anni ’80 ha pervaso le nostre società. Il trionfo del neoliberalismo riflette anche il fallimento della sinistra ». vocidall'estero, 15 aprile 2017 (c.m.c.)

Immaginate se il popolo dell’Unione Sovietica non avesse mai sentito parlare del comunismo. L’ideologia che domina le nostre vite, per la maggior parte di noi non ha un nome. Menzionatela nelle vostre conversazioni e avrete in risposta una scrollata di spalle. Anche se i vostri ascoltatori hanno già sentito questo termine, faranno fatica a definirlo. Neoliberalismo: sapete di cosa si tratta?

Il suo anonimato è sia un sintomo che la causa del suo potere. Essa ha svolto un ruolo importante in una notevole varietà di crisi: la crisi finanziaria del 2007-8, la delocalizzazione di ricchezza e potere, di cui i Panama Papers ci offrono solo un assaggio, il lento collasso della sanità pubblica e dell’istruzione, l’aumento dei bambini poveri, l’epidemia della solitudine, la distruzione degli ecosistemi, l’ascesa di Donald Trump. Ma noi rispondiamo a queste crisi come se fossero dei casi isolati, apparentemente inconsapevoli del fatto che tutte sono state catalizzate o aggravate dalla stessa filosofia di base; una filosofia che ha – o ha avuto – un nome. Quale potere più grande dell’agire nel completo anonimato?

Il neoliberalismo è diventato così pervasivo che ormai raramente lo consideriamo come una ideologia. Sembriamo accettare la tesi che questa utopica fede millenaria rappresenti una forza neutrale; una sorta di legge biologica, come la teoria dell’evoluzione di Darwin. Ma la filosofia è nata come un tentativo consapevole di trasformare la vita umana e spostare il luogo del potere.

Il neoliberalismo vede la competizione come la caratteristica che definisce le relazioni umane. Ridefinisce i cittadini in quanto consumatori, le cui scelte democratiche sono meglio esercitate con l’acquisto e la vendita, un processo che premia il merito e punisce l’inefficienza. Essa sostiene che “il mercato” offre dei vantaggi che non potrebbero mai essere offerti dalla pianificazione dell’economia.

I tentativi di limitare la concorrenza sono trattati come ostili alla libertà. Pressione fiscale e regolamentazione dovrebbero essere ridotte al minimo, i servizi pubblici dovrebbero essere privatizzati. L’organizzazione del lavoro e la contrattazione collettiva da parte dei sindacati sono considerate come distorsioni del mercato, che impediscono lo stabilirsi di una naturale gerarchia di vincitori e vinti. La disuguaglianza è ridefinita come virtuosa: un premio per i migliori e un generatore di ricchezza che viene redistribuita verso il basso per arricchire tutti. Gli sforzi per creare una società più equa sono sia controproducenti che moralmente condannabili. Il mercato fa sì che ognuno ottenga ciò che merita.

Noi interiorizziamo e diffondiamo questo credo. I ricchi si autoconvincono di aver acquisito la loro ricchezza attraverso il merito, ignorando i vantaggi – come l’istruzione, l’eredità e la classe sociale d’appartenenza – che possono averli aiutati ad assicurarsela. I poveri cominciano a incolpare se stessi per i propri fallimenti, anche quando possono fare poco per cambiare la situazione.

Per non parlare della disoccupazione strutturale: se non si ha un lavoro è perché non lo si è cercato abbastanza. E nemmeno dei costi impossibili degli alloggi: se la vostra carta di credito è in rosso, siete stati irresponsabili e imprevidenti. Non importa che i vostri figli non abbiano più un cortile a scuola dove poter giocare: se ingrassano, è colpa vostra. In un mondo governato dalla competizione, chi rimane indietro viene definito e si percepisce come perdente.

Tra i risultati, come documentato da Paul Verhaeghe nel suo libro What About Me?, vi sono epidemie di autolesionismo, disturbi alimentari, depressione, solitudine, ansia da prestazione e fobia sociale. Forse non è sorprendente che la Gran Bretagna, dove l’ideologia neoliberale è stata applicata più rigorosamente, sia la capitale europea della solitudine. Ormai siamo tutti neoliberali.

Il termine neoliberalismo è stato coniato durante una riunione a Parigi nel 1938. Tra i delegati vi erano due uomini che giunsero a definire l’ideologia, Ludwig von Mises e Friedrich Hayek. Entrambi esuli provenienti dall’Austria, vedevano nella socialdemocrazia, esemplificata dal New Deal di Franklin Roosevelt e dal graduale sviluppo del welfare britannico, la manifestazione di un collettivismo di stampo simile al nazismo e al comunismo.

Nel suo libro La via della schiavitù, pubblicato nel 1944, Hayek sosteneva che la pianificazione del governo, schiacciando l’individualismo, avrebbe portato inesorabilmente al controllo totalitario. Come il libro di Mises Burocrazia, La via della schiavitù ebbe una grande diffusione. Riuscì ad attirare l’attenzione di persone molto ricche, che vedevano in questa filosofia la possibilità di liberarsi dalla regolamentazione e dalle tasse. Quando, nel 1947, Hayek fondò la prima organizzazione che avrebbe diffuso la dottrina del neoliberalismo – la Mont Pelerin Society – fu sostenuto finanziariamente da ricchi milionari e dalle loro fondazioni.

Con il loro aiuto, cominciò a creare quello che Daniel Stedman Jones descrive in Padroni dell’Universo come “una sorta di internazionale del liberalismo”: una rete transatlantica di accademici, uomini d’affari, giornalisti e attivisti. Ricchi banchieri appartenenti al movimento finanziarono una serie di think thank per affinare e promuovere l’ideologia. Tra di loro c’erano l’ American Enterprise Institute , la Heritage Foundation, il Cato Institute, l’Institute of Economic Affairs, il Centre of Policies Studies e l’Adam Smith Institute. Essi finanziarono inoltre posizioni accademiche e dipartimenti, in particolare presso le università di Chicago e della Virginia.

Man mano che si è evoluto, il neoliberalismo è diventato più stridente. La visione di Hayek sui governi che dovrebbero regolamentare la concorrenza per impedire la formazione di monopoli ha ceduto il posto – tra i seguaci americani come Milton Friedman – alla convinzione che il potere di monopolio potrebbe essere visto come una ricompensa per l’efficienza.

Durante questa transizione però è accaduto qualcosa: il movimento ha perso il suo nome. Nel 1951, Friedman era felice di descrivere se stesso come un neoliberale. Ma subito dopo, il termine ha cominciato a scomparire. Ancora più strano, anche se l’ideologia era diventata più netta e il movimento più coerente, il nome perduto non è stato sostituito da alcuna alternativa comunemente accettata.

In un primo momento, nonostante il suo lauto finanziamento, il neoliberalismo rimase ai margini. Il consenso del dopoguerra era quasi universale: le indicazioni economiche di John Maynard Keynes erano ampiamente applicate, la piena occupazione e la riduzione della povertà erano obiettivi condivisi negli Stati Uniti e in gran parte dell’Europa occidentale, le aliquote d’imposta sui redditi alti erano elevate e i governi perseguivano i loro obiettivi sociali senza ostacoli, creando nuovi servizi pubblici e reti di sicurezza sociale.

Ma negli anni Settanta, quando le politiche keynesiane cominciarono a crollare e le crisi economiche colpivano su entrambe le sponde dell’Atlantico, le idee neoliberali cominciarono a entrare nel mainstream. Come osservò Friedman, «quando venne il momento che si doveva cambiare … c’era un’alternativa già pronta lì per essere colta». Con l’aiuto di giornalisti compiacenti e consiglieri politici, elementi del neoliberalismo, in particolare le sue indicazioni circa la politica monetaria, furono adottati dall’amministrazione di Jimmy Carter negli Stati Uniti e dal governo di Jim Callaghan in Gran Bretagna.

Dopo che Margaret Thatcher e Ronald Reagan presero il potere, il resto del pacchetto fu presto applicato: massicci tagli alle tasse per i ricchi, smantellamento dei sindacati, deregolamentazione, privatizzazioni, esternalizzazioni e concorrenza nei servizi pubblici. Attraverso il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, il trattato di Maastricht e l’Organizzazione mondiale del commercio, le politiche neoliberali sono state imposte – spesso senza il consenso democratico – in gran parte del mondo. La cosa più notevole è stata l’adozione del neoliberalismo tra i partiti che un tempo appartenevano alla sinistra: i Laburisti e i Democratici, per esempio. Come osserva Stedman Jones, «è difficile pensare ad un’altra utopia che sia stata così pienamente realizzata».

Può sembrare paradossale che una dottrina che promette possibilità di scelta e libertà sia stata promossa con lo slogan “here is no alternative” (non c’è alternativa, ndt). Ma, come osservò Hayek durante una visita nel Cile di Pinochet – una delle prime nazioni in cui il programma venne ampiamente applicato – «la mia preferenza personale pende verso una dittatura liberale piuttosto che verso un governo democratico privo del liberalismo». La libertà che il neoliberalismo offre, che suona così seducente se espressa in termini generali, si rivela essere libertà per il luccio, non per i pesciolini.

Libertà dai sindacati e dalla contrattazione collettiva significa libertà di reprimere i salari. Libertà dalla regolamentazione significa libertà di avvelenare i fiumi, mettere in pericolo i lavoratori, applicare tassi di interesse iniqui e inventare strumenti finanziari esotici. Libertà dalle tasse significa libertà dalla redistribuzione della ricchezza che solleva le persone dalla povertà.

Come documentato da Naomi Klein in The Shock Doctrine ( uscito in italiano col titolo Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, NdR), teorici neoliberali hanno sostenuto l’uso della crisi per imporre politiche impopolari, approfittando della distrazione creata dalla situazione di crisi: cosi è successo in occasione del colpo di stato di Pinochet, della guerra in Iraq e dell’uragano Katrina, quest’ultimo descritto da Friedman come «un’opportunità per riformare radicalmente il sistema educativo» di New Orleans.

Dove le politiche neoliberiste non possono essere imposte a livello nazionale, sono imposte a livello internazionale, attraverso trattati commerciali che incorporano la cosiddetta “risoluzione delle controversie tra investitori e Stato”: tribunali off-shore in cui le grandi società possono fare pressioni per la rimozione delle protezioni sociali e ambientali. Quando i parlamenti hanno votato a favore della limitazione della vendita di sigarette, o per proteggere le riserve idriche nei confronti delle compagnie minerarie, congelare le bollette energetiche o evitare l’eccessivo aumento dei prezzi da parte delle case farmaceutiche, le società hanno fatto causa, spesso con successo. La democrazia è ridotta a un teatro.

Un altro paradosso del neoliberalismo è che la competizione universale si basa sulla altrettanto universale comparazione e selezione. Il risultato è che i lavoratori, i disoccupati e i servizi pubblici di ogni genere sono soggetti ad un pernicioso e soffocante regime di valutazione e monitoraggio, ideato per identificare i vincitori e punire i perdenti. La dottrina proposta da Von Mises. che ci avrebbe liberato dall’incubo burocratico della pianificazione centrale, al contrario, ha realizzato proprio questo.

Il neoliberalismo non è stato concepito come un meccanismo autoreferenziale, ma lo è rapidamente diventato. La crescita economica è stata nettamente più lenta nell’era neoliberista (dal 1980 in Gran Bretagna e negli Stati Uniti) di quanto non fosse nei decenni precedenti; ma non per i più ricchi. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, dopo 60 anni di declino, in questo periodo è di nuovo aumentata rapidamente a causa della distruzione dei sindacati, le riduzioni fiscali, l’aumento delle rendite, le privatizzazioni e la deregolamentazione.

La privatizzazione o mercatizzazione dei servizi pubblici, quali l’energia, l’acqua, i trasporti, la sanità, l’istruzione, le strade e le carceri, ha permesso alle grandi aziende di imporre delle tariffe sui beni essenziali e pretendere il pagamento per l’accesso, sia dai cittadini che dai governi. Rendita è un altro termine per significare reddito senza lavoro. Quando si paga un prezzo gonfiato per un biglietto del treno, solo una parte della tariffa compensa gli operatori per i soldi che spendono per il carburante, i salari, il materiale rotabile e altre spese. Il resto riflette il fatto che vi hanno messo con le spalle al muro.

Coloro che possiedono e gestiscono i servizi privatizzati o semi-privatizzati del Regno Unito fanno immense fortune investendo poco e ricaricando molto. In Russia e in India, oligarchi hanno acquisito beni precedentemente dello Stato grazie a delle svendite. In Messico, a Carlos Slim è stato concesso il controllo di quasi tutti i servizi di rete fissa e telefonia mobile, così che è divenuto ben presto l’uomo più ricco del mondo.

La finanziarizzazione dell’economia, come osserva Andrew Sayer in Why We Can’t Afford the Rich , ha avuto un impatto simile. «Come le rendite», sostiene, «gli interessi sono … redditi non da lavoro, che maturano senza alcuno sforzo». Come i poveri diventano più poveri e i ricchi diventano più ricchi, i ricchi acquisiscono sempre più il controllo su un’altra risorsa cruciale: la moneta. La spesa per interessi, in modo schiacciante, rappresenta un trasferimento di denaro dai poveri ai ricchi. Man mano che i prezzi degli immobili e la fine dei finanziamenti pubblici caricano le persone di debiti (si pensi al passaggio dalle borse di studio ai prestiti agli studenti), le banche e i loro dirigenti sbancano.

Sayer sostiene che gli ultimi quattro decenni sono stati caratterizzati da un trasferimento di ricchezza non solo dai poveri ai ricchi, ma anche tra le fila dei ricchi: da quelli che fanno soldi con la produzione di nuovi beni o servizi a coloro che fanno soldi controllando i beni esistenti e traendone delle rendite, interessi o plusvalenze. Il reddito da lavoro è stato soppiantato dalla rendita senza lavoro.

Le politiche neoliberiste sono ovunque afflitte dai fallimenti del mercato. Non solo le banche sono troppo grandi per fallire (“too big to fail“), ma lo sono anche le società ora incaricate di fornire servizi pubblici. Come Tony Judt ha sottolineato nel suo libro “Ill Fares The Land“, Hayek ha dimenticato che i servizi pubblici vitali per un paese non possono fallire, il che significa che la concorrenza non può fare il suo corso. Gli investitori prendono i profitti, lo Stato si assume il rischio.

Maggiore è il fallimento, più estrema diventa l’ideologia. I governi usano le crisi neoliberiste come pretesto e occasione per tagliare le tasse, privatizzare i restanti servizi pubblici, creare strappi nella rete di sicurezza sociale, deregolamentare le imprese e disciplinare i cittadini. Lo Stato autolesionista ora affonda i denti in ogni organo del settore pubblico.

Forse l’impatto più pericoloso del neoliberalismo non è la crisi economica che ha causato, ma la crisi politica. Come il peso dello Stato è ridotto, così è ridotta la nostra capacità di cambiare il corso delle nostre vite attraverso il voto. Invece, la teoria neoliberale afferma che le persone possono esercitare una scelta attraverso la spesa. Ma alcuni hanno più da spendere rispetto ad altri: nella democrazia del consumatore o dell’azionista, il diritto di voto non è equamente distribuito. Il risultato è una riduzione dei diritti dei meno abbienti e della classe media. Mentre i partiti di destra e della ex sinistra adottano politiche neoliberali simili, la riduzione del potere statale si traduce in una revoca dei diritti. Un gran numero di persone sono state escluse dalla politica.

Chris Hedges osserva che «i movimenti fascisti costruiscono il loro fondamento non sulla base degli attivisti, ma di coloro che sono politicamente inattivi, i ‘perdenti’, che percepiscono, spesso in modo corretto, di non avere alcuna voce in capitolo nel mondo politico». Quando il dibattito politico non parla più a tutti, allora le persone diventano sensibili a slogan, simboli e sensazioni. Per gli ammiratori di Trump, ad esempio, i fatti e gli argomenti appaiono irrilevanti.

Judt ha spiegato che quando la fitta rete di interazioni tra il popolo e lo Stato viene ridotto a nulla se non all’autorità e all’obbedienza, l’unica forza che ci lega è il potere dello stato. Il totalitarismo che Hayek temeva ha più probabilità di emergere quando i governi, dopo aver perso l’autorità morale che nasce dalla erogazione dei servizi pubblici, si riducono a «blandire, minacciare e, infine, costringere la gente a obbedire».

Come il comunismo, il neoliberalismo è il Dio che ha fallito. Ma la dottrina zombie vacilla e uno dei motivi è il suo anonimato. O meglio, un insieme di anonimati.

La dottrina invisibile della mano invisibile è promossa da sostenitori invisibili. Lentamente, molto lentamente, abbiamo iniziato a scoprire i nomi di alcuni di loro. Vediamo che l’Institute of Economic Affairs, che ha sostenuto con forza sui media la campagna contro l’ulteriore regolamentazione del settore del tabacco, è stato segretamente finanziato dalla British American Tobacco sin dal 1963. Scopriamo che Charles e David Koch, due degli uomini più ricchi del mondo, fondarono l’istituto che ha messo in piedi il movimento Tea Party. Scopriamo che Charles Koch, nell’istituire uno dei suoi think tank, osservò che «al fine di evitare critiche indesiderate, non si dovrebbe fare molta pubblicità sul modo come l’organizzazione è controllata e diretta».

Le parole usate dal neoliberismo spesso nascondono più di quanto chiariscano. “Il mercato” suona come un sistema naturale che potrebbe essere paragonato alla gravità o alla pressione atmosferica. Ma è gravido di relazioni di potere. Ciò che “il mercato vuole” tende a significare ciò che le aziende ed i loro capi vogliono.“Investimento”, come nota Sayer, significa due cose molto diverse. Uno è il finanziamento di attività produttive e socialmente utili, l’altro è l’acquisto di beni esistenti per ottenere una rendita, interessi, dividendi e plusvalenze. Utilizzare la stessa parola per le diverse attività “mimetizza le fonti della ricchezza”, il che ci porta a confondere l’estrazione di ricchezza con la creazione di ricchezza.

Un secolo fa, i nuovi ricchi venivano denigrati da coloro che avevano ereditato il loro denaro. Gli imprenditori ricercavano l’accettazione sociale facendosi passare per rentiers. Oggi, il rapporto è stato invertito: i rentiers e gli ereditieri si definiscono imprenditori. Sostengono di essersi guadagnati le loro rendite, che in realtà non derivano dal lavoro.

Questo anonimato e questa confusione si mischiano all’opacità senza nome e senza luogo del capitalismo moderno: il modello di franchising assicura che i lavoratori non sappiano per chi lavorano esattamente; società registrate off-shore dietro ad una rete di segretezza così complessa che neanche la polizia può risalire ai proprietari reali; regimi fiscali che infinocchiano i governi; prodotti finanziari che nessuno comprende.

L’anonimato del neoliberalismo è ferocemente difeso. Coloro che sono influenzati da Hayek, Mises e Friedman tendono a rifiutare il termine, poiché esso – e non a torto – è oggi utilizzato solo in senso dispregiativo. Ma non ci offrono un’alternativa. Alcuni si definiscono liberali classici o libertari, ma queste descrizioni sono stranamente defilate e fuorvianti, in quanto suggeriscono che nei libri La via della schiavitù e Burocrazia, o nel classico di Friedman Capitalismo e Libertà, non vi sia in realtà niente di nuovo.

Per tutte queste ragioni, nel progetto neoliberale c’è qualcosa di ammirevole, almeno nelle sue fasi iniziali. Si è trattato di una peculiare, innovativa filosofia promossa da una rete di pensatori e attivisti coerenti e con un chiaro piano d’azione. Portato avanti con pazienza e tenacia. La via della schiavitù è diventata la strada per il potere.

Il trionfo del neoliberalismo riflette anche il fallimento della sinistra. Quando nel 1929 l’economia del laissez-faire portò alla catastrofe, Keynes ideò una teoria economica globale per sostituirla. Quando negli anni ’70 la gestione keynesiana della domanda andò fuori strada, c’era un’alternativa pronta. Ma quando nel 2008 il neoliberalismo è crollato, non c’era… niente. Ecco perché la marcia degli zombie. La sinistra e il centro non hanno prodotto alcun nuovo inquadramento generale del pensiero economico per 80 anni.

Ogni invocazione di Lord Keynes è un’ammissione di fallimento. Proporre soluzioni keynesiane alle crisi del 21° secolo significa ignorare tre problemi evidenti. E’ difficile mobilitare le persone intorno a vecchie idee; le falle messe in luce negli anni ’70 non sono scomparse; e, sopratutto, non tengono in considerazione la nostra più grave emergenza: la crisi ambientale. Il Keynesismo agisce stimolando la domanda dei consumatori per promuovere la crescita economica. La domanda dei consumatori e la crescita economica sono i motori della distruzione ambientale.

Quel che la storia del keynesismo e del neoliberalismo ci dimostra è che nessuno dei due si è dimostrato adeguato a controbilanciare le criticità del sistema.Bisogna proporre un’alternativa coerente. Per i Laburisti, i Democratici e più in generale la sinistra, il compito centrale dovrebbe essere quello di sviluppare un programma economico che sia come l’Apollo (il programma spaziale, Ndt), un tentativo maturo di progettare un nuovo sistema progettato su misura per le esigenze del 21 ° secolo.

Traduzione di @chemicalture

«Il concetto di giustizia – e ingiustizia – ambientale è entrato di recente, ed è stato sviluppato contestualmente alle proteste e alle rivolte di comunità urbane emarginate». il blog di Guido Viale, 16 marzo 2017 (c.m.c.)

Il corpo umano ha la sua estensione naturale nell’ambiente, originario o artificiale, in cui è inserito, così come ogni essere umano è una efflorescenza particolare dell’ambiente in cui vive. La condizione umana, intesa come esistenza particolare di ogni singolo uomo o di ogni singola donna, o di ogni comunità territorialmente situata, e non di un astratto “essere umano”, è indissolubilmente legata alle condizioni in cui si svolge la sua esistenza.

Condizioni che possono essere determinate tanto dalle dinamiche che interessano un determinato territorio, quanto dalla mobilità che contraddistingue l’individuo, la comunità o il gruppo sociale a cui l’individuo appartiene. Quanto al primo punto, un determinato territorio può essere caratterizzato sia da una relativa invarianza – restare più o meno uguale a se stesso nei secoli o nei millenni – quanto da una elevata varietà che può essere provocata sia da eventi naturali che da interventi migliorativi o devastanti di origine antropica; interventi che possono a loro volta provocare sia progressi o regressi del benessere dei suoi abitanti, sia catastrofi che richiedono un radicale ri-orientamento di molti dei loro comportamenti, fino al completo abbandono di un territorio. Quanto alla mobilità, e innanzitutto alle migrazioni che dall’origine hanno accompagnato l’evoluzione della specie umana e la differenziazione delle sue culture, oggi è uno dei fattori più rilevanti della stratificazione sociale.

Grosso modo, nel mondo globalizzato di oggi, possiamo distinguere il vertice di una piramide, costituita da una élite internazionale (il famigerato 1 per cento; ma probabilmente molti meno), sempre meno legata a un territorio particolare perché impegnata in investimenti e operazioni che spaziano su tutto il globo, e quindi scarsamente interessata alla qualità di un ambiente particolare, perché in grado in ogni momento di scegliersene uno più gradevole.

Mentre al fondo della piramide sociale, intere comunità sono costrette ad abbandonare, tutti insieme o un po’ per volta, il territorio in cui sono nati e cresciuti sia loro che le loro famiglie, perché reso inospitale e inabitabile da qualche catastrofe naturale o, sempre più, dai cambiamenti climatici in corso; oppure da progetti di “sviluppo” o da accaparramenti di risorse locali, per lo più promossi e gestiti da chi quel territorio non lo abita e non lo frequenta mai.

In mezzo a questi estremi, c’è una folta schiera di abitanti di questo pianeta che vivono in ambienti (aria, acque, suolo e alimenti) sempre meno naturali e sempre più non solo antropizzati, ma anche e soprattutto inquinati; e che tentano, perché ne hanno la possibilità, di sottrarsi al loro impatto per brevi periodi, come il week-end o le vacanze, alla ricerca di aria, acque e paesaggi meno compromessi. Ma la maggioranza degli abitanti di questa terra questa possibilità non ce l’ha; come non ha la possibilità di scegliere gli alimenti, l’acqua o la casa e si deve accontentare di ciò che è, quando lo è, alla sua portata.

Le diseguaglianze mostruose che affliggono la popolazione mondiale e che pregiudicano il suo futuro non sono sicuramente riconducibili soltanto al fattore ambiente; ma l’ambiente incide su di esse, e sulle dinamiche che le caratterizzano, molto più di quanto ci abbia insegnato a individuarle l’approccio ai problemi sociali sganciato dall’analisi di quelli ambientali proprio della cultura affermatasi prima in occidente, e poi in tutto il mondo, fondata sulla contrapposizione, e non sulla integrazione, tra uomo e natura.

In questa cultura il concetto di giustizia – e ingiustizia – ambientale è entrato di recente, ed è stato sviluppato contestualmente alle proteste e alle rivolte di comunità urbane emarginate o discriminate per ragioni economiche o razziali, che vedevano i territori in cui erano state relegate dallo sviluppo urbano venir scelte come sede degli interventi più impattanti: fabbriche inquinanti, discariche, inceneritori, depuratori, autostrade urbane, ecc. Lì il contrasto tra l’ambiente curato e, per quanto possibile, salvaguardato in cui avevano la loro residenza i ceti più privilegiati, da un lato, e le aree elette a discariche tanto degli “scarti umani” che di quelli industriali, dall’altro, era evidente e diventava sempre più intollerabile.

Ma in altre culture, che avevano mantenuto per secoli o millenni un rapporto più stretto con l’ambiente naturale in cui e di cui vivevano, la convinzione che la convivenza sociale tra i membri di una comunità su basi paritarie, cioè la giustizia sociale, fosse indissolubilmente legata al rispetto della natura e dei suoi cicli non era mai venuta meno.

Questo approccio sta diventando oggi sentire comune tra un numero crescente di uomini e donne impegnate nelle battaglie più diverse contro le diseguaglianze sociali, lo sfruttamento e l’oppressione. E non a caso è il centro del più importante documento politico di questo inizio di secolo: l’enciclica Laudato sì di papa Francesco. La connessione tra giustizia ambientale (il rispetto della natura e dei suoi cicli) e giustizia sociale (la lotta contro le diseguaglianze, lo sfruttamento è l’oppressione) è un paradigma destinato a cambiare dalle radici la cultura sociale e il progetto di un mondo diverso.

Qualcosa di questi temi, il rapporto tra le diseguaglianze sociali e il degrado ambientale, la traduzione in iniziative e progetti concreti la lotta contro i cambiamenti climatici che a parole tutti condividono, il rispetto dell’ambiente di tutti, e soprattutto di quello degli ultimi sta ispirando l’agire politico dell’establishment economico, politico o mediatico europeo? Neanche parlarne.

». il manifesto, 18 marzo 2017 (c.m.c.)

Occorreranno studi approfonditi di psicologia per riuscire un giorno o l’altro finalmente a capire come mai, ogni volta che si parla di debito pubblico, al ministro dell’Economia di turno brillino gli occhi, si guardi furtivamente intorno e con riflesso pavloviano decida di mettere sul mercato un altro pezzo di ricchezza sociale.

Come fossimo agli albori della dottrina neoliberale, ci tocca ogni volta sentire la litania: «Servono le privatizzazioni per abbattere il debito pubblico».

Nel frattempo, ci siamo venduti quasi tutto e il debito pubblico ha continuato allegramente la sua irresistibile ascesa.

Poco importa. Ormai sappiamo che ogni volta che si «accende» lo «scontro» tra il nostro governo e e l’Unione Europea, dobbiamo controllare le nostre tasche perché è quasi automatica la soluzione: la sottrazione di un bene comune..

Per carità, questa volta siamo solo alla fase istruttoria, ma il fatto che sia già uscita sulla stampa appare una studiata strategia di sondaggio preventivo per vedere di nascosto l’effetto che fa.

Il ministero dell’Economia sta studiando un nuovo assetto della Cassa depositi e prestiti (Cdp), che prevede la cessione di una quota del 15%, che porterebbe la proprietà pubblica al 65% (essendo il 15,93% già in possesso delle Fondazioni bancarie. Essendo il patrimonio complessivo pari a 33 miliardi, nelle casse dello Stato entrebbero 5 miliardi che naturalmente sarebbero destinati all’abbattimento del debito pubblico.

Inutile sottolineare come la parola «abbattimento» nel dizionario italiano ha un preciso significato: demolizione, distruzione, abolizione. Può chiamarsi abbattimento un’operazione che porterà il nostro debito pubblico dagli attuali 2.217,7 miliardi (dicembre 2016) ai futuri 2.212,7 miliardi?

In compenso, se l’ultimo dividendo staccato da Cdp corrispondeva a 850 milioni di euro (dei quali, 680 milioni sono andati allo Stato), in futuro, su ogni dividendo simile, lo Stato ne incasserà solo 550. Non è neppure chiaro ad oggi a chi verrà ceduto il 15% se a investitori istituzionali, a fondi o banche estere.

La svendita di un ulteriore pezzo di Cdp si incrocia anche con le grandi manovre intorno alla privatizzazione di Poste: l’idea del ministero dell’Economia è quella di cedere entro l’anno il residuo 29,3% (dopo aver ceduto il 35% a Cdp e il 36,7% a investitori individuali e istituzionali).

Grandi manovre finanziarie, fatte all’oscuro di tutti i detentori della ricchezza di Cassa Depositi e Prestiti, ovvero quelle oltre 20 milioni di persone che vi depositano i risparmi (oltre 250 miliardi) e che sapranno sempre meno intorno alla loro tutela e utilizzo.

Forse è davvero giunto il momento di rilanciare una campagna di massa per la socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, per il suo decentramento territoriale e per la gestione partecipativa dell’utilizzo del risparmio postale.

Hanno venduto tutti i beni comuni e ora scappano con la Cassa. È il momento di riprenderci la ricchezza sociale che rappresenta.

Il sistema produttivo del capitalismo - come già prima il commercio degli ultimi millenni - si basa sul rapporto credito-debito. (vedi David Graeber, Debito. I primi 5000 anni, Il Saggiatore, 2012). E dall'antichità si sono succeduti periodici annullamenti del debito per non portare in rovina le popolazioni e per rinnovare le basi di un'economia produttiva.

In Europa basti ricordare la ristrutturazione o meglio l'annullamento pressoché totale dell'ingente debito estero della Germania (debito della prima guerra/Versailles e gran parte delle riparazioni della seconda guerra mondiale) nella Conferenza di Londra del 1953 ad opera degli ex-alleati occidentali, dove Herman Josef Abs, grande banchiere da Hitler all'Euro, riuscì a mettere le premesse finanziarie per il successivo miracolo economico della Repubblica Federale di Germania.

Non a caso fu nel passato il governo greco e per ultimo Alexis Tsipras a ricordare questo evento di fronte all'intransigenza tedesca verso i debiti dei paesi sudeuropei. Appare ovvio che i paesi creditori (ovvero le loro banche che detengono il debito pubblico e privato) hanno l'interesse a mantenere in vita i debitori per poterli spremere anziché aiutarli a ripagare i loro debiti.

Ma non è un mistero che nessuno degli attuali debiti pubblici potrà mai essere ripagato. Sono i paesi ricchi che detengono il debito pubblico (e privato) più alto: USA, Giappone, la stessa Cina. La Germania ha il debito pubblico più alto in Europa (ora ca. 2.284 mrd.€), non ancora superato da quello italiano (ora ca. 2.220 mrd.) Decisivo per la stabilitá delle economie non è l'ammontare del debito in sé, ma il suo rapporto col PIL, che in Germania è comunque ben più alto del 60%, la norma arbitraria fissata a Maastricht. E la Germania paga anche interessi molto minori rispetto all'Italia, dove il rapporto debito/ PIL supera il 132%. É proprio l'ammontare degli interessi che lo Stato paga ai suoi creditori, per lo più istituzionali, che autoalimenta la crescita costante del debito.

L'Italia ha un bilancio primario in positivo da ca. 20 anni, ma anno per anno deve sborsare cifre di interesse intorno ai 80-100 miliardi! Il debito italiano era cresciuto negli anni '80 da 114 mrd. € (1980) a ben 850 mrd.€ (1992), ma l' aumento era costituito da soli 140 mrd. di nuovo prestito e ben 596 mrd. di interessi. Ovvero gli interessi ammontavano ormai a oltre due volte il debito in soli dieci anni (vedi Paolo Ferrero, La truffa del debito pubblico, Derive Approdi 2014)

Solo Romano Prodi era riuscito attraverso una manovra "lacrime e sangue" a spese del welfare ad abbassare temporaneamente il rapporto debito/PIL per portare l'Italia nell' Euro. Da allora gli interessi sul debito pubblico costituiscono la terza spesa dopo pensioni e sanitá in Italia. E i tagli vengono scaricati dallo Stato centrale ai vari livelli locali: regioni e comuni arrivano sull'orlo del fallimento e la crescente debolezza delle istituzioni alimenta dappertutto la corruzione, ormai endemica.

Se in un futuro non lontano dovessero scattare anche le misure punitive del Fiscal compact, allora sarà difficile mantenere la quiete sociale. Di fronte a queste prospettive serve assolutamente una verifica sulla natura in gran parte illegittima e insostenibile del debito pubblico, ovvero un'audit, a livello nazionale e una maggiore informazione pubblica in merito. L'assemblea nazionale del Comitato per l'abolizione dei debiti illegittimi che si terrá a Roma il 4 marzo intende avviare questo percorso verso l'istituzione di una Commissione popolare indipendente in Italia.

Riferimenti

Vedi su eddyburg la proposta del Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi, il commento di Roberto Camagni e l'intervento di Edoardo Salzano, in Discutiamo sul debito pubblico, e la replica di R. Camagni in Debito pubblico: d'accordo, ma....

«Intervento di Serge Latouche preparato per un incontro promosso a Dublino (il 24 e 25 febbraio 2017) dal titolo “La via della decrescita come risposta all’inganno dello sviluppo sostenibile”». comune-info, 28 febbraio 2017 (c.m.c.)

Fare della decrescita, come hanno fatto certi autori, una variante dello sviluppo sostenibile, costituisce un controsenso storico, teorico e politico sul significato e sulla portata del progetto. La necessità, provata da tutta una corrente dell’ecologia politica e dei critici dello sviluppo, di rompere con il linguaggio fasullo dello sviluppo sostenibile, ha portato a lanciare, quasi per caso, la parola d’ordine della decrescita.

All’inizio, quindi, non si trattava di un concetto, e in ogni caso di una idea simmetrica a quella della crescita, ma di uno slogan politico di provocazione, il cui contenuto era soprattutto diretto a far ritrovare il senso dei limiti; in particolare, la decrescita non è una recessione e neppure una crescita negativa. La parola quindi non deve essere presa in considerazione alla lettera: decrescere solo per decrescere sarebbe altrettanto assurdo di crescere soltanto per crescere. Tuttavia, i decrescenti volevano far crescere la qualità della vita, dell’aria, dell’acqua e di una pluralità di cose che la crescita per la crescita ha distrutto.

Per parlare in modo più rigoroso, si dovrebbe indubbiamente usare il termine a-crescita, con l’ «a» privativo greco, come si parla di ateismo. In quanto si tratta, d’altronde, esattamente di abbandonare una fede e una religione. È necessario diventare degli atei della crescita e dell’economia, degli agnostici del progresso e dello sviluppo. La rottura della decrescita incide quindi insieme sulle parole e sulle cose, implica una decolonizzazione dell’immaginario e la realizzazione di un altro mondo possibile.

La rottura con il produttivismo e la truffa dello sviluppo sostenibile

Seppure esiste un certo margine di incertezza nel concatenersi degli avvenimenti, l’emergere di un movimento radicale che propone una alternativa reale alla società dei consumi e al dogma della crescita, rispondeva sicuramente a una necessità che non è certo esagerato definire storica. Di fronte al trionfo dell’ultra liberalismo e all’arrogante affermazione della famosa Tina (acronimo di There is non alternative, non vi sono alternative) da parte della Margaret Thatcher, le piccole massonerie che si opponevano allo sviluppo e che auspicavano il rispetto dell’ecologia non potevano più accontentarsi di una critica teorica quasi confidenziale usata solo dai sostenitori del terzomondismo.

Inoltre l’altra faccia del trionfo dell’ideologia del pensiero unico non era altro che lo slogan consensuale dello «sviluppo sostenibile», un bell’ossimoro lanciato dal Pnue (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) per tentare di salvare la religione della crescita che doveva fronteggiare la crisi ecologica, e visione nella quale il movimento antiglobalizzazione sembrava essere perfettamente a suo agio. Diventava urgente contrapporre al capitalismo di mercato globalizzato un altro progetto di civilizzazione, o, più esattamente, di dare visibilità ad un disegno, da tempo in gestazione, ma che si evolveva in modo molto nascosto, quasi sotterraneo. Il movimento che prende il nome della decrescita trova il suo atto di nascita durante il colloquio «Disfare lo sviluppo, rifare il mondo», che si è tenuto all’Unesco nel marzo del 2002, una avventura culturale confermata dalla nascita, qualche mese più tardi, del giornale La décroissance che le ha procurato un eco più diffuso.

Diventato rapidamente la bandiera sotto la quale raccogliersi di tutti coloro che aspirano a costruire una reale alternativa a una società di consumo ecologicamente e socialmente insostenibile, la decrescita costituisce ormai uno spettacolo significativo per rendere evidente la necessità di una rottura rispetto alla società della crescita e per far emergere una civilizzazione basata su una abbondanza frugale. La rottura con lo sviluppismo, forma di produttivismo da offrire in uso ai Paesi cosiddetti in via di sviluppo, è stata quindi la base fondante di questo progetto alternativo. Ciò si è dapprima manifestato sotto forma di denuncia dell’etnocentrismo del concetto di sviluppo, prima ancora della rottura nei confronti del produttivismo come logica distruttiva dell’ambiente. Su questo punto, il contributo degli antropologi (Marcel Mauss, Karl Polanyi, Marshall Salhins, ad esempio), ignorato dagli economisti, è stato fondamentale.

Si tratta allora, con la decrescita di un altro paradigma economico, che contesta l’ortodossia neoclassica confrontabile con ciò che è stato il keynesismo a suo tempo? Questo è il significato che tentano di attribuirgli certe persone sulla scia del progetto di Bioeconomia di Nicholas Georgescu-Roegen. È chiaro che esistono altre politiche economiche possibili diverse dall’austerità imposta da Bruxelles all’interno di una società della crescita. Il periodo chiamato «i trenta gloriosi», (1945-1975) che ha visto il trionfo della regolamentazione keyneso-fordita ne costituisce la prova. Tuttavia, in una società della crescita senza una crescita, cioè la situazione in cui si trovano attualmente i paesi industrializzati, le politiche economiche alternative a quelle di ispirazione neo-liberista, sembrano impossibili da realizzare senza rimettere in causa il sistema economico e/o aggravare la crisi ecologica.

La denuncia della truffa dello sviluppo sostenibile è fondamentale per comprendere la necessità della rottura che la decrescita comporta e comprenderne tuta la portata. Questa, in effetti, è insieme un ossimoro e un pleonasma. Un ossimoro perché in realtà ne la crescita ne lo sviluppo sono in alcun modo sostenibili o durevoli. Questo è ciò che dimostra l’ecologia ed è il contributo di Nicholas Georgescu- Roegen: «Una crescita infinità è incompatibile con un pianeta finito». Un pleonasma, perché Walt Whitman Rostow ne Le tappe della crescita economica definisce lo sviluppo come una «crescita che si autosostiene», che sarebbe come dire che una crescita sostenibile o durevole, è una crescita durevole che dura.

Contrariamente a quanto sostengono alcuni dei suoi difensori, lo sviluppo sostenibile non si è allontanato dal suo significato e dalla sua funzione originali. Inventata, secondo la leggenda, da alcuni sinceri ecologisti, il progetto sarebbe stato deviato da alcune cattive imprese transnazionali preoccupate per il green washing, la spinta a mostrare un aspetto ecologico, e da responsabili politici senza scrupoli. Questo mito, che è duro a morire, non resiste all’analisi dei fatti. Lo sviluppo sostenibile fu lanciato esattamente come una marca di detersivo e con una accurata sceneggiatura, alla Conferenza di Rio del giugno 1992, da un buono, Maurice Strong segretario del Pnud. Poiché l’operazione seduttiva è pienamente riuscita al di la delle aspettative, le folle sono cadute nella trappola, inclusi gli intellettuali critici di Attac e gli ecologisti.

Verso la fine degli anni Settanta, lo sviluppo sostenibile si è imposto contro l’espressione più neutra di «ecosviluppo» , adottata nel 1972 alla Coferenza di Stoccolma, sotto la pressione della lobby industriale statunitense e grazie all’intervento personale di Henry kissinger. L’ecosviluppo sembrava troppo «ecologico» e poco «sviluppo» , soprattutto dopo che il paesi del Sud del Mondo se ne sono impadroniti alla conferenza di Cocoyoc del 1974, con lo scopo di rivendicare un nuovo ordine economico internazionale.

Lo sviluppo sostenibile del quale si ritrova l’invocazione in tutti i programmi politici, «ha solo la funzione – precisa Hervè Kempf – di mantenere i profitti e di evitare il cambiamento delle abitudini, modificando appena la superficie». Il fatto che il principale promotore dello sviluppo sostenibile, Stephan Schmidheiny, si sia rivelato un assassino seriale è quasi troppo bello per coloro che da anni si scagliano violentemente contro questo pseudo concetto per denunciare l’intera truffa. Questo miliardario svizzero, fondatore del World Business Council for Sustainable Development, eroe di Rio 1992, e che si presenta sul suo sito come filantropo, non è altro che l’ex-proprietario dell’impresa Eternit, chiamata in causa durante il processo per l’amianto di Casale Monferrato. L’industriale condannato dal tribunale di Milano a sedici anni di prigione e il paladino dell’ecologia industriale e della responsabilità sociale di impresa si sono scoperti essere la stessa identica persona.

Il progetto della decrescita non è ne quello di un’altra crescita, né quello di un altro sviluppo (sostenibile, sociale, solidale, ecc.). Esige di uscire dalla religione della crescita, ma questo aspetto merita di essere spiegato meglio. La crescita è un fenomeno naturale e in quanto tale è indiscutibile. Il ciclo biologico della nascita, dello sviluppo, della maturazione, del declino e della morte degli esseri viventi e la loro riproduzione sono anche la condizione della sopravvivenza della specie umana, che che deve metabolizzarsi con il suo contesto vegetale e animale. Gli uomini con molta naturalezza hanno celebrato le forze cosmiche che garantivano il loro benessere nella forma simbolica del riconoscimento di questa interdipendenza e del loro debito verso la natura per tutti questi aspetti.

Il problema nasce quando la distanza tra il simbolico e il reale scompare. Mentre tutte le società umane hanno dedicato un culto giustificato alla crescita, solo l’Occidente moderno ne ha fatto la sua religione. Il prodotto del capitale, risultato di una astuzia o di una frode commerciale, e quasi sempre di uno sfruttamento della forza dei lavoratori, è considerato simile all’accrescimento di una pianta. Con il capitalismo l’organismo economico, cioè l’organizzazione della sopravvivenza della società, non più in simbiosi con la natura, ma attraverso un suo sfruttamento senza pietà, deve crescere in modo infinito, come deve crescere il suo feticcio, il capitale. La riproduzione del capitale/economia mettono insieme, confondendoli, la fecondità e l’accrescimento, il tasso di interesse e il tasso di crescita.

Questa apoteosi dell’economia/capitale si trasforma nel fantasma dell’immortalità della società dei consumi. È in questo modo che noi viviamo nella società della crescita. La società della crescita può essere definita come una società dominata da una economia della crescita e che tende a lasciarsene assorbire. La crescita per la crescita diventa così l’obiettivo primordiale se non addirittura l’unico dell’economia e della vita. Non si tratta più di crescere per soddisfare dei bisogni riconosciuti, cosa che sarebbe ancora positiva, ma di crescere per crescere.

La società dei consumi è l’approdo normale di una società della crescita. Ciò si basa su una triplice mancanza di limiti: una produzione senza limiti e quindi sono illimitati anche i prelievi delle risorse, rinnovabili e non rinnovabili; assenza di limiti nei consumi, e quindi anche nella produzione di bisogni e di prodotti superflui; mancanza di limiti nella produzione di rifiuti e quindi nelle emissioni di scarichi e di inquinanti (dell’aria, della terra e dell’acqua).

Per essere sostenibile e durevole, qualunque società deve porsi dei limiti. Ora, la nostra, si vanta di essersi liberata da qualunque vincolo e ha optato per la dismisura. Certo, nella natura umana esiste qualche elemento che spinge l’uomo a superarsi continuamente. Ciò costituisce insieme la sua grandezza e una minaccia. Così tutte le società, eccetto la nostra, hanno cercato di canalizzare questa capacità e di farla lavorare per il bene comune. In effetti, quando la si spende nello sport non commercializzato, questa aspirazione può non essere nociva. Viceversa, essa diviene distruttiva quando si lascia libero corso alla pulsione dell’avidità («ricercare sempre qualcosa in più») nell’accumulazione di merci e di denaro. Si deve quindi ritrovare il senso del limite per garantire la sopravvivenza dell’umanità e del pianeta. Con la decrescita, si intende uscire da una società fagocitata dal feticismo della crescita. E per questo la decolonizzazione dell’immaginario è indispensabile.

Il progetto di una società dell’abbondanza frugale

La parola decrescita indica ormai un progetto alternativo complesso e che possiede una portata analitica e politica che non può essere contestata. Si tratta di costruire un’altra società, una società dell’abbondanza frugale, una società post-crescita (Niko Paech), cioè della prosperità senza crescita (Tim Jackson). In altre parole, non si tratta di creare all’improvviso un progetto economico, fosse pure di un’altra economia, ma un progetto societario che comporta di uscire dall’economia come realtà e come logica imperialista. Ciò che viene prima è dunque la decolonizzazione dell’immaginario.

L’idea e il progetto della decolonizzazione dell’immaginario hanno due fonti principali: la filosofia di Cornelius Castoriadis da una parte e la critica antropologica dell’imperialismo dall’altra. Queste due fonti si trovano in modo molto naturale, a fianco della critica ecologica, alle origine della decrescita. In Castoriadis l’accento è posto naturalmente sull’immaginario, mentre negli antropologi dell’imperialismo riguarda la decolonizzazione. Per cercare di pensare ad una uscita dall’immaginario dominante, si deve in primo luogo riandare al modo con il quale ci siamo entrati, vale a dire al processo di economicizzazione degli spiriti che si è verificato nello stesso momento della mercificazione del mondo. Per Castoriadis, come per noi, l’incredibile resilienza ideologica dello sviluppo si fonda su una non meno stupefacente resilienza del progresso. Come lo esprime mirabilmente:

«Nessuno più crede veramente nel progresso. Tutti vogliono avere qualcosa in più nell’anno successivo, ma nessuno crede che la felicità dell’umanità consista veramente nella crescita del 3 per cento all’anno del livello dei consumi. L’immaginario della crescita è certamente sempre lì: è sicuramente il solo che resiste nel mondo occidentale. L’uomo occidentale non crede più a nulla, se non nel fatto che potrà avere presto un televisore ad alta definizione» .

D’altra parte, nell’analisi dei rapporti Nord/Sud, la forma di sradicamento di una credenza si formula volentieri attraverso la metafora della decolonizzazione. Il termine colonizzazione, utilizzato correntemente dall’antropologia antimperialista per quanto riguarda le mentalità, si ritrova nel titolo di numerose opere. Ad esempio, Serge Gruzinski pubblica, nel 1988, La colonizzazione dell’immaginario, il cui sottotitolo evoca anche il processo di occidentalizzazione.

Con la crescita e lo sviluppo, si tratta proprio di avviare un processo di conversione delle mentalità, quindi di natura ideologica e quasi religiosa, diretto a fondare l’immaginario del progresso e dell’economia, ma la violazione dell’immaginario, per riprendere la bella espressione di Aminata Traorè, rimane simbolica. Con la colonizzazione dell’immaginario in Occidente, noi abbiamo a che fare con una invasione mentale di cui noi siamo le vittime ma anche gli agenti. Si tratta ampiamente di una autocolonizzazione, di una servitù in parte volontaria.

La decolonizzazione dell’immaginario comporta quindi all’inizio, ma non soltanto, un cambiamento della logica o del paradigma, o, ancora, una vera e propria rivoluzione culturale. Si tratta di uscire dall’economia, di cambiare i valori, e quindi, in qualche modo, di disoccidentarsi. E precisamente il programma sviluppato nel progetto sul dopo sviluppo dei «partigiani» della decrescita. Il problema dell’uscita dall’immaginario dominante o coloniale, per gli antropologi antimperialisti, come per noi, è una questione centrale, ma molto difficile, perché non si può decidere di cambiare il proprio immaginario, e ancora meno quello degli altri, soprattutto se essi sono «dipendenti» dalla droga della crescita. La cura di disintossicazione non è completamente possibile fino a quando la società della decrescita non è stata realizzata. Si dovrebbe preliminarmente essere usciti dalla società dei consumi e dal suo regime di «cretinizzazione civica», cosa che ci blocca dentro un cerchio che occorre rompere.

Denunciare l’aggressione pubblicitaria, oggi veicolo dell’ideologia, costituisce certamente il punto di partenza della controffensiva diretta a uscire da ciò che Castoriadis chiama «l’onanismo consumistico e televisivo». Il fatto che il giornale La décroissance sia edito dall’associazione Casseurs de pub , distruttori della pubblicità, non è certamente dovuto al caso poiché la pubblicità costituisce una forza essenziale nella società della crescita, e il movimento degli obiettori della crescita è largamente e naturalmente connesso con la resistenza all’aggressione pubblicitaria.

Infine, la decrescita non è l’alternativa, ma una matrice di alternative che riapre l’avventura umana a una pluralità di destini e lo spazio della creatività sollevando la cappa di piombo del totalitarismo economico. Si tratta di uscire dal paradigma dell’homo oeconomicus o dell’uomo a una dimensione di Marcuse, principale fonte dell’uniformatizzazione planetaria e del suicidio delle culture. Ne consegue che la società della a-crescita non si affermerà nello stesso modo in Europa, nell’Africa a sud del Sahara, oppure in America Latina, nel Texas e nel Chiapas, nel Senegal e nel Portogallo. Ciò che importa è favorire o ritrovare la diversità e il pluralismo. Non si può dunque proporre un modello chiavi in mano di una società della decrescita, ma solamente un abbozzo degli elementi fondamentali di qualunque società non produttivista sostenibile e degli esempi concreti di programmi di transizione.

Di sicuro, come in tutte le società umane, una società della decrescita dovrà organizzare la produzione necessaria per la sua vita e a questo scopo dovrà utilizzare in modo ragionevole le risorse offerte dal proprio ambiente e consumarle attraverso la realizzazione di beni materiali e di servizi, ma un pò come le società dell’abbondanza dell’età della pietra, descritte da Marshall Salhins, che non sono mai entrate nell’epoca dell’economia. Essa non lo farà costretta nel busto di ferro della rarità, dei bisogni, del calcolo economico e dell’homo oeconomicus. Queste basi immaginarie dell’istituzione dell’economia devono anche essere rimesse in discussione. Come aveva ben visto ai suoi tempi il sociologo Jean Baudrillard, il consumerismo genera «una pauperizzazione psicologica», uno stato di insoddisfazione generalizzato, che, egli dice, «definisce la società della crescita come il contrario di una società dell’abbondanza».

La frugalità ritrovata permette di ricostruire una società dell’abbondanza sulla base di quella che Ivan Illich definiva la «sussistenza moderna». Vale a dire »un modo di vivere in una economia post-industriale all’interno della quale le persone possono ridurre la loro dipendenza rispetto al mercato , e dove sono pervenuti proteggendo – con dei mezzi politici – una infrastruttura nella quale le tecniche e gli strumenti servono, in primo luogo, a creare dei valori d’uso non quantificati e non quantificabili dai fabbricanti professionisti di bisogni». Su questa base si è imposta l’idea che una società senza crescita che sia sostenibile, giusta e prospera non può essere che frugale.

L’abbondanza frugale quindi non è più un ossimoro ma una necessità logica. «La scelta (…), nota intelligentemente Jacques Ellul, è tra una austerità subita, ingiusta, imposta dalle circostanze sfavorevoli, e una frugalità comune, generale, volontaria e organizzata, che deriva da una scelta più di libertà e meno di consumo di beni materiali. Essa sarà legata ad un consumo diffuso di beni di base (…) una abbondanza frugale».

Se l’orizzonte di senso così definito e sintetizzato nella forma dei cerchi virtuosi delle 8R (Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocaliazzare, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare) presuppone una rottura veramente rivoluzionaria, i programmi di transizione saranno necessariamente riformisti. Di conseguenza, molte delle proposte «alternative» che non rivendicano esplicitamente la decrescita possono trovare un loro spazio. La decrescita offre così un quadro generale che da un senso a numerose lotte settoriali o locali favorendo dei compromessi strategici e delle alleanze tattiche.

Uscire dall’immaginario economico implica tuttavia delle rotture molto concrete. Si tratterà di fissare delle regole che inquadrino e limitino lo scatenarsi delle avidità degli operatori (ricerca del profitto, del sempre di più): protezionismo ecologico e sociale, legislazione del lavoro, limitazioni delle dimensioni delle imprese,ecc. E in primo luogo, la «demercificazione» di quelle tre merci fittizie (nel senso di Polanyi) che sono il lavoro, la terra e la moneta.

Il loro ritiro dal mercato globalizzato segnerebbe il punto di inizio di una reincorporazione/reincastramento dell’economico nel sociale, nello stesso tempo di una lotta contro lo spirito del capitalismo. La ridefinizione della felicità come «abbondanza frugale in una società solidale» corrispondente alla rottura creata dal progetto della decrescita presuppone di uscire dal cerchio infernale della creazione illimitata dei bisogni e dei consumi e dalla frustrazione crescente che esso comporta. L’autolimitazione è la condizione per conseguire una prosperità senza crescita ed evitare in questo modo l’annientamento della civilizzazione umana.

Conclusione

I recenti dibattiti sulla significatività degli indicatori di ricchezza, hanno avuto il merito di ricordare l’inconsistenza del prodotto interno lordo, il Pil, come indice che possa permettere di misurare il benessere, mentre costituisce il simbolo feticcio indissolubilmente funzionale alla società della crescita. Non ci si è abbastanza accorti in quell’occasione che è la stessa inconsistenza ontologica dell’economia che è messa in evidenza nello stesso momento.

Criticando il Pil, sono le fondamenta stesse della fede nell’economia o dell’eonomia come religione che vengono ridotte in pezzi. L’economia come discorso presuppone il suo oggetto, la vita economica che non esiste come tale soltanto in grazia ad essa. In effetti, quale che sia la definizione di economia politica che si è scelta, quella dei classici (produzione, distribuzione, consumo) o quella dei neoclassici (allocazione ottimale delle risorse rare di uso alternativo), l’economia esiste solo a condizione di presupporre se stessa.

Il campo specifico della pratica e della teoria perseguite non può essere delimitato se la ricchezza come l’allocazione delle risorse concernono soltanto l’economia. Garry Becker è più coerente quando afferma che tutto ciò che costituisce l’oggetto di un desiderio umano fa di diritto parte dell’economia, salvo che se tutto è economico, niente lo è. In questo caso, la quantificazione totale del sociale e l’ossessione calcolatrice che egli descrive non sono che il risultato di un colpo di mano, quello della istituzione del capitalismo come mercificazione totale del mondo. È proprio contro questo progetto di trasformazione del mondo in merci che la globalizzazione ha largamente contribuito a realizzare che intende reagire il movimento della decrescita.

Traduzione per Comune-info di Alberto Castagnola.

«Singoli Stati, come pure singoli individui, potranno certo andare in miseria, ma non di meno prevarrà, in grazia di un’insondabile provvidenza immanente, l’equilibrio generale del mercato». Il FattoQuotidiano, blog di Diego Fusaro, 1 marzo 2017 (c.m.c.)
Con le parole di Deleuze e Guattari, «le multinazionali fabbricano una sorta di spazio liscio deterritorializzato» (Mille piani), ciò che siamo soliti definire “mondializzazione”. Modelli insuperati dell’“azienda irresponsabile” (Luciano Gallino), le imprese multinazionali e delocalizzate sono ovunque e in nessun luogo: sono ovunque, allorché si tratta di trovare in ogni angolo del pianeta manodopera da sfruttare a basso costo e di vendere prodotti (secondo le due leve della delocalizzazione della produzione e dell’immigrazione di massa come nuova deportazione di masse di lavoratori da sfruttare ad libitum); e sono in nessun luogo, quando v’è da dichiarare i profitti delle vendite, da pagare le tasse e da rispettare la dignità del lavoro umano e le condizioni dell’ambiente.

Coessenziale al capitale fin dal suo momento genetico, la tendenza allo sradicamento e alla deterritorializzazione giunge a compimento, per un verso, con la mondializzazione come dinamica di riconfigurazione del pianeta come unico mercato omologato e senza distinzioni; e, per un altro, con l’instaurazione del dominio post-borghese della nuova aristocrazia finanziaria, avversa a ogni forma di vita etica radicata simbolicamente e materialmente. La cattiva universalità del mondialismo può dirsi realizzata, nell’inveramento della logica già delineata da Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni: «Il possessore di capitali è propriamente un cittadino del mondo e non è necessariamente legato a nessun paese particolare. Egli sarebbe pronto ad abbandonare il paese in cui è stato esposto a una indagine vessatoria per l’accertamento di un’imposta gravosa e trasferirebbe i suoi fondi in qualche altro paese dove poter svolgere la sua attività o godersi la sua ricchezza a suo agio».

Del resto, l’invisible hand teorizzata e magnificata da Smith non contempla alcuna territorialità o localizzazione, alcun radicamento o regionalità. Opera negli spazi globali, nelle distese virtualmente infinite del mercato denazionalizzato, poiché la sintesi spontanea degli egoismi – la nuova teodicea economica del moderno – fondata sulla moltiplicazione rizomatica degli interessi privatistici si produrrà su scala planetaria, nel piano liscio dello scambio senza frontiere e limitazioni.

Singoli Stati, come pure singoli individui, potranno certo andare in miseria, ma non di meno prevarrà, in grazia di un’insondabile provvidenza immanente, l’equilibrio generale del mercato. Si realizza così quello “sradicamento” che già Martin Heidegger – gigante oggi deriso e schernito da una tribù di pennivendoli e surfers del pensiero – aveva denunciato come cifra del tecnocapitalismo.

Caro Salzano
trovo molto bella la tua riflessione sul tema del debito pubblico e la tua “diversa visione” – rispetto a quella da me espressa - sulla quale ampiamente concordo. Il fatto è che il mio contributo era mirato a un tema specifico, come quello di che fare col nostro enorme e crescente debito pubblico, che solo in minima parte dipende dalle nuove tendenze di globalizzazione della finanza, mentre la tua riflessione affronta con coerenza il tema politico della trasformazione recente del capitalismo finanziario.

E’ molto vero che da sempre con il cosiddetto Washington consensus il paese leader del capitalismo mondiale ha imposto ai paesi in via di sviluppo, ma anche ai paesi sviluppati, ricette di politica economica che andavano contro gli interessi di questi paesi (privatizzazioni, apertura alle multinazionali e al commercio internazionale di materie prime, politiche fiscali inesistenti per compiacere le élite “compradore” e corrotte, politiche monetarie restrittive) e nel chiaro interesse del/i paesi leader. Ed è anche molto vero che, a partire dagli anni ’90, il sistema capitalistico ha sposato decisamente la dimensione finanziaria cambiando di colpo l’arena del confronto con i singoli paesi e le loro istituzioni (che aveva portato a quel compromesso fra capitalismo e democrazia che hai richiamato): la nuova arena è diventata il mondo globale in cui non esistono istituzioni legittimate dai popoli, quelle poche che esistono sono deboli e ampiamente controllate, le regolamentazioni finanziarie praticamente inesistenti. Solo dopo la catastrofe della crisi del 2008, determinata totalmente dalle pratiche truffaldine e opache della finanza ed enfatizzata dalla somiglianza dei criteri di azione dei software con cui i titoli vengono scambiati internazionalmente, gli Stati Uniti hanno varato strette regole (interne) di comportamento per le banche e le istituzioni finanziarie, che tuttavia Trump sta iniziando ad azzerare.

Mentre occorrerebbe una forte solidarietà politica internazionale per redigere le nuove regole valide per tutti (come Joseph Stiglitz non smette di raccomandare), nuovi governi di destra minacciano di costruire nuovi paradisi fiscali per la finanza (il Regno Unito della May). E i nuovi irresponsabili populisti europei (Marine Le Pen) e nostrani (Salvini e Grillo), minacciando o invocando l’uscita dall’euro vanno approntando tappeti rossi alla speculazione finanziaria internazionale che, attraverso le inevitabili drastiche svalutazioni delle monete nazionali che seguirebbero, si impossesserebbe con un pugno di dollari delle ricchezze, finanziarie e immobiliari, degli italiani.

Ma vengo al punto su cui le nostre visioni divergono. Tutto quello che ho detto, e che tu hai detto meglio, non c’entra niente col nostro debito pubblico e con le nostre banche. Queste ultime hanno fatto certo “operazioni speculative sbagliate o addirittura criminose”, le più grandi lanciandosi nella finanza immobiliare e nella finanza (politicizzata) degli anni del boom dell’inizio del secolo senza la necessaria competenza e correttezza (e per questo hanno pagato con la perdita di due terzi, in media, del loro capitale e con le attuali ricapitalizzazioni forzate), e le piccole e medie banche con truffe non diverse da quelle dei “furbetti” romani, pagando nello stesso modo fino al quasi azzeramento del loro capitale. Lo stato sta salvando queste ultime dal fallimento, ma il supporto non è destinato ai precedenti padroni o ai manager corrotti che sono indagati dalla magistratura, ma al mantenimento delle aziende e dell’occupazione; come nel caso americano, in cui le grandi banche hanno finito in questi mesi di restituire allo stato gli aiuti elargiti da Obama, così pure questi supporti dovranno essere ripagati dalle nuove gestioni (e su questo in genere nel dibattito non si fa chiarezza). Ma tutto ciò, come dicevo, non c’entra niente col debito pubblico italiano, cresciuto a dismisura per la facile disponibilità dei governi a far pagare alle generazioni future (che sono quelle di oggi) i compromessi e le elargizioni del passato. Non siamo tenuti a rimborsare i soldi che il nostro sistema bancario ha perso “per colpa sua”, ma i nostri debiti: per questo ho detto che “prendersela col debito è scorretto” (e anche rischioso, se qualche politico di livello nazionale dovesse accodarsi pubblicamente a questa “sparata”, come dici tu).

Come ho detto nel mio articolo, la soluzione al problema del debito sta, almeno in parte, in una forte tassazione una tantum dei grandi patrimoni: una misura di equità fiscale, che non genera caduta dei consumi e della domanda e che sarebbe internazionalmente apprezzata. Ma Renzi non ha mai voluto sentir parlare di tasse!

Riferimenti

L'articolo di Camagni fa seguito a un documento del CADTM, alla replica critica di Roberto Camagni e al successivo intervento di Edoardo Salzano,

Un commento di Roberto Camagni e un intervento di Edoardo Salzano a proposito di un manifesto del "Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi". Il dibattito è aperto su una questione sulla quale esistono posizioni diverse, tra le quali il confronto è necessario.

VERITÀ E GIUSTIZIA
SUL DEBITO PUBBLICO ITALIANO
di CADTM.

(manifesto di invito all'Assemblea nazionale del CADTM - Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi, Italia)

Il mondo in cui viviamo è sempre più ingiusto.

La forbice tra i pochi che possiedono tutto e la gran parte delle popolazioni che non hanno nulla, in questi ultimi trenta anni si è allargata a dismisura.

Nel capitalismo basato sulla finanza, l’economia contemporanea si è trasformata da attività di produzione di beni e servizi in economia fondata sul debito.

La liberalizzazione dei movimenti di capitale, la privatizzazione dei sistemi bancari e finanziari, i vincoli monetaristi che permeano l’azione dell’Unione Europea hanno progressivamente reso autonome le attività e gi interessi finanziari, che ora investono non più solo l’economia, ma l’intera società, la natura e la vita stessa delle persone.

Le scelte adottate dalle élite politico-economiche dell’Unione Europea e dei governi nazionali per rispondere alla crisi scoppiata dal 2008 in avanti, hanno trasformato una crisi - che a tutti gli effetti è sistemica - in crisi del debito pubblico.

Da allora, il debito pubblico è agitato su scala internazionale, nazionale e locale, come emergenza allo scopo di far accettare come inevitabili le politiche liberiste di alienazione del patrimonio pubblico, mercificazione dei beni comuni, privatizzazione dei servizi pubblici, sottrazione di diritti e di democrazia.

Oggi la trappola del debito pubblico mina direttamente la sovranità dei popoli, la giustizia sociale e l’eguaglianza fra le persone, così come perpetua lo sfruttamento della natura, con conseguente inarrestabile cambiamento climatico.

Già i paesi del Sud del mondo, a partire dagli anni '70, erano stati testimoni di questo circolo vizioso dell'indebitamento e delle politiche di aggiustamento strutturale imposte dalle istituzioni finanziarie internazionali con conseguenze devastanti in termini economici e sociali. Ci sembra dunque fondamentale, nel momento in cui la spirale è approdata al continente europeo, imparare dagli errori del passato.

Anche nel nostro Paese, il debito pubblico è da tempo utilizzato per ridurre i diritti sociali e del lavoro e per consegnare alle oligarchie finanziarie i beni comuni e la ricchezza sociale prodotta.

Un solo esempio basti a dimostrarlo: mentre per il sostegno alle popolazioni dell’Italia centrale duramente colpite in pochi mesi da due terremoti si stanziano 600 milioni dei 4,5 miliardi necessari, per risollevare 6 banche in fallimento si mettono immediatamente a disposizioni 20 miliardi di garanzie statali, da caricare sul debito pubblico del Paese. Mentre, per ogni evenienza, viene utilizzato lo spauracchio dell'aumento dello “spread” per rilanciare politiche di austerità e privatizzazioni.

Occorre invertire la rotta. Occorre comprendere, elaborare e spiegare il fenomeno debito per creare azioni che rivoluzionino l’attuale sistema delle diseguaglianze.

Occorre un’operazione di verità sul debito pubblico italiano, per conoscere come e per quali interessi è stato prodotto, quanta parte ne è illegittima, odiosa, illegale o insostenibile.

Occorre un’operazione di giustizia sul debito pubblico italiano: in un Paese in cui quasi la metà della popolazione fatica ad arrivare alla fine del mese e una famiglia su quattro non riesce ad affrontare le spese mediche, non si può più accettare che le banche e i profitti valgano più delle nostre vite e dei nostri diritti.

A questo scopo, Cadtm Italia (Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi), affiliato al network internazionale dei Cadtm (Tunisi, Aprile 2016), rete inclusiva di persone, comitati, associazioni ed organizzazioni sociali, prosecuzione strutturata e mirata dell’esperienza del Forum Nuova Finanza Pubblica e Sociale e sintesi operativa dei bisogni emersi dall’Assemblea-Convegno sugli audit locali (Livorno, Gennaio 2016) e dal Convegno “Dal G8 di Genova alla Laudato si’: il Giubileo del debito?” del 19 luglio scorso

PRENDERSELA COL DEBITO?
ERRATO E POLITICAMENTE SCORRETTO
di Roberto Camagni

Prendersela col debito pubblico, come si fa nell’iniziativa “Verità e giustizia sul debito pubblico italiano”, suggerendo che sia possibile “uscire dalla trappola” che esso rappresenta per il paese e che occorra impegnarsi per “il ripudio del debito illegittimo”, mi pare operazione errata economicamente e politicamente scorretta.

Il mostruoso debito pubblico attuale - accumulato attraverso i deficit del bilancio dello stato presentati annualmente da quasi cinquant’anni e il relativo costo per interessi da pagare – rappresenta oggi una massa indistinta di titoli detenuta da chi ha prestato soldi al nostro paese, e cioè famiglie, banche e oggi anche la Banca Centrale Europea. Sottolineo l’aggettivo "indistinta", perché il debito è costituito da un impegno a restituire i fondi indipendentemente dalle ragioni che hanno spinto il paese a sforare ogni anno il suo bilancio pubblico. E non potrebbe che essere così: è impossibile determinare se il deficit di un anno è dovuto ai salari pubblici (magari in parte pagati per assunzioni di amici), welfare (magari generoso e di manica larga sulle pensioni come si faceva una volta, baby-pensionati ad esempio), opere pubbliche (magari inutili) o corruzione.

Dunque si deve ipotizzare che prima o poi il debito deva essere pagato; altrimenti, come è accaduto per la Grecia, i creditori chiederebbero tassi di interesse crescenti per detenere i nostri bot e il meccanismo diverrebbe catastrofico (e pagare i dipendenti pubblici diverrebbe impossibile). Vogliamo seguire la vecchia strada dell’Argentina in questo senso?

E’ bensì vero che in alcuni casi, per piccoli paesi poveri, il debito, detenuto da paesi avanzati o da grandi imprese, è stato condonato. Ma comunque ciò ha avuto un costo per i creditori, e si è trattato, ripeto, di paesi poveri. E non si tratta di 2.200 miliardi di debiti di un paese ‘ricco’ come l’Italia.

Le motivazioni politiche addotte per sostenere la tesi del ripudio mi sembrano confuse. Si imputa la insostenibilità al capitalismo finanziario odierno, quando il grosso del nostro debito originario è stato creato prima degli anni ’90, e negli ultimi 15 anni abbiamo solo verificato, con l’aumento degli spread, quanto fosse pericolosa la trappola che ci siamo costruiti noi.

Il costo per finanziare questo debito pubblico (spesa per interessi) non è mai stato così basso come oggi. Nel novembre scorso il tasso mediamente pagato è sceso allo 0,5%, e l’OCSE stima un risparmio complessivo per interessi nel triennio 2015-17 pari al 2,2% del PIL. Ciò è dovuto all’euro, alla discesa dell’inflazione e alle politiche di Draghi: quando ha stroncato la speculazione finanziaria nel settembre 2012 con un semplice annuncio (“pronti a fare tutto il necessario”); quando ha avviato una politica monetaria espansiva (il quantitative easing) ed è riuscito a far acquistare dalla BCE quote importanti del nostro debito, contro la posizione della Germania e dei paesi nordici. L’azione della BCE ha, almeno fin qui, evitato proprio quello che si afferma nel motivare l’iniziativa, cioè “di trasformare una crisi sistemica in una crisi del debito pubblico”.

Se gli obiettivi che si intravedono dietro questa iniziativa sono condivisibili – le politiche di austerità imposte dall’Unione Europea a trazione tedesca, le scelte di politica economica del paese – il bersaglio è sbagliato. E trasmettere il messaggio che il problema sia quello della trappola del debito, che “mina direttamente la sovranità dei popoli, la giustizia sociale e l’uguaglianza delle persone” (oltre che “lo sfruttamento della natura e il cambiamento climatico”) mi pare metodo politicamente scorretto, pericolosamente simile a quello dei populismi di destra e pentastellati, che aggiungono, implicita nella sovranità dei popoli, la sovranità monetaria. Prima di accorgersi dell’errore politico, qualche frangia della politica e della cultura di sinistra si è trastullata nel recente passato con l’idea dell’uscita dall’euro (per la Grecia, per vedere l’effetto che fa, ed eventualmente per l’Italia), come ho stigmatizzato nel mio articolo su eddyburg.it del 19 luglio 2015 “La grandezza di Tsipras e i vaniloqui di certa sinistra”. Non commettiamo lo stesso errore col debito pubblico.

Piuttosto riflettiamo su tre grandi temi sui quali oggi aprire un’azione politica vera ed efficace:
1) quali strategie di politica economica possiamo cercare di imporre all’EU, con i paesi del sud Europa, per allentare la morsa di una socialmente costosa ed economicamente inutile austerità;
2) come realizzare un programma di politica economica basato sul rilancio degli investimenti, pubblici e privati, che costituiscono l’unico modo per uscire nel medio termine dalla “trappola” del debito, anche appoggiando l’idea degli European Safe Bonds, oggi timidamente studiata dalla UE;
3) come rispondere attraverso decise politiche redistributive ai costi sociali della crisi, anche predisponendo uno strumento forte di tassazione patrimoniale una tantum, come proposto da tempo da alcuni economisti: l’unico strumento utilizzabile e concreto per ridurre a breve termine il peso del debito pubblico.

UNA DIVERSA VISIONE
DELLA QUESTIONE DEL DEBITO PUBBLICO
di Edoardo Salzano

La lettura del commento di Roberto Camagni al manifesto del "Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi" mi fa comprendere, e di questo lo ringrazio, quanto siano fuorvianti la sparate demagogiche del tipo: “il debito pubblico è ingiusto, cancelliamolo”, ma non mi aiuta a vedere il nocciolo di verità che c’è in esso. In particolare, essa contrasta con tutto ciò che avevo appreso nel decennio trascorso a proposito della crisi del 2007, delle sue cause e dei suoi autori. nonché della svolta avvenuta dopo il lungo lavorio svolto dalla Trilateral Commission (1943) e dalla Mont Pèlerin Society (1947).

Avevo appreso che la crisi di oggi è la crisi dell’età del capitalismo finanziario, nata con la liberalizzazione dei movimenti di capitali e l’ascesa della finanza. Un modello che - come hanno scritto Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini - ha rotto il compromesso tra capitalismo e democrazia e messo nell’angolo la politica. Avevo appreso come, si fossero create le condizioni per spingere il capitalismo «a rompere il compromesso storico con la democrazia determinando l’involuzione del sistema economico verso le forme più rozze rappresentate […] dalla capacità di sfiduciare i governi che perseguivano politiche economiche non gradite». mutazione fondamentale di natura essenzialmente finanziaria che dà origine alla crisi attuale»[1].

Del resto, l’abdicazione della politica dei governi a quella voluta dai grandi gruppi finanziari si era rivelata in Italia in modo emblematico con la vicenda della tentata sostituzione della Costituzione del 1948. Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, non ha mai smentito di aver sollecitato il governo Renzi a quella iniziativa (bocciata dagli elettori il 4 dicembre 2016) proprio per adempiere al diktat della JP Morgan Chase (meno diritti per il lavoro, meno spazio per la democrazia) [2]

Tornando alla questione del debito pubblico, esso diventa un problema politico e sociale a causa di una decisione del parlamento italiano; questo ha approvato, nel luglio 2016, il patto fiscale (Fiscal Compact) che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni. Questa decisione comporterà per l’Italia, ha scritto Luciano Gallino, «una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l’anno, dal 2013 al 2032.Una cifra mostruosa che lascia aperte due sole possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà»[3].

Dagli scritti di Luciano Gallino avevo appreso anche che, proprio a causa di quel capovolgimento del sistema dei poteri da lui denominato Finanzcapitalismo, il sistema bancario era divenuto qualcosa di molto diverso da quello che era ai tempi di Raffaele Mattioli e di Enrico Cuccia. Secondo l’analisi di Gallino in molti casi non si tratta di banche ma di «conglomerati finanziari formati da centinaia di società, gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riesce a stabilire l’esatto ammontare né il rischio di insolvenza». Ciò avviene, prosegue Gallino perché «esse hanno creato, con l’aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore. Questo nuovo soggetto sociale e politico (oltre che economico) è formato da varie entità che operano come banche senza esserlo: fondi monetari, speculativi, di investimento, immobiliari».

Quando parliamo di sistema bancario parliamo insomma di una realtà molto diversa da quella dallo sportello a cui l’operaio o il pensionato o la casalinga affidano i loro risparmi. Parliamo di un soggetto che è fallito, o corre il rischio di fallire, perché ha fatto operazioni speculative sbagliate, o addirittura criminose. È questo il soggetto cui dovremmo rimborsare i soldi che per sua colpa ha perso.

È riformabile una realtà siffatta? Io credo di no. Il vero problema di fronte al quale ci troviamo quando parliamo del debito pubblico non è allora quello di domandarsi come rimborsarlo o come alleggerirlo, ma è quello – certamente più complesso e difficile – di come rovesciare il sistema di potere che lo ha prodotto. Uscire, insomma, non solo da questa nuova incarnazione del capitalismo ma dallo stesso sistema di idee, di valori, di principi, di pratiche, di modi di vita che va sotto il nome di capitalismo.

È probabile che io sia particolarmente ricettivo nei confronti delle analisi più radicali dell’evoluzione del capitalismo emerse in questo secolo perché avevo avuto la fortuna, grazie ai miei maestri Franco Rodano e Claudio Napoleoni, di intravedere ciò che stava avvenendo. Si trattava degli anni in cui la nuova forma del proteiforme capitalismo aveva cominciato a manifestarsi in quella che Gailbraith battezzò The Affluent Society (1958). Lo testimonia il mio libro Urbanistica e società opulenta (1969). Devo dire che, a partire da quegli anni, sono convinto - a differenza di molti miei amici - che il sistema capitalistico non sia emendabile, né nella sua versione privatistica, che ha dominato nel mondo Nordatlantico, né in quella statalistica, sperimentata in quello sovietico.



[1] GiorgioRuffolo e Stefano Sylos Labini, “La deriva del capitalismo”, la Repubblica,22 settembre 2012
[2] VediSalvatore Settis, “La riforma ricalca quella di Berlusconi”, la Repubblica, 4 ottobre 2016
[3] LucianoGallino, “Sulla crisi pesano i debiti delle banche”, la Repubblica, 30 lugio 2012

Apple, Google, Simens, Roll Royce sono solo alcune delle imprese che hanno la Rete come infrastruttura. Finanza, lavoro precario, bassi salari, evasione fiscale, uso dell'intelligenza artificiale e tendenza al monopolio sono le loro caratteristiche». il manifesto, 14 febbraio 2017 (c.m.c.)

Nick Srnicek Platform capitalism (Polity, pp. 171, euro 11,66)

In tempi dove la fila per dare l’estremo saluto alla globalizzazione si allunga sempre più, vedendo marciare gomito a gomito teorici in odore di marxismo e esponenti della destra populista e nazionalistica, un saggio come quello di Nick Srnicek Platform capitalism (Polity, pp. 171, euro 11,66) è decisamente controcorrente, visto che è scandito dalla convinzione che il capitale abbia una innata vocazione mondiale, globalista».

Tanto esponenti radical che xenofobi sostengono che è tempo di un ritorno alla sovranità nazionale, individuando in essa sia l’unico spazio della trasformazione sociale che il fortino dove salvaguardare identità locali. La crisi economica attesta che l’ideologia neoliberale sul mondo piatto era una perniciosa illusione che ha favorito il capitale finanziario e accentuato all’inverosimile le disuguaglianze sociali. Di fronte a tale critica c’è da sottolinearne la concezione storicista dello sviluppo capitalistico, quasi che la storia sia una linea retta che tende inesorabilmente alla sua fine.

D’altronde che la globalizzazione non fosse un pranzo di gala era evidente sin dalla crisi della cosiddetta new economy. Anche allora ci fu chi scrisse che serviva solo chi desse l’estrema unzione alla globalizzazione dopo il tonfo della Borsa a Wall Street che decretò la chiusura di decine di imprese high-tech. Una crisi, quella di allora, che vide scorrere velocemente sugli schermi di tutto il pianeta le manifestazioni altermondialiste fino alle giornate di Genova», l’assalto alle Torri gemelle, l’intervento militare in Afghanistan prima e Iraq dopo.

Nel mondo piatto amato dai neoliberisti la guerra – sebbene sia comunque un conflitto non convenzionale, cioè combattuto da eserciti nazionali – è sempre lo strumento di gestione politica della crisi capitalistica che, in questo caso, ha accelerato i processi di globalizzazione, all’interno di uno schema dove la somma tra discontinuità e continuità non si avvicina certo allo zero. Semmai dà forma a fenomeni di interdipendenza e diffusione planetaria del modo di produzione capitalistico, in un caleidoscopio di finanza internazionale, imprese globali e bacini di eterogeneo lavoro vivo.

Anche quello che sta accadendo in queste settimane negli Stati Uniti dopo l’insediamento di Donald Trump non suona a morte per nessuno, ma segnala semmai la ferocia e la violenza che contraddistinguono i tentativi di fuoriuscire da una crisi a geografia variabile che dura ormai dal 2007 e della quale ancora non si vede l’uscita. Più che ratificare la fine della globalizzazione Trump sta semmai sottoscrivendo l’atto di dolore della fine dell’egemonia statunitense nell’economia mondiale.

Per comprendere la difficoltà di chiudere una fase dello sviluppo capitalistico con un decreto presidenziale il denso saggio di Nick Srnicek è quindi una ventata di aria fresca. L’autore, nell’analisi del ruolo nel capitalismo mondiale di imprese come Google, Amazon, General Electric, Siemens, Ibm, Apple, Roll Royce, Uber, invita a pensare alla globalizzazione non come una parentesi, bensì come un elemento irreversibile, specificando tuttavia che non esiste un modello statico della globalizzazione stessa, bensì come un processo dove svolgono un ruolo fondamentale le strategie imprenditoriali tese a ingaggiare e prevenire il conflitto sociale, e di classe, nonché trovare una risposta, flessibile e in divenire, a una crisi del capitalismo che ha preso l’avvio nei, ormai lontani, anni Settanta del Novecento.

Ricercatore presso la Univerity of London e autore di un libro dove prefigura una società postlavorista (Inventing the Future: Postcapitalism and a World Without Work, scritto con Alex William) e di alcuni saggi sull’accelerazionismo» – in Italia ne è stato pubblicato uno nel volume Gli algoritmi del capitale (ombre corte) -, Srnicek si propone in questo saggio di illustrare le caratteristiche di un capitalismo globale e dove lo stato-nazione serve tutt’al più a garantire la deregolamentazione del mercato del lavoro, la libertà di movimento dei capitali e a definire le norme affinché la vita sociale sia compatibile con il regime di accumulazione capitalistico.

Il saggio fornisce elementi analitici, approfondimenti sulle diverse tipologie di piattaforma» e business model che scandiscono il platform capitalism. La scelta di una consolidata datazione storica dello sviluppo capitalismo – la crisi degli anni Settanta dovuta a un surplus di capacità produttiva e la conseguente sovrapproduzione, la liberalizzazione della circolazione dei capitali, la leva usata sui tassi d’interesse, la deregolamentazione del mercato del lavoro e un epocale processo di decentramento produttivo, lo tsunami di investimenti per la ricerca e sviluppo propedeutico alla rivoluzione del silicio» – serve per leggere lo sviluppo capitalistico in base a una logica sistemica» esterna alle relazioni sociali e i conflitti di classe, geopolitici che hanno caratterizzato gli anni del neoliberismo. Ed è questa logica sistemica che dà forma alla globalizzazione e alla sua infrastruttura tecnologica, la Rete.

La narrazione di Srnicek abbandona a questo punto i sentieri già aperti e battuti dalla tradizione keynesiana-marxista per affrontare elementi ritenuti inediti dell’attività economica: forme di impresa a rete dalle medie dimensioni che generano però alti profitti e che occupano il centro della scena globale produttiva.

Già perché il modello di imprese emergente è quello definito, secondo l’autore, dalla Nike: accentramento della gestione di ideazione, progettazione e decentramento radicale di tutte le attività a basso contenuto di conoscenza (in questo caso torna utile la distinzione tra dati e conoscenza, spesso ignorata dagli agit-prop del capitalismo delle piattaforme).

Ma quello che fa davvero la differenza è che i dati sono ormai diventati le materie prime privilegiate nello sviluppo capitalistico. E che la cosiddetta digital economy è trasversale, cioè coinvolge tutte le attività produttive. Considerando la tassonomia delle espressioni usate per indicarla – sharing economy, app economy, gig economy – una convenzione che qualifica questo o quell’aspetto dell’economia digitale, la tesi di Srnicek è che il platform capitalism è il modello emergente e vincente di questo giro di boa del capitalismo. Ogni impresa investe infatti in tecnologia e software, così come è connessa alla rete per rendere efficiente il coordinamento delle diverse fasi produttive, disperse geograficamente su regioni non sempre vicine, producendo così dati, cioè materia prima per se stesse e per altre imprese.

La scala globale delle piattaforme è dovuta all’obiettivo di accrescere, in maniera esponenziale, la massa di dati da elaborare, impacchettare, vendere ad altre aziende per i loro affari, sia che siano vendita di spazi pubblicitari o servizi.

Interessante è la distinzione introdotta per evidenziare diverse tipologie di piattaforma. C’è l’advertising platform (vendita di spazi pubblicitari: qui i padroni sono Google e Facebook), la cloud platform, cioè i proprietari di hardware e software usati da altre imprese, l’industrial platforms (che fornisce la tecnologie e il software affinché altre aziende possano ottimizzare i propri processi organizzativi e produttivi), le product platforms (i loro profitti derivano dall’uso di altre piattaforme, che trasformano i loro prodotti in servizi usati da imprese), le lean platforms (quei servizi come Airb&b e Uber).

Tutte queste tipologie più dati accumulano più potere esercitano sul mercato di loro competenza, garantendo così i propri margini di competività verso altre imprese. Ma la vocazione globalista» è data da altri motivi triviali: l’evasione delle tasse, facendo leva sulle differenti legislazioni e sulla moltiplicazione di regioni tax free per attrarre investimenti. La creazione di monopoli è quindi la logica conseguenza di questo tipo di capitalismo, nonostante le retoriche dominanti sul libero mercato e la concorrenza come sale di una buona economia.

In un milieu di capitale di ventura, sviluppo di software che attingono a ricerche sull’Intelligenza artificiale, lavoro precario e deregolamentato, le piattaforme sono inoltre imprese con pochi dipendenti, ma che attivano ampi indotti di piccole imprese che sviluppano app. Il nodo della crescita senza lavoro trova soluzione in questa dimensione sistemica» del capitalismo delle piattaforme.

L’altro elemento colto da Srnicek è il legame tra tecnologie della sorveglianza e accumulo dei dati. Più sorveglianza c’è, più dati possono essere tratti dai comportamenti dei singoli, attivando procedure automatizzate di profilazione» che può essere successivamente venduta o per sviluppare strategie di pubblicità mirate. In questo caso, sarebbe però opportuna la formazione di un complesso militare-digitale, visto che tanto i militari che le imprese private raccolgono, estraggono» dati.

Pochi, invece, i riferimenti a su come sia cambiato il lavoro. Srnicek insiste sul fatto che il capitalismo delle piattaforme prevede una crescita senza lavoro, ma il discorso andrebbe meglio articolato. Da una parte ogni impresa di questo tipo dà forma a veri e propri bacini di forza lavoro che contemplano diverse forme contrattuali, specializzazione, appartenenza etnica e di genere e dove le imprese attingono ogni volta che ne hanno bisogno. Da questo punto di vista sarebbe corretto parlare che il lavoro vivo viene gestito tutto come un esercito industriale di riserva, eccetto per alcune mansioni ritenute strategiche, determinando la convergenza di interessi tra il core labour e le imprese (da questo punto di vista Silicon Valley è paradigmatica della difficoltà, se non impossibilità di pensare i knowledge worker come soggetto centrale di un rinnovato conflitto di classe).

Il caso noto dei Mechanical Turk di Amazon è qui significativo dell’uso di lavoro intermittente e con salari spesso sotto al di sotto della soglia di povertà.

Ma questo non è l’oggetto del libro. Un limite certo, ma anche un punto di forza nel descrivere e mettere a tema teorico e politico il platform capitalism come forma emergente di quella globalizzazione che tutti considerano morta ma che fa della crisi, e della sua flessibile gestione, un elemento dinamico. Per le imprese, certo non per il lavoro vivo, che vede moltiplicarsi dispositivi, norme, regole di comportamento e una riduzione progressiva del suo salario.

Huffington Post, 13 febbraio 2017

A soli due giorni dal voto del Parlamento Europeo sul Ceta, l'accordo di libero scambio tra Canada e Ue, la maggioranza degli eurodeputati sembra non aver ancora letto il testo. In molti tentano di rassicurare le migliaia di persone che, insieme a noi della Campagna Stop TTIP Italia, stanno scrivendo e telefonando ai loro uffici, con la richiesta di respingere un trattato dai gravi impatti sociali e ambientali.

Le 1600 pagine del Ceta, infatti, sono dense di concreti pericoli per la salute dei cittadini e per l'ambiente. Come ha denunciato il parlamentare europeo Dario Tamburrano, il rischio di ingresso di Ogm e pesticidi attualmente vietati è non solo possibile, ma altamente probabile, così come l'importazione di prodotti derivati da animali trattati con ormoni della crescita.

Più volte la Commissione Europea ha tentato di smentire con dichiarazioni nette questi rischi. Il ruolo del pompiere, in Italia, lo ha svolto il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda. Ma le rassicurazioni di Roma e Bruxelles non trovano riscontro sul testo consolidato del Ceta, che anzi le priva di ogni fondamento.

È sufficiente leggere l'allegato 5-D, che traccia le linee guida per il riconoscimento di equivalenza delle misure sanitarie e fitosanitarie nei due Paesi. Stando al Ceta, è possibile ottenere il mutuo riconoscimento di un prodotto - e quindi evitargli nuovi controlli nel Paese in cui verrà venduto - se si è in grado di dimostrarne "oggettivamente" la sostanziale equivalenza con quelli commercializzati dalla controparte. La sostanziale equivalenza si valuta in base ad una serie di criteri o linee guida. Ma il testo del Ceta non le ha mai definite.

Quel paragrafo cruciale, sulla determinazione e il riconoscimento dell'equivalenza, è lungo mezza riga e dice così: "Saranno concordate in un secondo momento".

Il Ceta fallisce clamorosamente nel tutelare la salute dei cittadini e dell'ambiente. Invece di vietare chiaramente l'ingresso di alimenti geneticamente modificati e sostanze chimiche tossiche, spalanca le porte a una deregolamentazione violenta e irreversibile. Questo accordo contiene espressioni vaghe e pericolosissime, e potrà essere implementato anche dopo la ratifica dall'organismo di cooperazione regolatoria, un gruppo di tecnici il cui operato non è soggetto ad alcun controllo pubblico. Tutto questo è inaccettabile, il Parlamento Europeo non può mettere la testa dei cittadini sotto la scure del grande business. Gli eurodeputati italiani devono respingere il Ceta e rispettare le richieste della società civile.

Riferimenti

Sull'argomento vedi in particolare, su eddyburg, Cos'è il CETA. l'articolo di Marco Bersani CETA e TTIP contro i serizi pubblici, l'intervista a Colin Couch Il TTIP trasferisce il potere alle multinazionali-trasferisce-il-potere-alle.html, l'articolo di Monica De Sisto TTIP le nostre democrazie restano a rschio, e numerosi altri digitande TTIP oppure CETA nel "cerca in alto a destra du ogni pagina

Il Fatto Quotidiano, blog "Economia occulta", 29 gennaio 2017

Nessuno poteva immaginare che alzare i muri, quelli legali che bloccano il movimento delle persone e delle merci, fosse così facile nel XXI secolo. In appena una settimana Donald Trump ha rovesciato completamente la politica del suo predecessore in relazione a questi due temi. E’ la fine della globalizzazione? Molti se lo chiedono. In un certo senso la risposta è sì, ma non perché il 45esimo presidente degli Stati Uniti ha con un colpo di penna riportato l’America all’isolazionismo dell’inizio del secolo scorso; piuttosto i motivi del ritorno alle mode degli -ismi che chiudono: nazionalismo, protezionismo, populismo ecc. è da attribuire all’eccessivo ottimismo che per decenni ha caratterizzato l’analisi di un fenomeno vecchio come il mondo, la globalizzazione, che sempre invecchiando diventa incontrollabile. Ed ecco perché oggi fa paura quello che tre decenni fa sembrava una conquista storica.

Ironicamente, all’inizio del secolo, quando si brindava quotidianamente alla globalizzazione, fu la politica della paura americana a convincere gran parte degli europei a seguire George W. Bush e Tony Blair in una guerra illegale e scellerata in Iraq. I motivi erano menzogne ma anche allora imperversavano le fake news, le notizie false. E così è stato gettato il seme del caos politico e dell’anarchia che oggi regna in molte regioni del mondo. E naturalmente queste sono tutte musulmane.

Come in un film di fantascienza dove passato, presente e futuro si intersecano, questa settimana, la paura del terrorista islamico, sempre lui che dal quel tragico 11 settembre influenza la politica estera di mezzo mondo, è stata presentata come giustificazione dell’ordine esecutivo “Protecting the Nation From Foreign Terrorist Entry Into The United States” con il quale si blocca temporaneamente l’ingresso a cittadini di alcune nazioni: Siria, Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan e Yemen. Il coro di voci contrarie ha fatto un boato che abbiamo sentito tutti. Ma Trump non è l’unico che sta facendo marcia indietro dentro il villaggio globale cancellando gli accordi del passato, è solo l’unico che suscita i lamenti del coro greco globale.

In Europa il problema dei migranti, e di come bloccarli non solo è all’ordine del giorno ma spesso diventa uno strumento politico nelle riaccese tensioni geopolitiche tra paesi limitrofi ad esempio tra la Grecia e la Turchia. Questa settimana la Corte Suprema greca ha bloccato l’estradizione di otto militari turchi accusati da Ankara di aver partecipato al fallito colpo di Stato del 15 luglio scorso. Il motivo: se rimpatriati potrebbero essere uccisi. I militari erano atterrati ad Alexandroupolis il giorno dopo con un elicottero ed avevano chiesto asilo politico che ancora non gli è stato concesso.

Secondo il regime turco motivi politici di ostilità nei confronti del governo sono alla base della decisione presa dalla Corte Suprema. Tutto ciò mette a repentaglio l’accordo sulle migrazioni firmato dall’Unione Europea e dalla Turchia secondo cui chi arriva in Grecia dalla Turchia viene automaticamente rimandato indietro.

La politica di riammissione dei clandestini e dei migranti in Turchia è il muro europeo nei loro confronti. In cambio, la Turchia dovrebbe ricevere aiuti finanziari, l’esenzione dal visto per tutti i cittadini turchi che vogliono entrare in Europa e un’accelerazione dei negoziati per far entrare la Turchia nell’Unione europea. Turchia e Grecia hanno anche un accordo bilaterale sulla riammissione in Turchia dei clandestini.

Ankara ha detto chiaramente che sta considerando l’annullamento di questo accordo. Se così fosse la Grecia e l’Europa si ritroverebbero di fronte a ciò che è accaduto nel 2015, un esodo di migranti massiccio. A quel punto è molto probabile che si dovrà ricorrere a nuovi stratagemmi, e cioè alzare nuovi muri legali insieme a quelli veri, per bloccarne l’ingresso. Ma non basterà una firma per farlo!

il manifesto, 17 gennaio 2017

Otto super miliardari detengono la stessa ricchezza netta (426 miliardi di dollari) di metà della popolazione più povera del mondo, vale a dire 3,6 miliardi di persone. Il dato, tragico, viene dall’ultimo rapporto dell’Oxfam – «Un’economia per il 99%» – diffuso alla vigilia del Forum economico mondiale di Davos. La forbice tra ricchi e poveri aumenta ogni anno anziché venire corretta al ribasso, e il fenomeno è sempre più preoccupante visto che una grossa fetta della popolazione mondiale (circa un decimo) soffre la fame ed è costretta a sopravvivere con meno di 2 dollari al giorno.

Ma dall’altro lato ci sono gli stra-ricchi, gli sfacciatamente ricchi, e nei prossimi 25 anni potremo sperimentare il brivido di conoscere addirittura un trillionaire («trilionario»): possiederà cioè più di 1000 miliardi di dollari (oggi i primi otto paperoni sono tutti sotto i 100 miliardi). Per avere un’idea del significato – spiega Oxfam – bisogna pensare che per consumare un trilione di dollari è necessario spendere 1 milione di dollari al giorno per 2.738 anni.

Le identità degli uomini più ricchi del mondo (tutti e otto maschi, tra l’altro) sono ovviamente già note: guida la classifica Bill Gates, fondatore di Microsoft, con 75 miliardi di dollari di patrimonio personale. Al secondo posto troviamo lo spagnolo Amancio Ortega, fondatore e proprietario della catena Zara (67 miliardi). Seguono il finanziere Usa Warren Buffett (60,8 miliardi), Carlos Slim (industriale messicano delle telecomunicazioni) con 50 miliardi, Jeff Bezos (fondatore di Amazon) con 45,2 miliardi, Mark Zuckerberg di Facebook con 44,6 miliardi. In fondo alla graduatoria (in fondo si fa per dire) troviamo Larry Ellison (Oracle) con 43,6 miliardi e Michael Bloomberg (magnate dei media) con 40 miliardi di dollari.

E in Italia? Non sfiguriamo di certo in quanto ad ampiezza della forbice tra ricchi e poveri: nel 2016 il patrimonio dei primi sette dei 151 miliardari italiani della lista Forbes equivaleva alla ricchezza netta detenuta dal 30% più povero della popolazione (ovvero 80 miliardi di euro). In sette hanno cioè una ricchezza equivalente a quella in mano ai 20 milioni di italiani più poveri.

I sette nomi di nostri concittadini che leggiamo nella lista della rivista Forbes sono: Rosa Anna Magno Garavoglia (recentemente scomparsa) del gruppo Campari; lo stilista Giorgio Armani; Gianfelice Rocca; Silvio Berlusconi; Giuseppe De Longhi; Augusto e Giorgio Perfetti.

Una situazione che, come abbiamo già detto, non è stazionaria, né in miglioramento, ma che al contrario si aggrava ogni anno: sette persone su dieci, infatti, vivono in paesi dove la disuguaglianza è cresciuta negli ultimi 30 anni. Tra il 1988 e il 2011 il reddito medio del 10% più povero è aumentato di 65 dollari, meno di 3 dollari l’anno, mentre quello dell’1% più ricco di 11.800 dollari, vale a dire 182 volte tanto.

Le disuguaglianze anche in Italia sono feroci, e la sproporzione non si nota solo rispetto ai più poveri, ma anche rispetto al ceto medio. Il patrimonio dell’1% più ricco degli italiani (in possesso oggi del 25% della ricchezza nazionale netta) è oltre 30 volte quello del 30% più povero dei nostri connazionali e 415 volte quello detenuto dal 20% più povero.

Nel 2016 la distribuzione della ricchezza nazionale netta (il cui ammontare complessivo si è attestato, in valori nominali, a 9.973 miliardi di dollari) vedeva il 20% più ricco degli italiani detenere poco più del 69% della ricchezza nazionale, il successivo 20% (quarto quintile) controllare il 17,6% della ricchezza, lasciando al 60% più povero dei nostri concittadini appena il 13,3% di ricchezza nazionale. Il top-10% della popolazione italiana possiede oggi oltre 7 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.

Ma come fanno le multinazionali – e i loro proprietari e dirigenti – ad arricchirsi, allargando peraltro la forbice con i cittadini più poveri? La ricetta, spiega Oxfam, è un mix di elusione fiscale, riduzione dei salari dei lavoratori e dei prezzi pagati ai produttori: il tutto, condito con la finanziarizzazione, disinvestendo nell’industria.

L’organizzazione ha raccolto testimonianze di donne impiegate in fabbriche di abbigliamento che lavorano 12 ore al giorno per 6 giorni a settimana e lottano per vivere con una paga di 1 dollaro l’ora. Producono abiti per alcune delle più grandi marche della moda, i cui amministratori delegati sono tra i più pagati al mondo.

E non è un caso se spesso le fasce di reddito più deboli le troviamo affollate di donne: la disuguaglianza colpisce soprattutto loro, e secondo l’Oxfam di questo passo ci vorranno 170 anni perché una donna raggiunga gli stessi livelli retributivi di un uomo.

«Rabbia e scontento per una così grande disuguaglianza fanno già registrare contraccolpi – conclude l’organizzazione non governativa – Da più parti analisti e commentatori rilevano che una delle cause della vittoria di Trump negli Usa, o della Brexit, sia proprio il crescente divario tra ricchi e poveri».

il manifesto, 6 gennaio 2017 (p.d.)

In un paese prevalentemente a tradizione e trazione agricola come il Myanmar, la terra significa ricchezza, vita, cibo, legname, casa, tutto. La ricchezza principale per molte delle popolazioni che vivono nel paese è proprio dovuta alla terra. In particolare i Rohingya, la maggioranza dei quali vive al di sotto delle condizioni minime di sussistenza.
Il problema è che nei loro confronti è in atto da tempo una guerra sotterranea che mira proprio a espropriarli delle loro terre senza che in cambio possano avere alcuna compensazione, né monetaria, né legata a un eventuale impiego di lavoro. Dunque, al di là delle questioni religiose è necessario tenere conto di interessi economici che si celano dietro la loro persecuzione e terribile esistenza. Saskia Sassen sul Guardian del 4 gennaio in un articolo intitolato «La persecuzione dei Rohingya è causata da motivazioni economiche, oltre che religiose?» si è posto proprio questo problema. La verità è che da tempo, sia la giunta militare quanto il nuovo corso «democratico» del paese, hanno puntato sul land grabbing come motore della propria economia per favorire le industrie minerarie, la raccolta di risorse, di legname e per sviluppare l’industria turistica.

Se negli anni precedenti questo era un processo completamente controllato dai militari, dal 2012 grazie alla nuova legge sulla terra, il paese ha aperto la possibilità di acquisire terre anche a investitori internazionali. Come scrive Sassen sul Guardian, «Gli ultimi due decenni hanno visto un massiccio aumento in tutto il mondo di acquisizioni societarie di terreni per l’estrazione, il legname, l’agricoltura e l’acqua. Nel caso del Myanmar, i militari hanno espropriato vaste distese di terreno da piccoli proprietari fin dal 1990, senza alcuna compensazione, ma utilizzando le minacce contro eventuali tentativi di reazione. Questa forma di land grabbing è continuata attraverso i decenni, ma ha ampliato enormemente il proprio giro d’affari negli ultimi anni. La terra assegnata ai grandi progetti è aumentata del 170% tra il 2010 e il 2013. E nel 2012 la legge che disciplina la terra è stata modificato per favorire le grandi acquisizioni societarie».

Secondo i dati elaborati da organizzazioni che si occupano di analizzare i processi di land grabbing in Myanmar, il governo birmano, di recente, avrebbe stanziato 1,268,077 ettari proprio nella zona occidentale del paese, quella abitata dai Rohingya, per lo «sviluppo rurale aziendale»; questo – scrive Sassen – «è un bel salto rispetto alla prima ripartizione formale effettuata nel 2012, per appena 7.000 ettari».

Milioni di persone, quindi, hanno subito una vera e propria persecuzione, costrette a fuggire dalla loro terra, non solo per questioni religiose, anzi. Proprio l’aspetto religioso sembra una sorta di specchietto per le allodole per nascondere una trasformazione territoriale che il governo di Yangoon forse nasconde ai propri cittadini. E responsabili di questi processi sono senza dubbio anche altri paesi ben più avanzati per quanto riguarda il livello generale di vita. Basti pensare che il Myanmar è stretto tra India e Cina, due giganti mondiali e non solo regionali. Paesi ingordi e bisognosi di risorse.

Proprio Pechino, di recente, aveva ingaggiato un confronto con la giunta militare per la realizzazione di una diga, bloccata poi dalle proteste della popolazione locale. Ma evidentemente si trattava di un momento politico particolare, con il cambio del governo e l’arrivo in pompa magna di Aung San Suu Kyi e la sua volontà di aprirsi di più all’Occidente. Rimane il fatto che l’opacità dell’esecutivo è ancora lì, così come le politiche di land grabbing.

«È nella persistente presbiopia di governo e Parlamento che si annidano le cause sia del populismo e del disinteresse per un bene comune che appare troppo spesso il privilegio di altri». la Repubblica, 29 dicembre 2016 (c.m.c.)

Ci sono molte buone ragioni perché lo Stato intervenga a sostegno delle banche. Accanto alla protezione dei piccoli risparmiatori ingannati da impiegati senza scrupoli e soprattutto da amministratori non particolarmente competenti, occorre anche evitare un effetto domino sull’intero sistema creditizio italiano, con conseguenze devastanti sulla tenuta dell’economia del Paese. Anzi, come è stato osservato da più parti, nel caso Monte dei Paschi l’intervento è stato troppo tardivo e preceduto da decisioni pasticciate e inefficaci, che hanno fatto ulteriormente alzare il prezzo del salvataggio.

In questa vicenda rimane tuttavia lo sconcerto per l’enorme scarto che c’è tra i fondi stanziati per questo e precedenti salvataggi più o meno riusciti, uniti alla inefficacia dei controlli e alla incompetenza degli “esperti, e l’estrema riluttanza con cui si procede nel campo delle politiche sociali, che pure dovrebbero essere considerate una forma indispensabile di investimento (in capitale umano e sociale). Che si tratti di nidi per la prima infanzia, della diffusione delle scuole a tempo pieno soprattutto nelle aree più povere ove oggi sono quasi assenti, dei servizi per le persone non autosufficienti o del contrasto alla povertà, il refrain ripetuto è che ci sono le norme sull’austerity da rispettare e che i fondi necessari possono solo derivare da risparmi e tagli.

Sono la prima a dire che occorre eliminare gli sprechi e la frammentazione nelle politiche sociali, cui lo stesso governo Renzi ha contribuito con la sua politica dei bonus, non in nome del risparmio, ma dell’equità e dell’efficacia. Tuttavia razionalizzare non basta se le risorse di partenza sono inadeguate rispetto al bisogno.

Non si può non segnalare l’enormità della differenza tra i 5 miliardi e rotti (sui 20 complessivi del fondo salva banche) destinati a salvaguardare circa quarantamila piccoli risparmiatori di Mps a fronte del miliardo circa stanziato in legge di Stabilità per l’istituzione di un Reddito di inclusione (Rei) per chi si trova in povertà assoluta, un settimo di quanto sarebbe necessario per portare sopra la soglia della povertà assoluta il milione e 582 mila famiglie (4 milioni e 598 mila persone) che attualmente ne sono al di sotto.

L’esiguità delle risorse messe a disposizione a sua volta motiva l’introduzione di condizionalità talvolta assurde e controlli sui beneficiari ben lontani da quelli esercitati sui responsabili dei disastri bancari e non, i cui costi pure gravano sulla collettività. Con il risultato non solo di ledere la dignità dei beneficiari, ma di escludere molti che pure avrebbero bisogno di sostegno. È un rischio già visibile nell’antesignano del Rei, il Sia (Sostegno di inclusione attiva) che da settembre è stato esteso a tutti i Comuni.

Non basta, infatti, accanto a una soglia di reddito più bassa della povertà assoluta, il requisito della presenza in famiglia di almeno un figlio minore, o di una donna incinta, che esclude in partenza, a parità di reddito, chi non presenta queste caratteristiche. Un complicato sistema di punteggi discrimina ulteriormente tra i potenziali beneficiari, per ridurre la quota degli “aventi diritto”.

Per altro, c’è il rischio che neppure questo embrione di reddito minimo per i poveri veda la luce, dato che la legge delega che dovrebbe istituire il Rei è stata approvata dalla Camera in luglio, ma è da allora in attesa di approvazione del Senato (che non l’ha ancora calendarizzata) e non è stato ancora predisposto il piano nazionale contro la povertà di cui il Rei è solo un — importante — tassello.

Non vi è, per ora, alcun segnale che governo e Parlamento abbiano tra le priorità quella di concludere l’iter che porterebbe finalmente l’Italia ad avere tra i propri strumenti di politica sociale un parziale sostegno al reddito per chi si trova in povertà. È una preoccupazione condivisa anche dall’Alleanza contro la povertà, che ha pubblicato un appello a Parlamento e governo perché l’instabilità politica non venga fatta pagare ai più poveri.

Eppure, anche lasciando da parte le questioni di equità, lungi dall’essere spesa improduttiva, l’introduzione del Rei costituirebbe un investimento dagli effetti positivi sull’economia, dato che si tradurrebbe in aumento diretto dei consumi. È anche, se non soprattutto, nella persistente presbiopia di governo e Parlamento a sfavore di chi è in difficoltà nella vita quotidiana che si annidano le cause sia del populismo sia della disaffezione per la partecipazione politica e del disinteresse per un bene comune che appare troppo spesso il privilegio di altri.

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