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Sottrarre l'uso del suolo alle esigenze elementari (dall'alimentazione all'acqua, dall'abitazione alla riserva per gli usi futuri) delle comunità che lo abitano, è diventato in vaste regioni del sud del mondo, un ulteriore strumento di sfruttamento degli ultimi e dei più fragili. Il Land Matrix, un osservatorio indipendente per monitorare il land grabbing registra che al momento sono state concluse 557 transazioni, per un totale di 16 milioni di ettari (più o meno la metà della superficie dell’Italia) e altre, riguardanti circa 10 milioni di ettari, sono in corso. Questo fenomeno provoca l’espropriazione forzata e conseguentemente l'impoverimento e l'annientamento di comunità locali, la cui sopravvivenza è strettamente legata all'accesso a queste terre.

Fonte: L'immagine è stata tratta dall'articolo "Land grabbing, il furto delle terre" di Fabrizio Floris pubblicato sul Blog "Nero su Bianco" di Africa, la rivista del continente vero.

La città futura, 5 maggio 2019. Con il Decreto Emergenze un passo ulteriore per convertire l'agricoltura da attività per soddisfare bisogni umani a business nelle mani di sempre meno aziende, esposto a gestioni mafiose, più coltivazioni intensive e più meccanizzazione. Ma la chiamano «bioeconomia».

Qui il link all'articolo.

Il decreto legge sulle emergenze in agricoltura, approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 marzo scorso, contiene disposizioni “urgenti in materia di rilancio dei settori agricoli in crisi e di sostegno alle imprese agricole colpite da eventi atmosferici avversi di carattere eccezionale”. Con questo testo vengono adottate norme eccezionali per tre emergenze: latte ovino in Sardegna, Xylella, mutui bancari e tre settori (latte, olio di oliva, agrumi). Il decreto attende approvazione al Senato, discussione in calendario la settimana prossima.

Nell'ultimo rapporto Oxfam "Public good or private wealth?" è illustrato come nel suo sviluppo più recente il sistema capitalistico accresce le diseguaglianze e prosegue nel privilegiare i già ricchi e a colpire fino alla disumanità le persone e le condizioni economiche e sociali più deboli, in primis le donne. Il sistema fiscale lungi dal ri-equilibrare le diseguaglianze, invece le accresce.

L'obiettivo di questo rapporto è quello di mettere in evidenza l'ineguagliabile potere che servizi pubblici universali come quelli per l'istruzione e la salute, così come la difesa dei diritti, potrebbero avere nell'affrontare la povertà e ridurre le disuguaglianze.
Il rapporto contiene una sintesi e una serie di capitoli in cui analisi e raccomandazioni sono invece approfondite. Oltre alle diseguaglianze sociali ed economiche mette in evidenza come progressivamente "i Paesi in cui Oxfam lavora eliminano gli spazi di libera espressione per icittadini e sopprimono la libertà di parola. CIVICUS, un’alleanza che si adopera per ilrafforzamento del ruolo dei cittadini, rileva che in oltre 100 Paesi le libertà civili sonoseriamente minacciate".

Del rapporto è stata redatta una versione in italiano "Ricompensare il lavoro, non la ricchezza" che traduce in parte i contenuti di quella originale.

Nell'edizione originale del rapporto, ma non ripresa nell'edizione italiana e né nei media, un capitolo è dedicato alla minaccia che il debito pubblico esercita sulle politiche e scelte di bilancio dei paesi debitori, in particolare quelli dell'Africa Sub Sahariana, ma non solo.
Eddyburg ha più volte affrontato questo tema e l'importanza di uscire dalla trappola del debito, che costringe i paesi debitori a ridurre le spese sociali e ad aumentare la dipendenza dai paesi creditori o dal sistema finanziario internazionale. Si legga ad introduzione del tema e dell'obiettivo di rompere la trappola del debito "Come decostruire l’ideologia del debito". Sulla situazione italiana si veda anche "Sveliamo il trucco del Grande Debito" e "Città libere dal debito: una giornata importante" di Marco Bersani, e il dibattito tra Edoardo Salzano e Roberto Camagni "Discutiamo del debito pubblico".

“I mercati ci chiedono le riforme per rilanciare lo sviluppo”. Quante volte abbiamo letto o sentito queste parole, ripetute ossessivamente nei giornali e nei programmi televisivi; si noti bene che non si chiedono “riforme”, ma “le riforme” per antonomasia, cioè quelle riforme che sono gradite all’establishment. Proviamo a tradurre queste parole magiche nel loro autentico significato, un esercizio non di parte, ma puramente ermeneutico.

La prima parola magica sono “i mercati”. Di quali “mercati” si tratta? Il mercato azionario, quello delle obbligazioni, dei futures, dei mutui sub-prime, delle materie prime, o cosa altro? Tutti riassunti nel termine “sistema dei mercati”, una parola neutra che, come ha scritto Luciano Gallino[1], ha sostituito il molto più esplicito, veridico, ma ormai impopolare, “capitalismo”. Cui deve essere aggiunta la qualifica di “finanziario”, ciò che lo rende radicalmente diverso da quello industriale e manifatturiero, i cui profitti non sono neanche lontanamente paragonabili a quanti ottenuti con strumenti speculativi.

La seconda parola magica sono “le riforme”, quelle che ci vengono chieste sia dai “mercati”, sia dall’ Unione Europea, a sua volta prona ai voleri dei “mercati” ben rappresentati al suo interno dall’immenso apparato burocratico e tecnocratico della Commissione e all’esterno dalle lobby delle multinazionali, potenti e aggressive. Le riforme, nell’accezione neoliberista, sono quelle che comprimono i salari e i diritti dei lavoratori. In questa linea, tutti gli ultimi nostri governi con un picco rappresentato dal Job Act di Renzi. Infine, la terza parola, è “lo sviluppo”, inteso come crescita del Pil, non del benessere, della qualità della vita e, si se può usare questa parola, della felicità dei cittadini. Un Pil che senza dubbio crescerà con il crollo del Ponte Morandi a Genova.

Tutte e tre le parole, che nella loro ripetizione hanno assunto lo status di verità assolute e quindi esenti da ogni ulteriore qualificazione, possono essere riassunte nel concetto di “neoliberismo”, un programma politico spacciato per il non intervento dello Stato negli affari economici; quando invece “l’introduzione del regime neoliberale ha comportato un ampio e permanente intervento statale, tra cui: la liberalizzazione dei mercati delle merci e dei capitali; la privatizzazione delle risorse e dei servizi sociali; la deregolamentazione del mercato e dei mercati finanziari in particolare; la riduzione dei diritti dei lavoratori (in primo luogo, il diritto alla contrattazione collettiva) e, più in generale, la repressione dell’attivismo sindacale; la riduzione delle imposte sui patrimoni e sul capitale, a scapito delle classi medie e dei lavoratori; lo smantellamento dei programmi sociali, e così via[2].

L’ideologia neoliberista cela in realtà un duro programma politico a sfavore del lavoro, e si traduce in Italia - date le peculiari caratteristiche di arretratezza della nostra imprenditoria e della soggiacente politica - nella quarta parola magica “gli investimenti”, quelli che dovrebbero rilanciare il Pil. Investimenti, non però nell’istruzione, nella ricerca, nella crescita di conoscenze e di capitale immateriale, bensì nel cemento, nelle grandi opere inutili, nelle infrastrutture distruttive dell’ambiente.

Vi è in tutto ciò una grave responsabilità del giornalismo nostrale nelle sue varie forme mediatiche.

Hanno ragione i giornalisti a lamentarsi degli improvvidi e sgangherati attacchi di rappresentanti del Movimento 5Stelle e, peggio ancora, di membri del governo. Ma quando si legge sulle pagine di La Repubblica “Noi non siamo un partito, non cerchiamo consenso, non riceviamo finanziamenti pubblici, ma stiamo in piedi grazie ai lettori… ecc.” viene da sorridere. La Repubblica non sarà un partito politico ma, insieme alle principali testate del paese, si fa parte politica quando supporta acriticamente gli interessi di un capitalismo che predilige mercati protetti e situazioni oligopolistiche (e con un particolare accanimento nella questione “grandi opere”, dove hanno voce quasi esclusivamente i pareri favorevoli). In questa linea l’esaltazione delle “madamine” che, organizzando la protesta pro Tav a Torino, diventano il simbolo di una borghesia ben pensante (ma poco informata) che vuole modernizzare il paese a colpi di infrastrutture.

Per non parlare delle edizioni locali. Chi è attivo nelle associazioni e nei comitati che lottano per un ambiente migliore e un territorio più ricco di “beni comuni”, vive ogni giorno questo “non giornalismo” fatto di di fake news: annunci spacciati come fatti compiuti, piste aeroportuali che dovrebbero essere inaugurate entro due anni dalla presentazione del progetto, balletti di stazioni o mini-stazioni sotterranee che vanno e vengono, il tutto digerito senza battere ciglio; amplificando ogni dichiarazione (pro grandi opere) di politici, amministratori e notabili ai più sconosciuti. Salvo, poi cambiare opinione, quando sembra che il vento tiri da qualche altra parte.

Diciamolo pure, in Italia, salvo rare eccezioni, non si fa giornalismo, quello vero, quello che va a scavare dietro i comunicati ufficiali e assume un ruolo di contropotere. Nel “non giornalismo” non contano i fatti, ma solo le opinioni. Non si dà voce al dissenso, ma solo a ciò che è gradito ai proprietari editori; sfiorando, spesso, il ridicolo per l’improntitudine di articoli che, riproducendo le veline che vengono dall’alto, non si curano neanche di correggere refusi ed errori madornali. Crollo di elettori e di lettori, un tema su cui politici e giornalisti dovrebbero riflettere.

Note

[1] Luciano Gallino, “Il denaro, il debito e la doppia crisi”, 2015

[2] Citazione dall’articolo “Tutto quello che sapete sul neoliberismo è sbagliato” di William Mitchell e Thomas Fazi, pubblicato su MicroMega, Nov. 2017).

Internazionale, 23 ottobre 2018. Persone in fuga, un lungo cammino e confini pericolosi: sanno che raggiunto il confine degli USA forse non potranno attraversare, Trump è in agguato. Possono essere arrestati e rispediti, ma non si arrendono perchè dietro lasciano solo violenza e povertà. (i.b.)



Migliaia di migranti provenienti da Honduras, El Salvador e Guatemala hanno formato una carovana in marcia verso gli Stati Uniti. Partiti il 13 ottobre, il 21 ottobre sono arrivati al confine con il Messico, hanno sfondato le barriere e sono entrati in territorio messicano.

Sono tremila, quattromila, seimila honduregni. Forse di più: nessuno può più contarli. Sul cammino si sono aggiunti alcuni guatemaltechi e salvadoregni. La settimana scorsa, in risposta a un messaggio lanciato sui social network, hanno deciso di lasciare tutto per formare una carovana partita da San Pedro Sula e diretta verso gli Stati Uniti.

Insieme formano un esercito in assetto di guerra. Marciano verso una terra promessa, una terra di mitica abbondanza dove c’è lavoro e sicurezza per tutti. Cantano inni, sventolano bandiere, gridano slogan. Credono nella forza della massa. “Si può fare.”

Ma sono allo stesso tempo un esercito allo sbando, sfinito, sconfitto, ostacolato su tutti i fronti, in cui ciascuno fugge per salvare l’ultima cosa che ha: la vita. È composto da umiliati, espulsi, scacciati che non possono tornare al loro luogo d’origine. Più che migranti, sono profughi. Le interviste che hanno rilasciato ai vari mezzi d’informazione rivelano le loro tragedie: nonne che camminano con le loro nipoti, persone sulla sedia a rotelle, adolescenti fuggiti da casa.

Mentre avanzano sotto il sole e la pioggia, dormendo nei rifugi o nelle strade di Città del Guatemala o Tecún Umán, mangiando ciò che gli abitanti gli offrono, parlano con i giornalisti che scrivono del loro tragico viaggio. Di solito i migranti cercano di passare inosservati. Perché nessuno sappia dove stanno andando o perché se ne stanno andando. Questa carovana è l’opposto: la fuga è anche un manifesto, una protesta. È ora di gridarlo in modo che tutti lo sappiano: non si può vivere in America Centrale se si è poveri.

Le reazioni dei leader politici del nord e del sud mostrano, ancora una volta, che vivono in una realtà parallela. Donald Trump è stato il più veloce a twittare minacce e sciocchezze. Ha minacciato il presidente dell’Honduras, Juan Orlando Hernández, di tagliare gli aiuti se non avesse riportato indietro la carovana. Ha minacciato Guatemala ed El Salvador usando gli stessi termini se avessero lasciato passare i profughi. Ovviamente, questo non ha avuto alcun effetto: non c’è modo di fermare quel serpente di persone. I timidi posti di blocco delle autorità del Guatemala e del Salvador sono stati immediatamente sopraffatti dal numero e dalla determinazione degli honduregni.

Miopia e malafede
Dopo le stesse minacce al Messico, Trump ha ricordato che sfruttare la paura nei confronti dei migranti è ancora la sua arma migliore per le prossime elezioni di metà mandato del 6 novembre negli Stati Uniti. Ha affermato che è il Partito democratico a guidare la carovana e che tra i suoi partecipanti ci sono molti criminali. Il vicepresidente, Mike Pence, ha seguito la corrente e twittato che il suo paese non tollererà questo aperto attacco alla sua sovranità. Miopia e malafede a cui siamo già abituati.

Ovviamente, non hanno menzionato le cause che spingono i migranti a lasciare l’America Centrale: la fame, la disoccupazione, la siccità, la violenza delle bande, la corruzione appoggiata dallo stesso governo Trump sia in Guatemala sia in Honduras. Né hanno parlato dei motivi che spingono i migranti verso gli Stati Uniti: un’economia fiorente, drogata dai tagli fiscali di Trump, che ha disperatamente bisogno di mano d’opera. Per fare un esempio, chi, se non i migranti centroamericani, ricostruirà i danni lasciati dagli uragani Michael e Florence?

Arreaga è nato e cresciuto in Guatemala prima di andare, a 18 anni, negli Stati Uniti, dove ha potuto intraprendere la sua carriera diplomatica. Il post, per la sua scarsa qualità e la sua strana inquadratura, ricorda quei video in cui un ostaggio è costretto a leggere una dichiarazione scritta dei suoi rapitori.

Migrante, figlio di immigrati, l’ambasciatore ha ribadito che chi attraversa illegalmente la frontiera sarà arrestato e deportato, che il confine è più sorvegliato che mai, che i migranti non riusciranno nel loro tentativo, che mettono le loro famiglie a rischio se insistono, che farebbero bene a tornare alle loro case. C’è qualcosa nel suo tono e nella ripetizione delle parole che ricordano una pessima pellicola di fantascienza.

L’ambasciatore assicura, senza ironia, che gli Stati Uniti stanno investendo centinaia di milioni di dollari nella creazione di nuove opportunità nei paesi dell’America Centrale. A chi sono indirizzate le sue parole? Chi spera di convincere? Pensa davvero che una persona minacciata dalle bande, o che ha di nuovo perso il suo raccolto, o che non riesce a trovare lavoro, tornerà indietro quando vedrà il suo messaggio? I migranti della carovana sono molto oltre questi discorsi e argomentazioni. Questa è una fuga. Sono oltre la disperazione.

Gli honduregni della carovana non possono tornare indietro. Lì li aspettano pallottole, minacce, fame e malattie. Sanno anche che le possibilità di arrivare sono minime, che le porte sono chiuse, che possono incappare nell’esercito come promesso da Trump, o che gli possono strappare i bambini dalle braccia. Più che un’opportunità, si aspettano un miracolo.

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano salvadoregno El Faro e tradotto da Stefania Mascetti per l'Internazionale, qui accessibile.

Le immagini sono tratte dal El faro.




effimera.org 23 ottobre 2018. La campagna mediatica sul debito è ideologica e politica, non di natura economica: l'Italia non si trova a rischio di insolvenza, la crescita del debito non è associata all’aumento della spesa pubblica, serve a favorire la rendita finanziaria e i più ricchi. Questi i veri beneficiari della finanziaria proposta dal governo. Con rif. (i.b.)


Fa scandalo la richiesta del governo italiano di portare il rapporto deficit/pil al 2,4% e così si alimenta una campagna mediatica – a destra come a sinistra – che ha in realtà il vero obiettivo di spianare la strada alla speculazione finanziaria. In base ai nudi dati economici, l’Italia non è affatto a rischio di insolvenza. All’elevato debito pubblico, infatti, fa da contraltare uno dei più bassi valori del debito delle famiglie e delle imprese. Se poi aggiungiamo il surplus commerciale (che è superiore allo stesso deficit pubblico del 2,4%), l’allarme lanciato è solo giustificabile sul piano politico e ideologico e non economico.

Dovrebbe invece fare scandalo che negli ultimi 25 anni sono state promosse politiche fiscali che hanno ridotto le imposte per le società di capitale e le aliquote sui redditi più alti, aumentato le aliquote sui redditi più bassi, ridotto fortemente la progressività, a vantaggio della rendita finanziarie e dei più ricchi. Tali misure hanno sottratto ingenti risorse al bilancio dello stato favorendo, insieme alla spese per interessi, l’aumento del debito pubblico.

Dovrebbe fare ancor più scandalo che a fronte di questa situazione, uno dei cavalli di battaglia di questo governo, sia la “flat tax”.

Due sono le principali accuse che la troika economica e le agenzie di rating (entrambe espressione degli interessi dell’oligarchia finanziaria internazionale) rivolgono alla proposta di legge di stabilità del governo italiano.

La prima ha a che fare con la scelta di portare al 2,4% il rapporto deficit/Pil, ben sopra al limite (1,6%) ufficiosamente pattuito dalle precedenti leggi di stabilità dei governi Renzi-Gentiloni (che, a fine 2017, è arrivato al 2,3% nel silenzio generale) ma ben al di sotto del limite ufficiale sancito dagli accordi del 1997 che è pari al 3%.

La seconda è che tale obiettivo, comunque, difficilmente potrà essere ottenuto perché le stime di crescita del Pil effettuate dal governo, a seguito della manovra economica (+0,5%), sono considerate sovrastimate.

In questa breve nota, ci limitiamo per il momento a discutere del primo punto.

La situazione debitoria europea

La fragilità economica di un paese è certamente legata anche al livello del suo indebitamento. Ma correttezza vuole che si faccia riferimento al debito complessivo di tutti gli agenti economici che operano nel sistema economico (non solo lo Stato, ma anche le famiglie, le imprese e le banche).

Se prendiamo in esame il debito complessivo in rapporto al Pil, abbiamo qualche sorpresa. Secondo una recente survey del McKinsey Global Institute, sulla base dei dati della Bank for International Settlements (Banca dei regolamenti internazionali) riferiti al 2017, il paese più indebitato al mondo risulta essere il Lussemburgo per un ammontare pari al 434% del Pil, seguito da Hong Kong (396%), terzo il Giappone (373%). Con riferimento alle nazioni europee, quelle più indebitate sono l’Irlanda e il Belgio (345%), seguite da Portogallo (322%), Francia (304%), Olanda e Grecia (entrambe al 294%), Norvegia, 287%, Gran Bretagna (281%), Svezia e Spagna (275%). L’Italia (265%) si colloca nelle retrovie, con un valore di poco superiore alla Danimarca, Finlandia, Svizzera, Austria e Germania.

Se disaggreghiamo tale dato, l’Italia ha il 151% di debito pubblico (seconda in Europa – dopo la Grecia, e terza al mondo, con il Giappone che detiene il primato di paese con lo Stato più indebitato: 214%). Ma si trova negli ultimi posti in classifica per debito delle famiglie (41%, contro il 127% della Svizzera, il 117% della Danimarca, il 107% dell’Olanda, il 102% della Norvegia, l’87% della Gran Bretagna). Meglio dell’Italia è solo la Polonia (36%). Con riferimento al debito delle imprese, anche in questo caso la situazione italiana è tra le più virtuose. Lussemburgo, Irlanda, Belgio, Norvegia, Svezia, Francia, Portogallo, Spagna presentano valori doppi rispetto all’Italia e solo Grecia e Germania si trovano in una situazione migliore (seppur di poco).

La solvibilità complessiva dell’Italia non può quindi essere messa in discussione, anche tenendo conto che la quota di debito pubblico detenuta da operatori economici italiani è oggi salita al 68,7%, grazie soprattutto all’incremento dal 5% al 16% effettuata dalla Banca d’Italia grazie al Quantitative Easing della Bce. Occorre notare che il 26% del debito pubblico italiano è, inoltre, detenuto da banche prevalentemente italiane e il 18% è invece detenuto da fondi finanziari e assicurativi, prevalentemente stranieri, quelli più interessati a avviare attività speculative. I piccoli risparmiatori ne detengono solo il 5%.

Per completezza d’analisi, alla situazione debitoria nazionale occorre aggiungere l’eventuale indebitamento estero. Come è noto, l’Italia è il secondo paese, dopo la Germania, a vantare il surplus della bilancia commerciale più elevato d’Europa. I dati relativi a fine 2017 (Fonte: Eurostat), ci dicono che l’avanzo commerciale italiano ha raggiunto la cifra di 47,5 miliardi (pari al 2,8% del Pil), derivante da un surplus di 8,3 miliardi con i paesi della UE e di 39,2 con quelli extra-UE [1].

Di fatto il surplus dei conti con l’estero sarebbe in grado di ripagare più che abbondantemente il deficit interno. La Germania ha maturato un surplus commerciale di 249 miliardi pari al 7,6% del Pil. Ricordiamo che all’interno del patto di stabilità europeo, oltre ai vincoli sul rapporto deficit/pil, occorre prendere in considerazione il limite massimo di avanzo commerciale di un paese membro, che non può superare il 6%. Di fatto, l’unico paese che del corso del 2017 ha compiuto un’infrazione al Patto di Stabilità è stata la Germania ed è prevedibile che tale limite del 6% verrà superato anche nel corso del 2018. E’ infatti da più di 5 anni che la Germania supera tale limite. Ma nessun commissario europeo sembra accorgersene.

Di converso, la Francia presenta un deficit commerciale di circa 80 miliardi e la Gran Bretagna addirittura di 176,2 miliardi.

Di fronte a questo quadro, l’accanimento contro il solo debito pubblico per contestare le scelte di politica economica non ha una ragione strettamente economica ma esclusivamente politica e ideologica. Si tratta di impedire che un paese membro possa adottare una politica espansiva basata sul deficit spending in grado, potenzialmente, di evitare lo smantellamento del welfare e la finanziarizzazione privata dei servizi sociali, a partire dalla sanità e dall’istruzione (visto che la previdenza è stata già di fatto finanziarizzata).

Ciò che è in gioco non è l’autonomia economica dell’Italia, come la retorica nazional-sovranista vorrebbe farci credere. Se anche ritornassero la lira o un’Europa di singoli stati sovrani sul piano monetario, la configurazione geopolitica internazionale basata sul confronto tra l’asse boreale Trump-Putin (che vedrebbero con favore la scomparsa dell’Europa) e l’asse australe Cina-India-Sud Africa-Brasile, renderebbero i singoli paesi europei ancor più deboli e in balia delle oligarchie economico-finanziarie.

A chi conviene il debito italiano?

Forse non tutti sanno che a partire dal 1992, con l’unica eccezione del 2009, il saldo primario del bilancio dello Stato (ovvero la differenza tra le entrate e le uscite complessive, al netto della spesa per interesse) è sempre stato abbondantemente positivo. In questi anni, dal 1992 al 2017, lo Stato ha prodotto un risparmio pari a 795 miliardi. Negli ultimi 25 anni, l’ammontare delle spese per interessi ha, invece, raggiunto una cifra pari a 2094 miliardi. Di conseguenza il debito pubblico italiano è cresciuto di 1.299 miliardi.

Appare quindi evidente che la principale causa dell’aumento del debito pubblico italiano dipende dalla spesa per interessi, la cui dinamica negli ultimi anni è stata sempre più condizionata dalla speculazione finanziaria.

Approfondiamo questo aspetto, utilizzando i dati del rapporto del Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi (CADTM) che verrà presentato alla stampa il prossimo 27 ottobre 2018, a Roma [2].

Tre sono state le fasi in cui l’Italia è stato oggetto di attacchi speculativi.

Il primo è il biennio 1992-93 con la crisi valutaria della lira, che ha portato, sul piano sociale, all’abolizione della scala mobile e alla draconiana manovra finanziaria del governo Amato. Nonostante questi interventi (aumento della pressione fiscali in senso non progressivo, smantellamento di parte del servizio pubblico che porterà alla riforma previdenziale del 1996 e alla privatizzazione dell’acqua, dell’energia, del trasporto e delle comunicazioni, riduzione del costo del lavoro e inizio della sua fase di precarizzazione), il rapporto debito pubblico è passato dal 101,6% del 1991 al 111,3% del 1993 e al 127,3% del 1994. Come ricordato è proprio nel 1992 che si realizzerà per la prima volta dagli anni Settanta un avanzo primario positivo che nell’arco del triennio ammonterà a 56,52 miliardi di euro. Di contro, la spesa per interessi ammontò a 303,27 miliardi (con un incremento del 62,7% rispetto al triennio precedente).

Il secondo attacco coincide con l’avvio della crisi dei subprime del 2007-8: il rapporto deficit/Pil passa dal 99,34% del 2007 al 112,2% del 2009, l’unico anno in cui si registra anche un disavanzo primario (al netto degli interessi), con il IV governo Berlusconi. La spesa per interessi risulta pari nel triennio a 229,2 miliardi di euro.

Occorre ricordare che l’entrata nell’euro aveva, invece, prodotto una diminuzione del rapporto debito/Pil dal 109,1% del 2000 al 105,9% del 2002, grazie soprattutto al calo dei tassi d’interesse.

Pochi anni dopo, arriva il terzo attacco, quello forse più pesante, con lo spread che nel 2011 arriva a quota 575. La crisi aveva portato alla caduta del governo Berlusconi e all’arrivo del governo Monti. L’attacco si fermò quando la Deutsche Bank, che aveva iniziato a febbraio del 2011 la vendita della quota di titoli di Stato in suo possesso per speculare sui derivati italiani, decise a novembre di quell’anno di ricominciare ad acquistarli di nuovo, dopo aver capitalizzato ingenti guadagni.

Nel 2011 e 2012, l’esborso dello Stato per la spese in interessi arriva a toccare i 160 miliardi.

Se sommiamo questi episodi, ricaviamo che la speculazione finanziaria è costata allo Stato italiano (e quindi a noi) la bellezza di 467,3 miliardi, ovvero il 20,6% dell’intero debito pubblico del 2017.

E’ una cifra che è andata a ingrassare la pancia delle multinazionali della finanza e delle banche e solo in minima parte i risparmiatori italiani, che detengono, come già abbiamo ricordato, solo il 5% del debito complessivo. A tale rendita occorre poi aggiungere le plusvalenze maturate sulla dinamica dei derivati sui titoli di stato, che, nel caso del 2011, hanno consentito guadagni di oltre il 500% in pochi mesi.

* * * * *

Analizziamo ora le entrate fiscali. Esse sono composte da tre grandi voci: le imposte dirette (pari nel 2016 al 35%), le imposte indirette (34%), i contributi sociali (31%).

Gli introiti delle imposte dirette derivano nel 2017 per il 58,1% dai redditi da lavoro (salari e pensioni), per il 21,7% dai redditi di impresa (partecipazioni e utili), per il 7,3% dai redditi da capitali (interessi e dividendi), per il 2,6% da redditi fondiari (affitto) e per il 7% da redditi patrimoniali [3]. Ciascuno di questi cespiti è soggetto a una tassazione separata. I redditi da lavori sono soggetti alla progressività delle aliquote. I redditi da imprese solo in parte. Ad esempio le società di capitali pagano un’Ires pari all’aliquota unica del 24%. Lo stesso vale per gli affitti (imposta unica del 21%), per gli interessi sui depositi bancari (26%) e sui titoli di stato (12,5%).

Ne consegue che chi gode di un reddito derivante non solo dal lavoro ma anche da altre attività (affitto, interessi, ecc,) vede ridursi la propria progressività in un contesto di elevati redditi cumulati, con un trattamento a lui/lei più favorevole.

Inoltre negli ultimi anni, le varie riforme fiscali hanno di gran lunga ridotto non solo la progressività delle aliquote sull’Irpef ma anche le aliquote uniche di alcuni redditi. E’ il caso dei redditi di impresa: fino al 1995 quelli realizzati da società di capitali erano tassati al 37%. Poi è cominciato un lento declino fino a raggiungere il 24% nel 2017 con il governo Renzi.

Quando fu introdotta l’Irpef come unica tassa sui redditi di lavoro e di persone nel 1974 (riforma Visentini), gli scaglioni di aliquote erano più di 20, con valori che partivano dal 10% (per i redditi più bassi) sino ad un massimo del 72% (per i redditi superiori ai 300.000 euro l’anno). A partire dalla prima riforma del 1983 sino all’ultima del 2007, tale ventaglio di aliquote è stato drasticamente ridotto sino alle 5 attuali: 23% per i redditi sino a 15 mila euro, 27% tra i 15 mila e i 28 mila, 38% tra i 28 mila e i 55 mila, 41% dai 55 mila ai 75 mila e 43% oltre i 75 mila. Non solo sono state diminuite le aliquote sui redditi più alti e aumentate quelle sui redditi più bassi ma anche la curva della progressività è diventata sempre più elastica, concentrandosi prevalentemente sui redditi medio-bassi, quelli dello scaglione di imponibili lordo (il netto è circa un terzo inferiore) tra i 28 mila e i 55 mila.

Ne è conseguito che:

“In virtù delle riforme fiscali operate dal 1983 al 2007, i super ricchi, quelli con redditi superiori a 600.000 euro, nel solo 2016 hanno goduto di un regalo fiscale pari a 1 miliardo di euro. Considerato che il loro numero non va oltre le 10.000 persone, ognuno di loro ha potuto accrescere il proprio patrimonio di 100.000 euro” [4].

Se si considera il mancato gettito dovuto alla ridotta progressività delle riforme fiscali e al mancato cumulo,

“otteniamo una perdita per lo Stato, nel [solo] 2116, di 8,3 miliardi di euro, pari al 4,5% del gettito Irpef” [5].

Applicando lo stesso calcolo agli ultimi 34 anni (dal 1974 ad oggi), il mancato gettito complessivo ammonta a 146 miliardi. Tale ammanco di entrate è stato colmato dall’emissione di titoli di Stato che, in virtù degli interessi composti, hanno prodotto un maggior debito pari a 295 miliardi, il 13% di tutto il debito accumulato. Un favore alle classi più ricche che è stato assai costoso per tutta la collettività!

Per una maggior completezza di analisi, dobbiamo anche aggiungere il fenomeno dell’evasione e dell’elusione fiscale, che, secondo le stime pubblicate nel maggio 2017, è stata per il 2014 di 110 miliardi di cui 11 evasi sotto forma di contributi sociali, 36 come IVA e 63 come imposte dirette.

Quali conclusioni?

La veloce e incompleta panoramica ci porta ad alcune preliminari conclusioni:

Note

[1] Occorre sottolineare che, in particolare, la posizione dell’Italia nei confronti della Germania è caratterizzata da esportazioni di beni intermedi e importazioni di beni strumentali ad alto valore aggiunto. Ciò si configura come un vincolo tecnologico che spiega il gap di produttività maturato nei confronti dei Paesi-core europei. Ringrazio Stefano Lucarelli per questa preziosa osservazione.

[2] Ringraziamo Attac e Marco Bersani per l’accesso ai dati.

[3] La somma non è pari al 100% perché mancano alcune voci minori del tutto marginali.

[4] Si veda qui

[5] Si veda qui

Tratto dalla pagina qui accessibile.

Riferimenti
In eddyburg abbiamo più volte affrontato la questione del debito pubblico, sostenendone anche la sua cancellazione. Si vedano gli articoli "Discutiamo sul debito pubblico" sulla proposta del Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi con i commenti di Roberto Camagni ed Edoardo Salzano e il "Debito pubblico. Si può non pagare quando è ingiusto. Lo si è fatto altre volte" di Susanna Kuby. Si segnala inoltre "Il tabù dell’annullamento del debito" di marco Bersani.



attac italia, 8 ottobre 2018. Resoconto sull'audit (indagini pubblica e indipendente) delle situazioni finanziarie e debitorie degli enti locali, come strategia per opporsi alla dominante narrativa sulla priorità dei vincoli finanziari. Con riferimenti. (m.p.r.)

É stata una giornata importante quella che si è svolta sabato 6 ottobre a Napoli.

Si sono riuniti, nel secondo incontro nazionale, tutti i comitati e le reti che hanno avviato nei propri territori percorsi di indagine (audit) pubblica e indipendente sulla situazione finanziaria e debitoria dei propri enti locali, al preciso scopo di mettere in discussione la narrazione dominante, che pone i vincoli finanziari come priorità sulla garanzia dei diritti fondamentali e la difesa dei beni comuni delle comunità locali.

Da Torino a Napoli, passando per Genova, Parma, Livorno e Roma, sono alcune decine i comitati che hanno concretamente avviato il lavoro di audit e altrettante sono le realtà in procinto di farlo. Tutti accomunati da un filo rosso: rompere la narrazione della trappola del debito significa interrompere l'automatismo per cui se da una parte si continua a dire “C'è il debito, non ci sono i soldi”, dall'altra se ne consegue “Se i soldi non ci sono, prima gli italiani!”. Mettere in discussione la premessa diviene assolutamente necessario per smascherare le conclusioni e, non a caso, la giornata si è aperta con un applauso di solidarietà a Domenico Lucano, in connessione diretta con la manifestazione nazionale antirazzista che nel medesimo giorno si sarebbe tenuta a Riace.

L'analisi affrontata ha rimesso al centro le comunità locali, oggi direttamente sotto attacco delle politiche liberiste e di austerità, al preciso scopo di metterle con le spalle al muro per favorire la messa sul mercato del patrimonio pubblico, dei beni comuni e dei servizi pubblici. Due dati rendono concreto l'attacco: a) quasi tutte le misure, imposte con il patto di stabilità e con il pareggio di bilancio, sono state scaricate sugli enti locali, nonostante il concorso di questi ultimi al debito pubblico nazionale non superi l'1,8%; b) nonostante i Comuni, nel periodo 2010-2016, abbiano aumentato le imposte locali per 7,8 miliardi, le risorse complessive di cui disponevano nel 2016 erano di 5,6 miliardi inferiori a quelle detenute nel 2010.

Siamo di conseguenza di fronte ad un gigantesco processo di espropriazione delle comunità locali, giunto al punto di mettere seriamente in discussione la loro funzione pubblica e sociale. Tre gruppi di lavoro hanno scandito il confronto della giornata: sul dissesto degli enti locali(oltre 800 i Comuni in acuta crisi finanziaria negli ultimi 30 anni); sui derivati (ancor oggi, dieci anni dopo il divieto, sono 174 i Comuni con in pancia i titoli tossici) e sulla finanza locale(scomparsa, dopo la privatizzazione nel 2003 di Cassa Depositi e Prestiti).

E molto concrete sono state le proposte uscite dal confronto collettivo:
a) sul versante del dissesto, aprire una battaglia comune per modificare la legge vigente che scarica sui cittadini le sanzioni relative, proponendo l'istituzione, mutuata dalla normativa privatistica, della figura degli enti locali in “sovraindebitamento”, che ne eviti il dissesto e relative conseguenze;
b) sul versante derivati, l'avvio di una campagna comune per il loro annullamento, anche a fronte della Decisione del 04/12/2013 della Commissione Europea, che ne permette la contestazione e la relativa richiesta di risarcimento dei flussi negativi addebitati ai Comuni;
c) sul versante finanza locale, si è deciso di lavorare ad una proposta di legge d'iniziativa popolare per la socializzazione e la gestione decentrata e partecipativa di Cdp.

Obiettivi importanti che richiedono, accanto al lavoro dei comitati territoriali, il diretto coinvolgimento degli enti locali più attenti e interessati. Da questo punto di vista, non è stata casuale la scelta di Napoli per ospitare l'assemblea: Napoli è non solo la prima città che ha deliberato, in accordo con i movimenti, l'istituzione di una “Consulta pubblica di audit sulle risorse e sul debito della città”; è anche il Comune che, grazie alla presenza nella plenaria di sabato, del Sindaco Luigi De Magistris e dell'Assessore Carmine Piscopo, si è direttamente impegnato a convocare un'assemblea degli enti locali in dissesto entro fine novembre, al fine di costituire una “Rete dei Comuni” che apra una vertenza, parallela a quella praticata dai movimenti, nei confronti del governo e dei vincoli imposti dall'Ue e in difesa dei diritti delle comunità locali.

Perché liberare le città dal debito diviene l'unica possibilità di uscire dal campo di gioco predefinito, che prevede una finta battaglia tra chi si schiera con l'establishment finanziario e chi vi si oppone in nome di un sovranismo che non mette in alcun modo in discussione i medesimi vincoli, modificandone semplicemente le sedi di comando.


riferimenti

Sull'argomento vedi su eddyburg gli articoli di Edoardo Salzano e Roberto Camagni, Discutiamo del debito pubblico, di Roberto Camagni, Il debito pubblico, D'accordo, ma..., di Susanna Böhme Kuby, Si può non pagare quando è ingiusto, di Francesco Gesualdi, Il debito pubblico è come il colesterolo, e l'intervento - secondo noi conclusivo - di Marco Bersani Il tabù dell'annullamento del debito. Sulla truffa del debito pubblico, si veda inoltre, di Andrea Baranes Più debito per uscire dalla crisi.

Effimera, 5 ottobre 2018. Critica ben argomentata alle principali manovre di politica economica e le misure adottate per finanziarle: dall'incostituzionalità della condizionalità del reddito di cittadinanza, alla riduzione delle tasse a favore dei più ricchi. (i.b.)

A una setttimana dalla riunione del Consiglio dei Ministri che ha definito i primi contenuti del Documento di Economa e Finanza (DEF) per il 2019 e dopo giorni di discussione sul come ripartire le risorse e dove trovare modo di finanziare le varie misure, solo oggi (5 ottobre 2018), a una settimana dal termine ultimo per la presentazione del Def (28 settembre), sembrano essere disponibili i numeri che dovrebbero rendere attuative e concrete le proposte di politica economica declamate. Sulla base delle dichiarazioni e dei documenti esistenti, la manovra 2019 dovrebbe valere (il condizionale è d’obbligo) 33,5 miliardi, di cui 27,2 reperiti tramite indebitamento (il rapporto deficit/PIL passa dall’1,6% al 2,4% nel 2019, per poi scendere al 2,1% nel 2020 e all’1,8% nel 2021, contrariamente a quanto in inizialmente deliberato). Al netto dei 12,5 miliardi per sterilizzare l’aumento dell’Iva al 24% (clausola capestro ereditata dal governo Monti, senza che nessuno, destra e sinistra, dicesse alcunché… ), il governo dovrebbe avere a disposizione circa 21 miliardi.

Al netto delle spese improrogabili (per la gestione corrente delle funzioni statali), e, notizia dell’ultima ora, al netto di circa 1 miliardo per l’assunzione di circa 1000 nuovi poliziotti (la repressione non sottostà a vincoli di bilancio!), ne rimangono circa 18-19. Tale somma dovrebbe distribuirsi (il condizionale è d’obbligo) nel seguente modo: 6,5 miliardi per il cosiddetto reddito di cittadinanza; 1 miliardo per la riforma dei centro per l’impiego; 1,5 miliardi per portare le pensioni minime a 780 euro mensili, per un totale di 9 miliardi; 7 miliardi per il superamento della riforma Fornero (che dovrebbe interessare tra le 400.000 e le 500.000 persone, a seconda di come la quota 100 viene calcolata); 2 miliardi per l’unica aliquota del 15% a circa un milione di partite Iva per poi estenderla alle imprese (che hanno già beneficiato di ingenti sgravi fiscali sulla decontribuzione, sugli investimenti e sui profitti); 1 miliardo (e non 1,5 come inizialmente dichiarato) per il rimborso dei truffati dalle banche.

Sul lato delle entrate, si propone la cosiddetta “pace fiscale”, ovvero la possibilità di saldare il debito con l’erario su redditi già dichiarati al netto delle sovrattasse e degli interessi fino a un limite massimo che dovrebbe aggirarsi sui 500.000 euro, tetto non ancora stabilito,

Esamineremo queste misure una alla volta, in modo il più possibile semplice (e speriamo chiaro) cercando di mettere in luce gli aspetti positivi (pochi) e quelli negativi (tanti).

Ma prima di ciò, credo sia necessario riconoscere che, per la prima volta dopo tanti anni, questo non è un DEF improntato all’austerità, fondato su tagli della domanda e sussidi esclusivamente alle imprese. La reazione della troika e dell’oligarchia finanziaria lo confermano. Misure come l’abbassamento dell’età pensionabile, o il portare le pensioni minime a 780 euro (se viene confermato) insieme a misure di contrasto più decisivo alla povertà (seppur parziali e fortemente condizionate), rappresentano provvedimenti che, piaccia o non piaccia, dovrebbero entrare in un’agenda di politica economica di sinistra. Purtroppo dobbiamo rilevare che tali provvedimenti sono caratterizzati da una incertezza, confusione, e mancanza di trasparenza che ne minano la potenziale efficacia (ammesso che esista). Il balletto sulle cifre degli effetti sulla crescita del Pil è imbarazzante. Il governo spara incrementi del 1,6% del Pil, conditio sine qua non per rendere sostenibile la manovra ma tale stima appare, come minimo, esagerata.

Certo, tali misure - come vedremo - sono parziali, nascondono alcuni trucchi e sono poi negativamente compensate da interventi sul piano fiscale del tutto reazionari e conservatori, a partire dalla proposta di flat-tax e della pace fiscale (invece che l’iniezione nel sistema fiscale di maggior progressività e l’introduzione di una tassa sui grandi patrimoni). Ma al momento attuale, il 15% di unica aliquota fiscale dovrebbe essere applicata solo alle partite Iva che hanno un giro d’affari non superiore ai 65.000 euro di imponibile annuo e la pace fiscale non ha nulla a che fare con un condono fiscale a vantaggio di chi ha dichiarato il falso o non ha dichiarato nulla ma solo con coloro che sono in ritardo nei pagamenti tributari. Si tratta di provvedimenti che strizzano l’occhio ai bacini elettorali dei due partiti di governo, sulla base di strategie che possiamo grossolanamente definire, “un colpo al cerchio, un colpo alla botte”.

Il superamento (parziale) della legge Fornero farà piacere a un numero assai limitato di pensionati che sono geograficamente localizzati prevalentemente nel Nord del paese, a maggior trazione leghista e lo stesso può valere per la flat-tax sull’Iva. Al contrario, il reddito e la pensione di cittadinanza verranno accolte con maggior favore dalla popolazione del Meridione, che nelle ultime elezioni ha votato a maggioranza per i 5Stelle.

Sta di fatto, che ancora una volta, il campo che – a torto – si definisce progressista si è fatto scippare temi che dovrebbero essergli del tutto congeniali, confermando poca lucidità e dipendenza dai poteri economici.

Reddito di cittadinanza

Viene confermato l’ammontare di 780 euro a persona (pari alla soglia di povertà assoluta) che cresce al crescere dei componenti del nucleo familiare sulla base dei tabellari Istat. La misura si declina come l’integrazione di reddito necessaria per raggiungere tale soglia. Se si dovesse applicare tale provvedimento a tutti coloro che hanno un reddito inferiore a tale livello (si tratta di circa 5 milioni di persone che vivono in 778.000 famiglie), come è stato più volte calcolato anche in sede Istat, il costo complessivo risulterebbe superiore a 10 miliardi di euro. Le risorse si rivelano quindi insufficienti e per risolvere questo problema si sono introdotti dei limiti di accesso. Il primo - e il più odioso - è la discriminante di nazionalità: solo i cittadini italiani potranno avere accesso.

I residenti stranieri (comunitari e extracomunitari), anche qualora dovessero avere i requisiti, saranno esclusi. Dovrebbe essere palese l’incostituzionalità di un simile provvedimento. Il secondo limite è più sottile: si sta pensando a una doppia soglia di povertà per accedervi. Si controllerà sia il reddito che il patrimonio del contribuente e in tale calcolo si prenderà in considerazione - tramite indicatore Isee - anche la proprietà della casa di abitazione. In questo caso, la platea degli aventi diritto diminuirà drasticamente e con essa anche il vincolo delle risorse. Inoltre, tale erogazione di reddito è fortemente condizionato da obblighi di comportamento e di consumo (vietato acquistare televisori al plasma…). I 2 miliardi destinati al potenziamento dei Centri per l’Impiego (se vengono confermati) hanno così lo scopo di incrementare misure di controllo sociale dei comportamenti dei “poveri”, indirizzarli sulla retta via, obbligarli a fornire gratuitamente 8 ore di lavoro socialmente utili nel comune di residenza: in altre parole, fare da cerbero ai “fannulloni”, previa la revoca del sussidio.

È qui presente un vecchio retaggio culturale, classista e aristocratico, secondo il quale i cd “poveri” non sono in grado di essere autonomi nelle scelte di vita e di consumo ma abbiano bisogno di una guida morale (stabilita da chi? Da Di Maio, o peggio, da Salvini?) Come già ricordato su queste pagine, il parametro di riferimento, per un’effettiva liberazione dal ricatto economico, ovvero un “vero” provvedimento di reddito di base, dovrebbe essere far riferimento alla soglia di povertà relativa (che attanaglia circa 11 milioni di persone) e non a quella assoluta. Con questa misura si razionalizza e si valorizza (in termini di business) la governance della povertà, senza eliminarla: si tratta di una delle architravi del sistema di workfare: minima e insufficiente protezione sociale di ultima istanza (peraltro parziale) in cambio di coazione al lavoro. In assenza di qualsiasi misura di introduzione di un salario minimo orario su base orario (i lavoratori di Amazon hanno strappato in questi giorni un salario minimo di 15$ ora, cifra minima da estendere a tutte le fattispecie lavorative in Italia – dove non esiste! -, Usa, Europa, Sud America, Africa e Asia), un reddito insufficiente a uscire dalla povertà relativa e condizionato dall’obbligo di prestazioni lavorative gratuite e/o sottopagate non è altro che l’anticamera per sviluppare un business della povertà così come è stato creato con i migranti. Una biopolitica dell’accumulazione sulla pelle di chi ha bisogno ed si trova nella condizione del massimo ricatto,

Ben altro approccio sarebbe necessario, a partire dalla comprensione che un reddito di base è strumento di cambiamento e progresso sociale solo se viene considerato come reddito primario e quindi erogato in modo incondizionato e a un livello come minimo pari alla soglia di povertà relativa, in forma individuale, e accompagnato dall’introduzione di un salario minimo legale.

Superamento della Fornero e pensione di cittadinanza

È il provvedimento che pone maggiori problemi nel determinare il livello di costo. L’unica certezza è la quota 100 come limite minimo, ovvero la somma tra l’età pensionabile e gli anni di contributi. Al fine di incidere meno sulla casse dell’Inps, vi è la proposta di fissare come limite minimo di contribuzioni 38 anni. Il che significa che la minima età per andare in pensione è di 62 anni, rispetto agli attuali 67 anni. Ma chi ne può usufruire, riceve una decurtazione dell’assegno pensionistico pari al numero degli anni di riduzione. Cinque anni di mancati contributi, possono anche significare una riduzione della pensione del 15-20% rispetto a quella che si avrebbe andando in pensione a 67 anni.

Per una pensione a 67 anni stimata in 1.500 euro mensili, il pensionamento a 62 può significare un assegno di 1200 euro. Ne consegue che potranno beneficiarne di più solo i percettori di pensioni più ricche. Da qui il problema della quantificazione del costo del provvedimento. Si parla di circa 450.000 lavoratori/trici interessati, ma non c’è alcuna ragionevole certezza al riguardo. È invece più certo il fatto che, anche ipotizzando l’andata in pensione di un tal numero di lavoratori/trici, ciò non si traduce automaticamente in un pari aumento di opportunità di lavoro per i più giovani. Sulla base delle caratteristiche del nostro sistema produttivo, caratterizzato da un’elevata quota di piccole imprese, è noto che il turn-over lavorativo sia sempre inferiore al 100%. Ne consegue che saranno le imprese ad avvantaggiarsi di più: non venendo sostituito il pensionato/a, si risparmia sul numero degli addetti e, anche se venisse assunto un/a giovane, la tipologia contrattuale con il quale rimpiazzarlo (leggi precarietà) consentirebbe una riduzione del costo del lavoro.

Riguardo invece la pensione di cittadinanza, non si può che valutare positivamente questo provvedimento, anche alla luce della constatazione che l’Italia ha un livello medio della pensione tra le più basse d’Europa. Occorre tuttavia ricordare che un provvedimento simile era stato deciso dal governo Tsipras e che proprio tale provvedimento, di natura sociale, era stato il bersaglio della troika economica. Vedremo quel che succederà in Italia.

Provvedimenti fiscali
Si tratta del capitolo del DEF che lascia più insoddisfatti, anticamera dell’ennesima riduzione di tasse a favore delle fasce più ricche della popolazione e con effetti pesantemente regressivi e recessivi. È anche la misura più in linea con le precedenti leggi di stabilità, targate Monti-Renzi-Gentiloni. Le ultime due leggi finanziarie hanno deciso tagli di imposta sui profitti (riduzione dell’IRE al 21%), aumenti di Iva al 22%, incentivi all’assunzioni di lavoratori (Jobs Act), decontribuzione per l’occupazione giovanile, fiscalizzazioni per gli investimenti. Il valore di tale sussidi (perché tali sono) alle sole imprese è stato superiore ai 25 miliardi in tre anni. Il nuovo governo con la proposta della Flat Tax si accinge ora ad agevolare impostazioni fiscali per i redditi più alti, dopo aver ridotto l’imposizione sui profitti, confermando in modo inequivocabile il senso di classe della riforma fiscale. È impressionante il silenzio del cosiddetto fronte progressista sulla necessità di aprire un dibattito a favore del ripristino di una maggior progressività nelle aliquote dell’imposta sui redditi delle persone fisiche e dell’introduzione di tasse patrimoniali sui nuovi cespiti di ricchezza (finanza, territorio gentrificato, proprietà intellettuale)
Investimenti

Una delle critiche più ricorrenti al DEF è la mancanza di una politica strutturale di investimento. Di fatto, gli unici provvedimenti concreti sembrano essere l’accelerazione delle pratiche e lo sblocco per l’inizio dei lavori di opere già precedentemente finanziate, tra le quali anche alcune grandi opere “contestate” (vedi TAP). Al riguardo occorre però domandarsi quali siano oggi gli investimenti di medio-lungo periodo che possono essere più produttivi e consentire una maggior crescita del PIL con l’obiettivo di incidere positivamente sulla riduzione del rapporto Debito/PIL. Nel contesto attuale della valorizzazione capitalistica, essi riguardano principalmente due direttrici: la manutenzione dell’ambiente e la manutenzione della vita umana. Sul primo fronte, nulla di nuovo, solo chiacchiere ma pochi fatti.

Sul secondo, i settori del welfare sono quelli che oggi sono più produttivi. Salute, apprendimento, conoscenza, tempo libero, attività culturali, rappresentano fonti di valorizzazione: nel pensiero economico mainstream, si parlerebbe di “capitale umano”. L’investimento in capitale umano è forse oggi quello più valorizzante, anche se immediatamente meno appariscente. E sono due le condizioni perché possa essere tale: ridurre la precarietà e garantire la continuità di reddito.

Se volessimo immaginare una politica economica di sinistra, dovremmo immaginare la trasformazione della precarietà attuale in flessibilità attiva, il che significa, oltre alla garanzia di un reddito minimo incondizionato, l’acceso ai beni comuni immateriali, alla mobilità, alla formazione, alla socializzazione, all’abitazione e alla salute: in altre parole, dovremmo immaginare un welfare del comune (Commonfare). È chiaro che questa prospettiva è distante anni luce dalla cultura lavorista e sviluppista che anima buona parte del fronte cosiddetto progressista e sindacale e che vuole giustificare questo DEF (crescita stimata all’1,6%). Ma è altrettanto distante dalle misure del DEF, che, pur contemplando misure di trasferimento che rappresentano un cambiamento rispetto alle politiche d’austerity, alla fine risultano inadeguate ed eccessivamente condizionate da un’etica lavorista, repressiva e di controllo.

Post Scriptum n. 1

Possiamo facilmente immaginare che la sola idea di non aver ottemperato al paletto del rapporto deficit/PIL dell’1,6% per il solo anno 2019 (ma chi lo ha deciso?) possa essere considerato una blasfemia da alcuni – i fautori del rigorismo del centro-sinistra – e con preoccupazione (ma anche come opportunità) dai mercati finanziari, per scatenare i loro appetiti speculativi. Vogliamo però ricordare che, a tutt’oggi, il limite invalicabile del rapporto deficit/PIL fittiziamente deciso dal Patto di Stabilità di Amsterdam è il 3% e che alcuni paesi (Francia in primis) lo hanno disatteso per alcuni periodi. È un rapporto di potere. Ed è grave che in questo potenziale conflitto, l’espressione politica della cd “sinistra” sia assente, se non per le sue frange populiste e sovraniste.

Post Scriptum n. 2

In vista delle prossime elezione europee, si muovono opportunisti di breve periodo e meschinità di vario genere. Alla speculazione finanziaria si aggiunge la speculazione politica. La prima è agita dall’oligarchia finanziaria (che è un “vero” potere), la seconda dall’ideologia sovranista-nazionalista, che non ha un “vero potere”, dal momento che, senza rendersi conto, svolge un ruolo ancillare all’attuale gerarchia del capitalismo finanziario. Detto in modo brusco: un ruolo da “utile idiota”.

In vista delle elezioni europee del prossimo anno, diventa urgente una domanda: a quando la discussione sulla costruzione di una forza politica europea che sia in grado di misurarsi con l’attuale sfida di una valorizzazione capitalistica che sull’austerity, sulla coazione al lavoro, sull’espropriazione del general intellect e dei beni comuni naturali, sulla condizione precaria generalizzata fa leva per estrarre plusvalore finanziario, aizzando, non a caso, vari populismi? Quando saremo in grado di imbastire una piattaforma propositiva che abbia, come primo obiettivo, l’autodeterminazione della persona, un welfare del comune, un reddito primario e quindi incondizionato, condizioni di lavoro e ambientali (le due cose vanno di pari passo) sostenibili, il rispetto delle differenze di genere e di razza, la libera circolazione degli esseri umani, cultura, formazione, informazione e accesso alla conoscenza scevra da ostacoli, obblighi e condizionamenti?

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Drive Approdi online, 13 giugno 2018.Un'analisi cruda, e perciò veritiera e convincente delle profondità oscure nelle quali la nostra civiltà, stremata sta affogando. Ma è chiaro il mostro che bisogna abbattere per uscirne (e.s.)

In quale abisso stiamo sprofondando non è chiaro, ma che si tratti di un abisso non c’è dubbio. Il cambiamento politico che è accaduto in Italia deve essere letto nel contesto dell’evoluzione mondiale e della disintegrazione d’Europa, e da questo punto di vista sembra essere il colpo finale alla democrazia liberale occidentale, e quindi la fine del traballante ordine del mondo che abbiamo conosciuto dopo il 1989.

Se vogliamo capire la vittoria dei partiti anti-europei in Italia dobbiamo ripensare al collasso finanziario del 2008 e all’imposizione del Fiscal compact sulla vita sociale dei paesi d’Europa. In quegli anni lo smantellamento dello stato sociale fu perfezionato e la vita sociale impoverita oltre ogni attesa.

L’Unione europea si fondava un tempo sulla promessa di pace e di prosperità; dopo la svolta neoliberale di Maastricht, dopo la drammatica riduzione del salario implicita nel passaggio alla moneta comune, la regola austeritaria rappresentata dal Fiscal compact determinò una rottura con la prosperità e la pace del passato.

Nel 2011 la protesta contro l’austerità finanziaria fu guidata da un movimento di indignados che trovò il suo punto più alto nell’acampada spagnola, e continuò fino all’estate del referendum greco.

Nel luglio del 2015 Syriza, alfiere del movimento anti-austerity europeo, chiamò la popolazione greca a decidere sul diktat della troika. Una larga maggioranza dei greci disse di no al memorandum, ma Alexis Tsipras fu costretto comunque a piegarsi all’umiliazione politica. In quel momento la morte della democrazia fu ufficialmente riconosciuta nel posto in cui venticinque secoli fa la democrazia è stata concepita.

I governi del centro sinistra, particolarmente Hollande e Renzi, si allinearono con l’arrogante imposizione della governance rappresentata dal governo tedesco, tradirono Tsipras e con questo atto segnarono il loro destino come si è visto negli anni successivi.

Piegandosi alle richieste del sistema finanziario globale il centro sinistra divenne dovunque oggetto del disprezzo popolare. Dopo quell’umiliazione i lavoratori europei abbandonarono in massa la sinistra e in un paese dopo l’altro votarono per i partiti di destra. Il ritorno del nazionalismo fu così il risultato dell’umiliazione sociale e l’Unione entrò in una lunga fase di paralisi. Il trionfo degli euro-scettici in Italia è la fine dell’Unione che ora è ridotta al suo scheletro finanziario, la moneta comune che appare a tutti come una trappola che non si può rompere.

Qui sta il problema: può la volontà politica rompere l’entità astratta che si chiama governance? Il fallimento di Syriza mostrò l’impotenza dell’azione politica, mostrò che la decisione politica non può interferire con il castello matematico del governo finanziario.

Cosa accadrà ora, dopo la formazione in Italia di un governo che si pone esplicitamente in rottura con le implicazioni economiche del Fiscal compact, e ha promesso agli italiani di ridurre le tasse e di migliorare gli standard salariali implicitamente prevedendo la violazione delle regole europee?

Riuscirà il pilota automatico a soggiogare le intenzioni proclamate dal nuovo governo italiano, oppure la sfida di Salvini e Di Maio toglierà all’Unione il suo residuo potere, che è quello di imporre la regola finanziaria?

Syriza accettò l’umiliazione politica perché la maggioranza di sinistra accettò la ragione dei potenti, e il risultato è che la Grecia, privata della proprietà dei suoi aeroporti, dei suoi porti e delle sue infrastrutture, è oggi in una condizione di massiccia disoccupazione e depressione psichica mentre i giovani scolarizzati abbandonano il paese. Ma il governo italiano non è espressione di una decisione razionale, ma espressione del desiderio di vendetta.

Vendetta è il solo concetto che può spiegare quel che sta accadendo su scala mondiale. Tradita dalla democrazia liberale e dalla sinistra neo-liberista, la maggioranza degli elettori sono guidati soltanto dal desiderio di vendetta. E la vendetta non vuol sentir ragioni.

I liberal-democratici che credono (o fingono di credere) che stiamo passando attraverso una tempesta temporanea e alla fine la democrazia ragionevole tornerà, si fanno delle illusioni. La democrazia è morta e non risorgerà né in Italia né negli Stati Uniti.

Quando coloro che hanno votato per Trump o per Salvini capiranno che il loro salario non ha smesso di diminuire, e che la precarietà e la disoccupazione non sono destinate a recedere, non per questo torneranno a votare per i patetici politici della sinistra. I social-nazionalisti cercheranno piuttosto un capro espiatorio.

Nella Germania del secolo passato capri espiatori furono gli ebrei e i rom. Ora sono molto più numerosi e più facili da identificare: le vittime di cinque secoli di colonialismo premono ai confini d’Europa e sono già rinchiusi in campi di concentramento tutt’intorno al mar Mediterraneo.

La memoria dell’Olocausto del passato è destinata a impallidire di fronte all’Olocausto che si sta preparando. La differenza è che lo Stato ebreo stavolta è dalla parte dei nazisti. Poiché la politica non può rompere le trappole astratte, non credo che lo scontro finale sarà sul tema del denaro e della finanza. Sarà piuttosto relativo alla ridefinizione dei confini culturali del mondo.

Dopo la Seconda guerra mondiale i confini vennero stabiliti all’intersezione tra mondo libero occidentale e il totalitario impero orientale dell’Unione sovietica. Poi dopo il collasso dell’Unione sovietica i confini furono dichiarati irrilevanti nella prospettiva della globalizzazione. Ora il sogno politico della globalizzazione è stato cancellato dagli effetti culturali ed economici della deterritorializzazione globale, e perciò si ridisegnano i confini, ma le linee sono diverse da quelle del passato.

La vittoria di Trump, la tenacia strategica di Putin e l’effetto destabilizzante del cambiamento italiano convergono verso una nuova definizione del disordine del mondo. Non più occidente e oriente, non più democrazia liberale contro governi totalitari. Queste sono cose del passato. La democrazia liberale non c’è più e non ritornerà. Il totalitarismo non è più un affare dei governi ma è l’affare delle info-corporazioni globali. E il nemico non è più politico, ma culturale, religioso ed etnico. I confini opporranno il mondo del nord bianco e cristiano e le vittime del colonialismo passato e del presente suprematismo.

È lo scenario perfetto per l’apocalisse che il capitalismo ha preparato.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto 2 giugno 2018. La truffa del "debito pubblico" mera invenzione di un sistema di mass media prezzolato, corrotto o demente, continua a portarci via fette di salario, diretto, indiretto, o differito (stipendi, pensioni, welfare). Con commento (e.s.)


Sono riusciti a far credere a un popolo di creduloni, incapaci di pensare e affidatisi alle mani e alle "informazioni" di una banda di persuasori prezzolati (ormai, l'intero mondo dei media) che esiste davvero un debito che ogni cittadino italiano, presente e futuro, sarà obbligato a pagare prima o poi. Approfittando di questa truffa lanciano e attuano progetti utili solo ad arricchir i più ricchi e a dare una piccola elemosina ai più miserabili (a condizione che esprimano gratitudine rafforzando il potere degli sfruttatori. Marco Bersani spiega come fanno. (e.s.)


il manifesto, 2 giugno 2018
Fiscal compact e manganello
di Marco Bersani


«Le speculazioni finanziarie fatte in questi giorni dai mercati, che si alimentano dell’instabilità, vengono narrate come preoccupazione dei mercati, i quali vorrebbero tanto il bene collettivo, se solo noi lo capissimo»
Il risultato finale con cui si è conclusa la crisi politica e istituzionale del nostro Paese rappresenta con piena evidenza l’utilizzo del debito come arma di disciplinamento sociale. Un’arma interamente giocata sul terreno simbolico, in quanto nessuno degli attori principali ne ha mai messo in discussione i fondamenti, aldilà di dichiarazioni di rito buone per tutte le stagioni.

Viene da pensare che il fuoco e le fiamme (fatue), prodotte ed alimentate nell’arco di 48 ore da entrambe le parti, non fossero rivolte agli attori in campo, ma avessero una funzione di alfabetizzazione di massa per tutti quelli che vi assistevano attoniti.

Da una parte, i sostenitori dell’establishment, interni ed esterni, ci hanno detto mai così chiaramente come nell’economia del debito la libertà è solo un contesto apparente: i popoli indebitati rimangono formalmente liberi, ma la loro libertà si può esercitare solo dentro il vincolo del debito contratto, e attraverso stili di vita che non ne pregiudichino il rimborso.

La precarizzazione del lavoro, la privatizzazione dei servizi pubblici, la mercificazione dei beni comuni non sono estrazioni di valore dettate da brutali atti di forza e di potere, ma la “naturale” conseguenza di quel vincolo “liberamente” contratto.

E’ così che le speculazioni finanziarie fatte in questi giorni dai mercati, che si alimentano dell’instabilità, vengono narrate come preoccupazione dei mercati, i quali vorrebbero tanto il bene collettivo, se solo noi lo capissimo.

Dall’altra, i sostenitori del sovranismo ci hanno detto mai così chiaramente come non sia assolutamente in discussione la trappola del debito, bensì solo i luoghi di potere da cui essa dev’essere narrata: “prima gli italiani”, intendendo con questo una gerarchia che vedrà i ricchi sempre più ricchi grazie alla flat tax, e il resto della popolazione con in tasca le briciole di un sussidio di disoccupazione spacciato per diritto al reddito e fra le mani possibilmente un’arma per difendersi dagli stranieri.

Ciò che in realtà i contendenti hanno voluto comunicare al popolo è l’impossibilità di un’altra via fuori dalle due predefinite: il sostegno all’establishment in quanto tale, fiscal compact e pareggio di bilancio compresi, e il sovranismo reazionario, flat tax e razzismo compresi. Dentro il terreno di gioco, più che condiviso, delle politiche liberiste e d’austerità, che non possono in nessun modo essere ridiscusse e che hanno bisogno dello shock del debito per disciplinare la società e quanti dentro la stessa non rinunciano a voler cambiare il mondo.

La pretestuosità del conflitto diventa evidente nel risultato finale, così velocemente conseguito: abbiamo ora un governo che nei ruoli chiave ha di nuovo inserito i “tecnici” (Presidenza del Consiglio, Ministero dell’Economia e Finanze e Ministero degli Esteri) dichiarando nei fatti la totale compatibilità con i vincoli monetaristi, con l’aggiunta dell’odore del manganello che promana dal nuovo Minsitero dell’Interno. Più che “la Cina è vicina”, come si diceva una volta, siamo “all’Ungheria è dietro l’angolo”con la benedizione di Francoforte.

Dentro questo quadro, c’è un’altra possibilità, a patto che si decida di prendere davvero parola collettiva sul tema del debito, ponendo alcune questioni reali: a) è accettabile aver pagato, dal 1980 ad oggi, 3.400 mld di interessi su un debito che, nonostante questo, continua ad essere di 2300 mld? b) è accettabile, per chi paga le tasse, aver dato allo Stato, dal 1990 ad oggi, 750 mld in più di quello che lo Stato ha restituito sotto forma di servizi? E’ accettabile aver ridotto i Comuni sul lastrico, nonostante il loro contributo al debito pubblico nazionale non superi l’1,8%? Solo la risposta a queste domande può aprire la discussione su quale modello di società vogliamo.

Con una certezza: il loro potere dura finchè dura la nostra rassegnazione.

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La destra che sta approdando al governo della povera Italia è la destra più radicale e più omogenea ai più ricchi e potenti di quante questo paese abbia conosciuto. È un capolavoro di demagogia, perché si presenta come una proposta che riduce le tasse a tutti, mentre favorisce solo i più ricchi. È un capolavoro di truffa, sostiene che non ridurrebbe l’ammontare complessivo delle tasse versate dai contribuenti perché la riduzione dell’aliquota sarebbe compensata dall’emersione dell’evasione fiscale.
Ma il punto centrale è che l’abbassamento della voce attiva del bilancio pubblico derivante dall’abbassamento del gettiti fiscale obbligherebbe a ridurre ancora il livello di welfare. Conseguenza inevitabile sarebbe infatti la diminuzione della spesa pubblica per l’assistenza sanitaria, la scuola pubblica e l’università, la tutela del paesaggio e dei beni culturali, la difesa del suolo. Tutti i settori gia penalizzati dalle politiche di austerity sarebbero ulteriormente penalizzati, mantre crescerebbe ancora la forbice tra ricchi e poveri. Il dramma è che i poveri non sono aiutati dai meda a comprendere, e quindi non conoscendo, non sono nella condizione di ribellarsi.

Per aiutare a comprendere che cosa dovrà essere la flat tax riprendiamo da il Post un articolo (8 gennaio 2018) che chiarisce l’argomento (e.s.)

Cos’è la “flat tax” proposta dal centrodestra
il Post, 8 gennaio 2018

«Prevede un'imposta sul reddito ad aliquota unica e secondo i suoi sostenitori avrebbe solo effetti positivi, ma ci sono dei ma»

L’introduzione di una “flat tax” al posto dell’attuale imposta sul reddito, l’IRPEF, è da ieri è uno dei punti ufficiali del programma della coalizione di centrodestra. Lo hanno annunciato i leader della coalizione, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni che si sono incontrati domenica nella villa di Berlusconi ad Arcore, vicino Milano. Il centrodestra promette di dimezzare l’imposta sui redditi per milioni di cittadini e, nel contempo, assicura che riuscirà a recuperare miliardi di euro di evasione fiscale.

Una “flat tax” come quella che vorrebbe introdurre il centrodestra è un’imposta con aliquota unica, in cui la percentuale che viene pagata in tasse è fissa e non cresce con l’aumentare dell’imponibile. Nel caso di una flat tax sul reddito, la percentuale pagata in tasse da chi guadagna diecimila euro è uguale a quella di chi ne guadagna centomila, anche se deduzioni e detrazioni per i redditi più bassi possono contribuire a rendere la flat tax in qualche misura progressiva (chi guadagna di più paga in tasse in maniera più che proporzionale).

Al momento non abbiamo molti dettagli sulla proposta unitaria del centrodestra, ma sappiamo qualcosa di più sulle singole proposte che avevano formulato i partiti della coalizione. La Lega Nord ha da tempo elaborato una proposta di flat tax “estrema” che prevede di sostituire l’attuale imposta sul reddito, che ha aliquote che vanno dal 23 al 43 per cento, con un’unica imposta con aliquota fissa al 15 per cento. Forza Italia ha proposto una versione più moderata, con aliquota al 23 per cento. Entrambe prevedono dei sistemi di deduzioni e detrazioni per i più poveri. A guadagnarci di più, però, saranno comunque i più ricchi. Nel caso delle proposta della Lega Nord, i più ricchi tra coloro che oggi pagano l’aliquota più alta del 43 per cento potrebbe risparmiare anche due terzi di quello che pagano oggi. Nel caso della proposta di Forza Italia, i più poveri, quelli con l’aliquota al 23 per cento, non vedranno migliorare la loro situazione.

Gli obiettivi della flat tax sono essenzialmente due: tagliare le tasse e rendere più semplice il sistema fiscale. Gli effetti positivi sarebbero quindi duplici. Da un lato la minore imposizione fiscale porterebbe a maggiori investimenti e crescita economica, dall’alt
ro il sistema più semplice e leggero renderebbe più conveniente pagare le tasse rispetto a evaderle. Secondo i più ottimisti tra i suoi sostenitori, la flat tax sarebbe una misura a costo zero che si ripaga da sola, poiché diventerebbe così conveniente pagare le tasse che la perdita di gettito dovuta all’abbassamento delle aliquote sarebbe automaticamente compensate dalle maggiori entrate dovute all’abbattimento dell’evasione fiscale. Sia Berlusconi che Salvini hanno detto in più di un’occasione che per questo motivo non è necessario prevedere coperture finanziarie particolarmente solide per la loro proposta.
Non sono molti i paesi al mondo in cui le principali imposte sul reddito sono ad aliquota unica, e in nessun caso si tratta di economie particolarmente avanzate. I casi più noti sono Russia, Lettonia, Lituania, Serbia, Ucraina, Georgia e Romania. La Slovacchia introdusse una flat tax sul reddito nei primi anni Duemila, ma l’ha cancellata nel 2013. La Russia, che unificò le sue imposte sul reddito nel 2001, è uno degli esempi più citati dai sostenitori della flat tax, perché all’indomani dell’introduzione della nuova imposta le sue entrate fiscali crebbero del 26 per cento. Come scrive il Fondo Monetario Internazionale, però, non è affatto chiaro quanta parte del merito fu della flat tax e quanto della complessiva riforma del fisco, che comprese anche maggiori e più stringenti controlli. In generale, la maggior parte degli economisti ritiene che sia molto difficile pareggiare in maniera automatica l’abbassamento delle aliquote con la lotta all’evasione fiscale, soprattutto in paesi moderni e sviluppati che dispongono già di efficaci strumenti di lotta all’evasione.
In ogni caso, sembra comunque difficile replicare il risultato della Russia in Italia. L’IRPEF, cioè l’imposta sul reddito che sarebbe sostituita dalla flat tax, è una delle imposte che nel nostro paese vengono pagate con maggior regolarità. Come ha notatol’economista dell’Università di Bologna, ed ex consulente del governo Renzi, Luigi Marattin:«Il ragionamento (comunque sbagliato) dell’emersione del sommerso vale per le imposte dove è concentrata evasione e elusione. In Italia si tratta soprattutto dell’Iva, che secondo molte stime nasconde più di 100 miliardi di evasione. La “flat tax” riguarda invece l’Irpef, un’imposta la cui platea di contribuenti è per circa il 90% è costituita da lavoratori dipendenti e pensionati. Vale a dire, contribuenti che non possono evadere, visto che hanno le trattenute direttamente in busta paga. Quindi la “magia” dell’emersione del sommerso sarebbe comunque assolutamente marginale.

Anche i sostenitori della flat tax, come i membri dell’Istituto Bruno Leoni, un think tank economico di idee liberali, hanno molto criticato le proposte del centrodestra, pur sostenendo una versione di flat tax che ritengono più praticabile. Carlo Stagnaro, direttore del dipartimento studi dell’Istituto Bruno Leoni, ha definito la proposta del centrodestra «non credibile» e «totalmente carente sia sotto il profilo delle coperture sia sotto quello della visione più generale del sistema fiscale». Stagnaro sostiene però la proposta di flat tax del suo istituto, che prevede un’aliquota unica al 25 per cento e una riforma complessiva del fisco italiano. Secondo l’istituto, questa riforma costerebbe circa 30 miliardi di euro l’anno (Salvini e Berlusconi, come abbiamo visto, sostengono invece che la loro misura si ripagherebbe da sola).

Altri hanno criticato la flat tax perché sarebbe a rischio di incostituzionalità. All’articolo 53, infatti, la Costituzione esplicita che “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Significa che chi ha redditi più alti deve pagare le imposte in maniera più che proporzionale rispetto a chi ne guadagna di meno. Questo sistema, oggi, è in parte assicurato dal meccanismo dell’IRPEF che prevede aliquote più alte al crescere del reddito. I difensori della flat tax sostengono però che la Costituzione prevede un sistema “complessivamente” progressivo, mentre le singole imposte possono non esserlo (e moltissime infatti sono “flat”, cioè prevedono un’aliquota unica: per esempio le imposte su redditi da capitale).

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il manifesto, 13 maggio 2018. Una delle perniciose conseguenze del generale accordo dei vincitori delle elezioni del 4 marzo, che riguarda il devastante slogan: pagare meno tasse è bello

«Fisco. Il sistema nazionale sarebbe per sempre compromesso. Invece di allargare la base imponibile dell’Irpef, i proponenti vogliono essere proprio sicuri che si ritorni alla pre-riforma Cosciani del 1973»
Partiamo dalla fortissima convergenza tra M5S e Lega sulla flat tax per l’Irpef a vantaggio del così detto ceto medio. Costo? 45-50 miliardi che sarebbero coperti con la maxi-rottamazione delle vecchie cartelle, spending review e taglio alle tax expenditures. Sebbene qualcuno accarezzi l’idea che, in fondo, qualcosa dal proprio reddito (da lavoro e pensione) si possa strappare dalla rimodulazione dell’Irpef, il sistema fiscale nazionale sarebbe per sempre compromessoSe le proposte di riforma avanzate in campagna elettorale erano inattuabili, forse non lo sono nemmeno dopo la campagna elettorale. Invece di allargare la base imponibile dell’Irpef, i proponenti vogliono essere proprio sicuri che il fisco italiano ritorni ad essere sempre più simile a quello pre-riforma Cosciani del 1973.

A fronte dell’ottimismo sulle condizioni del nostro paese, tutti gli indici economici parlano di una ripresa lenta e soprattutto diseguale. In campagna elettorale si sono sentite le proposte più diverse relativamente al fisco. Non c’è solo un problema di onerosità, piuttosto si tratta di proposte addirittura fuori dal contesto costituzionale e ignoranti della natura stessa del sistema fiscale italiano. La nostra struttura fiscale è, infatti, molto particolare e sensibile all’andamento degli scaglioni e delle aliquote e, soprattutto, molto sensibile ai presupposti d’imposta.

Il tema della redistribuzione di reddito e ricchezza ovviamente resta, ma bisogna prima valutare alcuni aspetti. Di solito s’immagina la ridistribuzione esclusivamente attraverso un nuovo disegno delle aliquote fiscali che fanno capo all’Irpef. Invece, occorre considerare che c’è una distribuzione che interviene nel mercato, cioè prima delle imposte, e una distribuzione del carico tributario, quando il reddito è stato già maturato. Sulla prima questione c’è un problema di norme e regole che hanno delegittimato il ruolo del sindacato, sulla seconda occorre sottolineare che l’Irpef è composta all’85% dal lavoro dipendente. Aumentare o ridurre la progressività per un solo reddito, quindi, non porterebbe a mutamenti sostanziali nella distribuzione del carico tributario.

Se non ridisegniamo i presupposti d’imposta dell’Irpef, cioè se non allarghiamo la base imponibile, modificare o meno gli scaglioni non servirebbe a molto nella redistribuzione del reddito, perché l’Irpef intercetta una sola categoria di reddito. La vera riforma fiscale non può essere attuata semplicemente abbassando le tasse sul reddito da lavoro, piuttosto occorre allargare la base imponibile, reintroducendo nell’Irpef i redditi che oggi sono sottoposti a cedolare secca. Tra l’altro, l’Irpef è oggi l’unica imposta progressiva, mentre tutte le altre imposte sono ridotte a cedolare secca e non hanno nessuna progressività.

Nel fisco, nei diritti e nell’economia italiana esistono dei problemi di struttura mai affrontati dagli ultimi governi. L’Italia ha una struttura produttiva che lavora a margine, giocando sulla differenza tra costi e ricavi, e non occupa quote di mercato emergenti come fanno altri paesi. Col passare del tempo l’Italia non produce valore aggiunto e, quindi, i salari si abbassano. Su questo la Cgil ha fatto un’ottima operazione con il Piano del lavoro: un piano industriale che offre delle risposte al problema industriale ed economico del Paese. Sebbene la questione del salariale sia un problema drammatico, è altrettanto vero che dipende dal sistema economico nel quale è inserito.

Salario e sistema economico sono due facce della stessa medaglia che vanno governate insieme. Negli ultimi 15 anni, chi ha guidato il Paese non solo non l’ha immaginato, ma ha usato il fisco per fare propaganda, dimenticando che il fisco lavora a margine dei redditi prodotti. Alla fine, la rivoluzione del prossimo governo sarà quella di chiudere per sempre la riforma fiscale immaginata nel 1973. Meno tasse per tutti e la rivoluzione è compiuta: la Stato esce per sempre dall’economia.

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la Repubblica 9 maggio 2018. Federico Rampini intervista il premio Nobel per l'economia Joseph Stigliz, attento critico delle politiche economiche mainstream e animatore delle principali campagne contro il neoliberismo, sulla tendenza dominante nell'impero Usa e i suoi rapporti con la Cina

«La nuova globalizzazione rischia di essere un sistema che definirei il Wto meno uno: con gli Stati Uniti come nazione pirata, che si sottrae alle regole anziché farle rispettare».

Donald Trump ha una fissazione con i rapporti commerciali bilaterali, è una visione primitiva dell’economia. Un’altra sua ossessione riguarda il manifatturiero, gli scambi di merci, ma anche questo è anacronistico perché l’economia americana è forte nei servizi, come l’istruzione, noi siamo una nazione che esporta corsi di laurea universitari». Chi parla è stato uno dei primi e forse il più autorevole tra i pensatori critici della globalizzazione, Joseph Stiglitz, premio Nobel dell’economia, scrisse La globalizzazione e i suoi oppositori (Einaudi) in tempi non sospetti: nel 2002, quando aveva da poco lasciato l’incarico di chief economist della Banca Mondiale.
È stato un punto di riferimento del movimento no-global, di Occupy Wall Street, degli anti-euro. Del suo libro uscirà fra un mese l’edizione italiana aggiornata all’èra di Trump. Perché adesso che un “no-global” siede alla Casa Bianca, Stiglitz si ritrova nuovamente all’opposizione, non condivide l’offensiva protezionista del presidente.

Lo incontro a New York assieme all’economista John Lipsky a una conferenza del China Institute, dove ovviamente l’attenzione è concentrata sulla tensione Usa-Cina. Ma sullo sfondo c’è la spallata che Trump sta sferrando all’architettura complessiva del commercio internazionale, incluse le relazioni con l’Unione europea.

Cominciamo dalla questione più generale: che cosa significa oggi essere anti globalizzazione nell’era di Donald Trump?


«Bisogna prendere atto che le fondamenta dell’ordine internazionale traballano, oggi sono molto meno sicure. E questa crisi risale a prima dell’elezione di Trump. La vera linea di frattura, il momento chiave di questa crisi, è il 2008. Le regole della finanza mondiale imposte dagli Stati Uniti hanno contribuito a scatenare lo shock sistemico del 2008. E’ lì che si è rotto un modello, e la rottura è avvenuta a partire dagli Stati Uniti».

Trump e il suo consigliere sul commercio estero Peter Navarro dicono che la Cina bara al gioco, non rispetta neppure quelle regole del Wto (World Trade Organization, l’organizzazione del commercio mondiale) che pure continua a invocare. Non hanno tutti i torti, le violazioni cinesi sono note da tempo, no?
«E allora che l’Amministrazione Trump si muova per farle rispettare, quelle regole. Invece non lo fa, non sta appellandosi al Wto perché faccia valere le norme. Al contrario, in questo momento è la Cina che presenta più ricorsi al Wto. Ed è l’America che rischia probabilmente di essere colta a violare le regole del sistema che ha fondato.

«Washington ha bloccato perfino molte nomine di giudici nei tribunali del commercio mondiale. Per questo dico che rischiamo di avviarci verso un sistema del “Wto meno uno”, con gli Stati Uniti ai margini della legalità. Trump predilige i confronti bilaterali, perché è convinto che lì i rapporti di forze siano sempre favorevoli agli Stati Uniti. Prima ancora che arrivasse lui alla Casa Bianca, il Congresso a maggioranza repubblicana aveva bocciato importanti riforme del Fondo monetario e della Banca mondiale, che Barack Obama avrebbe voluto. C’è uno scetticismo generale della destra Usa verso tutto ciò che è multilaterale».

Ma l’America resta un grande mercato molto aperto, mentre altre economie non la trattano con reciprocità. L’America accumula disavanzi; Cina e Germania hanno attivi commerciali enormi.

«La fissazione con le bilance commerciali bilaterali nasce da una visione primitiva dell’economia. La Cina potrebbe risolvere la questione e dare soddisfazione a Trump, importando di colpo 100 miliardi di dollari di petrolio estratto negli Stati Uniti, per poi rivenderli subito ad altri paesi, in una partita di giro. Noi non avremmo risolto nulla. In quanto ai dazi sull’acciaio: è evidente che qui lo scopo è tutto politico, Trump li ha scelti per fare un favore alla sua base elettorale, alla Rust Belt. Ma il peso della siderurgia, o del settore minerario, o del manifatturiero in generale, sta declinando nel mondo intero, Cina inclusa. Trump sembra non rendersene conto».

Resta il fatto che la Cina deruba di know how tante imprese straniere, americane e non. Impone a chi investe sul suo territorio (almeno in alcuni settori) di creare una joint venture con un socio cinese e trasferirgli il sapere tecnologico, la proprietà intellettuale. Furto di proprietà intellettuale.

«Quando il Wto venne negoziato, non includeva regole sugli investimenti. Ma anche se la Cina impose le joint venture e il trasferimento di tecnologie, molte multinazionali americane decisero di andarci. Nessuno le obbligava. Furono spinte dall’avidità, dall’attrazione di quel mercato enorme. Quando la Cina entrò nel Wto nel 2001 fu vista come una miniera d’oro. Ora molte cose sono cambiate, le imprese cinesi sono divenute delle formidabili concorrenti, e certi benefici per le aziende americane si sono attenuati.

«Comunque il reddito pro capite dei cinesi rimane un quinto di quello americano. Devono avere il diritto di svilupparsi. Le nazioni emergenti sono in una situazione diversa rispetto a noi, una piena reciprocità e una totale simmetria non possiamo pretenderle. Se noi avessimo un’Amministrazione ragionevole, ci sarebbe spazio per un buon accordo su molti terreni».

il Fatto quotidiano, 3 maggio 2018. Siamo un popolo di becchini. Più gente si ammazza in giro per il mondo più siamo benestanti e soddisfatti, crepi pure l'amico col nemico, più sono meglio è per noi. E' il capitalismo, baby

«1.700 miliardi di dollari - Dopo dieci anni di crisi, le spese tornano a crescere. Tranne che per la Russia»

Le spese militari globali tornano ad aumentare dopo quasi un decennio di stasi seguito alla crisi. Lo certificano i nuovi dati pubblicati dall’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri) relativi all’anno passato. Gli investimenti in difesa sono cresciuti a livello mondiale di oltre un punto percentuale raggiungendo la cifra di 1.700 miliardi di dollari, 230 dollari per ogni abitante del pianeta. Oltre la metà di questi soldi vengono spesi da paesi Nato, oltre un terzo dagli Stati Uniti, che nel 2017 non mostrano ancora l’aumento del 18% deciso dal presidente Trump per l’anno fiscale corrente. La crescita più significativa si registra in Arabia Saudita (da anni in guerra in Yemen e principale importatore di armamenti occidentali, italiani compresi) con un aumento annuo del 9%, per una spesa che supera il 10% del Pil nazionale e posiziona la petrolmonarchia al terzo posto nella classifica mondiale dopo Stati Uniti e Cina, scalzando la Russia.

L’aumento delle spese militari riguarda tutto il Medioriente: 22% l’Iraq, 15% l’Iran, 10% la Turchia e 5% Israele; mancano i dati siriani.

L’arretramento della Russia, cui si è già accennato, è certamente il dato più significativo, con un crollo del 20% negli investimenti militari che dovrebbe ridimensionare i timori dell’Alleanza atlantica sulla reale ampiezza del riarmo russo. Timori che invece alimentano la corsa agli armamenti dei paesi dell’est e dei paesi baltici, con aumenti annui della spesa militare che vanno dal 50% della Romania al 21% di Lettonia e Lituania al 12% della Bulgaria, con la Polonia che rimane il maggior investitore militare dell’area.

Venendo all’Europa occidentale le spese militari calano leggermente in Francia (-2%), sono tendenzialmente stabili in Gran Bretagna, mentre aumentano in Spagna (12%), Germania (3,5%) e Italia (1%), dove raggiungono i 26 miliardi di euro, ovvero l’1,5% del Pil: dato, quest’ultimo, superiore a quello di importanti alleati Nato Canada (1,3%), Germania, Olanda e Spagna (entrambe 1,2%), Belgio (0,9%).

Un aumento, quello relativo all’Italia, che rafforza la tendenza degli ultimi anni (+13 percento dal 2015) e conferma cifre e analisi dell’osservatorio MIL€X, salvo scostamenti dovuti a differenze nel metodo di calcolo. Il nostro paese rimane quindi stabilmente tra i primi 15 paesi al mondo per spesa militare, al 12° posto per la precisione.

Passando agli altri continenti, suona preoccupante per la futura stabilità della regione il dato relativo all’Africa, dove si registrano aumenti annui delle spese militari in Paesi che, tra l’altro, versano in condizioni di povertà come il Gabon (42%), il Benin (41%), il Sudan (35%), il Mali (26%) il Burkina Faso (24%) il Niger (19%) e il Ghana (15%).

Per quanto riguarda l’America Latina si registrano spese militari in crescita in Venezuela (20%) Argentina e Bolivia (entrambe 15%) e Brasile (6%). Nel contante asiatico gli aumenti più significativi si hanno in Cambogia (21%) e nelle Filippine (20%).

Discorso a parte per le spese militari delle potenze regionali Cina e India, in costante e parallelo aumento, entrambe del 5,5% su base annua. Mentre la Corea del Nord, nel 2017 particolarmente attiva nei test missilistico-nucleari prima dell’attuale fase di distensione non fornisce dati, la Corea del Sud è cresciuta del 1,7%. Stabili gli investimenti per la difesa del Giappone, alleato americano nell’area del Pacifico.

Sbilanciamoci, Newsletter n. 550, 24 aprile 2018. La truffa per gonzi del debito pubblico: un manganello per obbligarci a ridurre i nostri redditi per far crescere ancora i loro. Con numerosi riferimenti

Il problema dell’Italia è il debito pubblico. Non è nemmeno un argomento su cui discutere, ma un assunto evidente. Posto che il debito pubblico è eccessivo e ci strangola, ragioniamo pure di quali siano le strategie più efficaci per ridurlo il più velocemente possibile. Ma è davvero così, o è forse necessario fare un passo indietro?

Più che l’ammontare del debito pubblico, il faro che guida ogni scelta di politica economica è il rapporto tra debito e PIL. Cerchiamo di capire perché con un esempio semplificato. Ho un debito di 20.000 euro. E’ tanto o poco? Dipende. Se sono disoccupato e nullatenente, è enorme. Se guadagno un milione di euro l’anno, sono spiccioli o poco più. In altre parole, il valore di un debito va riportato a quanto si guadagna. L’esempio è forse fuorviante, anzi troppo spesso si sente dire che uno Stato dovrebbe comportarsi “come un buon padre di famiglia”, mentre la contabilità e gli obiettivi di una famiglia, un’impresa e una nazione sono completamente diversi. L’idea è comunque di misurare il debito in rapporto alla ricchezza prodotta per capirne la sostenibilità.

Anche qui sono però necessarie alcune precisazioni, soprattutto considerando quanto il rapporto debito/PIL definisca le politiche europee e italiane. Se dobbiamo accettare l’austerità, se il mantra degli ultimi anni è che “non ci sono i soldi”, se dobbiamo tagliare su servizi pubblici, pensioni o sanità, il problema è uno solo: dobbiamo ridurre il rapporto debito/PIL, e dobbiamo farlo a marce forzate. Il fiscal compact prevede di rientrare in 20 anni al famigerato 60%, mentre l’Italia viaggia oltre il 130%. Il rapporto debito/PIL è il cardine attorno al quale devono girare le politiche di uno Stato sovrano: possiamo rimettere in discussione il welfare, i diritti conquistati in decenni di lotte, l’erogazione dei servizi di base, ma non un rapporto scolpito nella pietra. Una verità assoluta e immutabile, mentre i diritti fondamentali diventano variabili su cui giocare per rispettarla.

Cerchiamo allora di capire se questo rapporto sia davvero l’unico parametro da prendere in considerazione. Con i limiti ricordati in precedenza, torniamo a un esempio semplificato. Guadagnate 20.000 euro l’anno, e avete un debito di 20.000 euro con vostro fratello, che non vuole nessun interesse e non ha fissato nessuna scadenza. Seconda situazione. Guadagnate sempre 20.000 euro l’anno, e avete un debito di 10.000 euro, ma è ora un debito di gioco, contratto con un pericoloso strozzino che vi chiede interessi del 30% al mese, arrivando a minacciarvi se sgarrate di un solo giorno. Il rapporto tra debito e ricchezza annuale è ora al 50%, la metà rispetto all’esempio precedente. In quale delle due situazioni preferireste però trovarvi? L’esempio – ripetiamo nuovamente, estremamente semplificato e persino inesatto se riportato tout court a uno Stato – può chiarire come né l’ammontare del debito né il suo rapporto alla ricchezza prodotta siano gli unici elementi da considerare. Sono almeno altrettanto importanti altri fattori: quanti interessi paghiamo, la scadenza, a chi lo dobbiamo e altri ancora.

E’ stupefacente quanto poco ci si domandi – tra statistiche, impegni e dichiarazioni onnipresenti sulla riduzione del debito – per cosa lo Stato si stia indebitando. Torniamo ancora all’esempio semplificato. Ho un contratto a tempo indeterminato da 20.000 euro l’anno. Vado in banca e chiedo un mutuo da 200.000 euro, a 30 anni, per l’acquisto della casa. Qualsiasi banca concederebbe tranquillamente un tale prestito. Eppure il rapporto tra debito e guadagni annui è del 1.000%.

Secondo caso. Guadagno sempre 20.000 euro l’anno, e ne prendo in prestito 10.000 per andarmeli a giocare al casinò. Il rapporto debito / reddito è ora piuttosto contenuto, al 50%, ma chi considererebbe questa un’operazione saggia? Il “buon padre di famiglia” è quello che si indebita poco, o quello che usa bene le risorse a disposizione, mentre sia l’importo sia il rapporto tra debito e reddito annuo sono del tutto secondari?

Tre domande

Torniamo ora al caso Italia, e al suo debito per definizione “eccessivo”. E’ incredibile che nelle discussioni su austerità, fiscal compact e dintorni ci sia così poco spazio riservato al merito della questione. Il problema è il rapporto debito / PIL o come viene usata la spesa pubblica? Se al di à degli slogan e dei dogmi volessimo entrare nel merito, forse bisognerebbe partire da alcune domande:

1) Perché dalla metà degli anni ‘90 al 2008 – senza austerità e senza fiscal compact – il rapporto debito / PIL è quasi costantemente sceso, passando da oltre il 120% al 103%?

2) Perché solo dopo il 2008 – tra l’altro proprio durante l’applicazione delle politiche di austerità – si è impennato arrivando a superare il 130%?
3) A cosa serve il debito pubblico, o, in altre parole, dove vanno a finire i soldi del debito? Com’è possibile che l’Italia per 20 anni abbia sempre avuto – con l’eccezione di un solo anno – un avanzo primario (ovvero più entrate che uscite al netto degli interessi sul debito), ma non veniamo fuori dalla spirale del debito?
Il punto centrale
Quest’ultimo punto in particolare è centrale. Lo Stato italiano ogni anno incassa più di quanto spende. Approssimando, da almeno venti anni tasse e imposte superiori ai servizi erogati, alla faccia dei ritornelli sullo “Stato spendaccione” e secondo cui “viviamo al di sopra delle nostre possibilità”. Se il rapporto debito / PIL continua a crescere, i motivi sono essenzialmente due.
Il primo è l’ammontare degli interessi che paghiamo ogni anno sul debito. Realizziamo avanzi primari (saldo tra entrate e uscite), ma andiamo comunque in deficit a causa della spesa per interessi. Il secondo motivo è che nel rapporto debito / PIL non conta solo il numeratore, ma anche il denominatore. Se il PIL non cresce (o diminuisce come avvenuto negli scorsi anni), sono guai.
Se questa è l’analisi, le soluzioni che ci hanno imposto funzionano? La risposta è semplice: no. L’austerità e i tagli alla spesa pubblica non fanno calare la spesa per interessi, se non in maniera forse indiretta – i sostenitori dell’austerità insistono sull’argomento secondo cui i mercati finanziari si fiderebbero più di noi se tagliassimo la spesa pubblica, permettendoci di finanziarci a tassi più bassi. Altri studi indicano come in realtà l’effetto dell’austerità sul debito/PIL sia opposto. E non sembrano essere studi di parte, anzi.
Negli scorsi anni una ricerca del FMI chiariva come, per la maggior parte delle economie occidentali, l’austerità provocava una caduta del PIL superiore a quella del debito, ovvero un rapporto debito/PIL che continuava ad aumentare. Secondo alcuni quotidiani statunitensi un “clamoroso mea culpa” al quale non sono però seguite revisioni delle politiche economiche. Con l’austerità parliamo quindi di ricadute sul rapporto debito / PIL incerte e tutte da verificare, a fronte di impatti sociali e in termini di diseguaglianze immediati e decisamente pesanti.

Strade alternative

Sarebbero allora possibili strade alternative? Sicuramente si. Alcuni anni fa due economisti hanno avanzato una proposta nota come “Padre Plan”, che prendeva di mira non l’ammontare del debito, ma la spesa per interessi. Semplificando al massimo, prevedeva che la Banca Centrale Europea scambiasse titoli di Stato dei diversi governi europei con titoli a zero interessi e senza scadenza. Tornando all’esempio precedente, ho un debito con uno strozzino, a tassi di interesse e scadenze che mi stanno massacrando. Mio fratello mi presta i soldi per estinguerlo. Il debito ora ce l’ho con lui, ma è senza scadenza e senza interessi.
Mi impegno a restituirglielo poco per volta. Fuor di metafora, invece che essere indebitati con i mercati finanziari, sotto la scure dello spread, del giudizio dell’oligopolio delle agenzie di rating e succube della speculazione finanziaria, mi indebito a tasso zero e senza scadenza con una banca centrale, impegnandomi a diminuire questo debito con tempi “umani” e non con quelli assolutamente folli dettati dal fiscal compact.

La principale obiezione dei “rigoristi” contro questa o analoghe soluzioni, è che senza pressioni “non faremmo i compiti”. Italiani fannulloni che devono essere costretti dal famigerato vincolo esterno (in questo caso l’UE e i suoi diktat) perché per nostra natura siamo deboli e corrotti. Nel merito, venti anni di avanzo primario, e una costante diminuzione del rapporto debito/PIL tra il 1995 e il 2008 mostrano la fallacia di un tale argomento. Come detto sono proprio gli interessi sul debito e l’austerità a trascinarci a fondo. Ancora prima, è del tutto inaccettabile l’impianto teorico che nuovamente pone parametri economici arbitrari come obiettivi in sé e diritti fondamentali dei cittadini come variabili su cui giocare. Il debito come arma, spread e minacce come strumenti per smantellare welfare e conquiste del lavoro.

In ultimo, anche volendo dare credito alla necessità di “fare i compiti”, il Padre Plan non prevedeva un intervento della BCE per scambiare l’intero debito pubblico. Potrebbe essere la parte eccedente il famigerato 60% o anche meno. Si tratterebbe comunque di una boccata di ossigeno da decine di miliardi di euro l’anno per lo Stato italiano, che eventualmente potrebbe continuare a finanziarsi sui mercati (a tassi inferiori, avendo conti pubblici migliorati) per la parte rimanente.

Liberare risorse dalla spesa per interessi significherebbe avere un margine di manovra per investimenti pubblici che potrebbero trainare una crescita del PIL, con conseguente riduzione proprio del rapporto tra debito e PIL. Anche qui il ritornello sulla “spesa pubblica improduttiva” è una foglia di fico che non può nascondere scelte puramente ideologiche. Innumerevoli studi mostrano come un euro di investimenti pubblici ben indirizzati possa generare diversi euro di aumento del PIL. La stessa idea di “spesa improduttiva” dovrebbe indicare ben altro. Di fatto, dal punto di vista dei conti pubblici l’unica spesa pubblica realmente improduttiva è proprio quella per interessi (in particolare per quelli pagati ai detentori esteri di titoli di Stato).

Parliamo di investimenti nella ricerca, nel welfare, nella mobilità sostenibile, nella transizione energetica, per creare buona occupazione. Per l’ennesima volta, non è possibile che non vengano fatti perché gli obiettivi sociali e ambientali vengono subordinati al rispetto di parametri economici del tutto arbitrari e a dogmi ideologici fallimentari.

La questione del debito va affrontata dal punto di vista qualitativo, non quantitativo. Cosa si fa con la spesa pubblica molto prima di quanta se ne fa. La semplice realtà è che oggi servirebbe più debito pubblico. Primo perché questi investimenti sono tanto urgenti quanto necessari; secondo perché le decisioni sul debito devono essere funzionali a obiettivi sociali, occupazionali, ambientali, non viceversa; terzo perché l’ammontare del debito non è il parametro su cui basare le politiche economiche, così come non lo è il rapporto debito/PIL.
Il debito pubblico è una questione politica, non economica
Dopo decenni di retorica a senso unico, troppo spesso anche a sinistra sembra però impossibile rimettere in discussione determinati assunti, a partire dal fatto che il debito pubblico è eccessivo. Se vogliamo cambiare strada, serve però il coraggio e la lungimiranza per ripensare le stesse fondamenta dell’attuale fallimentare modello, e aprire spazi di dibattito e riflessione.
Il debito non è una questione economica, è una questione politica. L’anno prossimo si vota per il rinnovo del Parlamento europeo. Abbiamo un anno di tempo. Un anno per costruire un percorso e delle proposte forti, che possono sembrare oggi provocazioni ma che permetterebbero il necessario e radicale cambio di rotta in UE. E’ ora che la democrazia riaffermi il proprio primato sulla finanza, se ancora è in grado di farlo. Vogliamo provarci?

Riferimenti

Sull'argomento vedi su eddyburg gli articoli di Edoardo Salzano e Roberto Camagni, discutiamo del debito pubblico, di Roberto Camagni, il debito pubblico, D'accordo, ma..., di Susanna Böhme Kuby, Si può non pagare quando è ingiusto, di Francesco Gesualdi, Il debito pubblico è come il colesterolo , e l'intervento - secondo noi conclusivo - di Marco Bersani Il tabù dell'annullamento del debito

il manifesto, 15 aprile 2018. La grande truffa del debito pubblico: uno strumento inventato per continuare a spostare investimenti dalle funzioni e attività utili a tutti i cittadini (dalla salute all'assistenza, dalla scuola alla difesa del suolo) verso gli interessi del finanzcapitalismo. Con riferimenti

In tremila si sono riuniti ieri mattina a Napoli, in piazza Municipio, per protestare contro il debito ingiusto. La manifestazione è stata indetta dal sindaco Luigi de Magistris, che da un anno ha avviato una trattativa con il governo Gentiloni per risolvere la questione Cr8 e quella relativa alla crisi rifiuti: due debiti che risalgono rispettivamente al terremoto del 1980 e agli anni 2006-2008, entrambi contratti da commissari di governo e finiti sulle spalle del comune.

In piazza c’erano i lavoratori della Napoli servizi, consiglieri e assessori, il movimento del sindaco Dema, i sindacati Sll e Usb, gli attivisti di Massa critica, Napoli direzione opposta, Insurgencia, Gridas e Potere al popolo. Sul palco sono saliti volti noti come l’icona della canzone napoletana Angela Luce, l’Arcigay e l’Associazione transessuale Napoli.

Viola Carofalo, portavoce di Potere al popolo, ha sottolineato: «La questione del debito riguarda centinaia di comuni, l’80% al Sud. È un problema nazionale e internazionale, visto quello che i diktat europei e il pareggio di bilancio provocano. È uno strumento per togliere i diritti alle classi popolari». L’assessore comunale al Bilancio, Enrico Panini, ha spiegato: «Il governo uscente è in grado di perfezionare le decisioni che ha già assunto sul Cr8. Sono già state definite le percentuali di responsabilità, sono state trovate le coperture finanziarie, manca la firma. Senza la firma le casse del comune restano pignorate, siamo costretti a ricorrere alle anticipazioni che ci costano interessi al 3%.Oltre150 milioni di disavanzo sono frutto della stagione dei commissariamenti, chiediamo che paghi chi li ha maturati».

Tocca al sindaco chiudere l’assemblea: «È la prima manifestazione in Italia contro il debito ingiusto. Ci presenteremo ai gruppi parlamentari, chiederò un incontro anche al presidente Mattarella. Non vogliamo leggi speciali ma una legge per tutti i comuni contro l’usura di stato. Il governo ha trovato 12 miliardi per salvare le banche e non qualche centinaio di milioni per i diritti degli abitanti del paese. Dovranno risarcirci». E sui 5S: «Ho fiducia che si potranno differenziare da chi ha oppresso i territori». La senatrice pentastellata Paola Nugnes in mattinata aveva dichiarato: «Stiamo con i sindaci, non guardiamo al colore politico ma a realizzare obiettivi quali il benessere dei cittadini». Infine de Magistris ha riservato una stoccata alle due contromanifestazioni convocate da Pd e destra: «Qualcuno ha pensato di dividere la città ma noi lottiamo nell’interesse di tutti».

IN CONTEMPORANEA con piazza Municipio, a via Toledo FdI protestava contro il sindaco: erano una decina, riuniti intorno a un Ape Piaggio tricolore. A piazza Trieste e Trento invece si erano date appuntamento 50 associazioni civiche più il Pd, la Lega e qualche esponente di Fi. Venerdì anche Forza Nuova e Casa Pound avevano annunciato l’adesione al presidio, che alla fine ha raccolto circa duecento persone. Cp ha poi spiegato di essere stata invitata dagli organizzatori.

I dem, con la senatrice Valeria Valente, avevano assicurato la loro presenza durante una conferenza stampa con Gianluca Cantalamessa, proveniente dall’Msi poi approdato alla Lega. La cifra di destra era chiara eppure ieri il segretario e il presidente provinciale dem, la segretaria regionale e il neodeputato Paolo Siani si sono stupiti dell’arrivo di Fn e Cp, allontanandosi dalla piazza. Il capogruppo Pd al consiglio comunale, Federico Arienzo, ha spiegato su Facebook: «Sono andato via. Faccio opposizione al sindaco rispettando la mia idea di società, non c’è spazio per i neofascisti».

Matteo Richetti ha commentato: «Bravo Arienzo! Sono settimane che denunciavi questo errore, una piazza piena di destra e intolleranza di civico non ha proprio nulla. Bastava guardarsi a fianco in conferenza stampa invece di farsi accecare dalle telecamere». Il consigliere regionale Gianluca Daniele si era già dissociato, ieri ha ribadito: «Avevo consigliato ad alcuni colleghi, a partire da Valente, evidentemente in crisi d’identità, di non aderire. Andare in piazza a prescindere da quello che si dice e dalla compagnia mi sembra una conferma dello sbandamento del partito a Napoli».

Riferimenti
Si veda su eddyburg Discutiamo di debito pubblico con il manifesto dell'Assemblea nazionale del CADTM - Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi, Italia, e le posizioni di Roberto Camagni ed Edoardo Salzano e Debito pubblico. Si può non pagare quando è ingiusto. Lo si è fatto altre volte

di Susanna Bõhme Kuby,

Avvenire, 22 marzo 2018. I progressi dello "sviluppo" generano morte. Guerre, saccheggio delle risorse altrui per aumentare i profitti degli sfruttatori, disastri climatici prodotti da uno crescita energivora dei paesi del benessere sono i fattori del genocidio in atto
«L'emergenza riguarda 11 milioni di persone in più rispetto a un anno fa. Allarme in Myanmar, Nigeria, Repubblica democratica del Congo, Sud Sudan e Yemen»

Aumenta la fame nel mondo e mette sempre più a rischio la vita. Sono 124 milioni le persone in 51 Paesi (11 milioni di persone in più di un anno fa) che vivono una situazione di crisi alimentare acuta, tale da aver bisogno di un'azione umanitaria urgente. A far arretrare il pianeta, dopo decenni di politiche che avevano portato a un miglioramento, sono stati i cambiamenti climatici e i conflitti. È quanto emerge dal rapporto del Fsin, la Rete di informazione sulla sicurezza alimentare, elaborato da Ue e agenzie Onu e presentato a Roma nella sede della Fao.

Il Fsin, che ha realizzato il Rapporto globale sulle crisi alimentari, è un network composto da diversi enti internazionali, tra cui l'Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), l'Unione Europea, la Fao, l'Unicef, l'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), il Programma alimentare mondiale. Il rapporto sottolinea come le crisi alimentari siano sempre più determinate da cause complesse quali conflitti, choc climatici estremi, prezzi alti degli alimenti di base, che si presentano spesso in concomitanza. L’aumento di persone che soffrono la fame è dovuto quest’anno in gran parte alla situazione di conflitto e insicurezza in Myanmar, nord-est della Nigeria, Repubblica democratica del Congo, Sud Sudan e Yemen. La prolungata siccità ha avuto drammatiche conseguenze soprattutto nell’Africa meridionale e orientale.

Le situazioni di conflitto rimangono il fattore principale alla base della grave insicurezza alimentare in 18 Paesi, 15 dei quali sono in Africa e Medio Oriente. E costituiscono la causa primaria per la maggior parte dei casi di insicurezza alimentare acuta nel mondo, toccando il 60 per cento del totale (74 milioni di persone). I disastri climatici (soprattutto la siccità) hanno portato crisi alimentari in 23 Paesi, due terzi dei quali in Africa, e hanno trascinato nell'insicurezza alimentare grave 39 milioni di persone.

R.it ambiente, 21 marzo 2018. Chi non ce l'ha per nulla, chi poca, chi molta e sana e la beve, chi ce n'ha molto e l'imbottiglia e la vende, chi ce l'ha inquinata. Indovinate un po' dove stanno i ricchi, i ricchissimi, i benestanti sani e dove quelli inquinati, e dove stanno i poveri. È un giochino di malasocietà

«Si celebra in tutto il mondo ogni 22 marzo. L'allarme dell'Onu: da qui al 2050, se le risorse idriche non saranno gestite meglio, 5 miliardi di persone dovranno fare i conti con la carenza d'acqua per almeno un mese all'anno»

Le risorse naturali non sono distribuite in modo equo sulla Terra. E' così che nella parte povera del mondo centinaia di bambini muoiono ogni giorno a causa dell'acqua contaminata, mentre in Italia, dove l'acqua esce limpida dai rubinetti, l'imbottigliamento frutta miliardi alle aziende private, ma rende pochissimo alle Regioni che concedono le fonti. L'occasione per fare il punto è la Giornata mondiale dell'acqua che ricorre il 22 marzo. A istituirla, nel 1992, è stata l'Onu, che nei giorni scorsi ha lanciato il suo allarme: da qui al 2050, se le risorse idriche non saranno gestite meglio, 5 miliardi di persone dovranno fare i conti con la carenza d'acqua per almeno un mese all'anno.

L'emergenza, tuttavia, è già adesso ed è ancora più grave: ogni giorno oltre 700 bambini - ricorda l'Unicef - muoiono per malattie legate all'acqua non pulita e alle scarse condizioni igienico-sanitarie. Per 2 miliardi di persone l'accesso all'oro blu è ancora un lusso, e in sua assenza prolifera la morte. La mancanza d'acqua e di servizi igienici adeguati contribuisce alla morte di 1 bambino su 5 sotto i cinque anni, evidenzia Save The Children. L'acqua contaminata è uno dei maggiori vettori di malattie quali il colera, la dissenteria, il tifo, la poliomielite e la diarrea. Solo quest'ultima provoca ogni giorno il decesso di circa mille bambini con meno di 5 anni, 361mila in un anno. E' un grido d'allarme, quello che sale dal lato povero del Pianeta, che richiama tutti all'urgenza di attuare il sesto obiettivo Onu di sviluppo sostenibile: acqua pulita e servizi igienico-sanitari per tutti entro il 2030, sperabilmente molto prima.

Alle nostre latitudini, invece, l'acqua rappresenta tutt'altro tipo di bene: prettamente economico e custodito in tasche private. In Italia l'imbottigliamento crea un giro d'affari stimato in 10 miliardi di euro all'anno, con un fatturato per le aziende di 2,8 miliardi, di cui solo lo 0,6% arriva nelle casse dello Stato. I conti li fa un dossier di Legambiente e Altreconomia: i canoni di concessione pagati dalle imprese raggiungono al massimo i 2 millesimi di euro al litro, un costo di 250 volte inferiore rispetto al prezzo medio di vendita dell'acqua in bottiglia. Si propone quindi un canone minimo a livello nazionale di almeno 20 euro al metro cubico, cioè 2 centesimi al litro imbottigliato. L'aumento permetterebbe alle Regioni di incrementare gli introiti di oltre 200 milioni di euro all'anno: risorse utili per interventi in favore dell'acqua di rubinetto e per la tutela della risorsa idrica.

Articolo ripreso da R.it ambiente dalla pagina qui raggiungibile

Gli occhi della guerra online. L'Impero sta mettendo a punto armi sempre più disumane e potenti. Il richiamo alla pace, è scomparso dai teatrini della politica. Ma con gli armamenti gli affari crescono
La guerra in Yemen , una delle peggiori tragedie umanitarie in corso nel mondo, ha prodotto un’impennata nell’uso di armi laser, in cui le varie fazioni testano le capacità laser offensive e difensive. E anche gli Stati Uniti, che con le forze navali operano nell’area, confermano che le loro attività s’inseriscono nel quadro di questa sorta di grande (e terribile) addestramento mondiale . A ricordarlo è il Marine Corps Times che riporta le parole del generale Robert Neller, comandante dei marine, davanti ai rappresentanti del Congresso.

Di fronte al House Appropriations Committee, il comandante del corpo dei marines ha detto che l’area al largo della costa del paese devastato dalla guerra è diventata un terreno di prova per una varietà di applicazioni laser. “Non è solo in mare, quello che sta accadendo al largo delle coste dello Yemen è una sorta di laboratorio a fuoco vivo“, ha detto Neller.

eller ha aggiunto che i marines già utilizzano la tecnologia laser, in particolare per i droni e altri dispositivi che vengono utilizzati per abbatterli o per “interrompere il collegamento”, cioè per interrompere il segnale tra il drone e il suo controller. Secondo quanto riferito dal Pentagono, la maggior parte di ciò che è usato attraverso queste piattaforme, proviene da “terroristi” che usano tecnologie standard per provare a distruggere i sistemi statunitensi.

Come ricorda Newsweek, nella stessa audizione, il segretario della Marina, Richard Spencer, e il capo delle operazioni navali, l’ammiraglio John Richardson, hanno riferito ai rappresentanti che la marina statunitense sta considerando l’utilizzo di una nuova “famiglia di laser” per combattere le minacce portate dai droni. Minacce che sono sia aeree che sottomarine, a detta della Difesa. E, proprio per questo motivo, il Pentagono è alla ricerca di nuovi fondi.

L’esercito americano, come tutti i maggiori eserciti del mondo, hanno studiato i sistemi laser per molti anni. I sistemi laser possono distruggere i bersagli causando il surriscaldamento delle parti e possono anche interrompere l’operatività dei sensori e così anche la navigazione. La nave da trasporto anfibia Uss Ponce è stata equipaggiata con un’arma laser da 30 kilowatt già nel 2014 e i test hanno dimostrato ch

Uss Ponce è stata equipaggiata con un’arma laser da 30 kilowatt già nel 2014 e i test hanno dimostrato che l’arma era anche in grado di distruggere gli obiettivi causandone il surriscaldamento e l’esplosione.

I giganti della difesa Boeing, Lockheed Martin, Northrop Grumman e Raytheon hanno tutti lavorato sui propri sistemi per il Pentagono. I progressi della tecnologia delle batterie per le automobili di Tesla, ad esempio, sono stati presi in prestito da queste aziende per offrire al Pentagono la possibilità di ottenere armi laser ad alta potenza. L’Air Force Research Laboratory ha stipulato un contratto con Lockheed Martin a novembre per sviluppare laser a fibra ad alta potenza che saranno testati su un jet da combattimento tattico entro il 2021. Insomma, il Pentagono ha mosso passi molto importanti.

In questa strategia delle forze armate americane, serve però un campo di addestramento, un luogo dove sia possibile testare queste armi nella pratica, nella realtà concreta. Ed ecco che la guerra in Yemen. Una guerra terrificante, dove non sembra esserci una via d’uscita e dove le potenze regionali sono coinvolte sia direttamente che per procura allo scopo di accaparrarsi il governo locale nella propria sfera d’influenza.

Intendiamoci, nessun Paese è innocente. Tutte le potenze internazionali usano le guerre per testare i propri nuovi sistemi d’arma. Lo fanno gli Stati Uniti, lo fa la Russia, lo potrebbe fare la Cina (che per adesso non è coinvolta direttamente in un conflitto) e lo fanno le potenze europee, soprattutto nei conflitti nordafricani come in Libia, o in Medio Oriente. In questo senso, l’ultima notizia riguardava proprio la Russia in Siria, dove si ritiene che i nuovi Su 57 siano stati schierati proprio allo scopo di testare le loro capacità stealth. Fa però riflettere il fatto che gli alti comandi americani parlino apertamente di un Paese, in questo caso lo Yemen, come di un “grande campo d’addestramento a fuoco vivo”. È possibile che una tragedia sia declinata nell’ambito del budget per la Difesa come “laboratorio“? Evidentemente sì. E la cosa, francamente, non porta solo amarezza ma anche una seconda domanda: chi ha interesse, veramente, a far finire questo conflitto?


L’articolo e l’immaginesono tratti dal sito “Gli occhi della guerra”, dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto, 8 marzo 2018. Piccoli ma numerosi esempi di come si possa superare lo sfruttamento del lavoro, favorire l'integrazione, recuperare spazi abbandonati. E soprattutto affermare la dignità e l'uguaglianza di tutti: dai migranti alle donne. (m.p.r.)

«Altra economia. Dalle olive del Belice alle arance di Rosarno, produttori agricoli, attivisti e migranti si autorganizzano. Senza passare per la grande distribuzione»

Grosse e gustose, nel piatto ne entrano solo quattro. Sono le olive di Nocellara del Belice che ogni anno vengono raccolte da centinaia di lavoratori, soprattutto africani, costretti a vivere nel ghetto di Campobello di Mazara. Qui nell’ottobre del 2013, un ragazzo di 26 anni moriva nel silenzio generale avvolto dalle fiamme mentre cercava di accendere un fornello malandato. In quel periodo nel ghetto si sono conosciuti, durante alcune assemblee, una decina di italiani e senegalesi, ragazze e ragazzi che hanno deciso di creare qualcosa di diverso: ContadinAzioni adesso produce olive e pomodorini secchi in autonomia, senza dover sottostare alle logiche di sfruttamento imposte dalla grande distribuzione organizzata.

Questa è la realtà più a sud di Fuori Mercato, una rete di produttori agricoli, operai, attivisti, migranti e italiani che dalla Sicilia alla periferia industriale di Milano hanno costruito un sodalizio a partire dalle pratiche: autogestione, mutualismo, rispetto delle condizioni di lavoro sui campi come in fabbrica. «Ora fare militanza significa lavorare la terra autonomamente», spiega Martina Lo Cascio di ContadinAzioni. Bracciante, ricercatrice, attivista: la tesi di dottorato l’ha fatta lavorando nei campi e vivendo nel ghetto dove ha capito che il modo di fare sindacato doveva cambiare. A Campobello il caporale è difeso dai braccianti e le famiglie dei «napoletani» che dagli anni ’50 imponevano il prezzo delle olive sfuse, adesso devono a loro volta sottostare ai dettami della gdo. Invece, ContadinAzioni ha creato un circuito indipendente sul fronte della distribuzione e grazie al sostegno di un’altra realtà Fuori Mercato come SOS Rosarno, tra Campobello e Partinico coltiva i campi in modo biologico.

Risalendo la penisola verso un’altra terra del Sud come la Calabria, ad invadere gli occhi sono gli aranceti della piana di Gioia Tauro dove nel 2010 non fu un fornello a scoppiare, ma un’arma ad aria compressa puntata contro alcuni migranti. Durante i giorni della guerriglia, a Rosarno c’era chi, invece di sparare, insieme alla Medici Senza Frontiere distribuiva coperte: «Le ho ritrovate a Roma alla stazione Termini dove in molti hanno dovuto dormire per settimane». Peppe Pugliese fa parte di SOS Rosarno, un progetto nato anche dalle assemblee all’ex Snia di Roma con i ragazzi africani che lì avevano trovato ospitalità: «Vendere clementine e olio ad un prezzo giusto per poter fare contratti di lavoro regolari. Dovrebbe essere la normalità e invece è triste che sia rivoluzionario».

Da quel momento hanno iniziato a lavorare con SOS Rosarno alcuni ragazzi che finalmente sono riusciti a uscire dai ghetti e si è creato un sodalizio tra una quindicina di produttori che hanno creato un altro mercato. Perché il problema, spiega Peppe, non è il caporalato ma ciò che lo genera: «Fin quando il produttore percepirà pochi centesimi al chilo per i suoi prodotti le possibilità sono tre: abbandonare la terra; sperare nell’esproprio dello Stato in cambio di soldi; sfruttare qualcuno che è più debole per risparmiare sui costi».

La rete Fuori Mercato continua in Puglia: a Bari e Nardò circa 40 persone tra migranti e italiani seminano, raccolgono e poi trasformano i pomodori in 20 mila vasetti di salsa SfruttaZero da distribuire. Non nei supermercati, ma direttamente alle famiglie, o attraverso punti di raccolta di vari gruppi d’acquisto solidali sparsi in tutta Italia.

Quanto sia concreto il mutualismo che c’è dietro a tutto ciò lo sa Moro che è scappato dalla Libia 7 anni fa, è arrivato a Lampedusa e poi è finito nel Cara di Bari. Anche qui nel 2010 scoppiarono le rivolte per le condizioni in cui erano costretti a vivere i migranti; in molti, tra cui Abu Moro, sono poi andati a lavorare nei campi, a Foggia: «Non potevo vivere senza acqua né luce, aspettando che arrivasse il caporale. Sono tornato a Bari e ho incontrato i ragazzi di Solidaria che avevo conosciuto durante le proteste. Abbiamo deciso di fondare SfruttaZero e adesso lavoriamo per 8 euro all’ora, non a cassetta».

Sui campi come negli spazi abitativi autogestiti, l’obiettivo di SfruttaZero è quello di creare un percorso comune che tenga insieme la dignità e il soddisfacimento dei bisogni di ognuno. Per farlo, secondo Gianni De Giglio, «servono le pratiche: la delega va superata e tutti devono essere in grado di esprimere la propria soggettività. Lo sfruttamento porta alla frammentazione, invece qui si lavora insieme, non c’è differenza di salario né con i migranti né con le donne».

Proprio le donne di Non Una Di Meno hanno partecipato per la prima volta al quinto incontro nazionale di Fuori Mercato, che si è svolto a dicembre alla Rimaflow. La fabbrica di Trezzano sul Naviglio è autogestita dagli operai licenziati nel 2012 e funge da centro di distribuzione dei prodotti. L’idea di costruire una rete nazionale è nata nel 2014 dall’incontro tra questi operai e gli agricoltori di SOS Rosarno. Le altre realtà si sono aggregate negli anni e in tutto sono una ventina: da Terranostra che a Casoria ha deciso di occupare quattro ettari di terra che circondano un deposito militare abbandonato; alla fattoria senza padroni di Mondeggi (Firenze), occupata in opposizione alla privatizzazione dei terreni.

Non si tratta di creare un’isola felice, ma di guardare e allargare la rete a movimenti internazionali come quello dei Sem Terra brasiliani e della via Campesina o a realtà culinarie come Mshikamano a Milano. Realizzare un’alternativa va di pari passo al carattere sindacale di Fuori Mercato. Secondo Gigi Malabarba, operaio della RiMaflow, «man mano che aumenta la sovranità alimentare nei territori togliamo spazio alla grande distribuzione organizzata. Allo stesso tempo, supportiamo le vertenze e le manifestazioni dei migranti, dei lavoratori della logistica, delle donne».

il Sole 24 ore, 16 febbraio 2018. Il continente le cui popolazioni sono le più povere del mondo continua a essere saccheggiato dalle nazioni che il capitalismo (privato o di Stato) ha reso più feroci e aggressive, con postilla

Nel mondo ricco i governi impongono limiti alle emissioni delle auto. I costruttori puntano sull’elettrico. Nel mondo povero è una nuova corsa dell’oro, legata alla conquista dei minerali per alimentare le batterie delle auto del futuro.

Con le società minerarie che fanno a gara per aggiudicarsi licenze di esplorazione e terreni da sfruttare. L’Africa, il continente più povero - per una sorta di condanna del destino ineluttabile come una malattia - è quello più ricco di materie prime. Dal Niger alla Costa d’Avorio, dalla Repubblica Democratica del Congo alla Tanzania, il Malawi, il Mozambico fino alla Namibia, la domanda di metalli per lo sviluppo delle “tecnologie pulite” sta aprendo nuove frontiere all’industria mineraria. A caccia di cobalto, grafite, litio, neodimio, niobio, praseodimio, terre rare.

Alla conquista dell’Africa

Tutti gli operatori, i grandi come Bhp Billiton e Rio Tinto, ma anche i piccoli, sono in fermento. Gli ultimi in ordine di tempo. Noble Group, quotata a Singapore, nel novembre scorso ha annunciato investimenti per 17 milioni di dollari in Malawi per l’estrazione di metalli da terre rare. In Tanzania dietro al progetto Panda Hill per avviare una miniera di niobio, metallo superconduttore, c’è il fondo americano Denham Capital. Nel Nord del Mozambico è appena partita la produzione nella più grande miniera di grafite, minerale utilizzato nelle batterie delle auto elettriche di nuova generazione, come la Model 3 di Tesla. Miniera controllata dalla società australiana Syrah Resources.

Il colosso delle materie prime Glencore è tra i principali produttori di cobalto nella Repubblica Democratica del Congo. Il cobalto è un minerale essenziale nelle nuove batterie ricaricabili agli ioni di litio che alimentano le auto elettriche, ma anche gli smartphone, i tablet e i computer. China Molybdenum, società mineraria parastatale lo scorso anno ha comprato la miniera di Tenke sempre in Congo per 2,6 miliardi di dollari. Una miniera che contiene una delle più grandi concentrazioni di cobalto al mondo e offre per i decenni a venire la sicurezza della fornitura. I prezzi del cobalto sono triplicati negli ultimi due anni.

Le società minerarie cercano di conquistare nuovi siti estrattivi per il litio, principale componente per le batterie, nei giacimenti in Congo, Namibia, Niger, Costa d’Avorio. Il gruppo minerario Desert Lion Energy ha acquisito i diritti di esplorazione nella Namibia occidentale. Le azioni della società mineraria Avz hanno avuto un balzo clamoroso alla Borsa di Sydney del 1.500% dopo l’annuncio di investimenti in una delle miniere di litio più grandi al mondo nel Congo. Anche qui, i prezzi sono quasi raddoppiati negli ultimi due anni. Ma in generale tutti i prezzi delle materie prime legate alle auto elettriche sono alle stelle. Le società minerarie aumentano i loro ricavi e la capitalizzazione di Borsa.

L’altra faccia della medaglia

Vista dall’altro lato la storia prende un altro sapore: centinaia di migliaia di persone in Africa lavorano nelle nuove miniere, compresi i bambini, in condizioni di lavoro durissime e spesso pericolose se paragonate agli standard occidentali. A centinaia di metri di profondità, con dispositivi di sicurezza minimi. Spesso solo con le mani, le mazze e i picconi, senza ausili tecnologici. Morti e gravi incidenti sul lavoro sono la norma. Come ha raccontato recentemente Todd Frankel del Washington Post in un reportage da una miniera in Congo dove si estrae cobalto.

Il Congo è uno Stato enorme. Un Paese instabile, abituato a entrare e uscire dalle guerre civili, con una mappa mineraria infinita e una lunga storia di sfruttamento delle risorse naturali cominciata nell’era coloniale. «L’Africa è una magnifica torta da spartire»: la celebre, quanto infelice frase del Re Leopoldo II del Belgio al Congresso di Berlino del 1876 tra le potenze coloniali, ha fatto storia.

Da allora non molto è cambiato. Il colonialismo ora è di tipo economico, con il Paese che annega nella corruzione. L’attività mineraria, soprattutto quella fatta dalle piccole aziende meno controllate di quelle internazionali, o dai subfornitori di qualche grande società, sottopone le comunità locali a livelli di esposizione ai metalli tossici mai visti prima, che inquinano i terreni e le falde acquifere. In Africa aumentano le neoplasie, malattie quasi sconosciute fino a qualche anno fa, ora anche tra i bambini. Aumentano anche le malformazioni tra i neonati.

L’aria pulita dell’Occidente ha un prezzo molto salato per l’Africa. Almeno fino a quando le grandi società non renderanno chiara e tracciabile la provenienza delle materie prime che alimentano le proprie batterie. Impresa impossibile probabilmente, considerando la grande “fame” di minerali da parte dell’industria dell’auto e la scarsità delle risorse naturali. La miniera dell’inchiesta del «Post» è di una società cinese: Zhejiang Huayou Cobalt, uno dei principali produttori mondiali di cobalto - che controlla anche DongFang International Mining accusata da Amnesty International di comprare minerali estratti dai bambini - e fornisce i metalli ai principali produttori di batterie contenute nelle auto ma anche nei prodotti hi-tech, come l’iPhone.

Apple dopo l’inchiesta del WP ha fatto sapere di aver aumentato i controlli sulla provenienza del cobalto. Lg, uno dei principali produttori di batterie, ha bloccato l’import di cobalto dal Congo. Samsung Sdi, la divisione del colosso coreano che produce batterie, ha effettuato delle investigazioni interne all’aziende e ha fatto sapere che per le sue batterie non utilizza minerali provenienti dal Congo.

La nuova corsa all’oro

In questa nuova corsa dell’oro il principale destinatario dei minerali africani è la Cina. Le auto elettriche sono una delle aree principali di sviluppo del piano Made in China 2025. La Cina è divenuta in pochi anni il primo mercato mondiale dell’automotive superando anche gli Stati Uniti nel 2015. E ha anche il primato delle vendite di auto elettriche e ibride che nel 2017 hanno superato per la prima volta il milione di unità, favorito dai ricchi incentivi governativi per l’acquisto di veicoli puliti. Gli obiettivi del governo sono ambiziosi. Uno di essi è il raggiungimento dei cinque milioni di veicoli elettrici sulle strade entro il 2020. L’industria delle batterie per veicoli elettrici è giudicata strategica dal governo che punta a conquistare la supremazia mondiale. «Le batterie al litio sono state inventate dai giapponesi e perfezionate dai coreani. Ora però saranno i cinesi a prendersi il mercato grazie agli aiuti all’industria da parte del governo», dice Mark Newman, analista di Bernstein.

Finora il mercato è stato dominato dalla giapponese Panasonic e dalla coreana Lg. Panasonic è ancora il primo al mondo nelle batterie per auto elettriche, sta costruendo il mega stabilimento di Tesla in Nevada, la Gigafactory. Ma i cinesi avanzano. Contemporary Amperex Technology ltd (Catl) società creata nel 2011 dall’ingegnere Zeng Yuqun, 50 anni, che ha sede a Ningde, metropoli da 3 milioni di abitanti nel Sud-Est del Paese, zona famosa per la produzione del thè verde, è già il primo fornitore di batterie nel più grande mercato per le auto Ev, la Cina. Ma sta pensando a una Ipo per crescere e assicurarsi forniture da marchi europei e americani.

La cavalcata della Cina

Catl è valutata 20 miliardi di dollari. Punta a quotare il 10% del capitale per raccogliere due miliardi di dollari. Fondi che serviranno a finanziare la realizzazione di un mega stabilimento produttivo per le batterie a Ningde. Il nuovo stabilimento quintuplicherà la produzione di Catl facendola salire al primo posto nella classifica mondiale tra i produttori di batterie elettriche, prima di Tesla, dell’altra cinese Byd (Build your dreams) partecipata al 10% da Warren Buffett, specializzata nella produzione di batterie per bus e scuolabus. E prima ancora delle coreane Lg Chem e Samsung Sdi. Oltre ai sussidi governativi all’industria e alle barriere d’ingresso per le aziende straniere, il grande vantaggio dei produttori di batterie cinesi rispetto ai concorrenti è l’accesso alle materie prime. Grazie al fatto che le società minerarie cinesi in Africa in questi anni hanno fatto razzia di miniere di cobalto e litio e degli altri metalli per assicurarsi le forniture. «La Cina – conclude Anthony Mimlewski del fondo svizzero Pala Investments - vuole diventare la Detroit delle auto elettriche. Non ho dubbi sul fatto che nei prossimi anni guiderà il mondo per capacità produttiva e, probabilmente, anche nella tecnologia».

postilla

Nel suo interessante articolo (un vero - ma implicito - atto d'accusa verso il capitalismo saccheggiatore e mortifero) l'autore pronuncia una squalificante menzogna. Egli afferma che l’Africa è «il il continente più povero - per una sorta di condanna del destino ineluttabile come una malattia». Nessun "destino ineluttabile, signor Barlaam, ma il pluricentenario saccheggio delle risorse naturali (e umane) operato dal colonialismo imperialistico, nelle sue forme vecchie e in quelle recenti. È il capitalismo baby.

il fatto quotidiano, 27 dicembre 2017. L'attualità di Sankara e della lotta contro l'imperialismo economico, politico e culturale dell'occidente, che continua a ridurre lo sviluppo umano a un modello uniforme, sterile e iniquo (i.b).
Il 15 ottobre scorso facevano trent’anni dall’assassinio diThomas Sankara (1949-1987), capo rivoluzionario e poi presidente del BurkinaFaso, colui che per primo volle far uscire il suo Paese dal retaggio colonialefrancese e dal nuovo imperialismo di Fmi e Banca mondiale, nazionalizzando leterre e le risorse minerarie, varando un programma di autosufficienza, mirandoad ab- battere analfabetismo e malattie, e a tutelare la natura, i dirittidelle donne, e la dignità e l'autonomia del continente africano. Forse è per ilsuo radicalismo che - a differenza di un Mandela - Sankara è poco ricordatooggi in Europa (da noi, Fiorella Mannoia gli ha dedicato una bella canzone,Quando l’angelo vola). Ma le sue idee sembrano drammaticamente attuali.
VIENNA. Mentre il nuovo governo austriaco lancia le primebordate contro i migranti e il sud, nelle librerie campeggia il libro deisociologi Ulrich Brand e Markus Wissen, “Modo di vita imperiale(ImperialeLebensweise, Oekom 2017), dedicato a disuguaglianze globali edeterioramento ecologi- co del pianeta. Ad onta di rivoluzioni verdi,conferenze sul clima e simposi per il Sud del mondo, la situazione non fa chepeggiorare: la ragione, secondo gli autori, sta nel fatto che si forniscono perlo più soluzioni tecniche (dalle auto elettriche alle dilazioni sul debito) aproblemi che sono di ordine politico. Per tutelare la stabilità degli interessie delle ideologie dominanti, si omette di attaccare il vero problema di fondo:il modo di vita delle società dei Paesi ricchi.
Quest’ultimo - senza alcun giudizio morale - è definito“imperiale” in quanto “la vita quotidiana nei centri capitali- stici è resapossibile in larga misura dall’assetto dei rap- porti sociali e dellecondizioni naturali che si verifica altrove, cioè dallo sfruttamento potenzialmenteillimitato della forza lavoro, delle risorse naturali e dei giacimenti su scalaglobale”. Viviamo, per citare un saggio di Stephan Lessenich (Accanto a noi ildiluvio, Hanser 2016), nella “società dell’esternalizzazione”, in cui tutte leconseguenze negative del “progresso” (dai cambia- menti climatici ai rifiutiindustriali, dalle nuove povertà al nuovo schiavismo) vengono rimosse il piùlontano possibile dai nostri occhi. E così, oltre alle rivendicazioni diSankara (che preferiamo obliterare - per citare un nostro ex premier -“aiutandoli a casa loro” e demandando la politica estera all’Eni), vengonorimossi dalla memoria collettiva disastri atroci come il crollo del Rana Plazadi Dacca (dove si producevano magliette per marchi occidentali), l’esondazionee la contaminazione del Rio Doce in Brasile (dove si estraevano mineraliferrosi per conto di ditte occidentali), l'irrompere nelle pampas argentinedelle piantagioni di soja (destinata ai maiali da alleva- mento cinesi), oancora i cimiteri dei nostri computer allocati in Ghana, o lo sterminio della faunaittica dello Yangtse in Cina, o le perniciose dighe nella valle dell’Omo inKenya, raccontate da Ilaria Boniburini, grande esperta d’Africa e di retoricheimperiali, in un bell’articolo sui “nuovi dannati della terra” (eddyburg.it).
BRAND E WISSEN invitano a considerare questi eventi non comeepisodi o tragiche fatalità, bensì come l’esito strutturale di un “progresso”che non ha portato - come prometteva il fordismo - l’emancipazione dallanatura, ma solo l’esternalizzazione nel Sud globale (e nelle sue componenti piùde- boli) delle conseguenze della sua distruzione, e del nostro precariobenessere. Contro questa deriva il mantra della “sostenibilità”, il“capitalismo verde” o la green economy ap- paiono soluzioni inefficaci se nonipocrite: ipocrite quando, per esempio, mercificano le quote di inquinamento oquando (al netto dei trucchi sulle emissioni) favoriscono l’auto verde nelmomento stesso in cui liquidano il tra- sporto su rotaia e puntano sul veicolopiù inquinante, il Suv (vera metonimia della società esclusiva, in quantostatus symbol economico e fonte di sicurezza stradale a discapito degliautomobilisti meno abbienti); inefficaci se è vero che nonostante tutto negliultimi anni il material footprint,l’indicatore più attendibile per misurare l’esternalizzazione dei processi disfruttamento intensivo delle risorse, nei Paesi del Nord globale continua acrescere senza posa.

Secondo Brand e Wissen (che al pari di Lessenich non sonofacinorosi “no-global” ma serissimi accademici attivi tra Vienna e Berlino), ilpensiero neo-capitalista ha anco- rato in ciascuno di noi il “modo di vitaimperiale” fino a fargli occupare una posizione egemonica in senso gramsciano:esso, con le sue comodità e la sua retorica, non pare frutto di imposizione maregola le nostre aspirazioni, i nostri acquisti, le nostre scelte di vita e direalizzazione personale, perfino quando in realtà ci nuoce direttamente; un’immaginariasocietà dei cani domestici statunitensi avrebbe un tenore di vita superiore aquello del 40% della popolazione umana mondiale. Tanto più arduo è il compitodi una sinistra che voglia provare a rovesciare il paradigma, e a persuadere icittadini di un modello di vita “solidale” non fondato su prospettiveregressive o pessimistiche, ma su uno sviluppo condiviso alieno dallo sfruttamentodell’altro, e generalizzabile a tutti senza minare le proprie stesse basi. Èuna questione anche solo di buon senso: nel momento in cui sempre più Paesi(anche assai popolo- si) si industrializzano e aderiscono alla logicadell’esternalizzazione, poiché sul pianeta lo spazio e le risorse sono entitàfinite (l’Africa di Sankara, già martoriata dal clima, è in questo senso lavittima prede- stinata: si pensi all’impetuosa espansione cinese), è inevitabileche si arrivi prima o poi a conflitti non più limitati ai territori “invisibili”del Sud globale, ma capaci di travolgere tutto il sistema.
L'articolo è tratto dal il Fatto Quotidiano: 27 dicembre 2017, pagina 18.

Potremmo dire che la cultura sia attualmente in una fase liquido-moderna, fatta a misura della libertà individuale di scelta (volontariamente perseguita o sopportata in quanto obbligatoria) e concepita per servire tale libertà, per assicurarsi che tale scelta rimanga inevitabile - una necessità a vita, un dovere - e che la responsabilità, la compagna inalienabile della libera scelta, rimanga dove la modernità liquida l’ha costretta: sulle spalle dell’individuo, ora designato come il solo manager della "politica della vita".
La cultura di oggi è fatta di offerte, non di norme. Come aveva già notato Pierre Bourdieu, la cultura vive di seduzione, non di disciplina normativa, di pubbliche relazioni, non di elaborazione di politiche; essa crea nuovi bisogni/desideri/esigenze, non coercizione. Questa nostra società è una società di consumatori e, proprio come il resto del mondo visto e vissuto dai consumatori, la cultura si trasforma in un magazzino di prodotti concepiti per il consumo, ciascuno in competizione per spostare o attirare l’attenzione dei potenziali consumatori nella speranza di conquistarla e trattenerla un po’ più a lungo di un attimo fuggente.
Abbandonare standard rigidi, assecondare la mancanza di discriminazione, servire tutti i gusti senza privilegiarne alcuno, incoraggiare l’irregolarità e la flessibilità - nome politicamente corretto della mancanza di spina dorsale - e rendere romantica la mancanza di stabilità e l’incoerenza è dunque la giusta (l’unica ragionevole?) strategia da seguire; essere meticolosi, inarcare le sopracciglia, stringere le labbra non sono raccomandati.
Il critico televisivo di una trasmissione ha lodato quotidianamente la programmazione del Capodanno 2007/8 per aver promesso «di fornire una gamma di intrattenimento musicale pensata per soddisfare i gusti di tutti». «L’aspetto positivo - ha spiegato - è che grazie al suo richiamo universale puoi immergerti e allontanarti dallo show secondo i tuoi gusti». Davvero una qualità allettante e gradevole in una società in cui le reti sostituiscono le strutture, dove il gioco di collegare e distaccare e di un’infinita processione di connessioni e disconnessioni sostituisce il determinare e il fissare!
La fase attuale di progressiva trasformazione dell’idea di cultura, dalla sua forma originale ispirata dall’Illuminismo alla sua reincarnazione liquido-moderna, è spinta e attuata dalle stesse forze che promuovono l’emancipazione dei mercati dai residui vincoli di natura non economica, tra i quali i vincoli sociali, politici ed etici. Nel perseguire la propria emancipazione, l’economia incentrata sul consumatore liquido moderno si basa sull’eccesso delle offerte, il loro invecchiamento accelerato e la veloce dispersione del loro potere deduttivo, che, per inciso, la rende un’economia di dissipazione e spreco. Poiché non si sa in anticipo quale delle offerte si dimostrerà abbastanza allettante da stimolare il desiderio di consumare, l’unico modo per scoprirlo consiste in tentativi ed errori costosi.
Anche la continua domanda di nuovi beni e la crescita costante del volume dei beni in offerta sono necessari per mantenere rapida la circolazione di beni ed il desiderio di sostituirli con beni nuovi e costantemente aggiornati, come pure per impedire che la disaffezione del consumatore rispetto a beni specifici si coaguli in una generale disaffezione verso lo stile di vita consumistico in quanto tale.
La cultura sta ora trasformandosi in uno dei reparti di quel grande magazzino dove è possibile reperire «tutto quello di cui hai bisogno e che potresti sognare» nel quale si è trasformato il mondo abitato da consumatori.
Come in altri reparti di quello stesso negozio, i ripiani sono stracolmi di beni riforniti quotidianamente, mentre le casse sono decorate con la pubblicità delle ultime offerte, destinate a scomparire presto insieme alle attrazioni che reclamizzano. Beni e pubblicità sono concepiti per stimolare e provocare il desiderio (come notoriamente ha detto George Steiner, «per il massimo impatto ed un’istantanea obsolescenza»). I loro mercanti e copywriters fanno affidamento sul matrimonio tra il potere seduttivo dell’offerta e il bisogno radicato di essere in vantaggio sugli altri dei loro potenziali clienti.
La cultura liquida moderna, diversamente da quella dell’epoca della costruzione delle nazioni, non ha gente da educare ma piuttosto clienti da sedurre. E, diversamente da quella "solido-moderna" che l’ha preceduta, non desidera più chiamarsi fuori del gioco a poco a poco, ma il prima possibile. Il suo obiettivo ora è rendere la propria sopravvivenza permanente, temporalizzando tutti gli aspetti della vita dei suoi ex pupilli, ora trasformati in suoi clienti.

A questo link potete vedere un’intervista di Wlodek Goldkorn a Zygmunt Bauman. È molto bella e vale come una buona lettura. Di seguito un breve commento, tratto da Artribune.

http://www.artribune.com/television/2015/04/quale-cultura-oggi-risponde-il-grande-zygmunt-bauman-al-museo-pecci-di-prato/

Uno sguardo più che autorevole, straordinariamente acuto e brillante, sulle dinamiche della contemporaneità e sul sistema della conoscenza. Si parla di cultura. Del senso e dei mutamenti che questa parola porta con sé e rivela, indicando la direzione. Il dialogo con Wlodek Goldkorn si apre proprio con una domanda profonda e definitiva: che significa, oggi, cultura? Chi ne indica le linee guida? Chi detiene il potere dell’informazione e della formazione? Chi orienta l’immaginario collettivo? Che ruolo hanno gli intellettuali e quanto contano i media?
Un’ora e mezza di suggestioni e riflessioni da elaborare con lentezza. “La cultura è qualcosa che si impara”, spiega Bauman. E se un tempo la “missione” degli uomini di cultura era quella di “innalzare il popolo dal buio dell’ignoranza”, sulle tracce di “verità, bontà e bellezza”, oggi tutto questo viene letto come obsoleto. Nessuna elevazione, nessuna missione, ma nemmeno nessuna distinzione sociale.
Alla fine del XX secolo, Pierre Bourdieu elabora il concetto di cultura come “distinzione”. Ovvero: la cultura che ogni gruppo sociale consuma è un tratto distintivo della propria appartenenza o collocazione sociale. Resistente a qualunque cambiamento e foriero di nette divisioni. Vent’anni dopo, la prospettiva cambia ancora: per far parte dell’elite culturale, secondo il sociologo americano Richard Peterson, non c’è da operare distinzioni, ma, al contrario, da attuare pratiche onnivore di consumo trasversale. Tutto, oggi, va ingurgitato, metabolizzato, conosciuto. Che resta l’unico modo per uscire dalla marginalità sociale. Leggere i classici e andare ai concerti pop: è così che si viene riconosciuti come cittadini “colti”. Annullata ogni distinzione tra cultura alta e cultura bassa, ogni grado di separazione tra attitudini, forme sociali, tradizioni, contesti, si procede nel segno della mescolanza e della prossimità.
Con un linguaggio semplice, un eloquio affascinante e una capacità preziosa di analisi e insieme di sintesi, Zygmunt Bauman, a partire da una prospettiva storica, ha regalato al pubblico del Pecci un excursus teorico attraverso la modernità e i suoi movimenti sottili o radicali. Da ascoltare senza pause, per provare a capire qualcosa di più intorno a ciò che siamo stati e che stiamo diventando, tra le mutevoli maglie delle relazioni sociali e delle infinite declinazioni culturali.






Un saggio tratto da M@gm@ vol. 12 n. 2 Maggio - Agosto 2014.

Dalla ricerca di una risposta normativa all’interesse per un multiculturalismo quotidiano
Il dibattito sulle possibili modalità di convivenza in una società sempre più caratterizzata da individui e gruppi che si riconoscono in tradizioni e preferenze culturali diversificate è stato spesso monopolizzato da preoccupazioni di carattere normativo, sia orientate all’assunzione di appropriate politiche di intervento a favore delle minoranze, sia orientate all’elaborazione di consistenti e coerenti teorie della giustizia in grado di ampliare il carattere democratico e plurale delle società liberali. Nel primo caso, a partire dall’assunzione di esplicite politiche multiculturali in Canada (1971), in Australia (1973) e in Svezia (1975), il dibattito multiculturale ha spesso favorito un’ampia produzione normativa nel campo dell’educazione, del lavoro, delle politiche abitative, della difesa di linguaggi e culture dei gruppi minoritari tese a promuovere pari opportunità ed evitare forme di discriminazione ed esclusione. Si è trattato del tentativo di rendere effettive politiche di riforma sociale orientate a colmare evidenti svantaggi educativi, occupazionali e, più in generale, di inserimento sociale di gruppi minoritari: nativi, immigrati e altre minoranze culturali discriminate. Nel secondo caso, il dibattito si è concentrato sulla capacità di elaborare principi generali da cui far discendere forme di governo della vita pubblica in grado di valorizzare positivamente la differenza culturale. La discussione si è focalizzata sul tema del riconoscimento (Taylor 1998; Honneth 2002) e delle modifiche che è necessario introdurre nell’ordine liberale per assicurare un’effettiva libertà individuale e una piena possibilità di partecipazione alla vita collettiva. I principi liberali classici, fortemente centrati sul riconoscimento di diritti individuali e su un esteso universalismo, vengono attaccati o rivisitati in modo da includere il riconoscimento dei diritti collettivi e dell’importanza delle differenze culturali (Kymlicka 1999; Habermas 1998; Benhabib 2005). Entrambi questi dibattiti hanno sviluppato deboli strumenti concettuali per mettere a tema il significato delle pratiche sociali interculturali; pratiche che divengono una condizione normale, banale e routinaria, dell’esperienza quotidiana, soprattutto in ambito urbano. Hanno frequentemente finito per favorire il proliferare di un «normativismo intempestivo [che] ha prodotto una sconsiderata linea politica, che rischia di congelare le differenze di gruppo esistenti» (Benhabib 2005: 8). Ciò ha spesso orientato il dibattito multiculturale verso un vicolo cieco, contrapponendo favorevoli e contrari alla ‘preservazione’ delle differenze culturali, considerate come essenze, eredità reificate, ‘bagagli’ ricevuti dal passato che ora è necessario conservare scevri da ogni mutamento, pena la perdita della propria identità e della capacità di riconoscersi come soggetti autonomi. Un orientamento che ha spesso appiattito il multiculturalismo a un impegno per la protezione delle differenze, favorendo isolamento e indifferenza piuttosto che confronto e integrazione tra prospettive e storie culturali diverse. Le critiche a queste forme di multiculturalismo che finiscono per congelare le differenze e promuovere una società a mosaico, in cui solide gabbie preservano le ‘culture’ esistenti solo perché rendono difficili scambio, dialogo e confronto reciproco, hanno portato a spostare l’attenzione dal piano normativo a quello esperienziale, indagando il senso che viene attribuito alla differenza culturale nelle interazioni quotidiane. Anche in questo caso, emerge la necessità di sperimentare un nuovo vocabolario per dare senso a nuove forme di esperienza. Cosmopolitismo (Breckenridge et al. 2002; Appiah 2007; Kendall et a. 2009), intercultura (Lentin 2005; Wood et al. 2006), multiculturalismo quotidiano (Colombo, Semi 2007; Wise, Velayutham, S. 2009) non sono che alcuni dei termini introdotti per provare ad uscire dal cul-de-sac del multiculturalismo normativo.

L’emergere dell’interesse per la differenza
Al di là delle peculiarità delle diverse prospettive teoriche e analitiche, le diverse critiche al multiculturalismo normativo e istituzionale evidenziano l’importanza di un’analisi delle ‘pratiche’ e dei ‘significati’ attribuiti alla differenza culturale in un contesto di crescente globalizzazione.
La differenza e la cultura non vengono assunte come dati, come entità omogenee e coerenti, precisamente definite e stabili. Vengono, al contrario, indagate nella loro dimensione di costruzione sociale, risultato di pratiche di significazione che hanno come posta in gioco la definizione della realtà sociale: delle identità e delle appartenenze, dei luoghi e dei confini, delle modalità di distribuzione delle risorse e dei poteri.
Risulta ingenuo sostenere che il dibattito sul multiculturalismo emerga negli anni ’70 del secolo scorso come risposta (meccanica) a un aumento quantitativo della differenza. Altri momenti storici sono stati caratterizzati da situazioni di convivenza urbana in cui la differenza culturale ha costituito una realtà molto più evidente e drammatica di quanto non avvenga nelle metropoli occidentali
contemporanee. Basta pensare alle città nordamericane di fine ‘800 e inizio ‘900, così riccamente descritte dai sociologi della scuola di Chicago. Mentre la Chicago del 1880 ha poco più di 500.000 abitanti, nel 1920 il loro numero è più che quintuplicato. La Chicago di Al Capone è una grande metropoli caratterizzata dalla presenza di un’infinità di gruppi culturali diversi, che parlano lingue e professano religioni diverse, che tendono a vivere in zone etnicamente segregate e hanno occasioni di contatto che si manifestano soprattutto nella compe-tizione, nella concorrenza o nel conflitto violento. La pluralità culturale a New York, nello stesso periodo, è altrettanto evidente: vi si stampano quotidiani e riviste in 23 lingue diverse (Park, Burgess, McKenzie, 1938/1999) e sono presenti miriadi di chiese, congregazioni, sette religiose differenti. Nonostante l’evidenza e la rilevanza della questione della relazione con l’alterità, in questo contesto i temi della valorizzazione e del riconoscimento della differenza non emergono. Il pluralismo urbano viene letto attraverso il prisma ideologico del ‘melting pot’ e del ‘progresso’: la differenza culturale costituisce il punto di partenza, la materia prima con cui costruire un nuovo modello di uomo (la sottolineatura della caratterizza-zione di genere è voluta e rispecchia un ‘universalismo parziale’ che usa i termini dominanti per generalizzazioni ed esclusioni), più evoluto, più civile e moderno. Ma tale materia prima, piuttosto che conservata e valorizzata, deve essere ‘fusa’, rielaborata e infine superata se si vuole arrivare a forgiare ‘l’uomo nuovo’.
Il valore oggi attribuito alla differenza non è pienamente comprensibile senza prendere in considerazione la critica culturale che, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, decostruisce i concetti di universalismo ed eguaglianza. I nuovi movimenti sociali elaborano una visione positiva della differenza: black is beautiful, black and proud, diverranno gli slogan dei movimenti per i diritti civili; una parte rilevante del movimento femminista elaborerà una raffinata critica dell’universalismo come imposizione del modello maschile; i movimenti studenteschi accuseranno l’eguaglianza di costringere entro schemi omologanti, repressivi, che ostacolano una piena espressione dell’individualità.
Un contributo significativo alla trasformazione del concetto di differenza viene inoltre dal movimento e dalla teoria post-coloniale (Chambers, Curti 1996; Hall 2000). In questa prospettiva, si elabora una stringente critica al modello dominante accusato di ‘togliere voce’ ai gruppi dominati e si sottolinea la necessità della rivendicazione del bisogno, da parte del colonizzato, di emancipazione dalla cultura del colonizzatore e dai suoi effetti sociali e psicologici, emancipazione che può avvenire solo attraverso una riappropriazione della ‘differenza’ del colonizzato rispetto al colonizzatore (Fanon 1962; Spivak 1999). La prospettiva post-coloniale mette in discussione che il principio costitutivo dello Stato e dello spazio pubblico sia l’omogeneità culturale organizzata attorno a valori ‘universali’ declinati nei termini di un liberalismo individualista; valorizza, viceversa, una ‘eguaglianza nella differenza’ in cui la coesione sociale è garantita non dalla condivisione di un unico modello ma dal riconoscimento della irriducibile specificità dei diversi soggetti, dalla loro continua variabilità.
Come risultato del convergere di queste critiche e di queste pratiche, la differenza emerge come un ‘valore’, un elemento significativo che consente di contrastare l’egemonia del pensiero e del modello dominante e permette la piena espressione individuale.
La valorizzazione positiva della differenza è stata spesso declinata in due modi apparentemente contrastanti: da un lato, si è sottolineato il suo carattere ‘essenziale’; dall’altro, quello ‘processuale’. Nel primo caso, la differenza è percepita come una caratteristica ‘fondante’ l’identità. Un’essenza che costituisce il nucleo più profondo e autentico dell’esperienza individuale e collettiva, risultato della sedimentazione di una storia distinta. Una persona o un gruppo deprivati di questa specifica essenza, della loro specifica differenza, sono deprivati della possibilità di agire e di pensare autonomamente, secondo la loro più intima natura. Mostrare e vedersi adeguatamente riconosciuta la propria ‘differenza’ diviene un elemento impre-scindibile per partecipare con pari dignità nello spazio pubblico, un prerequisito per un’effettiva equità sociale. Il limite di questa posizione consiste nel rischio di considerare differenza e cultura come oggetti sacri, che è necessario preservare da ogni ulteriore trasformazione. Differenza e cultura finiscono per essere congelati in un presente eterno che considera privazione e abiezione ogni modifica, che evita forme di dialogo e di confronto per sfuggire il rischio del ‘contagio’ e del ‘degrado’. Nel secondo caso prevale la critica al normativismo del modello dominante e la differenza viene concepita come possibilità di continua variazione, miscelazione; come opportunità di posizionamento sul margine e nelle zone interstiziali, dove è più facile resistere al potere ed esercitare la critica. La creazione continua di ibridi viene considerata essere la condizione normale di esistenza della cultura e della differenza e viene salutata come un processo sempre positivo, una trasgressione creativa, un’emancipazione dal dominio della maggioranza e del pensare-come il-solito. Il limite di questa prospettiva risiede nella difficoltà di sottoporre a critica le condizioni di formazione degli ibridi, non riconoscendo che i processi di miscelazione e trasfor-mazione possano legarsi a violenza e alienazione, possano essere il risultato di rapporti asimmetrici di potere e generare nuove barriere e nuove disparità (Anthias 2001). Rischia inoltre di banalizzare l’idea che differenza e cultura siano costruzioni sociali evidenziandone eccessivamente il carattere mobile, instabile, continuamente sottoposto a revisione e mutamento. Trascura così l’altro fondamentale aspetto di ogni costruzione sociale: essa risulta efficace quando si impone come ‘fatto’ sociale, si presenta come evidente e produce effetti concreti. Un’enfasi sulla dimensione processuale rischia di non saper cogliere come differenze e culture siano spesso percepite come elementi ‘reali’ e come individui e gruppi siano disposti a lottare per rivendicarne riconoscimento e rispetto.

Multiculturalismo quotidiano
Le concettualizzazioni normative e filosofiche del multiculturalismo – che pure aiutano a mettere a tema la questione dell’eguaglianza delle opportunità e della partecipazione in società in cui la differenza culturale è valorizzata – esauriscono spesso le loro potenzialità in una visone idealistica, interessata a indicare come le cose ‘dovrebbero’ essere, e sottovalutano le dinamiche, le tensioni e I significati associati alla relazione con la differenza come pratica vissuta, come esperienza quotidiana.
Per cogliere la rilevanza assunta dalla differenza in un mondo globale, è utile spostare lo sguardo sulle pratiche quotidiane e analizzare come la differenza e la cultura sono utilizzate nelle interazioni sociali, da chi, in quali contesti, per quali scopi e con quali risultati. L’interesse per la dimensione empirica – vissuta, dotata di senso – del multiculturalismo, una dimensione più complessa di quanto riducibile alla dimensione etico-filosofica di giustizia sociale – necessariamente normativa e quindi riduttiva – restituisce l’ampiezza delle possibilità di azione e di costruzione di senso ma non trascura le condizioni contestuali – ‘locali’ – e i vincoli strutturali in cui tale azione è possibile e assume il suo senso specifico.
Nella sua dimensione pratica, il multicul-turalismo – che potremmo ri-definire come multiculturalismo quotidiano (Colombo, Semi 2007) – consente di mettere a tema diversi aspetti che rimangono occultati o in secondo piano nella dimensione normativo-filosofica. Innanzitutto, emerge il carattere ambivalente della differenza: risultato della continua produzione di distinzioni e confini entro discorsi e condizioni non sempre pienamente manipolabili dai soggetti. La differenza assume il carattere di un elemento indispensabile e costitutivo del continuo e necessario processo di attribuzione di senso alla realtà sociale, ma le condizioni del suo utilizzo e il materiale di cui è composta non sono necessariamente risultato di libere scelte. La differenza risulta, contemporaneamente, ‘conferita’ – dalle categorizzazioni e dalle tipizzazioni imposte dale condizioni contestuali, dal discorso mediatico e da quello politico – e ‘prodotta’ – dalle azioni di distinzione e di esclusione, dalla traduzione del discorso egemonico nel linguaggio vernacolare utile per affrontare esigenze pratiche situate.
Il riconoscimento dell’ambivalenza della differenza – sia vincolo, quando imposta al di là della volontà e degli interessi degli attori, sia risorsa, quando mezzo per distinguere e distinguersi, per vedersi riconosciuti e per escludere – consente di superare la distinzione tra differenza come ‘essenza’ e differenza come ‘processo’. Se ne sottolinea, da un lato, il carattere di costruzione sociale: non il semplice ‘riconoscimento’ di differenze esistenti, ben definite e stabili, ma il risultato del costante processo di significazione connesso alla costruzione di distinzioni e confini. Dall’altro, se ne evidenzia il carattere fattuale: una significazione e una distinzione sono efficaci quando sono ‘naturalizzate’, quando sono trasformate in dati-di-fatto, in istituzioni e reificazioni e, così, sottratte alla contestazione o al dubbio sulla loro ‘realtà’.
Nell’interazione quotidiana i soggetti mostrano una duplice competenza culturale (Baumann 1996): sono in grado di trattare la differenza come un’essenza per dare forza alle proprie azioni e significazioni (o semplicemente riproducendo i discorsi egemonici) e di considerarla relativa e flessibile per contestare etichette esterne sfavorevoli o per rivendicare riconoscimenti e inclusioni. Passare da un registro retorico all’altro non è causa di confusione o segno di contraddizione; al contrario, risulta essere una capacità indispensabile per far fronte a situazioni complesse e mutevoli. Più che essere caratterizzati dal possedere una cultura e una differenza, i soggetti risultano caratterizzati dalle loro capacità di utilizzare cultura e differenze per dare senso alle loro esperienze quotidiane. L’attenzione alle pratiche multiculturali quotidiane consente, inoltre, di considerare come la capacità/possibilità di utilizzo della differenza sia inevitabilmente connessa alla dimensione del potere. La differenza non è sempre e solo prodotto delle strategie e delle tattiche personali; in molti casi risulta imposta, e non è detto che persone e gruppi amino la differenza che è loro attribuita. La posta in gioco della produzione (e della relativa decostruzione) di differenze è la definizione della realtà sociale, una definizione che – producendo confini che classificano, includono ed escludono – privilegia inevitabilmente alcuni soggetti e alcune posizioni a scapito di altre. La produzione sociale della differenza è sempre anche una battaglia per privilegi sociali, per produrre, resistere o demolire etichette negative. Il multiculturalismo quotidiano non riguarda solo positive situazioni di comunicazione interculturale, ma anche i conflitti e le frizioni che emergono nel costante tentativo di distinguere e di distinguersi. Alcuni soggetti e alcuni gruppi occupano posizioni più favorevoli per rendere egemonica la propria differenza e attribuire ad altri differenze negative e degradanti. «Un importante aspetto dell’attenzione alle pratiche di multiculturalismo quotidiano consiste nel riconoscere che le società multiculturali contemporanee non sono la semplice collezione di “differenze eguali”, ma riflettono le relazioni di potere che hanno forgiato le storie nazionali e i flussi globali di individui e gruppi» (Harris 2009: 191). L’analisi delle relazioni multiculturali quotidiane non si esaurisce dunque nell’osservazione degli ‘incontri’, dei ‘dialoghi’ interculturali, ma interroga anche la genesi e le pratiche di legittimazione delle gerarchie esistenti. Non riguarda solo le ‘minoranze’, ma analizza come i gruppi dominanti costruiscono e mantengono le loro posizioni di privilegio, come pregiudizio e razzismo sono spesso parte della cassetta degli attrezzi del gruppo dominante per costituirsi come egemonico e unitario. Riconoscere una differenza può anche essere un mezzo per definire una barriera, per legittimare un’esclusione, per segnare una distanza, per definire se stessi in negativo, per contrapposizione. Può servire per creare un nemico esterno che catalizza la formazione di maggiore solidarietà e riconoscimento interno. L’attenzione all’uso quotidiano della differenza consente, infine, di evidenziare come, in un contesto di crescente globalizzazione, saper coniugare particolare e universale, differenza e eguaglianza, reificazione e relativismo costituiscano risorse relazionali fondamentali: la capacità di mediare e di utilizzare opzioni apparentemente opposte risulta garantire più opportunità rispetto a scelte definitive e radicali per un’unica opzione. In situazioni di variabilità, complessità e incertezza, la differenza costituisce un’importante risorsa politica: consente di costruire o demolire confini che potrebbero favorire od ostacolare le opportunità, la partecipazione, il riconoscimento, la realizzazione personale. In un contesto di crescente globalizzazione, passare da un contesto all’altro – in cui valgono regole diverse e ci sono interlocutori e pubblici diversi – diviene un’esperienza comune e inevitabile. Essere riconosciuti – cioè essere ‘individuati’ come caratterizzati da una qualche specifica ‘differenza’ – diviene un elemento cruciale: può consentire accesso e visibilità, ma può anche essere motivo di esclusione e discriminazione. Saper evidenziare la ‘giusta’ differenza nel giusto contesto risulta essere una risorsa importante – soprattutto per le nuove generazioni – per giocare al meglio le proprie carte e sfruttare le occasioni possibili nei diversi contesti. Vedersi imbrigliati in un’unica differenza, in un’unica appartenenza, riduce le possibilità perché rende più difficile il movimento, l’attraversamento dei confini, lo spostarsi da un contesto all’altro. Mostrare, rivendicare od occultare la differenza in base alle specifiche aspettative dei diversi contesti costituisce un sapere pratico che riduce il rischio di essere bloccati sulla soglia, di essere considerati intrusi, stranieri, di essere discriminati ed esclusi.

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