La distorsione del nostro modello di sviluppo e il consumo di suolo discussi dall’INU a Urbanpromo. L’Unità, 11 novembre 2012, postilla (f.b.)
Un paesaggio apocalittico come quello raccontato da Alessandro Coppola nel suo viaggio attraverso le città deindustrializzate degli Stati Uniti in Apocalypse Town (Laterza), con la natura che si vendica, spacca il cemento e penetra nelle cattedrali ormai deserte della società del benessere: altoforni spenti e capannoni abbandonati, centri commerciali in surplus e svincoli autostradali che si sono divorati vigne, olivi e giardini di agrumi. Milioni di case nuove e invendute, mentre le banche entrano in possesso degli appartamenti di chi non riesce a pagare il mutuo, mentre affittuari morosi vengono sfrattati.
Un paesaggio italiano: basta fare una passeggiata a Bagnoli o a Sesto San Giovanni, nella provincia di Rimini dove il 40% del territorio è cementificato, o in Calabria dove fabbriche mai entrate in funzione sono diventate ostello di braccianti immigrati, in Molise, in Basilicata. La crisi esplosa a causa di una bolla immobiliare planetaria rende esplicito il paradosso di un modello di sviluppo fondato sulla espansione edilizia, ogni italiano – dice il dossier preparato dal Wwf per la campagna «RiutilizziAmo l’Italia» – ha triplicato in 50 anni il suo gruzzolo di cemento, abbiamo 290 metri quadri a testa. Ma la crisi dice anche che nulla sarà come prima e il problema del consumo di suolo è finalmente entrato nella agenda politica: bisogna trovare gli strumenti più adatti a riqualificare, rigenerare l’esistente, fermando lo sperpero di un bene comune – la terra – che non è rinnovabile, che per rigenerarsi ci mette dai 50 ai 1000 anni, dice Cinzia Morsani (Wwf Emilia Romagna).
Anche se l’umanità dimentica presto e il ciclo edilizio è considerato un volano della ripresa economica, difficilmente – quando la crisi sarà superata – tutto tornerà come prima: i valori immobiliari in caduta libera potrebbero tornare a crescere ma lo choc da subprime difficilmente consentirà di riaprire le borse del credito. Il consumo del suolo lo possiamo misurare come fa Stefano Agostoni (conferenza Stato-Regioni) con il Co2: è come se il parco macchine della Lombardia fosse aumentato del 12 % in 10 anni, «esistono norme sulla qualità dell'aria mentre non ne esistono per il suolo». Oppure c’è la cartina d'Italia mostrata da Alessandra Ferrara ricercatrice dell'Istat: sulla costa dal Veneto all'Abruzzo non c’è soluzione di continuità, è praticamente tutto costruito. Abbiamo cementificato 3 milioni di ettari di territorio fra il 1996 e il 2005, ogni anno l’incremento è di 8,5 ettari pari a 1600 chilometri quadrati.
Poi c'è il paradosso messo in luce da Damiano De Simine, Legambiente Lombardia: «In Molise la popolazione decresce ma il consumo di suolo cresce al sostenuto ritmo del 20 per cento annuo». Racconta Stefano Leoni (presidente Wwf Italia): «Se mettiamo insieme i capannoni sparsi per l'Italia, fanno 2000 chilometri quadrati, molti ormai abbandonati. La gente, giustamente, si indigna per le città sporche. Bisogna imparare ad indignarsi anche per questa sporcizia sparsa nella natura». La cementificazione estensiva del Belpaese è stata uno dei temi su cui si è misurata l'edizione di quest'anno di Urbanpromo, organizzata dall'Inu (Istituto nazionale di urbanistica) a Bologna, in collaborazione con Legambiente, il confronto ha visto la partecipazione di assessori di città, province, Regioni fra cui Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Marche, Liguria.
Il coordinamento del gruppo di lavoro è di Damiano di Simine e di Andrea Arcidiacono (Politecnico di Milano). In Italia non esiste una legge sul suolo, non ci sono gli strumenti per misurarne il consumo, l'Istat lamenta un quadro normativo confuso, anche se – dice Alessandra Ferrara – «ci stiamo attrezzando». Però qualcosa si muove, c'è un Ddl del ministro dell' Agricoltura Catania nato dall'esigenza di salvaguardare i terreni agricoli. Nel confronto con la conferenza Stato Regioni, la salvaguardia si è allargata fino a tutto il suolo libero, ma si dovrebbero coinvolgere altri soggetti, a cominciare dal ministero delle infrastrutture. Il progetto del ministro dell'Agricoltura ha, secondo Federico Oliva, presidente dell'Inu, alcuni aspetti molto positivi, soprattutto cancella la possibilità di far finire nelle casse del bilancio comunale il 75% degli oneri edificatori, «è stato l'incentivo più potente per i comuni poveri in canna a consumare suolo, ora si dovrà trovare il modo di compensarli per la perdita di finanziamenti, visto che sono il soggetto principale di governo del territorio ».
Insieme alle cose buone, aggiunge Oliva, «ci sono le debolezze», la principale è che «stabilito un consumo nazionale massimo, si affida alla pianificazione degli enti locali la ripartizione delle quote». Ma la pianificazione è gestione politica ed è chiaro ai tecnici come agli assessori – fra questi Patrizia Gabellini, assessore all' ambiente del comune di Bologna - che sugli amministratori si esercitano le pressioni di chi vuole costruire o impiantare una attività, mentre il problema è l’ecosistema che lasceremo in eredità alle generazioni future. «La pianificazione non è affidabile - dice Federico Oliva -. In questi anni sono state utilizzate premialità in volumi e compensazioni per supplire a strumenti che non funzionano». «Il fisco e la protezione della natura si sono dimostrati i mezzi più efficaci dove sono state fatte politiche di contenimento del consumo».
La rendita è il motore principale del consumo di suolo e costruire il nuovo costa infinitamente di meno, è la leva fiscale che deve correggere questa tendenza. L’altra cosa che manca, dice ancora Federico Oliva, è «una legge nazionale che detti i principi fondamentali a cui gli enti locali devono ispirarsi». Legambiente Lombardia si è fatta promotrice di una legge di iniziativa popolare, spiega Damiano Di Simine: «Abbiamo capito che non basta la denuncia di un ecomostro dopo l'altro, ci vuole un salto culturale». Il suolo, la terra su cui camminiamo, è un bene comune come l’acqua e l’aria, la differenza è la proprietà privata. Però, «se il privato è irresponsabile devono esserci dei limiti prescrittivi».
postilla
Senza prendersela né con Jolanda Bufalini che ha scritto il suo resoconto, né con gli urbanisti dell'INU che hanno tenuto le loro ottime e legittime relazioni al convegno, l'articolo può anche essere l'occasione per tornare un istante sul rapporto fra conoscenze scientifiche, consapevolezza sociale e comunicazione. L'occasione forse, in un contesto di maggiore maturità da questo punto di vista (e riguarda tutti, in qualche modo si tratta anche di un'autocritica), avrebbe meritato, che so, un comunicato di sintesi per la stampa. A prevenire se possibile che l'elenco degli interventi, unito a quell'incipit un po' incongruamente preso a prestito dal best-seller di settore del momento, finisse per apparire magari assai leggibile, marginalmente utile alla vanità dei nomi citati, ma complessivamente poco consono agli obiettivi culturali allargati dell'assise: denunciare problemi e indicare soluzioni, anche a livello politico-legislativo.
Ammucchiare così, senza soluzioni di continuità diverse da qualche frase di circostanza, cose come la rustbelt americana in crisi industriale cronica, il consumo di suoli agricoli da urbanizzazione dispersa, le emissioni di gas serra eccetera, che pure in qualche modo convergono in cose come le alluvioni di questi giorni, confonde il lettore medio. E come insegna il recente caso "Galileo" aquilano, c'è qualcosa di importante da ripensare, non solo specialisticamente e settorialmente, nei rapporti fra sapere e società (f.b.)
Millet, l'Angelus, 1857 |
Iniziativa europea per sostenere tutte le pratiche di coltura rispettose del territorio dell'ambiente e della salute. Corriere della Sera 30 ottobre 2012 (f.b.)
ROMA — Ci vuole un'altra agricoltura per l'Europa. E bisogna far presto perché il consumo del suolo, alle attuali condizioni, «non è più sostenibile». Anche in tempo di crisi, bisogna puntare non più sulle colture intensive ma su quelle piccole, di qualità, e comunque rispettose dell'ambiente. Insomma, sul cosiddetto greening. E su quegli imprenditori agricoli, anche piccoli, che, per fare un esempio, «lasciano la siepe — dice Patrizia Rossi, responsabile agricoltura Lipu Birdlife Italia —, che non la tagliano per ottenere più fondi dall'Europa, e che proprio per questo vanno ricompensati in quanto agricoltori virtuosi».
È la politica agricola che va cambiata, aggiunge la presidente onoraria del Fai, Giulia Maria Crespi. «L'agricoltura sostenibile — dice — è cibo buono per gli uomini ma è anche filiera corta, blocco del dissesto idrogeologico, difesa del paesaggio che porta sviluppo turistico, salvaguardia dell'ambiente per ridurre la portata dei cambiamenti climatici negativi per la stessa agricoltura. L'Europa deve premiare le imprese agricole multifunzionali e il biologico deve poter accedere di più ai finanziamenti comunitari». È proprio per cambiare la politica agricola che tredici associazioni ambientaliste e animaliste, dal Fai al Wwf, da Italia nostra alla Lipu, da Federbio a Legambiente, hanno scritto tutte insieme al presidente Monti e alle Regioni e chiesto apertamente al Parlamento europeo, in vista dell'importante riforma della Politica agricola comune (Pac) per il 2014-2020, di puntare alla qualità e alla sostenibilità ambientale.
Colpa delle elezioni troppo vicine? Anche. Non è un caso che di questi tempi ogni iniziativa del governo tecnico di Mario Monti sia destinata a trasformarsi in un Calvario. Tanto più se tocca le Regioni, come si è visto con la clamorosa bocciatura del decreto sui costi della politica. Ma nel tentativo, ormai smaccato, di far arenare il disegno di legge presentato dal ministro Mario Catania per frenare lo scellerato consumo del suolo e la distruzione del paesaggio e dell'agricoltura, c'è qualcosa di più. Troppo grossi gli interessi in gioco per accontentarsi delle giustificazioni con cui le Regioni hanno trasformato il cammino di quel provvedimento in un percorso di guerra.
L'ultima mina: una telefonata di Vasco Errani, con la quale il presidente della conferenza delle Regioni ha comunicato al ministro dell'Agricoltura che senza il via libera degli urbanisti non si va avanti. La melina dunque ricomincia. Non stiamo affermando che manchi la sensibilità, sia chiaro. Errani è lo stesso che durante l'ultima campagna elettorale per le regionali proclamava nei suoi comizi: «Dobbiamo fare una scelta radicale, ma dobbiamo farla. Basta consumare territorio in questa regione, investire sulla qualificazione urbana, sul recupero degli spazi, ma il territorio è una risorsa finita». Salvo poi, qualche mese più tardi, sostenere pubblicamente: «Noi abbiamo detto che vogliamo fermare, e lo ribadisco, il consumo del territorio. Pensate che possiamo farlo, semplicemente con una legge? No, è impossibile farlo con una legge, dobbiamo essere realisti». Di quel «realismo» ne sa qualcosa. Da ben tredici anni Errani è governatore di una Regione, l'Emilia-Romagna, che secondo Legambiente ha conquistato il quinto posto nella poco invidiabile classifica della cementificazione dopo Lombardia, Veneto, Campania e Friuli-Venezia Giulia, con quasi il 9 per cento di territorio non più naturale. Una graduatoria scalata a morsi, invadendo la pianura padana di enormi e talvolta inutili capannoni industriali. Senza nemmeno troppe precauzioni, come ha dimostrato il terremoto di maggio.
E i numeri certo dicono più di tante parole.
Dicono, per esempio, che il Paese più fragile d'Europa, cioè il nostro, ha la minore crescita demografica del continente e il maggiore consumo di suolo. Dal 1950 la popolazione è aumentata del 28 per cento, mentre la cementificazione è progredita del 166 per cento. Ogni giorno, informa uno studio dell'Istituto superiore per la ricerca ambientale, vanno in fumo cento ettari, ovvero dieci metri quadrati al secondo. In un solo anno il cemento impermeabilizza una superficie pari al doppio della città di Milano. A scapito, sì, del nostro meraviglioso paesaggio, dell'ambiente, delle risorse turistiche e dell'assetto idrogeologico, ma anche dell'agricoltura, cui sono stati sottratti in quarant'anni cinque milioni di ettari, facendo dell'Italia una nazione in fortissimo deficit alimentare: se fossimo costretti per qualche ragione a chiudere improvvisamente le frontiere non avremmo di che sfamare un quarto della popolazione. E le palazzine orrende che dilagano nelle periferie e nelle campagne, restando spesso senza acquirenti né occupanti, non si possono certo mangiare.
I numeri dicono, ancora, che il 7,3 per cento del territorio italiano, una superficie grande come la Toscana, è ormai cementificato. Per giunta sono dati vecchi di due anni: di questo passo avremmo già quasi doppiato la media europea di consumo del suolo, pari al 4,3 per cento.
L'offensiva è particolarmente violenta al Nord. Il 16,4 per cento della pianura padana, una delle aree agricole un tempo più vaste e produttive del continente, è coperta da costruzioni. La Provincia più cementificata d'Italia è Monza, dove il 54 per cento del territorio è artificiale. Segue quella di Napoli, con il 43 per cento. Ma subito dietro c'è Milano, con il 37 per cento: quasi il doppio rispetto a Roma, attestata sul 20. E poi Varese (29), Trieste (28), Padova (23), Como (19), Treviso (19), Prato (18)...
Siamo un Paese popoloso con un Nord molto industrializzato, certo. Ma lo è anche la Germania, dove abitano 229 persone al chilometro quadrato contro le 200 dell'Italia e c'è una industria ancora più sviluppata. Di più: il 35,2 per cento del territorio tedesco non è, come quello italiano, di montagna. Eppure la Germania ha consumato il 6,8 per cento del suo territorio contro il nostro 7,3. Realizzando pure le infrastrutture che noi non abbiamo fatto.
Un processo guidato dalla speculazione, ancor più dell'abusivismo, le cui responsabilità maggiori ricadono proprio su chi detiene le competenze nella gestione del territorio. In primo luogo, proprio le Regioni.
Chi si meraviglia delle difficoltà che sta incontrando ora la legge proposta da Catania farebbe bene a ricordare quello che accadde a Fiorentino Sullo mezzo secolo fa. Quando l'allora astro nascente della Democrazia cristiana commise l'imprudenza di proporre una legge urbanistica che avrebbe reso più difficile la speculazione edilizia: il provvedimento non passò e lui scomparve dalla scena politica.
Altri tempi, naturalmente. Ma la storia sembra ripetersi.
Non appena Catania gli sottopone il testo, le Regioni eccepiscono: così non va. Da destra e da sinistra. Il coordinatore degli assessori regionali all'Agricoltura Dario Stefano, esponente di Sinistra, ecologia e libertà, dichiara che c'è «una montagna di problemi» che lo rende «inapplicabile». Primo: lo Stato non può prendere decisioni che invece spettano a Regioni ed enti locali, come appunto il consumo del suolo. Secondo: «la terminologia». La terminologia? Sì, le parole. Non sono quelle adatte.
Ecco allora che il 10 ottobre, tre settimane dopo il varo della legge da parte del consiglio dei ministri, Regioni, Province e Comuni si riuniscono ed emettono la sentenza: «il testo va completamente riscritto insieme a noi». Ci si mette al lavoro, con la promessa di rispettare tassativamente la scadenza del 18 ottobre per far approdare la legge in Parlamento. Anche perché il tempo stringe. Qualcuno arriva a ventilare perfino l'ipotesi di un decreto legge: non era stato forse lo stesso Mario Monti a dire «avremmo dovuto mettere queste norme nel decreto Salva Italia»? Ma è un gioco delle parti. Il 18 passa inutilmente, mentre si prepara la mossa successiva. Il 25 ottobre l'assessore all'urbanistica della rossissima Regione Toscana, Anna Marson, demolisce dalle fondamenta la legge sul Corriere Fiorentino. Argomenta che oltre a essere inutile e verticistico, il provvedimento potrebbe ottenere persino l'effetto contrario. Il giorno prima, mentre il suo intervento va in stampa, Errani telefona a Catania spiegando la novità. Ovvero, che adesso è necessario il placet degli urbanisti. E se il biglietto da visita è quell'articolo...
Nota: ho già espresso il mio punto di vista nella postilla all'articolo di Settis da la Repubblica Lo confermo. (es)
Anna Marson, Il Corriere Fiorentino, 24 ottobre 2012
La fretta (e l'errore) di Roma
Aveva ottenuto il plauso di tutti noi, il ministro delle politiche agricole Catania, quando nel luglio scorso lanciò l’iniziativa di un provvedimento capace di ridurre, se non bloccare, il “consumo” di suoli agricoli fertili a causa delle nuove urbanizzazioni.
Come dargli torto? I dati dei censimenti dell’agricoltura degli ultimi decenni parlano chiaro, registrando due grandi derive: da un lato l’abbandono dei terreni più impervi e la loro conquista da parte del bosco, dall’altro l’avanzata apparentemente inesorabile delle aree urbanizzate. Visto che continuando così le aree agricole sono destinate comunque a sparire, perché non promuovere una politica capace di affrontare il problema?
Altri paesi, prima del nostro, avevano affrontato la questione del consumo di suolo. La Germania ai tempi di Angela Merkel ministra dell’ambiente, dopo aver monitorato con precisione le quantità di suoli consumati quotidianamente nei diversi Laender, aveva definito obiettivi quantitativi specifici di riduzione del consumo in atto.
Il nostro ministro dell’agricoltura però vuole fare presto, non ha tempo per andare a vedere quali dati sul consumo di suolo siano effettivamente disponibili in Italia, e considerare le varie alternative d’azione utili e possibili rispetto alle conoscenze e procedure in atto. Apprendiamo così dalla stampa che il Consiglio dei ministri lo scorso 14 settembre ha approvato in via preliminare lo schema di Disegno di legge quadro. Il testo, trasmesso nei giorni successivi alla Conferenza delle regioni, ha contenuti radicalmente diversi da quelli a suo tempo annunciati alla stampa.
Il Disegno di legge prevede infatti che per decreto venga definita la quantità di suoli agricoli urbanizzabili a livello nazionale, da ripartirsi successivamente fra le regioni. Una sorta di ‘quote di nuove urbanizzazioni’ sul modello delle ‘quote latte’.
Anche a prescindere dal fatto che la materia in questione è quella del governo del territorio e non della sola agricoltura, con competenze quindi concorrenti fra Stato e regioni, un simile dispositivo rischia di produrre l’effetto opposto di quello dichiarato, ovvero la corsa alle urbanizzazioni già previste e fatte salve dal provvedimento, nonché a quelle nuove. Soprattutto con una legge urbanistica nazionale che risale al 1942, e con le diverse regioni che di fatto sono state le uniche istituzioni a legiferare in modo organico in materia negli ultimi trent’anni.
Prendiamo il caso della Regione Toscana. Con una legislazione regionale più volte rinnovata a partire dal 1995 che, almeno in linea di principio, scoraggia l’ulteriore consumo di suolo e richiede una valutazione puntuale di tutte le previsioni pregresse, e con le condizioni di mercato attuali che vedono gran parte degli investitori muoversi con grande cautela, che cosa potrebbe succedere se le fossero assegnate delle quote di nuovo consumo di suolo da distribuire? Un parapiglia fra Comuni per aggiudicarsele, senza dubbio. Con quali destinazioni d’uso? Con quali progetti?
Le scarse risorse pubbliche e private disponibili nel contesto attuale richiedono a mio avviso di essere impiegate nella manutenzione e nel recupero di ciò che già c’è, e ha necessità di essere rigenerato garantendo investimenti, funzioni e prestazioni nuove: nella riqualificazione delle periferie, dei volumi e delle aree dismesse, ottenendo maggior efficienza energetica, miglior qualità estetica e ambientale, trasporti e connessioni civili.
Il ruolo del governo nazionale nel sostenere la promozione di politiche più virtuose al riguardo sarebbe assai importante, ma richiede il riconoscimento dell’innovazione prodotta in questi anni dalle Regioni anche in campo legislativo, per poter compiere significativi passi avanti, non indietro.
La via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Questo viene in mente leggendo il disegno di legge del ministro Catania sulle aree agricole. Le buone intenzioni dichiarate all’inizio sono state accolte con approvazione da Carlo Petrini e da altri (fra cui anch’io); ma il ddl, nella forma in cui è stato varato dal Consiglio dei ministri, porta dritto all’inferno.
Due gli intenti dichiarati: arginare il consumo dei suoli agricoli e abolire la norma che consente ai Comuni di dirottare sulla spesa corrente gli oneri di urbanizzazione anziché usarli per opere infrastrutturali, com’era invece nella legge Bucalossi. Belle idee, buoni principi. Ma il dispositivo della legge va in tutt’altra direzione. Proclamando di voler «contenere il consumo di suolo» e «tutelare i terreni agricoli», inciampa sin dall’art. 1 nell’infortunio di definire come terreni agricoli «quelli che sono qualificati tali in base a strumenti urbanistici vigenti».
Si consacrano in tal modo piani regolatori comunali spesso revisionati al ribasso per rendere edificabili le aree agricole, anzi si invitano i Comuni a intensificare l’urbanizzazione. La norma identifica la causa del guasto ma anziché sgominarla la consolida assecondando le decisioni di ogni Comune, come se non sapessimo che il maggior nemico del paesaggio non è più l’abusivismo, bensì una forma più cinica di devastazione, che segmenta all’infinito le norme subdelegando ai Comuni decisioni essenziali, e in tal modo rende “legittima” ogni nefandezza, anche contro la Costituzione.
Ancor più preoccupante è l’art. 2 del ddl, dove si prevede un meccanismo “a cascata” per cui il ministro dell’Agricoltura «determina l’estensione massima di superficie agricola edificabile sul territorio nazionale», che poi viene «ripartita tra le diverse Regioni», che a loro volta ripartiscono le quote fra i Comuni. In tal modo, anche un Comune dove nessuno avesse l’intenzione di edificare su suoli agricoli si vedrà recapitare il boccone avvelenato di un tot di suolo, con l’invito a renderlo edificabile anche se così non è nel piano regolatore né nelle intenzioni; anche una Regione virtuosa (se ce ne sono) si troverà sul piatto il dubbio regalo di una “quota” di terreni agricoli da edificare. La distribuzione di ulteriori quote di suolo edificabile verrà accolta dai peggiori Comuni come un dono impensato, ma creerà difficoltà e susciterà cupidigie anche nei Comuni più virtuosi. L’esito finale non fa dubbio: meno tutela dei suoli, più cementificazione.
Il «minor consumo di suolo» è già previsto dal Codice dei beni culturali (art. 135), che lo lega strettamente alla «salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche ». Il nuovo ddl invece, pur citando questo articolo, perverte la pianificazione paesaggistica, non più intesa come rilevazione tecnica delle vocazioni dei territori e loro difesa, ma come obiettivo politico-economico di redistribuzione dei suoli agricoli per uso edilizio, la cui preminenza è considerata quasi una legge di natura. Lo conferma l’art. 4, che concede aiuti e privilegi ai Comuni che vogliano procedere alla «ristrutturazione » dei fabbricati rurali, evidentemente considerati in blocco non meritevoli ditutela: poiché ristrutturare può comportare demolizioni e ricostruzioni a parità d’ingombro, questo è un durissimo colpo alla conservazione del patrimonio edilizio rurale minore in mattoni o pietra a vista che ancora (per poco?) punteggia il nostro paesaggio agricolo.
Quanto alla destinazione degli oneri di urbanizzazione, è da temere che il ddl resti lettera morta o abbia effetti opposti a quelli voluti. Infatti, se i Comuni stanno svendendo il proprio territorio pur di incassare gli oneri di urbanizzazione non è solo per questa norma, ma anche per la cronica mancanza di liquidità, dovuta al drastico taglio dei finanziamenti statali. Venendo a mancare gli oneri di urbanizzazione senza alcuna compensazione, a che cosa ricorreranno i Comuni? Sapranno resistere alla tentazione di utilizzare le “quote edificabili” di terreni agricoli ricevute in dono per spremerne qualche nuovo introito?
Per giunta, intervenendo a gamba tesa sul territorio, il ministro dell’Agricoltura avoca a sé funzioni che la Costituzione (art. 117) assegna alle Regioni. Il ddl accresce così il caos terminologico che risulta, per sommatoria delle norme, dal sovrapporsi di tre parole-chiave: “paesaggio”, “territorio”, “ambiente”. Nel nostro ordinamento, la tutela del “paesaggio” è affidata alla tutela dello Stato (art. 9 Cost.), e in particolare al ministero dei Beni culturali, mentre la gestione del “territorio” spetta alle Regioni e l’“ambiente” è di competenza mista, e comunque a livello dello Stato centrale se ne occupa il ministero dell’Ambiente. È come se l’Italia si fosse moltiplicata per tre, generando conflitti di competenza e un’incertezza della norma che contribuisce al degrado dei paesaggi e della cultura giuridica. A queste “tre Italie” il nuovo ddl ne aggiunge una quarta, quella dei suoli agricoli: un ulteriore moltiplicatore dei conflitti. Ma al di là di questa giungla di parole, può mai esistere un territorio senza paesaggio, senza agricoltura e senza ambiente? O un ambiente senza territorio, senza agricoltura e senza paesaggio? Un paesaggio senza territorio, senza agricoltura e senza ambiente? Un’agricoltura senza ambiente, senza paesaggio e senza territorio?
Nel nostro paese, terreno di caccia per gli speculatori e per gli investimenti in edilizia delle mafie (ne ha scritto in queste pagine Roberto Saviano), non serve moltiplicare le istanze e i conflitti, ma ricomporre in unità una normativa stratificata, dispersiva, incoerente. Nulla difende il paesaggio e l’ambiente quanto un’agricoltura di qualità. Una porzione vastissima del territorio nazionale è paesaggio agrario, segnato da una millenaria civiltà contadina, che si intreccia in modo inestricabile con la cultura delle élite: il paesaggio plasmato dalla vanga è lo stesso che fu rappresentato dai pittori ed esaltato nel Grand Tour. L’intima fusione di paesaggio e patrimonio storico-artistico ha proprio nell’uso agrario dei suoli il suo specifico punto di sutura, in un equilibrio armonico che fece dell’Italia il giardino d’Europa. Come ha scritto Andrea Zanzotto, «dopo i campi di sterminio stiamo assistendo allo sterminio dei campi». Non è questo che gli italiani si aspettano da chi ci governa.
Postilla
Altre valutazioni critiche (pur rispettose delle ottime intenzioni) le trovate in questa cartella. Ci limitiamo per conto nostro a tre considerazioni:
(1) Il territorio è una realtà complessa, impiegata dall’uomo per molteplici esigenze, spesso potenzialmente in conflitto tra loro: molte meritevoli di essere soddisfatte trovando un equilibrio tra loro (come quelle di alimentarsi, di abitare, di muoversi, di curarsi, di apprendere, di godere), altre discutibili e. secondo alcuni, meno o per nulla meritevoli (come quella di adoiperare il suolo come occasione per arricchirsi sfruttando un patrimonio costruito dalla natrura e dalla storia di tutti. Anche le prime possono essere soddisfatte in modo diverso, e divenire più compatibili con le altre. Una legge che vogli affrontare uno degli aspetti del territorio (e delle esigenze che esso deve soddisfare) non può prescindere delle interrelazioni con gli altri dispositivi che regolano l’uso del territorio.
(2) In particolare, in Italia è dominante (nell’attuale sistema economico e nel sistema giuridico) il peso della proprietà privata e la “propensione” del territorio a essere fonte di rendite private crescenti. Una legge che voglia privilegiare un aspetto ( ed esigenze) alternativi deve essere rigorosissima sul piano della forza giuridica della sua lettera. Perciò è giusto – come suggerisce Settis assumere come punto di forza e principale ancoraggio il principio della tutela del paesaggio come responsabilità nazionale, introdotto dalla costituzione e sviluppato nei suoi strumenti applicativi da Giuseppe Galasso, e poi dal Codice del paesaggio. Ricorderò che una proposta di Luigi Scano, ripresa nella cosiddetta “ legge di eddyburg”, era proprio quella di inserire, tra i beni pasaggistici vincolati ope legis, anche le aree rurali (oltre ai boschi e i fiumi, i laghi e le coste, le aree archeologiche e i vulcani).
(3) Occorre affermare con forza alcuni principi che dovrebbero assumere valore costituzionale: (a) la terra biologicamente attiva (non laterizzata) è un valore in sé; (b) ne può essere sottratta ai ritmi della natura un’ulteriore porzione solo se questo serve (e là dove serve)per altre esigenze socialmente rilevanti, non soddisfacibili in altro modo; (c) la sottrazione di terra libera al ciclo biologico deve comunque avvenire in modo trasparente e secondo criteri inoppugnabili, quindi mediante i metodi e gli strumenti della pianificazione della città e del territorio.
“Romilia”, con nuovo nome, “centro sportivo dedicato ai giovani “, però con gli stessi contenuti poco attinenti allo sport e ai giovani, si sposta di qualche chilometro –da Budrio a Granarolo- e si attacca al famigerato “Passante Nord”, ridotto ad “Asse Intermedio di Pianura”, più corto e ancor più vicino alla Tangenziale, non meno inquinante e devastante l’orditura agricola della pianura. Budrio si consola con un doppio mastodontico gassificatore di bio masse a ridosso di una stupenda “zona umida”, ultimo residuo di valli e bassure, ricco di fauna e avio fauna e di alberi secolari. Un luogo spettacolare che per far funzionare il gassificatore sarà soffocato dalla mono cultura del mais e dal puzzo della sua fermentazione (con il timore che possa anche scoppiare).
Gli amministratori provinciali e comunali non avevano sempre sostenuto:mai più consumo del suolo, solo mobilità sostenibile e difesa del paesaggio e della campagna?
Con il centro sportivo /direzionale/ di servizio / di “accoglienza e di supporto”, con alloggi di vario tipo e “spazi polivalenti”, la speculazione non la faranno solo i proprietari del terreno e i costruttori, sarà lo stesso Comune di Granarolo che lottizzerà il vecchio campo sportivo. Il nuovo centro occupa 22 ettari di area agricola, più altri saranno consumati per il “passantino nord” (studiato con un’uscita in concomitanza con il nuovo progetto) al fine di favorire lo sviluppo del cemento. L’intervento è inserito in un tessuto rurale di grande qualità, lontano da infrastrutture di trasporto pubblico, in una ambiente in cui le propaggini urbanizzate della città sono ancora relativamente lontane. Comune di Granarolo e Provincia di Bologna hanno scelto di procedere con una variante urbanistica in deroga alla sola strumentazione comunale –senza interessare il Piano Territoriale Provinciale- tramite un Accordo di Programma, il cui iter è già stato avviato e si concluderà –nella sua fase preliminare– in questo mese di Settembre.
Una “procedura lampo” che “valorizza” non una delle tante zone industriali abbandonate , una zona collocata coerentemente rispetto al sistema metropolitano, ma un’area di proprietà pare degli stessi soci del Bologna Football Club e del suo stesso Presidente (o di società a lui riconducibili) i quali sarebbero proprietari, come risulta dagli organi di stampa, anche di altri terreni contigui all’area di progetto.
In un momento nel quale tutte le risorse ed energie dovrebbero essere concentrate sulla ricostruzione dei centri storici colpiti dal terremoto e nella riqualificazione - antisismica, energetica – dei nostri centri urbani investiti da un degrado progressivo, con sprezzo della coerenza e con un’operazione da manuale della speculazione edilizia, la Provincia di Bologna e gli amministratori locali decidono di investire su opere (stadio e passante nord) non solo inutili, ma gravemente dannose nel loro impatto territoriale e ambientale e nella loro sostenibilità economica.
Italia Nostra, da sempre contraria al passante nord, richiede l’immediata sospensione di tale progetto.
Italia Nostra chiede inoltre un incontro urgente – e pubblico – con l’Assessore alla Provincia Giacomo Venturi e i sindaci dei comuni interessati per una discussione trasparente ed allargata sul progetto del nuovo stadio: i suoi obiettivi, il suo impatto in termini ambientali, finanziari e sociali.
Il disegno di legge sullo «Stop al consumo del territorio» che il ministro per le politiche agricole Mario Catania ha portato all'approvazione del Consiglio dei ministri è un provvedimento di straordinaria importanza che segnerà il dibattito sulle città nei prossimi decenni. Non è azzardato affermare che il ministro ha segnato una data storica e gliene va dato merito. Nel periodo del secondo governo Prodi (2006-2008) la sinistra (Rifondazione e Verdi) avevano tentato di far approvare un provvedimento simile, ma il predominio culturale del Pd lo impedì. Erano i tempi del "modello Roma", e cioè della convinzione che sul mattone e sul cemento si potesse basare il futuro di un paese. Bastava guardare la realtà dei fatti, e cioè alla grande quantità di alloggi invenduti o di uffici vuoti che già allora caratterizzavano le nostre città. Oppure essere meno provinciali e guardare ad esempio alla Germania che da tempo aveva approvato una legge che poneva progressivamente fine all'espansione urbana. Ma i meriti del governo dei banchieri finiscono qui. Il cipiglio decisionista sfoderato attraverso la decretazione d'urgenza quando c'è stato da colpire i diritti dei lavoratori, quando c'è stato da rinviare di anni l'età pensionabile o quando c'è stato da aumentare oltre misura il carico fiscale, ha sobriamente lasciato il posto a un disegno di legge. Ora non ci vuole l'intelligenza dei professori per comprendere che non se ne farà nulla.
La decretazione d'urgenza era invece indispensabile per lo stato delle nostre città. Agli inizi di quest'anno il supplemento settimanale del Sol e 24 Ore dedicava un preoccupato articolo a una ricerca svolta dall'università di Milano da cui emergeva che se tutte le previsioni edificatorie conquistate con tutte le deroghe imposte dall'economia liberista si concretizzassero, città come Brescia o Bergamo avrebbero al 2020 una quantità di case invendute pari alla popolazione residente. Città fantasma che nessuno abiterà mai! Rispetto a questi segnali altro che disegno di legge: ci voleva il coraggio di concludere una fase speculativa che dura da venti anni. Ma qui arriva la vera natura del governo Monti che non è certo rappresentata dal ministro Catania quanto dall'affiatato tandem Passera-Ciaccia. Coppia inseparabile dai tempi della Banca Intesa che sul mattone qualche cosa conosce. Soprattutto conoscono che molti istituti di credito sono esposti per cifre importanti in folli proposte urbanistiche che sarebbero saltate se si fosse percorsa la strada della decretazione d'urgenza. Alcuni esempi: i 30 milioni di metri cubi decisi prima di Pisapia a Milano o i quaranta milioni che devono ancora essere costruiti a Roma grazie al piano regolatore di Veltroni. O, ancora, le cinque ignobili città "tematiche" decise dalla Regione Veneto che cancelleranno centinaia di ettari di territorio agricolo. Dietro a queste speculazioni ci sono gli istituti bancari e Passera-Ciaccia sono lì per vigilare. Del provvedimento sul consumo di suolo se ne parlerà negli anni prossimi. Fin d'ora, però, è indispensabile che la sinistra elaborasse una sua proposta per il recupero e la riqualificazione delle periferie. L'associazione dei costruttori ha da tempo calato le carte: libertà di demolire e ricostruire senza limiti di aumento delle volumetrie: deve decidere solo la convenienza economica. Il primo tentativo in atto è quello in corso a Roma guidato da Abete per trasformare Cinecittà da luogo di produzione a luogo di speculazione edilizia. Chi è convinto che bisogna costruire l'alternativa alla nefasta fase dell'economia liberista deve urgentemente manifestare un differente progetto.
Sull'argomento vedi anche qui e la relativa postilla
La Repubblica
Lo storico stop al cemento selvaggio: “Così salveremo l’Italia che vale”
di Antonio Cianciullo,
ROMA— Il governo sposa la difesa del paesaggio. Il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge che pone un limite all’avanzata del cemento e protegge l’agricoltura come elemento della cornice ambientale che si è formata nei secoli diventando parte essenziale dell’appeal italiano.«Forse questa misura andava inserita nel primo provvedimento, il decreto Salva Italia, perché ha molto a che vedere con la salvezza dell’Italia concreta», ha commentato il presidente del Consiglio Mario Monti, con una punta di rimpianto per il tempo che stringe e rende difficile la trasformazione del ddl in legge entro la legislatura.
Il segnale politico in ogni caso è chiaro e i numeri pure. In 40 anni il terreno agricolo ha subito una drastica dieta dimagrante: ha perso 5 milioni di ettari, l’equivalente alla somma di Lombardia, Emilia Romagna e Liguria. Oltre il 70 per cento di questa superficie è stato abbandonato e, salvo i casi delle colture di pregio, il bilancio non è necessariamente negativo perché spesso il bosco ha riguadagnato terreno.
Ma a creare allarme è la quota rimanente: parliamo di un milione e mezzo di ettari (un’area grande quanto la Calabria) che, dagli anni Cinquanta ad oggi, sono stati sepolti da villette, capannoni, strade, svincoli, tralicci, discariche. In questo modo si è prodotta una catena di danni: il ciclo idrico è stato alterato rendendo meno governabili i fiumi: terreni già franosi sono stati resi ancora più instabili; il paesaggio è stato sfregiato; la macchina turistica indebolita; la possibilità di catturare anidride carbonica menomata.
Tutti i rapporti confermano l’allarme. L’Istat quest’anno segnalache le superfici edificate coprono il 6,7 per cento del territorio nazionale (in pianura padana si arriva al 16,4 per cento). E il ritmo sta accelerando: ogni giorno, aggiunge l’Ispra, vengono impermeabilizzati 100 ettari di terreni naturali, 10 metri quadrati al secondo.Come fermare questa valanga di asfalto e cemento? Il disegno di legge proposto dal ministero dellePolitiche agricole propone di eliminare le cause che hanno facilitato l’aggressione. La prima è la molla economica. Finora più i Comuni massacravano il loro territorio scambiando aree verdi con periferie disordinate più venivano premiati grazie agli oneri di urbanizzazione che riempivano le loro casse: il ddl sancisce l’eliminazione della possibilità di utilizzare impropriamente questifondi per la copertura delle spese correnti del Municipio.
Inoltre l’articolo 4 del provvedimento prevede che si dia priorità, per la concessione di finanziamenti, al «recupero dei nuclei abitati rurali mediante manutenzione, ristrutturazione, restauro, risanamento conservativo di edifici esistenti e alla conservazione ambientale del territorio ». E l’articolo 3 blocca per 5 anni il cambio di destinazione d’uso per i terreni agricoli che hanno ricevuto aiuto di Stato o comunitari.«È un provvedimento che mira a garantire l’equilibrio tra i terreni agricoli e le zone edificate o edificabili, ponendo un limite massimo al consumo di suolo e stimolando il riutilizzo delle zone già urbanizzate», ha sintetizzato Monti.
Corriere della Sera
Se l'agricoltura perde 100 ettari al giorno
di Lorenzo Salvia
Un'Italia troppo costruita. E il governo dei tecnici sceglie di dire basta. «Negli ultimi 40 anni è stata cementificata un'area pari a Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna» è l'allarme lanciato dal premier Monti. Così il Consiglio dei ministri ha varato un disegno di legge per porre un tetto alla cementificazione. Secondo l'Ispra (Istituto superiore per la ricerca ambientale) ogni giorno sono strappati alla natura 100 ettari.
Forse immaginando le possibili resistenze, il ministro delle Politiche agricole Mario Catania lo dice senza aspettare la domanda: «Non è un provvedimento contro l'edilizia». E il premier Mario Monti lo difende fin da adesso, dicendo che «forse andava inserito del decreto salva Italia» visto che «negli ultimi 40 anni è stata cementificata un'area pari alla grandezza di Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna». Le norme per la «valorizzazione delle aree agricole e il contenimento del consumo di suolo» sono state approvate dal Consiglio dei ministri seguendo il percorso normale, quello del disegno di legge.
Niente decreto legge, subito in vigore, come pure si era pensato visto il poco tempo che resta prima della fine della legislatura. Con il risultato che l'approvazione finale sarà possibile, riconosce lo stesso Catania, «solo con l'esame in sede deliberante» cioè direttamente in commissione e senza passare dall'Aula. Un'ipotesi tutt'altro che scontata. Ma al di là dei tempi le norme sono importanti, anche coraggiose. Per la prima volta viene fissato un limite di legge alla cementificazione. Seguendo il modello della Germania, ogni dieci anni un decreto fisserà «l'estensione massima di superficie agricola edificabile nazionale», cioè la quantità di terreno coltivabile che può essere cementificata. Viene poi introdotto il divieto di mutamento di destinazione: i campi per i quali sono stati concessi aiuti di Stato o europei non possono essere usati in modo diverso per cinque anni. Un passaggio ammorbidito rispetto alla formulazione originaria. Non solo perché gli anni di divieto erano dieci ma perché nella prima versione non erano permesse nemmeno le attività parallele, come la produzione e la vendita dei prodotti agricoli, adesso consentite.
Il terzo punto è il più tecnico ma anche il più importante. Viene cancellata la possibilità di utilizzare i cosiddetti oneri di urbanizzazione per le spese correnti degli enti locali. Cosa vuol dire? Fino a qualche anno fa, quando un Comune rilasciava un'autorizzazione a costruire, l'impresa edile doveva pagare una somma che il Comune poteva usare solo per portare in quella zona i servizi, come la luce o i trasporti. Nel 2007 la norma è stata cambiata, consentendo ai sindaci di usare quei soldi anche per le spese correnti. Così, volontariamente oppure no, è stato costruito un formidabile incentivo al rilascio delle licenze edilizie, e gli oneri sono diventati un modo per fare cassa o almeno per rispondere ai tagli dei trasferimenti dallo Stato. Il disegno di legge del governo torna all'antico: quei soldi vanno usati solo e soltanto per portare i servizi nei nuovi quartieri.
L'Anci — l'associazione dei Comuni — condivide l'obbiettivo ma si lamenta del metodo: «Siamo stanchi — dice Alessandro Cosimi, sindaco di Livorno — di leggere proposte che riguardano i nostri bilanci senza essere consultati».«Siamo d'accordo sull'obiettivo ma — dice Antonio Saitta, vice presidente dell'Unione delle province — anche dopo laspending reviewla competenza sulla pianificazione territoriale resta a noi. Siamo forse all'abrogazione di fatto?». Per il resto i commenti sono tutti positivi. Il Fai, il Fondo per l'ambiente italiano, e il Wwf parlano di «coraggio e lungimiranza politica». In attesa dell'esame in Parlamento, naturalmente. E delle poche settimane che rimangono per trasformare queste proposte in legge.
E per tagliare i debiti i Comuni vendono le terre e moltiplicano i permessi
ROMA — «Comprate terreno perché non ne fabbricano più», diceva Mark Twain. Ed è proprio così che è andata, in Italia più che nel resto del mondo. Terreni abbandonati perché l'agricoltura dà da mangiare agli altri ma non a chi la fa. E campi invasi dalle ruspe anche se proprio lì a fianco ci sarebbe un capannone che sta cadendo a pezzi e si potrebbe recuperare. Per capire cosa vuol dire, più che guardare la storia conviene usare il cronometro. In un secondo vengono cementificati 10 metri quadri di quello che ci ostiniamo a chiamare il Bel Paese. Lo dice l'Ispra, l'Istituto superiore per la ricerca ambientale che in un solo giorno calcola 100 ettari strappati alla natura. Più di 100 campi da calcio. Come è stato possibile?
Certo, abbiamo attraversato «un'epoca di bassa marea morale», come diceva Italo Calvino in uno dei suoi libri più amari, «La speculazione edilizia». Ma ci siamo inventati anche qualche meccanismo per aiutare chi non aveva bisogno di aiuto. Non solo i condoni, l'eterna tentazione della politica italiana da Franco Nicolazzi in poi. Ma anche la possibilità di utilizzare i cosiddetti oneri di urbanizzazione, una specie di tassa sui costruttori, non solo per portare i servizi nei nuovi quartieri ma anche per le spese correnti dei Comuni. Così le nuove autorizzazioni sono diventate una tentazione forte per i sindaci, che in cassa hanno sempre meno soldi. Tra il 1995 e il 2009 i Comuni italiani hanno rilasciato permessi per costruire 3,8 miliardi di metri cubi. E più dell'80% delle autorizzazioni riguardava proprio nuovi edifici. È anche così che dal 1971 ad oggi ci siamo mangiati più di un quarto del nostro terreno agricolo, quella superficie grande come Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna di cui ha parlato lo stesso Mario Monti.
E non è solo un problema di tutela del paesaggio, di lotta alla speculazione o di modello di sviluppo. Ma anche di sopravvivenza. Suona strano nell'epoca dell'abbondanza e invece è proprio così. Sul nostro territorio riusciamo a produrre solo l'80% del cibo necessario per chi vive nel nostro Paese. Un italiano su cinque vive di import, anche a tavola. E non pensate al sushi o al caviale. Non siamo autosufficienti per i cereali, per il latte, per la carne, nemmeno per l'olio d'oliva che pure ci rende famosi nel mondo. E la cementificazione certo non aiuta. Tanto più che il progresso tecnologico è ormai arrivato al limite e non permette più di migliorare le rese. Per coprire tutti i consumi della nostra popolazione, a tecnologie costanti, ci servirebbero altri 49 milioni di ettari di terreno, rispetto ai miseri 12 che ci sono rimasti.
Per «deficit di suolo agricolo», l'hanno chiamato proprio così, siamo il terzo Paese d'Europa dopo la Germania e il Regno Unito. Ma non è solo un problema di cemento. «Il 70% del terreno agricolo che perdiamo ogni anno viene semplicemente abbandonato e poi coperto dal bosco», dice Mauro Agnoletti, professore di Pianificazione del paesaggio all'Università di Firenze. Fino a poco tempo fa, per legge, la campagna abbandonata e invasa dagli alberi non poteva tornare campagna, perché i boschi sono tutelati sempre e comunque. «Un'assurdità», dice il professore, che è stata eliminata con la legge sulle semplificazioni. «Non dimentichiamo che in Italia il paesaggio è quello creato dall'uomo. Da Goethe e Montesquieu, tutti i grandi intellettuali hanno parlato dell'Italia come giardino d'Europa. E il giardino è bello quando si cura, non quando viene abbandonato». Non solo se arriva il cemento.
Fermare la Cementificazione dei Suoli primo Passo con la «Legge Catania»
di Fulco Pratesi
Riuscirà il disegno di legge Catania a fermare l'«incendio grigio» che produce danni irreversibili e perpetui al nostro territorio ben diversamente da quello «rosso» dei fuochi che hanno infuriato quest'estate? Forse no. È comunque un primo lodevole passo, commentano Fai e Wwf, le due associazioni che avevano consegnato al ministro delle Politiche agricole a febbraio il dossierTerra rubata, un documento contro l'alluvione di cemento e asfalto che divora ogni giorno 75 ettari di terra coltivabile e di ambienti naturali, imbrattando con costruzioni, spesso abusive, i paesaggi più belli.
Ma a questo primo passo — che prevede innanzitutto la fissazione di un tetto all'estensione massima di superficie agricola edificabile, poi l'esclusione dell'utilizzo da parte dei Comuni degli oneri di urbanizzazione per le spese correnti, e infine il vincolo decennale di destinazione d'uso per i terreni agricoli fruitori di contributi statali e comunitari — dovranno seguirne altri che investano la generalità del nostro territorio.
Innanzitutto, chiedono il Fai e il Wwf, sarebbe importante un accordo tra i vari ministeri che riesca ad armonizzare l'esigenza della tutela dei suoli agricoli — prevista dal decreto del Consiglio dei ministri — con quelle della pianificazione paesaggistica come disegnata dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio del 2004. Un coordinamento che servirebbe anche a garantire l'equilibrata difesa dell'ambiente e della natura.
Ancora, l'introduzione di adeguati strumenti fiscali per disincentivare il consumo di suolo e favorire il riuso di terreni e volumi già edificati e non utilizzati, come prevede il progetto «RiutilizziAMO l'Italia» del Wwf, teso alla riduzione della forbice ancora troppo alta nel nostro Paese tra la rendita fondiaria e i costi della produzione edilizia.In conclusione, è forse possibile sperare che siano poste le basi per una politica che dia direttive per un razionale sviluppo che non pregiudichi il futuro della sua agricoltura e dei suoi paesaggi, non solo rurali, in favore del quali Giulia Maria Crespi, storico presidente onorario del Fai, si batte da sempre.
Consumo del suolo, Catania: con ddl approvato in CdM
vogliamo cambiare modello di sviluppo del Paese
(comunicato stampa del Ministero delle politiche agricole14/09/2012)
"Grazie alle misure contenute nel disegno di legge contro il consumo del suolo, approvato oggi dal Consiglio dei Ministri, facciamo un decisivo passo in avanti per raggiungere l'obiettivo di limitare la cementificazione sui terreni agricoli, in modo da porre fine a un trend pericoloso per il Paese. Questo provvedimento tocca temi molto sensibili, come l'uso del territorio e la sua corretta gestione, ma coinvolge anche la vita delle imprese agricole e l'aspetto paesaggistico dell'Italia. Riguarda il modello di sviluppo che vogliamo proporre e immaginare per questo Paese, anche negli anni a venire".
Lo ha detto ilMinistro delle politiche agricole alimentari e forestali, Mario Catania, intervenendo nel corso della conferenza stampa che si è tenuta a Palazzo Chigi - alla presenza del presidente Mario Monti - al termine del Consiglio dei Ministri, durante il quale è stato approvato il disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo."Abbiamo introdotto - ha spiegato Catania - un sistema che sostanzialmente prevede di determinare l'estensione massima di superficie agricole edificabile sul territorio nazionale. Questa quota, quindi, viene ripartita tra le Regioni le quali, a caduta, la distribuiscono ai Comuni. In questo modo otterremo un sistema che vincola l'ammontare massimo di terreno agricolo cementificabile distribuendolo armonicamente su tutto il territorio nazionale".
"Vogliamo - ha aggiunto Catania - interdire i cambiamenti di destinazione d'uso dei terreni che hanno ricevuto i fondi dall'Unione Europea, infatti abbiamo previsto che queste superfici restino vincolate per 5 anni. Inoltre, il provvedimento interviene sul sistema degli oneri di urbanizzazione dei Comuni. Nella normativa attualmente in vigore è previsto che le amministrazioni possono destinare parte dei contributi di costruzione alla copertura delle spese comunali correnti, distogliendoli dalla loro naturale finalità, cioè il finanziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Questo fa sì che si crei una tendenza naturale delle amministrazioni e dei privati a dare il via libera per cementificare nuove aree agricole anche quando è possibile utilizzare strutture già esistenti. Le nuove norme avranno sicuramente un impatto su questo fenomeno".Di seguito, in sintesi, i punti principali del provvedimento:
1. Vengono definiti "terreni agricoli" tutti quelli che, sulla base degli strumenti urbanistici in vigore, hanno destinazione agricola, indipendentemente dal fatto che vengano utilizzati a questo scopo;
2. Si introduce un meccanismo di identificazione, a livello nazionale, dell'estensione massima di terreni agricoli edificabili (ossia di quei terreni la cui destinazione d'uso può essere modificata dagli strumenti urbanistici). Lo scopo è quello di garantire uno sviluppo equilibrato dell'assetto territoriale e una ripartizione calibrata tra zona suscettibili di utilizzazione agricola e zone edificate/edificabili;
3. Si introduce il divieto di cambiare la destinazione d'uso dei terreni agricoli che hanno usufruito di aiuto di Stato o di aiuti comunitari. Nell'ottica di disincentivare il dissennato consumo di suolo la misura evita che i terreni che hanno usufruito di misure a sostegno dell'attività agricola subiscano un mutamento di destinazione e siano investiti dal processo di urbanizzazione;
4. Viene incentivato il recupero del patrimonio edilizio rurale per favorire l'attività di manutenzione, ristrutturazione e restauro degli edifici esistenti, anziché l'attività di edificazione e costruzione di nuove linee urbane.
5. Si istituisce un registro presso il Ministero delle politiche agricole in cui i Comuni interessati, i cui strumenti urbanistici non prevedono l'aumento di aree edificabili o un aumento inferiore al limite fissato, possono chiedere di essere inseriti.
6. Si abroga la norma che consente che i contributi di costruzione siano parzialmente distolti dalla loro naturale finalità - consistente nel concorrere alle spese per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria - e siano destinati alla copertura delle spese correnti da parte dell'Ente locale.
Nel presentare l’anticipazione del provvedimento legislativo offerta su La Repubblica da uno dei suoi promotori, Carlo Petrini, esprimevamo, il 25 luglio scorso, questo sintetico commento: "ottime intenzioni e proposte finalmente nella direzione giusta, ma per contrastare con efficacia il dominio degli affari nell'uso del territorio occorrono strumenti più solidi. Non possiamo che confermarlo oggi, che il provvedimento è approdato al Consiglio dei ministri. E’ certamente positiva e coraggiosa la decisione di cancellare l’infame modifica apportata da Bassanini e Lunardi alle legge Bucalossi e di ripristinare la destinazione originaria degli oneri di concessione (strumento per la trasformazione degli standard urbanistici in aree edifici e servizi pubblici. Ma sono deboli, contraddittori, inefficaci ed elusive altre parti del provvedimento. Esprimeremo il nostro parere quando avremo esaminato con la necessaria attenzione il testo, ripartendo dalle proposte che abbiamo a suo tempo avanzate (ai tempi del governo Prodi) e che giacciono tra gli atti ufficiali del Parlamento, lì presentate dai gruppi della sinistra oggi assenti dalle sedi legislative (vedi tra le proposte raccolte nella cartella di eddyburg, in particolare quelle presentate dagli on.li Sodano e altri e Migliore e altri.
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Perdiamo terreno
Data di pubblicazione: 20.08.2012
Nell’inchiesta di Salari e il commento di Cianciullo, l’analisi della situazione italiana sul consumo di suolo a partire dal dossier di WWF e Fai “Terra rubata”. repubblica on-line, 20 agosto 2012 (m.p.g.)
Così stanno uccidendo l'Italia agricola. Quei 600 mila ettari rubati dal cemento
di Gabriele Salari
Una superficie artificializzata grande quanto il Friuli Venezia Giulia. Nonostante la stabilità demografica in 50 anni c'è stato un forte incremento del territorio urbanizzato: 8.500 ettari all'anno. Un aumento del 500% dal Dopoguerra ai primi anni Duemila. Siamo i primi produttori di cemento in Europa e il business alimenta anche la diffusione delle cave di calcare sui fianchi di colline e montagne.
Cinquecento per cento. Di tanto è aumentata la superficie impermeabilizzata dal cemento o dall’asfalto in Italia tra il 1956 e il 2001. Questo crescente consumo di suolo è avvenuto a prescindere dallo sviluppo economico o demografico. Il caso del Molise, la cui popolazione ha una consistenza numerica pressoché costante dal 1861, è significativo: la superficie urbanizzata è passata dai circa 2.316 ettari del 1956 ai 12.030 del 2002, con una variazione positiva quindi di circa 9.700 ettari, pari a un consumo giornaliero di circa mezzo ettaro. Lo stesso si può dire però per tutta l’Italia dove la stabilità demografica contraddistingue gli ultimi decenni, ma dove, tra il 1991 e il 2001, l’Agenzia Ambientale Europea rileva un incremento di quasi 8.500 ettari l’anno di territorio urbanizzato (il doppio della media europea) e l’Istat ben tre milioni di ettari di territorio, un terzo dei quali agricolo, perso tra il 1990 e il 2005. Gli ultimi anni non sono serviti affatto a invertire questa tendenza.
L’allarme, lanciato da Fai e Wwf nel recente dossier “Terra Rubata”, arriva in un momento in cui a livello globale si riscontra la stessa tendenza. La Cina, ad esempio, cerca di accaparrarsi terreni agricoli in Africa per sopperire alle proprie necessità di produzione alimentare. È il suicidio dell’Italia agricola, giardino d’Europa, che ha rinnegato le proprie origini per inseguire l’industrializzazione e che ora, nell’epoca postindustriale, continua a disseminare il territorio di capannoni, invece di recuperare le aree dismesse ed evitare nuovo consumo di suolo.
In Italia è praticamente impossibile tracciare un cerchio di 10 chilometri di diametro senza incontrare un nucleo urbano, con tutto ciò che ne consegue, sia per l’isolamento dei francobolli di natura rimasti che, guardando le cose dal punto di vista opposto, quanto a difficoltà di individuazione di siti idonei per impianti come le discariche che dovrebbero sorgere lontano da un centro abitato.
La nostra economia incentrata sul Pil ha visto nel settore delle costruzioni un suo punto di forza e l’ultimo decennio non ha fatto eccezione, anzi: il 2007 è stato il nono anno consecutivo di sviluppo del settore in Italia, qualificandosi come l’anno in cui i volumi produttivi hanno raggiunto i livelli più alti dal 1970 ad oggi.
Felici di coprire l’Italia di cemento quindi e pazienza se quel suolo è perso per sempre, non potrà più tornare ad essere suolo agricolo. In un’epoca in cui non si prevede crescita demografica e in cui il paesaggio è forse una delle risorse più importanti del Paese, una scelta poco sensata. Anche l’IMU, introdotta dal federalismo fiscale, si conferma come un introito per i Comuni ancora proporzionale in larga parte alla quantità di edifici senza, almeno per ora, vincoli particolari di utilizzazione e quindi del tutto analoga all’ICI negli effetti nefasti sulla trasformazione del suolo.
In uno studio che ha riguardato circa la metà del territorio italiano, si è visto che l’area urbana si è mediamente moltiplicata di quasi 3 volte e mezza dal Dopoguerra ai primi anni 2000, con un aumento di quasi 600.000 ettari in circa 50 anni, cioè una superficie artificializzata pari quasi a quella dell’intera regione Friuli Venezia Giulia.
Il business del cemento, del quale siamo i primi produttori in Europa, alimenta anche la diffusione delle cave di calcare per cementifici che infliggono pesanti ferite al paesaggio, visto che sorgono sui fianchi di colline e montagne, e risultano visibili a chilometri di distanza, assumendo il tipico aspetto di enormi cicatrici color bianco abbagliante. Eccezionale la situazione nel Casertano, con cave spesso fuorilegge a ridosso di centri abitati, come denuncia il dossier “Terra rubata”, che segnala come questo tipo di cave sia spesso in mano all’ecomafia.
La piaga dell’abusivismo edilizio nel Meridione amplifica a dismisura il fenomeno del consumo di suolo, sia in aree a forte vocazione agricola che in aree dove il buon senso (oltre che la legge Galasso) impedirebbe di costruire, come le pendici dei vulcani. Il Vesuvio è un caso emblematico anche perché a case e altri manufatti, si aggiunge la presenza di cave e discariche, a fronte di un territorio fertile in cui si coltivano diversi prodotti tipici.
Il sacrificio delle pianure dove costruire conviene
Gabriele Salari
Gli operatori immobiliari hanno meno vincoli urbanistici, edificare costa di meno e il diffondersi dei centri commerciali aiuta ad incentivare le lottizzazioni. La geografia dell'Italia è in rapido cambiamento: non più piccoli centri storici tra vigne e uliveti, ma campagne dentro le città. Degli effetti ce ne accorgiamo durante le alluvioni
Quasi il 60% delle aree urbanizzate è collocato in aree pianeggianti, indubbiamente più comode per ciò che riguarda i collegamenti e più vantaggiose in relazione ai costi di costruzione. Sono bastati alcuni decenni di crollo dell’agricoltura nelle più piccole pianure italiane per provocarne il sacrificio. In pratica, si è consumato più suolo e in modo più estensivo dove questa risorsa era più disponibile e dove costava meno, anche quando i suoli utilizzati erano ad alta vocazione agricola.
“La speculazione legata ai cambi di destinazione d’uso delle aree agricole e all’edificabilità dei suoli ha generato spesso un intreccio tra costruttori e Amministratori pubblici che ha in molti casi stravolto ogni tentativo di seria programmazione e gestione territoriale” spiega Franco Ferroni, responsabile biodiversità del Wwf Italia. “Gli interessi dei grandi costruttori sono molto spesso coincidenti con quelli fondiari, chi costruisce case da tempo compra le terre su cui edificare e non sempre le comprano con l’edificabilità già sancita nei piani regolatori. Il guadagno in questo caso si moltiplica, e di molto”.
Basti considerare che in un’area di fondovalle di Umbria o Marche i terreni ad alta vocazione agricola possono avere costi ad ettaro di 15.000 - 20.000 euro che salgono facilmente a 70.000 - 90.000 euro ad ettaro se il terreno diventa edificabile con un centro residenziale o commerciale che sostituisce i seminativi. O ancora, quanto può rendere di più un agrumeto della Costiera Amalfitana se invece che produrre il limone sfusato di Amalfi, il terreno viene impiegato come parcheggio dai turisti che affollano d’estate la località di mare?
Andando su e giù per lo Stivale si nota come si stia sfaldando il tessuto italiano fatto di piccoli centri storici immersi in orti e vigneti, campi e pascoli. I centri medioevali si svuotano di abitanti perché vengono considerati “scomodi” visto che spesso non si può posteggiare l’automobile sotto casa. Costruire su spazi verdi extra-urbani costa poi meno rispetto ai costi di recupero e di adeguamento del patrimonio immobiliare esistente e gli operatori immobiliari nei territori extra-urbani trovano minori vincoli urbanistici. Non solo, il diffondersi di grandi centri commerciali periferici incentiva ulteriormente la nascita di lottizzazioni extraurbane e l’uso dell’automobile. Più case isolate e più centri commerciali portano alla necessità di più strade e quindi a una crescita esponenziale del consumo di suolo.
“Un’altra causa del fenomeno è rappresentata dalla possibilità per i Comuni di utilizzare fino al 50% degli oneri di urbanizzazione per pagare le spese correnti. In carenza di altre risorse questa norma ha incentivato da parte delle amministrazioni locali il cambio della destinazione d’uso dei terreni agricoli in aree edificabili anche in assenza di un reale fabbisogno, per aumentare le entrate nei propri bilanci e mantenere i servizi essenziali” spiega Ferroni.
I dati a disposizione indicano che in Pianura Padana il 9,9% della superficie è occupato da opere d’urbanizzazione, cave e discariche, con punte del 12,5% nelle aree dell’alta pianura e del 16,9% in corrispondenza delle colline moreniche. In Versilia e nelle pianure interne della Toscana, Umbria e Lazio il consumo di suolo per attività extra-agricole raggiunge il 10,6% della superficie. Vi sono aree in cui l’urbanizzato copre addirittura il 50% del suolo ed è la campagna a trovarsi all’interno dello spazio urbano e non viceversa.
Accade per esempio nell’ampia regione che ha come vertici Bergamo-Lecco-Como-Varese-Milano oppure intorno a Bologna, da Parma a Cesena. “Negli ultimi 15 anni il diffondersi degli insediamenti si è proposto con forza anche in alcune zone della pianura irrigua che fino a un ventennio fa ne erano rimaste immuni e che da alcuni erano pensate come il possibile cuore verde della megalopoli padana” scrivono Stefano Bocchi e Arturo Lanzani in “Campagna e Città” (Touring Club Italiano).
Il problema è che stiamo assistendo a una “padanizzazione” delle nostre pianure in tutto il Paese. Nonostante già prima della crisi economica molti alloggi e molti capannoni industriali fossero vuoti, si continua a costruirne degli altri e ogni città si sviluppa ormai lungo le principali strade di comunicazione fino a saldarsi con la città successiva. Questo lo si percepisce chiaramente percorrendo la superstrada da Perugia a Spoleto, nella Valle Umbra, oppure la Pontina, da Roma a Latina. Difficile capire dove finisce un centro abitato e ne inizia un altro: è la cancellazione della campagna.
L’impermeabilizzazione delle pianure produce effetti di cui ci accorgiamo in occasione delle alluvioni, visto che l’asfalto limita le aree di espansione naturale delle piene. Servirebbero dunque vincoli sulle modificazioni d’uso dei terreni agricoli, ma anche incentivi per chi intraprende l’attività agricola. Nel 2009, secondo le stime dell’Unione europea, mentre il reddito reale per lavoratore nel settore è sceso in media del 12%, in Italia il calo è stato di oltre il doppio.
In Europa il suolo è un valore e si difende
Gabriele Salari
Mentre in Italia mancano i meccanismi di gestione e controllo del territorio, nel resto del Vecchio Continente si tenta di porre un limite al consumo del territorio. La prima è stata la Francia, con tre leggi negli anni 90. Poi la Gran Bretagna con le 'Green Belts', che impediscono alle città di saldarsi tra loro. La Germania si è posta un obiettivo: non più di 30 ettari al giorno entro il 2020.
La Germania è stato uno dei primi paesi che si è occupato della tutela del paesaggio e ha fissato un limite quantitativo al consumo di suolo, dopo aver rilevato nel 2002 un tasso di crescita di 129 ettari al giorno (in Italia siamo oggi a 75 ettari).
Il limite, da raggiungere entro il 2020, è di 30 ettari al giorno e si sta cercando di raggiungerlo con una politica di riutilizzo dei suoli già impermeabilizzati, ad esempio, prevedendo una diversa tassazione sugli immobili a seconda che siano realizzati o meno su aree già urbanizzate.
Nel 1999 è entrata in vigore una vera e propria legge per il suolo, che vede l’inserimento della tutela dei suoli in tutte le regolamentazioni e norme di settore e l’inserimento del principio di prevenzione. Un approccio normativo così completo e puntuale è stato portato avanti con una contemporanea attività di ricerca e analisi per la misurazione del fenomeno.
In Gran Bretagna, invece, si è riusciti a impedire che le città si saldassero tra di loro, grazie a un’intuizione del 1995: le Green Belts, le cinture verdi che circondano i centri urbani costringendoli in confini non valicabili per l’espansione edilizia. In quell’anno l’estensione delle Green Belts era di 1.556.000 ettari, circa il 12% del suolo inglese, mentre oggi siamo arrivati a una superficie di quasi 1.700.000 ettari. Un vero successo che ha consentito di proteggere la campagna e le attività che vi si svolgono, ma anche di conservare le caratteristiche specifiche delle città storiche con il loro contesto e aiutare la rigenerazione urbana, incoraggiando il riutilizzo di aree urbanizzate abbandonate.
Almeno il 60 % delle nuove abitazioni in Gran Bretagna devono essere realizzate su suolo già urbanizzato, intendendo aree ed edifici che sono stati abbandonati o sono in stato di degrado oppure utilizzati ma che potrebbero essere riqualificati. A sostegno di questa politica, il “National Land Use Database” viene aggiornato annualmente e contiene informazioni sui suoli già impermeabilizzati ed edificati in Inghilterra.
Anche in Francia tre diverse leggi, entrate in vigore alla fine degli anni Novanta si occupano della gestione del territorio, mentre in Italia manca ancora questo tipo di meccanismi di pianificazione e perfino il Catasto delle aree percorse dal fuoco, previsto dalla legge quadro sugli incendi 353/2000, per impedire l’edificazione nei boschi dati alle fiamme, è uno strumento che molti Comuni non applicano, facendo mancare così un ulteriore argine al consumo di suolo.
Con villini e capannoni ci rimette la nostra storia
Antonio Cianciullo
La bellezza del nostro territorio rischia di essere cancellata da una sfilata di villini, strade e capannoni. Sono necessarie leggi più severe, ma soprattutto un'operazione strutturale che dia importanza ai piccoli centri. Dall'agricoltura multitasking al ribaltamento della centralità attraverso internet e la capillarità dei trasporti
Campi abbandonati, perché non più redditizi, riconquistati dal bosco. Una campagna accanto a una città, mangiata dalla lottizzazione. Sono due esempi molto diversi che spiegano perché è difficile leggere i numeri sulla perdita di suolo agricolo: un’interpretazione sbagliata rischia di offrire sintesi che non corrispondono alla realtà.
Diamo quindi al bosco quel che è del bosco e non calcoliamo come cementificate le aree abbandonate dall’agricoltura e restituite agli alberi o agli arbusti. Il dato che resta è comunque drammatico: la superficie annualmente coperta da cemento e asfalto si misura nell’ordine di qualche centinaio di chilometri quadrati l’anno.
Si tratta dunque di costruire dei paletti in grado di fermare la perdita di territorio che rischia di trasformare le pianure in un sfilata ininterrotta di villini, capannoni, svincoli, strade, fabbriche, centri commerciali: un unicum di asfalto e cemento che cancella la nostra storia e le basi della nostra cultura materiale. Su questo sono tutti, o quasi, d’accordo. Ma qual è il sistema più efficace per raggiungere l’obiettivo?
Molti insistono sulla necessità di leggi più severe. E questo è senz’altro necessario. Le green belt volute dai britannici a difesa delle loro città si sono rivelate uno strumento efficace. In Italia perfino la semplice applicazione di normative già esistenti ma spesso ignorate, come quella che vieta le costruzioni sulle aree devastate dagli incendi, potrebbe fare molto.
Ma anche le leggi più severe rischiano alla lunga di essere aggirate se non si compie un’operazione più strutturale capace di restituire valore alla cosiddetta Italia minore, che poi è l’Italia che fa maggiore il nostro appeal: un appeal basato sulla grande diversità della nostra cultura, sui mille campanili, sull’arte di godersi la vita che prende forme diverse provincia per provincia, città per città.
Difendere la vivibilità dei piccoli centri nelle aree interne e montuose significa costruire un sistema di trasporti moderno in grado di assicurare anche i collegamenti trasversali e minuti, non solo le grandi tratte dell’alta velocità. Significa garantire la possibilità di essere al centro del mondo abitando in un paesino sperduto grazie all’accesso al web ad alta velocità. Significa mettere in piedi l’Internet dell’energia trasformando milioni di case in punti di produzione di elettricità e calore in modo da rovesciare il concetto di centralità che ha governato il ventesimo secolo.
Difendere la vivibilità economica delle imprese agricole significa prima di tutto frenare la fuga dai campi, che è dettata principalmente da ragioni economiche e che in 10 anni ha portato all’abbandono di un milione e 800 mila ettari. In questa direzione va la proposta di un’agricoltura multitasking che permetta a chi vive nei campi di far quadrare i conti utilizzando, a integrazione del reddito, altri strumenti: dall’agriturismo ai piccoli o mini impianti di rinnovabili passando per una più corretta valutazione economica del lavoro svolto in termini di difesa idrogeologica.
Già oggi - ricorda Andrea Segré preside della facoltà di agraria di Bologna - le attività di servizio connesse al lavoro agricolo (compresa l’ospitalità negli agriturismi) valgono un quinto del fatturato delle aziende del settore. Senza calcolare i profitti derivanti dall’uso energetico degli scarti di lavorazione, dal mini eolico e dal solare.
“I residui delle colture agricole hanno un potenziale energetico quattro volte superiore a quello che l’agricoltura utilizza per le proprie attività”, aggiunge Giampiero Maracchi, docente di climatologia a Firenze.“Sole, vento, biomasse, biocombustibili, biogas sono tutte forme di energia che possono essere prodotte dalle attività agricole, dando al paese più del 30 % dell’energia di cui ha bisogno”.
Gli strumenti da utilizzare, come si vede, possono essere vari. Quello che conta è ribaltare la logica economica che finora ha premiato i Comuni per le attività più devastanti (gli incassi legati alla concessione di licenze edilizie) e trasformato in un costo le attività di difesa dell’ambiente e della bellezza del territorio
Con villini e capannoni ci rimette la nostra storia
Antonio Cianciullo
La bellezza del nostro territorio rischia di essere cancellata da una sfilata di villini, strade e capannoni. Sono necessarie leggi più severe, ma soprattutto un'operazione strutturale che dia importanza ai piccoli centri. Dall'agricoltura multitasking al ribaltamento della centralità attraverso internet e la capillarità dei trasporti
Campi abbandonati, perché non più redditizi, riconquistati dal bosco. Una campagna accanto a una città, mangiata dalla lottizzazione. Sono due esempi molto diversi che spiegano perché è difficile leggere i numeri sulla perdita di suolo agricolo: un’interpretazione sbagliata rischia di offrire sintesi che non corrispondono alla realtà.
Diamo quindi al bosco quel che è del bosco e non calcoliamo come cementificate le aree abbandonate dall’agricoltura e restituite agli alberi o agli arbusti. Il dato che resta è comunque drammatico: la superficie annualmente coperta da cemento e asfalto si misura nell’ordine di qualche centinaio di chilometri quadrati l’anno.
Si tratta dunque di costruire dei paletti in grado di fermare la perdita di territorio che rischia di trasformare le pianure in un sfilata ininterrotta di villini, capannoni, svincoli, strade, fabbriche, centri commerciali: un unicum di asfalto e cemento che cancella la nostra storia e le basi della nostra cultura materiale. Su questo sono tutti, o quasi, d’accordo. Ma qual è il sistema più efficace per raggiungere l’obiettivo?
Molti insistono sulla necessità di leggi più severe. E questo è senz’altro necessario. Le green belt volute dai britannici a difesa delle loro città si sono rivelate uno strumento efficace. In Italia perfino la semplice applicazione di normative già esistenti ma spesso ignorate, come quella che vieta le costruzioni sulle aree devastate dagli incendi, potrebbe fare molto.
Ma anche le leggi più severe rischiano alla lunga di essere aggirate se non si compie un’operazione più strutturale capace di restituire valore alla cosiddetta Italia minore, che poi è l’Italia che fa maggiore il nostro appeal: un appeal basato sulla grande diversità della nostra cultura, sui mille campanili, sull’arte di godersi la vita che prende forme diverse provincia per provincia, città per città.
Difendere la vivibilità dei piccoli centri nelle aree interne e montuose significa costruire un sistema di trasporti moderno in grado di assicurare anche i collegamenti trasversali e minuti, non solo le grandi tratte dell’alta velocità. Significa garantire la possibilità di essere al centro del mondo abitando in un paesino sperduto grazie all’accesso al web ad alta velocità. Significa mettere in piedi l’Internet dell’energia trasformando milioni di case in punti di produzione di elettricità e calore in modo da rovesciare il concetto di centralità che ha governato il ventesimo secolo.
Difendere la vivibilità economica delle imprese agricole significa prima di tutto frenare la fuga dai campi, che è dettata principalmente da ragioni economiche e che in 10 anni ha portato all’abbandono di un milione e 800 mila ettari. In questa direzione va la proposta di un’agricoltura multitasking che permetta a chi vive nei campi di far quadrare i conti utilizzando, a integrazione del reddito, altri strumenti: dall’agriturismo ai piccoli o mini impianti di rinnovabili passando per una più corretta valutazione economica del lavoro svolto in termini di difesa idrogeologica.
Già oggi - ricorda Andrea Segré preside della facoltà di agraria di Bologna - le attività di servizio connesse al lavoro agricolo (compresa l’ospitalità negli agriturismi) valgono un quinto del fatturato delle aziende del settore. Senza calcolare i profitti derivanti dall’uso energetico degli scarti di lavorazione, dal mini eolico e dal solare.
“I residui delle colture agricole hanno un potenziale energetico quattro volte superiore a quello che l’agricoltura utilizza per le proprie attività”, aggiunge Giampiero Maracchi, docente di climatologia a Firenze.“Sole, vento, biomasse, biocombustibili, biogas sono tutte forme di energia che possono essere prodotte dalle attività agricole, dando al paese più del 30 % dell’energia di cui ha bisogno”.
Gli strumenti da utilizzare, come si vede, possono essere vari. Quello che conta è ribaltare la logica economica che finora ha premiato i Comuni per le attività più devastanti (gli incassi legati alla concessione di licenze edilizie) e trasformato in un costo le attività di difesa dell’ambiente e della bellezza del territorio.
Su Roma una nuova pioggia di case
la campagna nelle mire dei palazzinari
Di Francesco Erbani
Due mila ettari di terreno lasceranno il posto a 66 mila case. Merito degli "ambiti di riserva", aree selezionate dal Comune per circa 200 mila abitanti. Tanti quanti quelli di Salerno o Brescia. Legambiente denuncia che nella Capitale già esistono più di 250 mila appartamenti vuoti. Alemanno promette che questi alloggi, fuori dal Piano Regolatore del 2008, saranno in parte destinati all'edilizia popolare. Ma è necessario costruire ancora?
ROMA - Il titolo è burocraticamente innocuo: "Ambiti di riserva a trasformabilità vincolata". Il senso è un altro. Su Roma possono abbattersi 66 mila nuovi alloggi, cioè 23 milioni di metri cubi di appartamenti che si piazzeranno su 2 mila 400 ettari di campagna romana. Le lottizzazioni sono sparse per ogni dove nelle "erme contrade", come Giacomo Leopardi chiamava nella Ginestra la cintura agricola intorno alla città - e "erme" vuol dire solitarie.
Una campagna dove, nonostante tante aggressioni, si fa ancora molta agricoltura, dove fitta è la trama archeologica e altissimi i valori paesaggistici. Se in ogni appartamento andranno a vivere dalle due alle tre persone, ecco profilarsi, dentro il territorio comunale, una città dai 130 ai 200 mila abitanti. Grande quanto Salerno o quanto Brescia. Che viola persino il Parco dell'Appia Antica, ai bordi del quale potrebbe sorgere un bel quartiere con 3 mila abitanti. L'allarme è alto. Sono mobilitate le associazioni ambientaliste, i comitati di cittadini preparano barricate. Nei giorni scorsi si è svolto un sit-in davanti al Campidoglio. È intervenuto anche l'Istituto nazionale di urbanistica (Inu). E due deputati di Pd, Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, hanno presentato un'interrogazione parlamentare.
Ma, prima di tutto: c'è bisogno d'altro cemento a Roma? Il Piano regolatore, approvato appena quattro anni fa dalla giunta di Walter Veltroni, prevede edificazioni per 70 milioni di metri cubi, un diluvio di calcestruzzo che sta inondando di gru, di villette e di palazzi la capitale in tutte le direzioni - la terribile "macchia d'olio" descritta cinquant'anni fa da Antonio Cederna -, ma che non trova giustificazioni nella crescita demografica: l'ultimo censimento inchioda la popolazione residente a 2 milioni 600 mila abitanti, appena 50 mila in più rispetto al 2001. I 66 mila nuovi alloggi sono proprio nuovi, cioè sono oltre quelli del Piano, molti dei quali appena costruiti giacciono lì, invenduti, a fare la muffa e a impensierire le banche che con i costruttori si sono esposte enormemente e ora vedono in pericolo i capitali anticipati, prefigurando scenari da bolla immobiliare spagnola. Si attendono i dati dell'ultimo censimento, ma nel 2001 risultavano 193 mila appartamenti inutilizzati che, secondo molti, è una cifra molto sottostimata. Legambiente calcola almeno 250 mila appartamenti vuoti a Roma.
Uno dei requisiti fissati dal Comune è proprio che i nuovi alloggi vengano costruiti in suoli che il Piano riserva come agricoli. Molto esplicita la relazione del Dipartimento urbanistica del Comune di Roma: "Le aree selezionate andranno ad aggiungersi agli Ambiti di Riserva a trasformabilità vincolata già individuati dal Prg vigente". Insomma è come se il Piano, abbondantemente sovradimensionato e sottoutilizzato, fosse già carta straccia. Inoltre, fa notare l'Inu, non vengono attuati 35 Piani di Zona già approvati per realizzare case popolari, cioè case di proprietà pubblica.
Per Gianni Alemanno e per il suo assessore all'urbanistica, Marco Corsini, arriva in porto una promessa fatta ai romani subito dopo l'insediamento in Campidoglio nel 2008 per fronteggiare l'emergenza abitativa, molto alta nonostante le troppe case che si costruiscono ma che restano inaccessibili ai ceti più deboli. I 66 mila appartamenti servono, dice il sindaco, perché destinati in parte ad housing sociale. Che vuol dire case ad affitti agevolati, realizzate da privati i quali ottengono in cambio licenze per costruire altre case da vendere a mercato libero. Sei euro al metro quadrato, assicurano al Comune, l'importo di un affitto agevolato, 420 euro per una casa di 70 metri quadrati, due stanze, doppio bagno, cucina e soggiorno. Ma su questa materia non esistono norme di legge, tutto dipenderà dalle convenzioni fra Comune e costruttori.
Appena eletto, Alemanno lanciò un bando per dare casa, diceva, a chi casa non se la poteva permettere - giovani coppie, single, studenti fuori sede, famiglie a basso reddito. Ma neanche poteva accedere alle liste per vedersi assegnato un alloggio popolare, che a Roma come in tutta Italia si costruiscono sempre meno. Sono arrivate 334 proposte. Una commissione le ha valutate e ne sono state selezionate 160 (che potrebbero forse scendere a 135: ma sono pur sempre 20 milioni di metri cubi). Il Comune sostiene che si tratta solo di una ricognizione. Mancano passaggi fondamentali, primo fra tutti l'approvazione di una variante urbanistica in Consiglio comunale, che ha tempi molto più lunghi di quelli che mancano alla fine della legislatura (primavera 2013). Ma non sfugge alle associazioni ambientaliste e ai comitati quanto la pubblicazione della lista sul sito del Comune generi aspettative sfruttabili elettoralmente, faccia sentire i proprietari selezionati in possesso di diritti e soprattutto inneschi meccanismi di valorizzazione fondiaria (un terreno edificabile vale enormemente di più rispetto a uno agricolo). Circolano depliant di cooperative edilizie, se ne parla sui social network.
Da Nord a Sud, da Est a Ovest, la mappa degli "ambiti di riserva" che compare in rete è un florilegio di puntini neri sparpagliati dovunque, quasi un fiotto di coriandoli lanciati per aria e piovuti al suolo, senza nessuna logica di pianificazione. Senza nessun supporto del trasporto pubblico. Basti pensare che una delle prescrizioni imposte dal bando del Comune è che il terreno sul quale costruire sia a non più di 2 chilometri e mezzo da una fermata dell'autobus. Che comunque deve essere raggiunta in macchina.
I tagli dei terreni sono vari. Si va dai 2 ettari e poco più a Tor Vergata, dove si possono realizzare 82 appartamenti ai 90 ettari complessivi della società agricola Cornacchiola, dove di appartamenti se ne possono fare 2.500. Questo terreno, diviso in due parti, è il più grande degli insediamenti previsti in tutta Roma, ma non è solo questo il primato di cui può fregiarsi. Questi 90 ettari si stendono proprio al confine con il Parco dell'Appia Antica, zona con vincoli di ogni genere, archeologici e paesaggistici e che, nonostante tutte le norme impongono debba restare integra, potrebbe essere lo scenario di stupefacente bellezza sul quale affacceranno finestre, balconi e terrazzi di oltre cinquemila persone. Un vero sfregio per la Regina viarum, che si aggiungerebbe agli abusi che la vilipendono da decenni. Ma sono picchiettate di lottizzazioni zone adiacenti altri parchi, come quelli di Veio, della Marcigliana o la Riserva del Litorale.
"Dal bando per l'housing ci aspettavamo un disastro", sbotta Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio, "ma i risultati che Alemanno vorrebbe approvare sono peggiori di qualsiasi incubo. L'associazione dei costruttori aveva chiesto l'1 % del territorio e Alemanno ne elargisce quasi il 2 %. Una brutta ipoteca sul futuro, visto che il sindaco non potrà mai vedere attuata prima delle elezioni l'assurda variante generale al Piano Regolatore scritta sulla base dei risultati di un bando, ma rischia di generare diritti edificatori che non ci toglieremo più". Molto duro è anche il giudizio di Italia Nostra che si dice "assolutamente contraria a tale iniziativa perché porta ad una dispersione caotica dei nuovi insediamenti residenziali che non rispondono ad alcun progetto di città ma sono determinati casualmente in base alle offerte della proprietà fondiaria. Prima di pensare a nuove urbanizzazioni dell'Agro romano, sarebbe piuttosto necessario utilizzare le aree e i fabbricati dismessi o sottoutilizzati da censire immediatamente per trovare soluzioni alternative e più articolate all'emergenza abitativa".
A Roma Nord, nel XIX Municipio, calano 29 insediamenti, per un totale di 454 ettari e quasi 15 mila appartamenti. Un acquazzone cementizio anche nel confinante XX Municipio, 357 ettari compromessi da oltre 10 mila appartamenti. In questi due Municipi risiede il Parco di Veio, da dove sono arrivati alcuni capolavori archeologici ora custoditi nel Museo di Villa Giulia. Altri insediamenti per oltre 110 ettari si annunciano nella zona di Porta di Roma, sempre a Nord della città, dove sono stati costruiti negli ultimi sei anni quasi 3 milioni di metri cubi e dove la sera, se ci si aggira fra le palazzine tirate su da Caltagirone, dai fratelli Toti e da Mezzaroma, i grandi nomi dell'edilizia romana, sono pochissime le finestre illuminate in un desolato panorama di case vuote. In pericolo le aree verdi di Selva Candida e Villa Santa, la Cecchignola, Colle della Strega. E altre palazzine potrebbero prendere il posto degli ulivi secolari nei 30 ettari di una tenuta a pochi metri da Villa Segni, un edificio storico sull'Anagnina. Anche qui vincoli paesaggistici e vincoli archeologici non sono bastati: questo terreno è finito, insieme agli altri 159, nella lista che potrebbe sconvolgere gli assetti già molto precari di Roma.
16 luglio 2012
Il boom delle case non aiuta nessuno. Manca un’idea urbanistica di Roma
Giovanni Caudo intervistato da Francesco Erbani
"Costruire nuovi alloggi non basta a fronteggiare l'emergenza abitativa". Si allargherà il disagio delle famiglie e si abbasserà la qualità della vita nella Capitale. Ne risentiranno anche gli operatori immobiliari che ora credono di arricchirsi. Parla Giovanni Caudo, professore di Urbanistica a Roma 3
Giovanni Caudo insegna Urbanistica all'università Roma 3. Da anni studia le trasformazioni della capitale, in particolare il disagio abitativo che a Roma raggiunge livelli di emergenza e le politiche attuate per fronteggiarlo, compiendo raffronti con le principali realtà europee.
Professor Caudo qual è la logica urbanistica degli "ambiti di riserva"?
«Non c'è logica urbanistica. Da anni a Roma si fa urbanistica senza avere a cuore la cura per la città. Le scelte non incontrano i bisogni dei cittadini: si fanno più case, molte restano invendute, ma il disagio abitativo si allarga sempre di più».
Si può quantificare questo disagio?
«Sono 163 mila i romani che tra il 2003 e il 2010 hanno lasciato Roma per spostarsi nei comuni della provincia, si tratta della popolazione di una città come Cagliari. Sono gli stessi anni in cui si elaborava il Piano regolatore, con scelte urbanistiche presentate come "moderne" e "innovative"».
Che hanno prodotto quali effetti?
«Un urbanistica senza città e senza un'idea di città. Questo degli "ambiti di riserva", poi, è un provvedimento che ci allontana dalle altre città europee e ci avvicina a quelle del sud America, dove chi ha il suolo costruisce e il resto non conta».
Quale può essere l'effetto sull'emergenza abitativa?
«La prima conseguenza è sulle regole: viene affossato il Piano approvato appena nel febbraio del 2008. Un affossamento, va detto, programmato dagli stessi autori del Piano, che con un articolo delle norme di attuazione, il numero 62, hanno costruito il dispositivo che ne può scardinare il contenuto. Anche se le 160 proposte considerate compatibili non impegnano l'amministrazione, è altrettanto evidente che si alimentano delle aspettative che prima o poi peseranno».
Questo per le regole, e per le case a chi ne ha più bisogno?
«Il Comune con il Piano casa del marzo 2010 ha stimato il fabbisogno abitativo in 25.700 alloggi e ha deciso di utilizzare gli ambiti di riserva per collocarvi la quota di alloggi che non si riesce a reperire con altre iniziative. Non c'è un dimensionamento preciso, ma una stima prudente parla di 7 mila alloggi. Le 160 proposte compatibili portano però a un dimensionamento che è almeno dieci volte superiore».
Quindi l'obiettivo è altro?
«Bisognerebbe fare attenzione a usare il disagio abitativo. Per alcune famiglie è un dramma cresciuto negli stessi anni in cui a Roma si registrava un boom delle nuove costruzioni: dal 2003 al 2007 si sono costruiti quasi 52 mila alloggi, diecimila ogni anno. Un incremento percentualmente doppio di quello di Milano. Negli stessi anni il disagio abitativo è diventato insostenibile. Abbiamo visto quanti romani sono stati espulsi dalla città (il costo medio di un alloggio in provincia è del 43 per cento più basso rispetto alla media di Roma); gli sfratti eseguiti crescevano in un solo anno dell'8 per cento e quelli per morosità erano quasi l'80 per cento».
Ma le diverse amministrazioni hanno riflettuto a sufficienza su questi dati?
«L'espressione "emergenza abitativa" neanche compare nella relazione del Piano. Ripeto: crescevano le case costruite e aumentavano le persone senza casa. Alla Biennale Architettura del 2008, Francesco Garofalo dedicò il padiglione italiano al tema della casa: "Housing Italy. L'Italia cerca casa". In una mostra di architettura sostenevamo che costruire case non basta per contrastare l'emergenza abitativa, che c'è bisogno di politiche per la casa che toccano aspetti diversi e che ruotano attorno a una sola questione: aumentare la dotazione di case a costo accessibile, sia in affitto che per l'acquisto».
Non basta costruire.
«Occorre chiedersi per chi si costruisce, e il per chi si porta appresso il come, sia rispetto ai modelli costruttivi che a quelli della gestione degli immobili. In una parola bisogna fare delle politiche per l'abitare e non solo case. Roma avrebbe bisogno di un piano per "riabitare la città abitata", altro che cementificare l'agro romano».
Il sindaco Alemanno parla di housing sociale. «"Il cavallo di troia dell'housing sociale è ormai un gioco troppo scoperto perché qualcuno possa ancora abboccare. La sola cosa che sta a cuore a questa amministrazione è far costruire, non interessa dove purché sia».
Chi trae vantaggio da questa operazione?
«Gli operatori immobiliari, i proprietari del terreno che da agricolo diventa edificabile e che incassano incrementi di valore consistenti, le imprese che si sono assicurate la promessa di vendita del terreno nel caso che riescano a portare in porto l'operazione. Ma vorrei azzardare che si tratta di vantaggi apparenti, o per lo meno momentanei».
Che vuol dire?
«Nei momenti in cui il sistema economico produce ricchezza reale il settore immobiliare se ne avvantaggia perché patrimonializza quella ricchezza. E questo è stato anche l'uso anticiclico che si è fatto del settore edilizio in Italia. Tutto questo ormai appartiene a un'altra epoca, al secolo scorso. Oggi che il nostro sistema economico è in difficoltà strutturale, che ricchezza da patrimonializzare ce n'è sempre meno ci si illude di poterla inventare costruendo. Il sindaco Alemanno nella sua relazione al seminario sulle varianti urbanistiche dell'aprile scorso l'ha proprio teorizzato questo approccio quando ha parlato di "moneta urbanistica"».
Moneta urbanistica? La città come una banca dalla quale si incassa rendita?
«Più che una banca, direi che Roma diventa una zecca: non possiamo più stampare la lira e allora a Roma stampiamo metri cubi. Le centralità definite dal Piano regolatore, già cariche di cubature, in alcuni casi vedono raddoppiate le previsioni edificatorie; il bando sugli ambiti di riserva; i milioni di metri cubi promessi al privato in cambio della costruzione della metropolitana; le valorizzazioni dei depositi ATAC; poi le caserme e le altre iniziative di questo tipo: si rischia di inflazionare la "moneta urbanistica" e di produrre una perdita di valore complessivo. Gli alloggi invenduti sono il segnale che non basta fare leva sull'offerta; come dire: è inutile portare il cavallo a bere se non ha sete.»
Pubblichiamo il capitolo introduttivo del Rapporto. In allegato il dossier completo.
Il problema
L’Italia sta perdendo terreni agricoli in un trend negativo e continuo. Secondo l’ISTAT, dagli anni ’70 del secolo scorso ad oggi l’Italia ha perso una superficie agricola (Superficie Agricola Utilizzata – SAU) pari a Liguria, Lombardia ed Emilia Romagna messe insieme. Perché? E cosa ne è del territorio sottratto all’agricoltura?
Le molteplici variabili che incidono sulla perdita di superficie agricola possono essere ricondotte a due macro fenomeni: l’abbandono dei terreni da parte degli agricoltori e l’avanzamento delle aree edificate. Attualmente l’abbandono riguarda la porzione più ampia dei terreni sottratti all’agricoltura. Tuttavia, la cementificazione, o impermeabilizzazione del suolo per utilizzare la terminologia scientifica1, è il fenomeno che desta maggiori preoccupazioni. Essa, infatti, oltre ad essere irreversibile e con un elevato impatto ambientale, interessa i terreni migliori sia in termini di produttività che di localizzazione: terreni pianeggianti, fertili, facilmente lavorabili e accessibili quali, ad esempio, le frange urbane, le aree costiere e quelle pianeggianti. Al contrario, l’abbandono riguarda i terreni meno fertili, spesso situati in aree montane e/o a bassa infrastrutturazione. Si tratta, inoltre, di un fenomeno potenzialmente reversibile che, nonostante influisca sull’organizzazione e sulla gestione del territorio e del paesaggio, non impedisce lo svolgimento delle funzioni naturali ed ecologiche del suolo, quali l’assorbimento dell’acqua piovana, la produzione di biomassa e la sua capacità di immagazzinare CO2.
La cementificazione, al contrario, non solo insidia l’organizzazione del territorio, del paesaggio e degli ecosistemi in maniera irreversibile ma erode anche la sicurezza alimentare sottraendo all’agricoltura i terreni maggiormente produttivi.
Finora la globalizzazione ha mitigato, nei Paesi di prima industrializzazione, il problema della sicurezza alimentare consentendo, attraverso il mercato, un agile approvvigionamento dei beni di consumo non disponibili all’interno dei confini nazionali. Il sistema, tuttavia, si regge sull’assunto che qualcuno su scala globale sia in grado di produrre indefinitamente surplus agricolo da immettere sul mercato: un assunto fragile messo in crisi dall’incremento demografico, dalla crescita del potere d’acquisto dei Paesi emergenti e dell’avanzare della cementificazione.
Secondo l’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Ricerca Ambientale, ogni giorno in Italia vengono impermeabilizzati 100 ettari di terreni naturali e poiché il fenomeno esula dai confini nazionali le sue conseguenze non possono essere ammortizzate su scala globale.
Questo dossier ha lo scopo di descrivere il problema della cementificazione e le sue conseguenze sul comparto agricolo e sulla sicurezza alimentare del nostro Paese affrontandone le cause, gli effetti e le possibili strade da intraprendere per limitare l’avanzata della cementificazione.
È STATO presentato un rapporto ufficiale con statistiche eloquenti e, un po’ a sorpresa, un disegno di legge «in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo» che, tra le altre cose, propone con grande coraggio l’abolizione dell’uso da parte dei Comuni degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente.
Il suolo è un bene comune. Una volta cementificato perde fertilità in maniera irreversibile, smette per sempre di produrre cibo, bellezza, cultura. Tre elementi che sono le nostre migliori ricchezze, che continuiamo a sperperare senza ritegno. A tal proposito, sia sufficiente una citazione attribuita all’economista John K. Galbraith: «Penso alla vostra patria, alla bellezza del suo paesaggio, alle vestigia storiche, alla sua agricoltura, al suo turismo. Se voi oggi siete in crisi è colpa vostra».
È colpa nostra bruciare risorse uniche: secondo il rapporto del ministero dal 1971 al 2010 abbiamo perso il 28% della superficie agricola utilizzata, un’area grande come Lombardia, Liguria ed Emilia- Romagna. Ogni giorno si cementificano 100 ettari di suolo e l’agricoltura italiana soddisfa soltanto più l’80% del nostro fabbisogno alimentare.Se per alcuni decenni l’agricoltura hasopperito alla diminuzione dei terreni con l’incremento delle rese delle coltivazioni, oggi ciò non è più possibile per motivi strutturali e di sostenibilità ambientale. L’agricoltura industriale non può andare tanto oltre quanto non si sia già spinta. Intanto il sistema di produzione del cibo soffre profondamente.
Scarsa remunerazione ai contadini, una filiera iniqua che penalizza soprattutto gli agricoltori e una mancanza cronica di giovani che rigenerino le nostre campagne sono un perfetto apripista per la perdita dei nostri terreni fertili, sia per cementificazione, sia per abbandono. La crisi del mondo agricolo è la prima causa del male, perché se distruggiamo i presidi principali del territorio, ovvero le persone che lo lavorano e lo curano, non ci sarà più speranza. Per ritrovarla servono nuovi paradigmi, creatività, nuove priorità. Ciò che giustamente Catania vuole incentivare: «Serve una battaglia di civiltà, per rimettere l’agricoltura alcentro del modello di sviluppo che vogliamo dare al nostro Paese. Immagino uno Stato che rispetti il proprio territorio e che salvaguardi le proprie potenzialità. Noi usciremo vincenti da questacrisi se lo faremo con un nuovo modello di crescita».
Dalla buona agricoltura non si prescinde, e quindi non si deve prescindere dalla tutela dei terreni. Il disegno di legge presentato ieri è un primopasso importante. Intanto perché è una novità assoluta, che recepisce una sensibilità sempre più diffusa tra la società civile. Sono tante le associazioni già al lavoro, e ricordo che è partita la campagna per un “Censimento del Cemento” da parte del Forum Nazionale “Salviamo il Paesaggio – Difendiamo i territori”: è stata spedita a tutti i Comuni d’Italia una scheda per censire gli edifici costruiti e inutilizzati, ma in pochi hanno già risposto. Che si diano da fare però, perché avere dati certi è una base indispensabile per lavorare a una legge più giusta possibile. Intanto il ministero, attraverso il metodo della concertazione, ieri ha saggiamente invitato le associazioni ambientaliste, degli agricoltori e tutte le altre istituzioni a pronunciarsi sul disegno di legge, suggerendo modifiche e migliorie al testo (che potete scaricare dal sito www.slowfood.it). Questo è incoraggiante, a prescindere da alcuni limiti che l’attuale stesura contiene.
Nel disegno di legge c’è però una proposta quasi rivoluzionaria: l’ultimo articolo del testo propone di abolire l’uso degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente dei Comuni. Ciò significa spezzare il secondo meccanismo principale che porta alla sciagurata cementificazione del nostro Paese: la continua emergenza economica degli enti locali che quasi non possono più esimersi dal sacrificare le proprie terre fertili per fare cassa. Andranno sicuramentepreviste delle compensazioni, perché è arduo pensare di togliere una risorsa così importante mentre si fa fatica a garantire i servizi essenziali, ma il meccanismo prima o poi si dovrà rompere: è un po’ come se durante un inverno freddissimo, quando non funziona più il riscaldamento di casa, iniziassimo a bruciare tutti i nostri mobili. Alla fine rimarremmo senza mobili e intanto il freddo non sarebbe passato: un lentissimo doppio suicidio. È invece necessario puntare alla vita, che può essere ben rappresentata dall’immagine di un suolo fertile che produce cibo, bellezza, piacere e, ve l’assicuro, potenzialmente così tanta nuova economia da riuscire a sovvertire anche lacrisi più nera.
Qui di seguito una “scheda” del disegno di legge dal sito http://www.casaeclima.com
“Ogni giorno 100 ettari di terreno vanno persi, negli ultimi 40 anni parliamo di una superficie di circa 5 milioni. Siamo passati da un totale di aree coltivate di 18 milioni di ettari a meno di 13. Sono dati che devono farci riflettere sul fatto che il problema del consumo del suolo nel nostro Paese deve essere una priorità da affrontare e contrastare”.
Lo ha dichiarato il ministro delle Politiche agricole, Mario Catania, nel corso dell'incontro "Costruire il futuro: difendere l'agricoltura dalla cementificazione", organizzato dal Mipaaf presso la Biblioteca della Camera dei Deputati a Palazzo San Macuto.
Durante il convegno il ministro Catania ha presentato il “Disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo”, che detta principi fondamentali per la valorizzazione e la tutela dei terreni agricoli e per contenere il consumo di suolo. Catania ha spiegato che questo ddl rappresenta una “bozza aperta”, aperta quindi ai suggerimenti da parte delle associazioni agricole e di tutti.
Estensione massima di superficie agricola edificabile
Il disegno di legge prevede, all'art. 2, che con un decreto del ministro delle Politiche agricole, d'intesa con quelli dell'Ambiente e delle Infrastrutture, sia determinata l'estensione massima di superficie agricola edificabile sul territorio nazionale. Con atto della Conferenza delle Regioni e delle provincie autonome, la superficie agricola edificabile sul territorio nazionale è ripartita tra le diverse Regioni, le quali a loro volta la definiscono su scala regionale e la ripartiscono tra i Comuni.
Congelamento della destinazione d'uso per 10 anni
All'articolo 3 del ddl viene stabilito che i terreni agricoli in favore dei quali sono stati erogati aiuti di Stato o aiuti comunitari non possono avere una destinazione diversa da quella agricola per almeno 10 anni dall'ultima erogazione. Questo vincolo deve essere espressamente richiamato negli atti di compravendita dei terreni, pena la nullità dell'atto. In caso di trasgressione al divieto è prevista una sanzione amministrativa da 5.000 a 50.000 euro, e la sanzione accessoria della demolizione delle opere eventualmente costruite e del ripristino dello stato dei luoghi.
Incentivi, monitoraggio e registro dei Comuni
Previste anche (art.4) misure di incentivazione per chi realizza il recupero di edifici nei nuclei abitati rurali; l'istituzione di un comitato con la funzione di monitorare il consumo di superficie agricola e il mutamento di destinazione d'uso dei terreni agricoli; l'istituzione di un registro in cui sono indicati, su richiesta, i Comuni che adottano strumenti urbanistici che non prevedono l'ampliamento delle aree edificabili; l'abrogazione della norma concernente gli oneri di urbanizzazione che permette ai comuni di “fare cassa”.
Introduzione all’argomento
Il suolo, come lo conosciamo oggi nella sua molteplicità, esiste da circa diecimila anni, e si formò dopo l’ultima era glaciale. Ai Colloqui di Dobbiaco 2012 vogliamo analizzare i pericoli che incombono sempre più pesantemente su questo sottile strato del Pianeta, nella sua funzione di habitat, fonte di nutrimento e di risorse. È sempre più evidente che la cementificazione, compattazione, contaminazione, erosione e depredamento del suolo sono un pericolo per la vita sulla Terra. Al momento, questa minaccia grava soprattutto sul Sud del mondo, ma è chiaro che la distruzione, i conflitti d’interesse per l’utilizzo del suolo (nutrimento, energia, edificazione) e la carenza crescente di terreno fertile, in previsione di un aumento della popolazione mondiale nei prossimi decenni sono una minaccia per tutto il Pianeta. Se negli anni Sessanta ogni abitante della Terra poteva contare, in media, su 0,4 ettari di suolo coltivabile, nel 2050 ne avrà a disposizione solo 0,16, tanto che ormai, parafrasando il “picco del petrolio”, si parla di “picco del suolo”. I relatori e il pubblico dei Colloqui di Dobbiaco 2012 si confrontano sul futuro del suolo e della vita che si sviluppa sopra e sotto di lui, del terreno che sta sotto i nostri piedi, della politica del suolo nei paesi alpini e di altri argomenti correlati. Quali opportunità e prospettive si aprono nella lotta al consumo del suolo? Come si possono difendere i diritti delle popolazioni rurali dalla corsa all’accaparramento di appezzamenti enormi da parte delle multinazionali, soprattutto in Africa? Quale contributo può dare una politica attiva per la difesa del suolo allo sviluppo di filiere produttive ed economiche più ecologiche e sostenibili?
Colloqui di Dobbiaco
Nella località di Dobbiaco, punto di incontro tra due culture, dal 1985 al 2007 i
“Colloqui di Dobbiaco” - ideati e organizzati da Hans Glauber - affrontarono ogni anno
le tematiche ambientali di maggior rilievo proponendo di pari passo delle soluzioni
concrete. Col passare degli anni i Colloqui di Dobbiaco si sono rivelati un prestigioso
laboratorio d'idee per una svolta ecologica nell'arco alpino e non solo. Dopo la
prematura scomparsa di Hans Glauber, il ruolo di “curatore” dei Colloqui di Dobbiaco è
stato assunto da Wolfgang Sachs, dapprima con l'edizione 2008, intitolata “La giusta
misura – La limitazione come sfida per l'era solare” e poi con l'edizione 2009 dedicata
al tema “Osare più autarchia – Energie distribuite per le economie locali post-fossili”.
Nel 2010 è stato affrontato il tema “Il denaro governa il mondo – ma chi governa il
denaro? Percorsi per una finanza eco-solidale” e nel 2011 “Benessere senza crescita”.
In piena continuità con lo spirito di Hans Glauber convinto fautore della nuova era
solare come nuovo progetto di civiltà, i Colloqui di Dobbiaco nel 2012 vengono diretti
da Wolfgang Sachs e da Karl-Ludwig Schibel con il tema “Suolo: la guerra per l'ultima
risorsa”.
Il rapporto Foreign Investment in Agricultural Land Down from 2009 Peak del Wordwatch Institute, stima che da 2000 al 2010 nel mondo siano stati venduti o affittati a investitori privati e pubblici 70,2 milioni di ettari di terreni agricoli. Si tratta di un'estensione di terra enorme, più o meno delle dimensioni del più grande Paese dell'Africa, la Repubblica Democratica del Congo, più di 20 volte la superficie dell'Italia, l'1,4% di tutte le terre agricole del mondo. Il rapporto spiega che «La maggior parte di queste acquisizioni, che sono chiamate "land grabs" da alcuni osservatori, ha avuto luogo tra il 2008 e il 2010 (l'anno più recente per il quale sono disponibili dati), con un picco nel 2009. Anche se i dati per il 2010 indicano che la quantità di acquisti è scesa notevolmente dopo il picco del 2009, rimane ancora ben al di sopra dei livelli pre-2005».
Si chiami "land grabbing" o "land deal" si ci riferisce sempre alle acquisizioni su larga scala di terreni agricoli da parte degli investitori stranieri, inoltre in questa cifra non sono compresi i contratti di locazione o gli acquisti che coinvolgono compagnie locali. Ad aprile 2012, il Land Matrix Project, una rete globale di ricerca che riunisce 45 organizzazioni della società civile, ha presentato la più grande banca dati esistente di questi tipi di offerte di territori, mettendo insieme 1.006 offerte che coprono 702.000 km2 una superficie grande quanto il Texas (più del doppio dell'Italia che arriva a 301.308 km2). Ma mancano ancora molti dati, visto che è disponibile solo una quantità limitata di informazioni, quindi queste statistiche sono certamente molto "prudenti".
Per quanto riguarda i dati generali del decennio, il rapporto sottolinea che «Di alcune offerte si sa ben poco (per esempio, i dati relativi alla data del contratto sono disponibili solo per 54,7 milioni di ettari di acquisizioni di terreni). Inoltre, i Paesi che hanno un governo aperto e trasparente possono essere sovrarappresentati nel database e il declino delle offerte dopo il 2009 potrebbe riflettere sia gli investimenti ridotti che il calante interesse dei media a tracciare i land grabs».
Dal rapporto emerge anche un crescente land grabbing sud-sud, con l'accaparramento delle terre dei Paesi più poveri da parte dei Paesi emergenti. L'altra tendenza è quella dei Paesi molto ricchi ma con poca terra coltivabile, come le monarchie petrolifere mediorientali, che stanno acquistando terreni nelle nazioni a basso reddito, «Soprattutto in quelli che sono stati particolarmente vulnerabili alle crisi finanziarie e alimentari degli ultimi anni», spiega l'autore del rapporto, Cameron Scherer.
L'80% dei terreni acquistato da soggetti stranieri è in Africa, e costituiscono quasi il 5% della superficie agricola totale del continente. Questo accaparramento avviene sempre più a spese delle comunità locali che si vedono spesso estromesse dalle loro terre ancestrali sulla quali non possono vantare titoli di proprietà, creando così conflitti per la terra e peggiorando la povertà e la fame in Paesi già poveri.
La maggior parte dei terreni fertili viene venduta a Paesi extra-africani e sono sempre più attivi Stati come il Brasile, l'India e la Cina, che hanno acquistato il 24% delle terre censite nel rapporto. Gli altri grandi investitori comprendono altri tre Paesi asiatici: Indonesia, Malaysia e Corea del sud.
Il rapporto del Worldwatch conclude che questi "land deals" di solito provocato l'espulsione dei piccoli agricoltori per impiantare la grande agricoltura industriale, quell'agribusiness delle multinazionali e dei capitalismi di Stato che ha gravi impatti ambientali e che in alcuni Paesi africani ormai interferisce direttamente con le grandi migrazioni dei mammiferi erbivori e quindi anche con la presenza dei grandi predatori simbolo del continente.
Nota: sono passati anni dalla prima presa di coscienza occidentale, ma la situazione pare immutata; si veda una delle prime denunce del fenomeno che abbiamo pubblicato
Basta girare con gli occhi aperti per il nostro Paese, anche e soprattutto nelle sue parti più popolose, per accorgersi di quante costruzioni (capannoni, industrie, palazzoni, caserme, magazzini, eccetera) risultino inutilizzate, sottoutilizzate o più frequentemente abbandonate al degrado.
La natura «rubata»
Se poi consideriamo, nella ricorrenza di oggi della Giornata Mondiale dell'Ambiente e a pochi giorni dalla Conferenza Rio +20, la situazione planetaria, vediamo che, se nel 1700 il 95% dell'intera biosfera si trovava in condizioni di naturalità e solo il 5% mostrava i segni delle trasformazioni apportate dall'uomo, oggi la maggioranza delle terre emerse risulta interessata da aree agricole e urbanizzate, meno del 20% si trova in uno stato seminaturale e solo un quarto può essere considerato ancora in uno stato di naturalità.In Italia — con una densità di 200 abitanti al chilometro quadrato assiepata soprattutto nelle scarse aree pianeggianti — il fenomeno della trasformazione cementizia e asfaltica del suolo (che secondo una ricerca del FAI e del WWF invade 33 ettari al giorno) oltre a divorare aree naturali e agricole, disperde sul territorio le scorie di un irrazionale e bulimico sviluppo edilizio.
Il progetto
Per affrontare questo inaccettabile spreco di risorse e di suolo, il Wwf lancia oggi, con l'aiuto di docenti universitari ed esperti, la campagna «Riutilizziamo l'Italia», invitando cittadini e «addetti ai lavori» a segnalare un'area o un edificio dismessi o degradati da recuperare a fini sociali e ambientali. «Lo scopo di questa iniziativa — dichiara l'architetto Adriano Paolella, direttore generale del WWF Italia — è di avviare il più grande processo di recupero del territorio italiano, dopo quello che nel Dopoguerra ha interessato positivamente i centri storici salvandoli dal degrado che in altre nazioni ne ha devastato le fisionomie in nome di uno sviluppo disordinato e insensibile».
Il patrimonio «inutilizzato»
I dati sul patrimonio inutilizzato o abbandonato che potrebbe essere recuperato con vantaggi incalcolabili sull'occupazione e sulla crescita sostenibile, sono impressionanti.Su 29 milioni di abitazioni, quasi 5 milioni risultano non occupate o case di vacanza sottoutilizzate. Solo a Milano sono 3,5 i milioni di metri cubi di edifici pubblici o privati non più in uso (ex fabbriche e scali ferroviari, cascine abbandonate, cabine elettriche) di cui 880.000 sono uffici sfitti.Sono 6.977 in Italia i chilometri di ferrovie chiusi e abbandonati con tutte le infrastrutture connesse (caselli, stazioni e relativi parcheggi, depositi e binari di deposito).Nell'immenso universo nazionale di strutture militari non più in uso, solo in Sardegna ci sono aree e edifici demaniali per 144.230 ettari, per una superficie costruita di 467.000 metri quadrati e un volume di circa 4,5 milioni di metri cubi.
Infine, i capannoni al centro delle polemiche legate ai disastri del sisma. Nel nostro Paese, secondo l'Agenzia del Territorio, esistono 701.978 capannoni che coprono con le loro pertinenze (annichilendo aree rurali e paesaggi di pregio) 2.000 km quadrati, 17 volte l'estensione della città di Napoli, soprattutto in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. In un nuovo e rivoluzionario quadro di sviluppo sostenibile, il recupero e riutilizzo di queste entità partendo dal basso e da iniziative spontanee, potrebbe avere grandi effetti di incentivazione dell'occupazione giovanile e di freno al debordante consumo di suolo.
I casi virtuosi
Campania: a Napoli, il Parco «Lo Spicchio» trasformato dal WWF con un cofinanziamento del Comune, da «discarica urbana» a laboratorio didattico. Nel cuore del quartiere Vomero, 14.000 mq dell'ex gasometro si trovano in via di riqualificazione per creare un Parco Agricolo.
Emilia: a Reggio Emilia il complesso Ex Polveriera, riconvertito da area militare in parcheggio, sede di associazioni cittadine e un centro per disabili.
Friuli Venezia Giulia: grazie ai fondi di un progetto Life dell'Ue, il Comune di Rivignano (Udine) sta ricostruendo l'antico habitat della pianura friulana, creando 32 ettari di foresta planiziaria con essenze autoctone su un'area sovra-sfruttata dall'agricoltura intensiva.
Lazio: l'ex mattatoio posto nel centro storico di Roma, inattivo dagli anni ‘70,ospita oggi la «Città dell'altra economia», il museo di arte contemporanea MACRO, la facoltà di Architettura di Roma Tre e un centro sociale.
Lombardia: il Parco delle Noci a Melegnano (Milano), nato su un'area prima agricola, poi trasformata in industriale e infine abbandonata al degrado e alle discariche, è oggi uno spazio verde con stagni, piantagioni di alberi e ambienti naturali padani, dedicato all'educazione ambientale. A Trezzo sull'Adda, nell'Oasi WWF Foppe di Trezzo ricavata su una ex cava di argilla, si è ricostituito l'ambiente originario della Pianura Padana con tutta la flora e la fauna originaria.
Toscana: sottratta al degrado e all'avanzata di un caotico sviluppo urbano, l'Oasi WWF Stagni di Focognano nella piana di Firenze, è divenuta un punto di eccellenza per la sosta e la nidificazione di molti uccelli migratori, soprattutto aironi di varie specie, oltre che punto di ritrovo e studio per i ricercatori.
Veneto: i 48 ettari dell'antico Forte Marghera presso Venezia, non più militare dal 1966, ospitano attività artigianali e le sedi di numerose associazioni. Attualmente questo spazio rischia di essere oggetto di velleità speculative che ne altererebbero l'attuale funzione pubblica.
ROMA — Ultimi in Europa per sviluppo economico, produttività, investimenti in infrastrutture e crescita demografica, un primato almeno non ce lo toglie nessuno. Nel soil sealing non abbiamo rivali. Traduzione: impermeabilizzazione delle superfici naturali. Succede quando si consuma pericolosamente territorio con palazzine e capannoni, come stiamo facendo in Italia da troppi anni. Producendo in questo modo, sono parole contenute nell'ultimo rapporto annuale dell'Istat, «impatto ambientale negativo in termini di irreversibilità della compromissione delle caratteristiche originarie dei suoli, dissesto idrogeologico e modifiche del microclima».
Che dimensioni abbia assunto questo fenomeno lo dice con chiarezza un numero: 7,3%. È la superficie totale dell'Italia non più naturale. Parliamo di un'estensione paragonabile a quella dell'intera Emilia-Romagna o di tutta la Toscana. E il dato fa ancora più impressione se paragonato alla media del continente europeo, che certo non si può definire disabitato e rurale, pari al 4,3%. Nella nuova provincia di Monza è cementificato oltre il 50% del suolo. In quella di Napoli, il 43,2%. In quella di Milano, il 37,1%.
La sconsideratezza con la quale abbiamo aggredito il nostro territorio sta arrivando ad alterare in certe aree, scrive l'Istat, «un equilibrio storico fra paesaggio e insediamento urbano», mettendo così a repentaglio la nostra principale risorsa. Con il rischio di compromettere «le possibilità di sviluppo connesse alla fruizione turistica». Per non dire del modo in cui si costruisce in un territorio fragile e sempre più dissestato nel quale, come dimostra il terremoto dell'Emilia, il rischio sismico è quasi ovunque incombente.
Legambiente per prima aveva sollecitato l'urgenza di una contabilità nazionale del consumo di suolo, spiattellando dati raccapriccianti. Condivisi non già da arrabbiati ultrà naturalisti, ma da intellettuali incapaci di rassegnarsi davanti allo scempio. Come il presidente del consiglio scientifico del Louvre Salvatore Settis che nel suo libroPaesaggio Costituzione cementoha profetizzato: «Vedremo boschi, prati e campagne arretrare ogni giorno davanti all'invasione di mesti condomini, vedremo coste luminose e verdissime colline divorate da case incongrue e palazzi senz'anima, vedremo gru levarsi minacciose per ogni dove.
Vedremo quello che fu il Bel Paese sommerso da inesorabili colate di cemento». La notizia è che non sono più soltanto le associazioni ambientaliste o qualche autorevole voce fuori dal coro a invocare attenzione sui pericoli che stiamo correndo, ma che finalmente si è accesa una spia anche nelle istituzioni. Difficile ignorare un allarme come quello che lancia adesso l'istituto presieduto da Enrico Giovannini: fra il 2001 e il 2011 il consumo del suolo è aumentato dell'8,8%, a fronte di un incremento della popolazione residente del 4,7%, quasi tutti immigrati. Come se in dieci anni fosse stato completamente saturato da costruzioni un territorio pari alla provincia di Milano: al ritmo medio giornaliero di 45 ettari. Medio, perché negli ultimi anni il ritmo si sarebbe intensificato, toccando punte quotidiane di 161 ettari.
Al Nord le ruspe e le gru si sono date da fare non poco, al punto che ormai il 12,9% della superficie del Veneto e il 12,8% di quella della Lombardia non sono più naturali (rispettivamente, secondo l'Istat, 2.375,9 e 3.050,7 chilometri quadrati). Ma al Sud hanno lavorato ancora più sodo: l'aumento è stato del 10,2%, contro l'8,7% del Nord-Ovest e il 7,8% del Nord- Est. Di questo passo il divario fra l'urbanizzazione del Nord e quella del Sud, ancora rilevante (siamo al 9,2% nel Nord-Ovest contro il 4,7 del Mezzogiorno), verrà presto colmato. Soprattutto in certe zone della Campania, come la provincia di Caserta, dove l'estensione territoriale coperta dal cemento si è accresciuta del 18,4%.
Qui il reddito procapite è inferiore alla media della Campania (11.833 euro contro 12.247) ed è metà rispetto a Bologna. Nel 2008 il prodotto interno lordo dei casertani, sempre procapite, non era che il 39% di quello dei milanesi, così basso da collocare la Provincia al novantanovesimo posto su 103. Il tasso di occupazione fra le persone in età lavorativa (dai 15 ai 64 anni) era del 38,7%, contro una media nazionale del 58,7%. I depositi in banca, nel marzo 2010, non raggiungevano i 5.900 euro procapite, uno dei valori più modesti in assoluto: meno di un sesto nei confronti di Trieste. Eppure, in questo apparente sfacelo economico, le costruzioni continuano a spuntare come i funghi. Nel solo 2007 sono stati edificati ex novo la bellezza di 135 centri commerciali: a Milano ne erano sorti 140, in tutta la Liguria 121. Per non dire delle 4.235 nuove abitazioni, il 25% in più rispetto alla provincia di Palermo dove pure non si risparmia il cemento. E non è solo colpa dell'abusivismo.
Certo, nel Paese ci sono differenze significative anche nelle strategie di cementificazione. L'Istat sottolinea infatti che nel Centro-Nord si punta sull'espansione delle località esistenti, fino a sommergere tutti gli spazi che separano l'una dall'altra: in Lombardia lo spazio urbanizzato si è esteso in dieci anni di ben 225 chilometri quadrati. Al Sud la tecnica è invece quella di creare nuovi centri abitati. Rispetto al 2001 ce ne sono 1.024 in più, il 42,3% di tutte le nuove località italiane. Dieci anni fa, per esempio, il numero dei centri abitati della Puglia era del 17% inferiore. In Sardegna, del 12,1%; in Sicilia, del 10,2%.
Per consolarci, potremmo ricordare che pure i boschi sono aumentati. Negli ultimi vent'anni del 20%. Secondo Legambiente la superficie forestale ha raggiunto 10,2 milioni di ettari, 1,7 milioni in più rispetto all'inizio degli anni Novanta. Rispetto al Dopoguerra, poi, è quasi raddoppiata. Ma è una consolazione assai parziale: l'incremento delle foreste non è avvenuto a scapito del cemento, che come abbiamo visto continua a sbranare il territorio senza però che si realizzino le infrastrutture necessarie a un Paese sviluppato, bensì dell'agricoltura. Gli alberi si stanno semplicemente riprendendo lo spazio che l'economia rurale aveva loro sottratto. Benissimo per il nostro polmone verde, meno bene per quei territori cui è venuta meno la manutenzione contadina. Settis ricorda che fra il 1990 e il 2005 la superficie agricola utilizzata si è ridotta di 3 milioni 663 mila ettari: se consideriamo quelli riconquistati dalle foreste, significa che in tre lustri la natura ha perso 2 milioni di ettari.
MILANO — È dall'alto, con le fotografie aeree, che si vede l'avanzata del cemento e dell'asfalto, della mano dell'uomo che cancella prati, coltivazioni e boschi, con una media quotidiana di 13 ettari, pari a venti campi di calcio. Ma è dal basso che deve arrivare la salvezza del territorio, con i 1.546 comuni della Lombardia chiamati «a non tacere, metro quadro dopo metro quadro, il verde sacrificato sull'altare del business edilizio e delle grandi opere», dice Damiano Di Simine, presidente regionale di Legambiente, alla vigilia della presentazione (oggi al Pirellone) del «Rapporto 2012 sui consumi di suolo». «Ogni sindaco renda noto quanta terra dilapida ogni anno, firmando licenze edilizie e incassando oneri di urbanizzazione. Una trasparenza già prevista per legge, eppure disattesa: tanto che solo un comune su dieci rivela questo dato. Ma così non si conoscerà mai l'entità vera del disastro».
Fra le dodici province lombarde, la maglia nera spetta a Milano. Quella in cui ogni giorno «spariscono 20.063 metri quadrati di suolo, pari a 1,2 volte piazza Duomo». Quella dove «in dieci anni — denuncia Legambiente — la crescita dell'urbanizzazione ha riguardato 7.323 ettari: come se fosse nata una città grande come metà della superficie urbana di Milano, mentre nell'intera provincia la popolazione è cresciuta di soli 180 mila abitanti». Una provincia in cui sono scomparsi 6.839 ettari agricoli: «Se fossero tutti coltivati a frumento, produrrebbero un raccolto per 40 mila tonnellate di pane, sufficiente per sfamare 800 mila persone», spiega Di Simine.
Ma come arginare l'avanzata del cemento? «Con una strategia in tre mosse. Primo: con sgravi fiscali per le ristrutturazioni, per chi edifica su aree dismesse, per chi demolisce e ricostruisce su una stessa area; con un inasprimento fiscale invece per le nuove costruzioni su aree vergini. Secondo: vincolando gli oneri di urbanizzazione alle relative opere, così da evitare che i sindaci li utilizzino fino al 75% per pagare altre spese. Altrimenti, in tempi di tagli, il cemento diventa una fonte di introiti su cui far leva per far quadrare i bilanci». Terzo: con una legge che salvaguardi il suolo, come quella di iniziativa popolare che giace nei cassetti del Pirellone da tre anni».
Sui tempi lunghi della legge, che dovrebbe aprire un nuovo corso nella difesa del verde, Daniele Belotti, assessore regionale al territorio, spiega che «l'iter è fermo, perché prima occorre attendere che tutti i comuni abbiano approvato il proprio Pgt (Piano di governo del territorio), lo strumento che manderà in pensione i vecchi piani regolatori». Un cammino che però procede a passo di lumaca: «Infatti solo il 51% l'ha approvato, il 14% l'ha adottato, mentre il 36% è ancora in alto mare». Eppure corre il conto alla rovescia verso l'ultimatum del 31 dicembre: poi che succederà per i comuni sprovvisti di Pgt? «In quei comuni non si potrà più edificare — risponde Belotti. — In attesa di quella scadenza non possiamo introdurre una legge sul consumo di suolo che modifichi le regole, altrimenti rischieremmo di essere sommersi da una valanga di ricorsi al Tar».
Il dibattito sulla questione del consumo di suolo aperto su queste pagine da Arturo Lanzani ha il grande merito di aver sottolineato le relazioni con le possibilità di salvare l’Italia. L’aumento del consumo di suolo va infatti di pari passo con l’aumento delle disfunzioni urbane. Abbiamo le città più disordinate d’Europa e ciò comporta diseconomie: non attraiamo investitori stranieri perché trovano migliori condizioni localizzative in altri paesi.
Dobbiamo chiederci i motivi di questa patologia, anche perché si continuano a leggere opinioni che sostengono che l’incontrollata espansione urbana sia avvenuta “in un territorio interamente pianificato e minuziosamente normato”. E’ la rigidità della pianificazione, dunque, ad aver provocato il diluvio di cemento. E’ vero il contrario: in questi ultimi due decenni in Italia sono state cancellate tutte le regole e attraverso le pratiche della contrattazione e dell’accordo di programma si superano norme urbanistiche e vincoli paesaggistici. Con i “piani casa” che tutte le Regioni hanno approvato si compiono importanti trasformazioni senza ostacoli.
La patologia italiana è che non esistono più regole. Si vive di deroghe ed è stato cancellato lo stesso concetto di governo pubblico del territorio. Si tocca qui un punto che Lanzani – dopo aver sottolineato le molteplici consonanze - colloca nella sfera delle differenze con la principale posizione espressa da Salzano, e cioè quella di avere “fiducia nella pianificazione come principale strumento per governare il territorio”. Credo invece che lo straordinario merito di Salzano sia stato di averci richiamato in questi anni al fatto che se veniva messo in discussione il ruolo delle amministrazioni pubbliche tutto sarebbe rovinosamente crollato. E questo, purtroppo, è puntualmente sotto i nostri occhi. Il Politecnico di Milano che ha svolto di recente una ricerca per conto dalla Cisl riguardo al mercato edilizio in alcune città lombarde. A Bergamo ci sono oggi 58 mila alloggi invenduti. Saranno 135 mila nel 2018 sulla base delle decisioni già prese. Brescia ne conta oggi 56 mila. Saranno 107 mila nel 2018. Nella prima città (130 mila abitanti) si potranno insediare oltre 270 mila abitanti. Nella seconda (210 mila abitanti), un identico numero. La cultura della deroga sta portando il territorio all’insostenibilità e sta minando alla radice la stessa nozione di città.
Di fronte ad una patologia di questo livello mi chiedo se i dieci punti proposti da Lanzani - ciascuno dei quali pienamente condivisibile e sottoscrivibile- abbiano la forza di risolvere la patologia. Essi sono infatti efficaci strumenti in condizioni di normalità, e cioè se ancora esistessero regole. Dobbiamo invece riportare legalità nel governo del territorio ed è necessaria una cura radicale. Al pari dell’anno di moratoria richiesto e ottenuto dalla proprietà fondiaria per procrastinare l’entrata in vigore della “legge ponte”, dobbiamo oggi chiedere la moratoria di tutte le nuove espansioni facendo eccezione soltanto per gli interventi sul brownfield e quelli sul patrimonio esistente. Una moratoria – non una cancellazione per buona pace degli adoratori dei diritti edificatori - che servirà per delineare il quadro esatto dello stato del territorio italiano fatto di infinite Bergamo e Brescia o di città del divertimento sparse in ogni luogo. Soltanto dopo questa fase potranno avere efficacia i dieci punti e si potrà perseguire la salvezza del paesaggio italiano. Prima che sia troppo tardi.
Molte cose sono cambiate dagli anni in cui la prima edizione della Scuola di eddyburg, rompendo il silenzio della cultura urbanistica ufficiale, aprì lo sguardo sull’immane consumo di suolo che stava divorando il territorio. La spinta all’edificazione di case e capannoni è stata interrotta dalla crisi, ma la massa gigantesca dell’invenduto provoca pressioni sulle amministrazioni pubbliche perché, in un modo o nell’altro, paghino con le risorse di tutti le incomplete speculazioni dei promotori immobiliari. Il territorio continua a esser visto dai fautori dello “sviluppo” come un luogo da “valorizzare” con l’attribuzione di “diritti edificatori” e “crediti edilizi”, da ipotecare quindi con le premesse urbanistiche della espansione della città (su cui soprattutto si sofferma Berdini). Contemporaneamente crescono le poderose forme di consumo di suolo costituite dalle infrastrutture dei trasporti e dell’energia (che generano forti reazioni da decine di comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva), e quelle più defilate dalla conversione della produzione agricola dall’alimentazione alla produzione di nuovi carburanti per la produzione di energia.
In questo quadro è necessario proporre una panoplia articolata di interventi di cntrasto. Ma in primo luogo occorre accrescere la consapevolezza del problema, delle sue numerose facce e della necessità dell’affermarsi di una forte ed estesa delle volntà politica di arrestarlo. Ciò che richiede in primo luogo – come ribadisce Berdini – un forte, autorevole, duraturo governo pubblico del territorio finalizzato alla difesa e alla promozione della vita, della salute e del benessere degli abitanti del pianeta.
Land grabbing è il nome molto "british" per definire il fenomeno delle terre nel Sud del mondo che i paesi delle economie ricche o emergenti si accaparrano, per pochi spiccioli: in termini economici, un investimento; in termini sociali, un disastro. Questo terzo millennio annovera ormai una serie di minacce all'agricoltura e, conseguentemente al paesaggio, da cui nessuno può sentirsi al sicuro. Perché se ancora non si fosse capito, ciò che minaccia la nostra agricoltura minaccia il territorio, la sicurezza di chi lo abita, la sostenibilità della nostra vita sulla terra, la bellezza e in definitiva la nostra stessa esistenza.
Ci sono tre fenomeni che in Italia stanno esercitando un'azione combinata che porta dritto a fenomeni simili al land grabbing, che strappano la terra a chi la coltiva per consegnarla a chi specula. Il primo di questi tre attori è la Pac (Politica Agricola Comune) in vigore fino alla fine del prossimo anno. Un sistema di diritti a ricevere sovvenzioni dall'Unione Europea che vengono erogati in base al valore della produzione aziendale non attuale, ma del triennio 2000-2002. Questo significa che aziende che producevano generi un tempo molto sovvenzionati dall'Ue (tabacco, barbabietola da zucchero, riso, solo per fare alcuni esempi) si trovano con una disponibilità finanziaria annuale ingente. E sebbene questo meccanismo sia stato pensato nobilmente, per favorire l'uscita «morbida» dal regime dell'aiuto alla produzione per entrare nell'economia di mercato, in questo interludio sta creando guasti.
Nei Comuni delle Alpi sono in corso in questo periodo le trattative per assegnare i pascoli alpini, che da secoli i pastori transumanti, che svernano in pianura e salgono alle malghe d'estate, mantengono e curano impedendone la riconquista al bosco, garantendone la sopravvivenza della ricca flora e prevenendone il dissesto idrogeologico.
Spesso sono trattative fatte guardandosi negli occhi, ma quando il Comune deve fare cassa e nonè attento ad aspetti diversi da quello economico, si procede ad aste con busta chiusa. Questo fa già lievitare i prezzi per i pastori, ma tutto sommato resta un percorso fisiologico. Quando però la busta sigillata è quella di un allevatore intensivo di pianura (che non porterà mai i capi in montagna, però riesce a far apparire più grande la sua azienda e può così ingrassare ancora più animali, perché in teoria ha più terra su cui smaltirne il letame) o di un land grabber di casa nostra che può investire i proventi di una Pac divenuta strumento d'iniquità, tutto si complica. I prezzi dei pascoli lievitano, anche di dieci volte. I pastori per non restare senza terra si prestano ad andare senza contratto a mangiare l'erba che lo speculatore si è accaparrato. Nei casi limite, ma già documentati, lo speculatore minaccia di fare la propria offerta ed estorce il pizzo dai pastori in cambio del proprio impegno a restare fuori dall'asta.
Il secondo fenomeno estremamente minacciosoè quello delle agroenergie. Manco a dirlo, anche qui come per la Pac la questione consiste nell'assenza di misura e della distorsione speculativa che gli incentivi statali possono determinare. La produzione di biogas è un modo razionale di sfruttare i reflui zootecnici (liquami), ricavandone energia. Tuttavia, quando invece che ad allevatori che danno vita ad un impianto che serva alle loro aziende assistiamo a proposte che vengono da società di capitali, che vorrebbero realizzare impianti molto grandi, in aree lontane da ogni esigenza di smaltimento reflui, con la conseguenza di far girare decine di camion al giorno carichi di deiezioni animali, già ci troviamo assai meno d'accordo. Se per di più, asserviti al fine di produrre biogas, migliaia di ettari agricoli sono dedicati a colture che non sfameranno mai nessuno (perché per fare il biogas i vegetali sono meglio delle deiezioni) ma finiranno nei digestori per produrre più energia e far lievitare i profitti, allora siamo proprio contro. Spero sia chiaro: non si può essere contro il biogas, ma si deve essere contro questo suo uso, che invece di contribuire a risolvere un problema ambientale, lo moltiplica e ci innesta su anche una logica di puro profitto.
Così, ancora una volta, scopriamo che è la concorrenza tra quanto può spendere il contadino e lo speculatore a fare la differenza. E se pensiamo che questa diversa capacità di spesa la determinano l'Ue e lo Stato italiano, francamente ci arrabbiamo. Perché gli aiuti servono se garantiscono un reddito che non faccia dei contadini dei paria, ma non possono servire alla speculazione di chi sfrutta la terra senza riguardo per la fertilità e la destinazione alimentare. E il terzo fattore di land grabbing conferma questa analisi: l'uso delle campagne per scopi non agricoli infetta il tessuto delle campagne e distorce la concorrenza. Quando un comune autorizza l'ennesima nuova cava, l'ennesimo ampliamento residenziale, l'ennesima «area produttiva», che riempie le campagne di capannoni vuoti circondati dai rovi, non solo sta rincorrendo uno stile di sviluppo che appartiene già al passato. Sta determinando una perdurante alterazione delle dinamiche dei prezzi della terra, che mortifica chi vuole onestamente vivere di agricoltura: se vuoi affittare la terra, ma il cavatore di ghiaia può offrire dieci volte l'importo di un canone equo, come potrai spuntarla a meno di trovare un proprietario filantropo? Abbiamo il dovere di esigere dallo Stato, in tutte le sue componenti, e dall'Unione Europea di cui siamo parte, un'attenzione senza precedenti agli effetti distorsivi di cui possono essere oggetto strumenti necessari come gli aiuti agli agricoltori, gli incentivi alle energie verdi, i piani regolatori. E questo, anche se pensiamo che le attività di speculatori, finanzieri e predoni del territorio non ci riguardino. Perché, come avrebbe detto De André, se anche ci sentiamo assolti, siamo lo stesso coinvolti.
Le nuove rilevazioni dal satellite ci fanno scoprire un po’ meno verdi del previsto: addio alla regione da cartolina
«Appena il 4,2% del territorio toscano coperto da cemento». Il dato dietro cui amava ripararsi l'ex assessore regionale all'urbanistica Riccardo Conti, in risposta alle critiche provenienti da quanti lui stesso definiva come "retrogadi difensori di una Toscana da cartolina", adesso viene demolito dai risultati di una nuova analisi realizzata dall'ufficio tecnico dell'assessorato regionale all'urbanistica targato Anna Marson. La Toscana coperta di cemento non è il 4,2% del totale della superficie bensì il 9,11% - come ha detto l’assessore Marson. La provincie più cementificate risultano Prato e Livorno (12% del territorio). Un ettaro ogni dieci è urbanizzato. La precedente elaborazione, basata su immagini satellitari del progetto europeo Corine Land Rover, che prevedeva una superficie minima delle celle su cui poter calcolare la presenza di cemento pari a 25 ettari ciascuna, aveva escluso infatti tutte le costruzioni isolate. Adesso ci sono i mezzi per fare una rilevazione più precisa. Ed è quello che ha fatto la Regione grazie a una convenzione con Agea, l'agenzia governativa per le erogazioni in agricoltura: la superficie minima cartografabile scende da 25 a 4 ettari per cella. «Le fotografie - ha spiegato l’assessore - di maggior dettaglio hanno portato a un ribaltamento della precedente immagine spesso utilizzata per dire come la Toscana risultasse fra le regioni più virtuose d'Italia».
Tradotto in termini assoluti, risultano così cementificati 209 mila 476 ettari di territorio su un totale di 2 milioni 300 mila ettari di superficie complessiva regionale. Numeri che ben testimoniano l'avanzata di cemento, che, nonostante una popolazione resa stabile soltanto dal flusso migratorio, è proceduta a tappe forzate nel corso degli ultimi anni.
Il nuovo "Rapporto sul Territorio", presentato giovedì scorso dall'Irpet, offre poi bene l'idea di come questa colata sia tutt'altro che prossima dal ritenersi conclusa: dando un'occhiata alle percentuali di consumo dei metri quadri edificabili presenti all'interno dei regolamenti urbanistici, i piani che aggiornano ogni cinque anni le previsioni di crescita edilizia all'interno delle singoli realtà comunali, si scopre infatti ci sono amministrazioni comunali veloci come il vento a costruire: tanto per fare alcuni esempi, i Comuni di Chiesina Uzzanese e Calci hanno già autorizzato il consumo del 100% dei metri quadri edificabili previsti dai rispettivi piani strutturali. Leggermente inferiore la percentuale di autorizzazioni prevista a Fauglia, in provincia di Pisa, ferma al 96,5% dei metri quadri complessivamente edificabili. La Toscana, vista dall’alto, si scopre un po’ più grigia.
Abbiamo più volte sostenuto che la valutazioni effettuate sulla base del Corine sono fortemente sottostimate, proprio per l'ampiezza della dimensione base della ricognizione. Affinare quel metodo raggiungendo dimensioni più ridotte della cellula dimostra che l'errore non è affatto marginale: oltre il 100%!
Immaginiamo che succederà quando si arriverà ad analisi ancora più puntuali. E, soprattutto, che succederà al territorio e ai suoi abitanti se non cesseranno le politiche di totale autonomia dei comuni nel governo del territori, anche quando essi utilizzano i suoli come uno strumento per lo "sviluppo", cioè come un modo di spalmare l'edificabilità ottenendo in cambio qualche briciola di "oneri di urbanizzazione".
Dopo il freno alle residenze secondarie, in Svizzera continua la battaglia contro la cementificazione del paesaggio. Il parlamento ha approvato una modifica legislativa volta a ridurre la superficie edificabile. Una risposta a un'iniziativa che chiede una moratoria di 20 anni. È per proteggere le zone di montagna dall'invasione del cemento che il popolo svizzero ha accolto l'11 marzo un'iniziativa popolare per limitare la costruzione di residenze secondarie. Malgrado l'opposizione degli ambienti economici e dei partiti di destra, le città e i cantoni di pianura hanno dato un segnale chiaro a favore di una maggiore protezione del territorio. La proliferazione di nuove case non concerne però soltanto i villaggi di montagna, ma anche la pianura. Il turista potrebbe confondere la Svizzera con un enorme cantiere. Ovunque, o quasi, le casette monofamiliari o le grandi palazzine proliferano come funghi.
Una semplice impressione? Non proprio. Le cifre dell'Ufficio federale di statistica parlano di 67'750 nuovi edifici costruiti nel 2011, ossia il 2% in più del 2010. E dal 2004, sono circa 10'000 le case unifamiliari sbucate ogni anno. Questa abbondanza di costruzioni si spiega in gran parte con un livello storicamente basso dei tassi ipotecari in Svizzera. Talmente basso che il rimborso di un credito si avvera spesso meno oneroso di un affitto. «Ci sono diversi fattori che favoriscono questo boom edilizio. Tra gli altri, una legislazione che permette di utilizzare i risparmi previsti per la pensione per comprare una casa o un appartamento. A questo si aggiunge il fatto che la politica degli alloggi non è sufficientemente attiva in Svizzera. Molte persone costruiscono perché non trovano un'altra soluzione», spiega il professor Pierre-Alain Rumley, responsabile della cattedra di pianificazione del territorio e d'urbanismo all'università di Neuchâtel.
Una decina di campi di calcio
Da diversi anni ormai le associazioni ambientaliste denunciano una cementificazione del paesaggio. Ricordano che la superficie rosicchiata ogni giorno dalle nuove costruzioni corrisponde all'equivalente di dodici campi di calcio. Per frenare il fenomeno, nel 2007 hanno lanciato l'iniziativa popolare "Spazio per l'uomo e la natura". I promotori chiedono che la superficie totale delle zone edificabili non venga aumentata per un periodo di 20 anni. Per Philippe Roch, ex direttore dell'Ufficio federale dell'ambiente e membro del comitato che ha lanciato l'iniziativa, bisogna agire con urgenza. «È da 40 anni che si sente ripetere che ogni secondo viene rovinato un metro quadrato di territorio. Ma la situazione non è cambiata. Al contrario, il livello di distruzione è molto più alto».
Il consiglio federale (governo svizzero) e il parlamento respingono l'iniziativa, ritenuta troppo estrema e poco flessibile. Propongono invece un contro-progetto indiretto, sotto forma di revisione della Legge federale sulla pianificazione del territorio. La nuova legge prevede che le zone edificabili vengano definite in modo da rispondere al fabbisogno stimato per i prossimi 15 anni. Le aree edificabili già esistenti, sovradimensionate o mal situate, potrebbero perfino essere ridotte. Un'altra misura chiave della nuova normativa riguarda la tassazione. I proprietari, il cui terreno aumenta di valore in seguito a un cambiamento di destinazione, dovranno versare un'imposta del 20% sul valore aggiunto, come minimo. Il denaro raccolto servirà a finanziare nuovi azzonamenti.
Terreno sufficiente
La popolazione svizzera ha quasi raggiunto la soglia di 8 milioni di abitanti. Non è rischioso ridurre l'area edificabile? Non forzatamente. «In Svizzera ci sono attualmente 58'000 ettari sui quali non è stato costruito», ha ricordato il deputato liberale radicale Jacques Bourgeois durante il dibattito parlamentare. Pierre-Alain Rumley conferma: «Negli anni Settanta molti terreni sono stati resi edificabili e oggi possiamo contare su questa eredità. Da allora inoltre ci sono state anche delle estensioni di queste zone». Questo non significa però che non si registrino delle carenze. «Teoricamente c'è sufficiente spazio per la costruzione. Se si prende in considerazione unicamente la quantità di terreni a disposizione, c'è di che soddisfare il fabbisogno per i prossimi trent'anni. Ma esiste un problema di tesorizzazione di una parte importante di lotti che i proprietari non vogliono né vendere né edificare».
Per le associazioni ambientaliste, la soluzione passa da un'utilizzazione più efficiente degli spazi, che in termine tecnico viene definita "densificazione". «La popolazione svizzera aumenta di 70'000 persone ogni anno, ma non si tratta di disperderle chissà dove, precisa Philippe Roch. Cerchiamo di aumentare la densità nelle città e di costruire degli stabili più gradevoli. Prima di agire sulla crescita, bisogna cercare di organizzare la vita in modo da conservare un massimo di spazio e qualità di vita». Anche il professor Rumley ritiene che la densificazione sia uno degli aspetti chiave del problema, ma non per forza in città. «Negli agglomerati urbani questo processo ha già avuto luogo. Bisognerebbe poter aumentare la densità degli insediamenti nelle regioni suburbane. Si potrebbe perfino immaginare di sfruttare meglio le zone occupate da case unifamiliari, diminuire le zone con delle parcelle e cercare di farci stare una seconda costruzione, per esempio per una coppia senza figli».
Probabile ritiro dell'iniziativa
Depositata alla Cancelleria federale nell'agosto del 2008, l'iniziativa "Spazio per l'uomo e la natura" potrebbe non essere sottoposta a voto popolare. «Se il parlamento approverà la revisione della Legge federale sulla pianificazione del territorio, l'iniziativa sarà ritirata», ha dichiarato Otto Sieber, segretario centrale di Pro Natura e presidente del comitato promotore. Tra coloro che hanno lanciato l'iniziativa ci sono però anche voci più prudenti. «Chi mi garantisce che si cambierà davvero atteggiamento, dal momento in cui lo Stato federale non ha finora dimostrato una chiara volontà d'agire e i cantoni se ne infischiano, si chiede Philippe Roch. È importante che il popolo possa dire la sua, così almeno le autorità dovranno rispettare il suo volere». Il senatore ecologista Luc Recordon non è così categorico e ritiene che il contro-progetto abbia molti vantaggi. È tuttavia fuori questione ritirare l'iniziativa prima che il termine per l'inoltre di un referendum contro il contro-progetto sia scaduto. Anche se il senatore dubita che gli oppositori vogliano chiamare il popolo alle urne dopo l'adozione dell'iniziativa sulle residenze secondarie…
MILANO — Il popolo svizzero ha messo un limite alla costruzione di case vacanza: non potranno superare il 20% del totale delle abitazioni e non potranno occupare più di un quinto dell'intera superficie abitata. Il referendum, lanciato dall'ecologista Franz Weber, è passato per poco: i «sì» hanno raggiunto il 50,6% delle preferenze, 15 i Cantoni favorevoli. Tra questi non c'è però il pezzo di Svizzera a noi più vicino, il Canton Ticino, dove anche tanti italiani hanno investito nel mattone.
I numeri elvetici ci dicono che le seconde case ai piedi del Gottardo sono il 40%, nelle valli più turistiche sfiorano il 60. Ma soprattutto, quei numeri, ci spingono a riflettere sul mercato nostrano dove si arriva a contare anche l'80% di case vacanza. La fotografia scattata nel 2011 dall'Agenzia del Territorio e dal Dipartimento delle Finanze ci dice che l'Italia è il Paese delle seconde case: sono 5 milioni e 782 mila, pertinenze incluse; rappresentano il 10,5% di tutte le abitazioni (al Sud il doppio, secondo Legambiente). Il 5% di tutte le transazioni. E ci dice anche che il numero di case rispetto a quello delle famiglie «è nettamente crescente passando dal Nord al Sud». Effetto del «maggior numero di seconde case per villeggiatura nel Sud e nelle Isole» ma anche dei «fenomeni di spopolamento delle aree depresse».
Di cinque milioni di seconde case parla pure Assoedilizia che mettendo in fila i numeri del rapporto case-abitanti stila la classifica delle regioni con più case vacanza: «Valle d'Aosta, Liguria e Puglia». Il presidente Achille Colombo Clerici commenta: «Un tetto serve. Ma da noi non si può pensare a un limite fisso: in certi casi non serve, in altri il 20 è già troppo. Attenzione però: le seconde case creano ricchezza. Con beni culturali e paesaggi rappresentano la forza della nostra attrattiva turistica. Case vacanze e... alberghi, certo».
In Svizzera il tetto è stato posto proprio per tutelare alberghi e territorio. «Lì già non è possibile trasformare un albergo in appartamenti, da noi succede anche a vecchi hotel fine '800», dice Oliviero Tronconi, responsabile del laboratorio Gesti.Tec del Politecnico. «Il comparto delle seconde case ristagna non tanto per crisi e Imu, quanto per il diverso modo di fare vacanza. In ogni caso la promozione del turismo non passa da lì: così non si crea ricchezza ma deserto sociale». Ne sa qualcosa Roberto De Marchi, sindaco di Santa Margherita Ligure: «Su 8000 abitazioni, 4000 seconde case (800 appartengono a 80 famiglie): per la maggior parte dell'anno vuote. Bisogna fermarle con politiche fiscali».
Ma anche Andora, nata con le seconde case, ha deciso di dire basta: «Vincolando le aree agricole», spiega il sindaco Franco Floris. Alberto Fiorillo, di Legambiente, distingue tra vecchie abitazioni trasformate in case vacanza e nuovi immobili: «Questi limitano la qualità del turismo, danneggiano il suolo, spersonalizzano i luoghi: paesi fantasma d'inverno diventano città ingovernabili d'estate con servizi (dai rifiuti alla depurazione, fino alle strade) sottodimensionati». Fin qui i problemi legati a quell'11,5% di seconde case legali: «Al quale va aggiunto un numero imprecisato di abusive (troppi pure gli affitti abusivi): ogni anno ne sorgono tra i 30 e i 40 mila. Molte le seconde case».
postilla
Visto che il Corriere si diffonde in percentuali, e i suoi interlocutori pure, vorrei ricordare qui un caso trattato anni fa, quello di Piazzatorre nelle valle bergamasche, dove quella percentuale si aggirava oltre la quota dell’80% e l’amministrazione (del resto imitando i comuni confinanti) aveva deciso di risolvere il problema … costruendo nuove seconde case al posto di obsoleti boschi di conifere e colonie vacanze per bambini. Proprio in questi giorni il blog Salviamo Piazzatorre ha reso disponibile online un bello studio di Emanuela Gussoni, che ho avuto il piacere di seguire come relatore per la tesi di laurea al Politecnico di Milano, dove si indica un possibile percorso alternativo di sviluppo urbanistico e socioeconomico locale. Percorso possibile naturalmente dopo aver intrapreso quello preliminare di trattamento psichiatrico obbligatorio degli sviluppisti a oltranza, senza se e senza ma (f.b.)
Titolo originale: Le paysage français, grand oublié des politiques d'urbanisation – Traduzione di Fabrizio Bottini
Come spesso accade, ancora una volta Nicolas Sarkozy non ha usato certo mezze misure. Nel suo intervento trasmesso contemporaneamente da dieci canali televisivi domenica 19 gennaio, Il Presidente della Repubblica ha annunciato il progetto di aumentare del 30 % la possibilità di edificare, "su ogni terreno, edificio, immobile. Incrementando così straordinariamente le possibilità di lavoro per il settore edilizio”. E poi “per aumentare notevolmente la disponibilità di case, influenzandone il prezzo. Sia per l’acquisto sia per l’affitto". Una scommessa sull’immobiliare in grado di accontentare poi un po’ tutti? Prima di essere adottato dall'Assemblée nationale il 22 febbraio, il progetto di legge ha sollevato notevole ostilità. I promotori prevedono una impennata di prezzi dei terreni, gli agenti immobiliari uno sconvolgimento del mercato, i costruttori di case economiche si sentono trascurati. Quanto alle amministrazioni locali, che dovranno rilasciare le licenze e istruire nuovi piani regolatori, si sentono un po’ scavalcate dal nuovo testo.
Ma soprattutto, la legge pare tacere su uno degli aspetti essenziali per le trasformazioni edilizie in Francia: il paesaggio. Gli anni dalla ricostruzione ai ’70 sono stati caratterizzati dai grands ensembles, mentre gli ultimi tre decenni hanno visto il trionfo delle casette unifamiliari, che oggi rappresentano i due terzi degli alloggi a livello nazionale. Le torri e i casermoni delle città sfigurano oggi il paesaggio della valle della Senna o le alture del marsigliese. Ma da ora in poi saranno lottizzazioni di casette e edifici isolati a colonizzare la Francia delle valli e delle coste, delle pianure e dei boschi. Le identità locali cancellate, confini comunali che sfumano l’uno nell’altro. Le insegne dei supermercati a sconciare gli ingressi in qualunque centro abitato. Non c’è più campagna e non ci sarà mai città, né urbano né rurale.
Suolo: “Una risorsa non rinnovabile”
Sicuro, il progetto di legge esclude tutte le zone tutelate in quanto patrimonio naturale, o classificate come bene storico. Ma anche escluse queste aree salvaguardate, quali effetti ci saranno sul paesaggio? Si rallenterà o accelererà il degrado? Che tipo di situazione si vuole affrontare? Su quali principi ci si basa? A quest’ultima domanda il ministro delegato per la casa Benoist Apparu ha una risposta semplice: “Non vogliamo più consumare spazi naturali, non possiamo più continuare a coprire superfici agricole, ma vogliamo costruire case, quindi occorre densificare”.
Densificare: la parola d’ordine è vaga. Da dieci anni fa litigare tutti contro tutti nel paese. Salvo qualche urbanista, tutti reclamano “spazio”. Spazi verdi nelle città, abbattere le torri nelle periferie, migliorare il traffico per avvicinarle al centro, ampliare i quartieri … “Oggi tutti possono constatare le devastazioni del paradosso francese, abbiamo consumato molto più territorio degli altri, ma c’è tragica carenza di alloggi”, spiega il paesaggista Bertrand Folléa. Si "artificializzano" da 60.000 a 70.000 ettari l’anno, praticamente tutti terreni agricoli. L’equivalente delle superficie di un Dipartimento ogni sette anni. Per fare un confronto, la Germania consuma 20-30.000 ettari. I francesi vogliono la casetta unifamiliare? Si è fatta la scelta della dispersione urbana, dimenticandosi che il territorio è una risorsa non rinnovabile”. Per cercare di capire come ci si è arrivati, Bertrand Folléa propone alcune spiegazioni. Innanzitutto “il mito del castello familiare”. “Si è cercato di democratizzare il modello borghese, senza capire che cambiandone la scala si cambiava anche il modello”. “Poi un’organizzazione urbana ereditata dal medio evo. Nuclei di villaggio molto densi e definiti, tutt’attorno le terre agricole che danno da mangiare alle famiglie. Nel momento in cui l’agricoltura diventa meno essenziale,si costruisce su questi terreni in modo rado..."
Michel Lussault, professore di geografia urbana all'Ècole normale supérieure di Lione, va un po’ più in là,indicando una "cultura nazionale urbano-scettica, il mito campagnolo”."In Italia, la città è ovunque. Anche il centro più piccolo ha caratteri urbani. In Francia succede il contrario, e anche alcune grandi città sono campagnole. Tutto è villaggizzato. Pensiamo ai nostri presidenti, tutti immediatamente ad affermare il proprio legame di villaggio”. Il suo collega all’Ècole, lo storico Jean-Luc Pinol, ci aggiunge la qualità “mortifera” che da tanto tempo si attribuisce alle città: “La densità determinava la trasmissione dei miasmi, e si invidiava Londra che con le sue case di tre piani, tanto meno densa di Parigi. D'altra parte Parigi nel corso del XX secolo ha continuato a diminuire di popolazione, passando da tre a due milioni di abitanti. Tra le due guerre si sono costruite villette nella cintura interna, spesso a basso costo. Poi sono arrivate le città dormitorio, poi i grands ensembles. Alla fine le lottizzazioni realizzate fuori dalla città".
Un insediamento a misura d’automobile
L'architetto e urbanista David Mangin ha analizzato in modo approfondito quest’ultimo fenomeno nel suo libro La Ville franchisée. Vecchi miti, tradizione, storia, tutto è stato trascinato via dalla rivoluzione tecnologica con l’avvento del'automobile.“Tutto è cambiato: modelli di vita, modelli edilizi, organizzazione urbana, ma anche economia, servizi, e naturalmente il paesaggio". Incaricato dalla città di Nizza di riorganizzare la pianura del Var,ne ha rilevato l’organizzazione spaziale. "Più del 40 % di questo straordinario paesaggio è occupato dalle macchine: ci sono i parcheggi dell’aeroporto o dei supermercati, i noleggi, i garage, gli sfasciacarrozze. Non ha senso”. Certo si tratta di una situazione estrema. Ma accade ovunque, anche se in modo meno spettacolare, in base alla medesima logica.
Un intero territorio riorganizzato in funzione dell’auto. A partire dalla rete stradale. La maglia delle arterie veloci che secondo Charles Pasqua, ministro per la pianificazione del territorio dal 1986 al 1988, doveva assicurare a tutti “al massimo venti minuti per arrivare in autostrada”. Poi le casette unifamiliari, che da trent’anni rappresentano i due terzi degli alloggi costruiti."I grands ensembles hanno fallito, ma le amministrazioni dovevano salvare scuole e servizi, e così si sono realizzati delle specie di grands ensembles in orizzontale, monofunzionali. I genitori portano i figli a scuola in macchina, e poi la usano per andare a comprare il pane. È del tutto anti-ecologico e però ci si sente vicini alla natura ... Il tutto con la benedizione dei pubblici poteri che volevano allontanarsi dal modello delle abitazioni collettive".
Terzo anello della catena, la grande distribuzione. Terreni a buon mercato, bacini di popolazione cresciuti: “I grandi marchi hanno visto l’occasione, secondo il modello importato dagli Stati Uniti: niente parcheggi niente affari. E hanno calcolato la superficie per la sosta sul traffico della vigilia di Natale. Con le tangenziali, le grandi superfici commerciali sono in effetti molto accessibili per tutti. Hanno svuotato i centri, sfigurato gli ingressi alle città, aperto alla costruzione di nuove case … che attirano altre superfici commerciali. Un circolo vizioso, per però va bene a molti. Ivi compresi i contadini, dato che il prezzo di un terreno agricolo esplode quando diventa edificabile. Cosa che vale in tutto il paese. Piante calcoli e foto alla mano, David Mangin lo dimostra: attorno a Dinan, Bretagna, così come a Chalon-sur-Saône, in Borgogna, fra glia ni ’60 e gli anni ’90 l’ambiente urbano ha sostituito quello rurale.
La casetta “con un piccolo giardino attorno”
Tutta colpa della casetta unifamiliare? L’economista e direttore di ricerca al CNRS, Vincent Renard, ribatte deciso: "non mi piace questo disprezzo, questo razzismo contro chi si è costruito una casa. Il problema non è la casa, ma il sistema".Jean Attali, filosofo e professore di urbanistica all'Ècole nationale d'architecture Parigi-Malaquais, rincara la dose : "Quando gli amici architetti criticano la casetta unifamiliare, si dimenticano di citare un aspetto di questa critica, ovvero che quello delle casette è un mercato che li scavalca. In Francia non è obbligatorio ricorrere a un architetto sotto i 170 m2. Sono sempre un po’ a disagio quando li ascolto prendere in giro le casette individuali". Anche David Mangin aggiusta il tiro: “Non si tratta della casetta individuale, ma del lavaggio del cervello che i promotori hanno fatto a tutti i francesi, secondo cui l’unica soluzione possibile è quella casa peripatetica: isolata, su un poggio, con un piccolo giardino tutt’attorno".
Continua l'urbanista Philippe Panerai:"Anche olandesi e inglesi hanno fatto la scelta della casa individuale, ma nel contesto di un’altra storia, di un’altra organizzazione. Gli olandesi avevano strappato la terra al mare, e non potevano certo sprecarla; gli inglesi attraverso un prodotto industriale standardizzato, e senza la proprietà della terra. Quindi le case sono state realizzate fianco a fianco, col giardino sul retro, una soluzione molto più economica in termini di spazio". Risparmiare spazio. Cosa un tempo sconosciuta in Francia, l’idea a poco a poco si è fatta strada. Prima nelle riflessioni dei ricercatori e dei paesaggisti. Poi, dopo dieci anni, nelle sedi di dibattito istituzionale, come le convenzioni sull’ambiente alla Grenelle o il concorso Grand Paris. "Si è presa coscienza degli aspetti economici, sociali, ambientali della dispersione urbana”, specifica Jean Attali. “In termini di mobilità, saturazione dei trasporti collettivi, congestione, danni all’ambiente. Anche da parte degli abitanti, che sognano un modo di vivere migliore, vicino alla natura, e che oggi ne scoprono aspetti negativi".
Vincent Renard continua su questo tema: "Si è assorbito il contraccolpo della politica dei grands ensembles, ma non ancora quello delle lottizzazioni. Con la crisi economica e l’aumento dei prezzi dei carburanti, che è solo cominciato, scatta la trappola. Qualcuno se ne sta accorgendo ".
"Soprattutto, i prezzi troppo alti hanno bloccato il sistema e interessano tutti” dice David Mangin. “Finché la cosa interessava solo i più poveri non ci badava nessuno. Oggi anche le fasce superiori faticano a trovar casa per i figli. E si spera in una presa di coscienza..."
Densificare
Gli urbanisti propongono i propri modelli. Qualcuno auspica un ritorno alla città tradizionale e alla mobilità pedonale, altri ipotizzano nuovi sistemi di circolazione per una “città fluida”. Secondo il pensiero dell’olandese Rem Koolhass, altri ancora chiedono di liberarsi da ogni vincolo e far ricorso al genio dell’architetto per ricostruire la città. Infine, che chi come Bertrand Folléa insieme alla compagna Claire Gautier cerca di inventare una “città sostenibile”. Complessivamente emerge comunque una convinzione, quasi una parola d’ordine: bisogna densificare. Densificare i centri, dove ci sarebbe tanto spazio in cui costruire. Fabbriche, caserme, ospedali, trovano oggi nuove funzioni. "Dopo vent’anni hanno demolito la biscotteria Lu di Nantes” osserva Jean-Christophe Bailly, professore all'Ecole nationale supérieure de la nature et du paysage di Blois. “E ci dovrebbero fare il parcheggio di un supermercato, magari un po’ di verde? Il comune ha scelto di farci un polo artistico, Le Lieu unique. Non tutto è perduto".Densificare anche i grands ensembles"perché contrariamente a quanto si pensa di solito quei quartieri sono a bassa densità, a causa delle norme sulle distanze fra edifici, sui parcheggi, su quegli pseudo spazi verdi”.
Piuttosto che cedere alla moda di distruggere semplicemente torri e stecche, architetti e urbanisti propongono di sostituirle con unità più piccolo, introdurre attività commerciali e studi professionali. A Rennes, Grenoble o Strasburgo si è intrapresa questa strada. Densificare e riqualificare rapidamente le città per risparmiare spazio, o sfruttare nuove tecniche più sicure per edificare in aree a rischio inondazione. "Però le soluzioni semplici non esistono” avverte David Mangin. “Il capannone che si vuole demolire per costruirci case magari è una attività importante per la città. SI tratta sempre di operazioni complesse, delicate, lunghe, che richiedono compromessi".
Il ruolo degli abitanti
E in tutto questo dove si colloca il 30 % tanto caro a Sarkozy? Una scelta “elettorale”, "brutale", "demagogica", sostengono in coro tutti i nostri interlocutori. "Potrebbe avere qualche senso in una logica di revisione del sistema di pianificazione, imponendo ai terreni il loro valore reale, delegando la responsabilità delle trasformazioni alle associazioni intercomunali e non ai municipi”sospira l'economista Vincent Renard. “Ma in questo modo è assurda". Tutti riconoscono alla proposta due meriti: quello di mettere il dito su una piaga della nostra epoca, ciò che il geografo Michel Lussault chiama “la proceduralizzazione della città, l’insieme di leggi, regolamenti, vincoli, che finiscono per soffocare ogni dinamica urbana. E anche il merito di porre la questione del ruolo dei singoli cittadini nella costruzione della città. La loro capacità di inventare ciò che poi a distanza di secoli potrà apparire pittoresco. Ma anche il diritto a riflettere, concepire, decidere sui modi dell’abitare.
Prosegue Michel Lussault: "Ieri la città-rete, oggi quella sostenibile, densificata, senza emissioni, si tratta di modelli che lasciano fuori gli abitanti. Non dobbiamo mai dimenticarci che sono i francesi ad aver scelto in tutta autonomia la città poco densa, grazie alle automobili e con la benedizione delle autorità. E non solo per il rifiuto di una certa composizione sociale, ma anche sfuggendo ai problemi della densità mal concepita. Perché oggi possa riuscire l’idea della densificazione, perché non sia vissuta come una sofferenza, occorre ripensare le forme architettoniche". La torre Bois-le-Prêtre, a Parigi (nel diciassettesimo arrondissement), riqualificata da Lacaton et Vassal, dimostra che si tratta di un obiettivo raggiungibile. Ma si può essere più ambiziosi. Invitando architetti, urbanisti, sociologi, giuristi, economisti, a cambiare natura: "Non devono più pensarsi come dei domatori che entrano nell’area a spiegare alle belve che è sbagliato ruggire, ma come levatrici di un processo di autocostruzione".
In altre parole, "Vanno riviste le forme della democrazia urbana. Non il genere di democrazia partecipativa che è diventato la foglia di fico della nostra incapacità di far evolvere la città. È l’insieme delle procedure che va rivisto, dalle concessioni edilizie ai piani urbanistici. Lo si fa nei contesti di scarsa presenza del potere pubblico, che siano le baraccopoli dell’India, dell’America del Sud, o anche negli Stati Uniti, come a Seattle. Ma anche in paesi di tradizione democratica, dalla Svizzera alla Scandinavia”.
È un progetto da candidato alle elezioni presidenziali? "Direi piuttosto un progetto per il nuovo millennio " , conclude il professore con un sorriso.
Qui il testo del progetto di legge approvato dall'Assemblea nazionale
Oggi Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano (Milano) e membro del Comitato direttivo dell’Associazione Comuni Virtuosi, riceverà il Premio Personaggio Ambiente 2011 a Roma, presso Palazzo Valentini in via IV Novembre.
Domenico Finiguerra l’ho conosciuto attraverso una video intervista, abbastanza improbabile nei colori e nel volume, ormai diversi anni fa, in cui parlava di questo comunello di 1.800 abitanti alle porte di Milano dove, con assoluta naturalezza e semplicità, gli amministratori avevano scelto di interrompere la folle spirale del consumo di suolo e delle speculazioni edilizie, dicendo, improvvisamente, basta.
A volte accade, se si è abbastanza fortunati e ostinati, di incontrare persone così. Che prima ancora di essere ottimi amministratori e servitori dello Stato (quello Stato che ti fa sentire orgoglioso e fiero una volta tanto) sono persone perbene, piacevoli, con cui vale la pena scambiare idee e riflessioni, ma anche chiacchiere e sorrisi, davanti a un bel bicchiere di vino.
Quella scelta, che oggi è adottata e imitata in tutta Italia ed è diventata portatrice di movimenti, campagne, iniziative pubbliche di ogni sorta e grado, ha squarciato in un momento il muro dell’ipocrisia di gran parte della politica parolaia di destra e di sinistra, che per anni ci aveva ripetuto (e ancora ci ripete) i soliti ritriti ritornelli: “Non si può fare, non è possibile, non possiamo fermare il progresso, dobbiamo costruire per far viaggiare l’economia…”
La scelta di Cassinetta è dunque diventata il simbolo di un possibile cambiamento generale, condivisa con le centinaia di esperienze virtuose che come Associazione dei Comuni Virtuosi abbiamo in questi anni cercato faticosamente di far emergere, coltivare, valorizzare e diffondere. Noi non ci siamo limitati a dire dei no, in questi anni ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo sperimentato, costruito e adottato un paradigma altro di comunità: rifiuti zero, indipendenza energetica, democrazia partecipativa, nuovi stili di vita, mobilità sostenibile.
Domenico è stato ed è per tutti noi un esempio da imitare e un portavoce a cui affidare le nostre convizioni, in questa specie di staffetta del buon senso con la quale cerchiamo di illuminare giorno per giorno ciò che funziona, nonostante tutto, nelle nostre trasandate istituzioni pubbliche.
Un abbraccio dunque al buon Domenico, alla splendida Cassinetta di Lugagnano, con la speranza che sempre più persone, movimenti, reti, vogliano condividere il pezzo di strada che stiamo facendo!
Per costruire una strada larga due metri e mezzo, destinata a raggiungere una baita da ristrutturare a quota 1.600, hanno abbattuto alberi, sbancato e spianato quasi un chilometro di terreno nel parco ultra protetto delle Orobie, in alta val Brembana. Un «intervento agrosilvopastorale integrato» da 300 mila euro, finanziato all'80% dalla Regione Lombardia e regolarmente autorizzato dal Parco, su cui ora indaga la Procura di Bergamo. Tutto inizia nello scorso mese di agosto, quando un milanese che da decenni frequenta quella zona, l'avvocato Armando Salaroli, insospettito da quello scempio nel Parco, decide di andare a fondo e chiede l'accesso agli atti del comune di Carona, del Parco delle Orobie Bergamasche e della Comunità montana.
Vengono così a galla alcune anomalie e il Parco blocca subito i lavori perché non è stato rispettato il progetto originario. «Quello che doveva essere il semplice allargamento di un sentiero — dice Salaroli — è diventata una strada larga quasi tre metri che è stata prolungata oltre quanto autorizzato». Doveva infatti raggiungere la baita da ristrutturare, ma — così si difende il Comune di Carona — si è scoperto che lì c'era il rischio di valanghe e si è pensato di riattare un altro rudere più avanti. Ma poi si è deciso che costava meno costruirne uno ex novo lì vicino («senza permessi» dice Salaroli, «tutto in regola» per il Comune). Il sospetto dell'avvocato milanese è che, con la scusa dell'intervento agrosilvopastorale, si sia voluto realizzare una strada che — una volta prolungata nella zona non più protetta come ZPS e SIC — permetta di raggiungere le cascate della Val Sambuzza dove dovrebbe essere realizzata una centrale idroelettrica.
Dopo la scoperta delle irregolarità, il Comune ha chiesto l'autorizzazione per le varianti già attuate. Ora tutta la questione è al vaglio della magistratura che sta esaminando anche alcuni documenti non chiari, mentre della questione è stata interessata anche la Soprintendenza che dovrà esprimere il proprio parere ma che non potrà comunque autorizzare sanatorie ma soltanto, nel caso fossero accertate le violazioni, ordinare il ripristino.. Il sindaco di Carona, Giovanni Alberto Bianchi, respinge tutte le accuse e i sospetti. «Il nostro scopo — spiega — e solo quello di far vivere gli alpeggi. Con quell'intervento salviamo il lavoro di 3-4 persone che d'estate vivono sui pascoli e fanno il formaggio da portare subito a valle. Qualcuno crede che la Regione possa aver finanziato un progetto inutile?»
«Sì, è vero — aggiunge il sindaco — la variante l'abbiamo fatta, ma solo per evitare una zona umida e non danneggiare le rane». Quanto alla possibilità della costruzione di una centrale idroelettrica vicino alle cascate che anni fa pubblicizzavano in tv un noto bagno schiuma, il sindaco non ha dubbi: «Se ci costruiscono le strade per raggiungere altri pascoli non avremo dubbi nel concedere le autorizzazioni che ci competono».
Se proviamo ad interrogare il sito-database gestito dall’ong Grain (http://farmlandgrab.org), utile a monitorare le operazioni di acquisizioni di terra in corso, in giro per il mondo, abbiamo l’impressione di trovarci di fronte ad una partita a risiko lasciata a metà. Ma questo non è un gioco da tavolo, è piuttosto il “risiko della terra” (Roiatti F., 2009, Il nuovo colonialismo, Università Bocconi editore, Milano). E soprattutto, non sono i dadi a decidere la sorte dei concorrenti e perciò dei rispettivi territori, bensì il denaro. Il denaro usato dai paesi più ricchi, per sfruttare il suolo-merce dei paesi più poveri, che proprio in virtù di questa condizione sono costretti a privarsene. Il fenomeno è detto land grabbing (“appropriazione dei terreni”). Nel dettaglio si tratta di una pratica basata sull’acquisto, o ad ogni modo l’affitto a lungo termine (dai 40/50 e fino a 99 anni), di grandi estensioni di terreni in paesi poveri con lo scopo di adibirli a coltivazioni agricole. Ma, punto essenziale, le relative produzioni sono essenzialmente destinate all’esportazione intercontinentale. I paesi costretti ad appendere il cartello "vendesi" sulle proprie terre per privarsi del suolo, la più basilare delle risorse, in molti casi rappresentano le emergenze umanitarie del pianeta, e la maggioranza dei contratti finisce per coinvolgere i governi compresi nella lista dei paesi più corrotti (perciò nella sostanza più deboli) elaborata dall’ ong Trasparency International. Le multinazionali che ridisegnano la mappa del mondo acquistando, fanno invece capo a Stati Uniti ed Europa, ed in modo particolare ai paesi emergenti dell’Asia, Medioriente ed America Latina.
Proviamo a vedere i numeri di questa partita. Il recente report della International Land Coalition (Anseeuw W., Alden Wily L., Cotula L., Taylor M., 2012, Land Rights and the Rush for Land: Findings of the Global Commercial Pressures on Land Research Project, ILC, Roma) parla chiaro. Facendo riferimento agli anni compresi fra il 2000 ed il 2007 il fenomeno è lentamente cresciuto, facendo registrare alla fine del periodo contratti che hanno assorbito 10,4 mln di ettari di suolo. Il fenomeno ha poi subito un’impennata improvvisa, nel triennio 2008-10, che ha fatto registrare cessioni per ben 44,3 mln di ettari (Grafico 1).
Ad oggi sarebbero circa di 203 mln gli ettari di terra venduta, o ad ogni modo ceduta, per questa pratica (tabella 1)
Tabella 1. Acquisizioni di suolo al 2012 (per continenti)
Africa: 134,5 mln Ha; 66,49%
Asia: 43,5 mln Ha; 21,50%
America:18,9 mln Ha; 9,34%
Europa: 4,7 mln Ha; 2,32%
Oceania: 0,7 mln Ha; 0,35%
Fonte: ns. elaborazione su dati di Anseeuw et. al. 2012
La brusca crescita del fenomeno è collegata a tre ordini di questioni. La sicurezza alimentare, nel senso che la domanda mondiale di cibo si estende quantitativamente e si articola qualitatativamente, mentre le superfici coltivabili sono più o meno sempre le stesse, l’impennata dei prezzi delle commodities agricole del 2008 legata alla debordante finanziarizzazione del loro mercato, ed indirettamente la produzione dei biocarburanti soggetta alle direttive americane ed europee che impongono alle multinazionali del petrolio la vendita di quote fisse di questo tipo di carburanti, incentivandone la produzione (Grafico 2).
Secondo stime del Global Land Tool Network attraverso questa pratica circa 5 mln di persone in media ogni anni subiscono conseguenze legate agli espropri di terra (GLTN, 2008, Secure Land Rights for All, UN-HABITAT, Nairobi). Ma questo non è tutto. Sono piuttosto le conseguenze indirette a risultare più preoccupanti. Infatti attraverso questa pratica viene negato il pubblico accesso alle risorse che presuppongono una detenzione, un utilizzo e una gestione collettiva. Le popolazioni insediate si trovano costrette ad allontanarsi dalla loro terra, consentendo l’eliminazione del “controllo sociale” sullo sfruttamento delle risorse che caratterizza ogni gestione collettiva del suolo. Tende a scomparire l’agricoltura differenziata di carattere storico (che provvedeva a molteplici esigenze e rivestiva diverse funzioni), sostituita con le monocolture intensive, utili a soddisfare unicamente le richieste del mercato in termini di materie prime e di beni commerciabili. Più in generale si consolida un immaginario egemonico, che spinge verso il rifiuto a riconoscere l’esistenza di qualsiasi pratica d’uso del suolo esterna al mercato, e la sostituzione degli “interessi individuali” a ogni forma di “interesse comune”.
Dunque, il suolo. Un concetto che viene da lontano e che nasconde, dietro molteplici declinazioni disciplinari, una storia in gran parte sconosciuta (Bevilacqua P., 2004, “Il suolo: una storia sconosciuta”, in I frutti di Demetra, n. 4), e soprattutto un’ideologia che ha saputo imporsi. In riferimento all’ambito disciplinare dell’urbanistica, la maschera mimetica del concetto di suolo che rinvia continuatamene ad altro da sé (territorio, ambiente, paesaggio, etc.), ha permesso di celare la sua consolidata figura di “bene di mercato”; così, esso finisce per essere il più vago e incerto fra i termini centrali nel lessico urbanistico, nonostante continui a rappresentare il principale elemento concettuale ed operativo posto alla base dell’epistemologia disciplinare. A mio avviso, troppo spesso le molteplici linee di elaborazione sul tema evitano di porre la questione di fondo che riguarda la sua attuale piegatura ideologica e culturale, la sua “essenza” cioè di mero elemento passivo, di banale merce; e, di conseguenza, rinunciano ad ogni obiettivo teso a scardinare i processi che hanno contribuito a determinarla. E questa tendenza fatta da un lato di inconsapevolezza e dall’altro di accettazione della visione dominante del mondo rende immanente e naturalizza, l’attuale stato delle cose. Fino al grottesco.
Attraverso la recente inchiesta “Corsa alla terra” di Piero Riccardi per Report (Riccardi P., 2011, “Corsa alla terra”, in Gabanelli M., condotto da, Report, Rai Tre, puntata trasmessa il 18 dicembre), scopriamo il punto di vista di Klaus Deininger (capo economista di Banca Mondiale) riguardo alla pratica del land grabbing «[…] rispetto a 3 o 5 anni fa, prima di questa ondata di investimenti nessuno era realmente interessato all’agricoltura. Era un’industria al tramonto, un’attività considerata poco sexy. E’ cambiato molto da allora. E penso che sia uno sviluppo davvero positivo, perché saremo in grado di aiutare in maniera significativa i poveri». Ma è questa una scelta, camuffata dalla presunta necessità di risolvere il problema della fame nel mondo, che proprio non mi convince. A mio avviso occorre porre a corollario di ogni prospettiva politica la necessità di indicare il superamento da una parte della nozione di sviluppo inteso come incremento indefinito della mercificazione, e dall’altra della stessa nozione di crescita intesa, di fatto, come uno stato naturale e positivo. Ciò è tanto più urgente nella misura in cui si ha a che fare con un Terzo mondo, già messo in ginocchio dalla fame, e che peraltro in termini culturali risulta legato all’idea del limite e della sussistenza, piuttosto che a quella di crescita indefinita (Figura).
Fonte: Cartografare il presente, http://www.cartografareilpresente.org (Nives Lòpez Izquierdo, Terra e povertà in Africa, 2009)
In questo senso occorre porre al centro delle elaborazioni e delle pratiche urbanistiche un punto di vista fondativo: la concezione del suolo come bene comune. Un’istanza questa dei beni comuni che, ancorché “tecnicamente amorfa” (Mattei U., 2001, Beni comuni. Un manifesto, Laterza Roma-Bari), dovrebbe costituire un nodo centrale nel dibattito sui “destini” dell’urbanistica e, più in generale, sui nuovi paradigmi per una società autenticamente consapevole e autodeterminata. Questa prospettiva di ricerca del suolo come bene comune ci permette invece di innescare una dinamica tesa a sottrarre il suolo alle logiche di mercato che hanno determinato negli ultimi decenni non solo una inesorabile e progressiva cannibalizzazione del suolo, ma anche una completa espropriazione di ogni significato “collettivo”. Ciò comporta dare centralità alle relazioni di prossimità tra abitanti e risorse locali, ricostruire matrici identitarie, mettere in primo piano il valore costitutivo, etico dei rapporti sociali e della solidarietà, lavorando per riaffermare una progettualità collettiva in grado di ridefinire il futuro del proprio lavoro e del proprio abitare.
Oggi il dibattito sui beni comuni è sicuramente più maturo. Il tema della “tutela dei beni comuni” ossia quell’insieme di pratiche legate ad interpretare criticamente questioni come la privatizzazione delle risorse naturali, la progressiva erosione dei beni e dei servizi pubblici, l’indebolimento dei meccanismi democratici di controllo, le restrizioni legali sul diritto d'autore sui brevetti e marchi commerciali informano il dibattito scientifico nazionale ed internazionale. Ed in particolare la questione del suolo come bene comune, e per traslato l’interpretazione in termini strategici del suo controllo (dal punto di vista della sua produzione e della sua riproduzione) entra a pieno titolo fra i termini del dibattito urbanistico (Caridi G., 2012, Suolo. Bene comune vs merce, Città del Sole, Reggio Calabria). Ciò vale, in qualche modo, anche in relazione alle recenti posizioni in merito espresse anche dall’INU che fanno riferimento alla “mancata acquisizione dal vigente sistema normativo del significato di ‘bene comune’ che il suolo indubitabilmente assume” (AA. VV., a cura di 2011, Rapporto sul consumo di suolo 2010, Inu edizioni, Roma). Questa prospettiva di ricerca permette di assicurare alle comunità insediate un controllo consapevole e democratico del suolo, con l’intenzione di rimuovere le disuguaglianze legate al suo accesso/controllo. Mentre la Banca Mondiale continua ad affermare che questo “interesse crescente per le terre agricole” (World Bank, 2011, Rising Global Interest in Farmland, Washington D.C) non costituisce un vero e proprio problema gli indignados della terra di Africa, Asia ed America latina continuano ad organizzarsi e a lottare per difendere il proprio suolo, e con esso i diritti al lavoro, al cibo ed alla sopravvivenza. La realtà è cruda ed occorre conoscerla per modificarla, se vogliamo modificarla.
Giuseppe Caridi è architetto, dottore di ricerca in “Pianificazione e progettazione della città mediterranea”
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