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Chiusi al confronto col mondo globale proprio quando questo sarebbe disposto a guardare con interesse alle nostre storie vere

La fitta sequenza di brutte case - dappertutto in Sardegna - ci faranno riflettere quando ci riguarderemo e ci riguarderanno. Sarebbe bene se nelle pause del dibattito sull’autonomia - e sull’identità - si desse un’occhiata a come ci siamo conciati. Si scoprirebbe che il limite della decenza è ampiamente superato per travestimenti assurdi (come non è accaduto in altre regioni).

Qualche tempo fa ha scandalizzato il film televisivo di Franco Bernini che parlava dell’isola con deficit di accortezze storico-antropologiche, del sardo con i panni che ci vorrebbero vedere addosso. Un film, in fondo. Ma qui si tratta di vestiti indossati volentieri e difficili da togliersi. E’ il paradosso della rinuncia all’identità evocato dalle maschere delle Demoiselles di Picasso. Tanto più temibile se la finzione è compiacente (in Sardegna la maschera è una cosa seria, dice di riti preistorici, di paure primordiali da alleviare, di morte e rinascita).

Fra trent’anni l’isola perderà quasi un terzo dei suoi abitanti e le case vuote, non solo nei villaggi dei balocchi, saranno più di quelle odierne, già oltre un quarto del totale.

Lasciamole nello sfondo - per una volta - le quantità delle trasformazioni che hanno travolto i paesaggi naturali più preziosi. Per soffermarci sulle forme adottate dalla cangiante città diffusa. Grande parte del paesaggio costruito in Sardegna è rivelatore di una propensione ininterrotta ad assumere il carattere deformante e uniformante della villeggiatura, per piacere ai turisti e assecondare il turista che è in noi (il consumatore al posto dell’abitante, la messinscena al posto delle consuetudini).

E’ il trionfo dell’equivoco vecchio mezzo secolo: i travestimenti della Sardegna costiera (e non solo) sono ormai percepiti come autentici, appartenenti alla sua storia.

Invece è un abbaglio collettivo. Un repertorio che si diffonde da decenni, frutto di tentativi che si cumulano casualmente: un mix che rimanda ai primi villaggi di Costa Smeralda, che a loro volta richiamano scorci di Capri o Ischia, a prospettive veneziane, cartoline dalla California, scenografie fiabesche, scriteriati revivals stilistici, il tutto reso in modo iperbolico, fumettistico, caricaturale non si sa bene di cosa. Un grammelot, se fosse una lingua.

E’ un florilegio di successo, un’epidemia tentacolare: quelle figure esondano dalle riviere alle campagne, alle nuove espansioni, penetrano nelle parti antiche degli abitati. Una passione compulsiva per la sceneggiata, una disneyzzazione subita e alimentata, che distrae, dà speranze, illude di stare al passo di favolosi redditi.

Sovrapponendo vero e falso si realizzano nei vecchi centri alterazioni di tipologie originarie delle quali restano dignitosi esempi: superstiti palazzetti di fine Ottocento e primo Novecento, austeri per la ritrosia - pensate un po’ - ad accogliere i decori eclettici del Modernismo. Come i severi edifici descritti da Salvatore Satta che nel «Giorno del giudizio» immaginava in qualche modo l’epilogo («Le zitelle erano ben felici di lasciare nei lugubri palazzi il loro titolo di “donna” per abitare le case linde e di cattivo gusto [...] che già cominciavano a sorgere nella periferia»).

Agli interventi più sguaiati, blocchetti in cls e alluminio anodizzato a go go, si sta così sovrapponendo la tendenza - apparentemente innocua e a fin di bene - di camuffare interi brani di paesi, con abbellimenti che fingono il restauro eccitato dai repertori dei villaggi costieri. E pure le vecchie strade si rinnovano invecchiandosi, con altane, balconi e portali che non c’erano, cantonali e cornici distribuiti in modo approssimativo, e intonaci che mimano le malte d’epoca lasciando parti scrostate.

Dovunque l’obiettivo è l’effetto rustico che simula gli acciacchi del tempo, con malformazioni che consentono l’impiego di manodopera mediocre. Il vecchio muro finto e sbilenco dilaga anche negli interni, effetto baraccone assicurato (il meglio nei bar: la sublimazione della pietra incollata e la pittura a spugna).

Nelle marine più sfigate, in assenza di manutenzione, il tono è quello decadente di scolorite scenografie in disuso, l’atmosfera malinconica di cose che non sono mai state nuove e non potranno invecchiare con dignità. Tutto è dentro questo processo, pure Cala di Volpe (tra le icone più note all’origine di questa commedia) minacciata di finire nel gorgo di un incremento, tra le sdegnate proteste del figlio del suo autore (per realizzare l’ampliamento è stato chiamato - nientemeno - lo stesso progettista di Disney Wordl).

Una produzione intemperante e disarmante (un consulto di etnologi, semiologi, analisti della moda ecc. ci spiegherebbe, forse). D’altra parte, nel tempo dell’individualismo estremo, la libertà dell’immaginazione non ammette richiami alla coerenza, men che meno all’eleganza. Ogni appello alla buona educazione estetica, alla sobrietà dei comportamenti, rischia di apparire autoritario oltre che snob. Sarà però il caso di rifletterci su questa capitolazione di massa ai modi espressivi della vacanza, che ognuno con il suo giocattolo rimpingua, invadendo il paesaggio di tutti. Nel frattempo rimane ai margini l’architettura che, pure nell’isola, vorrebbe stare al passo con i tempi (gli stili che a suo tempo abbiamo accolto - dobbiamo ammetterlo - erano quelli all’avanguardia in Europa). Oggi la Sardegna sembra rinunciare al confronto con il mondo globale - scivolando dal pop al trash - proprio quando il mondo sarebbe disposto a guardare con interesse alle sue storie vere.



Morto qualcuno ne arriva un altro, meglio ancora se di fianco al cadavere e con la vedova che ridacchia compiaciuta accompagnandosi al nuovo venuto, con tanto di vestitino sexy all’ultima moda.

Fra la terra cronicamente smossa degli svincoli autostradali di Santhià giace freddo e rigido il corpo inanimato del sedicente Glam Mall (almeno quello era l’ultimo nome conosciuto prima della dipartita) chiuso fra la statale verso Biella e un po’ di capannoni che se non altro pare servano a qualcosa, oltre che da pista atterraggio corvi che neanche negli incubi di Edgar Allan Poe.

Sta lì, la salma scomposta del Glam Mall, da diversi anni, col suo inutile cordoncino ombelicale semi-attaccato all’autostrada, le porte aperte ad aspettare le carte di credito delle mogli di evasori suburbani che non arriveranno mai più. Nevermore.

Ma il pimpante progettista di tanti giorni perduti non si sente affatto vedovo inconsolabile: l’universo è grande, e anche la provincia di Torino a ben guardare non scherza, se si ragiona in termini strettamente di metro cubo. Basta scavalcare il ponte sulla Dora e avvicinarsi all’area metropolitana del capoluogo per trovare tanti metri quadrati dove sognare tanti metri cubi in più. Poi basta il tocco magico di un sindaco entusiasta (forse a suo tempo era entusiasta anche quello di Santhià per il Glam Mall, ma soprassediamo) e un nome fantasioso: Laguna Verde.

Cocktail vincente, il cui profumo irresistibile oltre a far dimenticare il caro estinto attira anche nuovi elegantoni al party. Nientepopodimeno che Giorgio Armani, ci informa una nota Ansa del 1 ottobre 2010:

Un megastore del 'lusso', capofila Armani, con all'interno le principali griffe del settore moda.

É la proposta a cui sta lavorando il Comune di Settimo Torinese nell'ambito di 'Laguna verde'. Lo ha anticipato oggi Aldo Corgiat, sindaco di Settimo. Il progetto e' di un 'fashion mall', che dovrebbe svilupparsi su una superficie di 40-60 mila metri quadrati. Entro la fine dell'anno, Armani dovrebbe presentare al Comune di Settimo Torinese la domanda per ottenere le autorizzazioni necessarie per avviare i lavori.



Evidentemente, là dove è fallito miseramente il “ glamour” di Santhià, qui a cavallo della Padana Superiore una manciata di chilometri più a ovest (saranno venti minuti semafori rossi compresi) dovrebbe trionfare il “ fashion” sponsorizzato da un altro sindaco, magari nei colori corvini marchio di fabbrica dello stilista evocato, nonché colore politico di gran voga su varie sfumature.

Magari il fashion ha qualche asso nella manica in più, perché invece della fabbrica di mangimi dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) avere di fronte qualcuno dei grattacieli stortignaccoli che si sono visti nel rendering dell’architetto presentato in pompa magna qualche anno fa?

Personalmente, come ribadisco spesso, non ho nulla contro la distribuzione moderna, o la riqualificazione urbana, o l’innovazione in generale. Sospetto invece dell’odore di patacca, anche quando è vago. E qui pare un pochino più che vago, anche senza parlare di concorrenza territoriale caricaturale, densificazione impanata alla milanese, e via discorrendo.

Per non farla troppo lunga, a chi si fosse perso le puntate precedenti, e si stesse chiedendo di cosa vado cianciando, consiglio vivamente di scorrere almeno i vecchi articoli sul Glam Mall e Laguna Verde.

Parte ufficialmente il progetto della Città della Salute. Dopo un lavoro preparatorio durato mesi, la pubblicazione del bando unico di gara è il primo atto concreto verso la costruzione del polo unico che riunirà l’ospedale Sacco, l’istituto neurologico Besta e l’Istituto nazionale dei Tumori. Un’idea che sta particolarmente a cuore al governatore Roberto Formigoni. Costo previsto dell’opera, 520 milioni di euro, di cui più della metà arriveranno dalle casse della Regione. Il resto, li metterà il concessionario che vincerà la gara, che potrà ammortizzare la spesa in base agli anni di durata della concessione o attraverso un leasing. La gara seguirà una procedura accelerata. Non servirà solo per scegliere il progetto, ma anche il costruttore. La proclamazione del vincitore è prevista nella primavera del 2011. I lavori inizieranno in ottobre per terminare entri il giugno 2015.

«Non si tratta di un semplice trasloco - anticipa il presidente del consorzio Luigi Roth - ma di gettare le basi di qualcosa di avveniristico verso le frontiere della nuova medicina molecolare». Un progetto ambizioso tutto pubblico che suona come una sfida al Cerba, il centro europeo di ricerca biomedica avanzata, guidato dal celebre oncologo Umberto Veronesi, che sarà un istituto privato non profit e nascerà, invece, in un’area di 62 ettari all’interno del Parco Sud. «La nostra è una iniziativa pubblica, nobile e intelligente - aggiunge con orgoglio Roth - che mette in campo solo risorse pubbliche. Il Cerba farà la sua storia». La Città della Salute, della ricerca e della didattica, sorgerà in un’unica area, nella periferia Nord Ovest. Come una città nella città. In grado di ospitare migliaia di pazienti con i loro parenti. Oltre 1400 posti letto, un centinaio in più di quelli attualmente disponibili, 220.000 metri quadri di superficie lorda di pavimento per le funzioni di ricerca e cura.

Di cui 180mila per la degenza, diagnosi e cura, ricerca e didattica e 40mila per le attività ricreative e compatibili. Altri 70mila metri quadri saranno destinati alle funzioni accessorie. Un progetto che basa i suoi fondamenti sul cambiamento di paradigma della medicina contemporanea. La valorizzazione delle «eccellenze» già presenti nei settori dell’oncologia, neurologia e infettivologia, attraverso la creazione di alcune aree comuni di lavoro. Prevista l’istituzione di un sistema unico integrato di contenuti medico scientifici e la creazione di un terzo polo universitario. Un approccio del tutto nuovo al tema della salute. «La Città della Salute è innovativa perché integra molte componenti diverse. La cura è strettamente connessa con la ricerca e progredisce giorno per giorno sul campo. Inoltre, la presenza dell’università e di un sistema didattico offre la possibilità ai giovani e ai ricercatori di essere formati sugli standard più elevati. Il progetto prevede quattro grandi rami, cui corrispondono quattro funzioni: sanitaria, complementare, infrastrutturale e ambientale».

postilla (lunghetta ma quanno ce vo’, ce vo’)

Il parallelo col Centro Ricerche Biomediche Avanzate del professor Veronesi (professore in Oncologia, Fisica nucleare e Urbanistica, of course ) appare più che mai adeguato nel caso specifico di questa trovata umanitaria della Città della Salute: in entrambi i casi si usa la leva della ricerca, della medicina, del progresso umano in generale, per fare esattamente il contrario. Ovvero, indipendentemente da quanto accadrà poi dentro i padiglioni delle nuove strutture, peggiorare, e di parecchio, l’ambiente complessivo della città dove per adesso si svolge ancora la maggior parte della nostra vita. E che quindi dovrebbe essere qualcosa di più di una specie di tabula rasa da riempire di metri cubi scientificamente eccellenti.

Col Cerba la nuova Cisal condivide il fatto di colmare un’area verde di interposizione fra zone edificate, e qui si potrebbe osservare nello specifico che forse (molto forse) la situazione è diversa da quella di vera e propria greenbelt metropolitana delle aree umanitariamente regalate a Veronesi dal filantropo Ligresti. Ma guardiamo un po’ meglio dal solito osservatorio GoogleEarth questa fettina di metropoli nord-occidentale, perfettamente allineata sull’asse di sviluppo del Documento di Inquadramento delle Politiche Urbanistiche Comunali.

All’estremo ovest i padiglioni della Fiera, attorno ai quali si sta completando la colmata stradale e edilizia gestita per anni dal medesimo Luigi Roth che ora vuole gettare le basi della medicina molecolare. Spostandosi a est, praticamente senza soluzione di continuità, si entra nel leggendario territorio delle aree Expo, per ora piene solo di tragicomici scontri di potere fra tutto e tutti, ma sappiamo tutti cosa ci si aspetta, in fondo, da quel “vuoto”. Di nuovo un salterello a est, appena oltre la biforcazione fra le due autostrade A4 e Autolaghi con lo svincolo Certosa, ed ecco i vecchi padiglioni dell’Ospedale Sacco, con lo spazio “vuoto” allineato sul tracciato dell’A4 di fronte al quartiere di Quarto Oggiaro.

Si aggiunga, volendo esagerare, che il garrulo assessore meneghino e ciellino Masseroli, per la fascia appena a sud dello svincolo Certosa, vantava pochissimi giorni fa previsioni in grado di farne un nuovo “Canary Wharf” con cubature da mettere i brividi a mezza Europa.

Come osserverebbe il vecchio Peppino De Filippo: …. E ho detto tutto!!

Anzi forse no, perché qualcosa di fondamentale l’ha già detta anche il presidente medico-molecolare Roth: la Città della Salute “integra molte funzioni diverse ”. Appunto. Per non dire dei fantastici “vuoti” che il previsto trasferimento di attività e personale aprirà altrove … ad libitum (f.b.)



Sul Cerbasi veda l’articolo scritto a suo tempo, Su come la medicina urbana nei paesi civili abbia approcci appunto un po’ più civili, si veda invece questo articolo dal Baltimore Sunriportato su Mall

14 ottobre

Stop a Veneto City e Quadrante

di Alberto Vitucci

Stop a Veneto city e al Quadrante di Tessera. «Numero chiuso» per le barche in laguna e limiti rigidi alle nuove darsene. Parere negativo a «ulteriori insediamenti» soprattutto nelle aree a rischio di allagamento. Un parere che potrebbe modificare l’intera politica urbanistica regionale, quello votato all’unanimità dalla Salvaguardia.

Tre pagine di prescrizioni votate all’unanimità al Piano territoriale di coordinamento provinciale (Ptcp) che ne modificano l’impianto e andranno ora all’esame della commissione Urbanistica regionale con il parere favorevole delle Soprintendenze. Le prescrizioni votate sono 23. Tra le più importanti le indicazioni sui nuovi insediamenti produttivi. Viene vietata «l’urbanizzazione e l’edificazione di aree a grave rischio di allagamento», con l’invito ad approvare in fretta il Piano di Assetto idrogeologico (Pat). Dovrà anche essere «contenuto al massimo» l’ulteriore consumo di suolo, e lo svuotamento dei centri abitati per il decentramento delle funzioni. Priorità assoluta va data alle aree dismesse, «in particolare Porto Marghera attivando bonifiche e riusi compatibili».

Un secco «no» anche per il Quadrante, lo sviluppo immobiliare della cosiddetta «Tessera city», Piano approvato dalle giunte Galan e Cacciari che prevede un milione di metri cubi di nuovi edifici commerciali in gronda lagunare. Aree secondo i tecnici «ad alto rischio allagamento». «Nel polo produttivo di rilievo metropolitano regionale», si legge al punto 15, «venga prescrittivamente vietata la previsione negli strumenti urbanistici di nuove aree insediative, utilizzando le ampie aree disponibili negli ambiti aeroportuale e dell’Aev di Dese, già previste nel Piano regolatore vigente».

Uno stop arriva anche alla costruzione di nuove strade. Si potrebbe dimezzare il traffico dei pendolari e rendere più sicura la circolazione sulla Romea, scrive la Salvaguardia, completando ad esempio la linea ferroviaria regionale (Sfmr) per Chioggia e il tratto da Piove di Sacco a Chioggia. Infine un invito a «riconsiderare la scelta di nuove infrastrutture stradali lungo l’asse a sud del Naviglio Brenta». Prevedendo invece nuove fermate dell’Sfmr a Chirignago, Dese e Pili.

Il Piano della Provincia - testo approvato dalla giunta Zoggia poi in parte rivisto dalla giunta Zaccariotto - è stato pesantemente emendato anche nei primi articoli che riguardano la laguna. Le prescrizioni parlano di vietare il transito sui bassi fondali lagunari dei lancioni Gran Turismo e delle imbarcazioni con larghezza superiore a due metri e 30. Ma soprattutto viene istituita una «soglia limite del massimo numero di posti di ormeggio per barche compatibile con la tutela della laguna. Dovrà anche venire esclusa dal Polo nautico «l’ambito prospiciente il mare al Lido e Murano». Gli accessi e le darsene della gronda lagunare interna - verso la terraferma - dovranno essere riservati alle tipiche imbarcazioni lagunari. Dovrà essere infine recuperato, si legge nel dispositivo finale votato dalla commissione, il Palav, Piano di area della laguna veneta. Strumento urbanistico spesso ignorato, di cui qualcuno chiedeva l’abolizione perché «troppo restrittivo» nella tutela della laguna. Quanto alla Tav, la Salvaguardia boccia l’ipotesi del passaggio sotto i fiumi e il parco invitando a considerare le altre due ipotesi previste dal Piano regionale dei Trasporti: i Bivi o l’asse ferroviario Venezia Trieste.

15 ottobre

Dopo Quadrante di Tessera e Veneto City, nel mirino la linea su cui Zaia e Tondo si sono accordati a Trieste

La Salvaguardia: anche la Tav va bloccata

Un altro altolà, questa volta per il tracciato «balneare» dell’Alta Velocità

VENEZIA. L’Alta Velocità corre su un binario vietato. L’accordo ieri tra i presidenti di Veneto e Friuli per il tracciato «balneare» della Tav è in rotta di collisione con il parere espresso proprio nelle stesse ore dalla Commissione di Salvaguardia. Organo previsto dalla Legge Speciale - e presieduto dal presidente della Regione Luca Zaia - che in molti vorrebbero abolire. Ma che ha sfornato pareri a volte contestati ma sempre rispettati dalla Regione.

Stavolta il documento sfornato dalla commissione e approvato al’unanimità non lascia spazio a interpretazioni. Si tratta di 23 prescrizioni tassative per l’entrata in vigore del Ptcp, il Piano territoriale di coordinamento provinciale approvato dalla Provincia. Una sorta di grande Piano regolatore del territorio e dei suoi usi futuri. Al punto 22, dove si parla di Tav, l’indicazione non lascia spazio a interpretazioni diverse. «Va stralciata», si legge nel documento finale, «l’ipotesi di tracciato ferroviario Alta Capacità-Alta Velocità lungo il margine della gronda lagunare, fascia di altissima fragilità e vulnerabilità ambientale e paesaggistica tutelata dal Palav». Nel territorio della provincia di Venezia, dunque, quel tracciato non si deve fare. Mentre vanno valutate «le altre due ipotesi della proposta del Piano regionale dei Trasporti del 2004, come il percorso ferroviario dei Bivi o preferibilmente con fermata passante interna, lungo la linea ferroviaria venezia-Trieste. Un sasso lanciato nel mare delle alleanze in Regione. Già la settimana prossima, in commissione Urbanistica, il documento sarà esaminato dalle forze politiche. Le opinioni sono molto diverse, anche all’interno della stessa maggioranza Pdl-Lega, dove non tutti vedono con favore il tracciato che potrebbe portare problemi al veneto Orientale. «Un errore», dice senza mezzi termini la segretaria regionale del Pd Rosanna Filippin. Il presidente del Porto Paolo Costa plaude, il governatore Zaia si dice favorevole a una stazione che serva tutte le spiagge. Quanto al tracciato che molti sindaci non vogliono, Zaia promette che «ci sarà un confronto con gli enti locali, ma che l’opera si dovrà fare». Resta da vedere, appunto, quale sia il tracciato migliore. Secondo la Salvaguardia, una volta tanto unanime, quello di gronda è un percorso che potrebbe produrre «danni ambientali». A votare il testo esponenti di aree politiche e tecniche molto diverse. «Forse perché l’elaborazione è stata fatta in positivo, proponendo soluzioni», spiega Stefano Boato, docente Iuav, ambientalista storico rappresentante in Salvaguardia del ministero per l’Ambiente, «si indica come riqualifcare il territorio con interventi per uno sviluppo compatibile. Evitando il consumo di suolo e nuove strade inutili».

Un parere destinato a tener banco nell’agenda politica delle prossime settimane. Anche perché - fanno notare i tecnici - le prescrizioni per le future opere che interesseranno il territorio della provincia veneziana sono state approvate con il voto favorevole delle Soprintendenze. Più difficile sarà dunque presentare progetti di segno diverso, sapendo quali siano le linee di tendenze degli organi di tutela del ministero dei Beni culturali. Oltre al «no» all’attuale tracciato della Tav la Salvaguardia ha anche invitato la Regione a fare presto per il completamento dell’Sfmr, la ferrovia metropolitana regionale, istituendo le nuove linee per Chioggia e Piove di Sacco.

15 ottobre

Riviera divisa sull’alt a Veneto City

di Filippo De Gaspari

DOLO. «Veneto City a rischio idraulico? Non se il progetto terrà conto di opere anti-allagamento». L’altolà della Salvaguardia, che rileva rischi di tipo idrogeologico nell’area interessata dal mega insediamento, non preoccupa i sindaci di Riviera e Miranese, che anzi provano a capovolgere la questione: e se invece li risolvesse? Da Dolo il sindaco Maddalena Gottardo sposa anche in questo caso la tesi dell’opportunità. «Quelle degli allagamenti sono questioni che hanno già superato l’ostacolo della Valutazione ambientale strategica - afferma - è chiaro che Veneto City non arriverà senza opere idrauliche contestuali in grado di migliorare la tenuta del territorio. Credo anzi che da questo punto di vista il polo potrebbe portare dei vantaggi, con nuove opere in grado di salvare il paese dall’acqua. Personalmente mi preoccupano più gli aspetti legati alla viabilità». Anche per il sindaco di Pianiga Massimo Calzavara il pronunciamento della Salvaguardia non mette in discussione il progetto. «Anche se - precisa - il nostro parere resta vincolato a quello degli enti tecnici. Se ci dicono che tutto è in regola bene, altrimenti faremo i nostri approfondimenti. Resto convito che Veneto City possa essere un’opportunità per Pianiga, ma deve avere le carte in regola, con l’ok di tutti gli enti interessati. Personalmente mantengo alcune perplessità, ma se i miei dubbi venissero fugati sono pronto a firmare anche tra 10 giorni». A Mirano il sindaco Roberto Cappelletto si chiama ancora una volta fuori dalla questione. «La nostra posizione non cambia - afferma - Veneto City è un affare che non ci riguarda se non per le implicazioni viabilistiche che potrebbe avere per il nostro territorio. Su questo aspetto erigeremo una muraglia cinese per non essere invasi dal traffico, ma il pronunciamento della Salvaguardia non cambia di una virgola la nostra posizione, perché non ci sarà un metro quadrato di Veneto City nel nostro comune». Soddisfatti del parere unanime dei tecnici della Salvaguardia, manco a dirlo, sono invece i Comitati ambiente e territorio: «E’ un’uscita positiva che riconosce ragioni che portiamo avanti da anni - spiega il rappresentante Mattia Donadel - e stavolta è un pronunciamento che pesa, perché fatto da esperti. Resta da capire ora quanto ne terrà conto la Regione e in questo, purtroppo, i dubbi non ci mancano».

15 ottobre

E per Tessera City servono altre aree

di Alberto Vitucci

VENEZIA. «Stop a nuovi insediamenti, soprattutto nelle aree a rischio allagamenti». Anche sul fronte dei grandi progetti e del futuro sviluppo edilizio del territorio la commissione di Salvaguardia ha dato, approvando con rigide prescrizioni il nuovo Piano provinciale, indicazioni molto precise. Si entra anche nel merito dei contestati megaprogetti come Veneto city e Tessera city, nuove volumetrie in gronda lagunare per oltre un milione di metri cubi. Progetti già approvati dalle giunte Cacciari e Galan, adesso in fase di attesa delle autorizzazioni. Una strada che si fa più stretta, visti i vincoli imposti dalla Salvaguardia. Per il Quadrante di Tessera e il centro produttivo di Dolo-Arino (Veneto city), si prescrive di trovare altre aree disponibili. A cominciare dalle aree di Marghera, che andranno presto bonificate, e dall’Aev di Dese, già previste nel Prg vigente. Stop insomma al nuovo «consumo di territorio» che tanti disastri ambientali ha provocato negli ultimi decenni, con la moodifica del paesaggio per costruire capannoni ora in gran parte dismessi. Una speculazione che spesso più che favorire le aziende ha puntato sul costruire nuove edificazioni. Ora si cambia, e se le amministrazioni si adegueranno, come prevede la norma, alle indicazioni della Salvaguardia si punterà adesso sulla valorizzazione delle aree industriali dismesse. Un parere che stronca anche la possibilità di megadarsene alle bocche di porto e di trasformazione delle cavane in gronda lagunare, che andranno riservate a imbarcazioni tipiche.

Postilla

Le due pesanti urbanizzazioni erano state promosse l’una (Veneto City, nell’area della Riviera del Brenta) da un gruppo di “capitani coraggiosi” dell’immobiliaristica e l’altra (Quadrante Tessera, in margine alla Laguna e all’aeroporto) dai proprietari della società che gestisce l’aeroporto, dal Casino di Venezia e da un gruppo di finanziatori privati, ed era stato pesantemente sostenuto da Giancarlo Galan e Massimo Cacciari quando erano, rispettivamente, presidente del Veneto e sindaco di Venezia. Entrambe le proposte erano state riprese nel Piano territoriale regionale di coordinamento. Contro di esse erano state avanzate argomentate proteste dalle associazioni e dai comitati confluiti nella rete AltroVE (Rete per un altro Veneto), anche con la presentazione di osservazioni formali ai piani suddetti.

Il parere della Commissione di salvaguardia (un organo interistituzionale istituito dalla legge speciale per Venezia del 1973) esprime rigidissime prescrizioni per numerose altre previsioni devastanti, in particolare opere connesse alla realizzazione del MoSE e delle infrastrutture. Sebbene non sia vincolante ope legis , lo è certamente per l’essere stato approvato all'unanimità dai rappresentanti di istituzioni della Repubblica (ministeri, regione, provincia, comuni) e di organismi tecnici dello Stato.

Pubblicheremo appena possibile il documento integrale, o una descrizione completa del suo contenuto.

la Repubblica ed.nazionale

Milano 2015, odissea nell’Expo viaggio nel grande sacco dei privati

di Alessia Gallione, Andrea Montanari

MILANO - La foto di gruppo è quella del 31 marzo del 2008 e Letizia Moratti la conserva ancora nel suo ufficio a Palazzo Marino. Tutti sorridenti, in quell’istantanea che immortala la vittoria di "squadra" bipartisan di Milano sulla rivale Smirne: il sindaco, Roberto Formigoni, l’allora presidente della Provincia del Pd Filippo Penati, il premier Romano Prodi. Un’era geologica fa. Perché da allora sono passati 927 giorni. Il "grande evento" del 2015 aspetta ancora di partire e dopo mesi di scontri e impasse, soltanto ieri è stato sciolto quello che avrebbe dovuto essere il primo dei nodi: la disponibilità dei terreni (privati) su cui sorgeranno i padiglioni di Expo. Un accordo in extremis raggiunto a cinque giorni dall’esame – martedì 19 – di fronte al Bureau International di Parigi, che aveva dettato un ultimatum in vista della registrazione ufficiale. Ma a cui tutti, a cominciare dai protagonisti del centrodestra, sono arrivati divisi.

La strada è segnata: i proprietari di quei terreni, Fondazione Fiera e gruppo Cabassi, hanno risposto positivamente alla richiesta della Moratti che, per presentarsi con qualcosa in mano a Parigi aveva chiesto «l’immediata e incondizionata disponibilità delle aree». «Un accordo un po’ sofferto, ma sulla scelta più idonea – ha commentato il presidente di Fondazione Fiera Gianpiero Cantoni – Non siamo né speculatori né interessati a operare se non in grandissima trasparenza».

Ma in quel gran gioco dell’oca che è diventato Expo, siamo tornati alla casella di partenza: il destino di quel milione di metri quadrati alla periferia Nord-Ovest della città era già stato scritto nel 2007. Un pezzo di niente, sulla carta terra agricola o con destinazioni industriali o artigianali, su cui caleranno però investimenti pubblici per più di un miliardo (oltre ai 10 per strade e metropolitane) rendendo appetibile quel triangolo stretto tra autostrade e ferrovie. È allora che fu abbozzato con Fondazione Fiera (proprietaria di 520mila metri quadrati) e il gruppo Cabassi (260mila) l’accordo finalmente approvato ieri: un comodato d’uso con diritto di superficie. Con la possibilità di costruire, 18 mesi dopo l’Expo, oltre 400mila metri quadrati di nuove case, uffici e negozi concentrati su metà dell’area (340mila metri quadrati), mentre l’altra metà resterà pubblica. L’indice di edificabilità è dello 0,52, in realtà raddoppia visto che si dovranno concentrare le volumetrie, facendo nascere palazzi da 14-18 piani. Un nuovo quartiere da 15mila abitanti, accusa il centrosinistra, un’operazione immobiliare da 400 milioni di euro.

Un tesoro conteso fino all’ultimo, perché è attorno a quelle plusvalenze che si è giocata la partita. Nonostante i privati siano chiamati oggi a pagare, oltre agli oneri di urbanizzazione, anche parte delle infrastrutture: il modo per garantire l’interesse pubblico. Attacca Penati: «Quello della Moratti è un regalo ai privati. La partita dell’Expo è politica ed è tutta giocata nel Pdl». Stefano Boeri, candidato sindaco alle primarie di centrosinistra, è uno degli architetti che ha disegnato il progetto del 2015: campi da coltivare con tutti i sapori del mondo al posto dei tradizionali padiglioni. Un orto planetario che questo accordo «sbagliato», dice, cancellerà con «una colata di cemento». Secondo i suoi calcoli, tra opere Expo e residenze future si arriverà a oltre 700mila metri quadrati: l’equivalente di 25 Pirelloni.

L’evento che avrebbe dovuto rilanciare la Capitale del Nord, finora è stato soltanto il palcoscenico di uno scontro di potere interno al centrodestra, per stabilire chi gestirà le leve di comando e i futuri appalti e cantieri. È così che se ne sono andati 927 giorni. In un braccio di ferro tra Letizia Moratti, il sindaco-commissario a cui il governo ha appena affidato altri poteri da "Bertolaso del Nord" per velocizzare i lavori a colpi di deroghe, e Roberto Formigoni, il governatore del "ventennio" di dominazione in Lombardia. Una battaglia di personalismi, una contesa tra l’anima laica del Pdl e quella cattolico-ciellina. Non a caso l’area scelta per i futuri padiglioni sorge vicino al nuovo polo fieristico di Rho-Pero e, per la maggior parte, è in mano alla Fiera, feudo ciellino e formigoniano fino all’avvento alla presidenza di Cantoni, fedelissimo del Cavaliere.

Gli ultimi mesi sono stati contrassegnati dall’indecisionismo del sindaco, che ha sempre propugnato la scelta del comodato d’uso con i privati, e dai veti del presidente della Regione che ha difeso fino all’ultimo la strada di una "newco" pubblica per acquistare i terreni. A comprare le aree ci aveva provato anche la società di gestione guidata allora da Lucio Stanca, l’ex ministro chiamato da Berlusconi alla guida: l’offerta arrivò a 180 milioni, ma finì in nulla. Formigoni iniziò così la sua partita a scacchi deflagrata in uno scontro aperto tra istituzioni: lo scorso luglio il Pirellone propose di comprare il milione di metri quadrati.

Per il governatore, che è arrivato a ventilare l’ipotesi dell’esproprio, era la via migliore e più trasparente per garantire «l’interesse pubblico». Per i detrattori, una mossa per mettere le mani su Expo tagliando fuori l’alleata-nemica Moratti e gestire attraverso Infrastrutture lombarde – il braccio operativo di Regione Lombardia – i lavori. Non solo. Chi possederà le aree deciderà anche cosa vi sorgerà. Per ora, in mano pubblica rimarrà un parco tematico che ruoterà attorno alle serre con tutte le colture del mondo, un auditorium, le case del villaggio Expo e tre padiglioni destinati al centro di produzione Rai. Ma il resto è tutto da inventare e anche qui il mondo dell’edilizia milanese vorrà pesare. Chi si contenderà quei lavori? E poi ci sono gli interessi di chi, oggi, non è della partita, come Salvatore Ligresti (che pure possiede gran parte di un’area dismessa non lontana dal sito Expo, che il Comune ha in programma di trasformare in una nuova Défence), ma che osserva con aria nient’affatto disinteressata quel che accade intorno a Rho-Pero. Nella peggiore delle ipotesi, perché sul mercato asfittico di questi anni si riverseranno altre migliaia di metri quadrati costruiti e da vendere, e la concorrenza dà sempre fastidio. Nella migliore, l’affare sarà così grande che forse anche gli esclusi di oggi troveranno un posto a tavola.

Corriere della Sera ed. Milano

Expo, via libera dei privati

di Elisabetta Soglio



Arriva in extremis, ma arriva. Fondazione Fiera e gruppo Cabassi hanno ieri scritto al sindaco commissario di Expo dichiarando la «disponibilità immediata e incondizionata» dei terreni che ospiteranno l’evento del 2015. La notizia verrà portata al Bie martedì prossimo. Restano da decidere, però, le modalità dell’accordo fra privati e soci pubblici sia per le spese di infrastrutturazione dell’area, sia per i criteri di edificabilità che verranno concessi. Dall’opposizione piovono critiche: «Ci opporremo a questa colata di cemento regalata ai privati». I terreni ci sono e lamacchina di Expo ricomincia a muoversi. Il consiglio generale della Fondazione Fiera, presieduto dal professor Gianpiero Cantoni, ha deliberato ieri «la messa a disposizione incondizionata, con decorrenza immediata e sino al diciottesimo mese successivo alla fine dell’evento» delle aree che ospiteranno Expo 2015. Anche il gruppo Cabassi, proprietario del 30 per cento degli spazi di Rho-Pero su cui sorgerà l’esposizione, ha scritto al sindaco-commissario garantendo la disponibilità chiesta.

Una precondizione indispensabile per poter continuare il cammino verso la registrazione del dossier italiano, che il Bie dovrebbe firmare il 23 novembre. Ma per martedì prossimo, 19 ottobre, è previsto l’incontro con il comitato direttivo del Bureau, al quale la Moratti e l’amministratore delegato della società Giuseppe Sala dovranno portare la garanzia dei terreni rimasta fino ad oggi in sospeso.

Il sospirato via libera, comunque, non risolve tutti i problemi: nel senso che, dal 20 ottobre, i soci pubblici dovranno tornare a discutere con quelli privati delle condizioni del comodato d’uso. I Cabassi e la Fondazione Fiera lasciano intendere che chiederanno il rispetto dell’accordo di programma sottoscritto dalle istituzioni nel 2007 e riconfermato nel settembre scorso. Questo, per quanto attieneagli indici di edificabilità: in realtà, tutto il discorso potrebbe essere rivisto dai consigli comunale, provinciale e regionale che dovranno ancora approvare la delibera.

Altra questione è quella della partecipazione dei privati alle spese di infrastrutturazione. Come chiesto dalla Regione, su indicazione dei pareri legali presentati dal Governatore Roberto Formigoni al sindaco commissario, oltre agli oneri di urbanizzazione Fondazione Fiera e Cabassi dovranno partecipare alle spese di infrastrutturazione dell’area. Pagando quanto, è tutto da decidere.

Per ora ci si accontenta del passo avanti comunque decisivo. Cantoni ha ammesso che «è stato un accordo un po’ sofferto», ma che quella scelta è parsa «la soluzione più idonea, perchè garantisce contemporaneamente l'interesse pubblico complessivo di tutti gli attori istituzionali coinvolti e evita un impatto negativo sul patrimonio e sul conto economico della Fondazione». Ripercorrendo le varie ipotesi prese in esame per la proprietà delle aree (l’esproprio, la costituzione di una newco e il comodato) il senatore Cantoni ha ribadito la preferenza per il comodato malgrado il presidente Formigoni abbia sostenuto la via della newco. Ma non ci sono dissidi: «Abbiamo concordato le linee con la Regione», puntualizza il presidente.

Nessun commento, fin qui, da Regione e Comune, anche se i vertici istituzionali sono soddisfatti perché comunque «ora abbiamo le carte in regola». Già oggi Formigoni e Moratti avranno un incontro privato per fare il punto della situazione, alla luce dei documenti nel frattempo esaminati. Arrivano invece le critiche del centrosinistra. Apre le danze l’architetto Stefano Boeri, che aveva realizzato il masterplan di Expo. «Quella del comodato— attacca— è una scelta profondamente sbagliata, che oltretutto seppellisce sotto una montagna di cemento il progetto di un orto botanico planetario per l'Expo 2015». Critico anche l’altro candidato, Giuliano Pisapia, che punta il dito contro Moratti e Formigoni: «Sarà vostra responsabilità non trasformare l’Expo in un affare d’oro per i soliti noti».

Dichiara guerra il capogruppo pd Pierfrancesco Majorino: «Andiamo verso una possibile cementificazione selvaggia dell’area Expo dopo il 2015. In consiglio ci opporremo all’ipotesi di una quartiere di lusso pagato dai contribuenti».

la Repubblica ed. Milano

"Addio orto planetario sull’area tanto cemento come per 25 Pirelloni"

Intervista a Stefano Boeri, di Alessia Gallione

«Questo accordo è la pietra tombale sull’idea di orto planetario presentato al Bie. Expo è stata usato come grimaldello per regalare migliaia di metri quadrati ai privati». Quel progetto di un’Esposizione leggera e verde, Stefano Boeri l’ha seguito fino a quando ha lasciato la Consulta architettonica per candidarsi alle primarie. Ed è «dall’eredità tradita», che parte l’accusa.

Dopo 927 giorni, siamo tornati alla scelta iniziale: il comodato d’uso.

«È umiliante che dopo più di due anni si sia arrivati a una soluzione che per certi aspetti peggiora l’accordo di programma presentato all’atto della candidatura».

Perché parla di scelta peggiore?

«Se nell’accordo iniziale era prevista un’edificazione sul sito di 580mila metri quadrati, la variante attuale in attesa di essere presentata in consiglio comunale consentirà ben 740mila metri quadrati di costruzioni, l’equivalente di 25 Pirelloni. Con buona pace dell’orto botanico e dell’idea di una grande area agricola di sperimentazione e di ricerca».

Secondo Moratti, però, Expo lascerà un grande parco su metà dell’area. Non basta a salvaguardare l’orto globale?

«Dai miei calcoli, dopo il 2015 i privati potranno costruire 505mila metri quadrati. A questi ne vanno aggiunti i 230mila che Expo realizzerà. E in questa quota sono compresi le serre, il villaggio, ma anche 80mila metri quadrati di una non ben chiarita sede Rai. In totale è l’equivalente di un quartiere come la Bicocca concentrato su un territorio più piccolo. Si tratta, nonostante la partecipazione dei privati ai costi delle infrastrutture, di un’indebita valorizzazione di un terreno privato prodotta grazie a investimenti pubblici».

La proposta della Newco avrebbe tutelato di più il pubblico?

«La linea di Formigoni era più seria e trasparente, ma non si misurava comunque con il problema di fondo: è profondamente sbagliato realizzare un grande investimento pubblico su aree private senza averle prima espropriate o avere chiarito che nessun vantaggio derivante da quegli investimenti favorirà i proprietari. Oggi quelle aree non valgono più di 10 milioni. Mi risulta che per l’acquisto si sia arrivati a offrirne fino a 180».

Chi ritiene che sia giusto costruire un nuovo quartiere lo fa sostenendo che così si farà vivere la zona.

«La nostra idea di orto botanico, oltre che dalla necessità di creare un paesaggio attrattivo e inedito, nasceva dalla volontà di non dare vantaggi ai proprietari privati e di valorizzare un terreno mantenendo la sua natura di grande spazio verde, permeabile e coltivabile. Oltre alle serre sarebbero rimasti l’auditorium e il villaggio. Il viale centrale si sarebbe potuto trasformare in un boulevard dell’alimentazione e della ristorazione italiana e con la Fiera si sarebbe potuta organizzare una grande esposizione dedicata al tema».

Quando ha iniziato a lavorare al progetto, però, l’accordo era quello. Perché non ha denunciato allora questi pericoli?

«I membri della Consulta avevano manifestato una totale contrarietà all’accordo di programma, ma avevamo avuto rassicurazioni sul fatto che i terreni di Rho-Pero sarebbero stati acquisiti o gestiti come pubblici. La verità è che, dopo il nostro progetto, non è stato fatto nulla per ridurre le premesse e promesse fatte ai privati».

Jacques Herzog ha espresso preoccupazione per la necessità di affrontare subito i contenuti. La condivide?

«Condivido pienamente la posizione di Herzog e il suo richiamo al coinvolgimento di Carlo Petrini, una delle anime del progetto. Bisognava partire subito anche con la valorizzazione delle cascine e di un’Expo diffusa. Ma si è fatto poco anche da questo punto di vista».

Expo può ancora essere un successo?

«Sono profondamente amareggiato da questa vicenda, ma la speranza è che si riesca a superare questo momento. Per questo faccio un appello alla città, a cominciare dai nostri governanti. Bisogna ridurre drasticamente le aspettative dei privati, valorizzate l’investimento pubblico sull’orto, che deve essere considerato come l’unica eredità possibile, e misurare su questo il valore del terreno. Se non si riesce spostiamo subito il progetto all’Ortomercato: è un’area pubblica e può ospitare lo stesso progetto con costi minori e procedure corrette e veloci».

Milano. Speculatori a chi? Marco e Matteo Cabassi da mesi hanno l'aria di prendersela a morte con chi li accusa di voler cavalcare l'occasione dell’Expo per fare un sacco di soldi a spese delle casse pubbliche. Ma adesso che, dopo mesi di ricatti e dispetti tra i politici di centrodestra, l'incredibile vicenda dell'esposizione universale del 2015 sembra giunta a una svolta decisiva, i due fratelli immobiliaristi, tra i più grandi operatori nazionali, si trovano in una posizione a dir poco imbarazzante.

La lettera siglata dal sindaco di Milano Letizia Moratti chiede “l’incondizionata e immediata disponibilità” delle aree a nord della città dove sorgeranno, almeno secondo i programmi di partenza, i padiglioni dell’Expo 2015. In sintesi significa che i Cabassi dovranno cedere gratis (in comodato) i loro terreni (260 mila metri quadrati) per poi vederseli restituire a esposizione conclusa con il diritto di costruire su metà di quelle aree. La risposta alla richiesta della Moratti, concordata con il governatore della Lombardia Roberto Formigoni e il presidente della provincia di Milano Guido Podestà (che però non l’hanno firmata), dovrà arrivare entro dopodomani, giovedì. Solo che, qualunque sia la loro replica, i Cabassi rischiano di perdere la partita. Se dicono no al sindaco, faranno la figura di quelli che boicottano un grande progetto descritto come la panacea di tutti i mali della metropoli lombarda.

E, peggio ancora, rischiano di vedersi espropriare le aree a prezzi di saldo. Se invece cedono al diktat del sindaco si imbarcano in un'operazione immobiliare dai ritorni incerti e comunque proiettati in futuro indeterminato. In più saranno anche chiamati sborsare subito alcune decine di milioni (la somma esatta non è chiara) a titolo di “contributi per infrastrutture”. Gli avvocati sono al lavoro. E di qui a giovedì non sono escluse nuove clamorose sorprese. Tra l'altro in gioco ci sono anche i terreni (circa 500 mila metri quadrati) controllati dalla Fondazione Fiera di Milano. Quest'ultima fa capo alla regioneLombardia, ma è presieduta dal berlusconiano Giampiero Cantoni, in rapporti non proprio idilliaci con il governatore Formigoni. Quanto basta per rendere ancora più incerto il risultato finale.

Sta di fatto che i Cabassi al momento non sanno bene che pesci pigliare. La grana dell’Expo è arrivata in una fase molto delicata per il gruppo che hanno ereditato da Giuseppe Cabassi, soprannominato il sabiunatt, uno dei protagonisti della Milano del mattone e della Borsa negli anni Settanta e Ottanta. La crisi partita alla fine del 2007 ha picchiato duro sugli imprenditori immobiliari. I Cabassi, meno indebitati dei concorrenti, sono fin qui riusciti a limitare i danni, ma, Expo a parte, i prossimi mesi sono decisivi. Il progetto di gran lunga più impegnativo, quello del nuovo quartiere Milanofiori (a sud della città sull'autostrada per Genova), è stato completato solo in parte. E il lotto già costruito, cioè 120 mila metri quadrati su 210 mila, non è ancora del tutto piazzato. La parte residenzialeper esempio, (12 mila metri quadrati) è stata venduta per il 30 per cento. La scommessa è riuscire a trovare compratori senza fare sconti troppo elevati rispetto ai 3.500 euro al metro quadro previsti inizialmente. I Cabassi si dicono fiduciosi. A dicembre, con cinque anni di ritardo rispetto alle previsioni, è prevista l'inaugurazione della fermata della metropolitana del nuovo quartiere. E questo almeno in teoria dovrebbe favorire le vendite.

Intanto però i debiti crescono. La posizione finanziaria netta del gruppo che fa capo alla holding Raggio di Luna (controllata dai Cabassi) alla fine del 2009 era negativa per 350 milioni di euro, quasi il doppio rispetto ai 177 milioni del 2007, prima che esplodesse la crisi mondiale del mattone. Anche la Brioschi quotata in Borsa, a cui fa capo l’operazione Milano-fiori, ha visto aumentare il peso dei debiti, che a giugno 2010 erano 261 milioni contro i 217 milioni di fine 2009. Non per niente nei mesi scorsi i Cabassi sono tornati al tavolo delle trattative con le banche per riformulare le condizioni dei prestiti, di cui è stata allungata la scadenza con garanzie supplementari.

Bilanci alla mano, la situazione non è da allarme rosso. La questione Expo però potrebbe rivelarsi decisiva per il futuro. Sul piano dei numeri, ma soprattutto per quanto riguarda i rapporti con la politica. Va detto che di recente i Cabassi hanno avuto modo di farsi apprezzare dalla famiglia Berlusconi comprando per 40 milioni l'area della Cascinazza a Monza. Su quei terreni è in corso da tempo una battaglia per una mega speculazione. Paolo Berlusconi, il fratello del premier, si è sfilato vendendo ai Cabassi, che hanno promesso altri 50 milioni in caso di via libera alla costruzione. Artefice della soluzione il neo ministro Paolo Romani, assessore a Monza. Un affare targato Pdl. Con tanto di lieto fine. Con l'Expo doveva arrivare il bis. Ma le liti nel centro-destra hanno mandato tutto a monte.

Poco più di dieci anni fa, nel 1998, Risorse per Roma - braccio operativo del comune di Roma potenziato nel periodo in cui era sindaco Francesco Rutelli al fine di perseguire ogni spregiudicata avventura immobiliare - fu reso pubblico un documento sul futuro del Mattatoio che aveva al primo posto la «valorizzazione immobiliare» tanto cara ai giorni nostri a Tremonti e Berlusconi.

Si ipotizzò di vendere quello straordinario compendio urbanistico per fare cassa. La Camera del lavoro della Cgil del centro storico aveva per segretario Antonio Castronovi e fu grazie alla mobilitazione del sindacato che fu in primo luogo scongiurata la vendita e poi, intorno al presidio della terza Università di Roma, riprese vigore una visione pubblica dello sviluppo dell'area che portò anche alla apertura della Città dell'Altra Economia, e cioè alla preziosa esperienza di sperimentazione di un nuovo modello di sviluppo economico e urbano.

Oggi questa esperienza è a rischio di cancellazione da parte del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, insofferente che potesse perdurare una voce fuori dal coro. Forse dietro questo accanimento ci sono le stesse pressioni speculative di dieci anni fa, rese ancor più fameliche dall'aprirsi della stagione della grande svendita del patrimonio immobiliare pubblico. Ma l'atto scellerato del sindaco di non rinnovare il contratto al consorzio che gestisce l'area non sarebbe potuto avvenire se ci fosse stata intorno all'esperienza di Testaccio una rete forte e convinta di esperienze urbane.

Ha dunque profondamente ragione Giulio Marcon (il manifesto del 2 ottobre) a riportare la ricerca delle cause di questa ancora evitabile sconfitta all'interno della nostra cultura e tentare così di superare timidezze e reticenze che non hanno permesso all'esperienza dell'Altra Economia di mettere radici ancora più profonde e collocarsi irreversibilmente nel panorama economico e sociale della città. Alla base delle debolezze c'è sicuramente una esasperata frammentazione delle esperienze e la loro scarsa attitudine a divenire rete. Marcon ci sollecita però di andare oltre a queste motivazioni soggettive e tentare di costruire una politica comune sui temi dello sviluppo economico e urbano senza la quale assisteremo a sconfitta dopo sconfitta.

Ritorno sul tema delle città. Quando nel 1998 fu sconfitta la logica speculativa della valorizzazione dei beni pubblici in favore di un uso sociale degli spazi pubblici, non si continuò coerentemente su quella strada maestra. Dubbi e incertezze conquistarono la sinistra tradizionale, ma coinvolsero i gruppi dirigenti della sinistra senza aggettivi allora al governo regionale e comunale. Da lì a pochi anni fu approvato il piano regolatore di Walter Veltroni che prevedeva 70 milioni di metri cubi di cemento (il più grande sacco urbanistico della capitale!) per una città che non cresce più demograficamente. Era evidente la contraddizione: si tentava di avviare l'esperienza del Mattatoio nel quadro di una acritica accettazione del liberismo urbanistico. Ci si illudeva dunque di stabilire pratiche alternative accettando in toto una cultura che non ci appartiene.

Ma di questo strabismo non si riuscì a parlare. Pur di garantirci preziosi spazi istituzionali abbiamo anche evitato di dare spazio a chi dissentiva. È solo tagliando il nodo di questi ritardi culturali nel campo del governo delle città e delle tematiche più generali relative al modello economico della decrescita che esperienze come la città dell'Altra Economia di Testaccio non solo non saranno più messe a rischio, ma si riprodurranno anche in altri luoghi di Roma e in molte altre città. Se continuiamo in un estenuante gioco di difesa, rischiamo davvero di non essere attori credibili in questo momento in cui si sta decidendo il futuro delle città e del paese.

Cade a pezzi anche il Colosseo

Tommaso Cerno

Siti archeologici abbandonati. Teatri in crisi. Opere d'arte dimenticate. E poi biblioteche, archivi, cinema... I tagli del governo mettono in ginocchio la cultura. Che ora rischia il crac.

Sulla carta è il monumento più famoso al mondo. Nella realtà sta cadendo a pezzi. Il Colosseo ha bisogno di un restauro da 25 milioni di euro, ma di quattrini nelle casse dello Stato non c'è traccia. Così il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, ha aperto la caccia agli sponsor privati: s'è già offerto Diego Della Valle per guidare la cordata che salverà facciata e faccia alla cultura in crisi ormai cronica. Ma ecco che quei calcinacci che di buon mattino si sono staccati dall'ambulacro centrale sono anche il simbolo del fallimento italiano: addirittura all'anfiteatro Flavio, che da solo fa milioni di turisti e nelle statistiche mondiali è sul podio con un valore d'immagine pari a 91 miliardi di euro, più dei Musei Vaticani e quasi come il marchio della Coca-Cola, occorre un salvagente per restare in piedi. E presto lo vedremo avvolto da quei mega-cartelloni pubblicitari che ricoprono i tesori in restauro a spese di multinazionali o del magnate di turno, facendo infuriare le archistar.

Perché se lo Stato arranca già nel cuore dell'Urbe, figuriamoci cosa capita a musei, scavi, teatri, fondazioni, archivi e biblioteche di mezza Italia. I conti del ministero del Beni culturali sono rossi come certe, ormai abbandonate rovine romane. E i tagli soffocano quello che dovrebbe essere, piuttosto, il core business del Belpaese. Per denunciare il crac della cultura l'artista Mimmo Paladino ha coperto con un drappo nero la sua ultima opera, i cavalli donati al teatro San Carlo di Napoli. «L'ho fatto per protestare pubblicamente, indignarsi, criticare le autorità», racconta l'artista. Ma quel drappo dovrà presto allargarsi fino al teatro di Roma, al Goldoni di Venezia, alla Scala di Milano. Come all'Accademia di Santa Cecilia, a Pompei ed Ercolano, alla biblioteca di Firenze, passando per la Crusca e il Centro sperimentale di Cinematografia.

E’ UNA LOTTERIA.

Solo nell'ultimo anno la dieta Tremonti ha abbattuto il Fus, fondo unico per lo spettacolo, a 400 milioni di curo, perdendo quasi 70 milioni. Mentre gli investimenti per la manutenzione di musei, opere d'arte, scavi archeologici, biblioteche e archivi hanno subito tagli che superano il 30 per cento. Significa 200 milioni in meno fra cinema, teatro, musica, danza e opera ogni anno. Soldi spesso già impegnati per restaurare monumenti, ripulire facciate di palazzi e chiese, mettere in sicurezza i depositi librari, progettare nuove sale per i nostri capolavori: «La situazione per il 2011 sarà ancora più dura: il Fus che scenderà a 300 milioni di euro., spiegano al ministero. Che fare? Se le nonnine scaramantiche a corto di quattrini s'affidano al lotto, ai nostri antenati non sarà più concesso nemmeno di darci i numeri in sogno. Perché il governo ha già tagliato anche la ruota: quest'anno solo 60,8 milioni sono stati trasferiti ai beni culturali dalle giocate, un calo del 50 per cento che ha messo in ginocchio tutti i settori storicamente finanziati con le lotterie. Erano stati promessi 353 milioni in tre anni, soldi che invece non arriveranno. Denaro destinato alla salvaguardia dei tesori nazionali, come il cantiere delle navi romane di Pisa, le aree archeologiche di Gravisca e Tarquinia o il palazzo reale di Genova. Ai musei è andata pure peggio: è andato in fumo addirittura il 91 per cento degli introiti già inseriti a bilancio e dovranno accontentarsi di 4,5 milioni. Soldi spesso inutili, perché i progetti sono già avviati e ora costano troppo per cui dovranno comunque fermarsi.

CIAK SI TAGLIA.

Botteghini pubblici serrati anche per il cinema. E i tagli del ministero stanno per diventare addirittura legge. Una norma voluta da Bondi per razionalizzare le spese di Stato sul grande schermo taglierà, di fatto, i fondi per le piccole produzioni. Non potendo più pagare tutto e tutti, perché la pioggia di soldi pubblici è ormai poco più che un rigagnolo, il ministro punta su opere prime e film cult. Almeno a parole. Lo slogan è: basta milioni a pellicole come "Puccini e la fanciulla" di Paolo Benvenuti, costato un milione per un incasso di 6 mila 392 euro. O ancora come "Sleeping around" di Marco Camiti che dallo Stato ha incassato 716 mila euro e dagli spettatori 1.794. «Un criterio che si rende necessario dal momento in cui sarebbe impossibile, con i conti dello Stato, continuare a foraggiare qualsiasi produzione di lungometraggio», spiegano al ministero. E la Rai, che ogni anno gira 40 milioni alle produzioni, si adegua. Anche se questo significa infliggere un colpo forse letale al cinema, già in crisi nera di fondi e di distribuzione: «Molti film buoni fanno difficoltà al botteghino, perché il multisala favorisce altri tipi di prodotto. Senza fondi -96,19 pubblici è ovvio che sempre meno registi saranno in grado di montare un film da soli, ma questo non è un problema solo di tagli, riguarda i gusti degli spettatori e le regole del mercato», spiegano i vertici di RaiCinema.

Così produttori e registi guardano sempre più interessati al federalismo, che da qualche anno ha trasferito soldi e competenze alle Regioni. Al punto che "I demoni di San Pietroburgo" di Giuliano Montaldo è stato girato in Piemonte e fra le strade che si rincorrono sui fotogrammi non c'è la Prospettiva Nevskji, ma gli incroci nel centro di Torino. Il risultato è che dal Nord fino alla Sicilia, aiuti economici e loca-tion gratuite sono in aumento. Una boccata d'ossigeno che ribalta, però, la tesi di Bondi che aveva giustificato i tagli spiegando che «finora il cinema italiano era stato servo della politica». Come se governatori e sindaci non fossero il rovescio della stessa medaglia. E soprattutto ossigeno insufficiente: «Nel 2011, se i tagli saranno confermati, non solo si toccherebbe il punto più basso della storia del Fondo unico per lo spettacolo, ma si raggiungerebbe il momento più basso della politica in questo settore», denuncia il presidente dell'Agis, Paolo Protti. Con la chiusura di molte imprese e la perdita di migliaia di posti di lavoro.

CALA IL SIPARIO. Intanto, a Venezia, andrà in scena Pedro Almodóvar in versione teatrale, peri palati fini della Laguna. Ma il pubblico del Goldoni non sa ancora che sul palcoscenico troverà una sorpresa. Per non ammazzare le produzioni, la presidente del teatro stabile Laura Barbiani s'ingegna nel low cost: «Non lo scriva, la prego. Ma con i tagli non riusciremo a fare lo spettacolo con 12 attori. Per cui qualcuno sarà costretto a fare due o tre parti per stare nel budget. Succede sempre più spesso», racconta a "L'espresso". Lo spettacolo deve continuare e, dal vivo, i tagli pesano ancora di più: ogni anno il bilancio in Veneto chiude a circa 8 milioni, ma il 70 per cento se ne va in stipendi. Eppure hanno già tagliato tutto il tagliabile: le scenografie sono più piccole, i giochi di luce hanno sostituito i vecchi e costosi effetti speciali e, quando fanno i piani, devono ricordarsi di caricare pochi mobili perché se per caso lo spettacolo è itinerante tutto deve stare su un solo camion: «Un secondo mezzo significa 50-60 mila euro di più e rischia di farti saltare la produzione, aggiunge la Barbiani: «Mentre, coi fondi regionali, spuntano festival, sagre e vere e proprie strutture di produzione parallele foraggiate da sindaci e assessori locali

ROVINE IN ROVINA. Nell'Italia dei mali culturali la scure non risparmia certo l'archeologia, che fino a pochi anni fa ci vedeva leader mondiali. È talmente rosso il bilancio che il nuovo diktat suona brunettiano: vietata la macchina per le missioni. Ma mentre il governo difende la norma propagandando fantomatiche riduzioni di auto blu, l'esito pratico è che archeologi e storici dell'arte non possono più raggiungere i siti e gli scavi in restauro o le necropoli che sono pagati per tutelare. L'elenco dei tagli è lungo. Si va dai soprintendenti in pensione mai sostituiti, al blocco dei turn over, alla necessità di firmare autorizzazioni, anche edilizie, senza aver potuto vedere con i propri occhi dove e cosa si intenda costruire. Fino al caso limite di Pompei, dove da sei mesi il ministero non ha nominato il dirigente, come ha denunciato "Repubblica". Soldi non cene sono nemmeno qui. I turisti diminuiscono e molte zone dello scavo devono restare chiuse al pubblico. Una fune blocca l'accesso al sito dei fuggiaschi, finanziato dal Fio e ancora inaccessibile. Sono i corpi dei sopravvissuti alla prima eruzione, uccisi poi dai fanghi mentre tentavano di scappare. Un patrimonio dell'umanità che nessuno può vedere, mentre sui giornali finiscono le inchieste della procura di Salerno su presunte irregolarità nell'uso dei fondi Ue. A Ercolano la musica è simile. C'è il museo Antiquarium, costato miliardi di lire già negli anni Settanta e mai aperto. E ci sono oltre 4 mila reperti che giacciono in qualche magazzino. Lontano dai milioni di curiosi che da tutto il mondo pagherebbero caro per vederli. «La situazione di Roma, Pompei ed Ercolano è gravissima perché la mancata conservazione significa favorire il decadimento del nostro patrimonio. Assurdo in un Paese che fonda il suo benessere sul turismo. E’ come per la Fiat: gli investimenti non dovrebbero essere considerati un costo, ma una fonte di guadagno e invece in Italia tagliano addirittura i mezzi di trasporto dei tecnici, costringendoli a stare negli uffici e poi lamentandosi, come fa Brunetta, se fanno le parole crociate«, denuncia il presidente dell'istituto nazionale di Archeologia Adriano La Regina.

MUSEI NEL CAOS. La scura è uguale per tutti. Dai musei di arte contemporanea, fino alle grandi istituzioni nazionali. A Reggio Calabria non hanno più i soldi nemmeno per il restauro della "casa" dei Bronzi di Riace. Per finire i lavori in tempo, entro il 2011, servono 9 milioni di euro in più e così rischia di saltare pure il tour mondiale annunciato dal manager Mario Resca. I numeri sembrano migliorare rispetto all'anno nero 2009. Ma proprio per questo fermare gli investimenti adesso potrebbe essere letale. Chi ripete che la colpa è del Sud se va sempre tutto male, sappia che a Verona va anche peggio. In terra leghista i reperti preistorici del museo di Storia naturale venduto dal Comune per farci un parcheggio, marciscono in una cantina e, per colpa della muffa, sono diventati blu. Alle biblioteche arriverà poco più di un milione, l'82 per cento in meno del previsto, quando fra gli scaffali ci sarebbe bisogno di ben altro. Mentre Regioni e Comuni strapagano le scuole di dialetto dal Piemonte, al Veneto al Friuli, l'Accademia della Crusca non ha un finanziamento stabile, la Biblioteca di Firenze ha rischiato la chiusura, la Treccani ha minacciato di abolire il Biografico, la memoria della cultura italiana.

MELODRAMMA NEL DRAMMA. Stretta sulle assunzioni e tagli alle retribuzioni anche all'Opera. I toni melodrammatici della Finanziaria Tremonti non risparmiano nemmeno chi quel canto ha reso celebre. Alla firma del decreto sugli enti lirici, è seguita la più imponente raffica di scioperi del Dopoguerra. Alla Scala di Milano è apparsa una bara, a Napoli hanno recitato il funerale della cultura, al Regio di Torino s'è formata una catena umana composta da centinaia di lavoratori del teatro e il coro dell'Accademia di Santa Cecilia ha annullato il concerto a San Pietro. E mentre Riccardo Muti parla di «delitto« riferendosi alla mannaia ministeriale sui fondi per la musica d'eccellenza italiana, la crisi sta scritta nei numeri: la Fenice produce un terzo rispetto a Monaco di Baviera, la Scala un quarto rispetto a Vienna. E nei foyer le orchestre improvvisano concerti di protesta. Proprio come sul Titanic della cultura italiana che affonda.

Così si cancella la nostra identità, colloquio con Salvatore Settis

Daniela Minerva

Blocco del turn over. Sovrintendenze senza vertici. E un taglio del 5 per cento al fondo ordinario. Così le opere d'arte, i monumenti, i siti archeologici che sono l'anima stessa dell'Italia sono abbandonati al degrado da un governo pop, tutto televisione e décolleté. Con quali conseguenze? Lo abbiamo chiesto a Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, uno dei più autorevoli antichisti del mondo.

Professor Settis, cosa succede a un paese che dismette il suo patrimonio culturale?

«La situazione è gravissima. Basti pensare che le due istituzioni più grandi del Paese che gestiscono le aree archeologiche più importanti del mondo, quella di Roma e quella di Pompei, sono senza un sovrintendente. Non si fanno i concorsi e man mano che le persone vanno in pensione si creano dei vuoti che si traducono nell'impossibilità di mantenere un patrimonio così vasto e capillare come il nostro. Non solo: questa idea di poter sostituire i sovrintendenti con soluzioni temporanee, anche nominando un prefetto in pensione come è accaduto all'area vesuviana, è grottesca. Per tener dietro a Pompei ci vuole un archeologo non un prefetto”.

Lei sembra suggerire che più che di denaro sia una questione di sine cura del governo.

«Le sovrintendenze dei beni culturali e archeologici funzionano benissimo da oltre un secolo. Tutto il mondo ce le invidia. Ma oggi sembra che le si voglia chiudere. Perché, si dice, si deve risparmiare. E da qualche tempo, se si deve risparmiare è sulla cultura che si decide di farlo, giacché la si considera un optional. Quando, invece, non lo è neppure se si vuole soltanto mettere l'accento sull'economia”.

I beni culturali come drive per l'economia?

«Il premio Nobel Amarthya Sen e diversi economisti hanno ormai dimostrato che la produttività di un Paese si promuove rafforzandone l'identità civica. Che noi abbiamo solidissima proprio grazie alla nostra identità culturale: un senese come un leccese o qualunque cittadino di questo Paese è fiero di essere tale anche per l'enorme e straordinario patrimonio culturale che lo circonda e di cui è parte. Se perdiamo i nostri beni perdiamo la nostra identità”.

Il governo non sembra esserne consapevole.

«Ma nemmeno l'opposizione. Sono colpito dalla totale assenza di dibattito pubblico su questa emergenza. I partiti, di tutti i fronti, hanno completamente marginalizzato la cultura. Mentre è solo creando una maggiore consapevolezza nell'opinione pubblica che si può intervenire. Unitamente, è ovvio, al fatto che si mettano a disposizione dei fondi per ripristinare organici e mezzi delle sovrintendenze”.

Non pensa che anche dentro le sovrintendenze possano esserci stati degli sprechi?

«Non lo escludo. Ma bisogna dimostrarlo e bisogna razionalizzare le spese in baso a ciò che si è scoperto. Altrimenti, con la scusa degli sprechi, mai dimostrati e analizzati, si sfascia tutto”.

A molti sembra che, nell'attuale contingenza economica, si debba fare ricorso ai finanziamenti privati.

«Che già ci sono, e grazie ai quali stiamo restaurando molte opere d'arte, ad esempio. Ma il patrimonio è e deve restare pubblico. E allora: perché un privato dovrebbe erogare ingenti fondi se poi non lo si fa entrare nella gestione del patrimonio? In altri Paesi fondazioni e imprese finanziano il patrimonio culturale perché ne hanno benefici fiscali. E questo è un buon modo di procedere. Ma ogniqualvolta ci si è provato, in Italia, il ministero del Tesoro ha posto il veto perché, si è detto: non è sostenibile fiscalmente. Ma proviamo a pensare se non ci fossero 120 miliardi di evasione. Se tutti pagassero le tasse, allora resterebbero i soldi per tutto”.

Pompei. «Illegittimi gli atti della Protezione civile»

Marco Imarisio

«Sebbene la situazione di criticità dell'area archeologica di Pompei non sia di per sé riferibile a recenti calamità naturali, gli eventi eruttivi del 79 dopo Cristo non ci permettono di escludere i presupposti per la dichiarazione dello stato d'emergenza». Lo scorso 20 luglio Giacomo Aiello ci ha provato. In fondo un bravo avvocato deve essere anche capace di sostenere tesi ardite. Ma per il consigliere giuridico della Protezione civile quella che propugnava l'impossibilità degli enti locali di garantire da soli la salvaguardia del patrimonio culturale degli Scavi perché alcuni anni fa, 1.931 ad essere pignoli, «si è verificato il noto disastro ambientale», si presentava piuttosto in salita.

Nella stessa udienza davanti alla Corte dei conti, i rappresentanti legali del ministero della Cultura volavano più basso, sostenendo che la dichiarazione dello stato di emergenza per l'area archeologica di Pompei era dovuto «allo stato di disordine del sito, nonostante l'impegno encomiabile del Sovrintendente a razionalizzare l'azione amministrativa e la gestione per garantire servizi efficienti». La delibera emanata il 10 agosto non premia gli sforzi fatti dagli avvocati per giustificare i due anni di gestione del sito sotto l'ombrello della Protezione civile. Le ordinanze seguite alla dichiarazione dello stato d'emergenza, «dedicate in tutto o in parte alla situazione della predetta area archeologica» sono da ritenersi «illegittime». In pratica, la Corte dei conti stabilisce che l'intera gestione 2008-2010 degli Scavi di Pompei «non sembra rispondere all'esigenza di tutelare l'integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell'ambiente dai danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi o da altri grandi eventi, che determinino situazioni di grave rischio».

Alla fine si torna sempre a quel nodo, all'ampliamento dei poteri e delle competenze della Protezione civile deciso dal governo nel 2008. C'è una coerenza, nell'indirizzo della Corte dei conti, che nelle sue sentenze ha più volte contestato la patente di «Grandi eventi» e di «Grave pericolo» — il decreto su Pompei risale al 4 luglio 2008 — che rendono possibile alla Protezione civile l'emissione di ordinanze svincolate dal controllo preventivo dell'organo che si occupa di certificare le spese pubbliche. Anche qui, i magistrati contabili escludono la natura di atto politico non sindacabile della dichiarazione dello stato d'emergenza.

Su Pompei, poi, nessun dubbio. «In molte delle iniziative autorizzate con le ordinanze in questione non si ravvisa la presenza dei presupposti di emergenza». Tra queste iniziative autorizzate e gestite dalla Protezione civile c'è anche la mostra dal titolo «Pompei e il Vesuvio, scienza, conoscenza ed esperienza», che costituisce uno dei capisaldi dell'esposto presentato alla procura di Torre Annunziata dalla Uil, per via del costo finale, 619.000 euro incassati da Comunicare organizzando, «una delle società più impegnate dalle strutture della Protezione civile attraverso affidamenti e incarichi diretti», così si legge nella denuncia. La Corte dei conti si limita a ribadire che «il rilancio dell'immagine del sito archeologico nel contesto nazionale e internazionale» citato nell'ordinanza della Protezione civile come principio fondante della mostra, non rientra nelle competenze del Dipartimento, neppure in quelle «allargate» sulla gestione degli eventi straordinari.

«Pur dando atto che la situazione dell'area archeologica e delle zone circostanti presenta aspetti di criticità, non sembra che sia possibile ritenere giustificato l'intervento della Protezione civile». La Corte dei conti conclude così, sottolineando come nessuna delle ordinanze in questione risponda a criteri di «grave danno o rischio». Ormai è andata, scrivono i giudici con malcelata irritazione. La delibera è anche una ammissione di sconfitta, ogni tanto tergiversare paga. La Corte chiedeva da più di un anno di ricevere la documentazione di ogni singola ordinanza dal ministero della Cultura e dalla Protezione civile. Risposta sempre negativa, in nome dello «stato di emergenza», al punto che solo una volta che esso si è concluso, lo scorso 30 giugno, è stato possibile recuperare gli incartamenti.

Fuori tempo massimo, naturalmente. «Non può ignorarsi che, di fatto, tutti i provvedimenti di cui è stata chiesta (inutilmente) la trasmissione al controllo preventivo di legittimità hanno già compiutamente esaurito la loro operatività. Occorre domandarsi se abbia ancora senso sottoporre in via postuma quegli atti a un controllo che, per definizione, dovrebbe essere preventivo». Come a dire che, ancora una volta, si riesce ad intervenire, ma soltanto a buoi ampiamente scappati dalla stalla.

Il neo sovrintendente lascerà l'incarico a fine anno

Alessandra Arachi

È accorato Sandro Bondi, ministro per i Beni culturali, nella conferenza stampa che ha convocato ieri al suo dicastero. Prende in mano un editoriale del Corriere della Sera che parla del degrado di Pompei e scuote la testa «E’ tutto falso. C'è il rovesciamento della verità. A Pompei sono state fatte tante cose concrete». Sandro Bondi, però, è particolarmente dispiaciuto per la storia del sovrintendente: il Corriere ha scritto che un sovrintendente a Pompei non c'è, è scaduto, e che c'è soltanto un reggente, da lontano. «È tutto falso», sbotta il ministro Bondi. E spiega: «La sovrintendente è stata appena nominata, la dottoressa Jeanette Papadopoulos, con la quale vogliamo lavorare e abbiamo tanti progetti in cantiere». E allora come mai la dottoressa Papadopoulos è stata nominata soltanto fino al 31 dicembre di quest'anno? Come si fa a portare avanti tanti progetti in cantiere in poco più di due mesi? Inutile fare questa domanda adesso al ministro. Dopo aver parlato è uscito dalla stanza.

La conferenza stampa in effetti è stata particolarmente lunga. Hanno preso la parola in tanti, a cominciare da Marcello Fiori che è stato per due anni il commissario straordinario di Pompei, quindi Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, e ancora Giuseppe Proietti che è stato «il reggente» di Pompei dal 31 maggio al 28 settembre 2010. Ma perché avvicendamenti di così breve periodo alla guida di una sovrintendenza tanto importante? In attesa che il ministro rientri nella stanza, impegnato in una telefonata urgente, è il segretario generale del ministero Roberto Cecchi che tenta di dare alcune risposte.

Dice che loro sono stati «obbligati dalla legge» a nominare persone sull'orlo della pensione, in attesa di un avviso interno che da più di un anno non viene bandito e che sarà bandito a novembre anche per Napoli, Roma e Firenze. Per fortuna rientra il ministro Bondi. E a lui che ripetiamo la domanda: «Come mai la sovrintendente è stata nominata soltanto per poco più di due mesi?». Sandro Bondi non ha esitazione: «Io di queste nomine dei sovrintendenti non so assolutamente nulla e mi rifiuto anche di seguirle, queste cose, perché mi fido totalmente dei miei collaboratori».

L'ex commissario Marcello Fiori «Zone vietate ai turisti? Falso, é tutto visitabile»

Alessandra Arachi

Marcello Fiori, lei è stato commissario per oltre un anno a Pompei. «E in questo periodo i visitatori sono cresciuti del 12 per cento, i ricavi da biglietteria del 15 per cento e le visite scolastiche del 4o per cento». Ma è vero che il sito è quasi in stato di abbandono, come riportato dalla stampa? «Dico che in due anni di commissariamento è stato fatto davvero tanto per Pompei». Per esempio? Le Terme Suburbane sono state restaurate ma sono ancora chiuse. «Non sono chiuse. Si possono visitare per appuntamento. Magari ci sarà stato un cretino in biglietteria che dava informazioni sbagliate”.Tra gli altri restauri terminati ci sarebbe anche l'Antiquarium che, però, non è ancora aperto al pubblico ... «Aprirà a fine novembre»

Molte polemiche sono nate sui lavori per il Teatro Grande... «Quello è un progetto dove io non c'entro niente, lo hanno fatto i sovrintendenti».

Perchè sono rimasti i camerini in lamiera? E tutti quei tubi innocenti accatastati ? A cosa servono? «Beh, a niente. Devono essere tolti».

El otro cataclismo de Pompeya

Irene Hdez. Velasco - El Mundo

Hace exactamente 1931 años la ciudad romana de Pompeya quedó sepultada bajo la lava del Vesubio. Y ahora esa zona arqueológica, considerada por muchos como la mas importante del mundo y declarada en 1997 por la Unesco Patrimonio de la Humanidad, se enfrenta a otro importante cataclismo: la incompetencia de los responsables culturales italianos. Desde hace varios años, Pompeya se encuentra en una situación de grave deterioro. La basura inunda el lugar, florecen los falsos guías que se aprovechan de los turistas, se multiplican los restaurantes sin licencia que incumplen las normas de higiene... Por no hablar de las fosas sépticas excavadas a pocos metros de las antiguas murallas de la ciudad, levantadas hace 2.000 años. O de las columnas de antiguas viviendas romanas restauradas (por decir algo) a base de cemento y hormigón.

La situacion ae Pompeya era tan terrible y desesperada que, en julio de 2008, el Gobierno de Silvio Berlusconi decidió intervenir, nombrando un responsable de Protección Civil que se encargara de su-pervisar lo que ocurria en la zona. Pero el remedio esta resultando aún peor que la enfermedad.

No es sólo que los ilustres miembros del Observatorio italiano del Patrimonio Cultural se echen las manos a la cabeza por el modo en el que ha sido restaurado el Teatro Grande de Pompeya, construido en la primera mitad del siglo II a. C. y ampliado posteriormente. «La intervención en el teatro es una auténtica e inconcebible masacre, Ilevada a cabo en el interior de uno de los monumentos arqueológicos mas significativos de la Humanidad», denuncia Antonio Irlando, responsable de esa organización, mientras se echa las manos a la cabeza por los materiales modernos que se han empleado en la restauración de ese edificio v lo excesiva que ha sido la intervención. No es únicamente que, según denuncian los sindicatos, las obras de reparación del Teatro Grande se hayan disparado hasta un 40% del presupuesto inicial, desatando las sospechas de corrupción. De hecho, una investigación judicial esta indagando si hubo chanchullos varios con los materiales y los métodos con los que se llevaron a cabo esos trabajos durante el año, basta junio pasado, que Marcello Fiori fue el comisario especial de Protección Civil para Pompeya.

Pero, por si todo eso no bastase, la zona arqueológica esta desde hace seis meses sin nadie al frente. Y el Unico candidato cuyo nombre suena para el cargo, Angelo Maria Ardovino, esta siendo investigado por la fiscalía de Salerno por un presunto delito de corrupción. Ante esta situación, no es de extranar que buena parte de la prensa italiana se haya lanzado a la yugular del ministro de Cultura, Sandro Bondi, como responsable final del desastre que se esta escenificando en Pompeya. «Degradacion y derroches: Pompeya, sin gufa desde hace seis meses», titulaba un demoledor articulo a toda pagina que publicó el domingo La Repubblica. Y ayer el Corriere della Sera dedicaba al asunto su editorial de portada, bajo el título La humillación de Pompeya.

Guzzo: a Pompei uomini di cultura

Carlo Franco - Corriere del Mezzogiorno

«Basta con i commissari che vengono da altri mondi, Pompei ha bisogno di tornare alla sua normalità, cioè alla cultura. Oggi valgono altre regole e i risultati si vedono». La voce severa e ammonitrice è di Pietro Giovanni Guzzo, il soprintendente che venne mandato a casa il 31 agosto del 2009, due mesi dopo aver ricevuto dall'Accademia dei Lincei un premio per il lavoro svolto a Pompei. Da allora è iniziato un ciclo nuovo che avrebbe dovuto favorire la «rinascita» di Pompei, annunciata dal premier Berlusconi e rivendicata a più riprese dal ministro Bondi. Gli obiettivi raggiunti, però, secondo Guzzo, che continua a subire molte critiche, non sono stati pari ai soldi profusi e in più si è assistito al varo di una sorta di Disneyland pompeiana che ha avuto il suo punto più alto nella casa di Giulio Polibio poi interessata dal crollo di una trave.

In questo lasso di tempo Guzzo si è tenuto in disparte, ma ora ha deciso di non sottrarsi alle domande del giornalista. La sua ricetta è drammaticamente semplice: «A Pompei serve un soprintendente che venga dal mondo culturale, che sia di ruolo ordinario ma abbia gli stessi poteri attribuiti al commissario». Sembra facile, ma non lo è come testimoniano le adesioni straripanti comparse in questi giorni sul sito «Stop killing Pompei ruins». Nel mondo si piange il degrado irreversibile del sito archeologico più amato ma da noi si continua a mostrare indifferenza e a ripetere che tutto va bene madama la marchesa. Ma non la pensa allo stesso modo anche una guida che non va a caccia del turista, ma è inserita in un circuito che lavora alla luce del sole: «Normalità — sostiene Franco — vuole dire curare la manutenzione di ogni giorno, servono meno muratori e più restauratori accreditati, meno puntelli (ci sono ancora quelli del terremoto di 30 anni fa), meno chiodi a pressione che bucano pareti provatissime, meno insegne in puro stile californiano e servizi più curati di quelli fatti recentemente».

Luigi Necco, freschissimo responsabile del servizio cultura del Pd provinciale, è più tecnico ma ugualmente incisivo: «Quando c'erano i soldi hanno fatto il Teatro grande che era funzionale al progetto di delegare alla protezione civile la gestione della cultura e dello spettacolo, ma ora i nodi vengono al pettine. Ed è giusto deplorare l'eccesso di servizi aggiuntivi che filano lungo binari più scorrevoli». Ma contro questa tesi si scaglia la senatrice del Pdl Diana De Feo che difende, al contrario, i risultati della gestione commissariale. E ora ritorniamo nella città degli scavi. Ieri è stato il primo giorno di lavoro del nuovo soprintendente, la signora Jeannette Papadopoulos, ma l'attesa di novità è andata delusa perché il funzionario si è barricata nel suo ufficio e ha detto che incontrerà i giornalisti solo tra qualche giorno.

Speriamo bene, anche se è arduo convincersi che un solo soprintendente possa gestire un'area archeologica che va da Sorrento a Cuma passando per le isole. Guzzo dice che non è possibile («Bisogna rinvigorire Pompei e riorganizzare il Museo Archeologico di Napoli che deve essere il terminale del territorio culturale») e Necco rincara la cose: «Basta prendersi in giro, servono due Soprintendenti». Entriamo nella città degli scavi dalla porta Marina e il primo impatto dolente lo subiamo al cancello della casa del Poeta tragico dove c'è il famoso mosaico del «Cave canem» fatto comporre dal proprietario. È pericolosamente inclinato, alcune tessere sono saltate e i turisti che hanno occhi per vedere e sensibilità per capire restano esterefatti anche perché passano in una zona tutta transennata nella quale s'impatta in una serie di puntelli di ferro che con il brutto tempo si sono pericolosamente arrugginiti. Pare che resistono dal terremoto dell'80. Un altro scandalo è la chiusura delle Terme Suburbane.

La chiusura dura da otto anni — dice sempre Franco — e il turista che ha voglia di immergersi nell'atmosfera della Pompei prima della distruzione viene tolto un contributo fondamentale». A conti fatti l'unico intervento ineccepibile è il percorso per i portatori di handicap. Nonostante tutto, però, i turisti sono sempre lì a dimostrare l'eccezionalità del sito. In un martedì feriale, senza crociere in giro per il golfo, ieri si contavano a migliaia e avrebbero meritato migliore sorte. Pompei, ad esempio, è uno dei pochi siti al mondo dove si fa ancora la fila per il biglietto d'ingresso e anche quei pochi che riescono a comprare on line il ticket sono tenuti a mettersi in riga per ritirarlo.

Capita anche questo e Pietro Giovanni Guzzo ha una spiegazione che convince: «L'obiettivo che mi ero proposto era aprire Pompei e gli altri siti vesuviani al mondo, avevamo stretto un rapporto proficuo ad Ercolano con la Fondazione Packard e altrettanto potremmo fare ora con la postazione dell'Ermitage di San Pietroburgo che si è insediata a Stabiae. Questa è la strada, riprendiamola». Con lei soprintendente? «No, facciamo largo ai giovani, io posso mettere a disposizione, se serve, la mia esperienza».

Pompei. Restauri infiniti e costosi. Chiuso il gioiello dei Vettii

Alessandra Arachi - Corriere della Sera

Negli scavi di Pompei non c'è bisogno di andare a caccia di scandali lungo tutti i sessantacinque ettari di beni archeologici a cielo aperto, patrimonio dell'Umanità. Per deprimersi è sufficiente fare come un turista pigro. Girare appena poche centinaia di metri attorno al Foro. E’ il posto che è proprio all'incrocio degli assi principali del nucleo originale, il Foro. Il fulcro della città antica. Il perno della folla dei turisti, cinquemila ogni giorno, in media. La desolazione, tuttavia, assale già all'ingresso delle rovine. Non soltanto per le toilette degne di un campo di concentramento. O per le guide turistiche più o meno autorizzate che ti vengono incontro a frotte, con ogni lingua conosciuta. E’ che appena arrivi, la guida cartacea ti sbandiera come prima visita la bellezza delle Terme. Inutilmente. Sono chiuse, da chissà più quanto tempo. Come l'Antiquarium, mai aperto per ospitare le migliaia di reperti archeologici prigionieri e impolverati dentro i Granai del Foro. Da sempre.

I turisti si accalcano neanche fossero mosche attorno al miele pur di rubare foto di statue o di capitelli o di chissà che ben di dio è custodito dentro le cassette di plastica, lì all'interno di quei Granai chiusi con sbarre arrugginite. I cani randagi (che in tanti continuano ad aggirarsi indisturbati per le rovine antiche) amano fare la pipì sopra quelle sbarre. Camminare attorno al Foro per crederci. Le strade antiche sbarrate senza alcun cartello che spiega il perché. Palizzate divelte. Cumuli di calcinacci dentro botteghe mai restaurate. Uno degli zuccherini del giro turistico (versione pigra) è senza dubbio il tempio di Apollo. Qui lo stato di degrado non è, tanto e soltanto, una questione di etica o di decoro.

C'è un problema serio di sicurezza. Basta alzare gli occhi sotto le volte per capire. Oppure guardare le colonne che si sgretolano, pezzo dopo pezzo. Di solito cadono in terra pezzettini piccoli di quelle colonne. Ma chi può impedire che si stacchi un lastrone per intero? Addosso a qualche turista inerme? Continuiamo a camminare. Adesso in direzione delle porte di Ercolano. Vicolo delle Terme. Vicolo della Follonica. Sono tante, ancora, le case chiuse, sbarrate con i lucchetti. Nella Casa del Poeta Tragico c'è il famoso mosaico del Cave Canem. Ci sarebbe. Perché non si può vedere, visto che anche questa casa (inutilmente contrassegnata dal numero 22 dell'audio guida) è chiusa. Ma andiamo avanti. Fiduciosi verso la Casa dei Vettii: era stato annunciato un grande restauro. La guida cartacea ci spiega che i Vettii erano ricchi e liberti. Ci invoglia a guardare le pitture d'ingresso che evidenziano auspici di prosperità. E dove spicca la figura di Priapo, dio della fertilità. E una pruderie morbosa questa figura mitologica con il suo grande membro posato sopra il piatto di una bilancia a far da contrappeso al denaro. Ma arrivati all'ingresso della Casa dei Vettii, la delusione deborda nella rabbia. Non soltanto non si può ammirare nemmeno l'ombra di Priapo. Ma l'unico denaro che possiamo vedere è quello scritto in cifre sul cartello all'ingresso che segnala il restauro: 548 mila euro per dei lavori inaugurati il 27 agosto del 2008 che avrebbero dovuto essere terminati nel 2009.

Non è dato sapere in quale mese del 2009 avrebbero dovuto chiudere il cantiere: sul cartello dei lavori, qualcuno sopra la data ci ha voluto scrivere «vergogna» con una penna a biro. Comunque siamo nel 2010, e anche verso la fine, e della Casa dei Vettii ci rimane soltanto la veduta di una infinita montagna di impalcature dove non c'è segno di un operaio o di un qualsiasi qualcosa che dia il senso di alcun lavoro in corso. Quando eravamo passati davanti alla casa del Naviglio di Zefiro e Flora (chiusa) un operaio l'avevamo visto: si aggirava lungo le impalcature senza alcuna misura di sicurezza. E senza alcuna preoccupazione. Andiamo avanti. Continuiamo a girare. La via Stabiana è lunga Adesso osiamo.

Mettiamo da parte la pigrizia, andiamo oltre la sequela di botteghe senza arte né parte, case dagli intonaci che vengono giù come le gocce di pioggia, e allunghiamo il passo. Dritti per dritti lungo la bella (e miracolosamente rimasta originale) via Stabiana si arriva al Teatro Grande. Ci aveva fatto soffrire il Teatro Grande di Pompei in una gita di fine primavera Per i lavori di restauro erano stati usati, senza pudore, martelli pneumatici e ruspe, scavatrici, betoniere. Cavi elettrici che bucavano le colonne. Turisti increduli davanti a tanto scempio. Il Teatro Grande è stato restaurato e inaugurato. Ricostruito ex novo con blocchetti di tufo moderno. In tanti esperti in quei giorni avevano gridato allo scandalo per un bene trattato come fosse il cantiere di una cava di marmo. Ma alle obiezioni era stato replicato che il tufo era reversibile. Che sarebbe stato tolto, prima o poi.

Corriamo a vedere il Teatro Grande. Ovviamente i blocchetti di tufo sono ancora tutti lì. Ha qualche senso logico spendere milioni di euro per mettere quei blocchetti di tufo e altrettanti soldi per toglierli, poi, nel giro di qualche settimana, terminata la stagione estiva degli spettacoli? Le casette di lamiera allestite per i camerini, però, almeno quelle sarebbe stato possibile portarle via. Sottrarle alla vista. Come i tubi in ferro accatastati lì, a mucchi. A che cosa servono? Torniamo indietro al Foro, mesti. Vicino ai Granai c'è un cagnone nero che ci viene incontro, ci lecca la punta della scarpa, si avvia a fare i suoi bisogni nel luogo deputato. Sentiamo la stessa esigenza. E accanto ai Granai abbiamo la prima buona notizia della visita: nella caffetteria nuova le toilette sono pulite e ordinate. Si può fare la pipì illudendosi di essere in un posto civile.

la Repubblica

Expo, cala il gelo di Formigoni

"Comodato, ha deciso la Moratti"

di Alessia Gallione

È il gelo di Roberto Formigoni che cala su Expo. E su quella che avrebbe dovuto essere «la soluzione condivisa» per sciogliere, a meno di due settimane dall’ultimatum del Bie, il nodo dei terreni di Rho-Pero. Perché un accordo, al termine del vertice notturno convocato in extremis a casa Moratti, Provincia, è stato trovato. La strada è quella del comodato d’uso, come volevano Letizia Moratti e Guido Podestà. E al governatore, che fino alla fine ha sostenuto le ragioni di una newco che acquistasse le aree, non è rimasto che fare un passo indietro. Quell’ipotesi per il Pirellone resta la migliore. Lo ha fatto capire chiaramente, Formigoni, prendendo le distanze dal risultato: «Visto lo stringersi dei tempi e i poteri straordinari dati a Letizia Moratti ho ritenuto di aderire alla strada indicata dal commissario». Un sì al comodato con i privati, quindi. A cui dovranno essere messi, però, dei "paletti legali" che Regione continua a ritenere indispensabili. Ma la scelta scatena le accuse del centrosinistra: «È un regalo ai privati e non tutela l’interesse pubblico».

Si erano riuniti a tarda sera, i duellanti di Expo. Tutti a casa del sindaco, Moratti, Formigoni e Podestà. Per un incontro decisivo sui terreni. Dopo due ore di discussione era toccato al presidente della Provincia rassicurare: «Accordo condiviso e clima sereno». Anche ieri Podestà è tornato a ribadire come la decisione di fosse «unanime»: «Abbiamo deciso tutti assieme». Il patto avrebbe dovuto essere suggellato da un comunicato congiunto. Ma quella nota ufficiale, fino a ieri sera, non è arrivata: per un’intera giornata sono state rimpallate tra Comune, Regione e Provincia diverse bozze. Senza mai arrivare alla versione definitiva. Il segno più evidente che la guerra dell’Expo non è ancora finita.

Fiera, ieri mattina, ha "brindato" all’accordo con un balzo in Borsa del 16,75 per cento. Ma a Formigoni, poco dopo, sono bastate poche parole a far calare il gelo: «Il sindaco prenderà un’iniziativa in cui spiegherà la proposta che ella preferisce». E far capire che la tregua, adesso, dovrà reggere al nuovo tavolo di confronto che si aprirà tra enti pubblici e proprietari privati. Lo ha confermato anche lei, Letizia Moratti: «Ora sta ai nostri tecnici elaborare la proposta che faremo a Fondazione Fiera e al gruppo Cabassi». Arrivando a ringraziare «in modo particolare Formigoni perché, rispetto a diverse soluzioni e ipotesi che abbiamo esaminato, siamo arrivati a un accordo nel percorso condiviso». Per la Regione, infatti, il contributo che dovranno versare i proprietari per le infrastrutture dovrà salire (da 50 a 120 milioni) e le aree dovranno essere messe a disposizione subito a prescindere dai contenuti della variante urbanistica (i metri quadrati di costruzioni future) che sarà approvata. «E mi auguro - ha aggiunto Formigoni - che i privati aderiscano e la questione possa essere sbloccata». Quasi una sfida.

Perché la preoccupazione per il futuro di Expo rimane. E il centrosinistra accusa. A cominciare dal candidato alle primarie del centrosinistra Stefano Boeri: «L’accordo è la conferma di una truffa che regala ai proprietari delle aree di Rho-Pero, dopo l’Expo, una enorme quantità di metri cubi». Il suo sfidante, Giuliano Pisapia, chiede di fermare «l’osceno teatrino che offende i cittadini». Anche per l’ex presidente della Provincia Filippo Penati la soluzione «è oscura. Non è chiaro se gli ingenti investimenti pubblici verranno rimborsati dai privati». Il segretario regionale pd Maurizio Martina parla di «una toppa peggiore del buco. Sarebbe meglio l’acquisizione delle aree senza escludere l’opzione dell’esproprio».



Corriere della Sera

Pace armata sulle aree Expo

di Elisabetta Soglio

Il sindaco Letizia Moratti è soddisfatta perché «siamo arrivati ad un accordo condiviso ed è estremamente positivo per un Expo che deve avere tutte le istituzioni unite in un gioco di squadra». Anche il presidente della Provincia Guido Podestà garantisce che «siamo tutti d’accordo». Ma il governatore Roberto Formigoni si chiama fuori: «Ha deciso il sindaco e noi abbiamo soltanto aderito, nella speranza che vengano garantite le condizioni poste dai legali e che i privati ci diano una mano». Per i terreni di Expo, quando mancano 12 giorni all’incontro del sindaco-commissario con i vertici del Bie, cui bisogna garantire la disponibilità delle aree, si è scelta la strada del comodato d’uso. Il Pd al Pirellone fa da sponda al Governatore: «Sarebbe stato più trasparente acquistare i terreni, come indicato da Formigoni». I tecnici, intanto, sono al lavoro per definire la proposta che sarà presentata ai Cabassi e alla Fondazione Fiera, cui sarà chiesto di partecipare alle spese di infrastrutturazione. Basta un pronome, alcune volte, per dare l’idea del clima. «Il sindaco prenderà un’iniziativa in cui spiegherà la proposta che ella preferisce». Ella, il sindaco Letizia Moratti, aveva assicurato soltanto la sera prima che era stata condivisa una soluzione per i terreni di Expo con il presidente Guido Podestà e il governatore Roberto Formigoni. Bastano un paio di frasi, e quel pronome che sa tanto di presa di distanze, per smontare tutto.

Roberto Formigoni si chiama fuori precisando di non aver condiviso nulla: ha deciso il sindaco, punto. Parole e toni ben diversi da quelli che Moratti e Podestà hanno usato ancora ieri. «Abbiamo scelto un percorso assieme a Provincia e Regione che si riallaccia a quanto condiviso nel mese di luglio con i soci di Expo», spiega sorridente la Moratti amargine della firma del protocollo per Expo con il sindaco di Bari, Michele Emiliano.

L’ipotesi individuata per garantire al Bureau International des Expositions entro il 19 ottobre la disponibilità dei terreni, è quella del comodato d’uso: la messa da disposizione delle aree da parte dei proprietari, il gruppo Cabassi e la Fondazione Fiera, che in cambio ne otterranno la restituzione post 2015, con tanto di diritti volumetrici.

Anche Podestà ricorda che la decisione dell’altra sera «è stata unanime». Si era però detto che sarebbe stato firmato oggi un comunicato, a suggellare l’intesa raggiunta: del comunicato, ovviamente, non c’è ancora traccia. Il sindaco ha puntualizzato che «i tecnici sono al lavoro per precisare i termini della proposta, che dovrà essere sottoposta ai proprietari». Formigoni ha ancora raccomandato che vengano quanto meno rispettate le indicazioni dei legali: che impegnano a una nuova stima sul valore dei terreni e alla «compartecipazione finanziaria dei privati alle opere di infrastrutturazione». Un passaggio non da poco: tra queste e le spese per gli oneri di urbanizzazione, si parla di oltre 200 milioni di costi a carico dei privati. Paletti che rendono più tortuoso il cammino verso la soluzione.

Nel frattempo, Formigoni incassa l’appoggio del Pd regionale e del vicepresidente del consiglio, Filippo Penati: posto che «è l’unico Expo che si svolge su terreni non pubblici», Penati si chiede perché non sia stata seguita la via dell’esproprio e, in secondo ordine, «pare incomprensibile il rifiuto della proposta del presidente Formigoni anche alla luce dell’approvazione da parte del consiglio regionale di un ordine del giorno in cui si proponeva di costituire una newco in grado di acquistare i terreni».



la Repubblica

Ecco chi perde e chi dopo il 2015

farà affari d’oro

di Alessia Gallione

Doveva essere l’Esposizione dedicata alla terra: da coltivare per far conoscere a 20 milioni di visitatori tutti i sapori del mondo. Dopo 919 giorni, è ancora l’Expo dei terreni. Un milione e 100mila metri quadrati stretti tra le autostrade e la Vela di Fuksas. Aree a cavallo tra Milano (l’85% della superficie) e Rho, che su carte e mappali sono agricole o con destinazioni industriali o artigianali.

Uno spazio abbandonato, tra città e campagna. Su cui sono destinati, però, investimenti pubblici per un miliardo. Rendendo quell’area strategica. E appetibile. Non solo perché dovrà conservare l’eredità di Expo (il parco, le serre...), ma anche perché dopo il 2015 quel pezzo di niente diventerà un nuovo quartiere con case, negozi e uffici. È su questo che si sta consumando lo scontro. Tra interesse pubblico e privato. Tra chi vorrebbe acquistare quelle aree, dividere il guadagno coprendo così anche il futuro deficit della società. E chi (Comune e Provincia) non può investire adesso per comprare e, con la scadenza del Bie alle porte, considera migliore la strada originaria, quella del "comodato d’uso".

[I proprietari]

I padiglioni di Expo non sorgeranno su un’area pubblica. È questo che oggi, di fronte all’impasse, molti considerano come l’errore originario. Di quel milione di metri quadri, solo quote minime sono del Comune di Milano (51mila metri quadrati) e di Rho (120mila). I maggiori proprietari sono Fondazione Fiera, con 520mila metri quadrati, e gruppo Cabassi con 260mila.

[Il comodato d’uso]

Il destino è stato segnato tre anni fa. Era il 28 giugno del 2007 quando Palazzo Marino, dopo mesi di trattative, concluse con Fondazione Fiera e Cabassi una scrittura privata. Uno schema poi perfezionato con una delibera di giunta (13 luglio 2007) votata dal consiglio comunale (19 ottobre 2007) e arrivato fino all’ultimo vertice a casa Moratti. È da lì che parte l’idea del comodato d’uso con diritto di superficie. Cosa vuol dire? I privati si impegnano a mettere a disposizione quelle aree (in "diritto di superficie") fino alla fine della manifestazione per una cifra simbolica (la delibera votata da Palazzo Marino prevedeva 5mila euro). Nel 2017, però, si impegnano a cedere definitivamente al Comune più della metà dell’area, ovvero 430mila metri quadrati. L’altra metà rimane loro. Ed è lì, su quei restanti 340mila metri quadrati, che potranno costruire.

[L’indice e la quantità di costruzioni ]

Cosa succederà dopo Expo? Da una parte il parco con le serre e le colture del mondo, la sede della Rai, i canali, un auditorium... Tutti spazi pubblici. Dall’altra un nuovo quartiere. Lo dice chiaro la variante urbanistica appena pubblicata che, entro fine anno, dovrà sbarcare in consiglio comunale per l’adozione. È in questo strumento urbanistico che tutti gli enti pubblici (Comune di Milano e Rho, Provincia e Regione) hanno di fatto confermato le previsioni del 2007. Allora, si era deciso, dopo Expo si sarebbe potuto costruire applicando un indice di 0,6 metri quadrati su metro quadrato. Oltre 500mila metri quadrati di case e palazzi compresi, però, 55mila metri quadrati (pari allo 0,008) riservati al pubblico. Nell’ultima versione sparisce solo la quota pubblica e l’indice per i privati rimane lo 0,52. Per avere un’idea: 430mila metri quadrati di superficie. Non solo. Visto che i cantieri sorgeranno solo su metà della zona, quell’indice è come se raddoppiasse. Si dovrà puntare in altezza con palazzi di 14-18 piani.

[I VANTAGGI ECONOMICI]

È la parte più complessa dell’accordo. Chi ci guadagna con il comodato d’uso? A luglio, per aumentare il cosiddetto interesse pubblico, si era arrivati a un ulteriore accordo con Fondazione Fiera e Cabassi. Gli investimenti pubblici sono tanti e quell’area, che oggi non vale molto, moltiplicherebbe il proprio valore grazie alle infrastrutture del 2015: solo quelle legate al sito valgono 120 milioni. Per i tecnici quei 400mila metri quadrati di nuove costruzioni garantirebbero un’operazione immobiliare da 400 milioni con un guadagno attualizzato di 141 milioni, con i futuri edifici venduti a 3mila euro al metro quadro. È in base a queste plusvalenze che il tavolo riuscì a strappare benefici per gli enti locali, 195 milioni di euro tra oneri di urbanizzazione (che incasserebbe soltanto il Comune) e contributi per le infrastrutture: 50 milioni che i privati metterebbero sul piatto. Nel conteggio anche la cascina Triulza (7 milioni) e il villaggio Expo affacciato sul canale. Destinato a diventare housing sociale, vale circa 45 milioni. Tutte cifre che, adesso, una nuova trattativa cercherà di alzare. A cominciare, per il Pirellone, da quel contributo per le opere: da 50 milioni dovrà raggiungere almeno quota 120.

Non passa giorno senza che qualcuno ci ricordi di come l'Italia custodisca la maggior parte dei beni artistici e archeologici del pianeta. Ma meritiamo davvero un simile onore? Il dubbio sorge, osservando quello che accade a Pompei. Da tempo il Corriere del Mezzogiorno sta documentando lo scempio di alcuni «restauri» a base di colate di cemento e l'incuria che regna nell'area immensa degli scavi. Con la protesta montante attraverso i social network, come sta a dimostrare il record di adesioni a una pagina di Facebook che si chiama «Stop killing Pompei ruins». Al punto che viene da chiedersi: ma se quel tesoro ce l'avessero gli americani, oppure i francesi o i giapponesi, lo tratterebbero allo stesso modo? Il fatto è che quell'area archeologica unica al mondo è purtroppo il simbolo di tutte le sciatterie e le inefficienze di un Paese che ha smarrito il buon senso e non riesce più a ritrovarlo. O forse semplicemente non vuole, affetto da una particolare forma di masochismo.

Che però ha responsabili ben precisi. «Le istituzioni preposte alla tutela dei beni culturali sono costantemente umiliate da interessi politici ed economici del tutto privi di attenzione per la salvaguardia di quella che è la maggiore ricchezza del nostro Paese» ha denunciato qualche tempo fa Italia Nostra. Ed è proprio difficile dargli torto: quando proprio a Pompe. l'indifferenza della politica si tocca con mano. Per due anni, con la motivazione del degrado in cui versa l'area, hanno spedito lì il commissario della solita Protezione civile Con il risultato di «commissariare» nei fatti anche la Sovrintendenza. E già questo non è normale (che c'entra la Protezione civile con gli scavi archeologici?). Ma ancora meno normale è il fatto che da mesi, ormai, Pompei sia senza una guida. A giugno il commissario è scaduto. Mentre a ottobre il sovrintendente ancora non c'è. O meglio, il posto è tenuto in caldo da un reggente in attesa del titolare.

Che però il ministero dei Beni culturali non nomina. Perfino inutile interrogarsi sui motivi di questa paralisi. Viene addirittura il sospetto che nella stanza dei bottoni nessuno si renda conto di avere fra le mani una risorsa economica enorme in una regione che ha disperato bisogno di lavoro e sviluppo. Per dare un'idea dell'attenzione riservata a questa materia basterebbe ricordare che dal 2004 a oggi il governo non è stato nemmeno in grado di mettere in piedi un portale nazionale di promozione turistica degno di tal nome. Nonostante i milioni (non pochi) spesi.

Per verificare, fatevi un giretto su www.italia.it, dove la pratica pompeiana è liquidata in 66 parole, senza nemmeno una foto: «Per l'eccezionalità dei reperti e il loro stato di conservazione, l'Unesco ha posto sotto la sua tutela l'Area archeologica di Pompei ed Ercolano, che nel 79 d.C. furono completamente distrutte dal Vesuvio. La lava vulcanica segnò la loro distruzione ma, solidificandosi, la stessa lava che le distrusse divenne un'eccezionale "protezione" che ha preservato gli straordinari reperti, riportati alla luce molti secoli dopo». Stop. E poi c'è chi si lamenta che con il 70% delle bellezze artistiche e naturali di tutto il mondo continuiamo a scivolare in basso nelle classifiche internazionali del turismo...

“L’apologia dell’illegalità”. Potrebbe essere intitolato così uno dei passaggi chiave dell’intervento del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, il 30 settembre 2010, a Palazzo Madama. Una fiducia conquistata dopo una lunga auto-celebrazione, lui, l’uomo della provvidenza, artefice unico dello sblocco dei lavori del Ponte sullo Stretto, padre-madre di tutte le Grandi Opere. «Entro dicembre sarà pronto il progetto esecutivo, già molto avanzato, del Ponte di Messina», ha dichiarato Berlusconi. «Era stato dato anche l’appalto ad una cooperativa di imprese italiane dopo che eravamo riusciti, prodigando molti sforzi, ad evitare la partecipazione all’appalto di grandi imprese straniere, perché volevamo che quest’opera fosse un orgoglio tutto italiano. Con l’intervento del Governo della sinistra il piano è stato accantonato. Avevo personalmente, con il sottosegretario Letta, partecipato a 32 riunioni per il varo di questo piano, sino a giungere all’appalto, che è stato dato. In cinque minuti il Governo della sinistra ha accantonato il progetto. Cinque anni per costruire e cinque minuti per distruggere».

Un’esternazione shock che ha spinto due senatori del Partito Radicale, Donatella Poretti e Marco Perduca, a presentare un’interpellanza urgente alla Presidenza del Consiglio dei ministri. «Il presidente Berlusconi si è autodenunciato per avere diretto la gara d’appalto per il Ponte di Messina», scrivono i parlamentari. «Non solo ha candidamente ammesso di avere fatto di tutto per evitare che alcune imprese partecipassero solo perchè straniere, ma anche che vincesse una italiana. Berlusconi dovrà spiegare in aula in cosa sono consistiti i suoi “molti sforzi” e se le 32 riunioni citate erano state fatte per la realizzazione del piano per arrivare ad un appalto realizzato su misura per la cooperativa di imprese».

In verità, non scorre nulla di nuovo sotto il Ponte. Berlusconi, infatti, ha ripetuto in Parlamento quanto aveva impunemente dichiarato nel corso di un comizio tenuto nel novembre 2008 durante la campagna elettorale per l’elezione del Governatore della regione Abruzzo. «Sapete com’è andata col Ponte sullo Stretto?», aveva esordito il premier a L’Aquila. «Avevamo impiegato cinque anni a metter d’accordo le imprese italiane perché non si presentassero separate alla gara d’appalto ma in consorzio... Eravamo andati dai nostri colleghi chiedendo che le imprese non si presentassero in modo molto aggressivo, proprio perché volevamo una realizzazione di mano italiana, e poi avremmo saputo ricompensarli con altre opere pubbliche».

L’ammissione di aver blindato (o turbato?) la gara del Ponte giungeva dopo che parlamentari, ambientalisti e ricercatori avevano denunciato anomalie ed evidenti conflitti d’interesse nell’espletamento dei bandi. Tra le carte dell’inchiesta della procura di Monza su presunti reati societari in ambito Impregilo (la società di costruzione che guida l’associazione general contractor del Ponte), conclusasi con il rinvio a giudizio dei vecchi amministratori Paolo Savona e Pier Giorgio Romiti, uscì fuori un’intercettazione telefonica dove l’economista Carlo Pelanda, rivolgendosi al Savona, si dichiarava sicuro che «la gara per il Ponte sullo Stretto la vincerà Impregilo». Nel corso della stessa telefonata, avvenuta alla vigilia dell’apertura delle offerte, Pelanda sosteneva di avere avuto assicurazioni del probabile esito della gara «dal senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri».

Incuriositi dalla singolare vocazione profetica dell’interlocutore, i magistrati lombardi interrogarono l’ex presidente d’Impregilo. «Era una legittima previsione», rispose Paolo Savona. «Il professor Pelanda mi stava spiegando che noi eravamo obiettivamente il concorrente più forte». Carlo Pelanda, editorialista del Foglio e del Giornale, ricopriva al tempo l’incarico di consulente del ministro della difesa Antonio Martino, origini messinesi e uomo di vertice di Forza Italia. Pelanda era pure un intimo amico di Marcello Dell’Utri, al punto di aver ricoperto l’incarico di presidente dell’associazione “Il Buongoverno”, fondata proprio dal senatore su cui pesa una condanna in appello a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.

Ad interessarsi al possibile esito della gara del Ponte c’era pure Francesco Cossiga (recentemente scomparso), di cui proprio il Pelanda era stato consigliere durante il settennato trascorso da Presidente della Repubblica. Nel corso di una puntata di Porta a Porta dedicata alle intercettazioni telefoniche, in onda il 5 ottobre 2005, fu lo stesso Cossiga a dire: «Sono stato intercettato mentre parlavo con un mio amico, un imprenditore che brigava pesantemente per ottenere gli appalti del ponte». Poi l’ex Presidente si rivolse all’avvocata Giulia Buongiorno (oggi parlamentare di Futuro e Libertà), presente in studio: «Avvocato che faccio? Lo sputtano questo Pm o mi consiglia di lasciar perdere?». «Presidente, io difendo quell’imprenditore e il Pm mi ha garantito che il suo nome non comparirà. Stia tranquillo», rispose con imbarazzo la Buongiorno. Nell’inchiesta di Monza non c’è traccia del nome dell’amico di Cossiga che «brigava» per gli appalti nello Stretto.

«Quella che è stata una delle gare d’appalto più rilevanti della storia d’Italia, presenta pesanti ombre ed anomalie», scrivono i ricercatori di Terrelibere.org, che agli interessi criminali del Mostro sullo Stretto hanno dedicato inchieste e un libro-dossier. «Si sono registrati, ad esempio, un impressionante ribasso d’asta di 500 milioni di euro, una controversa penale che impegnerebbe le istituzioni alla prosecuzione dei lavori, ed infine la misteriosa defezione delle grandi imprese estere. A questo si aggiungono i conflitti di interesse tra finanziatori e finanziati, controllori e controllati e soprattutto gli incroci, le ricorrenze di nomi e società, le partecipazioni multiple che fanno pensare ad una maxi lobby che da anni sponsorizza e promuove le grandi opere».

Terrelibere.org ha denunciato, in particolare, come nella speciale commissione giudicatrice istituita dalla Società Stretto di Messina che ha assegnato l’appalto alla cordata Impregilo, ha partecipato l’ingegnere danese Niels J. Gimsing. «Oltre ad essere stato membro (dal 1986-1993) della commissione internazionale di valutazione del progetto di massima del Ponte, risulta aver lavorato nella realizzazione dello Storbelt East Brigde, progettato dalla società di consulenza Cowi di Copenaghen a cui il raggruppamento temporaneo d’imprese guidato da Impregilo ha affidato “in esclusiva” l’elaborazione progettuale del Ponte sullo Stretto».

«Tra i più stridenti conflitti d’interesse nella gara per il general contractor del Ponte – aggiungono i ricercatori di Terrelibere - c’è quello legato alla partecipazione delle Coop “rosse”, su schieramenti contrapposti, con i due gioielli più rappresentativi del settore costruzioni, il CCC Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna (in associazione con Astaldi) e la CMC Cooperativa Muratori & Cementisti di Ravenna (in associazione con Impregilo). Con l’“anomalia”, sempre tutta italiana, che proprio la CMC di Ravenna risulta essere una delle 240 associate, la più importante, della cooperativa “madre”, CCC di Bologna. Ciò avrebbe comportato la violazione delle normative europee e italiane in materia di appalti pubblici, le quali escludono espressamente la partecipazione ad una gara di imprese che “si trovino fra di loro in una delle situazioni di controllo”, ovverosia di società tra esse “collegate o controllate”». L’ipotesi di violazione di queste norme da parte delle coop durante la gara per il Ponte è stata pure sollevata dal WWF Italia e dalla parlamentare Anna Donati. Il WWF è anche ricorso davanti all’Autorità per i Lavori Pubblici e alla Commissione Europea per chiedere, inutilmente, l’annullamento della gara.

Nonostante i pesanti rilievi, la Società Stretto di Messina scelse di non intervenire, ma alla vigilia dell’apertura delle buste, il Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna scomparì provvidenzialmente dalla lista delle società della cordata Astaldi. La coop “madre” lasciò il campo libero alla coop “figlia” che si aggiudicò con Impregilo il bando di gara. Forse era a queste “cooperative d’imprese” che si è riferito erroneamente il Presidente del Consiglio nel suo ultimo intervento in Senato. In realtà la vincitrice della più che sospetta gara del Ponte è “Eurolink”, l’associazione temporanea costituita da Impregilo con una quota del 45%, Sacyr (18,7%), Società italiana per condotte d’acqua (15%), CMC di Ravenna (13%), Ishikawajima- Harima Heavy industries (6,3%) e Consorzio stabile Aci (2%).

Le anomalie e i tentativi, anche mafiosi, di condizionare le gare per la realizzazione del Ponte sullo stretto di Messina, sono stati approfonditi nei volumi:

A. Mangano, A. Mazzeo, Il mostro dello Stretto. Sette ottimi motivi per non costruire il Ponte, Sicilia Punto L, Ragusa, 2006.

B. A. Mazzeo, I Padrini del Ponte. Affari di mafia sullo stretto di Messina, Alegre Edizioni, Roma, 2010.

Il fallimento della società nata per sostenere l’attività del Mibac e naufragata fra scandali, scarsa trasparenza e inefficacia operativa. Da Il Giornale dell’Arte, settembre 2010 (m.p.g.)

Dure critiche sui criteri dei finanziamenti elargiti in modo discrezionale a destinatari privilegiati. Dopo lo scandalo dei soldi a Propaganda Fide (edificio fuori dal suolo nazionale, secondo il Concordato), sempre più in crisi la società che gestisce il 3 per cento dei soldi di Stato per le

grandi opere infrastrutturali.


In sei anni di vita la società Arcus, nata per «sostenere e avviare progetti ambiziosi riguardanti i beni e le attività culturali», ha erogato soldi dello Stato per 400 milioni di euro, 200 dei quali per il triennio 2010 -12, distribuiti a iniziative di ogni tipo, soprattutto restauri edilizi ma anche a teatri, collegi, fondazioni (compresa quella del Banco di Napoli, 500mila euro per il suo archivio storico digitale), istituti,

accademie, associazioni e poi mostre, festival, etc.

L'assegnazione di questa considerevole quantità di denaro avviene da sempre in modo giudicato poco trasparente attraverso Arcus, società formalmente privata, ma di proprietà del Ministero dell'Economia, gestita da quello delle

Infrastrutture in accordo con il Mibac. Nel depresso panorama di tagli e risparmi all'osso imposti alla cultura, Arcus è una ricca anomalia: incassa infatti il 3 per cento delle «grandi opere», i finanziamenti pubblici alle infrastrutture del Paese. Funzionamento ed esistenza della società sono sotto accusa dalla nascita, nel 2004.

Pesanti critiche sono arrivate dal Consiglio Superiore per i Beni culturali, da associazioni come Italia Nostra e da ogni relazione annuale della Corte dei Conti. Fino al 2008 la destinazione dei fondi veniva decisa direttamente dai Ministeri

in modo del tutto discrezionale. Arcus eseguiva. Poi il Mibac ha

finalmente deciso che chi vuole i soldi di Arcus deve presentare una domanda motivata e passare attraverso una istruttoria. Dovrebbe presto essere varato un vero «piano di indirizzi», sollecitato dal Consiglio Superiore per i Beni culturali, per vincolare le scelte. Da notare che nessun atto della società è mai passato in Parlamento negli ultimi due

anni. È stato così anche per i 200 milioni dell'ultimo stanziamento triennale di Arcus (2010-12).

Su circa 1.200 domande, sono stati finanziati 206 progetti: ragioni e criteri di scelte e bocciature restano vaghi, affidati a «estratti» di poche righe. Ha suscitato scandalo il

mancato finanziamento all'Abruzzo del terremoto. Tre i progetti approvati (un convento a Tagliacozzo, archeologia al Fucino e ad Amiternum). Italia Nostra aveva proposto di destinare tutti i 200 milioni di Arcus al restauro del patrimonio artistico abruzzese. Pochissimi soldi alla Calabria (2 progetti: 1 milione), al Friuli Venezia Giulia (3 progetti: 4,6 milioni), al Molise (3 progetti: per 2,6 milioni). Superfavorito il Lazio con 38 finanziamenti per 30,907 milioni di euro, oltre a ben 15,8

milioni per valorizzazione e rilancio di Cinecittà. Spiccano due strutture romane: la Pontificia Università Gregoriana (1 milione e mezzo, oltre ai 2 milioni già stanziati da Arcus nel 2005 e ad altri 900mila sempre di fondi statali dell'8 per mille tra 2007 e 2008) e il Palazzo di Propaganda Fide (ristrutturazione finanziata con 5 milioni nel 2005 e 2006 non ancora interamente versati), entrambi inseriti per il Concordato nell'elenco degli edifici del Vaticano considerati territorio straniero in Italia.

A giugno il caso Arcus è esploso con fragore mediatico intrecciandosi agli scandali immobiliari legati alla Protezione Civile (cfr. lo scorso numero, p. 4) prendendo spunto proprio dal palazzo romano di Propaganda Fide. Secondo la Procura di Perugia, la sua ristrutturazione è stata finanziata da Arcus con 5 milioni sulla base di uno scambio di «favori» con l'allora

ministro alle Infrastrutture Pietro Lunardi, cogestore di Arcus. Per avere quel finanziamento, afferma la procura, il cardinale Crescenzio Sepe, prefetto di Propaganda Fide, ha venduto a Lunardi un edificio della Congregazione a prezzo stracciato. Lunardi e Sepe sono ora indagati per corruzione.

Alla vicenda giudiziaria si è aggiunto l'intervento della Corte dei Conti. In giugno ha notificato ai vertici di Arcus la richiesta di risarcimento del «danno erariale» per «finanziamento improprio» (Lo Stato non poteva finanziare la ristrutturazione di un palazzo all'estero). La decisione di quel finanziamento spettava ad Arcus. Ma lo stesso direttore della società, Ettore Pietrabissa, ha chiarito che i tecnici di Arcus non possono mettere in discussione le scelte dei politici». Dopo lo scandalo, Bondi ha bloccato l'ultima tranche di 500mila euro a Propaganda Fide almeno fino a quando nel palazzo non sarà aperta al pubblico (pare a

fine ottobre) la pinacoteca (prevista della convenzione del 2007 con Arcus), la cappella dei Re Magi e la biblioteca di Borromini. Bloccata da Bondi anche l'erogazione del milione e mezzo di euro per il rifacimento del cortile della Pontificia Università Gregoriana (anch'essa territorio estero).

L'esistenza di Arcus, ente pagatore senza potere, soggetto a

decisioni discrezionali, appare sempre meno giustificata. Per la Corte dei Conti si limita a distribuire denaro a pioggia, secondo la vecchia logica delle sovvenzioni statali, senza né coordinamento né visione strategica.

Intanto restano un rebus le verifiche e i controlli, soprattutto cartacei, sull'esito dei finanziamenti e i risultati raggiunti. Arcus ha un organico molto ridotto e si fa aiutare sul campo dalle direzioni regionali del Mibac. «E' un carrozzone da smantellare», dice Gianfranco Cerasoli, componente del Consiglio Superiore per i Beni culturali, segretario Uil del settore: la gestione del denaro andrebbe trasferita al Mibac. Si risparmierebbero così anche il costo della sede e gli stipendi: 2 milioni all'anno. Da luglio Arcus ha un nuovo presidente, l'ambasciatore Ludovico Ortona, che sostituisce Salvatore Italia dimissionario a marzo poco prima delle inchieste. Intanto il Governo non ha ancora presentato la relazione sull'attività di Arcus nel 2009, come vuole la legge.

È difficile sostenere che la cultura possa essere esentata dai drastici risparmi che l'equilibrio dei bilanci pubblici impone a tutti. Ed è inutile rimpiangere il fiume di denaro sciupato nel passato per beni culturali fasulli, in massima parte non meritevoli di così nobile classificazione. Beni non apportatori delle sostanze nutritive vitali con cui la cultura contribuisce alla buona salute di un Paese. I tagli dunque potrebbero perfino essere accolti con sollievo se servissero finalmente a staccare l'ossigeno ad attività pretestuose della cui privazione oggi e domani nessuno patisce, se non i diretti destinatari di denaro pubblico che serviva esclusivamente alla loro sussistenza personale.

Parassiti culturali. Lo scandalo Premio Grinzane Cavour è esemplare. Quei tagli dovevano essere fatti da tempo. Oggi comunque potrebbero venire considerati una salutare pulizia se basati su valutazioni consapevoli, caso per caso, della qualità di quanto debba essere sostenuto a qualsiasi costo e di quanto invece possa essere eliminato senza rimpianto. Tagli benvenuti dunque se imponessero uno stop definitivo alle cosiddette e maledette erogazioni a pioggia, espressioni del sistema di un Paese da secoli strutturato sulla cortigianeria e sulla mendicità intellettuale. Di un Paese sostanzialmente assistenziale. Da ciò reso pusillanime, pigro, servile e corrotto. Un Paese ben rappresentato dai personaggi impersonati da Totò e Alberto Sordi.

Il sistema delle sovvenzioni era molto apprezzato dai detentori del potere economico e politico perché garantiva la sottomissione remissiva di un settore vocazionalmente inquieto e critico che in se stesso coltiva germi di pericolose virulenze. Ma per selezionare occorre una conoscenza sicura dei prodotti e delle attività, una competenza che soltanto la pratica della cultura può dare, una severità rigorosa capace di prescindere da qualsiasi giudizio che non sia una valutazione del merito e della qualità. Nessuno degli uomini politici e degli amministratori che ci governano sembra dotato di tali requisiti, di un'autentica consuetudine, esperienza e frequentazione della cultura. Chi non usa la cultura nella propria vita privata, chi non l'ha resa parte integrante della propria esistenza quotidiana, chi quindi non sa quanto essa sia essenziale non meno del cibo e delle vesti, è improbabile che possa operare con sapienza chirurgie che possono risultare letali per il benessere profondo del Paese. Ad esempio, erano state finanziate quantità assurde di libri vanitosi, inutili, pleonastici, velleitari e dispendiosi. Eppure il libro è tuttora il principale deposito e vettore di cultura: non dovremmo finanziarne più nessuno? Alcune fondazioni e governatorati regionali hanno deciso così. Su cento libri, non è totalmente sciocco, per i 98 da gettare, negare ai due o tre meritevoli il supporto di cui hanno bisogno per esistere ed essere divulgati?

Il fatto è che fondazioni e Regioni dopo aver detto di sì a tutti ora trovano più comodo dire di no a tutti. Per risanare un'azienda occorrono, ma non bastano, tagli; di soli tagli un'azienda soccombe. Occorre innovazione, capacità di riforme spesso non costose, ma semplicemente intelligenti. Tagliare con una mano, creare con l'altra. Questa è la forza e il senso della politica, il talento del governare. Di innovazioni non vediamo il minimo segnale. Questo giornale cerca con fatica di mantenersi distaccato da pregiudizi, luoghi comuni e schieramenti di parte, finge di ignorare comportamenti e linguaggi inadeguati, imbarazzanti per la loro volgarità, limitatezza, convenzionalità e oscurantismo, ma basta scorrere la squallida cronaca degli ultimi mesi perché chiunque possa farsi un giudizio della pessima qualità, dell'incredibile mal governo dei beni culturali in Italia. Ecco l'agghiacciante sequenza (nessuno osi dire che il Governo è inattivo nei beni culturali):

Restauratori

La riforma (quasi 2Omila domande giunte) appare fatalmente destinata a impantanarsi in una dimensione che denota colpevole imprevidenza mettendo a repentaglio una tradizione professionale in cui l'Italia è ancora leader.

Parchi nazionali.

La stessa ministra Prestigiacomo ha minacciato di chiuderne almeno metà se non verranno annullati i tagli di bilanci che erano già insufficienti. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Letta, incalzato da Giulia Maria Crespi del Fai, ha suggerito di promuovere una campagna stampa. Il braccio destro del capo del Governo! Se ci crede, non può pensarci lui?

Arcus.

Doveva alimentare in via sussidiaria i beni culturali, ora è sospettata di usi impropri, arbitrari e non prioritari. Leggete la lista integrale delle elargizioni in questo numero comprende casi e privilegi veramente imbarazzanti.

Beni demaniali.

L'elenco di dodicimila edifici e luoghi da trasferire in nome del federalismo terrorizza le amministrazioni periferiche (Regioni e Comuni) che li equiparano in gran parte ad altre bocche da sfamare rifilate a chi non ha pane abbastanza per se stesso. Di fatto espone edifici rilevanti e paesaggi all'abbandono oppure al rischio di usi devastanti per l'inevitabile soccombenza a interessi particolaristici che localmente (per di più in condizioni di indigenza) non paiono arginabili e controllabili. Fatto sta che lo Stato si alleggerisce di colpo di una mole pesantissima di beni di rilevanza culturale. Intanto, le città di Firenze e di Roma si sbranano con il Ministero per la spartizione dei biglietti del David e del Colosseo. E’ solo l'inizio del federalismo culturale.

Permessi edilizi.

L'avvento dopo le Dia delle Scia (licenze di costruire con semplice autodichiarazione) rappresenta il comodo cedimento della classe dirigente alla propria inettitudine riformatrice, alla propria incapacità di imporre la faticosa riforma di un'asfissiante burocrazia. Diventa quasi impossibile il controllo delle Soprintendenze. La sciagurata pratica del «silenzio assenso» per le attività edilizie significa nel Paese più delicato del mondo l'abbandono all'anarchia del paesaggio (già dimezzato e devastato negli ultimi sessant'anni), del patrimonio edilizio e dei centri storici. Di fatto è un autocondono.

Il fotovoltaico.

La tolleranza di un regime folle di incentivazioni dì insediamenti non regolati costituisce la minaccia di un cancro distruttivo di paesaggi agricoli ancora bellissimi e incoraggia l'abbandono di pregiate colture incontaminate da secoli. In pratica, si annuncia la replica di ciò che le serre sono state per la deturpazione del paesaggio. Liguria docet.

Questi sono soltanto alcuni e più vistosi comportamenti dell'attuale politica italiana. Berlusconi, Tremonti (che tace ma agisce) e Bondi certamente hanno loro problemi, meriti e talenti, ma di fatto nel settore artistico e culturale dimostrano cinica e terrificante incomprensione o indifferenza per le vere esigenze di tali beni malgrado il loro grande valore, rivelandosi persone stranamente prive di sensibilità e dimestichezza culturale (al di là di vacue e tronfie dichiarazioni di circostanza che ormai non riescono a ingannare neppure il più ottuso seguace. Ma è possibile che sia soltanto questa, così nefasta e spericolata, così cinica, la nostra «politica» nei beni culturali? Consoliamoci: sono state anche varate le ricompense per gli sponsor che dovranno finanziare i restauri del Colosseo. Uno dei principali simboli e richiami turistici del Paese) e il direttore Resca ha predisposto le gare per la gestione delle fonti di introiti per 25 musei e luoghi archeologici (biglietterie, negozi, pubblicazioni, mostre). Sono iniziative necessarie e indispensabili (da sole non giustificherebbero l'aver creato un'apposita Direzione). Passi che tali gare siano tanto restrittive da far temere d'esser state anch'esse progettate ad personam (anzi ad aziendam: lo scandalo è che gli italiani non si scandalizzano più), ma appaiono mostruosamente caratterizzate da un solo obiettivo, da una monomaniaca ossessione: lo «sfruttamento». In questo modo di fare politica la redditività dei beni artistici sembra essere l'unico valore ammesso. Una concezione davvero rozza e riduttiva per un Paese assai dotato di arte e bellezze come l'Italia.

Zero assoluto invece per riforme che sarebbero davvero necessarie e innovative. Per esempio, modificare la legislazione affinché la gestione degli introiti non sia più centralizzata ma venga assegnata a ciascun museo renderli autonomi perché assumano la responsabilità diretta del proprio successo e della propria conduzione. Premiare i dirigenti in relazione a iniziative e risultati. Restauratori, parchi nazionali, beni demaniali, paesaggio, edifici e centri storici, culture agricole tradizionali: sono capacità professionali, beni e temi a dir poco capitali del patrimonio nazionale (nostra vera, unica ricchezza), che ci accingiamo a perdere irrimediabilmente. Perderli è una prospettiva spaventosa. Perderli per un deliberato banditismo o per rapina sarebbe orribile e doloroso, come subire una violenza, come una guerra persa, ma perderli per insipienza o incompetenza di qualcuno cieco e sordo (o, se preferite, ignorante e arrogante) è irritante in misura insopportabile. Tutto ciò che uccide la nostra cultura, uccide la capacità di difendere e conservare quanto rendeva ancora diversa, ancora bella, ancora attraente la nostra Italia. Non s'illuda, caro lettore, non è uno scherzo. Nessun pentimento, nessun lieto fine a sorpresa. E la condanna a una morte certa dalla quale non sarà possibile resuscitare.

Cari amici e compagni, per la prima volta in anni, all’elettorato milanese che si è stancato della conduzione di destra della città, particolarmente nella versione morattiana, viene offerta la straordinaria possibilità di scegliere liberamente un candidato alla carica di sindaco tra tre nomi eccellenti; prodotto di procedure e di proposta chiare e trasparenti: Stefano Boeri, Giuliano Pisapia e Valerio Onida. Se fosse possibile scegliere razionalmente tra questi candidati non solo in base alle simpatie personali, ma anche in base alla valutazione della sua capacità di vincere la competizione elettorale con la destra, non vi sarebbe alcun problema, ma è proprio la qualità dei tre candidati a rendere necessario il ricorso al più efficiente dei metodi irrazionali di scelta: il principio democratico del voto, consolidato da millenni di pratica.

Nel nostro sistema questo tipo di voto si chiama “primarie”: è un metodo importato dalla pratica americana e ha dato, in quel paese, complessivamente buona prova nel corso del tempo. In Italia è stato adottato dai partiti di sinistra che hanno così dato un contributo importante alle buone pratiche politiche (poche ahinoi!) del nostro paese, anche se poi si è fatta molta retorica e anche qualche cattiva applicazione. Questa volta, invece, l’elettorato milanese si trova di fronte a una reale competizione aperta e a vere primarie: è una reale novità che deve interessare non solo il popolo della sinistra, ma tutto l’elettorato milanese. Queste primarie assumono un’importanza strategica che va al di là del pure rilevante scopo di parte: se funzionano diventano uno strumento che può contribuire a ridurre l’inquietante crepaccio che si è aperto tra gli apparati dei partiti politici (nessuno escluso, nonostante la retorica delle “gente”) e la cittadinanza.

Ma che significa “funzionare”? Intanto un primo risultato è stato raggiunto, nelle ultime elezioni i partiti della sinistra hanno presentato, dopo logoranti negoziazioni interne, candidati dell’ultimo momento, spesso non molto entusiasmanti, a volte imbarazzanti, sempre perdenti. Il nuovo metodo garantirà dunque che si sceglierà un candidato vincente? Si spera, ma ovviamente non è certo: siamo alla famosa prova del pudding di cui sapremo la bontà solo dopo averlo mangiato. Credo che tutti (e non solo gli elettori di sinistra, ma tutti i cittadini interessati a ridurre il peso degli apparati politici), dovrebbero essere contenti di un risultato felice, ma forse è chiedere troppo. Non è chiedere troppo, però, esigere che gli apparati di partito locali, soprattutto dopo tante cattive prove, si astengano dal manipolare le primarie.

Beninteso ciò non vuol dire che il PD o altri partiti non debbano sostenere il candidato che ritengono migliore, ma sarebbe bene che si trattenessero dal targare troppo evidentemente un candidato alle primarie, sarebbe un grave errore di quelli che purtroppo le dirigenze di partito della sinistra negli ultimi anni hanno dimostrato di saper compiere a ripetizione, ma che oggi, in una situazione in cui si aprono delle reali possibilità di porre fine a un regime ideologico, da cattiva abitudine si trasformerebbe in peccato mortale. Purtroppo non si tratta di un timore astratto: il tentativo si è già mostrato nel più miserabile dei modi quando nelle esequie, c’è chi ha tentato di trasformare la morte tragica del povero Riccardo Sarfatti, in un lasciapassare per una linea politica che pochi giorni prima il Sarfatti vivo non era riuscito a imporre.

E’ il segno triste che la cosiddetta logica politica, nelle menti di qualcuno, ha raggiunto livelli inauditi di miserabilità intellettuale, umana e genuinamente politica, perché l’opportunismo paranoico di parte che domina nelle transazioni partitiche oggi è rifiutato da gran parte dell’elettorato che, non potendo incidere su queste perverse abitudini, rifiuta in blocco l’area della democrazia politica. Attenti quindi. Oggi, con questi tre ottimi candidati, la sinistra pr una volta può vincere, purché vinca la tentazione di dividersi come sempre, al ribasso.

Ci sono modi e modi per fare le primarie: si possono fare delle primarie esclusive per dividere l’elettorato di sinistra da parte di ogni tifoseria, concentrando l’azione sul demolire gli altri concorrenti. Sarebbe un disastro perché poi il perdente o i perdenti resterebbero a casa o voterebbero altrove. Ma si possono anche fare primarie inclusive incentrate sul fare emergere in positivo le doti di ciascun candidato; alla fine ogni candidato ne uscirebbe comunque con un’immagine rafforzata e il vincitore sarebbe comunque invogliato a recuperare gli altri nella squadra, una squadra che avrebbe intanto ricevuto un insieme di giudizi positivi. Si può fare, non è impossibile, purché tutti ci impegniamo a non cadere nel gioco puerile dell’ammazzalamico e nello sparo nei garretti (propri) che ha dominato la politica del PD negli ultimi anni.

Cerchiamo di crescere fuori da queste puerili regressioni e di aiutare i nostri amici politicos a non ricadere nell’usuale curva sud parlamento mediatico. Sono moderatamente ottimista perché la mobilitazione anticipata dell’elettorato che questa volta c’è stata ha evitato che gli apparati tirassero fuori il solito coniglio all’ultimo momento. Su può fare, si può davvero fare se gli apparati non manipoleranno le primarie e si impegneranno a seguirne il risultato. E’ una preghiera fatta da un singolo individuo, ma chi ha orecchie per sentire l’opinione dei tanti che la sordità degli apparati relega al mutismo, non ci mette molto a capire che si tratta di una seria intimazione condivisa da molti: giù le mani dalle primarie.

Comprare e vendere case non è solo comprare e vendere metri quadri e le loro qualità prestazionali. Si comprano e vendono possibilità di relazione. Relazioni a distanza (trasporti, ma anche banda larga ecc.); relazioni di prossimità (disponibilità di servizi, qualità degli spazi pubblici, sicurezza). L’incidenza delle potenzialità relazionali sul valore degli immobili varia dunque in relazione alla posizione (le cosiddette “economie esterne”). È qui che si forma la rendita immobiliare urbana. La quale è in buona parte il frutto di un investimento pubblico e di un lavoro collettivo. Per questo le società politicamente evolute hanno cura che la quota di rendita che è frutto dell’investimento pubblico ritorni alla Pubblica Amministrazione. Non è solo una questione di giustizia sociale: solo così la Pubblica Amministrazione è in grado di operare la manutenzione e l’ammodernamento delle reti, dei servizi e dello spazio pubblico, senza cui una città e un territorio decadono.

E in Italia? Si dirà: ci sono gli standard e gli oneri di urbanizzazione. Vero; ma si è fatto di tutto per rendere i primi inadeguati e per trasformare i secondi in fonte per garantire il funzionamento corrente delle amministrazioni locali. Così le nostre città non sono messe in grado di competere sul terreno dell’efficienza e della qualità della vita.

Il Pgt di Milano punta tutto sulla possibilità dell’investimento immobiliare. Ma è come se sull’albero di Natale si appendessero balocchi di un peso spropositato. Se mai uno di questi balocchi si appenderà, il ramo è destinato a spezzarsi. L’interesse pubblico è fare città, quello privato è vendere metri quadri. Se non si trova l’armonizzazione fra obiettivi tanto distanti, il fallimento è assicurato. E a pagare il prezzo saranno le future generazioni.

Sono passati 911 giorni da quando Milano ha vinto la gara internazionale per l’Expo 2015 (era il 31 maggio 2008). Ora mancano solo 19 giorni all’esame del Bie (il Bureau international des expositions) di Parigi, che deve ufficializzare la candidatura. Ma Milano non ha ancora risolto neppure il primo problema: dove farlo, l’Expo. Ha bruciato un paio di manager che avrebbero dovuto realizzare l’evento (prima Paolo Glisenti, poi Lucio Stanca), ha perso tempo in interminabili litigi tra partiti, gruppi e cricche, ha sfrondato i bilanci perché i soldi sperati all’inizio, ora non ci sono. E adesso? Tutto rischia di saltare perché non è stato trovato un accordo su come acquisire i terreni a nord di Milano previsti per l’Expo.

Lo stallo nelle decisioni

Perché è così difficile? Che cosa impedisce di trovare una soluzione? Giuseppe Sala, il manager che ha assunto la guida di Expo spa, sa che non dipende da lui. La decisione sulle aree è nelle mani di tre persone: Roberto Formigoni, Letizia Moratti, Guido Podestà, cioè i politici al vertice di Regione, Comune e Provincia di Milano. Sono loro che non hanno ancora trovato un accordo. Perché? Per spiegare l’attuale rebus delle aree, bisogna capire una sproporzione, una differenza, uno scarto: tra le iniziali aspettative di guadagno per gli operatori (altissime) e ciò che è rimasto invece oggi sul tappeto (molto meno). Nel 2007, quando l’Expo è stato pensato, politici e operatori economici speravano di partecipare a uno dei ricorrenti banchetti italiani, grandi eventi o terremoti, in cui una cascata di soldi pubblici arriva ad accontentare amici e amici degli amici. Nella convenzione iniziale, sottoscritta nel giugno 2007 dal Comune di Milano e dai due proprietari dell’area prescelta (Fiera e gruppo Cabassi), si prevedeva di cedere i terreni in concessione all’Expo per vederseli restituiti nel 2017 con i diritti a costruire un milione e mezzo di metri cubi di uffici, residenza, spazi commerciali. Come l’intero quartiere di Milano-Bicocca. E in un’area già ben infrastrutturata, con strade, mezzi pubblici, metropolitana, parcheggi, aree verdi... Un bingo.

La speculazione quasi mancata

Tre anni dopo, le cose sono cambiate. Invece dell’Expo “pesante”, molto costruito, è prevalso un progetto “leggero”, con poco cemento e grandi orti: un immenso giardino botanico in cui i paesi partecipanti potranno presentare le loro coltivazioni, con serre e terreni che riproducono le biodiversità, i climi del mondo e le loro tipicità alimentari. Secondo l’architetto Stefano Boeri, autore con altre archistar internazionali del concept plan del nuovo Expo e oggi candidato sindaco a Milano, i metri cubi di cemento sopravvissuti sono circa 350mila. Solo un quarto dell’ipotesi iniziale. Ecco allora da dove nasce la litigiosità che ha impedito finora a Regione, Comune e Provincia di mettersi d’accordo.

Prima c’era da mangiare per tutti,e comunque si litigava per avere i posti migliori a tavola. Ora in tavola è rimasto uno spuntino e i commensali fanno fatica a rinunciare a quanto era stato apparecchiato. I due commensali principali sono, appunto, i proprietari dei terreni. Cabassi, per una piccola parte. E la Fondazione Fiera di Milano. Che vuol dire, semplificando un po’ ma non troppo, Roberto Formigoni. Ecco perché Formigoni sta facendo da mesi il braccio di ferro contro tutti: deve recuperare il più possibile della tavola imbandita. Come? Diventando egli stesso immobiliarista, un inedito immobiliarista pubblico, che oggi compra le aree e dopo l’Expo le valorizzerà. Letizia Moratti e Podestà preferivano invece il comodato d’uso. Staremo a vedere chi vincerà. Con un problema: le aree oggi sono agricole, dunque hanno un valore basso; può un’istituzione pubblica come la Regione pagarle più del loro valore (l’ultima offerta era di 90 milioni di euro per il tratto di Cabassi), in nome di una speculazione immobiliare futura?

L’ipotesi Ortomercato

A questo punto Stefano Boeri spariglia: “Andiamo a fare l’Expo all’Ortomercato: un’area già pubblica. È la soluzione migliore”. Replica Giuliano Pisapia, altro candidato sindaco del centrosinistra: “No, è meglio impiantare l’esposizione universale del 2015 negli spazi già attrezzati della nuova Fiera”. A entrambi replica Giuseppe Sala, il gran manager di Expo spa: “Impossibile fermare per sei mesi le attività della Fiera. E impossibile spostare altrove per sei mesi tutte le attività dell’Ortomercato. L’area scelta resta quella. I politici decidano come acquisirla e ce lo dicano in fretta. C’è molto da lavorare, per recuperare il tempo perduto”.

Prima l’allarme per l’Accademia della Crusca, ora quello per la Nazionale. Beni dello Stato, patrimonio culturale dell’Italia, che non hanno più neppure i soldi per pagare gli stipendi o saldare le bollette. Che ne pensa presidente Rossi?

«Che non possiamo permetterci di assistere a questo sfascio. Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi non saprei definirlo in altro modo che un progressivo e inarrestabile svuotamento dello Stato. Vado al ministero dell’Industria e non trovo un ministro, vado all’Anas e mi dicono che non ci sono i soldi per fare le strade, vado ai Beni culturali per farmi tramite di appelli disperati e anche lì allargano le braccia impotenti».

A Ida Fontana, direttrice della Nazionale, il ministero avrebbe garantito i fondi per l’apertura pomeridiana delle sale almeno fino a marzo. E Bondi propone un piano d’emergenza per integrare lo scarso personale utilizzando come bibliotecari ex dipendenti dell’Eti, l’Ente teatrale chiuso da luglio.

«Ma non è in questo modo che uno Stato provvede a una delle sue istituzioni più importanti. La Nazionale è un bene fondamentale, servono fondi veri per tenerla in vita e permetterle di funzionare a pieno ritmo. Come si può pensare che il pomeriggio sia chiusa? Sarebbe normale che stesse sempre aperta piuttosto, quale altro luogo sennò andrebbe reso accessibile a tutti a qualsiasi ora? Mi chiedo perché di fronte a questo nessuno s’indigni. Secondo me le coscienze dovrebbero ribellarsi».

Il governo taglia su tutto, dove trovare i soldi?

«Perché l’Italia non mette a gara le frequenze del digitale come hanno fatto gli altri paesi? Forse perché quelle frequenze fanno comodo al signore che ci governa e che invece di preoccuparsi di finanziare la Nazionale sta smantellando lo Stato?».

Ida Fontana è venuta a parlare anche con lei, però.

«E io l’ho ricevuta e le ho detto che faremo tutto il possibile per aiutarla, anche se la Regione sta scontando le enormi difficoltà imposte dai tagli del governo. Abbiamo anche parlato di un paio di proposte che, mi rendo conto solo a parlarne, sono del tutto inadeguate ai bisogni. La prima è quella di supportare associazioni di volontariato che formino giovani in biblioteconomia, potrebbero imparare sul campo e dare una mano al personale, una sorta di servizio civile insomma. L’altra idea è di chiedere a qualche nostro custode, su base volontaria, di spostarsi alla Nazionale, senza sguarnire la Regione naturalmente. Si tratterebbe di qualche unità, vedremo».

Crusca e Nazionale fanno parte del patrimonio dello Stato. Secondo Schiavone e Primicerio la loro gestione non si può "delegare" e neppure pensare che concedere l’autonomia sia sufficiente.

«Anche questo è paradossale. Lo Stato dà l’autonomia a Nazionale, Riccardiana, Marucelliana, Medicea Laurenziana, Governativa di Lucca, Universitaria di Pisa. Per cosa? Per poi abbandonarle a se stesse. Autonomia non vuol dire abbandono».

Il sistema Italia può reggere ancora in queste condizioni?

«Non credo proprio. Questo smantellamento dello Stato sta modificando nel profondo la struttura materiale del paese. Non importa fare colpi di Stato per ottenere effetti devastanti sulla tenuta democratica e civile, per cambiare le cose è sufficiente che lo Stato perda le sue funzioni primarie. E tutto questo a fronte di capitali che vengono importati dall’estero pagando appena il 5 per cento di tasse e di liquidazioni milionarie che, certamente, vanno ad importanti personalità ma che evidenziano sempre di più la gigantesca sperequazione sociale».

Cosa risponde a Bondi?

«A lui bisogna rivolgere la famosa battuta usata nella contestazione studentesca: "Una risata vi seppellirà"».

«Apprezzo la buona volontà del ministro Sandro Bondi di trovare una soluzione in calcio d’angolo, ma finchè il ministro non tratterà le questioni di Firenze in modo unitario e organico, il governo sarà esposto, giorno dopo giorno, a figuracce sulla stampa». Il sindaco Matteo Renzi reagisce così le iniziative prese dal ministro per «salvare» la Nazionale. Come dire, quello che serve alla città è ben altro.

«Una volta il David, una volta il Maggio, una volta è la Nazionale, una volta sono le scritte sui muri dell’Accademia e degli Uffizi. Noi siamo pronti a collaborare, ma loro devono smetterla di inseguire i problemi senza trovare soluzioni definitive», dice il sindaco. Uno scontro Firenze-Roma? Lo vedremo l’8 ottobre, quando Renzi incontrerà proprio il ministro Bondi. Un incontro già fissato da qualche giorno per discutere di tutte le questioni aperte: dalla legge speciale al teatro della musica. Adesso anche della biblioteca.

Renzi ricorda di aver già fatto presente al sottosegretario Bonaiuti il caso della biblioteca: «Riproporrò l’argomento a Bondi: purtroppo il Comune non è proprietario dell’immobile né della biblioteca: possiamo solo fare una pressione politica». Del resto, «la biblioteca rientra nel pacchetto della specialità di Firenze, di quelle cose cioè che rendono Firenze una realtà eccezionale. Lo hanno capito tutti, speriamo lo abbiano capito anche i ministri del governo che avevano promesso a Firenze una legge speciale».

Sulla vicenda v. anche l’ articolo di ieri su eddyburg

Niente case Aler, né appartamenti confiscati alla mafia, alle famiglie rom dei campi regolari: gli alloggi li trovi il prefetto attraverso i privati. Sono bastati l´intervento del ministro Maroni e poco più di un´ora al tavolo convocato ieri in prefettura per smantellare uno dei punti cardine del piano nomadi, che ancora pochi giorni fa l´assessore alle Politiche sociali Mariolina Moioli assicurava non si sarebbe toccato.

Ora, a destra, tutti plaudono alla decisione, aggiungendo: avanti tutta con lo sgombero di Triboniano entro fine ottobre. Ma in realtà ci sono ancora punti in sospeso. Primo: la convenzione firmata da prefettura e Comune vincola la chiusura dell´insediamento alla sistemazione delle famiglie regolari. Vuol dire che chi ha titolo a stare nel campo potrebbe presentare, e vincere, un ricorso al Tar. Secondo: le associazioni del terzo settore - e con loro Curia e Caritas - non sono disposte ad accettare di stracciare i contratti già firmati per le case Aler.

«Ci si impegnerà per trovare una soluzione alternativa ma stiamo parlando di sistemare persone, serve cautela» ammonisce il prefetto Lombardi. A lui è arrivata la patata bollente della ricerca di nuove case, e chissà se seguirà il "consiglio" del vicesindaco De Corato: «C´è anche il patrimonio enorme della Curia, visto che ci invita spesso a essere solidali con i rom». Ma il vicesindaco è stato superato a destra dai suoi compagni di partito nella gara a chi chiedeva più forte di non dare le case Aler ai rom. Così ora il capogruppo Pdl in consiglio comunale, Giulio Gallera, può dirsi «estremamente soddisfatto: sarebbe stato un grave errore creare corsie privilegiate rispetto a chi è in graduatoria». E l´europarlamentare ex An Fidanza: «È una vittoria politica del Pdl e una vittoria del buon senso». Certo, il fatto che a "risolvere" tutto sia stato un ministro del Carroccio fa segnare punti - nella gara di esternazioni a cui la città ha assistito - agli alleati leghisti. Il presidente del consiglio regionale, Davide Boni, riconosce a Maroni «il merito di aver disinnescato ogni tipo di tensione tra i milanesi» e il capogruppo leghista in Comune Matteo Salvini aggiunge: «Se la Lega gestirà sicurezza e politiche sociali sarà una garanzia per tutti».

Un auspicio che rimanda a un altro nodo della vicenda, perché il vertice ha sconfessato la linea dell´assessore Moioli, che ieri si è limitata a dire: «Il progetto va avanti, è tutto a posto». Il voltafaccia del Comune, di certo, non piacerà al mondo cattolico, e la sintesi la fa Pasquale Salvatore dell´Udc: «Questa vicenda si trascinerà come quella della moschea di viale Jenner. È semplicistico dire che provvederà il gran cuore di Milano». La palla rimandata alle associazioni: su questo picchia duro l´opposizione, che sperava in altre soluzioni e che giudica quella di ieri - parole del capo della segreteria del Pd, Filippo Penati - «una sceneggiata di pessima qualità». Uno «scaricabarile inaccettabile che evidenzia l´incapacità della giunta di affrontare i problemi», per il candidato Pd alle primarie Stefano Boeri. «Il segno di una sconfortante sconfitta della politica», per un altro candidato, Valerio Onida. Roberto Cornelli, segretario del Pd metropolitano, ricorda la proposta di usare le case confiscate alle mafie e attacca: «Più di 300 sgomberi dal 2007, questo l´unico atto concreto sui rom della giunta Moratti, che dimostra ancora una volta di non saper gestire le difficoltà sociali, scaricandole sulle associazioni».

Signor ministro, quella che si appresta a leggere è l’ennesima lettera che le viene indirizzata di questi tempi per lamentare le tristi condizioni economiche che affliggono un’istituzione culturale. Sono d’accordo con lei: c’è qualcosa di insopportabilmente petulante non scevro di una vaga supponenza in queste lamentele in nome della cultura. La cultura: una roba — come senz’altro deve averle detto più di una volta qualche suo collega in Consiglio dei ministri — che non produce un centesimo ma sta sempre a chiedere soldi.

Di soldi, questa volta, ha bisogno, un urgente e disperato bisogno, la Biblioteca Nazionale di Firenze. La Biblioteca — non sto certo a dirlo a lei, che di sicuro lo sa benissimo, ma a qualche lettore distratto — è la nostra massima istituzione libraria, il luogo della Penisola dove è conservata la stragrande maggioranza del nostro patrimonio a stampa specie degli ultimi due secoli. Oltre ai libri di ogni tipo, giornali, riviste, opuscoli: tutto ciò che in Italia si è pensato e scritto da un certo momento in avanti sta qui, in questi depositi, in questi schedari, in queste sale. Per far funzionare e mantenere le quali è stato speso quest’anno 1 milione circa di euro, cui il suo ministero ha contribuito con la cifra modesta di 716 mila euro (escluso il pagamento degli stipendi): cifra modesta in sé e tanto più, vorrà convenirne, rispetto all’importanza dell’istituzione finanziata. Che però, ciò nonostante, l’anno prossimo si vedrà decurtare la cifra suddetta a meno della metà: 350 mila euro. Si aggiunga, per completare il quadro, il blocco del turn over: in cinque anni il personale della Biblioteca è diminuito del 60 per cento.

Il risultato lo si può immaginare. La catalogazione dei libri, ripresa solo grazie alla generosità del Monte dei Paschi, copre solo il 10 per cento (il 10 per cento!) dei volumi pubblicati negli ultimi due anni; dappertutto arredi vecchi che cadono a pezzi, scarsa pulizia e per finire — e quel che più conta — è stato annunciato che ormai restano in cassa solo poche decine di migliaia di euro per pagare il personale della ditta che si occupa della distribuzione dei volumi al pubblico, il cui contratto scade alla fine di novembre. Dopo, quindi, bisognerà ridurre drasticamente anche gli orari di apertura della Biblioteca. In pratica, per un’istituzione come questa, l’inizio della fine.

Vede, signor ministro, se i soldi non ci sono, non ci sono, chi non lo capisce? (naturalmente per un certo tipo di cose non mancano mai, ma lasciamo perdere) e dunque nessuno intende farle una colpa di una cosa (l’entità del bilancio del suo ministero) che non dipende certo da lei. Ciò che però colpisce — che almeno colpisce le persone come me che hanno un qualche interesse diretto in questo genere di faccende — è il modo tranquillo, mi viene da dire quasi disinvolto e distratto, spesso addirittura infastidito verso chi se ne lamenta, con cui lei vive e rappresenta all’esterno questa situazione di penuria.

Lei è niente di meno che il ministro preposto all’arte, al cinema, ai musei, ai teatri, alle biblioteche, di un Paese che non è il Paraguay o il Madagascar (degni peraltro del più incondizionato rispetto), ma che è l’Italia. Lei sa che senza quelle cose, senza i musei, le biblioteche, il cinema, l’opera, l’Italia non è niente. «Noi» non siamo niente. Senza di esse anche la nostra storia, anche l’oggi citatissimo e celebratissimo Risorgimento, non significano più nulla, l’Italia scompare. Ma non solo l’Italia (come forse a qualcuno piacerebbe). Scompaiono anche, mettiamo, la provincia di Verona o quella di Bergamo; le quali senza le cose di cui stiamo dicendo diventerebbero nient’altro che due floridi distretti economici senza passato, senza radici, che potrebbero stare qui come in Cina o in Romania. Ricchi ma insignificanti: come tutto ciò che non ha identità.

Vede, signor ministro, nessuno le chiede di darsi fuoco per protesta davanti al ministero del Tesoro. Ma il Paese — per essere più modesti almeno quella sua parte che condivide il contenuto di questa lettera — le chiede se non altro di condividere pubblicamente le sue preoccupazioni, di dare a esse voce intervenendo nell’arena pubblica non solo per stigmatizzare questo o quell’indirizzo ideologico a lei sgradito. Ci acconteremmo che lei non si stancasse di spiegare all’opinione pubblica e alla classe politica che ogni euro sottratto alle biblioteche, ai musei, al cinema, ai teatri, è una ferita aperta nella nostra storia. Insomma: alla fine non le chiediamo altro che di condividere una pena, di partecipare a un dolore. Mi creda, se lei lo facesse sarebbe già moltissimo. Con il mio ossequio.

Corso Vittorio Emanuele potrebbe diventare la quarta via commerciale del mondo (occidentale). Con i suoi 50 mila visitatori al giorno - stima fatta al netto delle nuove aperture di marchi come Gap e Banana Republic dall’operatore immobiliare Beni Stabili - è stato calcolato che l’anno prossimo l’arteria dello shopping milanese sarà dietro solo alla Fifth Avenue di New York (150 mila passaggi medi al giorno), gli Champs-Élysées di Parigi (100 mila) e Oxford Street di Londra (90 mila).

Ad arricchire l’offerta commerciale del centro saranno tre nuovi centri commerciali che nei prossimi mesi saranno inaugurati nei palazzi che un tempo ospitavano i cinema Excelsior, Ambasciatori e Corallo. Spazi polifunzionali con vetrine di diverse marche, food shop e ristoranti aperti anche la sera. Il primo a inaugurare sarà il negozio Coin e Ovs Industry, l’ex Oviesse: sei mila metri quadrati che prenderanno il posto della multisala Excelsior-Mignon, chiusa nel 2008 per mancanza di spettatori. Un’operazione da 80 milioni di euro che, per l’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli, contribuirà «a rivitalizzare il quartiere, insieme all’arrivo di grandi marche che negli ultimi mesi hanno scelto Milano come nuova piazza commerciale».

Il centro dell’intrattenimento - solo qualche anno fa corso Vittorio Emanuele era la via del cinema - , si sta lentamente trasformato nella promenade dello shopping per eccellenza. Chiuse le sale, infatti, gli spazi sono stati tutti convertiti alla moda. Sia quella a prezzi stracciati come Zara, che ha preso il posto del cinema Astra di corso Vittorio Emanuele, sia quella dei grandi stilisti come Dolce e Gabbana che hanno trasformato il Metropol in viale Piave da cinema a passerella. Solo nel caso del Mediolanum di Largo Corsia dei Servi la sostituzione è stata di altro tipo: al posto delle poltroncine rosse infatti sono arrivate le panche della palestra Skorpion, che sta ancora terminando i lavori di riqualificazione.

La morfologia del centro dunque negli anni è radicalmente cambiata, diventando una zona di passaggio esclusivamente diurno, visto che alle sette di sera spegne le luci. «I cittadini sono liberi di andare al cinema dove vogliono - ribatte Masseroli - . E se scelgono le multisale della periferia dobbiamo prenderne atto e far sì che il centro si trasformi come chiede il mercato. Questa è la flessibilità di cui Milano ha bisogno. Non solo. La zona tornerà ad essere residenziale dal momento che gli uffici stanno via via spostando le loro sedi in altri punti della città. Sono certo che questo porterà con sé una maggior vivibilità anche serale».

Resta il fatto che delle 141 sale di proiezione cinematografica che si contavano nel 1970, oggi ne sono rimaste solo 17. E nonostante il nuovo modello di multisale il numero di schermi si è più che dimezzato passando da 254 a 103. In compenso, fa notare il Comune, i dieci cinema che negli ultimi anni hanno chiuso i battenti per mancanza di spettatori, sono stati trasformati (tre sono ora in ristrutturazione) in 93 mila metri quadrati di negozi, uno spazio pari alla superficie totale di Harrod’s a Londra. Ma distribuito nel centro città e (quasi) tutto dedicato alla moda. Come il Teatro Versace, quartier generale di Versace e dove Donatella organizza anche eventi musicali, o come lo Spazio Astoria, che sulle ceneri di un cinema porno oggi ospita le sfilate dell’alta moda. E ancora la "design gallery" Visionnaire di piazza Cavour, nata al posto del cinema Cavour.

postilla

Qualche volta fanno invidia, quelli che abitano esclusivamente il proprio mondo fantastico, fatto di grandi idee, e da questo traggono magari la forza per trasformarle in realtà. Come Masseroli, il quale pare si sia vantato di essere soprattutto un manager, e di non capire gran che di urbanistica. Però, detto fra noi, non pare ci voglia un luminare di settore per capire la differenza tra Fifth Avenue, Champs-Élysées, e Corso Vittorio Emanuele. Come direbbe Petrolini, “basta un paio di scarpe nuove”, ovvero farsi passin passetto prima il percorso dall’abside del Duomo a San Babila, e poi ritentare l’esperimento anche solo per qualche sezioncina contenuta di Midtown, o quando l’Arc del Triomphe continua ad essere una prospettiva irraggiungibile fra le cime degli alberi. Per capire che fare paragoni è strumentale, sciocco, fazioso. Per capire anche, guardando il panorama internazionale con occhi un po’ meno foderati di compiaciuto prosciutto, che il modello delle vie commerciali tutte identiche (perché “così vuole il mercato”) è buono solo per quei paesi sottosviluppati dove una classe dirigente locale cavernicola e arrogante ritiene chissà perché moderno e auspicabile sconvolgere la complessità urbana con artificiose iniezioni di luci al neon, che sarebbero forse suonate magnifiche un paio di generazioni fa, quando Petula Clark cantava “Downtown” (in Italia, forse in assenza di corrispettivi, la canzone si chiamava "Ciao Ciao"), ma oggi, come ci spiegano ad esempio molto bene le ricerche della New Economics Foundation, rischiano di seppellirci sotto una montagna di fuffa. Insomma di questa modernità da filmetto anni ’60 ne abbiamo abbastanza, anche chi non se ne è ancora accorto (f.b.)

DOWNTOWN

When you're alone and life is making you lonely

You can always go - downtown

When you've got worries, all the noise and the hurry

Seems to help, I know - downtown

Just listen to the music of the traffic in the city

Linger on the sidewalk where the neon signs are pretty

How can you lose?

The lights are much brighter there

You can forget all your troubles, forget all your cares

So go downtown, things'll be great when you're

Downtown - no finer place, for sure

Downtown - everything's waiting for you

Don't hang around and let your problems surround you

There are movie shows - downtown

Maybe you know some little places to go to

Where they never close - downtown

Just listen to the rhythm of a gentle bossa nova

You'll be dancing with him too before the night is over

Happy again

The lights are much brighter there

You can forget all your troubles, forget all your cares

So go downtown, where all the lights are bright

Downtown - waiting for you tonight

Downtown - you're gonna be all right now

And you may find somebody kind to help and understand you

Someone who is just like you and needs a gentle hand to

Guide them along

So maybe I'll see you there

We can forget all our troubles, forget all our cares

So go downtown, things'll be great when you're

Downtown - don't wait a minute for

Downtown - everything's waiting for you

«Milano, maggio 2015, viene finalmente inaugurata l’Esposizione Universale più attesa della storia. L’enorme lavoro preparatorio, migliaia di cittadini che hanno portato idee e proposte in centinaia d’assemblee locali, ha dato i suoi frutti. L’Expo milanese sarà il primo a impatto zero: nessuna speculazione, nessuna nuova edificazione ma un grande lavoro di recupero, riutilizzo e valorizzazione del patrimonio urbano esistente; 200.000 visitatori attesi al giorno che si muoveranno solo con mezzi di trasporto pubblico a emissione zero. Per l’occasione Milano si è rifatta il look; il nuovo bosco urbano realizzato al posto del vecchio quartiere fieristico è il simbolo della prima città mondiale ad aver risolto i problemi energetici e della mobilità con un ricorso totale a energie rinnovabili, con una rete di linee pubbliche e percorsi ciclabili che non hanno paragone al mondo. I quartieri periferici sono stati trasformati in tante cittadelle dove cultura, socialità e vivibilità sono le nuove parole d’ordine. Il Parco Sud è diventato il principale fornitore di alimenti biologici alla città e costituisce il più vasto sistema di agricoltura periurbana d’Europa; una rete wireless gratuita fruibile da milioni di persone quotidianamente ha reso la metropoli più ricca dal punto di vista culturale, cognitivo, scientifico e tecnologico; il 40% del territorio comunale pedonalizzato. Questi sono solo alcuni dei fiori all’occhiello del Rinascimento ambrosiano. Insomma oggi Milano è una città dove chiunque vorrebbe vivere e il modello cui tutte le metropoli si ispirano per superare i problemi che stanno portando il pianeta al collasso….Purtroppo non sarà così…»

Sono passati tre anni da quando scrivemmo questa visione onirica di un Expo impossibile, introduzione del dossier contro la candidatura di Milano per Expo 2015. Da allora è successo di tutto, sono cambiate tante cose, non i motivi e le ragioni che ci portano oggi, settembre 2010, a continuare a lottare contro Expo e le logiche che stanno dietro il grande evento.

Il modello economico-sociale, sino al 2007, anno di esplosione della crisi che stiamo conoscendo, si è fondato sulla finanziarizzazione di ogni spetto della vita sociale, con intreccio fondamentale tra ciclo immobiliare e mercati finanziari, con la cartolarizzazione dei crediti concessi per l'acquisto della casa, con tutti i dispositivi finanziari di cui si è parlato. Parlando ad esempio della Spagna, tanto celebrata per le sue varie 'Esposizioni' assistiamo al crollo del ciclo finanziario immobiliare che ha travolto l'economia ed ha portato a una disoccupazione superiore al 20 per cento. Lo sfruttamento estremo delle risorse territoriali e la privatizzazione totale delle sue risorse sono componenti ineliminabili delle logiche di valorizzazione, analogamente accade per la privatizzazione ed esternalizzazione di quelli che un tempo erano definiti servizi pubblici, sia che si tratti di reti infrastrutturali che di reti di servizi alle persone. Inoltre il modello, da noi noto come “modello lombardo”, esalta la precarizzazione di ogni rapporto di lavoro. Questo modello di gestione del territorio è infine privo di qualsiasi dimensione strategica; crea e deve comunque ricostruire costantemente le basi del consenso alla propria gestione del potere e del territorio, in questo la mobilitazione mediatica attorno ai grandi eventi e l'altra faccia rispetto alla mobilitazione mediatica dei sentimenti di paura e razzismo.

In questo quadro “pre-crisi” Expo 2015 serviva per ristrutturare, ridefinire e ricomporre centri di potere economico, politico e finanziario, a perpetuare modello e profitti; oggi serve per drenare le poche risorse pubbliche rimaste e beni comuni da privatizzare, scaricando, secondo logiche da shock economy, sui territori e la collettività, i costi della crisi e della speculazione finanziaria e immobiliare. Nonostante tre anni di tagli, privatizzazioni, promesse future e deroghe legislative l’operazione non decolla, anzi il pesce Expo puzza sempre più di marcio, non solo per i sempre più evidenti appetiti delle organizzazioni criminali sugli appalti di Expo.

Expo è diventato un ospite ingombrante per gli stessi che avevano cavalcato a fini propagandistici ed elettorali, l’assegnazione della rassegna a Milano e all’Italia. Malgrado le sparate roboanti dei vari sponsor politici di Expo e le rassicurazioni tremontiane, appare evidente che soldi non ce ne sono, idee men che meno, e che l’unica certezza è che per fare Expo si devono regalare soldi, sottoforma di diritti edificatori, ai proprietari delle aree, per realizzare una rassegna che anche i meno scettici vedono già fallimentare sotto tutti i punti di vista. Non a caso i balletti e le lotte intestine al blocco politico-economico maggioritario nel paese sul controllo di Expo: o Expo resta un business finanziario e garantito con denaro pubblico o crolla tutta l’impalcatura e nessuno vuole rimanere con il cerino acceso in mano, a meno di non trovare nuovi equilibri e nuovi garanti, anche in materia di controllo sociale e dei “malumori” di piazze e territori.

La lettura a posteriori delle cronache dell’estate milanese conferma quest’analisi, anche in virtù di alcuni fatti, di portata nazionale, che ben si addicono a essere applicati alla vicenda Expo.

Innanzi tutto la vicenda Expo Spa. Dietro l’uscita di Stanca e la sua sostituzione con Sala nel ruolo di amministratore delegato, uomo vicino alla Compagnia delle Opere, è ben visibile la volontà del sistema di potere formigoniano, fino a questo punto abbastanza defilato, a prendere pieno controllo dell’operazione Expo, non accontentandosi più di gestire la parte infrastrutture e solo indirettamente, tramite Fiera, le vicende legate al sito Expo. Quest’accelerazione a riaffermare il proprio ruolo da parte di Formigoni è quasi contemporanea all’intreccio di inchieste e arresti che colpiscono esponenti di spicco della Regione Lombardia, uomini della Cdo, imprenditori, cosche, scoperchiando un marciume che va dalla movimentazione terra, allo smaltimento rifiuti, alle bonifiche con evidenti riscontri dell’interesse di ‘ndrangheta e mafia per partecipare al business di Expo. Le inchieste coinvolgono anche l’area di Santa Giulia, uno dei progetti fiore all’occhiello con cui la Moratti aveva presentato al B.I.E. la Milano del 2015.

Queste inchieste non fanno che confermare un quadro già evidente tre anni fa: Expo è una grande opportunità per ‘ndrangheta e mafia, lo strumento ideale per lavare soldi sporchi e arricchirsi di profitti puliti. In questi anni diverse inchieste della Magistratura hanno evidenziato il problema, solo Moratti, De Corato, Formigoni e il Prefetto sembrano non vederlo, preferendo distogliere l’attenzione dei milanesi, individuando di volta in volta pericolosi soggetti, cui rivolgere accuse e deliri securitari (rom, centri sociali, quartieri meticci, occupanti di case per necessità). Come se non bastasse, alla piovra criminale si somma la piovra politica, spesso affine alla prima come le indagini sembrano evidenziare, e in particolare il sistema di potere e clientelare che Formigoni e gli uomini della Compagnia delle Opere hanno in tutta la regione.

Oggi tutta l’operazione Expo si può dire sia gestita da uomini Cdo: da Sala, A.D. di Expo Spa, a Fiera, proprietaria delle aree, al tavolo Lombardia controllato da Formigoni, che si occupa di tutte le opere infrastrutturali, ai comuni più interessati all’evento (il sindaco a Rho, Masseroli l’uomo del PGT di Milano, i comuni della Brianza interessati da Pedemontana e altri progetti previsti in nome di Expo). La vicenda dell’acquisto delle aree, inoltre, rende ancora più chiaro che gli appetiti affaristici sono tanti e che s’intrecciano alle lotte intestine alla destra per le prossime elezioni amministrative. Lotte che sono già emerse sull’approvazione del Piano di Governo del Territorio di Milano.

Ed è proprio quest’ultimo strumento normativo a fornire le garanzie migliori per il business Expo. Infatti, il PGT, approvato a luglio e che dovrà passare in seconda votazione entro marzo 2011, sancendo la completa deregolamentazione urbanistica e il trionfo dei diritti volumetrici, permette di trasformare in diritti edificatori i soldi che non ci sono, per buona pace di Boeri e di quanti pensano ancora all’Expo-Gulliver gigante buono. Le volumetrie enormi previste dal PGT unite al trionfo della sussidiarietà nella gestione di quelli che erano i servizi pubblici (tema e business caro alla Cdo, ma anche alle Coop, come del resto il mattone) permetteranno ai privati che investono in Expo di trovare ben laute ricompense.

Saprà la città evitare tutto questo? E come? Questa è la scommessa dei prossimi mesi, salvo implosione su se stesso di Expo complice la borsa chiusa di Tremonti. La prossima campagna elettorale sicuramente si giocherà anche su chi la sparerà più grossa e darà più garanzie sul tema Expo. Già oggi assistiamo a un riposizionamento di tutta una serie di soggetti politici ed economici, trasversali agli schieramenti, sia in chiave nazionale che milanese. Strani feeling, candidature improvvise, riconoscimenti reciproci. In questo senso la candidatura di Boeri a sindaco, sostenuta dal PD, non è solo l’ennesima ambizione dell’archistar buono per tutte le stagioni (dal CERBA nel Parco Sud, a Ligresti, ai grattacieli di Garibaldi, al masterplan di Expo). Leggiamo in quest’operazione la volontà del pallido PD milanese e del sistema economico che vi ruota attorno, di volersi erigersi a garanti dell’operazione Expo e di quanto contenuto nel PGT, magari con un po’ di case in più per le Coop (già interessate al business Expo tramite la proprietà di Euromilano sull’area di Cascina Merlata). Soprattutto vediamo il centro sinistra ambire a un ruolo rispetto ai centri del potere economico-finanziario di alternativa credibile alla destra nel portare avanti grandi eventi e grandi opere, in un clima di maggior disciplinamento e controllo sociale e di accettazione di tagli e sacrifici. Come leggere se no le tante dichiarazioni estive di Penati e Boeri che reclamavano soldi e attenzioni per Expo? Siamo al ridicolo, con la proposta di nuove aree dove fare la rassegna (da Arese a Porto di Mare) e con Tremonti che si erge a paladino degli Expo-scettici, dopo aver devastato scuola, università e ricerca per trovare i soldi per le grandi opere. Così come fa sorridere l’ingenuità di chi scopre solo oggi i rischi speculativi legati a Expo e propina prima un inutile referendum dal sapore elettorale, imbarcando chi continua a ritenere l’evento una grande opportunità per la città, un referendum utile solo alla campagna elettorale di Boeri.

Un paese normale avrebbe già chiesto scusa al mondo e risparmiato soldi per altri impieghi ben più urgenti visto lo stato di crisi che vive l’Italia. Ma le iene del grande evento, banche e speculatori vari non si arrendono e confidano che nel sempre più confuso clima politico italiano, Expo vada avanti in nome dell’orgoglio patrio e dell’emergenza nazionale. Tutti amici, tutti fratelli, tutti sul carro con il sacco da riempire e guai a chi contesta. Sembra un fumetto e invece è il contesto in cui si annuncia l’ennesimo autunno di crisi e di lotte cui la politica non sa più rispondere se non con insofferenza bipartisan e ricette sociali ed economiche a senso unico. Chi critica i signori della crisi, i Marchionne, i finti sindacalisti o riformisti teorici del meno diritti e più precarietà, è considerato alla stregua di un pericoloso terrorista. Ai territori stufi di essere saccheggiati o inquinati si risponde con le manganellate, come con gli Aquilani a Roma, o a Chiaiano. Così come con i manganelli si risponde a chi lotta per difendere il posto di lavoro e la dignità dello stesso. E mentre accadeva questo, in un agosto silenziosamente bipartisan sono state rinnovate le deleghe alla Protezione Civile in materia di grandi eventi, Expo incluso, a chiarire che comunque non esiste altro Expo che non quello che hanno in mente lorsignori, costi quel che costi.

Solo un soggetto manca nella tragi-farsa: la popolazione della metro-regione Milano, coloro che pagheranno i costi diretti di Expo, così come sono assenti le tante vittime indirette, i “tagliati” nella scuola e nei servizi pubblici, i precarizzati. Sembra che Expo cali dall’alto e i soldi maturino nelle fantomatiche serre. Sappiamo bene che non è così, che la città sta già pagando i costi di Expo uniti e sommati a quelli della crisi. E sappiamo che le tasche degli italiani sono già troppo impoverite per poter arricchire una casta privilegiata ingorda e arrogante. Sappiamo anche che il prossimo voto milanese non risolverà la partita, se non si esce dalla logica “degli expo” o delle “olimpiadi” e non si pensa a un progetto di città, di convivenza sociale, di pubblico e bene comune, di nuovo welfare su scala metropolitana. Tutto questo manca nel dibattito, non solo milanese, perché non è funzionale alla metropoli onnivora cara al capitalismo globalizzato e che Milano ben rappresenta. Ma i bisogni e le emergenze restano e quindi la necessità che siano le persone, le popolazioni, i soggetti attivi sul territorio a ritornare protagonisti, condividendo saperi e percorsi reticolari di lotta e rivendicazione, a partire dalle emergenze più immediate: fermare il PGT di Milano (con ricadute positive a cascata sui PGT dei comuni metropolitani) e avviare un percorso virtuoso di ripensamento sulla città metropolitana, sul concetto di servizi pubblici e di mobilità, d’interesse pubblico e bene comune; uscire da Expo 2015 e costruire un movimento più ampio per l’abolizione della Legge Obiettivo (quella delle grandi opere e dei grandi eventi in deroga a tutte le norme e poteri speciali nelle mani di pochi); rilanciare la città con un patto sociale basato su un nuovo modello di welfare metropolitano, che garantisca continuità di reddito, servizi pubblici.

Comitato No Expo, settembre 2010;
info@noexpo.it

Al rientro a tarda notte nell’umida padania dall’ultima giornata di relazioni e discussioni napoletana della Scuola estiva di Eddyburg, mi sono trovato nella buca delle lettere l’ultimo numero del patinato bollettino comunale di Monza.

Beh, di sicuro, il progresso è inarrestabile. Mentre nelle sale del Parco Metropolitano delle Colline, o tra i filari di viti dell’Eremo, si discettava di ricchezza collettiva urbana, dei modi migliori per valutarla e farne usi meno scellerati della media, in altre lontane sale e ambienti tono e sostanza erano assai diversi. Come mi conferma una paginetta del succitato bollettino comunale.

Recita, testuale:

Polo di Sviluppo … una superficie lorda di pavimento terziaria e produttiva avanzata di 94.924 metri quadrati, e residenziale di 31.600.

Si tratta dell’ultima trovata della giunta pidiellina-leghista, ovvero la variante al piano di governo del territorio per l’ormai famosa area della Cascinazza. Che importa se solo qualche anno fa di poli di sviluppo terziario produttivi avanzati non ne parlava nessuno, e fra quei prati gli sviluppisti a oltranza sognavano e declamavano l’indispensabilità di un bel quartiere residenziale, incluse stradine a cul-de-sac con rotatorie per l’inversione di marcia del furgone ombrellaio-arrotino!

Quello che conta è il metro cubo, scambiabile con denaro sonante nella quota cosiddetta “di mercato”, ovvero decisa a tavolino dagli amici degli amici. E per giustificare l’alluvione delle cubature con una funzione qualunque si segue la strada maestra della neodemenza demografica indicata dai ciellini milanesi: previsioni spropositate di crescita della popolazione, da 120.000 a 180.000 abitanti in una manciata di anni. Tanto poi inventarsi nuove denominazioni per il metro cubo approvato e realizzato è facile, no? Lo leggiamo tutti i giorni sui giornali, il turbine di tribunali, residenze per anziani, giovani, oran-goutan scapoli o quaternario avanzato, che va e viene dalle desolate periferie meneghine.

Poi via col malloppo, e chi s’è visto s’è visto.

Deve essere gente che da giovane ascoltava certa musica d’autore italiana, e ancora si ricorda benissimo, a modo suo, quel solenne finale: Ma Noi Non Ci saremo.

Non sarebbe possibile, magari, cambiare ritornello?

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