La furia devastatrice del partito degli affari immobiliari è particolarmente vivace in Sicilia. Anche in quella regione le istituzioni sono spesso strumenti degli interessi economici più arcaici, e concorrono a distruggere ciò che innanzitutto a loro spetterebbe tutelare. La notizia del giorno è il tentativo della Giunta regionale siciliana di abolire (sic: “abolire”) il Parco archeologico della Valle dei templi di Agrigento. Abbiamo chiesto a Teresa Cannarozzo, che è stata vicepresidente del Parco, di informare eddyburg in proposito.
I luoghi
Nel territorio agrigentino si materializzano i contrasti più stridenti: l’eccezionale patrimonio archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi e un abusivismo edilizio diffuso e multiforme; orti urbani e giardini lussureggianti che si incuneano all’interno di periferie miserabili; una maglia invasiva e ingombrante di opere viarie, per lo più in viadotto che ha massacrato il territorio e il paesaggio.
Il Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi comprende al suo interno l’antica Akràgas, di cui si possono leggere frammenti significativi in alcune aree scavate da tempo. La città classica era solcata da due fiumi ed era difesa da forti salti di quota e da una cinta murata che non si distingue per colore e materiale dalle rupi sottostanti.
L’Ente Parco
L’Ente Parco è stato istituito da una legge regionale: la n. 20 del 2000. La legge assegna all’Ente Parco propri organi di gestione, il compito di redigere il Piano del Parco, di tutelare e valorizzare i beni archeologici, paesaggistici e ambientali, di promuovere la ricerca archeologica curandone anche l’aspetto divulgativo, di potenziare la fruizione sociale e turistica delle risorse territoriali per incrementare il turismo culturale.
Altre attività di routine del Parco riguardano la manutenzione e il restauro del patrimonio vegetale e dei terreni agricoli espropriati; si è sperimentata anche una piccola produzione di olio e di vino.
Dopo un lungo periodo di commissariamento, alla fine del 2006 è stato ricostituito il Consiglio del Parco che si è dato alcuni obiettivi prioritari: la redazione di una Carta Archeologica, la costruzione di una nuova strategia di comunicazione delle risorse del Parco e la ripresa dell’iter di formazione del piano del Parco.
Il piano
La finalità principale del piano, faticosamente redatto e in fase di approvazione da parte dell’Assessorato Regionale ai BB.CC.AA.AA., è quella di rafforzare l’identità del paesaggio della Valle, indebolita dall’abbandono dell’agricoltura, da una edificazione strisciante e da svariati attraversamenti viari, attraverso una serie di azioni progettuali partecipate, articolate tra tutela, recupero, riqualificazione e valorizzazione.
Il primo obiettivo del piano è rendere accessibile e visitabile tutto il patrimonio archeologico esistente attraverso la proposta di nuovi itinerari. Per ampliare la durata e la tipologia delle visite il piano prevede un itinerario che include anche il centro storico e la vicina Rupe Atenea, dove sono visibili edifici di origine classica, aree archeologiche minori e tratti delle fortificazioni. Per le stesse finalità il piano prevede interventi di rinaturalizzazione e riqualificazione della fascia costiera e degli alvei dei due antichi fiumi lungo i quali propone itinerari naturalistici e green ways.
Il piano prevede anche un nuovo sistema di accesso al Parco basato su parcheggi intermodali tangenti alle aree archeologiche, in connessione con bus navetta che copriranno diversi percorsi di visita; si prevede anche di utilizzare il tracciato ferroviario che attraversa la Valle e che arriva alla città, attualmente adoperato in occasioni sporadiche.
Il piano affronta il tema del riuso del patrimonio edilizio storico all’interno della Valle e propone di ampliare il sistema dei servizi e delle attrezzature prevedendo punti di informazione, luoghi di esposizione e vendita dei prodotti tipici, aree di sosta e ristoro, centri di ricerca, foresterie per gli studiosi e spazi museali.
Il piano propone anche una inversione di rotta nei rapporti con i proprietari di immobili all’interno della Valle; prevede infatti di fermare la politica degli espropri che hanno causato fatalmente l’abbandono delle aree rurali e degli edifici, con grande danno per la conservazione del paesaggio agrario e di inaugurare rapporti di convenzione con i residenti, sia per il mantenimento dell’agricoltura che per la fornitura di alcuni servizi.
In definitiva il piano considera il Parco un territorio multifunzionale, caratterizzato da una molteplicità di risorse, aperto contemporaneamente al mondo e alla città, in un processo di riappropriazione identitaria, storica e culturale da parte della comunità locale.
L’assalto del Governo Regionale
Nonostante i risultati positivi conseguiti nella gestione del Parco, il governo regionale in carica ha fatto intendere in diverse occasioni che avrebbe voluto smantellare l’Ente, cancellandone l’autonomia finanziaria e le competenze. Ma questo obiettivo sarebbe stato raggiungibile solo modificando o abrogando la legge istitutiva, a suo tempo voluta da un ampio schieramento politico trasversale.
La presentazione della finanziaria da parte del Governo, in corso di discussione all’Assemblea Regionale, è sembrata l’occasione utile: è stato introdotto infatti un emendamento devastante che cancella gli organi di gestione del Parco e, incredibilmente, anche il Piano, che tra l’altro è costato una cifra esorbitante. Sono infatti abrogati gli articoli da 7 a 14 del Titolo I della legge 20 del 2000.
Naturalmente, la cosa non è passata inosservata e si è scatenata una forte reazione, specie da parte di alcuni deputati del PD di Agrigento.
Si dice che l’emendamento sia stato ritirato ma la finanziaria è ancora in discussione e potrebbe essere riproposto. Per altro come accade dappertutto, la stampa, ancorché sollecitata, ignora le vicende di questo genere e il dissenso si muove attraverso percorsi carsici senza arrivare facilmente all’opinione pubblica.
Galleria sotto vetro per almeno sette mesi. Dopo anni di annunci partiranno mercoledì prossimo i lavori per il restauro della pavimentazione del Salotto. Ma i milanesi e i turisti potranno seguire tutte le fasi di lavorazione perché si procederà per sezioni e le singole aree d’intervento saranno delimitate di volta in volta da protezioni verticali trasparenti e da passerelle orizzontali sempre in plexiglass. Il tutto, promette il Comune, si svolgerà senza penalizzare i commercianti (dovrebbe essere garantita quasi sempre la possibilità di mantenere i tavolini all’esterno) e il passeggio. «Compatibilmente con la tempistica richiesta dalle diverse fasi di lavorazione — si legge nella relazione tecnica degli architetti Silvia Volpi e Pasquale Mariani Orlandi — l’intervento sarà eseguito senza danneggiare il normale svolgimento delle attività commerciali» .
Per velocizzare il più possibile i tempi dell’intervento (che comincerà mercoledì con le campionature) in alcune aree, per esempio sul passaggio centrale e all’Ottagono, si lavorerà giorno e notte. E il cantiere partirà in contemporanea lungo i bracci lato piazza Duomo e lato Scala. Finito questo intervento toccherà al tratto su Ugo Foscolo e a quello verso Silvio Pellico. Restaurati anche i bracci laterali sarà quindi la volta dell’Ottagono e dei portici settentrionali di piazza Duomo. In coda i portici meridionali. Obiettivo: restituire alla città la Galleria scintillante entro 210 giorni. Per l’intervento, di cui si parla da anni, Palazzo Marino ha previsto una spesa di 1.970.000 euro. Soddisfatto del traguardo raggiunto l’assessore alle Infrastrutture e ai Lavori Pubblici, Bruno Simini: «Siamo intervenuti e stiamo intervenendo in molti ambiti in cui i milanesi vivono— sottolinea —.
Ora è il momento di occuparsi anche dello spazio per eccellenza in cui i milanesi "ospitano"i cittadini di tutto il mondo. Un luogo emblematico della città che finalmente tornerà a brillare» . La pavimentazione del Salotto di Milano verrà ripulita con mole, spazzole e saponi, per poi essere rinforzata e stuccata nei punti più malridotti. Le tessere del mosaico ormai irrecuperabili saranno sostituite e al termine del restyling sono previste ben quattro levigature, oltre alla lucidatura finale e al passaggio con olio e prodotti idrorepellenti. Anche i lucernari centrali verranno rimessi a nuovo. Scrivono ancora gli architetti nella relazione: «L’intervento sarà volto alla conservazione dei materiali e delle tracce storiche che su di esse il tempo ha impresso non trascurando la sicurezza e l’incolumità degli utenti» .
Per tutto il cantiere si farà base in via Ugo Foscolo. Il restauro della pavimentazione non è però che un aspetto della nuova vita immaginata dal Comune per la Galleria. Il progetto di Palazzo Marino punta verso uno sviluppo anche verticale, cioè sui piani superiori, e per arrivarci la giunta ha già approvato alcune delibere di indirizzo. La prima ristrutturazione sarà quella dell’ala che guarda su via Foscolo, per una superficie lorda di circa 5 mila metri quadrati: da McDonald’s (al fast food non verrà rinnovato il contratto d’affitto) ai palazzi in parte ancora abitati. Verso questo obiettivo si procede a piccoli passi, uniformando le scadenze d’affitto. Ieri la giunta comunale ha messo un altro tassello, approvando una delibera relativa a un immobile di via Silvio Pellico con destinazione commerciale, rinnovando la concessione con un nuovo canone, allo scopo di rendere più redditivi gli spazi.
Milano è una Metropoli che supera di gran lunga il suo perimetro amministrativo. È il motore della regione urbana con la più alta produttività in Italia: in un’area che unisce diversi territori provinciali, si concentra il 14%della popolazione italiana e quasi il 20%del prodotto interno lordo del Paese. Chi lavora o studia a Milano— nella parte più densamente abitata e connessa dell’intera regione urbana — sa bene che a fronte di non pochi svantaggi, inquinamento e traffico in testa, esistono convincenti opportunità di lavoro. Al punto da spingere molti italiani e immigrati a cercar casa dentro o attorno ai suoi confini.
Milano è una di quelle città a cui le grandi trasformazioni in atto— globalizzazione e nuove tecnologie che creano e distruggono posti di lavoro — assegnano una responsabilità importante: ricavare il massimo beneficio dalla vicinanza fisica tra le persone. Come spiega bene Edward Glaeser nel suo recente libro «The Triumph of the City» , l’uomo è una specie sociale: apprendiamo e mettiamo a frutto ciò che impariamo grazie al poter vivere e lavorare «vicino» a persone che hanno talento, qualità, competenze. Glaeser è un economista e sostiene con forza la tesi dei vantaggi dell’ «agglomerazione» : le imprese e gli individui sono più produttivi quando scelgono di stare vicini in aree molto dense.
È questa prossimità fisica che rende più facile la circolazione delle idee e la nascita delle scoperte e delle innovazioni. Negli Stati Uniti il 18%del prodotto nazionale viene dalle tre maggiori aree metropolitane. Saranno le grandi città, e Milano in Italia, a trainare il resto dell’economia fuori dalla recessione? Per interpretare bene questo ruolo, le grandi città e i loro amministratori hanno di fronte due sfide importanti: aumentare la densità con un’offerta di buone abitazioni a basso costo— senza perdere di vista il complesso equilibrio con la bellezza architettonica e la qualità della vita in comune — e prestare una attenzione smisurata alla qualità della scuola e del sistema universitario locale: è qui che nasce quel capitale umano che rende poi così attraente il processo di apprendimento dagli altri attorno a noi.
Due sfide che a Milano si materializzano da una parte nelle scelte sull’urbanistica e sullo sviluppo economico locale— pensiamo al modo non scontato in cui verrà applicato o rivisto il piano di governo del territorio approvato dalla giunta comunale — e dall’altra nelle scelte su come rilanciare il sistema dell’istruzione— pensiamo al ruolo della scuola pubblica o agli investimenti delle Università locali nella ricerca. Si tratta di terreni importanti su cui misurare le idee dei candidati sindaci alle amministrative del 15 maggio. Non dobbiamo aver paura di una Milano più densamente abitata, ma di una città che non sa più trasformare le forze dell’agglomerazione, lo stare vicini, in una crescita della produttività, della qualità dell’istruzione e delle opportunità che essa sa offrire.
Ha ragione, il professor Giovanni Padula, soprattutto in due punti del suo articolo: quando all’inizio ci ricorda come “Milano è una Metropoli che supera di gran lunga il suo perimetro amministrativo”, e poi quando verso la metà del pezzo osserva che Edward Glaeser è un economista. Si può partire da qui, e prendere per comodità ad esempio il capitolo del citato Triumph of the City proposto qualche mese fa sulle pagine di Mall: Il grattacielo salvezza della città. dove il pur colto professore di Harvard discettando qui e là sul tema delle densità urbane, dalla Chicago di fine ‘800, attraverso la classica Manhattan fino alle megalopoli asiatiche di oggi, dimostra orgogliosamente di ignorare qualunque atomo di disciplina urbanistica, perché ostacola inutilmente il libero dispiegarsi del sacro ciclo domanda-offerta. Il che andrebbe benissimo se poi non pretendesse appunto (è il senso del libro) di esprimere giudizi generali sulla città dai sumeri alle archistar del terzo millennio.
Ad esempio sviluppando interi paragrafi sulle meraviglie della domanda e offerta in rapporto alle densità, col calo dei prezzi, ma senza curarsi di distinguere fra destinazioni residenziali, terziarie, spazi pieni, spazi vuoti, insomma senza curarsi di distinguere fra una città e una operazione finanziaria: del resto, a lui la città interessa proprio ed esclusivamente da quel punto di vista.
E basta leggere il capitolo di Triumph of the City dedicato a Milano (e relativi riferimenti bibliografici) per rendersi conto che Glaeser esprime giudizi globali secondo un criterio a dir poco induttivo: lunghi cicli storici di sviluppo, letti prevalentemente se non esclusivamente nella prospettiva dei vincitori, nel caso specifico operatori finanziari, della moda, del design. Non certo degli abitanti, e neppure di tutti gli operatori economici che da lì se ne sono scappati a gambe levate da lunga pezza. E arriviamo alla questione urbanistica.
Milano, anche la Milano di Glaeser e Padula, è una regione metropolitana: come hanno osservato fino alla noia TUTTI gli osservatori della pianificazione territoriale e urbanistica recente (ovvero dagli anni ’80 della contrattazione privatistica al Pgt attuale) spicca fra le enormi lacune proprio lo stare chiusi a chiave dentro i confini comunali, salvo varie chiacchiere e distintivi: dalla “T rovesciata” della Grande Milano subappaltata ai grandi operatori, ai quasi involontariamente umoristici primi paragrafi del nuovo Documento di Piano , dove spicca fra i riferimenti teorici l’inconsistente modello della “città infinita”, elaborato su commissione da gente che di territorio non ne capisce nulla, e solo per vendere ai gonzi l’ennesima autostrada.
In definitiva: che ci azzecca l’urbanistica, il Pgt, con il bacino socioeconomico metropolitano e la città postmoderna, delle economie della conoscenza, cantata da Glaeser? Questo il professor Padula non ce lo spiega, a meno che tutto non trovi poi la sua bella ricomposizione nelle varie cittadelle della ricerca finanziate dagli speculatori su aree libere, che però dentro al Piano diventano “zero consumo di nuovo suolo”. Non vorremmo che economia della conoscenza sia economizzare appunto sulle cose che si vogliono sapere (f.b.)
Aeroporto, niente scambi con la tramvia. Sulla pista parallela non ci sono compensazioni che tengano: «Se Manciulli e Rossi vogliono discutere di tramvia bene. Benissimo. Ma sia chiaro che con l´aeroporto e il parco non c´entra nulla». Dalla vetta della discarica di Case Passerini con vista sui terreni della pista parallela, i sindaci della Piana restituiscono l´offerta al mittente: «Per la tramvia non ci vendiamo».
Era stato il segretario regionale Pd Andrea Manciulli a dirlo all´assemblea a Sesto, mercoledì scorso: «Il primo problema della Piana è il traffico». Non l´aeroporto, aveva detto il segretario, facendo intendere di esser lì ad anticipare una proposta del governatore Enrico Rossi. E i sindaci della Piana, al sopralluogo organizzato dal sindaco di Sesto Gianni Gianassi per «dimostrare che la pista parallela cancellerebbe tutto», gli hanno risposto. «Anche Mubarak ha fatto finta di nulla ma poi ha dovuto accettare il dialogo. Sarebbe intelligente mettersi a discutere», gli dice il sindaco di Campi Adriano Chini. Il presidente toscano Rossi come Mubarak dunque? «Finora il dialogo non c´è stato, la tramvia è sicuramente un bisogno, ma non può essere messa sulla bilancia. Che modo è?», insiste Chini. «Aeroporto e parco con la tramvia non c´entrano», sostiene anche il sindaco di Calenzano Alessio Biagioli.
I sindaci della Piana ricordano che la discarica sta lì a testimoniare che loro non sono i sindaci del no: «Ci sono qua oltre 2 milioni di metri cubi di rifiuti proveniente anche da Firenze». E che sono stati eletti con la promessa del parco e del termovalorizzatore: «Abbiamo fatto la campagna elettorale in ottemperanza con quanto deciso dalla Regione. E i "ribelli" adesso sono quelli che vogliono cancellare tutto con un colpo di spugna», dicono i sindaci della Piana muovendo il braccio per indicare i terreni che dovrebbero essere asfaltati per far posto alla pista. Sul fianco destro dell´autostrada A11, con le spalle a Firenze, fino all´altezza del distributore. Direzione Prato, in bocca all´ex Motel Agip di Firenze nord: «E´ chiaro che la pista parallela cancellerebbe una volta per tutte il parco».
«Dobbiamo capire meglio di cosa parliamo, vediamo il piano industriale. Problemi, mi pare, ce ne sono», dice il presidente della Provincia Andrea Barducci. «Questo è un nuovo aeroporto», scuote la testa la consigliera regionale Pd Daniela Lastri. «La guerra interna del Pd impedisce un esame sereno e il vero rischio è che alla fine non si decida nulla», incalza il collega dell´Udc Marco Carraresi. Mentre anche il consigliere Pd Paolo Bambagioni appare perplesso. Soprattutto per il voto che sarà chiamato ad esprimere: «Votare la variante al Pit? Sono aperto, ma per ora vedo buone ragioni per non farla, aspetto di vedere quelle a favore».
"La pista non c´entra". "Guardate quanto spazio"
Gianassi e Giani, ovvero i mondi paralleli del PdÈ stato il sindaco di Sesto a volere la visita: assenti le giunte fiorentina e pratese Se si sposterà il Fosso Reale la Firenze-Mare dovrà essere alzata di sette metri
«Guardate l´autostrada: la striscia d´asfalto della pista arriverebbe fino all´altezza del distributore. E altri 2-300 metri se ne andrebbero per la fascia di salvaguardia. Qui la pista non c´entra», dice il sindaco di Sesto Gianni Gianassi. «Avete visto quanto spazio? Più vedo la Piana e più mi convinco, il parco ci sta anche con la pista», ribatte il presidente del Consiglio comunale e consigliere regionale Eugenio Giani.
E´ quasi mezzogiorno e la carovana di sindaci, amministratori e politici è sulla sommità della discarica di Case Passerini, la collina dei rifiuti che torreggia sul lembo di terra più conteso della storia politica fiorentina. Al sopralluogo «sul campo» voluto dallo stesso Gianassi mancano solo la giunta fiorentina e quella pratese. E sotto il cielo grigio di questo fine settimana pasquale, svettano sullo «skyline» della città la cupola del Duomo e il Palagiustizia ad un tiro di schioppo.
Quasi non si avverte l´olezzo perforante che nei giorni ventosi veleggia fino a Novoli. Si avverte invece l´odore acre dello scontro di casa Pd. La Piana, Prato le due Province da una parte, la Regione e Palazzo Vecchio dall´altra. Nero e bianco, perfino davanti allo stesso quadro. Qualcosa di più però di un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Perché comunque la si veda, realizzare la pista parallela è un´opera faraonica. Per il conto economico che comporta.
Per fare la pista si dovrebbero espropriare ben 120 ettari di terreno privato. In pratica, l´intero fabbisogno. A quale prezzo? Il Polo scientifico di Sesto, che si trova proprio sopra la pista futuribile, si è visto chiedere 200 euro al metro per la cassa di espansione idraulica. Ma l´esproprio è solo l´inizio.
C´è da spostare lo svincolo autostradale per Sesto. E c´è, soprattutto, da spostare il Fosso Reale. Che non in realtà un fosso ma un canale pensile a 6 metri dal livello del suolo. E visto che oggi attraversa l´autostrada più o meno a metà della lunghezza della ipotetica pista parallela dovrebbe essere portato più a nord. Con la conseguenza di dover innalzare di almeno 7 metri l´attuale carreggiata dell´autostrada, cioè dell´imbocco della Firenze Mare. Non è finita. C´è da spostare la stessa cassa d´espansione idraulica del Polo scientifico, situata proprio sulla direzione della pista. E c´è da spostare anche l´oasi della Querciola, dove i Cavalieri migrano arrivando puntualmente il 13-14 marzo di ogni anno per poi ripartire a fine agosto. Per non parlare dell´oasi di Focognano, che verrebbe asfaltata. Ma chi paga? Chi tira fuori i soldi?
Secondo i conti fatti dall´assessore all´urbanistica di Signa Paolo Pecile (che è stato anche amministratore dell´aeroporto), c´è bisogno di qualcosa come 220 milioni di euro. Una cifra enorme. Che, stante le difficoltà finanziarie del pubblico, non potrà che arrivare dal privato. Ma quale se lo stesso Pecile, davanti alla commissione regionale, ha fatto presente che l´attuale società di gestione non è in grado di sostenere più di 30-40 milioni d´indebitamento?
Eppoi: «Ammesso che ci sia un privato disposto a tirar fuori questi soldi, quanti milioni di passeggeri dovrebbe movimentare Peretola per coprire l´investimento?», chiedono i sindaci della Piana, Alessio Biagioli (Calenzano), Adriano Chini (Campi), Alberto Cristianini (Signa) e Gianassi. Rinnovando la richiesta di un piano industriale centrato sulla pista parallela per capire di cosa e di quanto parliamo. «Senza il piano industriale rischiamo di fare solo una discussione astratta», mandano a dire al governatore Enrico Rossi. Una vera e propria sfida, visto che a stare ai conti dell´assessore Pecile, gli unici fin qui presentati, l´aeroporto di Firenze avrebbe bisogno per rientrare dagli investimenti di un numero di passeggeri di gran lunga superiore al bacino potenziale della Toscana centrale.
Le difficoltà urbanistiche, la complessità delle opere, i soldi: «Sapete come andrà a finire? E´ dagli anni ´90 che abbiamo detto di voler fare il termovalorizzatore», dice Gianassi indicando l´area sottostante la discarica destinata ad accogliere l´impianto e il camino di 70 metri. Ma non prima del 2016-2017: «Immaginatevi dunque se si vuole realizzare un´opera come la pista parallela che non ha neppure il consenso delle amministrazioni - conclude Gianassi - la storia italiana dice che non si farà mai».
Intesa tra Comune e imprese sulle opere di riqualificazione ambientale. Ma per la rete No Ponte si tratta di pochi interventi in cambio di devastazione del territorio e inquinamento
Devastazione del territorio, discariche, inquinamento e rumore, in cambio di uno svincolo autostradale, un depuratore, la bonifica e riqualificazione delle aree di discarica e gli indennizzi per gli espropri. “Un vero e proprio ricatto”: così la rete No Ponte definisce l’accordo per la costruzione dell’opera sullo Stretto raggiunta dal comune di Messina e dai rappresentanti della Stretto di Messina spa e del contraente generale Eurolink (associazione di sette imprese guidata da Impregilo). L’intesa, che per il Comune è un formale “accordo procedimentale” che accelera la procedura per l’avvio dei lavori preliminari alla costruzione, è stata definita formalmente, ma non è ancora operativa: riguarda l’alloggiamento dei cantieri, la gestione delle terre da scavo e dei siti di stoccaggio, la realizzazione delle opere di riqualificazione ambientale dei siti e la loro destinazione all’uso pubblico, e infine gli espropri, che interessano circa 500 soggetti tra semplici cittadini e società.
Secondo il movimento No Ponte, quella offerta dalle imprese costruttrici è una “compensazione ricattatoria. Accettare di trasformare la città per anni in un mega-cantiere, dagli effetti inimmaginabili per la vita di oltre 200mila persone – spiega Luigi Sturniolo, uno dei fondatori del movimento – è il segno della debolezza e povertà delle amministrazioni locali: si cerca di ottenere in altro modo ciò che non è possibile fare con il bilancio ordinario”.
Di accordo importante parla invece Pietro Ciucci, amministratore delegato della Stretto di Messina spa: “Offre al territorio una significativa opportunità di recupero ambientale ed idrogeologico di un’area compromessa che sarà restituita alla sua originaria destinazione agricola”.
Ma Sturniolo non ci sta: “È quantomeno strano l’ottimismo di Ciucci – replica – visto che si stanno pianificando discariche per il materiale inerte in un territorio che, come è noto a tutti, è fragile sul piano idrogeologico e dove ci sono decine di aree di impluvio. Parlare addirittura di ‘recupero ambientale’ mi sembra discutibile». La frequenza delle frane sul versante tirrenico di Sicilia e Calabria non è una novità e questo punto, sottolineano gli oppositori del ponte, potrebbe rivelare l’insostenibilità del progetto già nel primo anno di lavori. Un argomento oggi più che mai attuale, dopo l’alluvione dell’1 marzo che ha devastato Camaro Superiore e Mili San Pietro (100 milioni di danni e nessuna vittima, ma solo per caso), frazioni di Messina non lontane da Giampilieri, teatro della drammatica alluvione dell’ottobre 2009. “L’ennesimo episodio che dimostra come bisognerebbe utilizzare il denaro pubblico – sostiene Sturniolo – e cioè spostando le risorse destinate al Ponte per rispondere alla richiesta di sicurezza degli abitanti delle zone a rischio sismico e idrogeologico. Solo nel 2010, per il Ponte sono già stati sperperati 110 milioni di euro per trivellazioni e progettazione definitiva”.
Pubblici sono finora gli unici soldi stanziati per il Ponte: 1,3 miliardi di fondi Fas. Soldi stanziati ma comunque non disponibili, come conferma la relazione della Corte dei Conti del 15 dicembre 2009. “La maggior parte della spesa sarà però finanziata dai privati (60% del totale secondo lo schema del project financing), che ovviamente non hanno intenzione di investire nella sicurezza del territorio, per loro non redditizia”, spiega al Fatto il sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca. Eppure nel libro L’insostenibile leggerezza del Ponte, Domenico Marino, professore di politica economica all’Università di Reggio Calabria, non solo ricorda che al momento non ci sono ancora privati disposti a mettere mano al portafoglio (i pochi finanziatori interessati, negli anni, si sono mostrati attendisti), ma documenta la scarsa redditività del Ponte. La sua analisi è basata sui dati del Golden Gate bridge di San Francisco, che pur essendo indispensabile al traffico cittadino, chiude i suoi bilanci sempre in perdita (nel 2009, 20 milioni di dollari). Nella migliore delle ipotesi, a Messina solo dopo 40 anni gli investitori porterebbero i conti in pareggio.
D’accordo con le previsioni di Marino è Marco Brambilla, ingegnere al Politecnico di Milano e autore di uno studio su costi-benefici del Ponte sullo Stretto: “In caso di concessione trentennale l’indicatore di convenienza economica resta negativo – sottolinea – e solo nell’arco di 50 anni, e in caso di eccezionali e favorevoli condizioni, si ha un’inversione di tendenza”.
Ad ogni modo, nel caso in cui la Stretto di Messina spa non riuscisse a finanziare l’opera con i flussi di cassa e i ricavi generati dalla gestione entro il limite della concessione, lo Stato farebbe da garante. Il rischio è che l’intera opera risulti in gran parte (o del tutto) pagata dallo Stato, soprattutto dopo la modifica alla legge sul project financing che ha eliminato il limite del 50% del contributo pubblico per ogni opera finanziata.
Intanto il fronte del dissenso, pur rimanendo ampio in una parte della popolazione, ha ormai perso molti degli amministratori locali su cui poteva contare fino a qualche anno fa, oggi quasi tutti schierati a favore della grande opera. “Prima eravamo ancorati su posizioni ideologiche – continua il sindaco di Messina – mentre ora siamo più responsabili. Non ci si può opporre a una legge dello Stato e ora ogni sindaco deve cercare di dare quanto più può alla propria comunità. Il ponte attrarrà il 20% di tutti i turisti che ogni anno visiteranno l’Europa e sarà un volano di sviluppo per tutto il meridione”.
A dicembre del 2010 il contraente generale Eurolink ha consegnato il progetto definitivo alla Stretto di Messina spa, che dovrebbe approvarlo entro il mese di maggio. Poi sarà la volta del Cipe, a cui tocca l’approvazione finanziaria, auspicata per settembre dal ministro dei Trasporti Altero Matteoli. Solo allora si potrà procedere con l’avvio dei lavori preliminari, in attesa del progetto esecutivo. Ma rimangono le perplessità su un’opera ritenuta superflua dai molti che la considerano dannosa per l’ambiente e troppo costosa. Obiezioni che si aggiungono ai ragionevoli dubbi sulla sua fattibilità tecnica in una zona ad alto rischio sismico (anche se il progetto assicura una tenuta della struttura fino a 7,1 gradi Richter): il ponte sullo Stretto, se realizzato, avrà una campata unica di 3.300 metri, la più lunga mai realizzata nel mondo, il 60% in più di quella del ponte di Akashi-Kaykyo (1.991 metri) in Giappone, che oggi detiene il primato.
Settimane cruciali per il futuro di Milano come capitale europea della ricerca e delle cure mediche. In gioco c’è la costruzione dei due mega poli scientifici previsti, inizialmente, entro l’Expo 2015, con investimenti da capogiro. Progetti ambiziosi, studiati per rafforzare il primato sanitario della Lombardia. Uno è il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata (Cerba), voluto dallo scienziato Umberto Veronesi e destinato a sorgere su terreni del Parco Sud messi a disposizione dal costruttore Salvatore Ligresti. L’altro è la Città della Salute: sponsorizzato dal Pirellone, il progetto prevede il trasferimento dell’Istituto dei tumori e del neurologico Besta nelle aree a nord-ovest di Milano di fianco all’ospedale Sacco. Realizzarli entrambi oggi sembra un’impresa titanica. La crisi economica impone spese sempre più oculate.
Uno dei due, allora, è di troppo? È la domanda che circola anche al Pirellone, pronto a rivedere, se necessario, programmi e strategie. La questione si pone per i criteri di scelta che la Regione da sempre dichiara di seguire: la razionalizzazione delle risorse economiche e l’esaltazione della ricerca scientifica. Obiettivi che adesso rischiano di rivelarsi incompatibili con la nascita di due colossi sanitari simili. È il derby degli ospedali di Milano La partita è da miliardi di euro. Per il Cerba sono necessari un miliardo e 226 milioni, finanziati interamente da privati. Per la Città della Salute non bastano 520 milioni, di cui 228 messi dalla Regione, 40 dallo Stato e i 250 rimanenti da coprire con il project financing.
È la formula di finanziamento che prevede l’investimento di privati che recupereranno i soldi con la gestione dei servizi (come posteggi, mense e pulizie) e, soprattutto, con un canone di disponibilità a carico del Pirellone. Conti superati. Le ultime stime fanno lievitare la cifra a 680 milioni. I business plan del Cerba risalgono al 2004. L’idea dell’unione del Sacco con l’Istituto dei Tumori e il Besta prende forma nel 2006. Ma, da allora, sono cambiate molte cose. Una imprevista doccia fredda per il Pirellone arriva con i tagli del ministro dell’Economia Giulio Tremonti nella seconda metà del 2008: il governo toglie dal decreto fiscale i fondi Inail per la ricerca, con il conseguente blocco di un finanziamento da 380 milioni destinato alla Città della Salute.
È solo l’inizio. I ritardi nella tabella di marcia del Cerba finiscono col fare sovrapporre la sua realizzazione con quella del polo scientifico di Vialba, con il rischio di doversi contendere gli investitori di peso. Il tutto mentre il Pirellone deve fronteggiare altri tagli: dal 31 maggio 2010 sono fermi, sempre al ministero dell’Economia, quasi 500 milioni di euro destinati a 85 interventi di edilizia sanitaria. Ancora. Per la Regione si apre anche un nuovo fronte di investimenti con il salvataggio del centro di ricerche di Nerviano, che già nell’aprile 2009 aveva reso necessario un rifinanziamento di 30 milioni da parte di UniCredit (a fronte di garanzie patrimoniali).
E il San Raffaele, sommerso da un debito di 900 milioni di euro, complica ulteriormente gli scenari. Di qui i dubbi sull’opportunità di realizzare (subito) entrambi i poli scientifici: del resto, già in un documento presentato il 28 giugno 2004 durante un incontro in Mediobanca, il neurologico Besta era destinato ad annettersi al Cerba. Immaginare un esperimento di convivenza tra pubblico e privato, con la realizzazione di un’unica Città della Salute non è dunque un’ipotesi campata per aria. Ma, eventualmente, dove sarà? I dubbi si rincorrono soprattutto dopo l’ultimo via libera di Palazzo Marino, venerdì scorso, al Cerba. Ora suoi cantieri possono iniziare. Bisogna decidere il da farsi. E il tempo stringe.
Gli sembrano «maledettamente meridionali», come i grattacieli di spazzatura urbana, anche il calcestruzzo di Pompei, vecchio o nuovo ma sempre infiltrato d’umidità, e i ponteggi e i puntelli che «ricordano più le emergenze di Beirut che la manutenzione quotidiana dei cantieri sempre vivi di Efeso o di Delo», e poi il cemento armato comunque ossidato, le tettoie di zinco, gli impacchettamenti informi e i crolli, «quelli di orsono sei mesi e quelli evidentemente in attesa, quelli incombenti», i crolli come cifra antropologica del sud del pianeta: «Meridione è il mondo dove le cose non si consumano, crollano; non cambiano, crollano; non si evolvono, crollano».
Dunque persino Deniz, il mio amico turco di Smirne, che è un magnifico pasticcio di storia conservata e di modernità sgangherata, dice con un sorriso complice: «Pompei è maledettamente meridionale, la vera capitale del Meridione». Legge, per esempio, nel primo e unico avviso bilingue ai visitatori: «Non permettete agli "stray dogs" contatto alcuno».
E quando una grossa randagia nera gli viene accanto, mi chiede: «Come faccio a dimostrare che è la cagna che si è avvicinata a me e non io alla cagna?». Qui i trenta cani randagi che avevano invaso l´archeologia sono stati adottati dalla Sovrintendenza. E dunque li vedi grassi e stanziali, promossi a cittadini onorari delle macerie, stesi al sole come vecchi servitori dello Stato in pensione, una sorta di entrismo rovesciato, «come se in piazza san Marco il comune smettesse di multare chi porta da mangiare ai piccioni e addirittura li nutrisse per farne arredo urbano "domato"».
Muri puntellati, pochi cartelli, ciceroni improvvisati, anacronistici graffiti sull’opus reticolatum, cani randagi ormai stanziali. Viaggio tra i resti di Pompei, in compagnia di un allibito studioso turco. Ecco come sono ridotti gli scavi romani più famosi al mondo.
Le bancarelle con guerrieri di gesso e madonne di plastica danno vita a una specie di suk.
Nell’anfiteatro restaurato col tufo al posto del marmo restano i segni di show e baccanali
Deniz Inan Gezmis ha lavorato a Beirut, a Damasco e poi ad Efeso in una squadra di grandi "scavatori", allievo di Ernest Will si è laureato alla Sorbonne ed è stato per anni il mio vicino di pianerottolo. Sempre in giro per il mondo, era in Italia e l’ho convinto a trascorrere un giorno a Pompei che lui considera capitale anche della storia antica e persino della psicanalisi: «L’archeologia qui è sempre stata solo un pretesto». E ricorda gli "antiquari" del Settecento, quelli che scrivevano in latino testi magnifici sulle finestre, sulle monete, sul sesso nell’antichità: «Pompei è importante per questo, non per le pietre che non sapete conservare». Gli antiquari napoletani del secolo dei Lumi erano odiati da Leopardi che li considerava nemici della poesia: «L’antiquaria non è storia, è il culto della morte. Leopardi non ce l’aveva con la storia ma con l’archeologia, con noi mummificatori».
Non so che cosa studia in questo periodo Deniz, sospetto che ormai l’antropologia lo appassioni di più dell’archeologia, vedo che fotografa «per il mio archivio privato» il "Sara ti amo", inciso sul rosso pompeiano della casa fullonica, la "A" di anarchia nella celletta del lupanare, "Ettore e Lilly" nella Domus di Proculus… Raccoglie e classifica sconcezze: «anche senza i crolli, basterebbero tutti questi sgorbi da metropolitana per far dimettere un sovrintendente o un ministro, ma per me Pompei è molto interessante proprio perché è il Far West dell´archeologia, la vita qui rientra da tutte le parti, anche se è vita degradata».
Ha appena visitato le ville palladiane, Venezia, Vicenza e le residenze del Piemonte, ma solo qui trova l’Italia pittoresca di cui ha letto tanto, di cui sa tanto, l’Italia che «fu tappa obbligata dell’educazione sentimentale europea, l’anima della classe dirigente di un tempo». Dunque è convinto che nelle campagne attorno a Pompei incontrerà le donne con la brocca in testa e i maschi con l´aria guappa ed è per questo che decidiamo di percorrere la statale e saltare l’autostrada. Vedo che si appassiona alla vista malinconica di quelle teorie di ville spettrali e di quelle larve di edifici aristocratici che si alternano ai soliti bruttissimi palazzi, miseria e nobiltà tra Portici e San Giorgio a Cremano, Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata…, fino alla nuova Pompei che è certamente la più aggraziata: «è vero, hai l’illusione ottica di aver visto più cemento nella vecchia che nella nuova Pompei», e forse perché, nata nel 1928, non ha ancora avuto il tempo di invecchiare: «Quando comincia l’archeologia, finisce la storia».
E neppure indulgo troppo nel viaggio attraverso gli incontri con i suoi colleghi archeologi e con tutta la "pompeanità" degli ex sovrintendenti, dei sindacalisti, dei giornalisti specializzati, degli intellettuali nativisti, dei preti che hanno appunto costruito la nuova Pompei mariana, centrata sulla cattedrale e sul culto del beato Bartolo Longo contrapposto al culto di Priapo della vecchia Pompei pagana e ierofallica, dissipata e sibarita. Le bancarelle sono strepitosi teatri di conflitto e confronto tra la mentula e il rosario, l’etera e Maria, sacertà pagana e sacralità cristiana: ti rincorrono per strada, ti vendono di tutto, è il suk di madonne di plastica e di guerrieri di gesso. Faccio una piccola inchiesta volante sulla piazza del santuario e domando al venditore di statue quali miracoli ha fatto la Madonna di Pompei: «di preciso non lo so, ma ne ha fatti tanti» . Mi espongo un po’ al ridicolo e lo chiedo a una cassiera, a un pensionata, a una signora elegante che all’edicola compra Repubblica: nessuno lo sa, ma tutti ci credono. Credere in cose che non si conoscono con certezza è anche la sindrome dell’archeologo, lo stato epistemologico di chi vive accerchiato dai misteri del passato.
Eppure Pompei espone e attira anche studiosi, ci sono molte belle intelligenze come Antonio Varone, Matteo Orfini, Piero Guzzo, Umberto Pappalardo… Ci sono più intellettuali pompeiani che rovine pompeiane. Ed è una "second life" il racconto ingarbugliato dei commissariamenti, delle emergenze e delle inchieste giudiziarie, dalla bella intuizione di Veltroni che affidò Pompei a un "archeo-manager", una specie di primo cittadino della città antica, fino alle clientele, agli sprechi e alle violenze sul paesaggio del commissario Fiori «al quale si deve - mi dice l’appassionato sindacalista Biagio De Felice - il dissesto del territorio che forse ha determinato anche il crollo della casa dei gladiatori». Di sicuro Pompei è il posto dove tutti "scavano": il posto della vecchia talpa, direbbe Marx. E anche il posto di Freud. È dal racconto di Wilhelm Jensen su un bassorilievo pompeiano (la Gradiva) che Freud ricava la sua teoria sul delirio. Pompei è come la coscienza, ricca di vestigia sepolte.
Alle fine preferiamo bivaccare nelle rovine per un’intera giornata, tra le scolaresche che si inseguono a gavettoni d’acqua, le manate sui muri per tastare le pitture, l’incontinenza dei giovanotti che "si svuotano" contro le absidi. In tre giorni non ho incontrato mai la severità delle guardie, mi dicono che quotidianamente dovrebbero essercene trenta, ma non vedo una divisa autorevole da custode, qualcuno che rappresenti l’imperio del decoro e della decenza: «Efeso è piena di guardie in borghese che intervengono anche quando qualcuno, per riposarsi, fa solo il gesto di poggiare la pianta del piede sul muro alle sue spalle. E ci sono telecamere e squadre di tecnici sempre al lavoro. Ma trovo questo trambusto divertente. In Grecia, nella Turchia egea si lavora…».
Regalo a Deniz un vecchissimo numero di Topolino dove c’è la storia di Paperone che finanzia Pompeiropoli, un parco-giochi archeologico dove i paperi turisti indossano costumi romani, Nonna Papera riceve vestita alla maniera della matrona Eumachia, e Qui Quo Qua e Gastone, Paperino e Paperina…, tutti partecipano alla vita della città antica, cambiano i dollari in sesterzi, mangiano porco salato con il puzzolente garum e ogni pomeriggio c’è una finta esplosione del Vesuvio che erutta farina. Ebbene, «l’abbiamo fatto davvero» racconta Paolo Gramaglia, il proprietario del ristorante Il Presidente: «Sino alla scorso anno organizzavamo sugli scavi cene in costume e a tema. Con l’aiuto del professore Del Guadio, un insegnante in pensione, abbiamo riprodotto il menu degli antichi romani, in particolare i cibi afrodisiaci». Gli dico di un racconto di Théophile Gautier (Arria Marcella. Souvenir di Pompei) dove l’archeologo, a cui «le antiche vestigia procurano spesso buchi nello stomaco», ha paura di trovare nelle migliori osterie di Pompei «solo bistecche fossili e uova freschissime deposte prima della morte di Plinio». Il povero archeologo di Gautier cambierebbe mestiere se sapesse che lo scorso anno tra gli scavi si tenevano concerti, Riccardo Muti e i Synaulia con canti e danze dell’antica Roma, e poi esplosioni del Vesuvio simulate su megaschermi, musiche di Ennio Morricone. E l’incantevole anfiteatro, restaurato con il più economico tufo al posto dell’originale marmo, porta ancora i segni della baraccopoli per gli artisti dell’imbalsamazione…
All’ingresso del parco archeologico anche le guide smerciano se stesse con un fare losco da mercato nero, 70 euro senza ricevuta. Antonio, per esempio, si presenta così: «io ho un metodo molto accademico» forse perché ogni tanto intercala parole che non capisce, dice «apotropaico», e poi, rapsodicamente si lascia andare nel gorgo sussiegoso del latinorum. Una signora che gli fa concorrenza propone l’approccio «gossip divulgativo» forse perché insiste sulla simbologia fallica, sulla presunta lascivia delle donne pompeiane, sull’esplosione lavica del Vesuvio come punizione del peccato. Noi scegliamo Antonio che ci dice: «le pietre non sono documenti». L’archeologia per lui è fondata sulla chiacchiera, «quelle finestre sono arbitrarie» sentenzia, e poi: «chi l’ha detto che quel panettiere era davvero felix?». Le guide sono i più tipici personaggi di Pompei, interessati custodi della memoria che sopravvivono a tutti i sovrintendenti e ministri, sono come le mosche, la vita sulla morte.
È molto più facile governare una viva città caotica del Mediterraneo come Napoli o come Smirne che governare Pompei. Oggi, a disastro avvenuto, tutti i politici dicono che la politica deve fare un passo indietro, ma forse dovrebbe farne sette in avanti, consegnandosi alle grandi eccellenze. Diego Della Valle ha opportunamente proposto che ogni imprenditore campano adotti e finanzi una Domus con criteri privati. La sovrintendente Teresa Cinquantaquattro invoca un mecenate (e chi non lo vorrebbe, signora mia). La vecchia idea di Veltroni di nominare un sindaco-podestà della Pompei antica è ancora la migliore. Tutte le persone di buon senso penserebbero subito a Renzo Piano o, con più competenza, a Salvatore Settis. L’archeologa Anna Lucia D’Agata mi dice: «Il modello che in Italia funziona è quello del Max Planck di Firenze, ovviamente trasportato dalla ricerca scientifica all’archeologia: un duumvirato di eccellenze». Sarebbe magnifico: Salvatore Settis e Sergio Marchionne. Attenzione però: se lo diciamo al governo Berlusconi, Pompei finisce nelle mani del fauno ballerino Vittorio Sgarbi o di qualche semivip come Umberto Broccoli, quello che espose le auto dentro l’Ara Pacis. Preferiamo Mattia, la guida delle guide, il più bravo logografo: «Venghino signori venghino a fare l’amore a Pompei. Hic habitat felicitas».
Postilla
Passano gli anni, i Soprintendenti , i Ministri, ma Pompei continua a rimanere l’onfalos del nostro patrimonio culturale: nel bene e nel male.
Nel colorito articolo di Merlo, pur con alcune imprecisioni ed eccesso folkloristico (l’anfiteatro è un teatro, Renzo Piano non ha – che risulti – competenze utili al tema), si ripropone il problema di un sito in cui ancora evidenti sono i segnali di degrado.
A vari livelli: organizzativo e amministrativo, ma sociale anche e soprattutto politico nel senso più alto del termine.
Archiviata la devastante esperienza del commissariamento che ha contribuito a sprecare importanti risorse in attività effimere o addirittura sbagliate (il restauro del teatro), rimane – gigantesco – il problema di proporre un modello di gestione che superi le incertezze del presente.
Le competenze scientifiche ci sono (quelle della Soprintendenza e degli studiosi internazionali che a lungo hanno lavorato sul sito). E non solo quelle archeologiche, ma anche quelle relative all’elaborazione di programmi di manutenzione.
Si moltiplicano, ma in ordine sparso e con scarso coordinamento, le offerte di disponibilità (ma ben poco precisate) da parte di privati o di enti pubblici a vario livello: manca, drammaticamente, una visione di insieme in grado di pianificare sul medio lungo periodo il destino del sito archeologico più famoso del mondo.
L’aspettiamo con fiducia. Prima del prossimo crollo, possibilmente (m.p.g.)
Su Pompei, v. su eddyburg:
Pompei e i venditori di tappeti
Pompei o lo specchio della Medusa
La Destra italiana è così. Mentre l'Italia è divorata da una crisi dura e incalzante su questioni drammatiche, il Parlamento si occupa delle leggi per B. In Sardegna il sistema produttivo è alla deriva e la miseria si vede dappertutto, ma molte energie sono spese per smantellare il Piano paesaggistico, una conquista per cui va alla Regione un plauso di organismi internazionali.
Lo schieramento di Berlusconi in Sardegna (non di Cappellacci: di Berlusconi) aveva annunciato in campagna elettorale, con toni estremisti e qualunquisti, l'intendimento di cancellare le principali disposizioni di tutela del PPR, e nella foga anche i più moderati (come l'ex ministro Beppe Pisanu) avevano usato parole forti contro le scelte del governo di Renato Soru. Nel proseguo, annunciata dalle dichiarazioni programmatiche del nuovo presidente, la demolizione del sistema di salvaguardia del PPR è stata descritta con cenni confusi, stile Cetto Laqualunque. Il Piano casa ha poi posto le premesse per dare un primo colpo, in un paio di articoli appositamente dedicati alla revisione dello strumento (norme davvero intruse, come si dice). Un disegno di legge correttivo del Piano casa (fortunatamente bocciato) conteneva la prova di un sospetto fondato: per modificare il PPR si immaginano scorciatoie e espedienti per dare risposte rapide e con azzardi come quello di resuscitare lottizzazioni abrogate dal PPR, con effetti terribili nelle aree di maggiore pregio.
Poi, secondo il copione, è iniziata la commedia, la solita: nello sfondo parole che fanno immaginare un esito nell'interesse di tutti avendo in mente l'obiettivo di produrre vantaggi per una parte. Così è stato dato il titolo ammiccante “Sardegna nuove idee” a una serie di iniziative propagandistiche con l' immancabile slogan “partecipazione e condivisione”. Facilitatori di parte all'opera e il bisogno di dare coperture all'azione (si è pure detto della partecipazione delle università sarde, mai confermata ma neppure smentita). “Diteci – sindaci dei comuni costieri – cosa volete cambiare nel punitivo PPR di Soru”. Ecco il metodo liquido, il governo regionale attende la lista delle richieste dalla base per fare risultare una massa di dissenso su cui fare leva. Un modo rozzo e demagogico: il governo non dice la sua idea di riforma in modo articolato e lascia ampi margini di ambiguità a partire dal solito concetto della Regione di Soru prevaricatrice di interessi locali.
Da una parte si pensa di mettere in moto il Piano casa – per le urgenze – e si capisce che la strada è in salita (1). Dall'altra si pensa di fare la variante, ma anche questa strada è in salita (2).
La salita 1 incontra ostacoli come la sentenza del CdS (Tuvixeddu) e una recente ordinanza dei giudici amministrativi (sulla applicazione del Piano casa in fascia costiera di Costa Smeralda) che spiegano che il PPR è solido tanto più a fronte di disposizioni regionali inammissibili (e forse incostituzionali) verso uno strumento che deriva da una legge statale e copianificato con il Ministero dei BBCC.
La salita 2 prevede il procedimento ordinario di variante al PPR che appunto si vorrebbe sgravato dalle faticose incombenze, come la ineliminabile azione di copianificazione con gli organi del Ministero BBCC, e della partecipazione delle associazioni ambientaliste, tutto previsto dal Codice Urbani. Un percorso obbligatorio nel quale si dovrebbe spiegare con argomenti scientifici la ambita cancellazione di vincoli a tutela di beni paesaggistici come la fascia costiera accuratamente definita/motivata nei documenti del PPR. Le aree più vicine al mare sono il luogo della contesa di sempre, specie l'ambito dei 300 metri, vera ossessione dei palazzinari che fanno i conti sugli investimenti in questa straordinaria ubicazione.
Ci proveranno con ogni mezzo e con chissà quante sbandate e al di là del buon senso. Il risultato, temo, non proverrà dal dibattito politico, dal confronto pure aspro su differenti idee di governo del territorio. Sarà una contesa tutta nel versante giuridico per via di forzature alle leggi, di disinvolte procedure piegate alle necessità di pochi. E' evidente che sempre più spesso gli scontri sui temi delicati arrivano nelle aule dei tribunali. La linea del governo regionale sardo potrebbe essere – in accordo con la linea romana – quella di andare allo scontro oltre le leggi. Il progetto berlusconiano che fa strame della legalità è ormai un dato acquisito.
Un ex assessore alle Infrastrutture della Regione Toscana che quindici giorni dopo aver lasciato l’incarico entra nel cda di un fondo pronto a investire nelle stesse infrastrutture. Un uomo che mentre siede nel consiglio di amministrazione è coordinatore del settore Infrastrutture del Pd. La storia di Riccardo Conti, esponente del Pd vicino a Massimo D’Alema, è emblematica delle polemiche che rischiano di spaccare il centrosinistra toscano. Oggetto: le grandi opere. Due in particolare: gli aeroporti (Firenze, ma anche Siena) e la famigerata autostrada Livorno-Civitavecchia. Da una parte il Pd, soprattutto la componente dalemiana, che sostiene le opere in singolare consonanza con il Pdl (il ministro alle Infrastrutture, Altero Matteoli). Dall’altra l’Idv e la sinistra che mostrano più di una cautela.
Cominciamo dall’aeroporto di Firenze (tra i soci il gruppo Benetton). Nessuno ha dubbi: la struttura attuale non è adeguata a una città con 8 milioni di turisti l’anno. Le ipotesi: la realizzazione di una pista parallela all’autostrada (200 milioni) oppure l’allungamento di quella attuale (60 milioni).
A chi, soprattutto a Firenze, si schiera per la costruzione del nuovo tracciato, rispondono i comuni vicini: la pista parallela “peserebbe” su di loro invadendo zone agricole di pregio. Il progetto è fortemente avversato dal Coordinamento dei Comitati della Piana di Prato, Firenze e Pistoia.
Ma il dibattito non è solo logistico. Imprenditori e politici giocano ruoli chiave. E il centrosinistra segue, appunto, due piste diverse. Le cronache cittadine registrano le prese di posizione a favore della nuova pista. Prima fra tutte quella del sindaco Matteo Renzi che vedrebbe l’aeroporto ampliarsi liberando aree da destinare magari allo stadio (altre polemiche). Ma tra gli alleati di Renzi spunta il toscanissimo ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli (Pdl).
I nodi, però, sono altri. L’Idv è perplessa. A cominciare da Anna Marson, assessore regionale all’Urbanistica, che sta suscitando malumori nel Pd toscano per le sue scelte anti-cemento: “La Regione ha approvato un documento che prevede entrambe le ipotesi. Ma per la pista parallela dobbiamo ancora valutare il rapporto con l’ambiente”. Marson racconta: “Vedo grandi manovre a livello nazionale per la nuova pista”. Quali? “Il ministero delle Infrastrutture ha presentato uno studio in cui l’aeroporto di Firenze improvvisamente diventa di interesse nazionale”, spiega l’assessore. Aggiunge: “Poi c’è l’Enac, che dovrebbe essere garante. Invece si è schierato per la seconda pista”. Il presidente Vito Riggio l’ha detto chiaramente: “Senza nuova pista l’aeroporto finirà in serie B”.
Qui la questione si allarga. Ampliare l’Amerigo Vespucci significherebbe mettere in sofferenza tre scali importanti nel raggio di 150 chilometri: Firenze, Bologna e Pisa. E infatti a Pisa non l’avevano presa bene perché l’aeroporto va a gonfie vele (4 milioni di passeggeri l’anno). Oggi il sindaco Marco Filippeschi pare più tranquillo: “La Regione ha stanziato 28 milioni per il trasporto veloce tra la stazione e l’aeroporto. Questo indica la scelta di puntare su Pisa. Con Firenze non dobbiamo essere concorrenti, ma alleati”. L’assessore Marson ricorda altri “dettagli”: “La pista parallela potrebbe porre problemi di sicurezza e di rumore nei paesi vicini”. Ancora: “Così si allontanerebbe l’aeroporto dalla Piana di Castello, aumentando il valore delle aree dove Salvatore Ligresti deve costruire (il re del mattone lombardo è anche socio dell’aeroporto, ndr)”.
Non basta. Marco Manneschi, consigliere regionale Idv, punta il dito sul Pd: “Il fondo di investimenti F2i vuole entrare nella società dello scalo fiorentino. È stato proprio l’ex assessore Riccardo Conti a comunicarlo. Ci colpisce che si ritrovi, in veste di manager, a voler comprare le infrastrutture di cui si occupava come amministratore”.
Ecco le due anime del centrosinistra. Conti è anche coordinatore del settore Infrastrutture del Pd. E soprattutto è stato uno degli sponsor della contestatissima autostrada Livorno-Civitavecchia (che dovrebbe essere realizzata dalla Sat, controllata da Benetton): “Certo che sono favorevole, è l’unica zona costiera d’Europa senza un’autostrada. Ma va fatta bene, deve essere ambientalizzata, non un troiaio”, spiega oggi Conti. Una grande opera che, di nuovo, ha sollevato questioni di opportunità sul doppio ruolo (prima politico, poi manageriale) di un esponente Pd: Antonio Bargone è stato sottosegretario proprio ai Lavori Pubblici e oggi si ritrova presidente della società che realizzerà l’autostrada.
Sempre il Pd vicino a D’Alema. Conti non si scompone: “Sono amico di Massimo, è un peccato?”. E il passaggio dalla poltrona di assessore a quella di manager nelle infrastrutture? “Il nostro fondo è pubblico-privato e non ha intenti speculativi”. Ma chi l’ha indicata per la poltrona? “La fondazione Monte dei Paschi di Siena”.
La “banca rossa”, l’ultimo tassello dell’amore tra il centrosinistra e gli aeroporti toscani. Mps è tra i soci del fondo F2i. Non solo: è anche nello scalo di Siena (21 per cento) di cui sostiene l’ampliamento (avversato dagli ambientalisti, e non solo). Una storia finita in Procura: il presidente di Mps, Giuseppe Mussari, è sotto inchiesta per concorso morale in turbativa d’asta e falso in atto pubblico. Secondo i pm Mario Formisano e Francesca Firrau, la selezione del partner privato per l’adeguamento infrastrutturale dell’aeroporto di Ampugnano fu falsata.
Estratto da: Comune di Milano, PII Cerba, Relazione Tecnica Illustrativa, gennaio 2011, pp. 14-15)
Sulla base del Piano Regolatore Generale del Comune di Milano vigente (approvato il 26 febbraio 1980 e successive modifiche) l’ambito considerato risultava compreso in parte in Zona Omogenea F/E – aree a destinazione d’uso SI_VI con attività agricole adiacenti alla Zona di espansione residenziale C.14.11, la via Ripamonti, la Zona Omogenea B2 14.9 e le rogge Cascina Ambrosiana e Barbara, con destinazione funzionale VA – aree comprese nei parchi pubblici e territoriali, destinate alla formazione di parchi pubblici (art. 41 delle NTA) e in esse è consentito l’esercizio dell’attività agricola, sempreché non contrasti con specifici usi pubblici del piano particolareggiato del Parco per le singole aree. Le aree rimanenti ricadono in parte in Zona omogenea B1 (aree a ridosso delle Zone di espansione residenziale C 14.11 e C 14.9) con destinazione funzionale a VC – zone per spazi pubblici a parco, per il gioco e lo sport a livello comunale, di cui rispettivamente agli artt. 17 (comma 1.2), 19 e 38 delle medesime NTA. A conclusione sono riconoscibili le indicazioni grafiche di percorsi ciclopedonali lungo il fontanile Tua (dismesso) e la roggia Inferno (anche Cavo Danese).
La pubblicazione dell’Accordo di Programma ha prodotto l’efficacia dello stralcio a Piano di Cintura Urbana e poiché sono state introdotte nuove funzioni rispetto a quelle di cui all’allegato A del PTC del Parco Agricolo Sud Milano, la Giunta Regionale con delibera n. 9311 del 22 aprile 2009 ha approvato lo stralcio al parco di Cintura Urbana con effetto di Variante al PTC di Parco Sud Milano e di PRG.
La variante costituisce pertanto un adeguamento della strumentazione urbanistica sia di livello comunale che di livello sovracomunale e permette al soggetto giuridico di legittimare la comune volontà degli enti coinvolti nell’Accordo di Programma al raggiungimento dei seguenti obiettivi:
- migliorare l’offerta sanitaria e lo sviluppo dell’attività di ricerca;
- aumentare l’efficienza/riduzione dei costi grazie alla condivisione di servizi clinici, tecnologici, di supporto alla ricerca;
- creare un programma di formazione universitaria su modelli già diffusi all’estero;
- beneficiare dell’interazione tra ricercatori attivi operanti all’interno di uno stesso centro con aree contigue con la possibilità di usufruire di una comune piattaforma tecnologica all’avanguardia e di confronto diretto tra casi clinici in aree terapeutiche diverse;
- migliorare l’interazione diretta con la ricerca, perseguendo protocolli di cura all’avanguardia;
- dare la possibilità di beneficiare di terapie innovative personalizzate secondo le caratteristiche genetiche.
[…] Pertanto la variante al PRG destina l’intera area a zona SI-H e cioè zona per attrezzature pubbliche di interesse generale di livello intercomunale di carattere ospedaliero.
Corriere della Sera ed. Milano, 16 aprile 2011
Via libera al Cerba: cantiere aperto entro l’estate
Ultimo atto in Comune, entro l’estate via ai lavori per il Cerba. La giunta ha approvato ieri il programma integrato di intervento del Polo della scienza e della salute che nascerà a sud della città. I cantieri per la realizzazione del Centro europeo di ricerca biomedica avanzata potrebbero partire già a luglio, al più tardi a settembre. «— e un progetto eccezionale per la città e per il sistema sanitario a livello nazionale— commenta l’assessore allo Sviluppo del Territorio, Carlo Masseroli— Tra l’altro è un progetto assolutamente bipartisan, anche perché il progettista scelto dal gruppo Ligresti è l’attuale capolista del Pd, Stefano Boeri» .
Il costo dell’intervento, che riguarda appunto un’area del costruttore Salvatore Ligresti, è di un miliardo e 226 milioni. L’area interessata, limitrofa all’Istituto Europeo di Oncologia, è di 620 mila metri quadrati, oltre la metà dei quali diventeranno un parco pubblico. Nel dettaglio il piano approvato prevede un minimo di 263 mila metri quadri per istituti clinici, di ricerca, laboratori di analisi, edifici universitari e di formazione professionale; un massimo di 7000 metri quadrati per attività commerciali e un massimo di 40 mila metri quadrati per residenze temporanee. Per quanto riguarda il Centro, sono previsti 45 mila ricoveri all’anno, 800 mila visite ambulatoriali, un accesso di 19 mila persone al giorno e 5 mila operatori, con la garanzia di nuovi posti di lavoro e di un indotto economico sulla città e non solo. Sul fronte ricerca, il Cerba ha l’ambizione di dare spazio a 500 scienziati.
Nota: tra le cose curiose di questo inopportuno office park suburbano a orientamento automobilistico, il numero dei posti macchina, 6.200, esattamente uno ogni mille metri quadrati di superficie complessiva; molto di quanto si poteva dire a proposito dell'inadeguatezza dell'operazione "bi-partisan" l'abbiamo scritto parecchio tempo fa; qui anche un' antologia di opinioni varie; scaricabile di seguito la carta con l'intera area e le destinazioni del PII (f.b.)
Molti hanno già provato l’ebbrezza di sciare in città, ma soltanto durante le vacanze di Natale, nel "villaggio" che il Comune da anni allestisce al Sempione. Ma d’ora in poi, si potrà cimentarsi con la discesa su materiale sintetico tutto l’anno. Estate compresa. E, magari, muovere proprio a Milano i primi passi con gli sci ai piedi. Perché Palazzo Marino vuole creare una struttura permanente dedicata agli sport invernali, che sfrutterà una pendenza naturale del Parco Lambro: un pendio che si trova vicino all’ingresso di via Feltre. È qui che nascerà un "villaggio" con tanto di scuola di sci aperta tutta la settimana e una baita in stile montano per il ristoro. Solo il primo punto, però, di un progetto più vasto per trasformare gli spazi verdi in «palestre a cielo aperte» dedicate a diversi sport: dalla mountain bike all’arrampicata.
È stata la giunta comunale di ieri ad approvare il bando di gara (che rimarrà aperto 45 giorni) che servirà a trovare l’associazione che si occuperà dell’allestimento della pista. Con i lavori per la costruzione che dovrebbero già partire nei prossimi mesi. Non prima, però, che la struttura abbia avuto tutte le autorizzazioni necessarie. Compresa quella paesaggistica. In tutto, verrà concesso l’utilizzo di uno spazio di circa 4mila metri quadrati perché venga attrezzato. Sulla pista si potrà sciare, scendere utilizzando lo snow board e anche speciali gommoni. Nelle linee di indirizzo del bando (che prevedono offerte al rialzo), non c’è un tempo preciso di concessione.
Il Comune, però, vuole rendere la struttura permanente e chi si offrirà di fare l’investimento (calcolato in più di 500mila euro), potrà avere lo spazio in affidamento fino a 19 anni. Tra i requisiti richiesti dall’amministrazione necessari anche per decretare «l’interesse pubblico» dell’iniziativa: il vincitore dovrà garantire corsi a prezzi agevolati per determinate categorie "sociali", organizzare attività con le scuole e campus estivi. «Questo è anche un modo per far vivere di più i parchi - dice l’assessore allo Sport uscente Alan Rizzi - e garantire un presidio del territorio».
Il secondo passo per attrezzare i parchi con strutture sportive, sarà trasformare la montagnetta di San Siro. Il Comune sta cercando infatti lo sponsor per creare una pista dedicata alla mountain bike. E si spera di riuscire a trovarlo nelle prossime settimane, prima della fine del mandato.
«In progetto - spiega ancora Rizzi - c’è anche un percorso estivo per i runner e, d’inverno, potrebbero essere organizzati anche sul Monte Stella sport invernali».
probabilmente le opposizioni più decise a questo genere di cretinata (perché di cretinata allo stato puro si tratta) verranno da chi ha una idea poetica e un po’ veterorurale del verde, del bel tempo andato delle cascine e compagnia bella. Per quanto mi riguarda, sono assolutamente convinto che la città debba fare la città, con le mille luci e tutto il resto, lasciando certe atmosfere alla campagna, quella vera intendo, che a Milano comincia a malapena nella seconda cintura metropolitana. Ma mantenendo al proprio interno tutti gli elementi di qualità abitativa che da sempre ne fanno un grande elemento di attrazione non solo per speculare, ma anche per vivere: fra questi elementi di qualità c’è il verde dei parchi urbani, che come capisce qualunque idiota purché in buona fede sono altra cosa rispetto ai luna park e dintorni.
Per i parchi divertimenti ci sono tante localizzazioni che la postmodernità ci mette a disposizione, ad esempio le superfici dismesse, magari nell’arco di tempo in cui si pensa a cosa farne e/o si aspettano gli investimenti dei soliti salvatori della patria. Così invece dei cantieri eterni, inaugurati con taglio di nastro e poi lasciati alle erbacce per lustri, ci sarebbero dei begli impianti stile Dubai per sciare d’estate o fare windsurf in mutande a Natale. Ma che questa roba debba stare sopra i pochi prati che rendono la vita degna di essere vissuta anche in periferia (e senza la seconda casa al mare o in montagna) proprio NO. In termini tecnici queste cose si chiamano cazzate. In termini politici speculazione e circoscrizione di incapace, ovvero trattare il cittadino elettore come una falena, attirata dalle luci e poi folgorata … strappandogli da sotto il sedere il poco che aveva. (f.b.)
Il progetto prevedeva anche una maxi-piscina. I sigilli della procura sono arrivati in tempo per impedire lo scempio. Dalle carte giudiziarie emergono ben 24 abusi. Tra questi l'allargamento di una strada pubblica
Prendete una antica Torre costiera, detta Torre Toledo, costruita nel 1277 da Carlo D’Angiò a difesa dell’abitato di Marina della Lobra e rifatta da capo nel 1540 su ordine di don Pedro de Toledo. E’ la Torre più antica sul territorio della penisola sorrentina, è l’immagine caratterizzante del borgo marinaro di una località turistica tra le più rinomate della Campania. Eliminate la merlatura sulla sommità della Torre. Aggiungete alcune opere di stravolgimento dell’edificio, come l’apertura e l’allargamento di finestre e la realizzazione di terrazzini di collegamento tra i balconi e il cortile. Infierite con la creazione tutt’intorno, in un’area di circa 10.000 metri quadrati, di una serie di manufatti adibiti a camere da letto con bagno, muri di contenimento, terrazzamenti, rampe di collegamento. Rifinite l’intervento con una bella piscina lunga 17 metri e larga 4 a valle della Torre e un solarium. Mescolate il tutto, e avrete la ricetta di una delle più importanti speculazioni alberghiere mai tentate in penisola sorrentina: la trasformazione di un edificio storico di grande pregio in un resort di lusso. Da compiere in una zona ultra vincolata, senza uno straccio di licenza e in spregio a ogni normativa.
Stava per accadere davvero. Se non si fosse messa in mezzo la Procura di Torre Annunziata, corsa ad apporre i sigilli quando i lavori erano in fase di avanzata realizzazione. Per comprendere e descrivere sino in fondo l’enormità dello scempio di Torre Toledo, dove fino al 1860 si trovavano i cannoni borbonici, il sostituto procuratore Mariangela Magariello ha svolto anche un sopralluogo via mare. Poi ha steso un capo di imputazione durissimo. Contestando il reato di lottizzazione abusiva, che prevede in caso di condanna la confisca dell’area interessata dagli abusi. E al processo ha chiesto una pena severissima per l’albergatore finito alla sbarra, il sorrentino Vincenzo Acampora, amministratore unico dell’Avi srl, la società che ha acquistato l’immobile dagli eredi Toledo. Per Acampora il pm ha proposto una condanna a 4 anni e 4 mesi, di cui 2 anni per la lottizzazione, 4 mesi per falso ideologico (in concorso con il tecnico che firmò una Dia risultata piena di dati fasulli, per il quale il pm ha chiesto 9 mesi) e 2 anni per crollo colposo.
Sì, perché nella frenesia edilizia sono crollate alcune murature. Il crollo, risalente al 2006, sarebbe stato causato dalla realizzazione abusiva di una trave di coronamento e di altre travi a sostegno del solarium della piscina. Lo sostiene la perizia di un geologo agli atti del fascicolo. Un cedimento bis è avvenuto l’anno successivo, più o meno per lo stesso motivo. C’era il rischio che il solarium precipitasse a mare, e immaginate con che conseguenze se il resort fosse stato aperto e pullulante di clienti. La Procura ha ipotizzato che lavori di questa portata fossero avvenuti con la complicità di qualcuno che avrebbe dovuto controllare e non lo ha fatto. Ma dopo aver perquisito qualche computer, ha archiviato questo filone d’indagine.
Però a leggere le carte dell’inchiesta c’è da mettersi le mani nei capelli. Nei verbali di sequestro troviamo 24 presunti abusi. Ce ne sono di tutti i tipi, compresi i 64 metri di strada di collegamento in pietre laviche tra la Torre e la strada pubblica. E anche l’allargamento della strada pubblica (sì, pubblica) di San Liberatore. La strada è stata poi ripavimentata in calcestruzzo cementizio, e con annessa modifica della pendenza, per circa 37 metri. Le auto dei turisti dovevano entrare nel resort senza difficoltà. Ma la difesa sostiene che non c’è prova che le opere realizzate e contestate dal pm avessero finalità alberghiere. Il Comune di Massa Lubrense, guidato dal sindaco Leone Gargiulo, si è costituito parte civile. La sentenza è attesa per luglio.
Sarà per il bianco panama del conte Carandini, ma le fotografie del sopralluogo pompeiano del nuovo ministro della cultura evocano (non senza ironia) le immagini dei ricchi e distratti milordi che passeggiavano tra le rovine alla fine del Settecento, in una tappa del loro Grand Tour. La sensazione di spaesamento aumenta quando si leggono le dichiarazioni di Carandini, il quale si dice finalmente «ottimista»: e non c'è da stare allegri se l'ottimismo del reintegrato presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali si basa sulle contemporanee esternazioni di Galan, il quale si guarda bene dal citare il contenzioso con Tremonti e preferisce invocare l'intervento dei privati (notoriamente in fila col libretto degli assegni), citando a mo' di esempio l'impegno del candidato Lettieri a sponsorizzare ben tre domus (!).
Eppure qualche segnale positivo c'è davvero. Proprio di fronte alle rovine della schola armatorum Sandro Bondi cercò di dar la colpa del crollo agli archeologi della Soprintendenza, e invocò la messianica figura di un manager e la taumaturgica realizzazione di una fondazione. Oggi, il suo successore Giancarlo Galan dichiara che l'idea della fondazione non lo entusiasma per nulla, perché non ne vede i vantaggi, e che ritiene invece necessario assumere subito trenta archeologi e quaranta tecnici specializzati. Chissà se il dilettantismo dei milordi lascerà spazio ad una vera politica della tutela, ad un vera progettazione di un'economia della tutela. Se lo facesse, Pompei potrebbe diventare un laboratorio per tutto il Paese.
Qualche breve richiamo alle vicende urbanistiche milanesi del passato per chiarire in quale contesto si inserisce il nuovo PGT.
Il nuovo PGT sostituisce il PRG adottato nel 1976 e approvato nel 1980, che a sua volta sostituiva quello del 1953, modificato nel corso degli anni da numerose varianti e violazioni. Si trattava di un piano allineato, sia pure tardivamente con i principi riformisti degli anni 70: le aree urbane intercluse ancora libere destinate a verde e a servizi, nuove espansioni molto limitate, e addirittura un eccesso tardo industrialista: confermate in blocco tutte le aree industriali, le grandi e persino le piccole e addirittura le piccolissime. Il grimaldello delle osservazioni accolte eliminerà questa civetteria con una normetta che consente la trasformazione terziaria delle aree industriali. Erga omnes e casualmente, senza riferimenti alle prospettive del singolo impianto produttivo o allo specifico contesto urbanistico. Il processo di trasformazione delle aree industriali si avvia dunque, con buona pace del piano tardo operaista, nel più casuale ordine sparso.
Il PRG del 1980 vive quattro anni.
Nel 1984 Milano, avendo ottenuto di usufruire della quasi totalità degli investimenti regionali per i trasporti per potenziare il proprio sistema del ferro, radiocentrico e passante (raddoppi, triplicazioni o quadruplicamenti delle radiali ferroviarie prossime, passante ferroviario urbano e linea 3 della MM, transitante, come la linea 1, per piazza Duomo) annuncia, tramite un testo privo di valore formale, il “Documento direttore del progetto Passante” , l’intenzione non già di sfruttare le nuove infrastrutture per soddisfare il fabbisogno pregresso (un saldo pendolare giornaliero di 260.000 lavoratori) come pudicamente affermato dal Piano regionale dei trasporti, ma, al contrario di volerle utilizzare per accrescere l’attrattività terziaria di Milano. In particolare attraverso la trasformazione urbanistica delle aree lungo il Passante ( Certosa, Bovisa, Farini, Garibaldi Repubblica, Porta Vittoria, Rogoredo, etc ) ma anche di altre aree, come ad esempio l’ex stabilimento Alfa Romeo del Portello destinato all’ampliamento della Fiera. Tutto ciò sarà fatto senza più ricorrere a studi generali di PRG, ma “ a la carte”, grazie a progetti d’area promossi dagli operatori, che il Comune ratificherà mediante singole varianti parziali al PRG. La prima e più grande di queste varianti sarà addirittura fuori dal tracciato del passante e priva di metropolitana e si chiama Pirelli Bicocca. Ma il cavallo non beve quanto si era sperato e così Bicocca, nata e progettata come Tecnocity, polo della ricerca tecnologica, si trasforma in Nettare residenziale di Milano. Insomma, mattone. Seguiranno, più o meno, tutti gli altri progetti, molti dei quali cambieranno forma e natura strada facendo, come ad esempio quello della Fiera, in relazione all’apertura del nuovo polo di Rho Pero, e quello di Isola –Garibaldi –Repubblica, ora noto come Porta Nuova, soprattutto in relazione a discutibili sconfitte amministrativo – giudiziarie della parte pubblica. In pratica molti progetti sono a tuttora incompiuti e molte costruzioni sono invendute. Ordine di grandezza della volumetria convenzionale messa in gioco, oltre 12 milioni di mc. Gestione di questa fase da parte di amministrazioni di sinistra fino a tangentopoli, poi della Lega e infine del centro destra.
Milano non è Roma. Ha solo 1,3 milioni di abitanti ma è il centro di un’area metropolitana di 5,2 milioni di abitanti, composta da più di 400 comuni. E attorno ad essa, soprattutto a nord e ad est non ci sono campi colline e pascoli ma altri grandi sistemi urbani, alcuni addirittura di una dimensione prossima o superiore al milione di abitanti, come Bergamo e Brescia.
Nel 1995 la Provincia di Milano (amministrazione di centro sinistra), preoccupata della condizione di crescente congestione ed inefficienza dell’area, pur in assenza della legge regionale attuativa della legge nazionale 142 del 1990, avvia la formazione del Piano territoriale di coordinamento. Il Piano, presentato nel 1999, è ispirato ad una strategia di policentrismo discontinuo, finalizzato a contenere l’ipertrofia del nucleo centrale, a garantire la tutela delle cinture e dei corridoi verdi fin dentro la città, e a rafforzare le specificità dello sviluppo locale, alimentato dal trasporto pubblico soprattutto su ferro e di superficie, esteso nell’hinterland. Milano esprime con asprezza la propria contrarietà. Il voto riporta al governo della Provincia il centro destra, che subito revoca il piano e ne approva, nel 2003, uno del tutto diverso, totalmente privo di elementi ordinatori e vincolanti. Dopo cinque anni una nuova amministrazione di centro sinistra fallisce nel tentativo di rivedere il piano fantasma del 2003, fino ad un nuova vittoria, nel 2009, del centro destra, che per ora continua a navigare con il “piano” del 2003. Tutto bene dunque: nessuno disturba le ambizioni del comune di Milano.
La Regione del presidente Formigoni fornisce aiuti potenti. Nel 1999 introducendo la super DIA per qualsiasi tipo di intervento, e generalizzando l’uso dei Piani integrati di intervento (PII), di fatto privati, in variante ai piani regolatori - strumento del quale Milano si avvarrà immediatamente e largamente per varare nuovi progetti urbani. Nel 2005 sostituendo il PRG con l’oscura trilogia dei documenti costitutivi del Piano di governo del territorio (PGT), che i comuni si auto approvano. E poi disapplicando il DM 2/4/68. E infine togliendo alla Provincia tutti i poteri, tranne un confuso apporto di copianificazione nella individuazione delle aree agricole strategiche. Il tutto anche grazie alla decisiva, curiosa distrazione di consiglieri dell’opposizione al momento dell’approvazione della legge. Le ambizioni di Milano hanno finalmente di fronte una strada completamente spianata, in barba alle leggi urbanistiche italiane.
Il PGT approvato nel 2011 interviene apparentemente soprattutto sugli ATU - ATPG (ambiti di trasformazione urbana): scali ferroviari e stazioni, caserme, il carcere e altre aree pubbliche e private. Si tratta in tutto di circa 8 milioni di mq di superficie territoriale, che generano diritti edificatori per circa 5 milioni di mq di superficie lorda di pavimento (slp) e sui quali potranno realizzarsi circa 6 milioni di metri quadrati di slp, pari a circa 20 milioni di metri cubi di volume convenzionale. Il volume reale vuoto per pieno sarà più del doppio, circa 48 milioni di metri cubi, come mostrano le statistiche comunali sull’attività edilizia del passato.
Ma questa è, dicevamo, solo l’apparenza. In realtà tutta la città viene sottoposta ad un violento processo di densificazione. Una invenzione normativa molto creativa stabilisce, ad esempio, che tutti i “servizi”, pubblici e privati di qualunque natura non consumano diritti edificatori e che le relative aree generano, come se fossero libere, nuovi diritti edificatori, che possono arrivare fino a 1 mq di slp ogni mq di superficie territoriale. Così come viene attribuito un indice di edificabilità di 0,5 mq per mq di superficie, da sfruttare con il meccanismo del trasferimento dei diritti edificatori, sulle aree private destinate alle nuove previsioni puntuali di verde e infrastrutture di mobilità.
Le aree a servizi sopra indicate sono complessivamente 22,5 milioni di mq e possono generare fino a 22 milioni di mq di nuova slp. Pari a 72,6 milioni di metri cubi convenzionali e dunque a circa 176 milioni di mc vuoto per pieno! In particolare le aree occupate da servizi religiosi potranno non soltanto densificarsi al proprio interno ma anche esportare, secondo il principio della cosiddetta perequazione, diritti edificatori nuovi di pacca su qualsiasi area urbana. Insomma l’Ospedale di Niguarda può costruirsi 313.000 mq di slp residenziale, terziaria o commerciale, mentre il Duomo di Milano genera nuovi diritti edificatori esportabili, residenziali, terziari o commerciali per 10.000 mq di slp. Da non credere.
E ancora, le aree del parco sud sono in una situazione di attesa precaria fino a che una non meglio precisata autorità competente stabilisca se siano aree agricole strategiche oppure se siano invece lasciate libere di salire sulla esilarante giostra della perequazione.
E infine i Pii sono sempre pronti a colpire: per legge regionale gli indici di piano non sono giuridicamente vincolanti, e il Pii li potrà sempre aumentare in qualsiasi misura.
Lo scenario disegnato dal PGT solleva inevitabilmente almeno tre domande fondamentali. Ha un senso economico un piano di questa natura? Come cambierà la qualità della città? Come sarà servita in termini di mobilità?
Il dimensionamento.
Le concessioni edilizie rilasciate a Milano, per tutte le destinazioni d’uso esclusi i servizi, misurate in termini di superficie lorda di pavimento sono state, tra il 2000 e il 2007 mediamente di 390.359 mq/anno. Si tratta, come è ben noto, di un ritmo temporaneamente elevato, a cui hanno fatto seguito quantità molto rilevanti di non finito e soprattutto di non venduto, il che determinerà probabilmente una contrazione dei permessi di costruire negli anni successivi.
I cinque milioni di metri quadri generati dagli ATU-ATPG rappresentano dunque da soli una provvista di aree edificabili sufficiente ad alimentare circa venti anni di domanda. Se a queste aree aggiungiamo i diritti edificatori generati dalle aree a servizi ( 22 milioni i metri quadri di slp ) si raggiungono valori di capacità insediativa ragguagliabili alla produzione edilizia di settant’anni. Il piano non programma dunque attività edilizie in una prospettiva di realismo economico: bensì genera un marea di “future” immobiliari che saranno esigibili solo a lungo o a lunghissimo termine. Tutto questo è spiegabile solo dando per acquisito un rapporto ormai totalmente organico tra amministratori e sistema immobiliare. Quel che non è facile prevedere sono le conseguenze economico finanziarie di questo inedito scenario.
Qualcuno potrebbe sperare in una spontanea riduzione dei prezzi immobiliari. Ma le case realmente in vendita non scendono più che tanto di prezzo, soprattutto a causa degli oneri finanziari accumulati in anni di stand-by all’ufficio vendite. E a causa del sostegno fornito da una politica dei trasporti (sulla quale ci soffermeremo tra poco) che continua ad innalzare il divario tra il livello di servizio nella città e quello nell’hinterland. Di sicuro c’è che cresce la bolla del comparto immobiliare, distraendo sempre più operatori dagli investimenti in altri campi dell’economia meno aleatori e futuribili.
La qualità urbana è la vera vittima sacrificale del PGT. E’ sufficiente dare un’occhiata a volo radente al progetto Porta Nuova, che ha schiacciato con i suoi grattacieli il vecchio romantico quartiere dell’Isola Garibaldi, oppure scattare una fotografia tra le gru e i mastodonti che ancora stanno crescendo per avere l’immediata sensazione fisica di una città che non si piace e non si ama.
I nuovi quartieri inventati dal PGT non saranno da meno. Stephenson, non dispone ancora di un planivolumetrico. Ma basta allineare il cubetti della volumetria convenzionale ( indice volumetrico territoriale convenzionale 9,14 mc/mq, ma probabile indice volumetrico territoriale fisico effettivo, vuoto per pieno più che doppio: 22 metri cubi per mq !) per avere l’immagine della Milano futura voluta dal piano.
Il meccanismo della cosiddetta perequazione consente di prelevare diritti volumetrici dalle periferie e di trasferirli liberamente nelle aree più centrali, di valore molto maggiore. Un centro iperdenso è dunque l’inevitabile e voluto esito del piano.
Le occasioni ultime e irripetibili fornite dalle grandi penetrazioni urbane degli impianti ferroviari vengono bruciate e sacrificate, destinandole in buona misura all’edificazione e a giardinetti poco più che condominiali, invece di sfruttarle come ultima occasione per dotare una città brutta e asfittica di qualche lembo di natura. Cosa potrebbe diventare invece una di queste aree lo possiamo comprendere guardando il progetto di due bravi neolaureati su Farini-Bovisa.
Gli standard urbanistici residenziali che, raggiungendo in passato i 44 mq ogni 100 metri cubi di costruzione avevano regalato a Milano, nella breve stagione del dopo tangentopoli, qualche episodio di trasformazione urbanistica molto civile, oggi si riducono il più delle volte a 12 mq ogni 100 metri cubi, ed anche quel poco può eventualmente essere monetizzato invece che realizzato. Il terziario non ha più alcun obbligo di standard urbanistici, e l’industria nemmeno.
Le sola area considerata dal punto di vista della, sia pur debolissima, tutela del patrimonio storico architettonico è il centro. I nuclei di antica formazione della periferia sono sottovalutati o ignorati.
In qualunque punto del territorio il mix funzionale è a libera scelta del singolo operatore: residenza, terziario, attività produttive, e, come già detto, se si vuole, servizi privati e pubblici senza computarne le superfici. I fabbisogni arretrati, spesso paurosi, di parcheggi, non scalfiscono la libertà privata di gravare con nuovi sovraccarichi in qualsiasi punto della città.
Quote di edilizia sociale, se realizzate, incrementano le possibilità edificatorie private: ma manca qualsiasi definizione dell’edilizia sociale, che può dunque ridursi ad offrire vantaggi economici del tutto marginali, pur consentendo comunque di conseguire l’incremento premiale dell’indice di edificazione privato.
La mobilità.
Il piano è privo di un organico progetto della mobilità, rinviato al futuro piano di settore. La profusione di opere ipotizzate nel PGT non è giustificata da previsioni seriamente fondate sulle risorse disponibili per realizzarle. E’ comunque impressionante l’accrescimento del divario di infrastrutturazione tra città e hinterland. Nell’hinterland qualche rado prolungamento. In città invece quarta e quinta linea di metropolitana, eventuale secondo passante ferroviario da scegliersi tra alternative di tracciato non ancora sciolte e poi 6 nuove cosiddette linee di forza ( presumibilmente altre metropolitane) rigorosamente dentro le mura del municipio. I milanes arius g’han de rangias. Non si ragionava così nemmeno negli anni 60.
Ma visto che le risorse per le metropolitane sono più che incerte meglio tenersi buona la vecchia cara alternativa autostradale a pedaggio, facendola diventare urbana. Un tunnel a pagamento in project financing che collega l’Expo a Linate. La prospettiva certa per la città è più traffico in assoluto, da sommarsi probabilmente alla continuazione del trend storico di peggioramento del taglio modale pubblico/privato. Con l’aria fuori legge per la quale paghiamo salate multe all’Unione Europea.
Abbiamo detto Linate? Ma non era stata la causa del fallimento di Malpensa, hub del nord Italia? Grandissima è la confusione sotto il cielo.
Questo è quel che c’è nel piano. Poi c’è tutto quel manca.
L’hinterland, dove vivono quattro milioni di veri milanesi è completamente ignorato. Anche sotto questo profilo, non si usava così nemmeno negli anni 60 o 70. Allora Milano poteva dedicare uno sguardo benevolo alle periferie popolari che si andavano ingrossando immaginando di avvicinarle ed integrarle e talvolta concedendo anche qualcosa di sostanziale, come una linea metropolitana che arrivava quasi all’Adda. Oggi siamo invece nella torva era della guerra tra municipi per la sopravvivenza e per il potere. I metri cubi sono l’uno e l’altro a condizione di tenerseli stretti dentro i confini, e che i cittadini li sopportino.
Nessun modello territoriale pensato, e la peggiore malformazione territoriale di fatto: la somma esplosiva di super concentrazione al centro e libero sprawl nell’hinterland.
Questo è il Pgt: l’espressione estrema del municipalismo solitario di Milano, postmoderno e neomedievale.
Il piano è appena approvato e non ancora pubblicato. Il piano sarà, spero, confutato giuridicamente, e colgo questa occasione per segnalare fin d’ora a Italia Nostra, che ha avuto il grande merito di sollevare in termini generali, con la forza di questo convegno, il tema della mercificazione della città, l’occasione di confronto culturale, politico e giuridico che penso si aprirà in occasione di questa confutazione. A Milano si vota in maggio e certamente il risultato elettorale potrebbe permettere di tentare di rimettere in discussione l’impostazione del piano, pur con tutte le difficoltà dovute ai diritti acquisiti che non mancheranno certo di essere rivendicati dagli interessati.
Ma il punto vero è che questo piano è il frutto terminale e velenoso della divaricazione crescente tra la geografia reale e quella del potere. Area metropolitana sempre più vasta e sempre meno governata e potere sempre più concentrato e incontrollato dentro la cinta daziaria di Milano. Superare questa contraddizione, divenuta lacerante a Milano ma presente ed acuta anche in altre città italiane, mentre le città europee sono riuscite a strutturare sempre più efficacemente la propria pianificazione d’area vasta, vuol dire mettere mano alla formazione della città metropolitana. Se il nuovo sindaco di Milano saprà compiere il passo decisivo in questa direzione si potrà sperare non solo di liquidare l’orribile Pgt ma di aprire una stagione nella quale, finalmente le risorse ambientali, culturali ed economiche di tutta l’area possano essere utilizzate in vista di un vantaggio comune di sistema a più grande scala.
Auguriamoci che, sia pure con mezzo secolo di ritardo, Milano riesca a riagganciare lo standard di pensiero delle metropoli europee.
Alcuni sono contrarissimi, altri dubitano che sia utile. Tutti a loro modo vogliono vederci chiaro: «È un’opera che serpeggia in modo devastante nel Parco agricolo sud, vicino a centri abitati, cascine di pregio e terreni agricoli». Oltre venti Comuni dell’est Ticino e del sud Milano si alleano per difendersi dal progetto della Tangenziale ovest esterna milanese (Toem), i 50 chilometri che la Provincia vuole realizzare per chiudere il raddoppio dell’anello delle tangenziali milanesi. A est, la Tem, la Tangenziale est esterna, i cui lavori partiranno entro l’anno, e a Ovest chiuderebbe il cerchio la Toem. Ma manca il favore di molti Comuni, molti dei quali, peraltro, già divisi su un’altra opera controversa, la superstrada Boffalora-Milano.
La nuova Ovest è prevista nel Piano territoriale di coordinamento provinciale: il tracciato ipotizzato parte da Melegnano e arriva a Magenta, dove è prevista la connessione con la Milano-Torino. Ma i sindaci di questi Comuni, che oggi si incontreranno a Rosate per stabilire una strategia comune, non ci stanno: «È una mera operazione propagandistica», dichiara Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano. Contro l’anello autostradale, per ora allo studio di fattibilità - Fabio Altitonante, assessore alla Pianificazione del territorio, promette che «verrà concordato con il territorio» - , si schiera anche il mondo agricolo: «Non possiamo sopportare ancora consumo di prezioso suolo», denuncia Paola Santeramo, presidente della Confederazione italiana agricoltori.
Intanto la provincia ha deciso di accorciare la prevista bretella a più corsie tra Malpensa e la Tangenziale ovest, che correrebbe internamente rispetto alla nuova autostrada: per non rischiare che i 250 milioni già stanziati dallo Stato vengano dirottati altrove, si punta a spenderli per realizzarne solo un tratto. «Faremo una nuova arteria da Magenta a Ozzero - spiega Giovanni De Nicola, assessore provinciale ai Trasporti - mentre da Ozzero ad Abbiategrasso ci sarà solo una riqualificazione». Ma anche in questo caso, alcuni sindaci si metteranno di traverso.
Nota: Incredibile: pur di sfasciare qualcosa anche la "direttissima Magenta-Ozzero" (guardate una cartina e si capisce al volo l'idea generale). E tanto per usare la formula del guardate che io l’avevo già detto, volendo si può rivedere il mio I Capannoni della Zia Tom, di qualche anno fa (f.b.)
Si è sempre saputo poco della storia dei due cappelli, piccolo ma non secondario capitolo di uno dei più grandi affari immobiliari milanesi degli ultimi anni. L’affare è quello dei terreni dell’Expo, a Nord Ovest di Milano. I due cappelli appartengono a Guido Podestà: il capello da presidente della Provincia di Milano e poi quello da socio dei Cabassi. Cioè la storica famiglia di immobiliaristi proprietaria di una grossa fetta dei terreni dove sorgerà l’Esposizione Universale. A loro fa capo anche il 40%del capitale di una holding della famiglia Podestà. «Tutto trasparente» , per l’uomo politico del Pdl. Terreni e miliardi Sarà la Provincia insieme al Comune di Milano e alla Regione Lombardia a decidere la modalità (acquisto, newco, comodato d’uso) con cui acquisire dai privati la grande area dove si farà l’Expo 2015.
Questa settimana potrebbe essere decisiva.
Qualche numero: terreni per 1,1 milioni di metri quadrati (un quarto dei Cabassi, circa metà della Fiera di Milano), 1,7 miliardi di investimenti per il sito espositivo, oltre 10 miliardi per le infrastrutture di accesso. Per i terreni l’ipotesi oggi più probabile è quella del comodato d’uso, opzione preferita da Letizia Moratti e Podestà. È anche l’ipotesi più gradita ai Cabassi che dal 2007 a oggi hanno sempre mantenuto una posizione coerente: siamo sviluppatori, quindi preferiamo il comodato, ma discutiamo tutto purché ci sia chiarezza. Con il comodato i terreni vengono presi in prestito e poi restituiti a fine Expo con il cambio di destinazione da agricola a residenziale. A fronte della crescita esponenziale del valore, ai privati viene chiesto di contribuire alle infrastrutture con 75 milioni.
I due Podestà
È in questo mix di interessi pubblici e privati che si inseriscono i «due» Podestà: l’amministratore della res publica e l’imprenditore legato strettamente ai Cabassi. Anzi per anni quasi aggrappato ai soldi che gli immobiliaristi milanesi hanno investito nella sua holding di famiglia, di cui sono creditori (secondo patti riservati) e garanti con le banche. Se da una parte Podestà ha un peso nella decisione sui terreni Expo, dall’altra i Cabassi hanno avuto un ruolo fondamentale per la sopravvivenza della sua holding. Ma da qui a sospettare presunti do ut des ce ne passa. È una fotografia, con molti dettagli che mancavano. Architetto, 64 anni, ex numero uno dell’Edilnord da cui partì la fortuna del Cavaliere, per 15 anni parlamentare Ue, scuola berlusconiana doc, Podestà saprà certamente separare gli interessi propri da quelli pubblici.
La «paghetta»
Al vertice della Pedemontana, intanto, ha messo un uomo di fiducia, Salvatore Lombardo, 56 anni, architetto. È amministratore delegato della società, controllata dalla Provincia, che gestisce 5 miliardi per il collegamento stradale Bergamo-Malpensa. Un business enorme che richiede la dedizione totale del manager di punta. Poi però si scopre che Lombardo è rimasto a libro paga della famiglia Podestà: prende 1.200 euro al mese per amministrare la Generale di Costruzioni («Generale» ), di cui è presidente. Incrocio nella holding Ecco, è proprio qui che si incrociano gli interessi dei Podestà e dei Cabassi. Di suo il presidente della Provincia possiede appena il 3,78%del capitale, ma è la seconda moglie, Noevia Zanella, con cui c’è una perfetta simbiosi, ad avere la maggioranza assoluta (54%).
I Cabassi però hanno in mano un assai influente 40%della Generale attraverso la loro Brioschi Sviluppo Immobiliare, quotata in Borsa. Sotto l’ombrello della holding dei Podestà c’è la partecipazione in una società che gestisce una residenza per anziani (Heliopolis) e l’immobiliare proprietaria dei muri. Ma la struttura, afferma il numero uno della Provincia, è stata venduta due settimane fa. «Sono tranquillo: abbiamo agito in modo trasparente» . Però, ad eccezione di una dichiarazione a Telelombardia in campagna elettorale, Podestà non ha mai parlato di questo rapporto d’affari. «Nessun altro — dice— ha mai chiesto chiarimenti, che io ricordi» . La biografia sul sito della Provincia non dedica nemmeno una riga alle aziende di famiglia.
Il patto con i Cabassi
Con i Cabassi era stato siglato un patto parasociale, ossia un contratto (riservato) che regola le relazioni economiche tra i due soci. Secondo il bilancio 2010, la Generale ha un debito di 3,5 milioni con la Brioschi e su quei soldi paga un tasso fisso del 6%annuo. Poi è molto indebitata con Montepaschi per il finanziamento (35 milioni) che servì a comprare l’immobile delle Residenze Heliopolis. Mps ha in pegno le quote societarie. Ma c’è anche la stampella dei Cabassi che per la loro quota-parte hanno rilasciato una fideiussione da 14 milioni a favore di Mps. Senza complicare troppo: i bilanci sono in profondo rosso da anni e nel 2011 è scattato l’allarme del patrimonio netto negativo. Cioè i soci avrebbero dovuto tirar fuori qualche milione di euro per coprire il buco. Ma la vendita dell’immobile, secondo Podestà, ha chiuso il debito e risolto i problemi patrimoniali. Per i Cabassi non è stato comunque un buon investimento. I terreni dell’Expo, invece, potrebbero esserlo. Podestà continua ad avere due cappelli, che tiene separati. Fino a prova contraria.
Ogni giorno sette Piazze del Duomo in più
di Simone Bianchi
Il cemento dilaga in Lombardia e aumenta a un ritmo impressionante, l’equivalente di sette piazze Duomo al giorno. Legambiente e l’Istituto nazionale di urbanistica lanciano l’allarme: a Milano e in provincia il tributo quotidiano al cemento è di 20mila metri quadrati, secondo posto sotto Brescia, mentre nel rapporto tra aree urbane e verdi il record negativo spetta a Monza e Brianza dove le prime hanno superato il 50 per cento. Legambiente propone una legge che introduca oneri a carico di chi costruisce in zone aperte invece che in aree cittadine dismesse. L’assessore regionale Belotti: «Siamo favorevoli, ma subito non si può».
Come la lava di un vulcano il cemento avanza e "consuma suolo". Corre veloce, cancellando ambienti naturali e vegetazione spontanea, ma anche aree agricole. Ogni giorno in Lombardia vengono urbanizzati 117mila metri quadrati, una superficie pari a circa sette volte piazza del Duomo a Milano. La superficie che si perde invece ogni giorno in provincia è di circa 20mila metri quadrati.
Sono i dati contenuti nel rapporto 2011 sul consumo di suolo presentato da Legambiente, Istituto nazionale di urbanistica e il Centro di ricerca sui consumi di suolo di Milano. Il cemento inonda anche la città, sempre di più: il 78,1 per cento del territorio milanese è ormai costruito. E si procede al ritmo di due ettari al giorno, secondi solo a Brescia.
«Ci stiamo giocando un patrimonio di ambiente» dice il presidente di Legambiente Lombardia, Damiano Di Simine. Ma c’è anche un rischio economico: «Perdiamo la risorsa naturale più preziosa su cui si costruisce gran parte della ricchezza della nostra regione». A suo avviso in futuro andrà peggio, perché «nel Pgt che l’assessore Masseroli ha condito con richiami alla parola d’ordine "non consumeremo suolo", ci sono previsioni reali di consumo dell’1,5 per cento. Non è tanto in assoluto, ma per Milano lo è, visto che di superficie libera ne è rimasta poca». Per il direttore della Coldiretti Lombardia, Eugenio Torchio, non si può andare avanti così: «È come se sparissero ogni giorno i terreni di due aziende agricole».
In tutta la Lombardia, spiega il rapporto, un quarto delle superfici agricole produttive è andato perduto. Il cemento aumenta: la superficie urbanizzata a Milano è passata dai 56.660 ettari del 1999 ai 62.619 del 2007. Un incremento di 5.959 ettari, un +10,5 per cento in otto anni. E nonostante la crisi economica sembra che la costruzione di nuove autostrade, centri commerciali e capannoni non si fermi mai. Mattoni, cemento e asfalto: con tutte le infrastrutture in programma da costruire a Milano e provincia, ancora ne arriveranno.
Oggi è coperto dal cemento il 39,7 per cento del territorio della provincia milanese: il dato è - solo apparentemente - contenuto poiché comprende tutti i comuni del Parco Sud, ancora relativamente ricchi di aree verdi. Ma ci sono anche i picchi in negativo. Come quello di Sesto San Giovanni, ricoperta dal cemento per il 95,2 per cento del suo territorio. Grandi colate anche a Bresso (asfaltata per il 93 per cento), a Corsico (86,7). Seguono Cologno Monzese con l’82,1 e Pero con l’80,3. Il più in pericolo, nel panorama delle provincie lombarde, è il (restante) verde brianzolo: la provincia di Monza e Brianza si ritrova infatti una superficie urbanizzata che, con il 53,2%, supera la metà del totale.
Legambiente propone una ricetta per evitare di continuare a riempire di cemento il territorio: una legge di iniziativa popolare che ponga paletti introducendo, ad esempio, oneri a carico di chi, potendo riutilizzare aree dismesse della città, decide invece di costruire in aree aperte. «Siamo molto interessati» dice l’assessore regionale all’Urbanistica, Daniele Belotti. Il quale, però, spiega che siccome finora soltanto il 30 per cento dei 1.549 Comuni della Lombardia ha approvato il piano di governo del territorio, «una norma così non si può fare subito». E non si potrà fino al 31 dicembre 2012, termine della proroga ai Comuni per l’approvazione dei Pgt. Prima di allora non si può intervenire con alcuna legge "ad hoc" che aiuti a salvare il suolo dal cemento.
Così finiscono i terreni agricoli
di Teresa Monestiroli
«Il suolo è una risorsa limitata per questo molto preziosa. Obiettivo del Pgt è ridisegnare una città che cresce, e si sviluppa, senza consumare nuovo territorio». Era il 4 febbraio quando un vittorioso Carlo Masseroli, assessore all’Urbanistica, presentava il principio base del suo Piano di governo del territorio dopo il voto del consiglio comunale.
Uno slogan diventato, nei mesi del dibattito in aula, un tormentone che le associazioni ambientaliste hanno sempre criticato. Non solo loro, però. Per Paolo Pileri, professore di Pianificazione territoriale e ambientale del Politecnico, uno dei curatori del Rapporto 2011 sul consumo di suolo, «più che uno slogan è un artificio perché si ridefinisce il concetto di consumo di suolo a proprio favore. Il Pgt sostiene che nei prossimi vent’anni il suolo urbanizzato scenderà dal 73 per cento di oggi al 65 del 2030. Una cosa mai vista, peccato che non sia vera. Per raggiungere quella quota infatti il Comune ha inserito nel "non urbanizzato" anche viali alberati e giardini cittadini. In nessuna parte del mondo il verde urbano è considerato "area non urbanizzata"».
Il principio masseroliano, a ben vedere, è realistico solo in parte. Si legge nel documento di piano che la città non potrà estendersi oltre i suoi confini attuali, ma potrà solo ricostruirsi in quelle zone dove oggi c’è degrado e abbandono, come gli scali ferroviari dismessi, per fare un esempio. «Ci sono grandi aree cittadine che sono oggi degrado puro - risponde alle critiche l’assessore - ambiti come gli scali ferroviari e tutta l’area della Bovisa, dove sorgeranno anche grandi parchi. Il consiglio comunale ha votato un aumento di verde pari a 3 milioni di metri quadrati che sorgeranno dove oggi c’è abbandono. Questa è riduzione del suolo urbanizzato». Ma, nota Legambiente, il Pgt rinuncia alla vocazione agricola di questa città perché, attacca Damiano Di Simine, «ci sono aree agricole che verranno riqualificate con la nascita di nuovi quartieri, invece che riportandole alle origini di terreni coltivabili».
Se dunque alcune aree come Bovisa o Stephenson, dove rispettivamente arriveranno 740 mila metri quadrati e un milione e 235 mila metri quadrati di costruito, sono zone ex industriali da bonificare o comunque già edificabili, nei piani di trasformazione urbana del Pgt rientrano anche terreni oggi agricoli che un domani diventeranno quartieri abitabili. Un esempio su tutti è l’area Expo, per due terzi coltivabile, che un domani sarà certamente costruita, ma anche Cascina Merlata e la Città della Salute che riunirà l’ospedale Sacco, l’Istituto neurologico Besta e l’Istituto dei Tumori. Tre nuovi insediamenti che, dopo il 2015, sorgeranno in una delle zone più attrezzate di Milano. «L’urbanizzazione segue le infrastrutture - continua il professor Pileri - In provincia di Milano le aree più costruite sono quelle lungo l’asse nord - ovest che passa per la fiera di Rho-Pero e va verso Novara, e quello sud - est lungo i binari dell’alta velocità fino a Lodi. Negli ultimi anni è qui che sono cresciuti i maggiori insediamenti».
È proprio lungo la direttrice sud - est che si trova Porto di Mare, altro punto di riqualificazione che, stando ai numeri del Piano, attirerà 530mila metri quadrati di cemento, una volta destinati alla Cittadella della Giustizia e domani chissà. L’area, a cavallo del Parco Sud, è per metà occupata da nomadi. Le volumetrie, garantiscono a Palazzo Marino, atterreranno solo nei metri quadrati di terreno fuori dal parco. Ma perché non estendere il verde, visto che la proprietà è del Comune? Risponde a modo suo Paola Santeramo, presidente della Confederazione italiana agricoltori: «Abbandonare le aree a se stesse e consegnarle al degrado è una politica ben precisa: prima si lasciano deperire i terreni, poi si dice che bisogna riqualificarli.
Le aree agricole sono molto appetibili perché costano poco e non hanno bisogno di bonifiche: basta cambiare la destinazione d’uso e il gioco è fatto. Forse però bisognerebbe ricordare che la Pianura Padana è la zona in Italia con il record di terreni fertili. Se perdiamo questa produttività ne risentirà tutto il paese». Il rischio delle continua cementificazione, che a Milano è arrivata al 78 per cento del totale, ma che a Sesto San Giovanni ha raggiunto addirittura il 95% così come in molti comuni nel Nord, è che si inizi a erodere anche il Parco Sud Milano, zona che fa gola ai costruttori. «Il Parco è rimasta la nostra unica chance di respirare - continua la Santeramo - Una volta che il terreno agricolo viene urbanizzato, per riportarlo alla sua origine ci vogliono mille anni. Credo che Milano, attanagliata dalla smog, non possa permettersi di perdere questo polmone».
«Nessuno si arrischierà a dire che la libertà d’azione dei singoli proprietari privati conduca al miglior risultato desiderabile: i piani generali o parziali devono essere fatti dall’autorità comunale». A pronunciare queste parole, nel 1906, non era un sovversivo comunista, ma un liberale che insegnava economia politica al Politecnico di Milano e alla Bocconi (di cui sarà Rettore dal 1930 al 1934). Ulisse Gobbi, questo il suo nome, era fermamente convinto che «la buona sistemazione del proprio territorio è il primo compito del Comune, a cui esso deve provvedere con tutte le sue forze». Ne è passata di acqua sotto i ponti. A più di un secolo di distanza, sciogliere le briglia al branco selvaggio della speculazione è divenuta la missione di chi gestisce la cosa pubblica. Evidentemente per costoro l’immagine dei volumi riversati sulla città e sulla campagna dalla cornucopia immobiliarista annulla ogni preoccupazione per la qualità degli aggregati insediativi e della vita che sono destinati ad accogliere. Basta fare un giro dalle parti di Citylife o di Porta Nuova per avere un assaggio di quello che la staffetta Albertini-Moratti (Formigoni benedicente) ha preparato per Milano: devastazione, bruttezza, arroganza, invivibilità.
Il nostro professore di economia politica si preoccupava che «attività, intelligenze, capitali» rimanessero disponibili per sostenere quelle intraprese «che giovano ad accrescere il benessere del Paese». Poiché, poi, «l’aumento di valore del terreno edilizio costituisce un guadagno che non è il compenso di nessuna opera utile», bensì il frutto per lo più di investimenti compiuti dalla collettività in infrastrutture e servizi, è bene, sosteneva Gobbi, che la rendita torni alla casse pubbliche. Da qui la sua proposta di una sistematica politica demaniale, condotta estendendo il principio di pubblica utilità introdotto in Italia dalla legge 25 giugno 1865 (esproprio per esecuzione dei piani regolatori) e ampliato dalla legge 31 maggio 1903 (case popolari).
Il mattone e nulla più. Quella che viene sbandierata come la formula in grado di assicurare lo sviluppo è in realtà la via maestra che conduce dritto a due esiti catastrofici: la crisi finanziaria della pubblica amministrazione, e la perdita di competitività economica del Paese. La gran massa di denaro (dei risparmiatori) che Intesa Sanpaolo e Unicredit immobilizzano per soccorrere i vari Zunino e Ligresti viene tolta a quegli impieghi di cui la Lombardia e l’Italia avrebbero quanto mai bisogno: formazione, ricerca e modernizzazione dell’apparato produttivo.
La vicenda dei terreni destinati a ospitare l’Expo 2015 è a suo modo esemplare. Si sceglie di localizzare la manifestazione in una vasta area di proprietà privata, si mette a punto un progetto e un correlato programma di interventi infrastrutturali. Risultato: la proprietà dell’area si ritrova nella condizione di pretendere un considerevole aumento di valore senza aver fatto alcun investimento. A questo punto tra gli amministratori di scatena una guerra di lobby, tra chi vuole acquistare l’area a caro prezzo e chi vuole ripagarne l’uso in comodato con concessione di volumetrie. Comunque la si rigiri, la conclusine della vicenda è quella di un considerevole trasferimento di denaro dal pubblico al privato. Un’amministrazione che avesse avuto a cuore il bene pubblico avrebbe acquistato preventivamente i terreni a prezzi agricoli (mettendo in concorrenza diverse aree) così da togliere di mezzo gli appetiti redditieri in un’impresa che si propone di misurarsi con ben altra fame.
Le ruspe lavorano. Il verde della vegetazione mediterranea scompare, lascia spazio al giallo della terra che emerge, come una ferita. Ecco la grande piscina dell’Hotel Roca di Monterosso. Piscina dei record: sarebbe la prima di tutte le Cinque Terre. Non ancora finita e già si trova al centro delle polemiche, e degli esposti degli ambientalisti. Non solo: il suo progettista è l’architetto Mario Semino. Già, negli anni Ottanta era Sovrintendente della Liguria, insomma era il custode del patrimonio architettonico e ambientale della regione. Mentre oggi è l’autore di un progetto che fa tanto discutere. Strano destino. E c’è chi ha paura che quella piscina (di acqua salata pompata dal mare), quella chiazza azzurra sospesa sul mar Ligure possa essere il passo decisivo verso il definitivo sbarco del Partito del Cemento alle Cinque Terre, uno dei tratti di costa più famosi d’Italia. Dove ogni anno arrivano milioni di turisti, molti stranieri.
I primi allarmi sono partiti negli anni scorsi. Gli ambientalisti puntarono il dito contro la costruzione di villette nel villaggio turistico a picco sul mare di Corniglia (operazione sostenuta da Franco Bonanini, l’ex direttore del Parco, vicino al centrosinistra, arrestato l’anno scorso). Poi ecco il nuovo edificio destinato a ospitare una scuola nei boschi di Pianca. Quindi la sede del Parco vicino alla stazione di Manarola. Per finire con la funivia che dovrebbe partire alle spalle di Monterosso. Insomma, alle Cinque Terre gli allarmi si moltiplicano.
Ma il racconto deve partire dall’inizio, da Monterosso, comune feudo del centrodestra. Primo, semplicemente perché qui l’opposizione non esiste. Il centrosinistra non è nemmeno presente in consiglio comunale. Roba da fare invidia alla Cuba di Fidel. Secondo, perché da queste parti si ritrovano tanti esponenti del mondo berlusconiano, da Luigi Grillo, potente presidente della Commissione Opere Pubbliche e Comunicazioni del Senato, a Maurizio Belpietro, direttore di Libero. Qui gli ambientalisti sono a mal partito. Si battono contro i nuovi garage, contro verande che compaiono all’improvviso su vecchi palazzi storici in riva al mare. L’ultimo allarme è proprio lei, la piscina dell’Hotel Roca.
Praticamente l’unica di tutte le Cinque Terre. Ma leggendo la relazione tecnico-descrittiva del 2004 sembra che non possano esserci dubbi: “La proprietà ha ritenuto indispensabile dotarsi di piscine”. Non solo: “Il Comune ha ritenuto il soddisfacimento di tale esigenza di sicuro beneficio per l’Hotel Roca nonché di miglioramento dell’immagine complessiva turistica del Comune di Monterosso”. Ancora: “Il nuovo Piano Regolatore in itinere, gia’ritenuto meritevole di approvazione dalla Regione Liguria, ha previsto in zona limitrofa all’albergo la possibilita’ di realizzare la piscine”.
Claudio Frigerio dell’associazione Ambiental-Mente, uno dei pochi a essersi battuto negli ultimi anni contro le operazioni immobiliari alle Cinque Terre, non e’ d’accordo. E ribatte punto su punto: “Non si capisce perché sia stata approvata la realizzazione di questa piscina, l’unica di una zona super tutelata, di un Parco Naturale”. Non solo: “Per consentire la realizzazione della piscina si è derogato a tutti i livelli di pianificazione territoriale, a livello comunale (Piano Regolatore), a livello di Parco Naturale e perfino a livello regionale”. Come è stato possibile? “Qualcuno ha sostenuto che la piscina per i clienti dell’albergo va costruita perché di interesse pubblico”. Ma il Piano Regolatore “in itinere” cui fa riferimento la relazione tecnica? Frigerio sorride:”E’ in itinere da dodici anni”.
Negli uffici del Comune respingono le accuse: “E’ tutto in regola”, assicurano. Certo, quella macchia chiara in mezzo al verde delle alture a picco sul mare, quelle ruspe che si mangiano i rilievi fanno venire la pelle d’oca. Non soltanto agli ambientalisti, ma alle migliaia di persone che con il primo sole della primavera sono arrivate a Monterosso. Adesso la parola passerà alla Procura che dovrà occuparsi dell’esposto (finora non ci sono indagati). Ma in Comune sono convinti della scelta e vanno avanti per la loro strada. Del resto non c’è nemmeno l’opposizione.
Buona notizia: Tremonti ha scritto a Repubblica (29 gennaio) smentendo di aver mai detto che «la cultura non si mangia». Pessima notizia: il governo Berlusconi (compreso Tremonti) si comporta come se quella stessa frase la cantasse in coro ogni mattina. Anche il reintegro dei (modesti) fondi per lo spettacolo, fatto a prezzo di un aumento della benzina, minimo ma identico per tutte le classi di reddito, lancia un messaggio chiaro: se volete più fondi per la cultura, pagherete più tasse, pagherete tutti. Nessuna menzogna di ministro o complicità di intellettuali inclini a genuflessioni, furberie e compromessi può nascondere che la scuola è in stato comatoso, che università e ricerca sono drammaticamente sottofinanziate, come anche musica, teatro, cinema, tutela del patrimonio e del paesaggio. In barba alla tradizione italiana e alle garanzie della Costituzione, chi ci governa vede le spese in cultura come un fastidioso optional, l’ultimo della lista.
Eppure Sandro Bondi, allora neo-ministro dei Beni Culturali, dichiarò il 3 giugno 2008 alla Camera che «l´Italia è agli ultimi posti in Europa per la spesa in cultura sul bilancio dello Stato: 0,28% contro l´8,3% di Svezia e 3% di Francia», e dichiarò «mi impegno ad invertire questa tendenza negativa». Risultato: 22 giorni dopo (il 25 giugno), con il decreto 112, il governo dimezzò la capacità di spesa dei Beni Culturali tagliando 1.200 milioni di euro. Da Bondi, neanche un lamento. Da allora, anzi, il suo (ex) ministero ha subito ulteriori tagli, e quello 0,28% è calato a qualcosa come lo 0,16%. In attesa, si suppone, di calare ulteriormente fino all´auspicato zero virgola zero. Davanti a questi dati, Soloni d’ogni osservanza spargono lacrime copiose,
ma poi subito levano le braccia al cielo, e proclamano: "Ma non ci sono risorse! Ma c´è la crisi!". Tanta rassegnata saggezza presuppone una piccola amnesia: l’evasione fiscale. Come hanno scritto Angelo Provasoli e Guido Tabellini sul Sole-24 ore (14 aprile 2010), «a seconda delle stime, il valore aggiunto non dichiarato varia tra il 16 e il 18% del Pil, con una perdita complessiva di gettito di oltre 100 miliardi di euro, pari a oltre il 60% dell´intero gettito Irpef». Perciò «la prima questione da affrontare è l’evasione fiscale», che «potrebbe essere debellata con investimenti non elevati». Recuperare subito l’1 o 2% delle tasse evase, e investirlo in cultura: perché no? Ma nulla in questo senso vien fatto, anzi le risorse che ci sono vengono investite senza alcuna lungimiranza. Per esempio, dopo la frana di Giampilieri che nell’ottobre 2009 uccise almeno 37 persone, Bertolaso dichiarò cinicamente che è impossibile trovare due miliardi per mettere in sicurezza le franose sponde dello Stretto, per giunta soggette a sismi di massima violenza (l’ultimo, nel 1908, seguito da tsunami: 120.000 morti). Si trovano, invece, i sette o dieci miliardi per costruire su quelle frane il Ponte. Si sono trovati cinque miliardi da dare a Gheddafi baciandogli la mano.
Tragica è ormai la situazione delle Soprintendenze, votate (lo ha detto Giulia Maria Crespi) «a una dolce morte»: l’età media del personale ha superato i 55 anni, le nuove assunzioni non sono nemmeno il 10% dei pensionamenti, il controllo del territorio è impossibile per mancanza di fondi. Intanto, nuove attribuzioni e compiti sono previsti dal Codice dei Beni Culturali varato da Giuliano Urbani (governo Berlusconi), con modifiche di Buttiglione e Rutelli: quanto di più bi-partisan, insomma, e forse per questo tanto disatteso. Più responsabilità, meno risorse umane e finanziarie: questo il copione degli ultimi anni, infallibile se si vuol chiudere bottega. E’ un miracolo se, sfiduciati e depressi anche per un’ondata di commissariamenti spesso dannosi, i funzionari delle Soprintendenze resistono in trincea.
Il nuovo ministro Galan ha inaugurato la sua stagione con segnali misti. Da un lato, ha dichiarato (Il Sole, 25 marzo) che non sarà «il sottosegretario di Tremonti», che occorrono nuove risorse e che è urgente «chiudere per sempre il capitolo della sfiducia, della depressione e della rabbia sterile che oggi avvilisce ingiustamente» le Soprintendenze e chi ci lavora (Il Sole, 30 marzo). Dall’altro, si è concesso una battuta («I Bronzi di Riace sono stati trovati nei mari della Calabria, ma solo per questo devono rimanere in quella zona?»), che ha prontamente scatenato chiacchiere da bar e polemiche d’ogni segno. Battuta frivola, che par pensata per dirottare l’attenzione dei media su un tema marginale (il luogo di esposizione dei Bronzi), distraendola da problemi ben più gravi. L’amministrazione dei beni culturali non deve occuparsi solo di opere supreme come i Bronzi, ma della presenza capillare del nostro patrimonio in tutta Italia, della tutela di un paesaggio sempre più devastato, dal Veneto alla Calabria, da spietate colate di cemento. Facendo intravedere un evento spettacolare (e poco costoso) come lo spostamento dei Bronzi da Reggio, il neo-ministro ha fatto parlare di sé ma girando a vuoto, ha scelto la strada in discesa dell’effetto-annuncio. Ma il suo compito è molto più difficile, richiede l’immediata ricerca di risorse e un urgente piano di assunzioni basate sul merito. Esige un progetto per l’Italia e non per due statue, per quanto importanti. E’ così, onorevole Galan, che si potrà ridare fiducia ai funzionari della tutela, e non "movimentando" statue e quadri senza nemmeno consultarli.
Colosseo ai privati, è polemica sul restauro
Claudio Marincola
Doveva essere «la fine di un incubo». Il contratto finalmente portato a casa per tirare a lucido il Colosseo, e metterlo al riparo dalle intemperie, almeno per il prossimo quarto di secolo. Un modello di sponsorizzazione da seguire anche per il futuro. E, invece, l'accordo con l'imprenditore Diego Della Valle sta diventando un "caso". I dubbi innescati dall'ex assessore capitolino alla Cultura Umberto Croppi alimentano nuove polemiche. Possibile che il sindaco Alemanno abbia concesso, come scriveva ieri Il Fatto Quotidiano, ad un privato l'esclusiva sul monumento? E per di più per la durata di cinque lustri? Il Campidoglio nega. «Tutto è stato fatto nella massima trasparenza, gestito dai massimi vertici dei Beni culturali - garantisce Alemanno - ci abbiamo messo quasi un anno a perfezionare la procedura». Ecco, appunto, il busillis sarebbe proprio questo: l'aspetto procedurale.
Il percorso che ha permesso al gruppo di Della Valle di avanzare diritti su una delle sette meraviglie del mondo in cambio di 25 milioni di euro. Il segretario della Uil Gianfranco Ceresoli ha messo in dubbio la legittimità dell'operazione. Ha presentato un esposto-denuncia alla Procura di Roma e alla Corte dei conti. Vuole mettere i bastoni tra le ruote al sindaco. Lo accusa di aver messo in atto«una dismissione del Colosseo», senza «un qualsiasi parere del Comitato tecnico scientifico dei Beni Archeologici». E Alemanno? Il primo cittadino avverte: «Nessuno si inventi fantasie che possano essere da ostacolo». E rivendica «un restauro che Roma attende da almeno 30 anni». In quanto al ricorso «tutti hanno diritto di presentarli, ma non se ne comprende la ratio». Tra qualche giorno, ha assicurato il sindaco della Capitale, la convenzione verrà pubblicata sul sito internet del Mibac e tutti potranno prenderne visione» I passaggi più delicati verranno riesaminati. A cominciare dal progetto iniziale, quando Della Valle si propose come capofila di una cordata e mise sul piatto 2 milioni di euro contro i 34 che secondo i calcoli sarebbero serviti per il maquillage del monumento. Tra intermittenze varie e nuovi contatti si ritenne che sarebbe stata necessaria una gara di evidenza pubblica. Si arrivò così al bando e venne richiesto di indicare anche le ditte che avrebbero effettuato i lavori di restauro.
Quest'ultimo aspetto, tutt'altro che marginale, non piacque, a quanto pare, al signor Tod's che scelse di non partecipare, e la gara andò deserta. Quello che è successo dopo è cosa nota. Il patron della Fiorentina stipulò un accordo direttamente con il Commissario straordinario Roberto Cerchi. Poteva farlo? Sì. Ma «è singolare», sostiene Cerasoli «che il Commissario delegato abbia impegnato la Soprintendenza per un periodo che supera largamente il proprio mandato» La questione è venuta fuori in tutta evidenza quando si è scoperto che l'Anfiteatro Flavio non era più tra le disponibilità esclusive dei Beni culturali. Assurdo ma vero. O almeno pare. Se è vero che la Volkswagen per lanciare un nuovo modello ne aveva richiesto l'utilizzo ricevendo la risposta che il permesso andava richiesto all'imprenditore della Tod's. Come se ormai le chiavi le avesse lui, Diego Della Valle. La Uil ora chiede al neo ministro Galan di «rinegoziare l'accordo». Lancia frasi incendiarie, parla di uno «Stato che di fatto ha venduto il Colosseo». Parole che riportano tutti nell'arena. Non solo i politici ma anche il mancato sponsor Volkswagen contro la Tod's SpA. Scarpe contro auto.
Per il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro siamo di fronte «ad una guerra dichiarata contro un'azienda italiana», la cui unica colpa è «aver compreso che legare il nome al monumento era strategico e redditizio». Ma è lo stesso Giro qualche rigo più giù a far capire che la procedura di assegnazione non si è completata. E che dunque sull'immagine del monumento più caro ai romani non è detta l'ultima parola, «l'intero Piano di comunicazione predisposto dalla Tod's» che dovrà ricevere entro 30 giorni «i rilievi scritti del commissario e del Ministero. Dubbi che si autoalimentano e dubbi espressi con riserva.
Per Salvatore Settis, ex presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali si tratta di «una situazione da correggere, anche «se non ho ancora visto i documenti». Particolare non da poco. Il destino del Colosseo sta a cuore a tutti. Tutelarne la conservazione o l'immagine? Il Pd chiede rassicurazioni al ministro Galan, si fa rilevare «che questo accordo ancora non esiste». Il segretario romano del partito Marco Miccoli «trema per il futuro» dell'Anfiteatro. Il senatore dell'Idv Stefano Pedica prima ringrazia Croppi «per aver sollevato il caso». Poi chiede al sindaco Alemanno di dimostrare «carte alla mano», «se c'è o meno un investimento reale da parte dell'imprenditore Della Valle». L'ultima frecciata è per Giro «diventato il portavoce del sindaco». Anche il capogruppo Udc in Campidoglio Alessandro Onorato chiede lumi. «Non vorremmo - dice - che il dottor Della Valle si trasformi da generoso mecenate in un imprenditore che fa l'affare della vita». E dopo la Volkswagen, anche Woody Allen potrebbe bussare alle cancellate del Colosseo per le riprese. A chi dovrà chiedere il permesso?
La Regina: «Il mecenatismo non può trasformarsi in spot»
Mauro Evangelisti
«A una grande azienda dovrebbe bastare il lustro conseguito dal finanziare dei restauri di un monumento come il Colosseo. Oltre non bisogna andare». Adriano La Regina è presidente dell'Istituto nazionale di Archeologia e storia dell'arte, in passato fu lo storico sovrintendente ai Beni archeologici della Capitale con un impegno caratterizzato dal rigore che gli valse il soprannome di "signor no". Che idea si è fatto del dibattito che si è innescato sull'intesa con Della Valle? «Voglio essere chiaro. Non conosco nel dettaglio il contenuto dell'intesa. Ma una cosa è certa: non è sbagliato di per sé il ruolo dei privati nel restauro di un monumento, ma le cose vanno fatte nei dovuti modi. In fondo anche papa Pio VII s'impegnò in questo senso, ma c'è una semplice targa a ricordarlo, nulla di più». Quale dovrebbe essere allora il punto di equilibrio nella collaborazione fra il Ministero dei Beni culturali e uno sponsor privato disponibile a spendere 25 milioni di euro per il restauro del Colosseo? «Dobbiamo partire da un dato: un intervento così importante, che ti fa conoscere in tutto il mondo, non deve avere altro in cambio se non il lustro. Comportarsi in modo differente significherebbe svilire il Colosseo e quindi l'importanza dell'investimento. Utilizzare in modo sbagliato la sua immagine ne intacca il valore che invece va tutelato. E' evidente. Per questo bisogna essere attenti. Non voglio criticare, però è come avviene per certe stupende canzoni del passato: sono molto belle, ma vengono utilizzate con insistenza negli spot pubblicitari e si sviliscono». Qual è il modello da seguire, visto che comunque i soldi dei privati sono necessari? «Guardiamo a ciò che fu fatto vent'anni fa, quando l'allora Banca di Roma s'impegnò, per i lavori al Colosseo, per venti miliardi. Se si tiene conto dell'inflazione, è una cifra più alta di quella di cui si parla oggi. Anzi, se non sbaglio, ci sono ancora tre milioni di euro da spendere. Bene, la banca in cambio non chiese nulla, fu un atto di liberalità, perché già è sufficiente il prestigio che deriva da una operazione di questo tipo. Al controllo di un monumento come il Colosseo non si può abdicare».
"Piano urbanistico, tutto da rifare"
Via al ricorso dell´opposizione
di Teresa Monestiroli
L’avevano promesso il giorno dopo l’approvazione da parte del consiglio comunale del Piano di governo del territorio: «Faremo ricorso al Tar contro un provvedimento che riteniamo illegittimo». L’hanno fatto, depositando la richiesta di valutare una decisione che è stata presa in maniera «lesiva del diritto-dovere dei consiglieri di decidere sulle osservazioni al Pgt», negando la possibilità di discutere (e votare) una a una tutte le richieste di modifica presentate dai cittadini.
Due mesi dopo il via libera del documento che rivoluziona le regole urbanistiche della città si riapre così lo scontro tra maggioranza e opposizione. Con 14 consiglieri di centrosinistra (su 24) che firmano un ricorso lungo trenta pagine per denunciare le irregolarità con cui il piano, secondo loro, ha raggiunto l’approvazione finale. Tutto ruota, ancora una volta, sulla decisione della maggioranza di accorpare le 4.765 osservazioni in 8 gruppi tematici considerati, dai ricorrenti, «non omogenei» perché affiancavano osservazioni «prive di qualunque attinenza» le une con le altre, ma unificate solo dal fatto di essere state poste sotto la stessa etichetta. Un tema su cui, nei giorni caldi in cui il provvedimento era all’esame dell’aula, i partiti si sono più volte scontrati. Ma che il centrodestra ha superato imponendo a colpi di voti la propria decisione. «Avremmo preferito risolvere la questione in aula attraverso il dibattito politico - spiega Patrizia Quartieri, consigliere di Rifondazione comunista - ma non è stato possibile. La maggioranza ci ha imposto la sua modalità e ora ci tocca dimostrare le nostre ragioni attraverso la giustizia amministrativa».
Il Tar, i ricorrenti ne sono certi, «darà torto al centrodestra». Per questo si è deciso di andare direttamente alla sentenza di merito senza chiedere la sospensiva come normalmente avviene. Il rischio, dicono quelli dell’opposizione, è che il tribunale respinga la richiesta di congelare il provvedimento fino alla discussione del merito, dal momento che ancora non è stato pubblicato e che non entrerà in vigore prima di luglio. «Un ritardo che si giustifica solo con il timore delle stessa giunta Moratti di ricorsi al Tar da parte dei cittadini - commenta Pierfrancesco Majorino, capogruppo del Pd - Per questo sfidiamo l’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli a pubblicare il piano il più presto possibile». Fino ad allora, infatti, né le associazioni né i singoli potranno rivolgersi alla giustizia amministrativa.
Per ora, quindi, l’hanno fatto solo i rappresentati del consiglio comunale. Il ricorso, che ripercorre dettagliatamente le ultime concitate sedute riportando dichiarazioni dei consiglieri e sentenze del Tar che darebbero loro ragione, vuole dimostrare come la decisione di raccogliere 4.765 osservazioni in otto gruppi sia stata illegittima. Per sostenere maggiormente la loro tesi, i ricorrenti citano l’ultima discussione in aula quando, di fronte al gruppo di osservazioni denominato "varie ed eventuali", il capogruppo del Pdl Giulio Gallera chiese uno smembramento in quattro sottogruppi ritenuti a loro volta omogenei. «È evidente che il gruppo "varie" raccoglieva tutte le osservazioni che non rientravano in nessuna delle altre sette categorie - spiegano i consiglieri - Come potevano essere omogenee fra loro?». «È chiaro che il Pgt va riscritto da capo - commenta Basilio Rizzo della lista Fo - e quando vinceremo le elezioni così sarà. In particolare bisognerà rivedere le regole di edificazione all’interno del Parco Sud, lo spostamento delle volumetrie in luoghi già affollati come il centro storico, e l’edilizia popolare».
La road map della rivoluzione
di Alessia Gallione
La rivoluzione dell’urbanistica partirà a luglio. Ancora tre mesi e poi il vecchio Piano regolatore andrà in pensione per lasciare spazio alle nuove regole del Pgt. Perché la marcia di Palazzo Marino continua. Nonostante i ricorsi. Ed è da allora, quando il documento che ridisegnerà la Milano dei prossimi vent’anni diventerà legge, che potranno partire anche le grandi manovre sulle 26 aree che traineranno la trasformazione. A cominciare dagli ex scali. Da Farini a Porta Romana: più di un milione di metri quadrati di binari dimessi, che Ferrovie metterà sul mercato.
Gli uffici del Comune sono al lavoro. Con un obiettivo: concludere tutte le pratiche entro fine giugno per far sì che il Pgt venga pubblicato sul Bollettino ufficiale della Regione all’inizio di luglio. Solo allora entrerà in vigore. Anche se per costruttori e Comune ci sarà bisogno di una fase di rodaggio: non solo a causa di un mercato del mattone in crisi, ma perché c’è ancora qualche tassello che manca. Un esempio su tutti: la possibilità di scambiare le volumetrie potrà decollare realmente da settembre in poi. Il Comune è sicuro di poter presentare il "registro pubblico" in cui verranno annotati tutti i movimenti dei metri cubi a luglio, ma l’Agenzia (Palazzo Marino avrà in mano il 51 per cento del controllo) che farà incontrare domanda e offerta deve essere ancora creata. L’assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli vuole far approvare subito la delibera di giunta che la istituirà. Ma soltanto il prossimo consiglio comunale la potrà votare.
Eccola, la road map del Pgt disegnata da Palazzo Marino. Un percorso già avviato all’interno della macchina comunale che sta subendo una riorganizzazione complessiva, tra informatica e nuove norme da studiare. Masseroli è convinto che il Piano «inizierà a muoversi dai piccoli interventi e ci sarà un gran fermento dal punto di vista dei servizi». Chi dimostrerà di realizzare qualcosa per la città, infatti - la lista è lunga: dai centri sportivi ai negozi storici fino ai laboratori artigiani - potrà costruire senza consumare volumetrie e mettere quei metri cubi sul mercato. Eppure, anche sul fronte dei grandi interventi potrebbe muoversi presto qualcosa.
Il Pgt ha disegnato 26 aree destinate a trasformarsi in nuovi quartieri: è lì che nei prossimi decenni potranno calare 18 milioni di metri cubi di nuove case e uffici. In questa mappa i più "maturi" sono i sette scali ferroviari: da Farini a Porta Romana, da Porta Genova a Rogoredo, si tratta di un milione e 300mila metri quadrati di spazio e di 3 milione di metri cubi di possibili costruzioni. Aree d’oro, che Ferrovie dello Stato è pronta a mettere all’asta entro l’anno. A dare l’annuncio è stato lo stesso Carlo De Vito, amministratore delegato di Fs Sistemi urbani: «Adesso che è stato approvato il Pgt siamo pronti. Entro l’anno partiranno i primi bandi». Il più appetibile è Farini, dove le demolizioni sono iniziate e si potranno realizzare 650mila metri quadrati di volumetrie insieme a un grande parco.
«Ma per sviluppare interventi così imponenti - ragiona il presidente dei costruttori, Claudio De Albertis - dovranno nascere alleanze trasversali tra operatori, fondi, istituti di credito. Nessuno, in questo momento di crisi, potrebbe affrontarli da solo». Oltre agli scali ferroviari, Masseroli si augura che possano concretizzarsi presto anche i disegni sull’area di Bovisa (in teoria una cittadella della ricerca scientifica) e lo scambio dei volumi al Parco Sud, sulle aree di Salvatore Ligresti: accettando di costruire su un pezzo dell’Ortomercato, il verde potrebbe diventare proprietà del Comune.
Ma a luglio quali potrebbero essere i primi effetti concreti? L’aspetto immediato dovrebbe riguardare gli edifici già costruiti. Quando il Piano sarà legge, cambiare le destinazioni d’uso sarà più semplice. Il primo esempio lo ha fatto Masseroli: le due torri ex Fs di Garibaldi accoglieranno uffici non pubblici. La vicenda della casa in stile Batman del figlio del sindaco, poi, ha riportato all’attenzione i loft ricavati in ex spazi industriali diventati abitazioni senza permessi. Almeno 5mila, secondo le stime degli uffici comunali, per i quali si potrà chiedere il passaggio da commerciale o industriale a residenziale. A patto, però, di pagare oneri e di dimostrare di essere in regola con le bonifiche.
A Milano, città della moda e del design (così ci ripetono da lustri e tocca crederci per forza, bloccati negli ingorghi delle settimane dello stile, del mobile ecc.) si vive nella fede assoluta per la creatività spontanea e selvaggia. Uno si sveglia la mattina, beve il caffè, tira un bel respiro profondo e zac! esce fisiologica l’idea vincente della giornata. Vincente soprattutto sui giornali, di solito, dato che la città pare sempre più cosparsa di sconfitti nei vari campi in cui si è applicato il metodo, dall’ambiente, alla casa, ai trasporti, alle politiche urbane in generale. Ecco, è proprio quello che pare scomparso dall’orizzonte, il problema delle politiche urbane: sono ancora in vita, magari sepolte dalla valanga di sparate creative e elettorali? Parrebbe proprio di no, ma non si sa mai.
Perché le politiche urbane, da non confondere con la discrezionalità politica dell’amministrazione in carica o di quella virtuale dell’opposizione, sono proprio il contenitore di riferimento che manca, a Milano e in tante altre città. Le sole vicende legate a pedonalizzazioni, mezzi pubblici, mobilità ciclabile e relative integrazioni sono ad esempio lì a dimostrarlo. Mentre invece nei posti dove il problema lo si è affrontato, da destra a sinistra in alto e in basso, non si parte dal progetto, ma dal programma, inteso come pochi obiettivi chiari e verificabili (le emissioni, i consumi energetici o simili) e poi a scendere coi piani di settore e infine i progetti attuativi. Le piste ciclabili, le rotaie del tram, la pedonalizzazione di un tratto di via del centro e la congestion tax, in sé e per sé, sono solo fiori all’occhiello, destinati ad appassire in fretta se stanno appuntati sul nulla.
Tempo fa in un'intervista l’assessore all’urbanistica milanese Masseroli raccontava ai giornali la sua idea di mobilità ciclabile. E in teoria già poteva accendersi qualche speranza, visto che appunto si trattava del delegato a un aspetto di primissimo piano del metabolismo della città, ovvero le grandi trasformazioni urbane e infrastrutturali. Ma c’era qualcosa che non quadrava, almeno a prima vista, quando l’assessore spiegava come lo spazio fosse poco, e toccasse condividerlo …. fra pedoni e ciclisti! Prego? E le auto? Quelle cosette di lamiera che in movimento o ferme occupano gran parte dello spazio cosiddetto pubblico della città? Loro non devono condividere nulla? Si devono ritagliare piste ciclabili nei pochi spazi in cui la pedonalità non è proprio confinata a una striscia di un metro scarso rasente gli edifici?
Non è tutto. Se si parla di politiche urbane, è perché salta all’occhio di chiunque come il modo di muoversi si intrecci con tempi e funzioni, localizzazione di servizi, stili di vita medi. E quindi solo per restare a un ipotetico cittadino pedalante è quantomeno fantascientifico pensare alla sua giornata come a una specie di cortocircuito casa-ufficio attraverso il nastro conduttore della pista ciclabile, più o meno ritagliata dal marciapiede, o immersa nel verde a cinque minuti dal centro. Perché nemmeno nelle caricature fantozziane più estreme esistono personaggi del genere. Perché “casa” e “ufficio” ovvero origine e destinazione, oltre l’iper-uranio dei ragionamenti assessorili non sono cubicoli sospesi nello spazio interstellare, ma cose complesse, dotate di interfaccia altrettanto complessi: dove sistemare la bici, se e come caricarla eventualmente sui mezzi pubblici, come fruire di alcuni servizi essenziali (i negozi, eventuali ripari dalle intemperie ecc.) lungo il percorso.
Adesso, in un’altra intervista estemporanea, nell’ormai classico stile delle dichiarazioni da fashion designer nuova stagione, l’assessore (vedi l’articolo di Teresa Monestiroli riportato di seguito) parla di “patto sociale” o di “cambiamento di mentalità” ovvero paradossalmente continua imperterrito a ragionare in una logica di progetto, delegando le politiche urbane, il coordinamento, la visione di insieme, alla buona volontà dei singoli. I quali si dovrebbero con un colpo di bacchetta magica scordare come fino a ieri si negava addirittura l’esistenza di una idea generale, salvo il magico risultato della ricomposizione dei comportamenti individuali grazie alla Provvidenza. Beati credenti!
A New York, che non è il paradiso ma sicuramente un posto un po’ più normale di altri, la mobilità pedonale, ciclabile, sui mezzi pubblici, non sta inserita nello spazio interstellare, ma nel piano strategico del sindaco chiamato PLANYC2030 dove gli obiettivi sono ambientali, sanitari, socioeconomici, di localizzazione delle attività economiche ecc. Poi ci sono i commissioners delegati “di settore”, come ad esempio le due signore di ferro Amanda Burden all’urbanistica e la fascinosa Janette Sadik-Kahn alla mobilità. Che oltre ai fiori all’occhiello come il parco centrale sulla ex sopraelevata ferroviaria, la pedonalizzazione di una fetta di Broadway, il piano generale per il waterfront, ragionano e operano con riferimento agli obiettivi strategici.
Poi, siccome siamo sulla terra e non in un telefilm, ci sono anche scontri e polemiche. Sulle piste ciclabili abitanti inferociti ricordano all’amministrazione che we’re not in Copenhagen! ma nessuno si sentirà mai dire che l’errore è della sua mamma, che l’ha fatto nascere con la mentalità sbagliata.
la Repubblica ed. Milano, 2 aprile 2011
Raggi, cerchi, micropiste ma l’ok al piano bici è rinviato causa elezioni
di Teresa Monestiroli
Più che una rivoluzione della viabilità sarà «una riforma culturale», perché la prima cosa che bisogna cambiare, dice Carlo Masseroli, assessore all’Urbanistica, è «la mentalità dei cittadini». È a partire da questo presupposto, e dal dato di fatto che nelle casse del Comune non ci sono i soldi per realizzare grandi opere infrastrutturali, che il padre del Piano di governo del territorio ha ideato un piano di indirizzo per potenziare le piste ciclabili in città e stimolare l’uso della bici.
«A Milano ci sono 600 auto ogni 1000 abitanti - spiega l’assessore - Più del doppio delle grandi città europee. Dobbiamo fare i conti con questa realtà se vogliamo trovare una strategia vincente». Soprattutto dopo aver constatato che il sogno promesso dal sindaco cinque anni fa di raddoppiare i chilometri di piste - da 85 a 190 entro il 2015 - è ancora lontano e che le resistenze della politica - centrodestra in testa - nei confronti delle due ruote hanno più volte frenato i progetti. Ecco allora che l’assessore studia il piano B. Una rete di percorsi ciclabili misti composto da tratti di piste esistenti e tratti di "viabilità promiscua" tra auto e bici, o tra pedoni e bici, che andrà a toccare tutta la città. Una mappa ancora in via di preparazione ma che sta già suscitando dubbi all’interno della maggioranza, tanto che le due delibere già firmate da Masseroli sono state rinviate a un futuro prossimo, probabilmente dopo le elezioni. «Sono solo state rimandate perché erano poco chiare» è la risposta ufficiale dei colleghi di giunta.
L’idea è realizzare tre cerchi concentrici (la prima circonvallazione, la 90-91 e i parchi esterni) e una serie di raggi che dal centro portano all’esterno mettendo insieme le piste già pronte con percorsi ricavati tracciando una striscia sull’asfalto, oppure trasformando i controviali in "zone a 30 all’ora" dove auto e bici convivono. Ma anche microcollegamenti tra un raggio e l’altro utilizzando, dove è possibile, i marciapiedi. La prima sperimentazione, in viale Padova, partirà lunedì. «La delibera per fare una prova anche sui controviali è già pronta - spiega l’assessore - Partiremo da viale Romagna e, se funzionerà, estenderemo il modello a tutti i controviali». Un terzo passo sarà individuare percorsi sui marciapiedi: e in questo verranno coinvolti anche i cittadini attraverso questionari inviati a casa, quartiere per quartiere.
Il progetto, quindi, avrebbe minimo impatto sulla città - toglierebbe pochissimi posti auto - e sul portafoglio del Comune. Ma come convincere i milanesi a rispettare i percorsi promiscui, se già oggi le poche piste ciclabili esistenti sono spesso invase dalle auto? «Quello che ci vuole è un patto sociale fra cittadini - dice Masseroli - È una scommessa, ma sono convinto che quando le piste inizieranno a essere usate gli automobilisti avranno più rispetto».
Per gli ambientalisti, però, oltre al patto ci vuole la sanzione. «Se non si spendono soldi per le infrastrutture - osserva Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia - bisogna attuare una seria politica di regolamentazione della sosta che, prima di rendere i marciapiedi ciclabili, li faccia tornare pedonali. Una drastica azione contro le doppie file e il parcheggio selvaggio, e magari anche l’eliminazione del posteggio su un lato della via per introdurre piste ciclabili anche in strade a senso unico».
Expo, il fantasma delle opere
di Carlo Petrini
Di che orto stiamo parlando? È con una certa sorpresa che ho accolto le parole dell’ad dell’Expo 2015 di Milano, Giuseppe Sala, che ha dichiarato non vendibili e con scarso appeal gli orti previsti nel master plan, rinunciando così a metterli in atto.
Gli architetti avevano fatto un buon lavoro. Intanto, ieri, la signora Moratti ha tenuto un discorso al Consiglio Comunale milanese da cui si potrebbe evincere che non è successo niente. Sembrerebbe tutto verde, tutto pulito. Ma non si capisce se ci crede veramente o è stato soltanto uno spot elettorale. Per parlare di queste cose bisogna avere cognizione di causa e le categorie culturali giuste. Come fa la Moratti a dichiarare che l’agricoltura milanese è «moderna, intensiva, diversificata e rispettosa dell’ambiente»? Non si rende conto che sono quattro elementi in contraddizione o come minimo incompatibili tra di loro?
Se ci fossero persone con un minimo d’idea del mondo in cui vivono, saprebbero che l’elemento centrale della nutrizione in questo momento, a livello internazionale, è il ritorno alla terra. Tutti discutono di come realizzare una produzione sufficiente e non deleteria per gli equilibri ambientali, eminenti professori sostengono che la prossima bolla a scoppiare sarà quella agricola, proliferano i farmers’ markets. Gli orti nascono ovunque, nelle scuole, nelle città, in tanti piccoli appezzamenti privati che prima avevano soltanto scopo ornamentale. Sono la vera tecnologia del futuro, nel Nord come nel Sud del mondo. Li hanno fatti alla Casa Bianca, Londra ne vuol realizzare 2012 entro il 2012, l’anno delle Olimpiadi. Li stiamo anche aiutando a costruire in Africa grazie alla ricerca di fondi di Slow Food, e questi cambiano la vita a intere comunità.
Il mondo evoluto tecnologicamente, dagli Stati Uniti in giù, guarda con grande attenzione a questi fenomeni: non ci sono più dubbi che rappresentino ciò con cui avremo a che fare nei prossimi decenni, e invece a Milano ci dicono che all’Expo vogliono fare il supermarket del futuro. Mentre pensano questa cosa pensano una cosa già vecchia. Quando lo realizzeranno tra quattro anni (se lo realizzeranno, visto come stanno andando le cose in materia di Expo) faranno una cosa vecchia. Rischiamo di farci ridere dietro dal mondo intero.
Sono deluso e sono anche un po’ indignato, perché sta passando l’idea che i contadini di oggi siano fermi a secoli fa. Non è vero, nelle campagne del mondo s’inventa, si crea, si fa vera cultura post-moderna. Pensare che l’umanità abbia a cuore soltanto la futura visione del supermercato è offensivo per miliardi di contadini, nonché un errore madornale. Com’è un errore andare a spiegare a queste persone come devono vivere e lavorare grazie ai progetti di cooperazione che cita la Moratti, importando una visione tecnologica occidentale che non ha futuro e può fare danni irreparabili nel Sud del mondo.
Prendo atto che l’Expo sta rinunciando a diventare ciò che dovrebbe essere: un grande momento di cultura mondiale, in cui presentare i problemi e proporre le soluzioni sul tema "Nutrire il Pianeta, energie per la vita". Prendo atto che non rinunciamo ai vecchi paradigmi che ci hanno portato a questa situazione planetaria così critica e non voglio pensare male (e nemmeno citare Andreotti). Tuttavia la questione dei terreni del sito mi pare scottante: non c’è la volontà di salvare un terreno agricolo e restituirlo integro e valorizzato alla città dopo l’evento. Mantenerlo tale, senza cambiare destinazione d’uso sarebbe uno degli atti politici più grandi e lungimiranti che si possano fare per Milano, ma c’è invece la chiara volontà di assecondare l’interesse di pochi, concedendo l’edificabilità dei terreni.
Non sono attrattivi gli orti? Allora forse abbiamo capito bene cos’è attrattivo per chi sta coltivando un orto molto meno verde di quelli previsti dal master plan: un orticello che non ho ancora capito con che coraggio stiamo proponendo al mondo. Il quale, va ricordato, ci sta guardando e ci guarderà sempre più attentamente man mano che ci avviciniamo al 2015.
Tre anni fa Milano si è aggiudicata la Esposizione Universale del 2015. Ma i lavori non sono mai partiti e ora la città rischia un flop mondiale
di Alessia Gallione e Roberto Rho
Tre anni. Millenovantadue giorni. Ventiseimilatrecento ore. Milano vuole organizzare una grande festa internazionale: convoca 130 Paesi, manda 20 milioni di inviti, programma di investire 1.750 milioni (più annessi e connessi). Ma tanto tempo non è bastato neppure per acquisire la disponibilità dei terreni su cui tenere l’evento, ricevere le delegazioni dei Paesi ospiti, accogliere i visitatori. Chiunque abbia organizzato perlomeno una festa di compleanno per i propri figli sa che prima di spedire i cartoncini d’invito dev’essersi assicurata l’agibilità del locale dove piazzare il buffet e far esibire clown e musicanti. Milano no.
Ha messo in piedi il progetto per l’Expo 2015, si è aggiudicata la vittoria - esattamente tre anni orsono, il 31 marzo 2008 a Parigi - nella sfida a due con la turca Smirne, ma ancora oggi non ha alcuna certezza sulle aree - quelle adiacenti la Fiera di Rho-Pero - su cui intende svolgere la manifestazione.
Perché quelle aree, qualcosa più di 1 milione di metri quadrati di terreni incolti, accatastati come agricoli, sono per oltre metà (520mila metri quadrati) di proprietà della Fondazione Fiera di Milano, per un quarto (260mila metri quadrati) del gruppo Cabassi e solo per la parte rimanente di proprietà pubblica: Poste Italiane e i Comuni di Milano e di Rho. E i terreni non sono l’unica cosa che manca. Mancano i soldi, e tanti. Di quei 1.746 milioni necessari per allestire il sito (molte altre centinaia di milioni sono previste per le infrastrutture e altri 1.280 milioni per l’organizzazione dell’evento), quasi metà (833 milioni) toccano al governo. E anche se Giulio Tremonti apre i rubinetti sempre malvolentieri, l’amministratore delegato di Expo, Giuseppe Sala, è sicuro che da quel fronte non arriveranno problemi insormontabili. Ce ne sono e soprattutto ce ne saranno sul fronte degli enti locali: Comune e Regione devono mettere 218 milioni a testa, la Provincia e la Camera di Commercio 109 ciascuna.
Il Comune deve finanziare la società Expo ma anche pagare le opere (due linee di metropolitana e varie altre minori) che ha inserito nel dossier di candidatura. Ben difficilmente - a maggior ragione in un’epoca di vacche magrissime - riuscirà a sostenere tutte le spese previste. Chi certamente non ha i soldi, lo ha già detto e ripetuto, è la Provincia guidata dal berlusconiano Guido Podestà. E neppure la Camera di commercio, che fin qui si è nascosta dietro un cavillo statutario che le impedisce di spendere quattrini per infrastrutture che non siano strettamente legate alle proprie attività, pare disposta a mettere soldi sul piatto. Infine, i privati: 260 milioni sono attesi da pubblicità e sponsorizzazioni. Ma è una stima pre-crisi e nessuno sa se, chi e quanto sarà disposto a spendere.
Dunque, a 1.495 giorni dalla data dell’inaugurazione l’Expo non ha i terreni su cui costruire l’infrastruttura espositiva e non ha i soldi per allestirla. Per Letizia Moratti, artefice della vittoria di Parigi, sindaco di Milano da cinque anni e commissario con poteri straordinari, l’Expo è come la centrale atomica di Fukushima: una bomba nucleare fuori controllo. È in campagna elettorale, ed è costretta a ostentare tranquillità e sicurezza, come ha fatto anche ieri davanti al Consiglio comunale. «Entreremo nella storia», ha detto, ripetendo alla noia che sarà un’Expo ancora più verde del previsto e che non ci sono ritardi né rebus irrisolvibili.
La verità è un’altra: la "Milano del fare", che era cinque anni fa ed è ancora oggi il suo slogan elettorale, rischia una catastrofe internazionale sotto il profilo dell’immagine. In tre anni la Moratti ha messo insieme una sequela di inefficienze, cambi di manager e litigi, tutti in casa centrodestra e quasi tutti con il condomino Formigoni. Ancora oggi sono avvitati in una querelle estenuante su quale sia la formula migliore per acquisire i terreni di Rho-Pero: dopo mille oscillazioni tra il comodato d’uso (i privati "prestano" i terreni, li riavranno nel dopo-Expo con il valore aggiunto del cambio di destinazione d’uso che consente di costruire a piacimento) e la "newco" (società mista pubblico-privata nella quale i soci pubblici mettono i quattrini e i privati i terreni), oggi il barometro si è spostato decisamente sull’ipotesi dell’acquisto tout court.
Regione e Comune girano una cifra compresa tra 100 e 140 milioni a Fondazione Fiera e Cabassi e acquisiscono la proprietà delle aree, le usano per l’Expo e dopo il 2015 raccolgono il plusvalore generato dall’edificabilità di quei terreni, oggi agricoli. Operazione complessa, tutta da costruire, sulla quale la Corte dei Conti e forse anche qualche magistrato potrebbero avere da ridire: è lecito che enti pubblici acquistino terreni agricoli inglobando nel prezzo d’acquisto un cambio di destinazione d’uso futuro (che loro stessi si propongono di fare)? E che quegli stessi terreni vengano poi rivenduti come edificabili o direttamente sfruttati dagli stessi enti pubblici per la prevedibile speculazione edilizia?
Già, perché comunque vadano le cose, che siano i privati a mantenere la titolarità di quei terreni o i soci pubblici ad acquisirla, la speculazione è il perno su cui ruotano l’affare dell’Expo e, di conseguenza, le guerre di potere e le polemiche di questi 1.092 giorni. Al momento è tutto fermo: si attende per il 5 aprile una relazione dell’Agenzia del territorio che dovrà stimare il valore dei terreni e delle infrastrutture che li renderanno fruibili. Ma tutti prevedono che la relazione non scioglierà nessuno dei nodi e allora Moratti e Formigoni riprenderanno a litigare. Una finta soluzione - com’è accaduto nell’autunno scorso - sarà raffazzonata in vista dell’incontro con il Bureau International di Parigi il 19 aprile. Poi si tornerà a litigare.
Intanto il tempo corre: non avendo la proprietà dei terreni, la società Expo 2015 non ha potuto neppure entrarci. Con due conseguenze: il manager Giuseppe Sala, che ad aprile avrebbe dovuto lanciare la prima gara da 90 milioni per la rimozione delle interferenze (la ripulitura dei terreni), l’ha già spostata a giugno. Prima di ottobre non si muoveranno le ruspe. Secondo: il concept dell’Expo è - o forse sarebbe meglio dire "era" - un immenso orto planetario in cui ognuno dei Paesi dovrebbe presentare coltivazioni proprie e idee per l’agroalimentare. Ma senza la disponibilità dei terreni, il lavoro (che richiede anni) non può neppure cominciare.
Il problema potrebbe essere superato dal cambio in corsa della filosofia dell’Expo, annunciato nei giorni scorsi dal management. «Troppo verde non si vende», ha detto in sostanza Sala, prefigurando una sterzata in direzione delle nuove tecnologie che nessuno ha ben compreso e che, secondo Carlo Petrini e Stefano Boeri, gli ideatori dell’orto globale, è un clamoroso errore. Di più: per Boeri «una manovra che occulta la reale intenzione di rimpiazzare i campi coltivati con padiglioni facilmente smontabili e sostituibili con nuove costruzioni. Cemento, cioé valore aggiunto per i proprietari delle aree». E si torna al rischio speculazione, che in tre anni di caos è l’unica vera costante.
Milano, in piena campagna elettorale, assiste attonita a uno spettacolo che sono in molti a considerare indecente. Giuliano Pisapia, candidato del centrosinistra, fatica a far sentire la sua voce nel frastuono della propaganda, che ogni giorno annuncia successi roboanti, come - ultimo ieri - l’adesione della Cambogia all’Expo. Si chiede, Pisapia, se dopo tre anni di scempio il supercommissario Moratti non debba essere, lei sì, commissariata. Il sindaco non fa una piega: «L’Expo ha bisogno di continuità». Cioè di lei stessa. Tutti intorno sorridono. Il suo partito, il Pdl, chiede una relazione sulla vicenda. Formigoni ha l’aria sorniona di chi controlla l’unica cassaforte ancora munita, quella della Regione. Tremonti, vero manovratore dei cordoni della borsa, considera l’Expo una fastidiosa incombenza. E Berlusconi? Raccontano che, ai dirigenti del suo partito che gli chiedevano come affrontare la vicenda, abbia risposto lapidario: «Passiamo ad altro».
Spero di aver già chiarito altrove la mia perplessità, sia quella ovvia sulle scelte di modificare il progetto originario (che considero piuttosto meschine e di basso profilo), sia sulle polemiche, che paiono concentrarsi sul solo aspetto della “cementificazione”, a cui forse andrebbe affiancato un maggiore sostegno alla posizione invece ben espressa e sostenuta da Petrini.
E proprio sull’intervento di quest’ultimo vorrei brevemente intervenire, provando a rispondere alla questione centrale posta, in particolare quando si dice che “sta passando l’idea che i contadini di oggi siano fermi a secoli fa”. È certamente quanto pensano i ragionieri (con tutto il rispetto per i veri professionisti della contabilità) autori della proposta di supermarket e/o stand gastronomici al posto dell’orto e delle serre, che sarebbe più “moderno” e vendibile. Ma non corrisponde naturalmente alla realtà.
Il concetto però andrebbe ribadito anche a chi, in un modo o nell’altro e peraltro con ottime intenzioni, non riesce a schiodarsi esattamente da questa leggenda metropolitana del contadino dalle mani callose e oneste, diciamo pure un po’ pirla, che posa in camicia a scacchi e cappello di paglia davanti a un tramonto agreste. Di un mondo fatto a immagine di cartolina, più simile a certa iconografia piccolo borghese dell’arcadia suburbana che a qualunque realtà. E che sotto sotto comunica (magari anche ai potenziali investitori messi in fuga dall’orto ma affascinati dai carrelli del supermarket) una gran voglia di tornarsene, alla fine del meritato relax campagnolo, nel mondo vero, dove si fanno le cose utili, e si guadagna abbastanza da potersi concedere anche quelle vacanze cartolina.
Città e campagna, invece, sono entrambe cose serie, modernissime, tangibili, degne di rispetto. Da trattare come tali. Sempre (f.b.)