La Repubblica, 11 dicembre 2012
Finalmente rivelati i progetti del ministro Lorenzo Ornaghi. Rispondendo con solo nove mesi di ritardo a una lettera firmata da oltre cento direttori di musei, archivi, biblioteche che lamentavano lo stato deplorevole dei beni culturali e il nessun riconoscimento dei loro meriti e del loro lavoro, il ministro ha parlato chiaro (Corriere della sera,8 dicembre): bando alle ciance, la vera priorità del nostro tempo è «evitare a ogni costo il diffondersi della peste dell’invidia e delle gelosie sociali», che porterebbero a «un incattivimento della società italiana più pericoloso dello spread, più nefasto di ogni immaginabile stallo dei partiti o del sistema rappresentativo- elettivo». Ecco dunque l’agenda Ornaghi: la pace sociale si raggiunge rinunciando a invidie e gelosie, ognuno si accontenti del suo stato, zitti e mosca. Quanto al suo dicastero, pro bono pacis,sarà meglio non rispondere nemmeno al direttore degli Uffizi, anzi bastonarlo se si accorge che il suo stipendio è un decimo di quello dei suoi colleghi americani e un ventesimo di quello di un deputato (italiano) che vende il voto al miglior offerente. No all’invidia sociale, viva l’armonia. È un modello che si può estendere: per esempio, guai ai disoccupati che vorrebbero lavorare, sono solo degli invidiosi. Vergogna se un malato che non può curarsi per i tagli alla sanità dice che chi può permettersi un’assicurazione godrà di miglior salute. Vituperio su alunni, insegnanti e genitori che vorrebbero una scuola pubblica funzionante, e osano ricordare che secondo la Costituzione (art. 33) scuole e università private, compresa la Cattolica di cui Ornaghi è stato rettore fino a un mese fa, hanno piena libertà ma «senza oneri per lo Stato». Tutta invidia. Qualcuno si permette di ipotizzare «una società in cui tutti i meriti ottengano il loro giusto compenso»? Ma è una «critica sprovvista di un realistico contributo costruttivo », anzi «un malvezzo». Questi «incattivimenti» meglio eliminarli alla radice, pax
vobiscum. E perché non affrontare gli altri nodi della politica stigmatizzando anche gli altri vizi capitali? Un brillante biologo conteso da università di tutto il mondo vorrebbe una cattedra in Italia (ma non può: i concorsi sono bloccati da sette anni)? Pecca di superbia! Un operaio di Taranto protesta perché all’Ilva si registra un aumento dei tumori fino al 419 %? Si è macchiato di un altro vizio deplorevole, l’ira. Un malato si lamenta della pessima qualità del cibo in ospedale? Si penta, sta peccando di gola. Un direttore resiste all’idea di privatizzare attività e biglietteria del suo museo? Ma è avarizia! Restano due vizi nella lista, lussuria e accidia. Del primo abbiamo registrato fin troppi esempi (in Parlamento e nei CdA), ma non incattiviamoci al punto di ricordarli. Di accidia viene accusato frequentemente proprio Ornaghi, ma si tratta palesemente di «distorsioni o fratture che caratterizzano la nostra convivenza civile». E a Gian Antonio Stella che gli aveva chiesto ragione della sua ostinata assenza dalla scena (detta in linguaggio curiale, quel Ministero è davvero “sede vacante”), il ministro risponde serafico che sì, magari fra un mesetto, «trascorso questo periodo di feste», potrebbe concedergli un incontro.
Piuttosto, in questa politica- catechismo, varrà la pena di ricordarsi anche dei Dieci Comandamenti.Settimo: Non rubare,per dirne una. Ma allora come mai Ornaghi ha difeso in Parlamento il suo consigliere Marino Massimo De Caro, arrestato pochi giorni dopo per il furto di migliaia di libri nella biblioteca napoletana dei Girolamini di cui, proprio in quanto consigliere del ministro, era stato nominato direttore? E come mai Ornaghi non ha sentito nemmeno il bisogno di scusarsi via via che la magistratura scopriva altri furti del De Caro (ancora e sempre in galera), in decine di altre biblioteche in cui entrava come suo consigliere? Forse per non «incattivire»? Sarà, invece, ostensione di bontà la sua tesi, spesso ripetuta tra un coro di fischi, che è meglio che lo Stato se la svigni dai musei e ceda il passo ai privati? Per troppo tempo abbiamo sperato che la destra “colta e pulita” del governo Monti segnasse un progresso rispetto alla destra becera e incolta dei governi Berlusconi, ma almeno in questo caso non è così. Sarà forse per carità cristiana, ma certo Ornaghi ha voluto dimostrareurbi et orbi che il povero Bondi non era, dopotutto, il peggior ministro possibile. Bisogna ammetterlo, ce l’ha fatta.
«La causa principale del debito romano sta piuttosto nel dissennato modello di crescita che ha causato una espansione urbana incontrollata». Il manifesto, 1 dicembre 2012
In attesa di una convincente risposta resta da formulare una proposta. Alemanno è costretto a portare fino in fondo lo scellerato progetto: tra pochi mesi inizia la campagna elettorale amministrativa e dopo l'evidente fallimento della sua amministrazione non può permettersi di scontentare i suoi migliori alleati, i costruttori e gli immobiliaristi romani. L'opposizione - fatta eccezione per Andrea Alzetta e Gemma Azuni - non batte un colpo, prigioniera della mancata riflessione critica sull'approvazione del piano regolatore 2008 che ha provocato il nuovo sacco edilizio.
Non resta allora che venga sottoscritto da chiunque si candiderà alle prossime elezioni un solenne impegno: revocare la delibera che verrà approvata nei prossimi giorni. La città ha bisogno di segnali di discontinuità: non si può continuare a fondare il futuro di Roma sull'espansione urbana mentre ci sono almeno 100 mila alloggi nuovi invenduti che da soli risolverebbero la questione. C'è bisogno di un chiaro ed inequivocabile cambio di rotta e di una nuova idea di città: il modello fin qui dominante ha portato al fallimento economico
Corriere della Sera Milano, 29 novembre 2012, postilla (f.b.)
La recentissima pubblicazione degli atti del nuovo Piano di governo del territorio conferma una gradita sorpresa per tutti coloro che si sono dichiarati favorevoli alla riapertura dei Navigli (95 per cento dei votanti) in uno dei referendum ambientali del 2011. Accogliendo le numerose osservazioni formulate da cittadini e associazioni, la giunta ha proposto e il consiglio ha approvato l'inserimento del tracciato degli storici Navigli come ipotesi di possibile riapertura.
Dopo 130 anni e cioè da quando Cesare Beruto cancellò dal Piano di Milano (1884) così larga parte dei Navigli, riappare in una planimetria urbanistica della città quel segno d'acqua storico.
Così è possibile oggi pensare ad un progetto di fattibilità della riapertura dei Navigli come elemento nuovo e qualificante di una stagione urbanistica diversa che emblematicamente cambia il suo orizzonte: dalla spinta incontrollata all'edificazione e alla densificazione, alla cura per la qualità urbana e del vivere quotidiano. L'idea è quella di stendere sulla città lo storico sistema di canali, lungo i tracciati della Martesana in via Melchiorre Gioia e sulla Cerchia dei Navigli dal Ponte delle Gabelle sino alla Darsena, passando per i luoghi più belli di Milano. Una via d'acqua navigabile per battelli di ridotte dimensioni di trasporto pubblico, collegata al tema più generale della navigabilità dal lago di Como al Ticino, come da anni sostengono l'architetto Empio Malara e l'Associazione Amici dei Navigli. Un progetto fattibile, disegnato via per via, in grado di salvaguardare i diritti dei residenti affiancando sempre al naviglio una strada di servizio e soprattutto una pista ciclabile che magicamente potrebbe congiungere Ticino e Adda con il centro di Milano.
Niente a che vedere con la nostalgia del passato, ma anzi progetto per il futuro, capace di collegare storia e innovazione (basti pensare alle risorse energetiche derivanti dai salti d'acqua e dalla possibilità ad esempio di usare gli scavi per realizzare un possibile anello del teleriscaldamento per il centro della città). Le obiezioni principali riguardano essenzialmente l'impatto che la riapertura dei Navigli avrà nei confronti del traffico e della viabilità e i costi della realizzazione.
Ma, sulla questione del traffico, Area C e prima ancora Ecopass, non avevano e hanno per obiettivo la riduzione del traffico veicolare privato nel centro storico e un invito per tutti a usare i mezzi pubblici per giungere nel suo centro? La riapertura dei Navigli potrebbe costituire un elemento fondamentale per centrare l'obiettivo garantendo al contempo la fluidità degli spostamenti essenziali (residenti, carico e scarico merci e emergenze, mezzi pubblici). Sulla sostenibilità finanziaria di un intervento di questo tipo, considerando la questione da un punto di vista più ampio, bisogna saper collegare i costi ai benefici economici che deriveranno dal rilancio turistico di Milano e dalla sua maggiore attrattività e competitività nell'ambito europeo. Un progetto di questo tipo può radicarsi solo attraverso una progettazione partecipata che è d'obbligo quando la città chiede a chi la abita di modificare le consuetudini di vita. La posta in gioco è molto alta ed è in grado di rendere la Milano di domani ancora più bella e vivibile.
Postilla
Se, come sostengono le obiezioni alla riapertura dei Navigli, ci saranno degli impatti sul traffico e la mobilità, non si può trattare altro che di impatti positivi, e proprio per via del rapporto strettissimo fra assetto spaziale e circolazione. Basta ricordare a quali eventi e circostanze corrispondono i due ripristini citati da Boatti: il collegamento fra ponte delle Gabelle e Darsena attorno al centro storico, e l’asse della Martesana attualmente tombato sotto la via Melchiorre Gioia. Nel primo caso la copertura avviene proprio all’alba dell’automobilismo trionfante a cavallo tra gli anni ’20 e ’30, e basta leggere gli articoli dei giornali paralleli al dibattito sul piano in formazione di Cesare Albertini per intuire quanto l’auto sia il sottofondo naturale di tutte le riflessioni sulla nuova città dai parcheggi alle direttrici al nuovo ruolo delle piazze. Nel secondo caso risulta ancora più vistoso, il legame tra la tombatura della Martesana e certa cultura modernista auto-oriented del secondo dopoguerra, visto che attorno all’asse di via Melchiorre Gioia si organizza il cosiddetto Centro Direzionale, intersecato all’altra direttrice automobilistica di viale della Liberazione, che oggi sono il fulcro del cosiddetto quartiere Porta Nuova (quello del Formigone, del Bosco Verticale e compagnia bella). Ben venga dunque, almeno nelle intenzioni, una marcia indietro nella costruzione della città automobilistica: sarà un passo avanti per tutto il resto, naturalmente coordinando le politiche (f.b.)
La Repubblica Milano, 28 novembre 2012, postilla (f.b.)
NEGLI ultimi nove anni dalle strade della città sono già sparite 74mila auto. E nella Milano del futuro ne mancheranno altre 47mila. I milanesi si convertiranno ancora di più alle due ruote, con 8mila motocicli in più in circolazione previsti nel 2015. Con meno rumore in città, rispetto a quello che oggi subisce un cittadino su cinque. Una città con meno traffico e più bici, con l’incognita della congestione fuori dalla Cerchia: è la fotografia delle trasformazioni — quelle già avviate nel passato e quelle future — scattata dall’aggiornamento del Piano generale del traffico urbano, il Pgtu che programma la mobilità nel breve periodo.
Ma lo scenario per il 2015 vale solo se il Comune porterà avanti la propria missione sul fronte del traffico. Cioè Area C viva e vegeta, magari anche rafforzata. E poi più mobilità dolce, meno congestione in centro, più isole ambientali, ztl, piste ciclabili e zone con il limite dei 30 chilometri all’ora, potenziamento del trasporto pubblico, carico e scarico merci più razionale e strisce blu diffuse. Un libro dei desideri, confortato da previsioni tecniche, che la giunta Pisapia conta e spera di poter tradurre in realtà. «La difficoltà principale riguarda la poca chiarezza circa il quadro delle risorse statali sul trasporto pubblico nei prossimi anni — sottolinea l’assessore alla Mobi-lità, Pierfrancesco Maran — . Il nostro obiettivo è incrementare la possibilità di muoversi dei cittadini: su questo, dal car sharing e bike sharing, anche le nuove tecnologie possono produrre alternative interessanti ». Dopo un incontro pubblico, il 20 dicembre, il Pgtu approderà prima in giunta e poi, tra febbraio e marzo, in Consiglio comunale.
LE AUTO
Nel 2015 caleranno ancora di più le auto. Le previsioni parlano di un 15% in meno rispetto a oggi. Traffico in lievissima discesa (— 1,1%), spostamenti più veloci del 17% nella Cerchia dei Bastioni, una media di percorrenza tagliata di un terzo, specie nelle ore di punta. Con un neo: alcune strade, come tra corso Sempione e via Volta e viale Caldara e Regina Margherita, sono a rischio di congestione proprio per l’espulsione crescente di traffico dal centro storico, più a mobilità lenta, verso le arterie esterne.
ZONE 30 E ISOLE PEDONALI
In meno di dieci anni la Milano pedonale è già cresciuta: da 296mila metri quadri del 2003 ai 399mila di oggi. Stessa cosa per le zone a traffico limitato (134.800 metri quadri) e le zone 30 (325.600 metri quadri). Inoltre, oggi si contano 145 km di piste ciclabili e la giunta conta di aumentarli, specie sull’asse Argonne-Indipendenza ma anche Maciachini-Comasina, QT8-Gallaratese, Lotto-Triennale, Duomo-Sempione, Duomo-Porta Nuova, Portello-Molino Dorino e Medaglie d’Oro-Chiaravalle. Entro l’anno, invece, le stazioni del bike sharing, dalle 150 di oggi dovrebbero salire a 200, per completare la fase 2 del piano delle bici gialle in affitto.
PREFERENZIALI E SEMAFORI
Venti nuove corsie preferenziali, per favorire i mezzi pubblici che, più veloci, sono un’alternativa all’auto
privata. Tra queste, già inserite nel Piano triennale delle opere pubbliche ci sono gli interventi nei tratti di viale Gorizia-Col di Lana-Bligny-Sabotino, Cermenate-Antonini, Coni Zugna, Certosa-Bovisa- Maciachini, Solari-Montevideo, Tunisia. Anche i semafori hanno un ruolo: dopo gli effetti positivi ottenuti finora su 5 linee (90, 91, 4, 12 e 15), la missione è intervenire per dare la priorità del verde anche ai mezzi delle linee 7 e 13.
SOSTA E PARCHEGGI
Il Comune proseguirà sulla strada della strisce blu, anche per abbattere la sosta selvaggia che supera
un terzo dei parcheggi, si stima. Nel 2012 l’incremento delle zone regolamentate è stato del 73% per i residenti e dell’87% per le strisce blu (rispetto al 2003). Il piano individua l’estensione degli ambiti di sosta regolarizzata, da Zara-Testi ad Abbiategrasso, da Bisceglie a Rogoredo, da Cascina Gobba a Mac Mahon, Piero della Francesca, Bovisa e Città Studi.
INQUINAMENTO: ARIA E RUMORE
Dal 2003 al 2012 sono scese le emissioni atmosferiche di quasi tutti gli inquinanti, del 31% come minimo. E nel 2015 si stima che si avrà un calo fino al 12%. Anche il rumore è nel Piano: nonostante oggi la maggior parte dei milanesi sia esposta a variazioni trascurabili di livelli di suono, cioè sotto gli 0,5 decibel, resta ancora un 19,5% di cittadini che subiscono oscillazioni acustiche più significative. Una cifra che, se il piano funzionerà, nel 2015 scenderà al 4%.
Postilla
Come spiega già molto bene l’incipit, dalla città le auto stanno già sparendo, ovvero sono i cittadini a decidere di mollare la propria scomoda e inquinante scatoletta di lamiera. E la vera questione dei programmi per il futuro è. Saprà la pubblica amministrazione affiancare (cosa che sinora il centrodestra al governo non si è mai sognato di fare) virtuosamente il processo spontaneo, favorendo tutte le azioni individuali e collettive, pubbliche e private, che vanno in questo senso? Muoversi vuol dire andare da un posto all’altro per qualche motivo, e questi motivi dipendono dalla forma urbana, dalla distribuzione delle funzioni e dalla loro organizzazione. Su questi aspetti occorre vigilare ed eventualmente intervenire, come pure su certi effetti isola assediata, ovvero quel che succede quando manca (o fallisce) un piano complessivo, e le trasformazioni si fanno eccezionali e puntuali, circondate dalla norma. A partire dal rapporto fra il centro e la periferia, e oltre i comuni dell’hinterland che, si spera presto, entreranno a far parte integrante della città metropolitana e delle sue politiche per la mobilità (f.b.)
. Articoli di Serena Lullia e commenti di Stefano Deliperi, Sandro Roggio e Giorgio Todde, La Nuova Sardegna, 20 – 25 novembre 2012
20 novembre 202
Un master plan da 400mila metri cubi
A Doha il vertice con Monti, Cappellacci e i sindaci di Olbia e Arzachena. L’emiro garantisce il rispetto dell’ambiente
di Serena Lullia
DOHA. La nuova Costa Smeralda nasce fra le stanze dorate del palazzo dell'emiro Al Thani, nel cuore della capitale del Qatar. Lo skyline del borgo di Porto Cervo in versione qatarina scorre davanti agli occhi della delegazione italo-sarda in missione a Doha, con il premier Mario Monti, il governatore Ugo Cappellacci, i sindaci di Arzachena, Alberto Ragnedda e Olbia, Gianni Giovannelli. Con un investimento di un miliardo di euro il Fondo sovrano del Qatar intende dare una seconda vita a Porto Cervo, senza alterare le sue origini architettoniche né la bellezza del paesaggio che l'ha reso un mito.
Il Qatar scopre il suo master plan a cinque mesi dall'acquisto della Costa Smeralda per 600milioni di euro, mini per i volumi, maxi per la cifra dell'investimento, un miliardo di euro. Un piano di lungo periodo, in cui i metri cubi vengono concepiti come uno degli elementi del progetto di rilancio turistico del villaggio dei vip che andrà di pari passo con un potenziamento dei trasporti aerei firmati Qatar Airways. Un master plan di circa 400mila metri cubi, con volumi che in parte verranno usati per completare e aggiungere nuove stelle ai quattro hotel storici di Porto Cervo, in parte per realizzarne di nuovi, almeno due, altri per costruire residenze. Più servizi e parchi nell'entroterra di Arzachena. Mattoni che dovranno essere mimetizzati fra macchia mediterranea e graniti. È il primo ministro del Qatar, lo sceicco Hamad bin Jassim al Thani, a insistere sul valore ambientale dell'investimento in Costa nel lungo faccia a faccia con la delegazione con i quattro mori. «Il mio sogno è sviluppare questi nuovi volumi in modo che non si vedano dal mare», dice. Musica divina per le orecchie del sindaco Alberto Ragnedda che sin dai primi contatti con i vertici del Qatar aveva spiegato la condizione su cui non sarebbe mai sceso a compromessi, il rispetto dell'ambiente. E nella definizione del piano della nuova Costa Smeralda le indicazioni arrivate dal Comune sembrano essere state recepite. Per il momento si tratta solo di un progetto, con volumi virtuali, che prima di diventare certi dovranno passare attraverso l'analisi dei tecnici comunali. Il fondo del Qatar è pronto a spendere subito i suoi petrodollari, nel rispetto delle leggi regionali e comunali. Ma chiede certezze nei tempi e nelle regole alle istituzioni sarde. «Già a partire dalla prossima settimana – ha spiegato il presidente Cappellacci – intendiamo entrare nella fase operativa, attraverso incontri tecnici finalizzati a definire la cornice degli interventi, per poi entrate nel merito delle singole opportunità di investimento e comporre un piano strategico complessivo». Soddisfatto il sindaco di Arzachena, Alberto Ragnedda che resta vago sui dettagli del piano di sviluppo Smeraldo almeno fino al rientro ad Arzachena, dopo che avrà illustrato il progetto alla sua maggioranza. «Sono soddisfatto per la serietà dell'interlocutore – commenta –. La sensazione che ho avuto è avere davanti investitori seri, di lungo termine, interessati a tutelare il patrimonio ambientale, di tradizione e valori della nostra terra. Non speculatori mordi e fuggi. Di fronte a questa serietà è necessaria una forte intesa fra Comune e Regione. Entrambi svolgono un ruolo fondamentale nella costruzione delle garanzie di una ritorno al benessere diffuso e di ricadute di lungo termine per la comunità sarda e gallurese». Entusiasta il sindaco di Olbia Gianni Giovannelli. «Il Qatar ha in mente un progetto complesso, di lungo periodo, che non punta solo al settore del turismo del lusso, ma anche al turismo delle famiglie e a quello congressuale. Un investimento da fare nel rispetto dell'ambiente, con una ipotesi edificatoria risibile se paragonata al miliardo di euro di investimenti».
23 novembre 2012
Il cemento del Qatar nell’oasi selvaggia di Razza di Juncu
Nei progetti della Qatar holding per la Costa Smeralda sono previsti 4 nuovi hotel: due nel comune di Arzachena e due a Razza di Juncu, ultimo eden in territorio di Olbia. Alberghi di medie dimensioni a 300 metri dal mare
di Serena Lullia
PORTO CERVO. La Costa Smeralda in versione qatariota arriva fino al comune di Olbia. Il piano di investimenti dell'emiro Al Thani quasi infrange un tabù, oltrepassa i confini di Arzachena e mette radici nella periferia nord olbiese, a Razza di Juncu, simbolo della battaglia anticemento degli anni Novanta. Nei progetti della Qatar holding per rilanciare il borgo delle stelle ci sono due nuovi hotel nel comune di Arzachena, a Liscia Ruja e al Pevero. Più altri due a Olbia, con un massimo di 100 stanze, per un target giovane. Progetti ancora da definire. L'unica certezza è che le strutture ricettive sorgeranno in aree oltre i 300 metri dal mare, come le sorelle arzachenesi, e condivideranno la vista sul mare con un parco di oltre 1500 ettari.
Razza di Juncu è un territorio di confine, la prima porzione del paradiso Smeraldo per chi arriva da Olbia, la periferia dell'eden scoperto dal principe Aga Khan. Un'area selvaggia su cui il principe ismaelita aveva messo gli occhi e sperava di metterci anche un bel po' di cemento. 450mila metri cubi da concentrare su Razza di Juncu ma nella sola parte del comune di Arzachena. L’idea era creare un villaggio gemello di Porto Cervo, fra il mare e la strada provinciale. Un’ipotesi contro cui l'allora sindaco di Arzachena, Tino Demuro, si oppose con determinazione. «L'interesse del principe è sempre stato Razza di Juncu nella parte del comune di Arzachena – spiega l'ex primo cittadino –. Nel master plan da 6milioni di metri cubi ne aveva ipotizzato 450mila solo sui terreni di Razza di Juncu. L'idea era far sorgere un borgo come Porto Cervo sul mare. Volumetrie insostenibili per il nostro territorio, ma forse necessarie alla proprietà per compensare gli alti costi di infrastrutturazione di un'area come quella, vergine e selvaggia. Su quei terreni non c'è nulla. Vanno infrastrutturati dalla A alla Z. Difendemmo quel pezzo di paradiso da un intervento che l'avrebbe rovinato per sempre. Io non mi considero né un ambientalista e ancor meno un integralista dell'ambiente. Tanto che allora facemmo una controproposta al principe. Un taglio drastico dei metri cubi, un indice volumetrico molto più basso e la costruzione non di alberghi e residence, ma di ville ben integrate nella vegetazione». Demuro è incuriosito dalla proposta del fondo del Qatar di realizzare due hotel proprio in quell'area, concentrando gli alberghi per giovani nella piccola fetta smeralda di Olbia. «C'è una differenza fra il progetto di investimento pensato per Arzachena e quello per Olbia – aggiunge Demuro –. Arzachena è pronta per partire. A Razza di Juncu c'è invece da fare un intervento complesso che riguarda reti idriche, fognarie, strade, illuminazione. Basta andare in quelle aree per rendersi conto che Razza di Juncu è ancora vergine, con una rigogliosa macchia mediterranea. Un pezzo di Gallura rimasta immune al cemento». Demuro, che ha scritto un pezzo di storia della Costa Smeralda opponendosi al master plan da 6 milioni di metri cubi, esprime apprezzamento per la bozza del piano Gallura presentato dal Qatar. «Non si conoscono i dettagli ma apprezzo la filosofia ispiratrice – conclude –, pochi metri cubi integrati sull'ambiente. Una conferma che forse la scelta di allora, dire no a mostruose e indiscriminate colate di cemento, ci ha permesso di conservare il nostro territorio e renderlo ancora oggi appetibile per gli investitori. Si tratta poi di imprenditori seri, che hanno alle spalle staff di tecnici preparati e all'avanguardia».
24 novembre 2012
La Costa Smeralda aspetta il nuovo Ppr Arzachena
il progetto di investimenti del Qatar è legato all’approvazione del nuovo strumento di pianificazione regionale di Serena Lullia
ARZACHENA. Il futuro della nuova Costa Smeralda passa dalle stanze del palazzo regionale. Il governo del Qatar ha già deliberato 1 miliardo di euro per gli investimenti in Sardegna. Nel pacchetto con i quattro mori non c'è solo il rilancio di Porto Cervo con la ristrutturazione dei quattro alberghi storici, la costruzione di due nuovi hotel nel comune di Arzachena e due eventuali a Olbia, impianti sportivi e parchi attrezzati. C'è anche un interesse dei qatarini per i trasporti e la filiera agroalimentare. Ma perché il piano su cui scommettono il presidente Ugo Cappellacci e il sindaco Alberto Ragnedda passi dalla fase virtuale a quella reale, serve una modifica al ppr.
Il presidente della Regione ha rassicurato il primo cittadino nella conferenza stampa di presentazione del piano Gallura a Palazzo Ruzittu. «Tutto il piano Costa Smeralda si fonda sull'articolo 12 della legge 4 del 2009 – ha spiegato il presidente –. È altrettanto vero che questi progetti devono essere recepiti dal ppr e che è in corso un processo di revisione. Sono state presentate le linee guida del nuovo ppr al consiglio regionale. Il passo successivo è l'adozione provvisoria da parte deella giunta del nuovo strumento revisionato. Il motivo per cui non è stato ancora adottato è che è in corso l'attività di lavoro con il ministero. È evidente che si sono tutte le condizioni per arrivare all'obiettivo».
Nel piano di investimenti di lungo periodo è prevista anche la costruzione di ville, la ristrutturazione di alcuni vecchi stazzi in chiave turistica, la creazione di impianti sportivi e di tre parchi con percorsi attrezzati. la nascita di una scuola di formazione per manager del turismo. Poco il cemento rispetto all'estensione della Costa Smeralda, fra i 400mila e i 550mila metri cubi su una superficie smeralda di 2mila 400 ettari. La stessa quantità di cemento pensata per la sola Razza di Juncu ai tempi del master plan dell'Aga Khan degli anni Novanta.
Il primo cittadino affronta di petto il tema del nuovo cemento, una risposta diretta a chi vorrebbe far passare l'idea che il piano dell'emiro sia uno stupro ambientale. «Parliamo di una grande opportunità a fronte di pochi metri cubi – spiega Ragnedda –. Non stiamo sacrificando nulla, come potrebbe essere successo in altre occasioni o in altri pezzi di territorio alla speculazione. Stiamo consentendo la ripartenza di un settore fondamentale in Sardegna come il turismo ricettivo, che è sì il passato, ma anche il presente e deve essere il futuro. E poi diciamocela tutta. Porto Cervo va completata, è incompiuta. Ci sono aree che è necessario collegare fra di loro. Solo così potremo avere un villaggio che vive tutto l'anno. Lo sviluppo si è interrotto. Per riprenderlo si devono pianificare nuove volumetrie, in modo intelligente e rispetto della natura. E lo si fa all'interno di un villaggio già esistente. Non stiamo rubando nulla all'ambiente, sia ben chiaro. Ora serve uno sforzo importante e una visione lungimirante da parte della politica regionale per capire che questa non è una speculazione, ma una grande opportunità non solo per la Gallura ma per la Sardegna».
Interessanti anche le ipotesi occupazioni collegate agli investimenti. In fase di realizzazione degli interventi si calcola un incremento di 1600 persone di occupazione diretta, più l'indotto. In fase di gestione un raddoppio dell'attuale numero di addetti del settore alberghiero che passerebbe dagli attuali 1200 a 2500.
25 novembre
Gli stazzi diventano residence, spuntano trenta ville extralusso
Dal cilindro del Qatar ecco i progetti di riqualificazione. Nuovi alberghi con il marchio internazionale Harrods
di Serena Lullia
PORTO CERVO. Il paradiso smeraldo apre le porte dorate ai giovani e alle famiglie, ma non rinuncia a creare capricci a 5 stelle per nababbi, principi e sceicchi. Il progetto di investimenti da 1 miliardo di euro del Qatar in Costa Smeralda non prevede solo alberghi e parchi. Una buona parte del pacchetto di mattoni dei 450-550mila metri cubi chiesti dal petroemirato sarà destinato alla costruzione di 30 ville extra lusso. I qatarini, nel piano consegnato al sindaco di Arzachena Alberto Ragnedda e al governatore Ugo Cappellacci in missione a Doha, le definiscono di altissimo pregio. Un modo per sottolineare la magnificenza con cui verranno realizzate, grande attenzione nella scelta dei materiali, parchi per mimetizzare i mattoni nel verde, piscine. Ma anche per distinguerle dalle "meno aristocratiche" residenze a 5 stelle realizzate a Porto Cervo negli ultimi 50 anni, e dalle altre 90 previste nel piano del Qatar e definite “normali”. In entrambi i casi le ville non saranno concentrate in una sola area dei 2400 ettari della Costa Smeralda. La loro disposizione sarà a macchia di leopardo, dal Pevero a Liscia Ruja a Porto Cervo.
Si concretizza così il duplice investimento in Costa Smeralda della Qatar holding, braccio operativo del fondo sovrano del Qatar. I 450-550mila metri cubi ipotizzati verranno divisi fra residenziale, con 120 nuove ville e ricettivo. Prevista la ristrutturazione dei quattro hotel storici di Porto Cervo, il Pitrizza, il Romazzino, il Cervo e il Cala di Volpe, e la costruzione di due nuovi alberghi nel comune di Arzachena, uno col marchio internazionale Harrods a Liscia Ruja da 150 stanze, e uno con 200 stanze al Pevero rivolto alle famiglie. Gli hotel nell'eden di Razza di Juncu nel comune di Olbia e destinati a un target giovane, vengono indicati come una opzione. Buona parte delle volumetrie saranno utilizzate per le ville. Ma anche per la ristrutturazione e la trasformazione in residence di lusso di 22 stazzi, simboli dell'identità gallurese, disseminati sul territorio. Per la maggior parte si tratta di edifici fatiscenti o ruderi che hanno comunque affascinato i qatarini per la loro posizione di pregio, immerse nel verde e con vista sui più bei panorami della Costa. Verranno ampliati e trasformati in ville di lusso. Il Qatar vuole poi dare una impronta di divertimento alla Costa Smeralda che vada oltre la discoteca. Da qui la scelta di trasformare le aree verdi ancora selvagge di Multa Longa, Cala di Volpe e Liscia Ruja in parchi attrezzati, delimitati da fasce tagliafuoco per proteggerle dagli incendi, con percorsi di passeggiata, trekking, scalata, free climbing. All'interno di tutti e tre i parchi sono previste aree di servizio e ristorazione. Nel parco di Liscia Ruja troverà spazio anche un acquapark aperto a tutti, un centro divertimenti con piscine e scivoli immerso nel verde della macchia mediterranea. Ma i qatarini hanno pensato anche ai clienti che non ne vogliono sapere di fare sport attivi. Per loro verrà realizzata una pista di go-kart. L'impianto sportivo sorgerà nella vecchia discarica di Abbiadori, il borgo a due passi da Porto Cervo. L'intervento dei qatarini prevede la bonifica dei terreni che per anni sono stati la pattumiera del territorio e la costruzione delle piste in stile Le Mans. Un maxi impianto dotato di club house e ristorante pensato per ospitare grandi eventi internazionali con piloti di fama mondiale.
23 novembre 2012
ILCOMMENTO
di Sandro Roggio
Dopo l'annuncio della visita del premier in Qatar è circolata la notizia sulla delegazione comprendente il presidente Cappellacci. Non c'è alcun accenno a questo nel sito della Presidenza del Consiglio; ma il facile collegamento - gli interessi di Qatar Holding in Sardegna - ha favorito la rappresentazione della “missione” di Cappellacci -Monti in perfetta sincronia di movenze come Ginger e Fred.
Agli addetti alle relazioni di Costa Smeralda il compito di reclamizzare il programma d'investimento dell'emiro nell'isola. “Non esclusivamente in Gallura o solo in Costa Smeralda” - si è ripetuto con un surplus di zelo in qualche organo d'informazione. Un racconto in genere compiacente, come ai tempi del primo master plan: quando il tam tam sulle meravigliose ricadute nel territorio serviva a farci sognare un futuro splendido grazie al business dell'edilizia. Evidente l'obiettivo - molto politicante - di realizzare un clima di consenso ad uso interno. E nell'intesa tra Monti e Qatar, il patto per la Costa Smeralda è fatto passare come il contributo sardo alla salvezza della Nazione (di cui non si parla nei quotidiani nazionali).
Una visione riduttiva rispetto alla gamma di opportunità di investimento nell'isola sfortunata ma ricca di risorse - fanno osservare gli estimatori di Monti. Pronti a giurare che il premier avrebbe evitato di dare l'idea di un cedimento unilaterale (“sono come tu mi vuoi”, nella versione pop), sempre controproducente nelle trattative. Oltre che avvilente.
Molti hanno pensato che tra gli ambasciatori sarebbero stati utilmente Tore Cherchi presidente della Provincia del Sulcis, povera nonostante le risorse, un sindacalista Vinyls o Alcoa, un leader del movimento dei pastori, un portavoce dell'agricoltura di qualità. Così da proporre un ampio menù - oltre la polpa - agli investitori.
Invece con Cappellacci sono andati a Doha i sindaci di Arzachena e Olbia dando l'impressione del piatto unico in tavola: il via libera al “mini master plan” gallurese, in cambio del miliardo di dollari.
Si sorvola sul fatto che il “mini master plan” non è coerente con le regole sarde sul paesaggio, per cui è indispensabile una variante al Ppr trasformato in un tappeto volante a disposizione (oggi per Qatar, domani si vedrà) così come Cappellacci lo intende da quando è in carica. Molte ambiguità alimentano la nebulosa propagandistica con gli stessi ingredienti riproposti da decenni. E' incerta la quantità di volume (400 o 550mila mc?) per fare case (e qualche albergo) tra Arzachena e Olbia. Tutto superlusso (“non orribili condomini”-ci assicurano); e “con basso impatto” (sulle case nascoste nel verde - come la spazzatura sotto il divano - c'è un florilegio di formule ridicole riproposte ad ogni giro).
Lo “stanziamento” (?) della Holding per per una pluralità di investimenti sta dentro un disegno “di lungo respiro”. Si vedrà nel tempo lungo e non si chiederà una inelegante fideiussione. Come negli anni Novanta quando l'investimento di 3mila miliardi di lire era diluito in 25 anni e il volume più che spropositato, secondo le usanze dell'epoca.
La più domestica conferenza stampa di Arzachena conferma le inquietanti manovre attorno al Ppr. A fronte del solito preambolo euforico sulla leggerezza dell'intervento (“sintesi emozionale” tra natura e artifici - secondo Cappellacci) ci sono i numeri e i luoghi - e che luoghi! - da trasformare, come Razza di Juncu (Olbia) e Liscia Ruia (Arzachena) delicatissimi ecosistemi già scampati a vari tentativi di manomissione. Ovvio che la manipolazione del Ppr a domanda serve a creare il precedente. Le domande e le risposte saranno tante, un procedimento che riporterà indietro la pianificazione in Sardegna di trent' anni. Sulla legittimità del programma i dubbi sono molti e tutti consistenti.
24 novembre2012
IL COMMENTO
di Stefano Deliperi
Doha è la capitale del Qatar. Tenetelo a mente, visto che, a sentire il Presidente della Regione Cappellacci, quello è il posto dove si prendono le “decisioni che contano” per laSardegna.
Indipendentisti e sovranisti tacciono e si trastullano con velleitarie mozioni d’indipendenza, mentre il Presidente Cappellacci e i sindaci di Olbia Giovannelli e di Arzachena Ragneddavanno in Qatar a fare shopping di sogni.
Al ritorno raccontano quanto di mirabolante, luccicante, straordinario verrà investito in Sardegna: un miliardo di euro per realizzare 400-550 mila metri cubi di nuove ville ealberghi fra Porto Cervo (Arzachena) e Razza de Juncu (Olbia), il restyling (l’ennesimo) deiquattro resort di lusso “storici” della Costa Smeralda, tre parchi attrezzati per complessivi 2.192 ettari in Costa Smeralda, un allevamento di cavalli con 500 purosangue anglo-arabi nel sud Sardegna (forse a Pula), pure una pista per go-kart (in Costa Smeralda).
Il sindaco Ragnedda è semplicemente raggiante: “con questo intervento, con volumi irrisori rispetto all’investimento, non andiamo a intaccare l’ambiente”. Mezzo milione di metri cubi di cemento, evidentemente, sono poca cosa per la mentalità corrente sui litorali galluresi.
Arzachena era già divenuta Arzakhan, sta per divenire Arzaqatar e sono tutti felici e contenti. Domani non sapranno nemmeno chi sono, come ha ben scritto sulla progressiva perdita di identità l’attento giornalista gallurese Francesco Giorgioni sul suo blog .
Non finisce qui. Mentre si parlava di uninteressamento per Malfatano eTuerredda (il progetto turistico-edilizio della Sitas, attualmente bloccato) e per la gestione del Forte Village di S. Margherita di Pula, in questi mesi i politici regionali hanno fatto la “lista della spesa” per l’emiro del Qatar: il sindaco di Sassari Ganau (P.D.) è pronto a trattare per l’Argentiera, l’on.Sisinnio Piras (PdL) propone la costa arburese e il sindaco (ora dimesso) di Iglesias Perseu(UdC) i litorali di Masua e Nebida, l’on. Diana (PdL) pretende l’allevamento di cavalli nell’Oristanese, mentre il pasdaran istituzionale degli abusivi d’Ogliastra, l’on. Stochino,sbaraglia tutti: “tre nuovi porticcioli turistici a Tertenia, fra Cardedu e Barisardo, uno adArabatax, più un campo da golf fra Talana eTriei”. Senza alcun limite, in tutti i sensi.
Crisi economica e disoccupazione starebbero per diventare pallido ricordo. Eppure la memoria del recente passato dovrebbe indurre a un minimo di prudenza. Quando la Colony Capital di Tom Barrack acquistò la Costa Smeralda dalla Starwood agli inizi del nuovo millennio, l’allora Giunta regionale dell’on. Mauro Pili (stranamente oggi silenzioso) annunciò mille nuove iniziative imprenditoriali del finanziere libanese-americano, in particolare nelle aree minerarie dell’Iglesiente.Risultato? Dopo aver incassato ilrestyling degli alberghi “storici”, ha rivenduto (aprile 2012) alla Qatar Holding la Costa Smeralda per 600 milioni di euro, con un indubbio guadagno speculativo.
Nessun investitore, per quanto ricchissimo, regala niente e non lo farà nemmeno l’emiro del Qatar. E’ un concetto semplice in tutto il mondo. Lo capiscono tutti, tranne la classe politica dirigente di una Sardegna sempre più Sardistàn, oscura isola del Mediterraneo centrale abbacinata da promessi investimenti stranieri per un miliardo di euro, quando beneficia più o meno dello stesso importo ogni anno – e da parecchi anni – grazie ai fondi comunitari e, in piena autonomia di programmazione e di spendita, non è riuscita a innescare un’equilibrata e diffusa crescita economico-sociale.
Noi ecologisti non ci facciamo abbagliare da perline e cammelli colorati e difenderemo territorio e identità con ogni mezzo disponibile.
25 novembre
IL COMMENTO
di Giorgio Todde
Da oltre mezzo secolo in Sardegna si scrive sempre lo stesso racconto. Mutano i nomi, ma si recitano le stesse parti. Non cambia il malinconico tratto psicologico che ci rende inconfondibili. L’attitudine sarda alla sottomissione non è eradicabile e arriva al punto di produrre leggi che aprono le porte al nostro dominatore di turno. E non c’è psicoanalisi collettiva capace di guarirci.
Questa volta è una creatura da favola che ci ha ammaliato con la promessa fumettistica di un miliardo di dollari da investire a favore di noi sardi. Il filantropo che si è innamorato di noi è l’emiro del Qatar, rappresentante di una monarchia assoluta – potere che ci affascina – e ha deciso di annetterci al suo regno comprando l’Isola, in barba ai suoi abitanti che farfugliano di fierezza e di orgoglio.
Dolorose e umilianti le reazioni di certi sindaci che reclamano qualche goccia di grasso che cola. Un consigliere regionale chiede che dalla pioggia d’oro non sia esclusa la sua Ogliastra. Da molte parti dell’Isola implorano oro. Niente oro, per il momento, ma l’eterno giuramento di migliaia di posti di lavoro per i creduli sardi. Ancora la promessa falsa dei capi locali che non si tratterà di cemento, ma la verità e in mezzo milione di metri cubi, le solite ville, i soliti alberghi. Una delegazione composta dai visir di Arzachena e di Olbia – capitale dell’emirato della Costa Smeralda – spiega che prima di tutto l’emiro creerà i parchi, ma saranno parchi speciali, non come quello del Gennargentu che il consigliere, quello della pioggia di dollari, non voleva. Saranno parchi al cemento ecocompatibile nei luoghi intatti. Gli occupanti dei nuovi alberghi, delle nuove ville, dei nuovi metri cubi consumeranno, assicurano, prodotti sardi. E noi, felici di sentire sempre lo stesso racconto, ci accontentiamo dei piccoli visir.
La vita consegnata ad altri, il destino delegato a qualcuno, purché ricco, ha causato il disastro economico e sociale di oggi, la fine delle fabbriche tenute in vita per decenni benché produrre costasse più di quanto si ricavasse, il fallimento dell’agricoltura, il fallimento dell’edilizia travestita da turismo. E persistiamo sino alla dissoluzione di noi stessi.
La maschera tradizionale locale, per sua invincibile natura, china il capo e crede a tutto. Incapace di intuire il futuro e comprendere il passato. Incapace di interpretare la storia e modificare la propria natura che si appaga solo se è sollevata da responsabilità. Perfino incapace di comprendere il valore della bellezza.
Nelle nostre vicende recenti sono stati determinanti, in negativo, molti sindaci, sempre vicini al potere economico, meglio se esotico, e perfino felici – quanti esempi – di vedere il proprio territorio regredire, imbruttirsi e involgarirsi. Sono certi sindaci che hanno svenduto il paesaggio, che appoggiano l’abuso edilizio, vendono altopiani e montagne per pale eoliche e serre fotovoltaiche, che confondono l’autonomia dei Comuni con il fare quello che si vuole. Perfino il sindaco rappresentante dei Comuni sardi ce l’ha con le regole che gli bloccano lo sviluppo e riassume l’anima della sua categoria.
Le società senza speranza si fanno sedurre dalla ricchezza promessa – ma non ne avremmo neppure le briciole – sino al punto di conformare le proprie leggi al conquistatore di turno. E’ accaduto con la terza proroga all’incostituzionale Piano Casa. Il Presidente della nostra Regione è arrivato al punto di affermare che ci sarà “sincronismo” tra le modifiche al Piano Paesaggistico e il miliardo del Qatar. “Sincronismo” significa che noi siamo talmente in balìa del conquistatore e che adegueremo il Piano Paesaggistico non al nostro Paesaggio, ma al Qatar. Il mondo gira al contrario.
Così sono i sardi orgogliosi e fieri. Ma a breve comprenderanno che il loro orgoglio e la loro fierezza nascondono una realtà troppo infelice per essere detta. E in proporzione alla rovina evocano ossessivamente l’identità. Più la perderanno,più la evocheranno. Diventerà una professione diffusa.
Il Prg innanzitutto. Proprio il Prg, sul tema scogliere sollevato da Giulio Pane (e unisco Francesco Bruno) dispone, all’articolo 44, «la realizzazione di scogliere, esclusivamente sommerse o affioranti, … soggetta alle preventive valutazioni e agli studi meteo marini prescritti dalle norme vigenti». I prolungamenti delle scogliere di Rotonda Diaz a fine evento sportivo del 2012 avrebbero dovuto essere eliminati, al contempo il parere della Soprintendenza sul progetto prescrive la condizione che sia «approntato uno specifico studio meteomarino teso a valutare la possibilità di rimuovere unicamente le parti affioranti dei nuovi tratti di scogliera, trasformandole in barriere soffolte… con la condizione che venga rimessa in vista la muratura frangiflutto storicizzata…». È noto solo agli esperti che la realizzazione (ovvero la trasformazione) di una nuova scogliera, presuppone pure, per obbligo di legge, la preventiva valutazione ambientale delle opere (le preventive valutazioni e gli studi meteo marini prescritti dalle norme vigenti). Il percorso amministrativo intrapreso dall’amministrazione statale con il Provveditorato alle Opere pubbliche e quella comunale intende accelerare il processo di valorizzazione paesaggistica della città con la riqualificazione di un tratto significativo della linea di costa. L’evento velico, oltre alle innegabili finalità sportive e di richiamo turistico e d’attenzione imprenditoriale verso la città, è pure strumentale a conseguire l’obiettivo disegnato sia dal Piano regolatore che dai vincoli che obbligano il recupero della lettura del muro storico e il ridisegno delle scogliere. Tale intendimento è stato ulteriormente dichiarato con la delibera 51 del 2 febbraio 2012 approvativa degli indirizzi per la riqualificazione del tratto Rotonda Diaz – via Caracciolo, nel rispetto dei vincoli e in coerenza con la normativa del Piano regolatore, in occasione $del successivo ripristino dei luoghi dopo l’evento. In tale percorso, con la novità rappresentata dalla prescritta nuova progettazione degli interventi di trasformazione della scogliera, non trova più riferimento la limitazione della permanenza dei prolungamenti della scogliera ai giorni immediatamente successivi all’evento, ma appare invece opportuno commisurarla ai tempi occorrenti per la loro trasformazione (conforme alle norme e definitiva) che chiede gli adempimenti tecnici correttamente avviati dal Provveditorato alle opere pubbliche. Su ciò alcuni non riflettono. Italia Nostra lo fa ed evidentemente riconosce nell’operato dell’amministrazione comunale quanto essa ha sostenuto sull’argomento 25 anni orsono quando, e da sola, diceva un netto “no” alle scogliere emergenti e alla copertura del muro in piperno. Mai si sarebbe potuto attendere che Italia Nostra avrebbe sostenuto alcun progetto alternativo per l’evento velico, che proponesse un piastrone di oltre 8 mila metri quadrati calato sulle antiche strutture del Molo San Vincenzo, per allocare i capannoni. A Giulio Pane mi unisce, spero, invece, la saggia difesa di una tutela del paesaggio che passi attraverso una corretta pianificazione, sotto il rigido controllo dello Stato.
L'autore è Assessore all'Urbanistica del Comune di Napoli
Vogliamo costruire democrazie vivaci e partecipate o autoritarismi tecno-consumistici? E che facciamo sul piano delle politiche universitarie, dopo avere lanciato ambiziosi appelli pro-cultura: incoraggiamo la ricerca di base o ci limitiamo a istituire un'ora di simpatica ricreazione aggiuntiva in Humanities nei dipartimenti di economia aziendale e ingegneria, come qualcuno suggerisce? Professionalità o "atmosfera creativa"? La prospettiva cambia: "cultura" è a nostro avviso un elementare diritto di cittadinanza, non l'insieme dei beni di consumo voluttuari riservati a (potenziali) startupper adolescenti. La ricerca non applicativa cade decisamente fuori dall'agenda del Sole 24ore, e con essa i temi dell'equità sociale e delle pari opportunità, che pure la Costituzione riconosce. Spiace. Perché il binomio "cultura e sviluppo" può e deve essere interpretato anche nel senso della crescita civile, in termini dunque che non sono economicistici. "Creare capacità" e "liberarsi dalla dittatura del PIL". Questi gli appelli lanciati da Martha Nussbaum nel suo ultimo libro, e l'argomento è stato riproposto in maniera incessante in tempi recenti. Non possiamo immaginare una società in cui le sole competenze tecnico-economiche decidano della sorte di tutti.
La "platea" e il "Presidente": questi in sintesi gli Stati Generali della Cultura convocati dal Sole 24ore al teatro Eliseo di Roma il 15 novembre. O quantomeno le voci memorabili di un evento concepito come autocelebrazione di un establishment e risoltosi invece (quasi) nel suo contrario. Il "Presidente" è Giorgio Napolitano al netto delle retoriche agiografiche: sul suo intervento, applaudito a lungo, si è già scritto molto. L'inefficienza dell'apparato burocratico desta "vergogna", e occorre rimuovere il pregiudizio anticulturale di questo governo e dei precedenti. No ai tagli lineari, sì a trasferimenti di risorse a scuola, ricerca e tutela del patrimonio. "Mi domando come sia stato possibile, qualche tempo fa", si è chiesto Napolitano volgendosi verso Francesco Profumo "che un oscuro estensore di norme abbia preteso di redigere una norma che prevedeva l'immediata soppressione di dodici istituti di ricerca". Urla e contestazioni hanno interrotto più volte Ornaghi e Profumo. Eravamo tuttavia presenti al Teatro Eliseo: niente tumulti scomposti. Nessuna "antipolitica". Né luoghi comuni. Ma l'indignazione di una platea di ricercatori, intellettuali, insegnanti, attori, artisti, che assistono da decenni al dominio dell'incuria o del saccheggio. Niente più vane parole o cerimoniali autoreferenziali: questo era stato chiesto all'iniziativa del Sole 24ore, che da mesi si muove sul tema con la possessività del monopolista e la rozza efficienza di un esercito di occupazione; e questo è stato preteso. Le voci di dissenso del pubblico hanno ricevuto un sostegno vasto, immediato e inatteso. Voci non solo giovani, anche se in prevalenza tali: early career, outsider, "lavoratori della cultura" e "talenti" cui ci si rivolge oggi da più parti nel desiderio di diffondere nel paese attitudini all’“innovazione" e alla "sfida". Così Corrado Passera, prevedibilmente. L'attuale ministro dello Sviluppo non sembra avere progetti né attenzione specifici per la "cultura" o la ricerca non applicativa ne perla storia dell'arte anche se si sofferma volentieri sul tema dei musei da trasformare in fondazioni. Non devono essergli chiari i rapporti tra "tutela", "valorizzazione" e "gestione", che articola ogni volta invocando risorse private e al tempo stesso affannandosi a rassicurare i sostenitori dell'intervento pubblico. Affascinato dal modello Louvre Abu Dhabi, Passera si muove tra Richard Florida ("classe creativa") e Chris Anderson (i "makers"). Può non essere un torto per un ex-banchiere e amministratore delegato, ma è importante stabilirlo nel momento in cui il ministro «diviene ospite d'obbligo agli incontri dedicati alle politiche del patrimonio (oggi gli "Stati generali della Cultura", ieri "Florens2012"). A nostro avviso è insufficiente (e predatorio) interessarsi a istruzione e tutela solo in termini propedeutici, dal punto di vista delle politiche economiche. Il dibattito sulla "crisi", le deludenti performance dell'economia italiana e il crollo della "Seconda Repubblica" non sembrano avere avviato una riflessione sufficientemente severa sulla classe dirigente: qualità, composizione, processi di reclutamento e selezione. Un economista come Pierluigi Ciocca ha posto di recente una domanda che aspetta una risposta. "Come può un fenomeno complesso quale la crescita economica, che investe l'intera società, non dipendere anche da variabili metaeconomiche? Cultura, istituzioni, politica influiscono sulla crescita". Nelle proposte confindustriali di riforma delle politiche educative incontriamo esortazioni o desiderata quantomai generici ("banda larga", "infrastruttura sociale" nel senso di mutualismo e charity, "legalità") che non pongono in discussione autoinvestiture, presunzioni di "eccellenza", atteggiamenti esclusivi.
Tra le difficoltà del Paese c'è la scarsa cooperazione tra competenze. Cerchie accademiche, finanziarie e industriali coabitano le une accanto alle altre nell'arrogante convinzione di ospitare ciascuna le risorse migliori, come in monopolio. Avremmo bisogno di tutt'altro. La scarsa cultura del ceto imprenditoriale italiano è un ostacolo formidabile alla competitività del sistema industriale. Nelle parole di Fabrizio Barca, anche lui all'Eliseo: "quello dell'istruzione, in Italia, è un insuccesso che si riflette sulla capacità delle persone di trovare occupazione, sulla capacità dei lavoratori di interagire con il lavoro più specializzato, sulla capacità degli imprenditori di concettualizzare le proprie intuizioni produttive". Ignoriamo quali conseguenze potrà avere l'appuntamento romano, preceduto dalla diffusione a stampa di un indice di proposte formulata da Pier Luigi Sacco (critico nei confronti del "made in Italy" ossessivamente celebrato da imprenditori alla Montezemolo e dagli aedi degli "antichi mestieri"). Certo gli "Stati Generali" hanno colpito duramente la reputazione di alcuni tra politici e intellettuali invitati. Le rudi maniere del direttore del Sole, designato a coordinare la tavola rotonda, hanno tacitato i più esornativi testimonial dell'evento, Carlo Ossola e Andrea Carandini, stupefatti per il trattamento riservato. A infrangere definitivamente il cerimoniale hanno poi pensato le contestazioni ai ministri "culturali". Tra le proposte avanzate da Sacco incontrerà forse maggiore favore quella mirata a creare un'agenzia per l'export a sostegno delle "industrie creative" nazionali. Una recente ricerca, coordinata dalla Fondazione Symbola, ha rilevato le difficoltà, per le industrie culturali, di inserirsi sul piano internazionale: finanziamento, infrastruttura, lingua. Proprio su questo ci permettiamo di offrire un suggerimento. Va bene il "made in Italy", vanno bene moda, design, food, architettura. Ma perché non prevedere specifiche misure a beneficio della ricerca accademica e non, sollecitando incentivi editoriali alla traduzione in lingua inglese della saggistica e della narrativa italiane? O trasformando gli Istituti italiani di cultura all'estero in sedi qualificate perla promozione dei migliori tra gli artisti più giovani (adesso non lo sono affatto)? Le retoriche dominanti che accompagnano il processo di valutazione della ricerca universitaria attualmente in corso insistono (nel modo spesso più velleitario e subalterno) sulla necessità di "internazionalizzare" gli studi. Con opportune politiche culturali e minimo impegno finanziario potremmo creare una lieve infrastruttura globale a supporto di “cultural heritage", autodisciplina e "talento".
La Repubblica Milano, 24 novembre 2012 (f.b.)
SONO i sette Comuni del cemento. Sette centri della provincia aggrappati ai confini del Parco Sud, il polmone verde di Milano, dove sono stati approvati — o sono in via di approvazione — i nuovi Pgt, piani di governo del territorio, a maggior impatto ambientale. Gorgonzola, Segrate, Melegnano, Rozzano, Cologno Monzese, Basiglio, Opera. È il cemento che passa dalla porta principale, ovvero i regolamenti comunali che, in questi casi, forniscono licenze di edificazione per milioni di metri quadri di suolo agricolo. Tutto rientra nelle regole: i Pgt vengono redatti sulla base di un aumento di popolazione previsto per i prossimi 5-10 anni e non intaccano le aree del Parco Sud. In compenso però lo assediano, dando il via libera alle edificazioni nelle aree agricole rimaste nei dintorni. Come succede a Gorgonzola, dove l’impatto che rischia di avere l’applicazione delle nuove regole è impressionante: qui i campi della fascia nord, circa 1,6 milioni di metri quadri di verde, potrebbero scomparire.
Secondo le associazioni ambientaliste questi piani non rispondono a esigenze abitative reali. Anche perché spesso si basano su prospettive di crescita che non si reggono su dati statistici e demografici, ma danno comunque un “alibi” ai costruttori per edificare sul verde. Su questo Segrate vanta un record. Qui, il Comune — in funzione di una crescita pari a 15mila abitanti nei prossimi anni (ora sono meno di 35mila) — ha approvato un piano che prevede il consumo di 162 ettari di suolo, di cui 106 di spazi agricoli. «A questi — spiega Paolo Micheli, della lista civica di sinistra Segrate Nostra — si vanno ad aggiungere i 141 dei piani di intervento integrati approvati prima del Pgt. In pratica è stato reso edificabile tutto ciò che di verde era rimasto a Segrate ».
Qualcosa di simile accade a Rozzano, dove una delle cose che ha fatto infuriare i comitati anti-Pgt è il numero di nuovi abitanti previsto: 14.500 persone in più, praticamente una seconda città visto che in quella attuale ne risiedono 41mila. Non solo. Un’altra delle stranezze, sempre a Rozzano, riguarda i volumi previsti: in un’area di poco più di 500mila metri quadri le volumetrie residenziali e terziarie da realizzare sono pari a qualcosa come nove Pirelloni. «Un’assurdità — secondo Adriana Andò del comitato “Occhi Aperti” — vogliono toglierci i campi sportivi e distruggere il verde superstite ».
In molti puntano il dito contro le amministrazioni comunali, accusando i sindaci di guardare agli oneri di urbanizzazione e alla vendita di terreni per sistemare i bilanci. «Ma le cose non stanno così — spiega il sindaco di Rozzano Massimo D’Avolio, del Pd — perché sappiamo bene
quali siano le situazioni del mercato immobiliare oggi. Non si possono fare bilanci sulla base di previsioni inesistenti». In molti casi (come appunto a Rozzano) si tratta di spazi già in mano ai privati che, nel tempo, hanno acquisito diritti su queste aree. «Il diritto privato equivale a quello pubblico — sottolinea D’Avolio — e non si può pensare di retrocedere ». Qualcosa del genere devono aver pensato anche gli amministratori di Melegnano, dove il Pgt ha previsto la trasformazione di un territorio agricolo di 400mila metri quadri, diviso in due terreni che finora fanno da “cuscinetto verde” tra città e autostrada. Una delle due aree è proprietà della San Carlo e da anni si parla di trasferire lì un sito produttivo dell’azienda.
Risposte diverse alle richieste dei privati potrebbero arrivare seguendo altre strade. Ne è convinto Sergio Cannavò, di Legambiente: «Prima di dare la disponibilità per edificare su suolo libero - dice - bisognerebbe valutare quanto ci sia in giro di dismesso, invenduto e sfitto». Prospettiva lungimirante, ma rara da incontrare. Nulla del genere si è visto a Basiglio, ad esempio, dove il piano ha previsto un consumo di suolo di 308mila metri quadri a fronte di un presunto aumento della popolazione del 35 per cento. «Chiunque abiti qui ha notato negli ultimi anni un aumento del numero di case vuote — spiega l’avvocato Alvise Rebuffi del Comitato Cittadino “Basitos” — inoltre le recenti iniziative immobiliari non hanno avuto fortuna a causa dell’assenza di domanda.
Su che basi è stato previsto un aumento della popolazione così importante?». I cittadini di Basiglio stanno dando battaglia e hanno raccolto le firme per un referendum consultivo.
Non sono gli unici ad essersi ribellati. A Opera il Pgt (non ancora approvato) prevede la trasformazione di quasi 300mila metri quadrati agricoli in terreno edificabile. Il tempo per presentare le osservazioni stringe, i consiglieri d’opposizione hanno dichiarato guerra al piano: «Una colata di cemento sta per abbattersi sul nostro Comune — dice Francesco Cavallone, del Pd — è uno scempio che l’amministrazione guidata dal leghista Fusco sta cercando di perpetrare in nome di interessi che non sembrano quelli dei cittadini operesi». Ma non è solo una questione di colori politici. A Cologno Monzese, infatti, tra i più arrabbiati contro il nuovo Pgt — 330mila metri quadrati di aree residenziali in arrivo — c’è proprio il Carroccio. «Quest’estate sono andata a vedermi i luoghi in bicicletta — racconta Daria Perego, segretaria cittadina della Lega Nord che si è battuta contro l’adozione del piano — sono gli ultimi fazzoletti di verde rimasti a Cologno, non possiamo perderli. Sarà durissima impedire l’approvazione del Pgt, ma ci batteremo fino all’ultimo».
Corriere della Sera Milano, 23 novembre 2012 (f.b.)
Quando ho letto due opinioni dell'ad Giuseppe Sala: la prima, che «Expo può essere l'occasione per realizzare un sistema che consenta di riqualificare il paesaggio e l'ambiente riscoprendo la vocazione di Milano e del suo circondario come città dell'acqua»; la seconda che «tecnicamente, la riapertura di una parte dei Navigli non è impossibile», mi si è allargato il cuore.
Non ho un'età che mi consenta di ricordare com'era Milano coi navigli aperti ma ho recentemente visitato le Gallerie d'Italia nei locali della ex Banca Commerciale Italiana, ora Intesa SanPaolo, dove quella Milano è così suggestivamente rappresentata nelle opere dei suoi pittori. Ricordo d'altra parte che il 12 e 13 giugno 2011 i milanesi hanno votato plebiscitariamente 5 referendum che ora impegnano il Comune di Milano, socio fondatore di Expo spa, che ha istituito un'apposita Consulta per il loro monitoraggio, a dare attuazione con atti concreti alle domande referendarie di intervento. Il quinto di questi quesiti (94,32 per cento di favorevoli) chiedeva appunto ai cittadini: «Volete voi che il Comune di Milano provveda alla risistemazione della Darsena quale porto della città ed area ecologica e proceda gradualmente alla riattivazione idraulica e paesaggistica del sistema dei Navigli milanesi sulla base di uno specifico percorso progettuale di fattibilità?».
Expo era chiamata in causa da un altro referendum, il terzo, che collegava il parco di Expo «al sistema delle aree verdi e delle acque». Penso che il progetto illustrato da Sala sia dunque un primo passo, collegato al piano della Darsena, per raggiungere un obiettivo così ambizioso e caro ai milanesi. Si parla di 160 milioni (175 erano quelli deliberati dalla giunta regionale, ma comprendevano la Darsena) che non vediamo ancora interamente impegnati nel progetto, che di vie ex novo prevede solo il canale seminterrato «Via d'acqua» che circonda l'area espositiva collegando il canale Villoresi a nord col Naviglio Grande a sud con un flusso di 2-2,5 mc/sec. D'altra parte nessuno può pensare che il retaggio che Expo lascerà a Milano e alla Lombardia si riduca a un semplice canale, pur importante, ma non navigabile, di collegamento fra vie d'acqua esistenti.
Qui si innesta tutta una discussione se Expo debba contribuire o quantomeno favorire la costruzione della via navigabile Locarno-Milano-Venezia (via Malpensa), per la quale stanno già investendo anche la Regione Piemonte e Cantoni svizzeri. In altre parole sarebbe importante che l'occasione di Expo 2015 fosse colta per l'esecuzione di opere che siano compatibili con questo grande progetto, incluso fra le promozioni di iniziativa comunitaria. Secondo uno studio commissionato dall'Istituto di management turistico di Bellinzona, questa realizzazione potrebbe portare a un giro d'affari di oltre 600.000 euro l'anno col transito di oltre 7.000 passeggeri per stagione. Da non buttare.
Il candidato di sinistra alle elezioni a sindaco della capitale e le sue ragioni contro la chiusura dell’anello autostradale occidentale. Il manifesto, 23 novembre 2012, postilla (f.b.)
La domanda è: meglio ridurre di qualche minuto la percorrenza di traffico merci e viabilità automobilistica, oppure salvaguardare le riserve naturali, i pascoli, i reperti archeologici, i vigneti, insomma il paesaggio e l'agricoltura? Va da sé che, dietro quest'interrogativo ce ne siano altri, più strutturali, più strategici. La nostra economia deve continuare a puntare sul modello «pesante», incardinato nel circuito produzione-distribuzione-consumo, oppure valorizzare uno sviluppo locale "leggero", legato alle coltivazioni di pregio, all'ambiente, alla cultura? Gli investimenti pubblici vanno impiegati per realizzare grandi opere che garantiscono grandi appalti per grandi imprese, oppure è preferibile che salvaguardino il territorio, attraverso sostegni all'agricoltura e finanziamento di progetti culturali, oltreché programmi di risanamento ambientale e manutenzione del suolo?
Aspettate a rispondere. Proviamo a entrare nel merito raccontando una storia che esemplifica con chiarezza i quesiti di cui sopra. Si tratta del raccordo autostradale che dovrebbe collegare l'A12 Roma-Fiumicino Civitavecchia (Genova) con l'A1 Milano-Napoli. Una grande infrastruttura a otto corsie e a pedaggio, decisa e confermata dai vari governi che si sono succeduti dal 2004 in poi, che in sostanza raddoppierebbe il Grande raccordo anulare di Roma nel quadrante sud-ovest/sud-est, consentendo di far risparmiare una manciata di minuti (19 circa) ai mezzi che transitano sul versante tirrenico del paese. L'opera è stata sostanzialmente progettata e attualmente viaggia sui tavoli di quella liturgia farraginosa e dispersiva che si chiama conferenza dei servizi, dove tutti gli enti pubblici investiti dal processo attuativo hanno l'obbligo di esprimersi. E in quest'ambito, a parte qualche perplessità, l'unico parere contrario è stato quello della Provincia di Roma.
Ma il dissenso è molto più vasto e comincia a organizzarsi in comitati e associazioni sempre più combattivi, che organizzano riunioni, assemblee, manifestazioni di protesta. Ad affiancarli, i partiti della sinistra (Verdi, Sel, Federazione della sinistra) e le stesse centrali ambientaliste (Italia nostra, Legambiente, ecc.). Un dissenso che comincia a contagiare le stesse amministrazioni locali: ovviamente non il Comune di Gianni Alemanno né la Regione dell'imbalsamata Renata Polverini, ma tutti i comuni dei Castelli romani e i Municipi romani attraversati dal tracciato autostradale. Per contrastare o anche semplicemente condizionare questa progettazione, è stato costituito qualche giorno fa un coordinamento metropolitano che raccoglie gli enti locali di Frascati, Grottaferrata, Marino, Montecompatri, Ciampino, Gallicano, Zagarolo e Monte Porzio Catone, oltre ai quattro Municipi di bordo, VIII, X, XI, XII.
Quel che si sta profilando è insomma un conflitto territoriale tra una pianificazione infrastrutturale definita strategica e gli interessi (e i bisogni) delle comunità locali. Percorriamo allora la traiettoria autostradale e vediamo più in dettaglio quali siano questi interessi (e bisogni) locali.
Uscendo dalla A12 ci si ritrova subito in un'area delicatissima, quella della Riserva del litorale romano, che è un esile consolidato appena al di sopra (circa due metri) dal livello del mare; fino a qualche decennio lì fa il Tevere scorreva lungo un'ampia ansa, che si decise di ricoprire con enormi quantità di terra di riporto. Attualmente vi operano tre aziende che allevano una pecora assai pregiata, oltreché protetta, la sopravvissana: un animale prezioso perché dal suo latte si ricavano due prodotti tipici, la ricotta e il pecorino romano, entrambi garantiti da una Dop. La nuova autostrada dovrebbe dunque «galleggiare» su una terra spugnosa e spezzare irrimediabilmente un ciclo produttivo d'eccellenza.
Andiamo avanti. Il transito prosegue e incontra la Riserva di Decima Malafede, che è un territorio sostanzialmente incontaminato, un pezzo di agro romano ancora integro. Anche qui, le ricadute ambientali ed economiche sarebbero dannosissime e strazianti.
Si arriva così ai confini del Parco archeologico dell'Appia antica, che è un meraviglioso patrimonio bio-culturale, dove la storia e la natura hanno depositato un paesaggio incantato: quel paesaggio che con i suoi acquedotti romani, le ville patrizie, i boschi e i pascoli ipnotizzò sentimentalmente Wolfgang Goethe. La superficie del parco verrebbe tuttavia risparmiata grazie a un'interminabile galleria che affiorerebbe solo dopo aver superato Ciampino e il suo aeroporto e il quartiere romano di Morena. Peccato che, appena emersa, con uno spericolato svincolo, l'opera si ritroverebbe in un grumo urbano tra i più densi e urbanisticamente compromessi, tra le vie Tuscolana e Anagnina. Come sia possibile districarsi in quel fritto misto urbano, tra borgate ex abusive, piani di zona e capannoni industriali, è davvero un mistero.
Da qui in poi, il progetto prevede una lenta salita a mezza costa sui Colli Albani, transitando per i territori dei diversi comuni che si affacciano sulla capitale, e così squarciando grossolanamente il millenario profilo dei Castelli romani, un paesaggio universalmente consolidato nel nostro immaginario, generazione dopo generazione. Ma il peggio è che nel suo incedere sempre più invasivo, l'autostrada calpesterà e contaminerà i filari della malvasia puntinata, la preziosissima uva che da millenni ci regala uno dei vini più buoni d'Italia: il Frascati, prossimo a ricevere, primo bianco italiano, la Docg. Per la produzione vinicola, una vera e propria catastrofe.
Per concludere, torniamo alla domanda iniziale. È più importante salvaguardare la pecora sopravvissana e il suo pecorino, la malvasia puntinata e il Frascati, l'agro romano e gli antichi acquedotti, i parchi archeologici e le riserve naturali, oppure continuare a consumare la nostra vita tra asfalti, cementi ed emissioni inquinanti, alimentando desideri su merci sempre meno desiderabili e in fondo non più necessarie?
Postilla
È incredibile come la sensibilità collettiva, figuriamoci quella ingegneristica che pare dominante (oltre a quella speculativa) nelle decisioni, subiscano l’automatismo meccanico della chiusura del cerchio. C’è la città col suo nucleo, che si deve espandere perché sua ragion d’essere è la conquista dello spazio, l’ammaestramento della natura ai propri fini, e man mano si espande un po’ come il sasso nello stagno genera inesorabile i suoi anelli stradali. Da generazioni spontaneamente ci immaginiamo così la faccenda, e onestamente ci vuole un po’ di ragionamento per capire l’assurdità del tutto. Noi dentro la natura ci stiamo, e comportarci come il sasso nello stagno è una strategia scema che non ci porta da nessuna parte: prima ragionare, poi agire. Fa quindi benissimo Sandro Medici a dirci fermiamoci a riflettere. Come del resto si fa e si dovrebbe fare ovunque: dalle distorsioni della London Orbital pur attentamente pianificata da Abercrombie a metà ‘900 e ben raccontate da Iain Sinclair, ai meccanicismi nostrani di piccoli orrori come il cosiddetto Terzo Ponte sul Po a Cremona, ai casi di città grandi e piccole che pur di adempiere al rito automatico dell’anello si immaginano rinunciabili, incredibili e costosissime opere sotterranee o a scavalcare ostacoli inenarrabili. Una sfida tecnica al buon senso, si potrebbe quasi sempre dire. Ma in tutto questo bel ragionare logica vuole che esista anche un immancabile rovescio della medaglia, di cui involontariamente anche Medici si fa portatore fin dall’incipit dell’articolo: ha senso contrapporre il buon sapore del pecorino alla puzza degli scarichi? Certo, con argomenti del genere magari nella nostra alba del terzo millennio si trovano più consensi, ma di che consensi si tratta, in fondo? Progettare la nostra vita sulla terra in modo più rispettoso della terra stessa, è un percorso che possiamo affrontare con spirito progressista, oppure no. Non dimentichiamoci per esempio, in certi automatismi di rifiuto della modernità meccanica e devastante, che il profeta italiano del fondamentale Design With Nature di Ian McHarg è tale Gilberto Oneto. Paesaggista di prestigio, ma anche direttore di Studi Padani e reazionario Doc alla Borghezio (f.b.)
Mai era stato sferrato un così duro attacco al cuore del Kulturstaat, al famoso modello tedesco, e sarebbe molto meglio dire europeo, al Monopolio statale della cultura umanista e giacobina: molto danaro pubblico e nessun mercato libero. Sarebbe insomma vicinissimo al definitivo fallimento lo Stato come educatore illuminista e come finanziatore della celebre Zivilisation che i soldi pubblici rendono sempre meno Kultur e dunque sempre più pappa convenzionale.
Drammaticamente onerosa per il sistema fiscale già stremato, ma anche banale, solo passato e niente futuro, la nuova decadenza, l’ultimo tramonto dell’Occidente.
Dunque secondo i quattro autori di questo Kulturinfarkt, un robusto pamphlet di grande successo in Germania, la smisurata offerta e il monopolio statale stanno portando le istituzioni culturali verso il crack non solo economico. Hanno infatti generato conformismo, depresso la creatività, «addomesticato le avanguardie», messo sotto controllo la libertà e la modernità, disarmato la cattiveria contro il potere che viene persino esibita «anche in politica estera» con il compiacimento del potere stesso.
In sedici anni è quasi raddoppiato il numero delle compagnie di prosa, di musica, dei centri di studio e delle case editrici producendo molti più artisti che arte, più scrittori che libri… Ma il pubblico è diminuito, sia pure di poco, passando da quasi 23 milioni a quasi ventuno milioni, spalmati però nelle varie proposte. E poiché «ogni allestimento scenico viene utilizzato una sola volta, la conclusione è che a ogni singolo spettatore, sempre lo stesso, vanno sempre più risorse di produzione». Le cifre diventano astronomiche «ma i prezzi rimangono convenienti perché si vogliono mantenere basse le soglie di accesso». Ogni biglietto per il teatro dell’Opera di Zurigo, se non ci fosse un finanziamento annuale di 55 milioni, «dovrebbe costare 150 euro in più». E ci sono gli sconti, i “biglietti famiglia”, «dal 2009 i giovani al di sotto dei 26 anni entrano gratis nei musei della Francia e così pure nel Regno Unito, per non parlare dei festival gratuiti in Svizzera e in Francia». Eppure i prezzi per i concerti pop sono aumentati di molto, «ogni teenager sborsa almeno 50 euro» e gli spettacoli privati estivi all’aperto «così popolari in Germania, Austria e in Svizzera costano fino a 100 euro a persona e fanno il tutto esaurito mentre il museo accanto, il cui biglietto costa 5 euro, rimane vuoto».
Insomma si fa demagogia, retorica sociale, circenseria, si getta fumo negli occhi e intanto si crea una vera e propria “bolla letteraria”: «Nel 2011 ci sono stati in Germania 778 premi letterari. Ne vanno aggiunti 881 nell’ambito dei media e della pubblicistica».
Sono tre premi al giorno, anche di cucina, tutti sovvenzionati dallo Stato alla parola cultura «per sostenere la prestigiosa opera di scrittori ed editori di libri: 24mila novità editoriali all’anno di letteratura dilettantesca». Ma le vendite non sono mai sufficienti e il prodotto è mediocre perché è mediocre l’idea che possano venire fuori i geni di stato, i menestrelli finanziati, i poeti ministeriali: un residuo di terzo internazionalismo e di fascismo, roba da stato platonico. E chissà come si arrabbierebbero Leopardi o Rimbaud se sapessero che la loro eversione e il loro autismo, la loro rabbia contro il mondo è finita sugli autobus, ad arredare il muro delle stazioni o è diventata tarantella di piazza.
L’aiuto statale espande e perpetua anche un falso mercato delle arti. Il sostegno agli artisti è sussidio sociale, assistenza, elemosina sotto le mentite spoglie della promozione: a Berlino il 6 per cento degli artisti sopravvive senza percepire alcun reddito, il 31 per cento guadagna meno di 12mila euro all’anno, il 78 per cento di coloro che si definiscono artisti di professione vive al di sotto delle soglie di povertà. Solo il 7 per cento è inserito in un circuito produttivo e il 10 per cento ha una galleria che espone le sue opere. «Il genio artistico vuole recare gioia – scriveva Nietzsche – ma quando si trova a un livello molto alto gli manca facilmente chi ne goda: offre cibi che nessuno vuole. Ciò attribuisce all’artista un pathos talvolta ridicolo e commovente insieme; perché in fondo non ha alcun diritto di costringere gli uomini al godimento». Poi ci sono gli artisti dilettanti. Il 70 per cento dei francesi si occupa di fotografia, il 27 per cento gira filmati. Il censimento ha contato in Francia più artisti che agricoltori. Ma la grande assente da questa vendemmia d’arte è ovviamente l’arte. A Berlino trovi il vino, il cibo, i libri e gli artisti stralunati, le cantate corali e la simpatia in strada, ma non l’arte che è il contrario di tutto questo, un atto solitario, una cattiva azione contro qualcuno o contro tutti, una coltellata al mondo, il mezzo espressivo che porta fuori la propria disperazione come scriveva Liu Hsin-wu, uno degli scrittori più amati del famoso Sessantotto: «Si fa poesia o arte quando si sta male». Mentre, aggiungeva, «quando si sta bene si fa la rivoluzione di piazza» o in subordine il corteo di protesta, il concerto, la cantata, la festa, il festival e la pubblica pernacchia.
Le conseguenze, semplifica Cesare De Michelis (Marsilio) introducendo l’edizione italiana, sono «i musei non visitati, i teatri vuoti, i libri non letti …». Anche il sottotitolo italiano, “Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura”, è più radicale e sbrigativo di quello tedesco: «Troppo di tutto e ovunque le stesse cose». Purtroppo le parole in Italia non appartengono infatti allo stesso mondo. Il Kulturstaat italiano significa irragionevole incuria del patrimonio che l’Europa ci invidia, il degrado dei siti archeologici, le clientele al posto delle competenze, un’inefficienza che viene da lontano anche se, certo, negli ultimi venti anni è diventata disprezzo governativo verso la cultura ridotta con faciloneria da cummenda allo slogan delle tre “i” (impresa, inglese, internet), perché diceva Tremonti «con la cultura non si imbottiscono i panini», e dunque maltrattamento sistematico nelle aule dove si costruisce il futuro e nelle vestigia dove si conserva il passato.
E in Italia lo Stato finanzia la festa del pistacchio, il premio zucca d’argento, il pittoresco delle sagre paesane addottorate con cattedre universitarie. La cultura assistita in Italia è la marchetta, che è più antieconomica del pizzo mafioso. E “marchette e zoccole” è il binomio che ha affossato la Rai, che è ancora la prima industria culturale italiana. Ecco dunque che la cultura finanziata col danaro pubblico da noi significa un’altra cosa ancora perché il modello del Kulturstaat all’italiana rimanda più alla pirateria dell’isola della Tortuga che al disagio dell’abbondanza della Germania della Merkel: noi sovraproduciamo parassiti, loro cultura di massa.
Provate adesso a immaginare come diventerebbe la Valle dei Templi se fosse affidata alla Humboldt-Universität di Berlino o il Maxxi di Roma se fosse gestito dalla Staatsgalerie di Stoccarda che, disegnata da James Stirling, è il paradigma di tutti i musei che hanno l’ambizione di esser anche un centro civico, una moderna piazza di attrazione urbana. E Pompei? Quale meraviglia diventerebbe nella mani ricostruttrici della municipalità di Dresda, la città che subì tre bombardamenti, un fuoco peggiore di quello del Vesuvio? Finanziata dalle tasse, la bellezza di Dresda è di nuovo “superba” al punto che se ne infischia dell’Unesco che nel 2007 le tolse il riconoscimento di patrimonio dell’umanità per il ponte sull’Elba, quattro corsie, approvato con due referendum popo-lari, una meraviglia di modernità e di paesaggio futurista.
La capitale della rendita nella sintetica ma profonda lettura trasversale di un (vero) sociologo, in una prospettiva non banalmente post-urbana. Il manifesto, 21 novembre 2012 (f.b.)
Per me, piemontese sradicato, errabondo e giramondo, che qualcuno ha avuto la poca rispettosa idea di definire il «piemontese errante», Roma è, e da anni resta, a dispetto della mia riluttanza, un segno significativo, un marchio probabilmente indelebile. Roma è per me un segno di contraddizione; oscillo fra romafilia e romafobia. Avverto in me, quando penso a Roma, un'attrazione istintiva e razionalmente irresistibile; nello stesso tempo si fa strada una ripugnanza estrema, ai limiti dell'insofferenza sprezzante. La Roma che mi piace e di cui non potrò più fare a meno è quella che mi ha insegnato a errare stando fermo - la Roma che fa convivere Piazza Vittorio e Monti Parioli, il Rione Monti e Tor Pignattara. Questo è veramente l'impero senza fine, l'accettazione dello straniero e del diverso con una sorta di indifferenza sorniona che è integrazione lenta, ma inesorabile. Chi ci arriva non se ne va più. Come mi accadde di dire all'indimenticabile amico Filippo Bettini, Roma è l'eternità dell'effimero.
Ma c'è una Roma socialmente esclusa che mi angustia. Ed ecco che la mia ardente romafilia vespertina cede alla romafobia di buon mattino, quando, in un autobus stipato, sono un acino in procinto di venire debitamente schiacciato e spremuto prima, molto prima di arrivare a destinazione. Roma non è soltanto una città burocratica e ministeriale. La periferia non è più periferica. Dei suoi due milioni ottocentomila abitanti attuali un terzo abita in periferia. Se si fermasse la periferia, tutta la città sarebbe bloccata. Per anni ho esplorato, battuto palmo a palmo la periferia romana. Al Borghetto Latino, incurante della mia bronchite cronica e del catarro invincibile, ho anche affittato e sono vissuto in una baracca, d'inverno, quando l'umidità non perdona.. È una vergogna per le forze politiche e intellettuali di sinistra che borgate, borghetti e baracche, a Roma, siano ancora il segno di una città ferita, scissa in città e anticittà, centro e periferia, priva di una lucidità condivisa.
Nei nuovi aggregati urbani la contrapposizione centro-periferia non ha più senso. Per la semplice ragione che il centro non potrebbe funzionare senza periferia. Ma a Roma la contrapposizione persiste. Perché Roma non è, come molti ottimi studiosi hanno affermato, la «capitale del capitale». Piacerà o meno, Roma continua ad essere ciò che è stata storicamente: la capitale della rendita. I suoi piani regolatori si sono arresi al blocco edilizio politicamente dominante attraverso a) le deroghe; b) le varianti; c) la tolleranza dell'abusivismo e degli interessi settoriali, in attesa della immancabile sanatoria con condono. Non chiedo molto. Vorrei solo una Roma più sicura e meno rumorosa, capace di dare un posto di lavoro non precario ai suoi giovani, dotata di servizi urbani normali; autobus e metropolitana regolari, se non proprio degni di Parigi o della «subway» di New York; strade passabilmente pulite, proprietari di cani permettendo; un minore livello di corruzione; la manutenzione dei tombini e della rete fognaria ad evitare allagamenti anche in occasione di piogge non eccezionali.
Non sarebbe la rivoluzione, ma solo un grado di poco più alto di civiltà urbana, in un paese che non dovrebbe essere immemore delle grandi lezioni di Leon Battista Alberti e degli altri protagonisti del Rinascimento, artefici della italica città che ha nella piazza il suo cuore propulsivo e garantisce la tranquillità dei cittadini e la loro sicurezza coniugando spazio e convivenza. Va ridata la parola ai cittadini. Troppo spesso gli stagionati professionisti della politica somigliano a truppe di occupazione in un territorio che non conoscono. La loro aria trasognata, quando passano al mattino sulle auto-blu verso i loro uffici ovattati, non è più accettabile. Nella presente fase di transizione, le due grandi categorie storiche, la città monocentrica e la città industriale agglutinante, non sono più sufficienti. Nasce una realtà urbana imprevista. Si può anche parlare di realtà post-urbana.
Lo sviluppo urbano è mosso dalle nuove esigenze di visibilità e di partecipazione di masse umane di recente inurbate (urbanizzazione senza industrializzazione), dal gioco degli interessi socio-economici, dai diritti di proprietà dei suoli, dalla corsa alla privatizzazione del pubblico allo scopo di garantire il parassitismo della rendita fondiaria e la massimizzazione dei profitti per la speculazione edilizia (cfr. in proposito F. Ferrarotti, M. I. Macioti, Periferie da problema a risorsa, Roma Teti, 2009) In questa prospettiva, la lettura puntuale dei Piani regolatori attraverso gli Atti dei Consigli comunali è importante, benché affaticante e noiosa. Storicamente, i Piani regolatori sono stati concepiti come il volano dello sviluppo urbano e della utilizzazione razionale del territorio. Ma la questione del rapporto fra spazio e convivenza resta aperta. Né può dirsi dichiarata nei suoi termini specifici semplicemente prendendo atto del continuum urbano-rurale o di quel fenomeno indicato da un brutto neologismo, già segnalato, come rurbanization (rus e urbs).
Per un esempio recente: il sindaco attuale di Roma - quasi fosse il Nerone redivivo - propone la distruzione di un intero aggregato urbano periferico (Tor Bella Monaca) per procedere quindi alla sua ricostruzione. Massimo Bontempo aveva fatto altrettanto con Corviale. Ma in base a quali idee? Rifacendosi a quali criteri? Su scala mondiale, il problema delle periferie è dato dalla «esclusione sociale». Occorre individuare le modalità e i percorsi dell'integrazione, come effettuare il passaggio dall'esclusione all'inclusione, dalla marginalità alla partecipazione, dalla sudditanza alla cittadinanza in senso pieno. È certo più facile chiamare le ruspe e cacciare i problemi sotto il tappeto. L'ex-presidente francese Sarkozy fa scuola quando definisce gli immigrati delle banlieu, «racailles; zizanies dérisoires»
Purtroppo, è giocoforza constatare che la logica della città industriale sta prevalendo su scala planetaria. Il principio tecnico subordina a sé, alle proprie esigenze, rigidamente scandite, le dimensioni umane e i processi naturali: cultura contro natura, meccanico contro organico, precisione numerica contro approssimazione intuitiva. Peccato che la tecnica sia una perfezione priva di scopo. Adottare il principio tecnico come principio-guida significa trasformare i valori strumentali in valori finali: un equivoco dalle conseguenze catastrofiche. Occorre, oggi, un nuovo profilo del costruire in cui la precisione tecnica sia subordinata alle esigenze umane. Urbanisti e architetti non progettano nel vuoto sociale. Bisogna imparare a costruire senza violentare la natura o snaturare il territorio, sfigurare il paesaggio. In questo senso è ancora significativa la lezione di Adriano Olivetti.
Porre il problema di un nuovo profilo del costruire comporta immediatamente una domanda che suona provocatoria, ma che ne è in realtà la conseguenza logica: c'è un'alternativa ai grattacieli? Un'alternativa al grattacielo c'è, cresce quotidianamente sotto i nostri occhi. È il nuovo aggregato urbano policentrico. Centro e periferia sono ormai categorie concettuali obsolete. Per questo occorre un patto di collaborazione, quanto meno di non belligeranza, con la Natura. L'iniziativa più rivoluzionaria, nelle condizione odierne, è in realtà un ritorno: la riscoperta del modo di costruire mediterraneo, un riorientamento del costruire che passi dall'interesse per il meccanico all'attenzione per l'organico, un mutamento profondo rispetto a un mondo in cui sono considerati reali e validi soltanto corpi fisici e misurazioni meccaniche, verso un mondo nel quale esigenze, emanazioni, aspirazioni umane abbiano importanza, siano prese in considerazione, godano di una priorità nel progetto urbanistico e architettonico.
Oggi, il calcolo scientifico della costruzione appare ancora legato a una logica di invasione e vittoriosa trasformazione dell'ambiente. Si autodefinisce e si autovaluta in metri cubi e in cementificazione. Questa impostazione predatoria va rovesciata con un nuovo stile del costruire, fondato su un concetto di natura non nemica, bensì collaboratrice. La nuova architettura si inserisce nell'ambiente senza violentarlo, indovina i passaggi e le vie da rispettare per dar loro aria e luce, non soffoca e non blocca, bensì apre, rischiara, vivifica.
Su Roma e i suoi problemi di sviluppo mi piace ricordare alcuni miei libri: Roma da capitale a periferia, Roma-Bari, Laterza 1970, Vite di baraccati, Napoli, Liguori, 1974; Roma, madre matrigna, Roma-Bari, Laterza, 1991; La città come fenomeno di classe, Milano, F.Angeli 1975; Vite di periferia, Milano Mondadori, 1981; Spazio e convivenza, Roma Armando 2009; Il senso del luogo, Roma, Armando, 2009.
Tutto è cominciato quando, una sera del dicembre 2008, ho visto apparire in televisione, al Tg1, il ministro dei Beni culturali e un alto funzionario di quel Ministero con un piccolo Cristo scolpito nel legno. Essi spiegavano che si trattava di un capolavoro di Michelangelo, che era stato appena acquistato dallo Stato, e che questa mirabile acquisizione compensava il taglio da un miliardo e oltre 300 milioni di euro che era appena stato inflitto al bilancio dei Beni culturali. Il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione erano condannati alla rovina: ma avevamo un capolavoro di Michelangelo. Per di più facilmente trasportabile in grandiose mostre all’estero.
Era tutto falso, tutto sbagliato, tutto distruttivo. Ma non tanto per quei soldi gettati, e non certo per l’attribuzione sbagliata: semmai per il valore diseducativo, intellettualmente desertificante, di quella propaganda. Era come se, in un attimo, quello stesso Stato che mi paga ogni mese per insegnare nelle aule universitarie distruggesse i valori e i contenuti di quello stesso insegnamento: il senso critico, la ricerca storica della verità, l’educazione al patrimonio contestuale.
Ed ecco, quella sera ho pensato che se io avessi taciuto, avrei perso il senso della mia stessa vita di studio e di ricerca. Lo Stato, la comunità dei cittadini mi aveva permesso di studiare storia dell’arte (e di farlo alla Normale di Pisa): in quel momento ebbi la percezione che se avessi scelto di chiudermi dentro la mia biblioteca, la mia tranquillità, la mia serena e appagata vita di studioso, avrei tradito quei cittadini, e la mia stessa coscienza. Così cominciai – io che non l’avevo mai fatto – a scrivere articoli sui giornali, e poi libri di denuncia.
Una sola bussola ha guidato questi scritti, e la dico con le parole di un bellissimo intervento di Giorgio Bassani sui Sassi di Matera: «ho un obbligo solo, quello di fare il ‘pazzo’. Cioè di dire tutta la verità, a tutti costi». «La parte che tocca a noi – ripeteva Bassani, parlando come presidente di Italia Nostra – è quella del ‘pazzo’, e siamo decisi a non assumerne altra».
In questi anni ho cercato di raccontare soprattutto l’agonia delle città italiane: a partire da Firenze, dove vivo, e da Napoli, dove insegno. Città diverse solo in apparenza, ma condannate entrambe: la seconda ad una rovina materiale più evidente, con uno dei patrimoni artistici più importanti del mondo che va letteralmente a pezzi, e l’altra condannata ad una rovina morale, perché ridotta a feticcio turistico alienante, a «macchina da soldi» come teorizza il suo sindaco-format. E se il declino terribile di Venezia (tra torri faraoniche, grandi navi e privatizzazione della città) è il futuro di Firenze, il destino tragico dell’Aquila terremotata rischia di sommare Napoli e Firenze: un grande centro distrutto che nessuno ricostruisce, ma che già si immagina come una sorta di enorme centro commercial-turistico, trasformandosi letteralmente in ciò che molte delle nostre città d’arte sono moralmente, e cioè città senza cittadini.
Invece non avrei mai immaginato, da studioso del barocco romano, di scrivere autentici pezzi di inchiesta: uno dei quali (quello sul saccheggio della Biblioteca napoletana dei Girolamini, apparso sul Fatto) ha innescato un’inchiesta che ha portato in carcere dodici persone, tra cui un consigliere del ministro per i Beni culturali e braccio destro di Marcello Dell’Utri.
Ma oltre alla sacrosanta denuncia del disastro del patrimonio e del paesaggio italiani, credo che uno storico dell’arte che parla ai cittadini, abbia un altro principalissimo dovere. Mi riferisco al dovere di provare a dire a cosa serve davvero il patrimonio storico e artistico della nazione. Questa è la cosa che mi sta più fortemente e più profondamente a cuore.
Dopo la rivoluzione epocale dell’articolo 9 della Costituzione repubblicana il patrimonio ha cambiato funzione. E la sua nuova funzione non è più la legittimazione del potere dei sovrani degli antichi stati italiani, ma è la costruzione sostanziale della nuova sovranità, quella dei cittadini. Il patrimonio appartiene oggi al popolo italiano. Che lo mantiene con le proprie sudatissime tasse non perché sia ‘bello’ e non perché sia il nostro petrolio, cioè una fonte di ricchezza materiale. Il novanta per cento della nostra fatica quotidiana, ventitré ore delle nostre ventiquattro, nove decimi delle nostre città, la quasi totalità dei nostri desideri e del nostro immaginario sono asserviti al potere del mercato e del denaro. Se pieghiamo a questo stesso, unico fine anche il poco che resta libero e liberante ci comportiamo esattamente come il Re Mida del mito e delle favole: ansiosi di trasformare tutto in oro, non ci rendiamo conto che ci stiamo condannando a morire di fame.
Il patrimonio, invece, è come la scuola: è un potentissimo strumento di educazione alla cittadinanza e di innalzamento spirituale. L’articolo 3 della Costituzione affida alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Il patrimonio storico e artistico della nazione è precisamente uno degli strumenti che permettono alla Repubblica di rimuovere quegli ostacoli, e di rendere effettiva la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Ma perché questo sia vero occorre che gli storici dell’arte come me facciano il loro lavoro. Nel dicembre del 1944 Roberto Longhi, scriveva al suo più caro allievo, Giuliano Briganti: «il primo bombardamento di Genova dovrebbe risolversi in un interminabile esame di coscienza per noi storici dell’arte. Anche noi, gli anziani soprattutto, siamo responsabili di tante ferite al torso dell’arte italiana, almeno per non aver lavorato più duramente, e per non aver detto e propalato in tempo quanti e quali valori si trattava di proteggere. Anche se il desiderio era di lavorare per molti, di esser popolari (e tu ricorderai che il mio proposito era quello di arrivare un giorno a scrivere per disteso il racconto dell’arte italiana a centomila copie per l’editore Salani) si è lavorato per pochi, e anche voi giovani siete sempre in pochi, direi anzi che andate diradandovi: proprio oggi che ci bisognereste a squadroni. Di qui, del resto, si risale ad altre vecchie carenze della nostra cultura: la storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva (se vuole avere coscienza intera della propria nazione): serva, invece, e cenerentola dalle classi medie all’università; dalle stesse persone colte considerata come un bell’ornamento, un sovrappiù, un finaletto, un colophon, un cul-de-lampe di una informazione elegante». Oggi, nel 2012, a settant’anni di distanza possiamo fare nostre le parole di Longhi. Il patrimonio storico e artistico della nazione, quello che – secondo il rivoluzionario articolo 9 della Costituzione – la Repubblica dovrebbe tutelare, è sottoposto ogni giorno ad un bombardamento di degrado materiale, sfruttamento morale, abbandono culturale.
Oggi come nel 1944 gli storici dell’arte, gli intellettuali in generale, devono farsi l’esame di coscienza di cui parlava Longhi: abbiamo fatto tutto quello che potevamo per spiegare «quanti e quali valori si trattava di proteggere»? Abbiamo provato ad essere davvero ‘popolari’, cioè a parlare al popolo sovrano, che del patrimonio è l’unico padrone? Abbiamo fatto in modo che la storia dell’arte non serva solo agli storici dell’arte?
Nell’XI canto del Purgatorio Dante parla della lingua degli italiani: quella di Guido Guinizzelli, di Guido Cavalcanti e di lui stesso che la stava elevando all’altezza di una vera lingua nazionale. Ma pochi versi prima Dante parla dell’altra lingua degli italiani: quella di Cimabue e Giotto. Una lingua di figure, ma soprattutto di palazzi, chiese, strade, campagne, coste, montagne. E oggi è vitale bisogno che gli italiani del futuro, i bambini e i ragazzi di oggi, imparino (e possibilmente reinsegnino ai loro genitori) questa nostra seconda lingua nazionale: che reimpariamo tutti che il patrimonio storico e artistico che ci appartiene in quanto cittadini sovrani è la forma dei nostri luoghi, è una indivisibile fusione tra arte e ambiente, è un tessuto continuo di chiese, palazzi, strade, paesaggio, piazze. Non una specie di contenitore per ‘capolavori assoluti’, ma proprio il contrario, e cioè la rete che congiunge tante opere squisitamente relative, e che hanno davvero un significato (artistico, storico, etico, civile) solo se rimangono inserite in quella rete.
Per uno storico dell’arte, scrivere sui giornali significa dunque poter allargare il pubblico a cui è destinata quella «resurrezione del passato» (per usare una frase di Jules Michelet molto amata da Francis Haskell) che è l’obiettivo del suo lavoro.
Leggendo la motivazione del premio, Alessandra Mottola Molfino ha detto che i miei articoli hanno sottoposto a dura e radicale critica anche il Ministero dei Beni Culturali. È vero: in questo drammatico momento il patrimonio artistico italiano va difeso anche dalle deviazioni dei vertici del Mibac.
Pochi giorni prima di sapere che Italia Nostra mi aveva conferito il Premio Bassani ho appreso che il ministro Lorenzo Ornaghi ha chiesto i danni al «Fatto quotidiano» e al sottoscritto perché il ministero sarebbe stato diffamato in un mio articolo dello scorso luglio dedicato all’insensata, dannosa e mio parere illegittima mostra del Rinascimento fiorentino a Pechino.
In quell’articolo, infatti, scrissi che uno dei problemi del Mibac è la «corruzione della burocrazia». Il contesto del pezzo (tutto tessuto con brani di Antonio Cederna e Roberto Longhi) era chiarissimo: non si parlava di mazzette, o illeciti. Sostenevo, invece, la tesi che il corpo dirigente del Mibac sia corrotto, letteralmente: putrefatto, disfatto, dissolto. Una specie di 8 settembre del patrimonio storico e artistico della Nazione.
E d’altra parte, le prime vittime di tutto questo sono le centinaia di funzionari irreprensibili abbandonati in prima linea. La maggior parte dei miei articoli di denuncia di casi di malatutela scaturisce da accoratissime email di soprintendenti e funzionari, che ogni giorni chiedono a me (come a Salvatore Settis, a Gian Antonio Stella e a un pugno di altri volenterosi) di aiutarli nella loro battaglia quotidiana: una battaglia in cui si sentono traditi da una burocrazia ‘corrotta’ nei princìpi, cioè immemore della sua missione e piegata alla volontà della classe politica. Ed è anche per dare voce alla grande maggioranza del Mibac che si deve criticare con durezza la minoranza corrotta che lo tiene in scacco.
È una situazione davvero grottesca: Ornaghi è il più acceso sostenitore dello smantellamento del ministero (vuole, per esempio, conferire Brera ad una fondazione), io sono invece convinto che lo Stato-collettività debba continuare a mantenere per tutti un patrimonio di tutti. Ma sarebbero le mie argomentate critiche, e non la sua pessima politica, a colpire la tutela pubblica!
Se promuovendo questa intimidazione il ministro Ornaghi ha inteso mettermi un bavaglio, otterrà il risultato esattamente opposto. Non desidero entrare in politica, non desidero alcun incarico nel ministero, non rispondo che alla mia coscienza: desidero continuare a fare per tutta la vita il professore universitario di storia dell’arte. E credo che tra i diritti e i doveri che la Costituzione mi garantisce e mi impone ci sia anche quello di denunciare pubblicamente la rovina delle opere che studio, e di investigarne le cause. Anche quelle che riguardano una burocrazia e una politica che non servono più quella stessa Costituzione.
Oggi, grazie ad Italia Nostra e al Premio Giorgio Bassani, queste idee sono un poco più forti.
Grazie.
Il testo costituisce un ampliamento del discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Bassani 2012 di Italia Nostra, svoltosi a Ferrara il 18 novembre 2012.
Peraltro, nuovi “no” alla cultura erano già programmati. Confermati dal ministro Ornaghi. Secondo Federculture, un’altra amputazione al bilancio del MiBAC per 103,3 milioni nel 2013. Portato a 125 nel 2014 e a 137,5 nel 2015. Un autentico svenamento e disossamento. Puniti i fondi per la tutela, pochi e già salassati (- 61,6 milioni). Coi tecnici sparuti, e malpagati, delle Soprintendenze ai beni architettonici che dovrebbero sbrigare ciascuno 4-5 pratiche edilizie o urbanistiche al dì nel migliore dei casi e addirittura 79 nel caso di Milano. In un Paese aggredito da cemento+asfalto da ogni parte. Parlare in queste condizioni di “meno Stato e più privati” significa l’eutanasia del Ministero fondato nel 1974 da Giovanni Spadolini e con essa dell’interesse di un ceto dirigente alla cultura e alla ricerca.
Un suicidio economico, oltretutto: il turismo culturale è il solo a “tirare”:+ 20 % negli ultimi due anni. Nel decennio le presenze italiane nelle città d’arte sono aumentate del 17 % ; quelle straniere addirittura del 54 %, e rappresentano ben più della metà (esattamente il 57 %) del totale. Ne tengano conto quanti chiacchierano a vuoto di “petrolio”, di “economia della cultura”: questa non è formata direttamente da musei, siti, borghi o castelli, bensì dal loro indotto turistico. Se però non si tutelano e restaurano adeguatamente i primi, se li si lascia imbruttire, assediare dal cemento, da auto e pullman, da un repellente apparato di “mangiatoie”, di negozi di souvenirs, dehors di plastica e di altre schifezze, si dissipa anche l’indotto.
C’è ancora chi straparla di musei – per esempio gli Uffizi – come “macchine da soldi”. Per i musei in sé stessi è una ignorante sciocchezza. Per l’indotto è un altro discorso. Il più visitato museo del mondo, il Louvre, alla soglia (inquietante) dei 9 milioni di ingressi, nel 2008 ha ricevuto 118,8 milioni di sovvenzione statale (circa il 60 % delle entrate) per poter chiudere in pareggio e fare ancora cultura. Non molto diversa la situazione del Metropolitan Museum. Al convegno dell’Eliseo mi pare che lo slogan “sfruttare i beni culturali”, specie dopo la secca presa di posizione di Giorgio Napolitano, sia finito in retrovia. Soltanto il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele, ha evocato la formula magica: se il settore pubblico non è in grado di gestire, subentriamo noi. Col patrimonio e coi soldi dello Stato com’è previsto per la Grande Brera? Anzi, con una “dote” più ricca di denaro pubblico? Il contrario di quanto succede con le Fondazioni Usa che i soldi li mettono anziché prenderli. Si sono avanzate altre proposte. Per ora un po’ fumose invero. Nessuno che pensi, ad esempio, a riattivare una buona legge come la n. 510 dell’82 (Scotti) la quale mise in moto – con una detrazione fiscale secca e certa – oltre 300 miliardi di lire di restauri privati in dimore e giardini storici. Per cui, in capo a pochi anni, il Fisco, avendo promosso lavori e occupazione, ogni 100 lire di detrazione, ne incassò 147. Ci vuole uno Stato capace di agevolare concretamente i privati che donano, danno, sponsorizzano. Non privati che pretendono di sostituirsi allo Stato. “Quelli sarebbero volpi nel pollaio”, ha commentato un noto storico dell’arte americano. Da noi non sarebbe la prima volta.
Dopo mesi di dibattito, di rinvii, e con maxi-emendamento finale, è stata definitivamente approvata la legge regionale che recepisce il cosidetto decreto sviluppo (art. 5 D.L. 70/2011 convertito, con modificazioni, dalla L. 106/011).
Una brutta legge che, nella disattenzione generale, solo grazie alla mobilitazione delle associazioni ambientaliste e a una tenace opposizione in Consiglio Regionale del Consigliere del P.R.C., ha perso gli aspetti più aberranti e dirompenti dell’originario progetto di legge.
Un provvedimento voluto soprattutto dall’A.N.C.E., insoddisfatta degli esiti del Piano Casa vigente e del tutto disinteressata all’approvazione della nuova L.U.R. in itinere, che, in verità, non piace a nessuno ed è troppo lontana dalle necessità dei costruttori. Un provvedimento condiviso tiepidamente dalle associazioni di categoria e dai sindacati, preoccupati delle difficoltà che il settore edilizio attualmente attraversa. Un testo avversato con convinzione dalle associazioni ambientaliste Italia Nostra e W.W.F., che vedono illusorio affidare ad ulteriore quantità di costruito la soluzione di una crisi che non si risolve immettendo su un mercato già saturo ulteriori alloggi. Abitazioni che, peraltro, non sono destinate a coloro che ne avrebbero effettivo ed urgente bisogno ma che non sono nelle condizioni di acquistarle.
Di seguito, si richiamano gli aspetti di maggiore criticità della normativa approvata che pare somministrare una sorta di doping estremo al fine di dare un nuovo, quanto effimero vigore ad un settore ormai sfiancato. Invece di promuovere processi virtuosi di riqualificazione urbana ed edilizia attraverso l’incentivazione di interventi e di azioni capaci di contemperare iniziativa privata e interesse pubblico, si preferisce puntare unicamente ad una cosistente valorizzazione della rendita fondiaria urbana, innescando pericolosi conflitti fra riuso del patrimonio esistente e qualità dell’abitare, fra occupazione e qualità dell’ambiente.
In primo luogo, i premi di volumetria (fino al 50% del volume esistente) o di superficie (fino al 35%) sono esageratamente generosi sia per gli interventi su edifici residenziali, sia per quelli non residenziali, soprattutto perché al di fuori di ogni controllo, di qualsiasi possibilità di indirizzo da parte dell’ente pubblico.
Ciò che il Comune può fare con propria deliberazione, atteso che i premi volumetrici e di superficie previsti dal D.L. nazionale si applicano comunque e dappertutto, è l’esclusione di alcune zone del territorio comunale dalle premialità aggiuntive previste nel testo di legge regionale.
La normativa si declina sostanzialmente in termini puramente edilizi, una sorta di Piano casa 2, più flessibile del precedente e soprattutto includente le trasformazioni d’uso. Viene escluso il ricorso al trasferimento dei volumi, operazione complessa che avrebbe richiesto un approccio di tipo pianificatorio; non c’è alcuna possibilità di riflessione sull’assetto urbano come non c’è alcuna considerazione per qualsiasi strumento rivolto alla riqualificazione dei tessuti, di parti di città, a ribadire la sostanziale sfiducia dei costruttori per l’urbanistica e per le capacità di gestione delle pubbliche amministrazioni.
L’articolato prevede, inoltre, una indiscriminata monetizzazione degli standard urbanistici, senza condizioni (di nuovo, monetizzazione comunque e dovunque) peraltro attestandosi non alle superfici previste a tale scopo dai P.R.G., ma ai minimi di legge definiti dal D.M. 1444/68. Insomma potrà accadere che gli ambiti più congestionati e centrali della città, quelli in cui più alta è la rendita di posizione e conveniente la trasformazione, diventino ancor più congestionati per l’accrescimento dei carichi insediativi, attestato che gli spazi per verde e parcheggi saranno reperiti altrove, cioè dove possibili e non dove necessari. Si consideri anche che è consentita la possibilità di deroga ai parametri previsti dai P.R.G. per il controllo della conformazione dell’edificato: i soli limiti all’edificazione, rispetto alle densità, altezze e distanze delle costruzioni, sono quelli previsti nel richiamato decreto ministeriale del 1968. La riqualificazione urbana non è in campo, ciò che interessa sono unicamente gli investimenti privati da incentivare.
Può accadere, come accade a Pescara in una zona strategica per lo sviluppo della città, un’ampia area dismessa fra mare e fiume, che progetti edilizi contrastino con evidenza le scelte compiute attraverso un piano attuativo di iniziativa pubblica da poco adottato. Paradossalmente vengono incentivati interventi che compromettono l’attuazione degli scenari di riqualificazione prefigurati dall’ente pubblico: un paradosso che deriva dalla possibilità prevista dal D.M. di avvalersi, nelle more dell’approvazione delle leggi regionali, anche negli interventi di privati, dei permessi di costruire in deroga ai P.R.G.; con la differenza che, nel caso di interventi pubblici la L. 380/01, art. 14, prevede il pronunciamento del Consiglio Comunale, mentre nel capoluogo abruzzese il permesso in deroga ai privati è stato rilasciato senza ritenere necessario tale adempimento.
Si rinuncia, di fatto, alla principale finalità posta alla base del D.M. ovvero quella di “promuovere e agevolare la riqualificazione delle aree urbane degradate” circoscrivendo i compiti della normativa al rilancio del settore delle costruzioni e alla parziale riqualificazione edilizia. Parziale riqualificazione perché:
- la Regione Abruzzo non ha nel suo repertorio normativo nessuna specifica legge sulla sostenibilità delle costruzioni e pertanto le premialità sono attualmente assegnate sulla base della sola classe energetica (10% del volume esistente per edifici residenziali in classe A e 10% della superficie per edifici non residenziali in classe B), parametro importante ma non esaustivo, in un processo di effettiva riqualificazione ambientale del costruito;
- affidato ad interventi di ristrutturazione o di demolizione e ricostruzione puntuali; interventi introversi, concepiti isolatamente, in cui non entrano in gioco i rapporti con il contesto e quindi incapaci di attivare processi di rigenerazione urbana.
Infine, la legge è applicabile anche alle zone agricole nelle quali, attraverso la complementarietà delle destinazioni, è possibile che si accresca l’estraneità degli edifici esistenti alle pratiche agricole. D’altra parte, la complementarietà degli usi prevista nella normativa regionale può essere variata dai comuni solo in ampliamento della casistica predefinita e non già per escludere, eventualmente, le utilizzazioni ritenute incongrue.
In conclusione quella che poteva presentarsi come un’opportunità per incentivare il recupero dell’edilizia esistente, a fronte del contenimento di occupazione di nuovi suoli non urbanizzati, si trasforma in Abruzzo in una potenziale colata di cemento a partire dalle aree in cui maggiore dovrebbe essere l’attenzione agli aspetti qualitativi e di riorganizzazione urbana.
«Basta errori in nome di Alitalia, serve una svolta radicale» L'imprenditore e il futuro: «In Germania tre maxi-scali, non possiamo restare indietro»
lettera di Bernardo Caprotti al Direttore
Caro direttore,
ho visto sul Corriere del 24 ottobre che personalità di grande spicco affermano che Milano deve diventare lo hub, il mozzo, il perno, delle comunicazioni tra il nord Europa e l'Europa mediterranea. Lodevole progetto per una città che ha perso il suo primato industriale!, ma che ne detiene ancora ben altri.
Questo mi porta a ripensare all'annuncio fatto da Esselunga su Linate e la sua utilità.
Esselunga ha fatto quell'annuncio perché i suoi 44 ingegneri ed i suoi 88 compratori hanno la continua necessità di visitare fornitori, fiere, eccetera in giro per l'Europa. Il che vale naturalmente anche per chi vuole venir qui.
Quell'annuncio ha suscitato molti improperi alla mia persona, «il patron che si schiera per Linate». Gli italiani amano le fazioni, addirittura le inventano.
Però il mio pensiero di raro utilizzatore, ma di capo d'azienda, è tutt'altro.
Linate è uno straordinario city-airport, che sarà collegato al centro città dalla metropolitana ormai in costruzione, come ce ne sono in altre città, vedi i collegamenti di London-City con Anversa (da 2 a 4 voli al giorno), con Nantes, Berna...
Alla City occorre essere connessa; la City dell'Italia è Milano.
Questo concetto non impedisce tuttavia di formularne un altro, forse dirompente: l'alta Italia non ha mai avuto e non ha un aeroporto intercontinentale, un aeroporto cioè che possa servire l'Italia del Nord, 28 milioni di persone, da Treviso a Torino, da Trento a Bologna a Genova. Altro che Milano!
Perché l'alta Italia è stata così trascurata? Perché c'era l'Alitalia, azienda romana col suo hub ed i suoi dipendenti a Roma: la linea aerea all'amatriciana che ci è costata oltre diecimila miliardi di vecchie lire in perdite e sovvenzioni.
Coloro i quali dovrebbero autorevolmente sollevare questo problema volano tutti con i loro jet privati. Pesenti (Italcementi), De Benedetti, Berlusconi, Meomartini, Presidente di Assolombarda (Eni)... Ma costoro non hanno anche loro 100 dirigenti che debbono spostarsi su Stoccarda oppure Chicago?
Poiché è entrato nel comune modo di pensare che sia normale per un abitante dell'alta Italia di dover passare per Francoforte, Roma, Londra o Parigi per andare in qualsiasi parte del mondo.
Da una recente intervista all'Amministratore Delegato di Alitalia (Panorama del 10 ottobre) apprendiamo che quando Air France-KLM acquisterà Alitalia, quella compagnia di hub ne avrà tre: Amsterdam, Parigi e Roma. E noi? Rimaniamo tagliati fuori per sempre?
La Germania di hub ne ha tre: Francoforte, Monaco e Berlino. Ha anche una compagnia che funziona! Ma questo è secondario. Se ci fosse lo scalo «giusto», più di una compagnia si candiderebbe a servire 28 milioni di abitanti!
Il vero blocco mentale è costituito dal convincimento generale che Malpensa un aeroporto intercontinentale lo sia. Non lo è. Né mai lo potrà essere.
Innanzi tutto perché è sorto lassù, per caso, sulla vecchia pista dei Caproni — costruttori di aerei anni Trenta —, assolutamente fuori mano.
Il terminal è mal concepito e non potrà mai funzionare. Quando ci si arriva da Monaco, da Barcellona o da Atene, da italiani, si prova vergogna.
Le due piste sono sullo stesso lato e gli aerei devono attraversare la prima pista per raggiungere il terminal; come si può pensare di costruirvi la terza?
L'aeroporto intercontinentale dell'alta Italia non deve essere pensato per Milano, deve essere centrale alla Valle, deve essere uno hub, ma deve essere in posizione facilmente navettabile con Linate e Orio, come il Kennedy e il La Guardia a New York.
L'Italia del Nord è stata penalizzata per decenni da Alitalia. Occorre affrancarla da altri interessi. Ma soprattutto occorre sbloccare i cervelli da un modo di affrontare il problema secondo me proprio distorto, cioè teso a risolvere problemi di volta in volta particolari.
L'attenzione quindi è rivolta a Malpensa, che non funziona e per farla funzionare vi si trasferiscono i pochi voli europei rimasti a Linate; oppure a Linate che ci collega con gli hub d'Oltralpe, e non deve; o al bilancio della SEA; o all'Alitalia, che ci ha afflitto quanto basta.
Del servizio ai cittadini, alle imprese, al turismo della «Grande Valle» nessuno si preoccupa. Là dove i numeri dicono chiaramente ciò che a loro necessita.
L'accanimento sull'errore iniziale andrebbe superato da uno slancio visionario verso una soluzione radicale che a mio avviso già c'è. Io, a mie spese, ho imparato: insistere ad investire su un impianto sbagliato è diabolicum.
Caro direttore, con tutto questo, sia chiaro, io non sono contro Fiumicino, Roma o Venezia, mete superlative, dove il traffico oltretutto continuerà a crescere. Ma certo non crescerà nella tratta Linate-Fiumicino, dato l'avvento di una assai più comoda e conveniente Alta Velocità.
Io mi scuso con Lei per queste molte, troppe idee farfugliate, ma mi sembrerebbe il caso che su un argomento così grave, quale la vita o l'asfissia della nostra città e di una parte tanto grande del Paese, si aprisse un dibattito, innanzi tutto coinvolgendo degli esperti di aviazione non interessati e poi altri giornali e persone informate e intelligenti, da Albertini a Molgora, da Armani ad Abravanel.
Coi miei più cordiali saluti.
L'aeroporto del signor Esselunga: hub a Montichiari come a Parigi
di Alessandra Mangiarotti
Bernardo Caprotti costruisce il suo «sillogismo» con il piglio pragmatico dell'imprenditore che sa trasformare le idee in azioni: «Il Nord Italia non ha un aeroporto intercontinentale»; «Malpensa non sarà mai l'hub del Nord, Montichiari avrebbe tutte le carte in regola per diventarlo». Conclusione: «Perché non trasformare lo scalo bresciano nell'aeroporto che 28 milioni di abitanti chiedono?».
«Il mio è il ragionamento di un droghiere», premette il patron dell'Esselunga. «Ma questa, dopo Monaco, Ruhr e Île-de-France è la quarta regione più ricca d'Europa: non abbiamo forse diritto a un nostro aeroporto intercontinentale?».
Montichiari oggi è uno scalo fantasma: zero passeggeri, tremila metri di pista su cui rullano solo voli postali e qualche cargo, una gestione che in dieci anni ha perso più di 40 milioni. Eppure l'Ente per l'aviazione civile l'ha appena certificato per operazioni con Boeing 747-8, il gigante dei Jumbo jet. E il nuovo piano nazionale degli aeroporti gli attribuisce un ruolo di «scalo cargo e nel lungo periodo quello di riserva di capacità» per il Nord. Spiega Caprotti: «Montichiari ha tutto: posizione, bacino d'utenza, un'area vincolata di 44 kmq (ci sta dentro un Charles de Gaulle!), futuri collegamenti. Buttiamo tutto per salvare Malpensa?». Nella sua testa il futuro di Montichiari-hub è inserito in un piano che riserva un ruolo a ciascun aeroporto: «Malpensa: traffico cargo e passeggeri low cost per destinazioni lontane; Linate: city-airport con potenziamento dei collegamenti business su città come Nizza, Ginevra, Stoccarda».
E i soldi? «Da qui a 15-20 anni ci saranno. Bisogna guardare lontano».
Per il 2030 nel Nord Ovest si prevede una domanda di traffico di oltre 75 milioni di passeggeri. Afferma Giulio De Carli, architetto esperto di pianificazione aeroportuale e coordinatore del piano nazionale degli aeroporti: «Già oggi il bacino è importante, 30 milioni e più. Ma non bisogna cadere nell'illusione che la risposta sia un hub. Da subito Montichiari è perfetto per il trasporto cargo, pochi investimenti e si recuperano in parte le perdite. Tra vent'anni potrebbe diventare sì un aeroporto intercontinentale. Ma per farne un hub oltre alla struttura ci vorrebbe un grande vettore con base li».
Come Londra, Parigi, Francoforte. «E visto che abbiamo perso la possibilità di avere una nostra grande compagnia (in Europa non c'è più spazio, già premono gli asiatici) la soluzione è quella di creare uno scalo aperto ai vettori globali». Come Berlino: «Costruito potenziando accessibilità e infrastrutture. Allo stesso modo serve subito pianificare strade e ferrovie (con la fermata dell'Av il più vicino possibile a Montichiari) e salvaguardare le aree vicine come a Madrid».
Oliviero Baccelli, vicedirettore del Certet Bocconi, ricorda che di un grande Montichiari si parla da anni. Per lui stesse condizioni: «Vincolo delle aree e pianificazione dell'Alta velocità che ad oggi prevede un tracciato lontano dall'aeroporto. Serve però acquisire l'area militare di Ghedi, quindi rivedere potenziamento di Venezia e realizzazione della terza pista a Malpensa». Caprotti però su una cosa ha ragione: «Se si traccia una mappa isocrona per capire quanta gente attrae l'aeroporto quasi sicuramente Montichiari vince su Malpensa».
Postilla
Di un “Grande Montichiari”, come ad esempio ha ricordato anche il poco esperto sottoscritto tanto tempo fa, ne parlavano (e con cognizione) gli esperti trasportisti all’epoca in cui Malpensa era solo una scintilla progettuale nella mente di qualcuno, e fisicamente ancora un campo militare dell’ex Caproni perso tra le brughiere della valle del Ticino. La questione però, per non farla troppo lunga in una sede indebita, è di metodo, ovvero NON sostituire alla pura logica delle lobbies legaiole e altro,localiste e nazionali, trionfante sino a poco tempo fa, quella di nuove lobbies e cordate, col solo risultato di aprire buchi nella pianura padana lasciando inutilizzate altre voragini. Il rischio, con l’approccio contabile a tutto quanto che pare diventato vangelo, è proprio questo, in assenza di una strategia diversa che si ponga domande adeguate. Gli aeroporti sono un sistema, e gli hub virtuali con adeguata rete di collegamento veloce via terra (quello che nessuno si sogna mai di realizzare davvero) a integrare la regione urbana possono secondo molti esperti svolgere esattamente il ruolo dell’hub fisico unico. Si sono programmate e in parte realizzate già varie grandi opere, che potrebbero andare in questo senso, mentre altre (certi sistemi autostradali come la sciagurata Città Infinita dei pataccari tuttologi) lo perderebbero quasi tutto. Si spera che la politica, quella emergente che si vuole portatrice di innovazione, sappia cogliere la sfida: essere moderati ma progressisti magari potrebbe significare anche questo, semplicemente pensare. Si chiede troppo?
p.s. in eddyburg.it archivio naturalmente pullulano gli articoli sugli aeroporti padani come sistema, nonché i casi specifici; faccio riferimento per brevità al mio primo Hub? Burp dedicato a Montichiari disponibile anche su Mall
Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2012
I ripetuti, forti e argomentati “vergogna!” che giovedì hanno clamorosamente cambiato l’agenda dei cosiddetti ‘Stati generali della cultura’ sono l’unico risultato concreto (ma imprevisto e imbarazzante) della retorica sulla ‘costituente della cultura’ che il Sole 24 Ore alimenta ossessivamente da nove mesi. Ma la montagna ha partorito un topolino interessante.
Il parterre schierato sul palco del teatro romano ‘Eliseo’ rappresentava in modo impeccabile l’ossificazione mortuaria della cultura italiana. E come si può chiedere di indicare nuove prospettive a chi ha imbottigliato la cultura italiana in una strada senza uscita?
Fa piacere sentire Giuliano Amato che riscopre l’articolo 9 della Costituzione: ma come non ricordare che l’ormai permanente blocco indiscriminato delle assunzioni dei giovani ricercatori italiani o dei soprintendenti fu inventato proprio da lui? E il danno è stato molto più grave dei pochi benefici ottenuti risparmiando su quei comparti strategici. Che il ministero per i Beni culturali sia “un morente ibernato” è verissimo: ma come non stupirsi che a dirlo sia uno dei congelatori, quell’Andrea Carandini che si precipitò a presiederne il Consiglio superiore quando Salvatore Settis sbatté la porta a causa del maxi-taglio da un miliardo e 300 milioni di euro disposto da Tremonti e subìto da Sandro Bondi?
E non parliamo dei ministri in carica: Lorenzo Ornaghi sale sul palco per dire “meno Stato e più privati”. Niente male per un ministro della Repubblica che dovrebbe invece difendere la dignità e i finanziamenti del sistema di tutela (un tempo) migliore del mondo. E quando un ragazzo gli urla: “Lei parla come un economista, non come un ministro della cultura”, il malcapitato ex rettore della Cattolica mormora che “non si può dire che questo governo non abbia fatto nulla per i beni culturali”. E invece è proprio così, tanto che Ornaghi non riesce a fare un solo esempio concreto.
Che il vento sia bruscamente cambiato se n’è reso conto il direttore del Sole, che nell’editoriale di ieri ha abbandonato la retorica vetero-craxiana sulla cultura come giacimento economico da cui estrarre reddito, e ha parlato della priorità della tutela del patrimonio, finalmente indicandolo come un valore in sé, e non come l’ennesimo strumento del mercato.
In tutto questo, l’affondo del capo dello Stato è apparso provvidenzialmente fuori degli schemi: in tempi di crisi si devono dire molti no, “ma alla cultura bisogna dire molti sì”. Certo, uno si chiede perché Napolitano abbia controfirmato la nomina a ministro dei Beni culturali dell’unico ministro non tecnico del governo Monti: nomina che è stata un vero segnale di disprezzo per la cultura. Ma non è mai troppo tardi, e la frustata presidenziale al governo e all’establishment culturale ha fatto capire che è finito il tempo in cui la pomposa definizione di ‘Stati generali’ può designare un teatrino in cui i responsabili dello sfascio si parlano addosso commentando lo sfascio medesimo. Se non altro di questo siamo gratissimi al Sole 24 Ore.
downtown terziaria, comunque lo si voglia intendere. Corriere della Sera Milano, 16 novembre 2012 (f.b.)
Previdenti per mestiere e missione aziendale, all'Inps hanno iniziato a programmare il trasloco quasi tre anni fa. Gli uffici sono stati riorganizzati, i servizi accorpati, i dipendenti progressivamente ridotti a poco più di duecento unità. Oggi, quando lasceranno il grattacielo di via Melchiorre Gioia 22, svolteranno l'angolo e chiuderanno un'epoca. «Abbiamo anticipato la spending review e operato in un'ottica di contenimento dei costi», dice Sebastiano Musco, il direttore dell'Area metropolitana Inps. Nel piano di revisione delle spese c'e il pensionamento del palazzo di Gioia e di tutto l'immaginario collettivo che ha costruito in oltre quarant'anni di storia. Le tensioni sociali. Le proteste sindacali aggrappate ai cancelli. Le code per i moduli 101. Il maxi concorso del 1982 con 800 assunzioni. Ma anche le telefonate anonime. L'incubo terrorista. Gli allarmi bomba. «Quest'operazione — ribadisce il direttore Musco — consentirà notevoli risparmi economici».
Gli sportelli chiudono alle ore 16, la sede storica dell'Inps cambia indirizzo, libera via Gioia 22 e si insedia in via Pola 9. Cinquecento metri di distanza, sei minuti a piedi. Il parametro che motiva il trasferimento è questo: l'Inps lascia i diciotto piani del grattacielo in affitto e ne prende sette nel nuovo polo direzionale, «riducendo notevolmente il canone di locazione». Il passaggio è simbolico, economico e pratico. Il palazzo di Gioia 22 (di proprietà mista) è un'architettura della Milano industriosa e febbrile del 1967, l'anno dell'occupazione studentesca in Cattolica, dei Rolling Stones al Palalido e della prima elezione del sindaco Aldo Aniasi. L'Istituto nazionale previdenza sociale ha realizzato qui una cittadella del welfare (con oltre duemila addetti negli anni Ottanta) e sperimentato un modello di gestione interna (con mensa e servizi al personale): «Negli ultimi anni, tuttavia, il "Grande Transatlantico" di Gioia ha presentato problemi di efficienza energetica e utilizzo degli uffici». Conservare l'identità o razionalizzare gli spazi? Tradire il vecchio e inaugurare una stagione di cambiamenti? «Ci siamo fatti queste domande tre anni fa — spiega Musco — e abbiamo concordato sulla risposta». Bisognava fare gli scatoloni.
Il blocco direzionale di via Pola 9 (di proprietà di una società di assicurazioni) è stato individuato in fondo a una ricerca di mercato mirata: «Non potevamo abbandonare la zona di Garibaldi-Gioia — dice il direttore Musco —. Questa sede dell'agenzia è identificata con il quartiere, c'è quasi un vincolo di familiarità e consuetudini. Sarebbe stato un errore sradicare gli uffici e traslocare lontano da qui». Gli sportelli riaprono nell'edificio che fu utilizzato dalla Regione prima del Pirellone bis. Gli ambienti sono stati ristrutturati e riadattati. La reception è stata ridisegnata e «avvicinata» alle richieste degli utenti. Il settore medico-legale sarà riaperto subito, lunedì mattina: «Ci sono visite di invalidità civile e pensionabile già prenotate, il servizio all'utenza sarà garantito senza soluzione di continuità». Per ristabilire orari e funzioni generali servirà qualche giorno in più, una settimana, forse meno, la macchina Inps è un gigante che va trattato con delicatezza, nei database sono classificati passato, certezze, ansie e speranze di migliaia di milanesi.
Il monumento di cemento e vetro alla pensione, in via Melchiorre Gioia, sarà riqualificato dalla proprietà e rimesso sul mercato. Il Fondo d'investimento Carlyle ha organizzato un concorso architettonico (dieci gli studi invitati) e scelto il progetto (presentato dal francese Jean Michel Wilmotte) che dovrà rinnovare anima e aspetto del palazzo. Il Comune ha ricevuto l'esito di gara e risposto con un dossier di osservazioni e richieste di chiarimenti. Nei prossimi mesi si conoscerà il destino del Grande Transatlantico di Gioia, il grattacielo (ormai ex) Inps.
La Repubblica Milano, 12 novembre 2012, postilla (f.b.)
ALCUNE, solo a livello preliminare, sono già in fase di realizzazione, le altre partiranno a breve dopo le gare d’appalto. Tutte volutamente fuori dal centro sorvegliato di Area C: sei strade e dintorni dal ritmo slow, per favorire pedoni e ciclisti, dove sarà obbligatorio circolare a 30 chilometri all’ora. La giunta finanzia la prima fase delle “isole ambientali” dell’era Pisapia, oasi antitraffico già progettate nei mesi scorsi e da attivare l’anno prossimo, appena terminati i lavori.
Per incrementare la sicurezza stradale e sostenere il primo lotto di “Zone 30” c’è un investimento di tre milioni. Perché non basta mettere un cartello 30 in un cerchio bianco rosso. Oltre ai cartelli stradali, l’istituzione delle isole a 30 all’ora prevede anche una serie di infrastrutture: dossi rallentatori, restringimenti della carreggiata, marciapiedi continui con spigolo vivo per evitare la sosta selvaggia delle auto. I lavori sono già cominciati nelle vie Lazzaretto, Casati e San Gregorio.
Nella lista delle isole ambientali compare anche via Melzo, scelta perché così verrà creata un’area slow anche dall’altro lato di corso Buenos Aires. Poi c’è il quartiere Figino. Qui la realizzazione del progetto va di pari passo con altre due opere: un investimento residenziale privato, che allargherà di fatto il quartiere oggi sviluppato soprattutto lungo l’asse di via Figino, e i cantieri per collegare la zona con il teleriscaldamento, con lavori che modificheranno la viabilità. Fuori dal centro, le «Zone 30» raggiungeranno via Parula, nell’area di via Padova. Per la precisione, vicino a piazzale del Governo Provvisorio dove, anticipando i tempi, negli anni Ottanta l’allora assessore al Traffico Augusto Castagna decise di trasformare il piazzale in una specie di “Zona 30”.
La prima fase delle isole include anche via Muratori e, soprattutto, via Tortona e via Solari, dove un anno fa è morto Giacomo Scalmani, 12 anni, investito da un tram mentre tornava a casa in bicicletta. Qui verrà realizzato un progetto nato dal confronto tra quartiere, consiglio di zona e associazioni: bassa velocità per le auto, alberi, stazioni del bike sharing. E una corsia preferenziale per la quale Atm sta ultimando i lavori di progettazione definitiva. A queste prime sei isole ambientali se ne aggiungeranno altre (dalla Milano romana delle Cinque vie a piazzale Accursio), già annunciate ma ancora da finanziare. Per quanto riguarda il centro, resta valida l’intenzione di imporre il divieto dei 30 all’ora in tutta la cerchia dei Bastioni, ma si procederà per gradi e si valuterà caso per caso.
Postilla
Forse sarà saltato all’occhio dei lettori più attenti, come la logica della zona a traffico controllato, o limitato, o rallentato, si stia con progetti del genere evolvendo verso una vera e propria idea alternativa di quartieri, inseriti entro un contesto metropolitano dove l’auto privata e il “progetto di suolo” che sottende sono in prospettiva destinati a sparire, ma in forme diversissime da quelle classiche della pedonalizzazione anni ’70. Per evitare che questa declinazione un po’ particolare degli shared spaces non finisca, poi, appunto per ricostruire una serie di circoscritte aree di privilegio entro, e al di fuori proiettare ulteriori disagi, occorre una stretta correlazione fra politiche urbanistiche, della mobilità, e delle funzioni, se possibile da subito di scala vasta e tendenzialmente sovra comunale. In attesa dell’agognata città metropolitana, come da un paio di generazioni (f.b.)
Corriere della Sera Lombardia, 12 novembre 2012 (f.b.)
MALPENSA (Varese) — Una città fantasma fatta di ville, condomini, interi quartieri dove adesso regna il silenzio spettrale. Circa 2 mila persone negli ultimi anni hanno abbandonato 600 abitazioni intorno all'aeroporto di Malpensa. Molti hanno preso i soldi dell'operazione «delocalizzazione» e sono andati altrove per non sentire più il rumore degli aerei. Però le case abbandonate sono ancora lì. Dovevano diventare uffici, magazzini, centri logistici per dare occupazione e sviluppo a tutto il territorio, ma i fondi erogati dalla legge che ha permesso l'esodo di massa sono finiti quest'anno, mentre le risorse dei privati stentano ad arrivare: «Siamo arrivati al punto che non abbiamo nemmeno più il denaro per murare le finestre e impedire l'ingresso dei malintenzionati — osserva il sindaco di Lonate Pozzolo Piergiulio Gelosa — è uno scenario drammatico, anche sul fronte sicurezza».
Lo stallo dell'economia ha peggiorato la situazione: «Il mercato è fermo, le imprese di costruzioni non ce le compreranno mai — continua Gelosa — buttare giù una grande palazzina costa 2 milioni di euro, le uniche due che abbiamo abbattuto finora ci sono costate 700 mila euro l'una, chi volete che si accolli queste spese?». Un sopralluogo a ottobre del Consiglio provinciale ha certificato la situazione: di concreto nel futuro della aree intorno a Malpensa non c'è quasi nulla; tra le poche cose realizzate una scuola per tecnici aeroportuali a Case Nuove, la frazione di Somma Lombardo inghiottita dalle piste.
E' in questo quadro che è nata nelle ultime settimane una possibile via d'uscita, che dovrebbe passare da un accordo firmato in Regione.
«L'unica soluzione secondo noi — afferma il sindaco — è che la Sea si renda parte diligente nella demolizione». Il coinvolgimento della società aeroportuale sta mettendo i sindaci gli uni contro gli altri e il motivo è comprensibile. La Sea è disponibile a investire ma a una condizione: e cioè se il ministero dell'Ambiente approverà il cosiddetto Masterplan, ovvero un allargamento dell'aeroporto stesso che prevede, tra l'altro, magazzini logistici e anche la terza pista di Malpensa. Gli ambientalisti lo vedono come il fumo negli occhi. I sindaci dei tre Comuni che si ritrovano le case abbandonate sul groppone, ovvero Somma Lombardo, Lonate Pozzolo, e Ferno chiedono quantomeno di poterne parlare senza essere accusati di voler autorizzare la terza pista. Oggi si terrà un'assemblea congiunta con i sindaci e i consiglieri dei tre Comuni che si annuncia molto calda.
La Repubblica Milano 11 novembre 2012 (f.b.)
Dalla prevenzione dei grandi rischi, come alluvioni o esondazioni (vedi il Seveso) alla mappatura di tutto il verde cittadino fino al miglioramento dell’aria a Milano attraverso il titanio. Idee private, più o meno innovative, che provano a diventare pubbliche. Proposte di singole università, enti di ricerca o società grandi e piccole a caccia di risorse per una città più intelligente. Sono 15 i progetti (selezionati tra 21 proposte ricevute) che il Comune ha inviato al governo per chiedere finanziamenti nell’ambito del bando “Smart cities and communities and social innovation”. E ora spetterà al ministero dell’Istruzione e della ricerca decidere su quali investire. Innovazione e tecnologia per cambiare la vita della città. L’anno scorso, nell’ambito di un bando europeo, furono cinque i progetti che si aggiudicarono fondi per oltre due milioni.
E-ticket per treni e musei via i furgoni con il web SONO varie le proposte in tema mobilità. INSeT è la proposta di e-ticketing (di Reply): biglietto elettronico per mezzi in città, treni, alta velocità ma anche musei e carte sanitarie. URBeLOG, per esempio, è il progetto (di Telecom) che punta a snellire la logistica delle merci in città ed eliminare il traffico da furgoni. Come? Creando una piattaforma telematica per migliorare le consegne. Se vincerà, potrà essere sperimentato dentro l’Area C.
Esondazioni senza segreti con gli indicatori d’allerta SWARM è l’idea degli studiosi del Cnr per la tutela delle risorse idriche e la gestione di eventi climatici estremi come alluvioni ed esondazioni. Come? Utilizzando indicatori precoci di allerta e strategie di mitigazione legate ai cambiamenti climatici, e anche recuperando energia dal trattamento delle acque reflue. Green and smart Milano (di Green City Italia) è invece la piattaforma open source per mappare non solo il verde cittadino ma anche i dati su traffico e inquinamento e trasformarli in app.
L’aria è meno inquinata se si utilizza il titanio L’ALER propone materiali e sistemi innovativi di efficienza energetica per ristrutturare parte del patrimonio di case popolari in città a zero impatto. Il progetto AriaUrbana del Politecnico punta a migliorare l’aria dal punto di vista chimico e microbiologico, anche attraverso l’uso innovativo del titanio. Mentre GEOssLiFE (di Italtel) si propone per realizzare una mappa dei servizi del sottosuolo e catalogarli poi in un catasto elettronico: un progetto che include anche alcune zone recentemente coinvolte da terremoti in Emilia.
Schedatura culturale globale e-government in tribunale UN MONITORAGGIO di tutto il patrimonio artistico e culturale, anche sotterraneo. È l’idea che sostiene CH-Start (di Present Cultura), dove la tecnologia è al servizio dell’arte. Ma l’innovazione aiuta anche nella prevenzione: è il caso del progetto Sicurezza sul territorio che vuole mappare le emergenze di Milano e Torino. Spunti anche per migliorare la giustizia: Smart city Giustizia pensa a un servizio di e-government per far interagire il sistema giudiziario con il pubblico.
Flotte di droni elettrici occuperanno il centro SONO cinque i progetti che sono partiti a settembre in città con oltre due milioni di fondi da Bruxelles e alcuni guardano all’Expo come meta. Si va da Eu-Gugle sul risparmio energetico in 477 case Aler, nel quartiere Zama-Salomone, a Fr-Evue legato a flotte di veicoli elettrici destinate a distribuire i farmaci dentro Area C. E poi CityMobil2, uno studio sul trasporto automatizzato, Electric city movers sulla mobilità sostenibile e Tide, progetto di diffusione e scambio di buone pratiche sul traffico tra le città europee.
L'Unità, 10 novembre 2012
Il ministro per i Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi (sin qui, con Sandro Bondi, uno dei più inerti) rimarrà negli annali del Collegio Romano se riuscirà a far tradurre dalle Soprintendenze in atti esecutivi la direttiva emanata contro il bancarellume, abusivo e non, che affligge ormai quasi tutti i centri e gli edifici storici del Belpaese, contro i camion e i camioncini “porchettati” piazzati davanti ai più bei monumenti di Roma (da Castel Sant’Angelo al Colosseo), contro gli squallidi gazebos di plastica con stufe a gas incorporate. Se farà piazza pulita di questo autentico ciarpame da fiera paesana e peggio, il professor Ornaghi meriterà di venire ricordato per qualcosa di buono.
Alcuni Comuni hanno emanato regolamenti severi. Anni fa Bologna ha vietato tavolini, dehors, ombrelloni davanti a palazzi vincolati dalle Soprintendenze e Sergio Cofferati si è preso la nomea di sindaco-sceriffo per aver tentato di “bonificare” la zona di piazza Verdi ridotta a latrina notturna (la birra scorre a fiumi). Milano ha fissato alle 23 lo stop alle bevute. A Roma invece Alemanno ha ritardato alle 23 (facendo marcia indietro in qualche caso) l’entrata in vigore dei varchi elettronici rendendoli praticamente inutili, in omaggio ai tanti voti “bottegari” ricevuti quando scalò il Campidoglio fra una selva di saluti romani.
Già i presidenti di ambulanti, esercenti e commercianti attaccano Monti e Ornaghi alzando la voce e minacciando serrate contro una norma di civiltà: per i centri storici e per il turismo più qualificato (quello che rende davvero checché ne pensino certe teste di legno). L’assalto rumoroso alle città antiche, di giorno e di notte, sta allontanando i pochi residenti. Mancando ogni controllo sociale, è più facile commettere ogni sorta di reato, a cominciare dallo spaccio di droghe, fiorentissimo (e ogni tanto ci scappa il morto), è più facile per la malavita impossessarsi di una vasta rete di locali. Intere strade sono state stravolte in poche settimane quando sono arrivati, in massa, gli orrendi negozi di souvenirs gestiti dai cinesi. Imbruttite violentemente in pochi giorni e per sempre. Via antiquari, boutiques, venditori di stampe, tutte sigle di commercianti veri, qualificati, che nessuno ha difeso, a principiare dalle loro stesse corporazioni. I gelatai poi hanno concorso all’imbruttimento dei rioni antichi con enormi coni di plastica colorata, illuminati al calar del giorno. Una volta certe categorie usavano la Dc ma pure il Psdi per aver voce nei consigli comunali. Nell’ultimo eletto a Roma è entrato per il Pdl un rampollo della famiglia Tredicine i cui camion-bar deturpano in modo strategico i punti più panoramici di Roma impedendo ai turisti di fotografarli, ed è uno che conta. Ora tanti grideranno al neo-centralismo del governo Monti e del suo ministro Ornaghi. Ma cos’hanno fatto molti, troppi Comuni per arginare un fenomeno così aggressivo e indecoroso? Coraggio professor Monti, passi ad altre misure qualificanti, impedisca, per esempio, l’attracco delle colossali navi-crociera a San Marco. Avrà altri applausi dall’Italia (e dall’Europa) più civile.
“Unità”, 10.11.12
postilla (f.b.)
“A fine Febbraio 2000 i Sindaci pro tempore di Somma Lombardo, Ferno e Lonate Pozzolo firmarono l'accordo di "delocalizzazione" che dava a Malpensa la "licenza di uccidere". Questo perché, con la firma dei tre Sindaci (Brovelli, Canziani e Colombo) si creava, per i residenti in certe zone a ridosso del sedime aeroportuale individuate come particolarmente rumorose, la possibilità di vendere casa e trasferirsi altrove. L'operazione veniva definita di "mitigazione" e Malpensa poteva così svilupparsi, con licenza di uccidere chi restava. L'assenso dei tre Sindaci fu bollato, forse mai adeguatamente, già a suo tempo. L'individuazione delle zone inserite nell'accordo omicida fu effettuata sulla base di ipotetiche curve isofoniche stabilite prima dell'apertura di Malpensa 2000, cioè con un traffico teorico e rotte provvisorie (tali sono ancora). Le persone delocalizzabili secondo l'accordo erano nell'ordine delle centinaia mentre, secondo il Ministro dell'Ambiente di allora, Edo Ronchi, entro l'area dove diventava disumano vivere si venivano a trovare migliaia di cittadini. Quindi noi chiedemmo: si delocalizzino invece gli aerei! (Patto per il Territorio, Turbigo, 19/02/00) Ora si può tristemente verificare, leggendo i dati rilevati dalle centraline della rete di misura del rumore, che in aree soggette all'accordo, per esempio Somma-Case Nuove, Lonate-S. Savina e Lonate-Moncucco, il rumore rilevato è inferiore a quello di Somma-Rodari, Somma-Cabagaggio, Arsago-Cimitero, Casorate-Monte Rosa… aree a cui l'accordo non si applica.”
Come si sa, solo una parte degli aventi diritto vendette casa all'ALER e si trasferì, ed i colpi di coda di questo iniquo accordo si vedranno lunedì sera. Innanzi tutto è utile sottolineare la “mancata par condicio del rumore”, così la definimmo all'epoca, e cioè che chi subiva un rumore più elevato doveva restare. Negli anni si verificarono poi variazioni del traffico aereo, attualmente sceso a livelli tali per cui l'accordo di delocalizzazione, applicato col criterio del superamento dei 65 dB, ora sarebbe rivoluzionato da livelli di rumore probabilmente ridotti, cioè case ieri delocalizzate forse oggi non lo sarebbero più. Livelli di rumore che, se il gestore della rete di misura del rumore (SEA) pubblicasse i dati come dovuto, potremmo meglio conoscere.
Quindi delocalizzazione farsa e falsa, costata enormi somme di danaro ai contribuenti e in procinto di costare altri 12 milioni d Euro, presi non si sa bene dove o, come è già stato segnalato, forse sottratti agli scopi a cui erano destinati. 12 milioni che, se è vero quel che sembra, odorano di scambio, per non dire di ricatto. Quindi altri soldi che finiranno nel buco nero di Malpensa senza che producano alcun utile collettivo. Cosa ci dobbiamo aspettare ora da questi 3 sindaci? Definendo “licenza di uccidere” l'accordo di delocalizzazione che permetteva lo sviluppo di Malpensa, fummo facili profeti perchè i danni provocati dagli aeroporti si conoscono da decenni e quindi non è stata una sorpresa il +54% di decessi nei Comuni del CUV rispetto al + 10% nel resto della provincia. Non avremmo voluto ma ora contiamo i morti.
I Sindaci di oggi, appollaiati come avvoltoi sulle spalle del + 54%, contano invece i soldi per l'abbattimento degli immobili liberati dall'accordo fallito. Se nella storia di Malpensa scriviamo ora questo ulteriore grottesco capitolo, se Malpensa tutto può permettersi, è perché gli Enti Locali a tutto acconsentono. Sindaci, rompete il muro di omertà, avete dati terribili sulla salute dei vostri cittadini, fate il vostro dovere: intervenite! Gallarate, 10 novembre 2012
UNI.CO.MAL. Lombardia - Il Presidente Beppe Balzarini
Postilla
Come forse si intuisce dal testo, la delocalizzazione di ampie fasce dell’abitato attorno al baraccone di Malpensa, prima pista militare poi hub internazionale e in futuro chissà, riguarda la vita di famiglie, l’economia locale, per dirla con un po’ di retorica la carne e il sangue delle generazioni. Manco fossimo a Fukushima, si deporta la gente, e le istituzioni aiutano tra l’altro nel tempo vari soggetti a speculare sugli immobili, in cambio di cose misteriose. Perché a fronte di una devastazione a dir poco spaventosa di un ampio territorio ex rurale e naturale (siamo in piena valle del Ticino, il parco regionale che l’Europa ci invidiava) c’è un’infrastruttura monca, dal futuro incerto, un aeroporto che come può raccontare chiunque ci sia passato lavora assai al di sotto delle capacità attuali. Ma che egualmente si vuol continuare ad ampliare, nella solita logica per cui prima si fanno le opere, e poi si pensa a se e come usarle per qualche scopo. Anche Malpensa si inserisce nel delirio liberista-mafioso-insostenibile della cosiddetta Città Infinita, delle opere scombinate utili solo a chi le fa, o a chi le autorizza. Prima si poteva dare la colpa a Formigoni, e adesso? Adesso siamo in piena crisi del modello di sviluppo ciellino, ma ammazzali se i signori dell’opposizione candidati alla “alternativa” hanno aperto bocca su qualcosa di simile a un’idea, sul sistema aeroportuale, dei poli urbani, sulle infrastrutture di collegamento. Ovvero su quanto consentirebbe almeno di dare un senso, per quanto tragico, alle deportazioni di persone di cui ci ha brevemente raccontato il comunicato stampa (f.b.)