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Troppo costoso e tempi lunghi, meglio non scavare, tanto più che il bucone è marcio e l'alternativa c'è. Ma dopo le inchieste giudiziarie Renzi, il facondo sindaco di Firenze e aspirante al trono d'Italia tace, Il manifesto, 14 novembre 2013

Il "grande buco" di Firenze, il progetto di attraversamento Tav del centro storico della città, con megatunnel a doppia canna e macrostazione sotterranea, viene travolto dalle inchieste della magistratura, che evidenziano gravissimi profili di illegittimità ed illegalità amministrative, civili e penali, da parte di una "cricca" che coinvolge pesantemente non solo la governance delle ferrovie e del progetto e le imprese interessate, ma anche l'amministrazione pubblica ai diversi livelli, compresi ministeri e vertici della Regione Toscana. Tra i rilievi della procura si trovano: uso di materiali inidonei, irregolarità procedurali, forzature decisionali, reati ambientali, aggiramento delle norme dei lavori pubblici, evasioni ambientali, occultamento degli impatti, fino alla rimozione di dirigenti "scomodi", perché, facendo scrupolosamente il proprio dovere, bloccavano e impedivano i disegni di devastazione, spreco e accaparramento di risorse pubbliche da parte della "squadra".

Appare scontato che in tale quadro non ci fosse alcuna attenzione per il centro urbano di Firenze, né per il suo patrimonio artistico, culturale, ambientale e abitativo. Il sindaco Matteo Renzi, prossimo possibile dominus del Pd, nonché candidato alla premiership, che pure chiacchiera su tutto, in questo caso mantiene un rigoroso, quanto imbarazzato e clamoroso, silenzio.Movimenti e comitati, insieme agli studiosi dell'università che hanno analizzato il problema, chiedono invece con forza l'abbandono definitivo di questo progetto, «inutile e dannoso», e il ritorno a un più agevole e meno costoso passante di superficie, di cui gli stessi tecnici hanno di recente aggiornato la proposta progettuale. Lo scenario, che Giorgio Pizziolo ed altri tecnici hanno curato, è infatti molto più conveniente dal punto di vista di tempi, costi, impatto ambientale ed efficacia della realizzazione, anche rispetto all'intero sistema di mobilità urbana e metropolitana interessato.

Per avviare i lavori del «passante» fiorentino è molto più semplice e rapido rendere definitivo il progetto nuovo di sovrattraversamento, piuttosto che tentare di proseguire l'iter, interrotto di fatto dalla magistratura, di megatunnel e grande stazione sotterranea. Almeno se si vuol rispettare il criterio di «assoluta legalità» per le operazioni a venire, dichiarato dalla stessa Rfi. Come ricordato in questi giorni dall'attivissimo «Comitato No Tunnel Tav», le illegittimità ambientali, amministrative, civili e penali già emerse nell'inchiesta costituiscono solo una parte di un quadro di irregolarità assai più vasto,di cui chi ha studiato il progetto è ben consapevole. Tra le "magagne" che devono ancora emergere vi è, per esempio, l'assoluta mancanza di Valutazione d'impatto ambientale della megastazione sotterranea, per la quale il proponente tentò di spacciare per buona altra valutazione redatta per altro progetto (circostanza ammessa successivamente dai suoi stessi legali). Tra le altre questioni ancora da sollevare vi è la mancanza di nulla osta paesaggistico; e infine il fondamentale dato già emerso per cui "Monna Lisa", ovvero la fresa montata per lo scavo, è inadeguata a lavorare nel sottosuolo del centro storico fiorentino e andrebbe sostituita.

Provvedere correttamente a sanare o aggiustare tutti questi problemi significherebbe, oltre a far lievitare i costi, poter avviare i lavori non prima di un anno. Quindi si aprirebbe il problema dell'impatto dello scavo vero e proprio, mai avviato finora.

Indagando i documenti progettuali e programmatici relativi al sottoattraversamento e in generale al nodo fiorentino della linea ad alta velocità, viene confermato che la vera scelta della governance toscana e fiorentina era legata alla necessità di premiare il sistema locale con un progetto finanziariamente all'altezza di quanto si stava spendendo negli altri grandi nodi ferroviari nazionali. Se a Firenze fosse stato confermato il progetto di superficie, nell'area ci sarebbe stata un'allocazione di risorse sensibilmente minore: un progettino da 350 milioni di euro. Bisognava cambiare: Firenze pretendeva il suo vero progetto di alta velocità.

La Repubblica, 14 novembre 2013

Mentre un pezzo di questa pseudo-maggioranza di governo, con la complicità o la connivenza di una parte del Pd, vorrebbe mettere in vendita il patrimonio pubblico delle spiagge, lo Stato italiano rischia di perdere una “perla” della Sardegna come l’isola di Budelli, nell’arcipelago incantato della Maddalena. Qui Michelangelo Antonioni girò nel 1964 una memorabile sequenza del suo “Deserto rosso” con Monica Vitti. E qui c’è ancora, nonostante le scorribande di un turismo predatorio, la famosa “spiaggia rosa”, una delle più suggestive del mondo, così denominata per il colore particolare della sabbia lungo la linea della battigia.

All’inizio del Novecento, Budelli apparteneva a una famiglia della Maddalena e poi nel 1950 venne acquistata da un ingegnere milanese con il progetto di costruire un esclusivo villaggio vacanze. Ma l’operazione fu bloccata dalle resistenze locali, fino a quando nel 1992 il ministro dell’Ambiente, Carlo Ripa di Meana, firmò un decreto per rendere quel territorio inedificabile. A febbraio scorso, infine, in seguito al fallimento della società proprietaria, l’isola è andata all’asta ed è stata comprata per 2 milioni e 945mila euro da un banchiere neozelandese, intenzionato - a quanto assicura lui stesso - a preservare l’ambiente con le sue 700 varietà vegetali di macchia marina, di cui 50 specie endemiche.

Attraverso il Parco nazionale dell’Arcipelago della Maddalena, istituito nel ‘90, lo Stato potrebbe ancora esercitare però un diritto di prelazione entro l’8 gennaio 2014. Senonché l’articolo 138 della precedente Finanziaria, predisposta dal governo Monti, impedisce a qualsiasi ente pubblico di acquistare beni e cose. E per questo, su sollecitazione dell’ex ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, Sel e il gruppo misto del Senato hanno presentato un emendamento alla legge di Stabilità che è all’esame del Parlamento.

In collaborazione con la piattaforma “change.org”, lo stesso Pecoraro Scanio aveva già lanciato su Internet una petizione popolare — intitolata “Budelli bene comune” — che finora ha raccolto oltre 80 mila firme. L’obiettivo è quello di affidare la proprietà e la gestione dell’isola al Parco, per trasformarla in un “museo all’aria aperta” in grado di autofinanziarsi con il ricavato dei biglietti d’ingresso. «Budelli è un patrimonio e un simbolo del nostro Paese — ribadisce il capogruppo di Sel alla Camera, Gennaro Migliore — che va restituito ai cittadini italiani».

L’emendamento alla legge di Stabilità chiama in causa direttamente il ministero dell’Economia, già alle prese con il bombardamento di tremila emendamenti presentati dai partiti alle Camere: anche in questo caso, spetta eventualmente a Fabrizio Saccomanni reperire i tre milioni di euro per salvare “l’isola più bella del mondo”. Ma tutto sommato si tratta di una cifra contenuta, l’equivalente di un appartamento di pregio nel centro di Roma, che oltretutto servirebbe ad alimentare turismo e occupazione. E perciò si aspetta un intervento anche da parte del ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, al quale va il merito di aver indotto per ora il Partito democratico a fare dietrofront sulla vendita delle spiagge.

Nel frattempo, contro questa inaccettabile liquidazione del nostro litorale, la Federazione dei Verdi guidata da Angelo Bonelli ha indetto per le 15 di oggi a Roma, in piazza del Pantheon, un sit-in di protesta contro la proposta di Pdl e Lega. «Vogliamo mobilitarci - spiega Bonelli - non tanto per una questione politica, quanto piuttosto morale». Il paradosso è che le spiagge italiane, con le 30 mila concessioni demaniali assegnate a imprenditori privati per la gestione di 15 mila stabilimenti
balneari che insistono su 600 Comuni costieri, di fatto sono state già svendute: tant’è che rendono allo Stato intorno ai cento milioni di euro all’anno, in base a canoni irrisori e spesso anche clientelari, fruttando agli esercenti incassi che si aggirerebbero sui dieci miliardi (due secondo i dati ufficiali).

Nel 2012 fu la Commissione europea a intervenire, sollecitando la riduzione da 30 a 5 anni della proroga alle concessioni, originariamente proposta anche allora da Pdl e Pd. La storia, insomma, si ripete. Ma la “spiaggia rosa”, l’isola di Budelli e tutto l’arcipelago della Maddalena non possono rientrare ora nella logica viziosa delle “larghe intese”.

Ritorna sotto non troppo mentite spoglie, il progettone di Ligresti/Veronesi, fiore avvelenato all'occhiello del centrodestra ereditato dal centrosinistra. La Repubblica Milano, 13 novembre 2013, postilla (f.b.)

La dead line è il 31 dicembre. Una data entro la quale «Visconti srl presenterà sicuramente al Comune il progetto per l’area Cerba», ha assicurato Manfredi Catella, amministratore delegato di Hines Italia, la società che si è assunta l’onere di sviluppare l’opera. E di far diventare realtà il “Centro europeo di ricerca biomedica avanzata” nel Parco Sud tanto sognato da Umberto Veronesi. Si riaccendono i riflettori sul Cerba: dopo il braccio di ferro a giugno tra Palazzo Marino e i curatori fallimentari dei terreni di Ligresti — chiesero di costruire un centro commerciale, il Comune disse no — ieri il numero uno di Hines ha annunciato che il piano per il polo scientifico è in via di definizione e che sarà presentato entro l’anno. Con alcune modifiche: il progetto, prima unitario, «ora è stato suddiviso per lotti, che coincideranno con i singoli istituti », ha spiegato Catella. L’obiettivo sarebbe quello di suddividere l’opera in “porzioni”, in modo da dilazionare i 92 milioni di euro di oneri di urbanizzazione che devono essere versati a Palazzo Marino per permettere alle ruspe di mettersi al lavoro.

L’Accordo di programma per la realizzazione del Cerba nei terreni di Ligresti accanto allo Ieo è stato firmato nel 2007. La strada - un’opera da 1,3 miliardi di euro, con 300mila metri quadri di edificazione e altrettanti di parco - è stata però sin da subito accidentata, soprattutto a causa del crac nel 2012 di Imco e Sinergia, le due immobiliari proprietarie dei terreni. Il 7 ottobre Visconti srl (società costituita ad hoc dalle banche creditrici di Ligresti, con Unicredit capofila) ha presentato al Tribunale il concordato per Imco: la proposta venerdì scorso ha incassato l’ok del comitato dei creditori, e adesso attende l’approvazione del giudice. Il concordato prevede che i terreni di Imco (tra cui quelli del Cerba) confluiscano in un fondo che sarà gestito da Hines Italia, a cui è stato affidato il compito di sviluppare il progetto.

Di qui, le modifiche che si vorrebbe apportare al progetto prima di far partire i lavori: oltre alla dilazione sugli oneri, l’ipotesi sarebbe quella di realizzare attorno al polo non un parco attrezzato (come previsto cinque anni fa) bensì agricolo, per risparmiare sulla manutenzione. L’ideazione dell’ipotesi è stata affidata allo studio Gregotti, che starebbe anche valutando i cambiamenti da fare al progetto immobiliare (firmato dallo studio Boeri) qualora la realizzazione per lotti ricevesse l’ok. Già, perché tutte le modifiche al piano originale oltre a dipendere dall’approvazione del concordato, devono incassare l’ok di Comune, Regione e Provincia, che nel 2007 hanno firmato l’Accordo di programma. Ed è proprio su questo che, ancora una volta, il Cerba rischia di arenarsi: il 5 novembre Visconti srl ha inviato a una lettera alle istituzioni per illustrare il concordato e chiedere il «sollecito riavvio delle procedure di revisione dell’Accordo». Dal Comune però arriva cautela: «Non abbiamo ricevuto ancora nessuna proposta e, per questo, non credo sia corretto commentare queste ipotesi di modifica se non negli ambiti competenti — dice l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris — . In ogni caso, se queste indiscrezioni fossero confermate, ricordiamo che alcune tra queste proposte erano già state bocciate a giugno »

postilla

Pare tristemente indicativo che in una delle città dove più pervicacemente si è perseguita la famigerata logica dei diritti edificatori, creati ad hoc e poi traslocati qui e là a seconda delle esigenze e vantaggi di chi conta, a nessuno sia mai venuto in mente che anche un progettone come il Cerba (sempre che si confermi la legittimità del piano) potrebbe virtuosamente seguire il percorso originario di questa pratica. Ovvero, come ci ha spiegato su questo sito Cristina Gibelli, di uso proprio e corretto dello strumento, a tutela di superfici del tutto inadatte alla trasformazione urbana, trasferendo i volumi altrove. E la greenbelt del Parco Sud è esattamente uno di questi posti inadatti, indipendentemente dallo sponsor scientifico, dai costruttori coinvolti, dallo studio di progettazione incaricato (f.b.)

Pompei di nuovo al centro delle polemiche, disperante simbolo della sorte del nostro patrimonio culturale. L'Unità, 12 novembre 2013 (m.p.g.)
Rumors, rumor di sciabole, manovre retrosceniche si addensano su Pompei, celebre nel mondo piùche per la sua bellezza, per l’incuria e il dilettantismo nelle italiche politiche culturali, un sito archeologico che vive una ennesima stagione ingloriosa, mentre continuano i crolli. L’ultimo è beffardamente avvenuto proprio su quella via dell’Abbondanza che tutti sanno esseremaggiormente a rischio. Un crollo fortunatamente non poderoso, ma poderosamente amplificato dai media, per tirare la volata alla nomina di un direttore a Pompei figura prevista dal decreto Valore cultura, per rilanciare una situazione in pesante stallo da due anni: a contendersi la poltrona sarebbero Fabrizio Magani e Giuseppe Scognamiglio.

Primo e probabilmente unico caso di un funzionario del Ministero degli Esteri distaccato presso una banca, Scognamiglio è stato consulente al Commercio con l’Estero, responsabile delle politiche di sostegno all’internazionalizzazione del sistema economico italiano, è nei consigli direttivi più vari,dall’Abi a Save the children, oltre che promotore della camera di commercio italo-turca epresidente della società editoriale della banca dove è dirigente. E altro ancora, però non s’è mai occupato di cultura, e godrebbe dell’appoggio del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Patroni Griffi e, a quanto pare, dello stesso presidente Enrico Letta.
Magani è invece un ottimo storico dell’arte in forza al Ministero per i Beni e le Attività Culturali. A circa quattro anni dal terremoto di l’Aquila, dopo che la gestione commissariale e della Protezione civile pur potendo agire in deroga alla normativa non aveva iniziato alcuna ricostruzione, Magani è divenuto direttore regionale per l’Abruzzo e in breve tempo ha avviato molti cantieri, attraverso i regolari percorsi di legge, con precisi cronoprogrammi su cui chiedergli conto, gestiti con trasparenza sul sito ufficiale della sua direzione. Non è certo l’unico funzionario tecnico-scientifico in grado di far marciare la macchina dello Stato meglio di commissari e supermanager: ad appoggiarlo sarebbe il Ministro competente Massimo Bray.
I media danno l’immagine dello scontro, oramai annoso, che in questo paese vede opposti tecnici contro manager per la direzione di entità culturali, ma la cosa convince poco. Perché il profilo di Scognamiglio non è di un manager ma, nella migliore delle ipotesi, di un diplomatico al servizio delle banche, magari ottimo mediatore virtuoso nell’arte del compromesso, nella peggiore delle ipotesi di un lobbista. Il che non significa sia una delle due cose, ma la dice lunga su chi lo sostienein quanto manager, mentre Magani non è un archeologo e allora perché spostarlo, rischiando di non risolvere i problemi di Pompei e riacutizzare quelli de L’Aquila.
Occorre andare aldilà della querelle dei nomi per capire quella che oramai appare la più possenterogna della storia dell’archeologia, cioè Pompei e tutti i suoi guai. Siamo nel 2011, le casse svuotatedal supermanager della protezione civile Marcello Fiori per inutili lavori –a dimostrarlo è anche una relazione della Corte dei Conti–, dopo i crolli quasi quotidiani che rimbalzavano sulla stampa come palle di fucile, a Pompei sembra consumarsi la sconfitta definitiva dei commissariamenti e dei supermanager culturali. Sul sito cala però una inquietante immobilità.
In quel momento si comincia a parlare concretamente di 105 milioni di euro della Unione Europea (UE) da destinare a Pompei, un iter accelerato dall’allora ministro per la Coesione Territoriale, Raffaele Fitto. Di lì a poco alla Soprintendenza di Pompei viene affiancata Invitalia, con il compito di seguire gli aspetti amministrativi: è un nuovo semi-commissariamento, presentato come salvificoma rivelatosi al di sotto delle aspettative, tanto che quasi nulla si muove.
Entra in scena Giancarlo Galan come Ministro della cultura: il suo famigerato Decreto salva Pompei, in realtà svuota ulteriormente le casse della Soprintendenza –senza tuttavia intaccare i fondi UE che non potevano essere distratti–, e scardina una parte della tutela intorno all’area archeologica, ipotizzando la creazione di edifici per il turismo da costruire in deroga alla normativa.Scende subito in campo una non meglio precisata cordata di imprenditori campani, che trovasponda politica in Scilipoti, e si mette a disposizione. Attenzione, non per dare danaro a Pompei, ma prenderne: realizzando quelle strutture che il decreto prevederebbe con soldi non loro mapubblici (forse i 105 mln della UE?).
Nello stesso periodo un consorzio di aziende francesi, queste sì pronte a dare di tasca loro decine dimilioni di euro per ulteriori restauri sul sito vesuviano, si è dileguato nel nulla, e vagli a dar tortovisto quanto accadeva –altro che partecipazione dei privati, quelli che davvero vogliono dar soldi li facciamo scappare.
Entra in scena il Governo Monti, nel 2012 nasce il Grande Progetto Pompei (GPP) da realizzare con i 105 mln UE, una gioiosa macchina da guerra con dentro 4 ministeri, la presidenza del Consiglio, sempre Invitalia e la prefettura antimafia a vegliare sui bandi perché, si disse, quelli di Pompei non dovevano essere inquinati dalla camorra, quasi gli altri bandi godessero invece di una franchigia.
Il piano, da un punto di vista archeologico curato dal Segretariato generale del Mibac, sbandiera una mezza dozzina di importanti interventi, per lo più risalenti a una decina di anni prima, all’epocadella soprintendenza di Pier Giovanni Guzzo, e mai realizzati nel successivo periodo della spendarella commissariale. È però un progetto culturalmente non ineccepibile: Pompei non abbisogna tanto e solo di progetti speciali ma, come dimostrano i crolli recenti, ha soprattutto urgenza, si sottolinea urgenza, di triviale manutenzione, che sarebbe ordinaria in un sito archeologico ma non si riesce a fare per la mancanza di personale specializzato. Difficile poisfuggire all’impressione che rispetto all’ordinario i piani faraonici siano ben spendibili a livello di immagine.
Parola d’ordine del GPP è comunque “sinergie”, termine che ama essere usato nelle conferenze stampa dal tempo dei socialisti craxiani che lo nobilitarono, ma fin da allora si traduce spesso o incompromessi talvolta consociativi, oppure in una macchina burocratica immobile. Forse prevedibilmente e, ahimè, anche previsto, a Pompei si verifica la seconda ipotesi: lo stallo continua.
Estate 2013, un nuovo rapporto Unesco al calor bianco minaccia velatamente di togliere il patrocinio al sito, mentre si fa reale il rischio di perdere i 105 mln UE per scadenza termini. Siprova a correre ai ripari con il decreto Valore cultura, dove si torna all’idea di un plenipotenziario,un direttore con ampie deroghe che tanto assomiglia a un commissario straordinario. In sede parlamentare al momento della conversione in legge è aggiunto un vicedirettore, figura di non chiara funzione burocratica, dunque probabile omaggio alle larghe intese.
Aldilà delle buone intenzioni di tutti, scontate fino a prova contraria, il solo elenco di queste iniziative, percorse da un certo nervosismo normativo e forti incertezze politico-culturali, sembra convergere in un punto. Sorge lo spontaneo dubbio che ancora una volta il problema non sia Pompei ma i 105 mln dell’UE, per i quali sarebbe in corso uno scontro di potere. Certo sommerso ma senza esclusione di colpi e dove si fronteggiano politica, impresa, clientelismi, allegre cordate e su cui pesa anche l’ombra della criminalità organizzata.
Forse in questa luce si spiegano le titubanze, le pressioni, i minuetti istituzionali e i vestalici furoridi questi giorni intorno alla nomina di un direttore per Pompei, che si troverà a dover fare in fretta e a rivedere profondamente il piano stilato due anni fa, già allora inadeguato.
La situazione, si è cercato di spiegare, è assai complessa: Antonio Gramsci, fondatore di questo giornale, ripeteva che a dare la testa contro il muro si rompe la testa e non il muro. Per ora a Pompei i muri continuano a crollare, fenomeno da non sottovalutare: oltre al muro anche la testa può rompersi. Chiedere conferma all’ex ministro per i Beni Culturali Sandro Bondi.

Arnaldo (Bibo) Cecchini
Perché abbiamo ritenuto giusto collaborare con la Giunta Cappellacci
ma oggi siamo contrari al loro PPS

Caro Eddy,

Rispondo alla tua lettera aperta del 7 novembre scorso. Credo, anzi so, di essere uno dei tuoi “ottimi e stimatissimi amici” e sono sempre stato e sono stato un amico di eddyburg che consiglio sempre ai miei studenti come un punto di riferimento irrinunciabile. Ricorderai che lo presentammo ad Alghero ai suoi albori.

Mi fa piacere discutere con te, come abbiamo fatto in tanti anni, trovandoci spesso d’accordo e sempre facendo delle nostre discussioni, occasionalmente anche aspre, un’occasione di crescita e di apprendimento. Ricordo la più ardua, durante la guerra del Kosovo che ci ha visto in dissenso, in due gruppi con posizioni diverse allo IUAV. O la discussione sulla bozza di riforma Martinotti su cui invece eravamo d’accordo. O il fatto che ci siamo alternati come pro-rettori responsabili delle nuove tecnologie allo IUAV, con una grande consonanza di visione. Insomma, oltre ad aver appreso da te e da Indovina il poco che so di urbanistica, sono lieto di essere tuo amico.

Ciò premesso, come hai visto ho, abbiamo noi tutti e quindici, già risposto alla seconda domanda: sono contrario al cosiddetto PPS proposto dalla Giunta regionale in carica, e farò quel che posso per evitare che venga approvato.

La prima, più che una domanda, è una rilevante questione.

Come forse ricorderai sin da “bambino” non credevo alla neutralità della scienza (sono laureato in Fisica e il mio primo scritto si intitolava “Un mitra è una mitra e la meccanica quantistica è la meccanica quantistica”, un samizdat che ha circolato molto a Preganziol, prima che tu arrivassi). Posso non dilungarmi su quel che so, sappiamo, essere ovvio? Vengo alla questione.

I dirigenti dell’Assessorato all’Urbanistica della Regione Sardegna ci hanno chiesto (non so a chi altro, ad esempio non sapevo che avessero chiesto anche a te) se potevamo essere interessati a condurre un processo teso a presentare e a discutere con tutti gli attori sociali, economici e istituzionali il PPR della Sardegna (quello che tu hai, con altri tra cui il nostro Preside di allora Vanni Maciocco, pensato ed elaborato), a evidenziarne possibili criticità, a indicare modalità di coinvolgimento degli attori pubblici locali (Comuni e Province) nella sua applicazione e nella costruzione di progettualità.

Io non ero allora Preside, ma dirigevo un laboratorio che si occupa (anche) di partecipazione (so che abbiamo una grande consonanza su questo, dall’epoca in cui abbiamo seguito delle Tesi di Laurea insieme sull’argomento) e la richiesta è pervenuta all’amica e collega Alessandra Casu, che tu conosci bene e sulla cui serietà, rettitudine, onestà e rigore non è permesso a nessuna persona perbene di dubitare; Alessandra ha assunto la direzione del processo.

Posso pensare che una delle ragioni della richiesta fosse che avevamo condotto un processo di condivisione e di conoscenza del PPR per decine di amministratori, funzionari e tecnici, un’attività di formazione voluta dalla Giunta Soru, chiamato ITACA e il cui laboratorio finale, svoltosi a Barcelona aveva come titolo Nuove Idee per la Sardegna: quel laboratorio era stato ideato e guidato da me, dalla collega Casu e dal collega Plaisant,.

Abbiamo deciso di manifestare il nostro interesse perché l’obiettivo dichiarato era quello che ho descritto e perché noi siamo un’istituzione che ha il dovere di cooperare - in piena autonomia e con rigore scientifico e trasparenza - con altre istituzioni pubbliche (succedeva allo IUAV ad esempio con la Regione Veneto).

Il processo è stato condotto con grande rigore (anche se i tempi previsti sono stati tagliati) e con la massima trasparenza: Alessandra potrà darti i dettagli, in un suo intervento nel merito del processo cui io ho partecipato pochissimo.

Le conclusioni erano, e non era scontato (come sai il Presidente Soru per cui ho votato due volte, è stato impallinato dai “suoi” in Consiglio Regionale, fatto che ha portato alle seconde elezioni, quelle perse), di difesa del PPR, con pochi e circostanziati suggerimenti, molto ragionevoli; ne cito alcuni: attenzione a costruire rapporti definiti fra i vari livelli istituzionali, formazione del personale e dei tecnici – come era stato nel grande progetto ITACA – sostegno alla pianificazione e alla progettazione dei Comuni (io li ho chiamati gli “urbanisti dei piedi scalzi”), estensione del Piano alle zone interne linee-guida chiare e usabili.

Tu dirai: “ma siete così ingenui da pensare che, nonostante un lavoro serio e ben fatto, Cappellacci non ne avrebbe approfittato per strumentalizzarlo e manipolarlo?”. La risposta è no, non sono ingenuo. Ma – in ogni occasione – abbiamo chiarito, precisato e argomentato; alcuni pensano persino che – proprio perché il lavoro era serio e non manipolabile – sia stato per molto tempo un argine contro lo stravolgimento del PPR.

Non credo che il nostro lavoro di urbanisti sia neutrale (come dice il comune amico Indovina: l’urbanistica è “scelta politica tecnicamente assistita”), credo che si possa farlo con onestà e chiarezza, credo che non sia opportuno - se non in casi estremi – rifiutare la collaborazione tra istituzioni, all’unica condizione di perseguire l’interesse pubblico con chiarezza e onestà.

Spero di aver chiarito la nostra posizione. Mi fermo qui. Grazie dell’opportunità. Un abbraccio.

P.S.
Una nota metodologica. Il mio costume è, quando scrivo un articolo o rilascio un’intervista ai media online che consentono commenti, di non commentare i commenti. C’è uno statuto diverso tra queste due modalità di intervento, per questo non mi permetto di commentare mai su un mio “pezzo”, se non sul mio personale blog, che – essendo casa mia – governo io. Continuerò così.

Eoardo Salzano
Ti ringrazio, ma il lavoro non è finito qui

Caro Bibo,

prendo atto con piacere della tua (della vostra) opposizione al piano paesaggistico di Cappellacci. Sono particolarmente lieto che la discussione si sia allontanata dal terreno dei riferimenti personali e sia andati al merito delle cose. Ti sono grato della tua ricostruzione dei fatti che – certamente per mia colpa – conoscevo solo in piccola parte. Mantengo peraltro forti dubbi sull’opportunità di collaborazioni tra istituzioni che aderiscono a convinzioni, principi e interessi (diciamo ideologie? non attribuisco alcun significato negativo a questo termine) molto distanti tra loro.

Mi domando: se hai determinati principi e anteponi alcuni interessi su altri, ha senso collaborare con chi esprime principi e serve interessi alternativi ai tuoi, anche se lo fai solo per ridurre il danno di scelte che giudichi sbagliate? Anche se agisci come istituzione pubblica collaborando con un’altra istituzione anch’essa pubblica? Non conta tanto il colore politico, quanto l’atteggiamento di quella istituzione nei confronti del tema del quale sei “esperto”.

Non è una posizione di principio, la mia. Anzi, in linea di principio credo che la collaborazione tra le istituzioni pubbliche sia del tutto opportuna, e anzi necessaria, sia pure con le garanzie necessarie quando si tratta di “poteri” diversamente incardinati. Ma oggi, in Italia, con queste istituzioni permeate da questi poteri? Con questa disparità di condizioni tra quelle infeudate al mondo degli affari e colonizzate dal finanzcapitalismo e quelle cui afferiscono gli intellettuali?

La mia è una posizione che si riferisce all’attuale contesto storico e geografico, e in particolare alla disparità di condizioni tra chi esercita il potere reale (anche attraverso le istituzioni) e il mondo (e le istituzioni) degli intellettuali.

Mi sembra che l’intervento di Marcello Madau, in commento al mio del 7 novembre scorso, ponga la questione in termini molto interessanti. Gli chiederò di affrontare l’argomento in un articolo per eddyburg. sul quale mi piacerebbe che il dibattito si allargasse, e che tu stesso intervenissi di nuovo. Come ti ho scritto sono convinto come Zagrebelsky, che la verità esista e che perciò valga la pena di cercarla, ma so anche che questo lavoro può avere successo solo se è collettivo ed è il risultato di un dialogo a molte voci.

Passando a un altro più specifico argomento mi interessano molto i suggerimenti che, come scrivi, avete dato nel corso del vostro lavoro in merito all’implementazione del Piano di Soru. Se fossi più vispo ti proporrei di organizzare ad Alghero una discussione critica su quel piano e sui suoi limiti, magari a partire dal libro che ho curato (Lezioni di piano: se l’hai letto sai che con questo titolo non si intendeva attribuire la denominazione di “lezione” al mio intervento né al PPR in sé, ma agli insegnamenti che dal suo percorso potevano trarsi). Sono del parere che su quel piano si sia ragionato poco, negli ambiti della cultura specialistica, e che questo non sia un bene.

Per quanto riguarda il PPS di Cappellacci spero che non ci sia bisogno di nostre iniziative, visti l’atteggiamento, per ora fermo, del Mibac e la quantità di magagne formali del tentativo della Regione di cancellare goffamente le tutele. Devo dire che mi sembra un segno non bello dei nostri tempi il fatto che ci si debba così spesso affidare alla magistratura, solo perché la cultura e la politica tacciono. Se invece le cose cambieranno e il tentativo di Cappellacci dovesse guadagnare terreno e riterrò necessaria una iniziativa pubblica da parte degli intellettuali e dei cittadini, ti (vi) chiederò di aderire in ambedue i ruoli.

Un abbraccio, a te e ad Alessandra
eddy

Il manifesto, 10 novembre 2013

Il ministero per i beni culturali (Mibac) va verso l'impugnazione del piano del paesaggio con il quale la giunta sarda di centrodestra vorrebbe demolire la legislazione approvata nel 2006 dal governo regionale guidato da Renato Soru. Con una lettera pubblicata l'altro ieri sul quotidiano La Stampa il sottosegretario ai beni culturali, Ilaria Borletti Buitoni, ha invitato il presidente Ugo Cappellacci (Pdl) a sospendere la delibera approvata nei giorni scorsi dal consiglio regionale. In caso contrario, sarebbe inevitabile un doppio ricorso del governo Letta contro la giunta sarda: uno alla Corte costituzionale e un altro, amministrativo, davanti al Tar.

«Il presidente della regione Cappellacci - scrive Borletti Buitoni nella lettera - ha dichiarato guerra alla soprintendenza ai beni culturali della Sardegna e sta rapidamente consegnando l'isola a una visione che prevede un aumento gigantesco e capillare di costruzioni, visione di cui si vedono già i primi effetti. La scusa di chi sostiene questo progetto è sempre la solita: con la gravissima crisi economica, che in particolare in Sardegna sta uccidendo l'economia, non si può certo rinunciare all'opportunità di uno sviluppo almeno nel settore dell'edilizia. Dissento da questa affermazione, perché è ben vero il temporaneo sollievo che la riattivazione dell'industria delle costruzioni può portare alla disoccupazione tragica dell'isola, ma è altrettanto vero che, sulla media e lunga distanza, la distruzione del paesaggio toglierebbe alla Sardegna la sua eccezionalità, che, se valorizzata, sarebbe un volano di sviluppo a lungo termine. I ricchi russi, che pure decapitano senza problemi una collina per costruire in patria la propria casa, non ci metteranno nulla a transumare altrove quando in Sardegna si troveranno intorno non più un mare circondato da una natura incontaminata ma coste devastate dal cemento. E allora rimarrebbe solo la disperazione di aver consegnato luoghi unici a un modello di sviluppo sbagliato e poco lungimirante, che invece di portare benessere ha portato alla perdita di un patrimonio collettivo unico al mondo».

Alla lettera del sottosegretario ha replicato il capogruppo Pdl in consiglio regionale, Pietro Pittalis, con parole che, oltre a essere una perla di «pensiero berlusconiano», denunciano insieme il nervosismo della giunta di centrodestra e la debolezza della sua posizione in termini strettamente giuridici: «Sono stanco delle lezioncine di baronetti radical chic difensori dell'ambientalismo ipocrita. Invitiamo il sottosegretario Borletti Buitoni ad abbandonare un atteggiamento supponente e prevenuto, incompatibile con il ruolo che riveste. La invitiamo a cessare i suoi aristocratici modi sprezzanti verso chi, al contrario di lei, è stato eletto dal popolo». Facile, per Borletti Buitoni, replicare - questa volta non con una lettera ma con una nota ufficiale del Mibac - ricordando a Pittalis e a Cappellacci che essere eletti dal popolo non autorizza nessuno a violare le leggi, nel caso specifico il Codice dei beni culturali e la Costituzione. Per il sottosegretario una sospensiva del nuovo piano del paesaggio voluto dal centrodestra è necessaria «anche per evitare la coesistenza di due norme, il piano paesaggistico regionale del 2006 e quello attuale, dissonanti tra loro». «Inoltre - argomenta nella nota l'esponente del governo - se è vero che la Regione Sardegna gode di autonomia sulla procedura di redazione del piano, più sentenze della Corte costituzionale hanno dichiarato illegittime norme regionali che si ponevano in contrasto con disposizioni previste dal Codice dei beni culturali, a partire dall'articolo 135, che al comma 1 dispone che la pianificazione paesaggistica sia effettuata congiuntamente tra ministero e regioni». «Al contrario del presidente Cappellacci - conclude la nota del sottosegretario - io non sono in campagna elettorale e dunque mi è più facile guardare ai problemi dal punto di vista amministrativo e generale, dal punto di vista del bene comune inteso come cosa pubblica. Al netto delle fantasiose definizioni che sono state usate nei miei confronti, il vero punto in discussione sono i poteri dello stato e il loro interno equilibrio».

L'Unità, 9 novembre 2013Il dramma di Pompei rischia, come spesso accade in Italia, di trasformarsi in commedia e peggio. Ci sono i mezzi finanziari provenienti dall’Europa, ma se ne vogliono convogliare altri, privati, italiani e stranieri, e per questo si ritiene che la persona più adatta a gestire questa cornucopia non sia un archeologo pur dotato di competenze gestionali (ve ne sono), ma un manager. Come l’ambasciatore Giuseppe Scognamiglio, già consigliere diplomatico di Enrico Letta al tempo in cui era ministro, ed ora vice-presidente di Unicredit. Questa sarebbe la posizione del presidente Letta. Il ministro dei beni culturali, Massimo Bray non pare convinto, teme che un ambasciatore senza competenze specifiche possa non fare decollare il Grande Progetto Pompei previsto dal peraltro discusso decreto Valore e Cultura.

E’ intervenuto Salvatore Settis archeologo e, fra le altre cose, direttore per anni del Getty Research Institute, a perorare la nomina di un archeologo che abbia cultura gestionale. Il Mattino di Napoli ha messo in campo adeguate artiglierie per smantellare la tesi di Settis e sostenere invece la necessità assoluta di nominare subito un manager alla Scognamiglio. Pochi ricordano ormai che la Soprintendenza speciale di Pompei fu creata, assieme a quella di Roma, anni fa (ministro dei Bc, Walter Veltroni) con un soprintendente archeologo e un city manager. La diarchia non ha funzionato, anche perché, dopo una certa data, si sono nominati generali dei carabinieri (più utili se applicati alla lotta alla camorra che controlla la zona, Pompei inclusa) o addirittura commissari di nessuna cultura archeologica (tantomeno pompeiana) sulla base di una “emergenza” proclamata dalla Protezione civile di Bertolaso e poi seccamente negata dalla Corte dei conti. Quest’ultima, esaminati i documenti dell’«emergenza» soltanto alla scadenza del mandato di Marcello Fiori, ha emesso un giudizio «postumo» dei più negativi. L’intera gestione commissariale tra il 2008 e il 2010, ha scritto infatti la Corte, «non sembra rispondere all’esigenza di tutelare l’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dai danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi o da altri grandi eventi, che determinino situazioni di grave rischio». Somme ingenti finirono in un “restauro” raggelante del teatro romano, un tempo di tufo e marmo, ora di cemento, altre in musei virtuali, in piste ciclabili e via pedalando fra le rovine.

Rovine bisognose di attenzioni specialissime – come Stabia ed Ercolano – perché le “insulae” e i mosaici, gli affreschi contenuti nella varie dimore sono stati per un paio di millenni sotto una coltre di pomice senza conoscere quindi le mutazioni e le avversità climatiche. A differenza dell’archeologia in parte interrata, in parte no, di aree archeologiche paragonabili per vastità (Ostia Antica, per esempio). Molto, troppo forse si è scavato a Pompei anche perché la camorra scoprì decenni fa il business della pomice. Inoltre negli anni 50 si sono operati “restauri” con materiali cementizi che hanno peggiorato lo stato complessivo di conservazione dei manufatti, soprattutto davanti all’intensificarsi di piogge improvvise e violentissime. Ad imporsi oggi non è tanto un discorso di quantità, di provvista finanziaria, quanto di qualità tecnico-scientifica degli interventi, della loro programmazione, delle priorità da stabilire. Cosa c’entra un manager, di buona cultura bancaria, con tutto ciò? Nella vicina Ercolano le cose vanno assai meglio che a Pompei perché il flusso regolare dei finanziamenti è stato assicurato da un mecenate americano che non vuole “ritorni” pubblicitari e il piano dei lavori è stato definito e attuato dalla Soprintendenza. O no? E a Roma stessa, schivato il rischio di Bertolaso commissario, i lavori non sono andati a buon fine con Proietti e con Cecchi, due tecnici?

Ma i sostenitori della managerialità (gli stessi che parlano del “nostro petrolio”) non si rassegnano facilmente. Hanno applaudito l’arrivo al Collegio romano di un manager, Mario Resca, il quale veniva da aziende importanti nel loro ramo: McDonalds’, il Casino di Campione, o Finbieticola. Doveva “valorizzare” i beni culturali nazionali. Ha combinato qualcosa? A guardare le pubblicità “valorizzatrici” che ci sollecitavano a correre a vedere il Colosseo o il Cenacolo di Leonardo prima che ce li portassero via, pare proprio di no. Per non parlare del rinnovo delle concessioni dei servizi aggiuntivi dove le convenzioni approntate da Resca sono state mitragliate di ricorsi al Tar e giacciono al suolo inanimate (e prorogate). Se questi sono i manager della cultura, aridàtece er Soprintendente. Che sia bravo, certo. E che abbia gli strumenti per snellire le operazioni programmate con rigore scientifico oltre che finanziario.

eddyburg. Una informazione e un paio di domande in una lettera aperta

Su eddyburg si è aperto un vivace dibattito non tanto sul nuovo “piano paesaggistico dei sardi” della giunta Cappellacci quanto sul fatto che un gruppo di docenti e ricercatori della Facoltà di architettura di Alghero, alcuni dei quali miei ottimi e stimatissimi amici, abbiano partecipato all’iniziativa, denominata “Sardegna nuove idee”, avviata dalla giunta Cappellacci nel giugno 2011. La discussione è nata in occasione della pubblicazione su eddyburg di due articoli di Sandro Roggio, nei quali si criticava il fatto che quel gruppo di esperti avesse accettato di contribuire all’iniziativa dell’attuale presidente della Regione. Gli esperti si sono sentiti offesi dalle parole di Roggio, hanno chiesto spiegazioni, Roggio le ha date come ha creduto necessario e il dibattito è proseguito. Chi volesse seguirlo può andare in fondo agli articoli di Roggio e Alfredo Franchini pubblicati sulla Nuova Sardegna il 27 settembre scorso, cui ho dato il titolo “il Pinocchio dei sardi fa ancora il misterioso”. Chi è interessato all’argomento veda anche i commenti agli articoli di Marcello Madau e Costantino Cossu, sul manifesto del settembre, raccolti su eddyburg col titolo "Sardegna tra cemento e buche ”. Intervengo sull’argomento non solo per segnalare la discussione aperta (in un luogo, ahimè, un po’ nascosto). Non intervengo qui nel merito di quel dibattito ma per fornire un’informazione e per porre agli amici di Alghero due domande.

L’informazione


Anche a me l’amministrazione regionale aveva chiesto di partecipare all’iniziativa “Sardegna nuove idee”, ma avevo rifiutato per due ragioni tra loro strettamente legate. Perché avevo collaborato alla redazione del piano paesaggistico della Giunta Soru, ancora vigente dal 2006, condividendone in pieno l’ispirazione culturale e politica, le motivazioni, e la massima parte delle scelte di merito (chi fosse interessato ad approfondire le ragioni della mia scelta e le mie posizioni di merito può leggere al mio antico scritto “La filosofia del Piano" del 2006, oppure al libro collettaneo Lezione di piano, ( 2013, Corte del fçntego editore)). L’altra e conseguente ragione era che ero nettamente contrario alle scelte della Giunta Cappellacci (in merito alla società, alla cultura, all’economia, alla politica in Italia e in Sardegna). L’aver vissuto per quasi mezzo secolo la politica dei partiti e quella della società civile, come quella delle istituzioni culturali mi ha certamente aiutato a comprendere che quell’invito, e quella iniziativa, altro non erano che il tentativo di coprire sotto il manto del consenso culturale una operazione di ulteriore devastazione fisica, sociale, culturale e morale della Sardegna. Del resto, quelle della Giunta Cappellacci non erano stare solo dichiarazioni elettoralistiche, cattive intenzioni che saggi consiglieri potevano sperare di correggere. Nella realtà la maggioranza guidata da Cappellacci aveva cominciato a cancellare subito le tutele del PPS di Soru con le leggi per i campi da golf (2009) e per il “piano casa” (2011), entrambi pesantemente derogatori del PPR. Non dubito che dalle discussioni che si sono sviste attorno ai tavoli del progetto “Nuove idee per la Sardegna siano venuti contributi scientifici interessanti. Ma per me, come per Leonardo Benevolo “l’urbanistica è una parte della politica” credo fermamente nella inscindibilità delle tre componenti della città, (urbs, civitas, polis) e quindi non potevo chiudere gli occhi dinnanzi alle conseguenze politiche delle azioni cui, come urbanista, collaboro.

Due domande

Ecco allora la prima domanda che vorrei rivolgere agli amici di Alghero: che cosa non condividete di questa mia posizione, in che cosa la ritenete errata, o comunque non condivisibile né, nei fatti, condivisa? La loro risposta a questa domanda mi interessa molto, soprattutto sul piano personale. Ma poi, come cittadino e amante della bellezza e della storia e nemico di ogni mercificazione dei patrimoni comuni, mi interessa moltissimo la loro risposta alla seconda domanda. Che giudizio danno i miei amici di Alghero sul Piano paesaggistico dei sardi” licenziato dalla Giunta Cappellacci?

In trepida attesa, attendo la loro risposta.

Corriere della Sera, 6 novembre 2013

Avete mai visto una rivolta di cacciatori in difesa del guardiacaccia? È un po’ quanto sta succedendo a Siracusa dove non accenna a calare il polverone sollevato da un manipolo di costruttori edili, architetti, geometri in difesa del vecchio sovrintendente rimosso dall’assessore ai beni culturali Maria Rita Sgarlata. Ma come, direte, i sovrintendenti non sono forse invisi a tutti coloro che hanno che fare con il cemento perché di solito si mettono di traverso alle betoniere? E non hanno forse dalla loro parte gli ambientalisti?

Macché: nella città di Dionisio va a rovescio. Contro il vecchio sovrintendente Orazio Micali, infatti, si erano schierati un po’ tutti i difensori del patrimonio artistico, paesaggistico e culturale con una lettera firmata da 16 associazioni: da Italia nostra a SOS Siracusa, dall’Archeoclub d’Italia al Circolo Legambiente, dall’Associazione Koinè al Comitato per il Parco delle Mura Dionigiane e così via… Un fronte impossibile da etichettare politicamente perché teneva dentro uomini di destra come Enzo Maiorca e Fabio Granata e della sinistra vicini a Sel.

Tutti uniti nel chiedere la revoca di Micali accusato di esser di manica troppo larga nei confronti del cemento. Ma soprattutto di avere bloccato, dopo che finalmente era stata conclusa la perimetrazione attesa da decenni, l’iter di istituzione del Parco Archeologico di Siracusa. Parco che finalmente impedirebbe di edificare all’interno della cinta delle Mura Dionigiane e in particolare sui fianchi dell’Epipoli dove sorge il grandioso Castello Eurialo. Direte: ma non era già protetta, l’area? Mica tanto, se è vero che le sovrintendenti all’archeologia e al paesaggio Rosa Lanteri e Alessandra Trigilia si erano addirittura viste chiedere 100 milioni di danni per avere bloccato la costruzione sul pianoro dell’Epipoli di 71 villette e due centri direzionali. Intimidazione bocciata dai giudici: le funzionarie hanno applicato la legge.

Dall’altra parte gli «operatori del mattone», chiamiamoli così, dipingono Micali con parole di sperticato elogio: «un ottimo Sovrintendente, “titolato per laurea conseguita” ed in grado di assolvere, con equilibrio, al proprio ruolo di gestione e salvaguardia del territorio, in un momento di forte disagio e difficoltà per la nostra comunità» e capace di «ben continuare a lavorare per una gestione seria, proficua e serena dei suoi Uffici». Va da sé che la decisione della Sgarlata di rimuovere il sovrintendente (nel quadro di una rivoluzione di quasi tutti i dirigenti isolani) sostituendolo con l’archeologa Beatrice Basile è stata accolta come fumo negli occhi. Sit-in in piazza, mozioni di protesta, interrogazioni parlamentari, richieste di dimissioni dell’assessore… E si torna sempre alla denuncia di «Unesco alla siciliana», dove Legambiente ironizza su chi pretende insieme di avere il bollino di «sito Unesco» (che Siracusa ha) ma senza gli impicci di ogni vincolo di tutela che «blocca lo sviluppo» e «sa solo mummificare!»

L'archistar – intervistato da Teresa Monestiroli - sviluppa a modo suo il tema della densità, da molti anche coerentemente accoppiato a quello della sostenibilità: lui fa il suo mestiere, e noi? La Repubblica Milano, 6 novembre 2013, postilla (f.b.)

«Se Milano vuole crescere in maniera intelligente, deve farlo sviluppandosi su se stessa, in altezza. Le grandi città hanno solo due strade per crescere: espandersi in orizzontale o salire in verticale. La seconda è l’unica sostenibile ». Cesar Pelli, architetto argentino trapiantato negli Stati Uniti che a Milano firma per Hines il masterplan di Porta Nuova e la torre di Unicredit, apre oggi il ciclo di incontri “MI/arch” organizzato dal Politecnico in occasione dei suoi 150 anni. La sua lezione (in Triennale alle 18) partirà dal progetto di Porta Nuova per estendere la riflessione su Milano, città che l’architetto ultraottantenne famoso per le torri costruite in tutto il mondo (tra cui le Petronas Tower in Malaysia) ama in particolare, «perché sembra molto vivibile. Firenze e Venezia sono sicuramente più interessanti da visitare per un turista, ma se dovessi vivere in Italia non avrei dubbi: sceglierei Milano, unica città del XXI secolo».

Si riferisce ai grandi progetti di trasformazione urbana degli ultimi anni?«Da quando frequento Milano per il progetto di Porta Nuova ho visto la città cambiare in meglio, soprattutto le aree intorno a Garibaldi. Questo è un sintomo di grande vitalità».

Eppure gli interventi urbanistici più importanti, da Porta Nuova a Citylife, hanno sollevato diverse polemiche, generando un acceso dibattito sull’opportunità di costruire grattacieli a Milano.«Essere contrari ai grattacieli significa essere contrari alla crescita. Perché una città che si sviluppa in orizzontale è una città che mangia il territorio circostanze, che ruba aree verdi alla collettività, che costruisce nuove infrastrutture, che aumenta le auto in circolazione. La crescita in verticale è più sostenibile: l’ascensore è il mezzo di trasporto più ecologico che esista».

Anche la sua Unicredit Tower, simbolo della nuova Milano, ha diviso la città. Nonostante sia diventata in fretta parte del tessuto urbano, alcuni critici l’hanno definita “un esempio di manierismo tardomodernistico”.«La sua forma è funzionale alla piazza sottostante. Ho sempre pensato che fosse più importante la parte pubblica di quella privata. In questo caso sono tre edifici che salgono insieme, in maniera circolare, per creare uno spazio pubblico al centro, pensati per delinearlo e in un certo senso difenderlo. Ho aggiunto la spirale per rendere l’edificio un riferimento visibile da ogni punto della città. Quello che amo di più di questa torre è che segna il territorio».

D’altronde è il grattacielo più alto di Milano.«Non è un grattacielo, almeno non secondo la mia accezione, che ammetto non essere condivisa da molti. Un grattacielo è un edificio molto specifico. Prima di tutto deve essere molto più alto degli edifici che lo circondano, poi ha bisogno di avere una linea verticale molto definita, una sorta di retta immaginaria che collega la terra al cielo, che mi piace chiamare “axis mundi”. Il Chrysler di New York è un esempio molto chiaro di questo modello, così come le Petronas Tower. Un vero grattacielo non sarebbe stato appropriato per Porta Nuova».

Perché?«Quello che abbiamo voluto creare non è un punto, ma un piano urbanistico che si connettesse con la città esistente. Avrei potuto concentrare tutte le volumetrie dei tre edifici in una torre sola, più alta, ma non sarebbe stato efficace per il tipo di progetto che stavamo realizzando. Quello che abbiamo creato è molto più fresco e innovativo di un grattacielo».

Fra qualche anno Milano avrà altre tre torri a Citylife firmate da Libeskind, Hadid e Isozaki. Ha visto i progetti? Che cosa ne pensa?«Sono scenografiche, icone dalle forme inusuali pensate soprattutto per finire sui giornali».

Che cosa manca a Milano per essere una grande città europea?«Soprattutto gli spazi all’aperto. Ci sono piazze bellissime usate solamente come luoghi di attraversamento dove nessuno si ferma. Eppure la velocità con cui Milano si è appropriata di piazza Gae Aulenti dimostra la voglia di avere spazi all’aperto da vivere».

postilla
Non è affatto curioso che sia proprio uno di quelli troppo spesso accusati di essere i “colpevoli” di certo degrado urbano, ne denunci uno degli aspetti più vistosi: la carenza e scarsa qualità degli spazi pubblici. Piuttosto è l'accusa contro gli archistar a sbagliare bersaglio: manca un'idea di città forte e condivisa, e la si delega vuoi a questi abili evocatori di immaginario, vuoi ad altri evocatori di mitici passati, tradizioni, sempre sfumati nei toni della nostalgia. Entrambe, idee che poi trovano pochi riscontri nella realtà, da costruirsi invece giorno per giorno, anche ponendone le basi in strategie di lungo periodo. Per esempio, la Milano che tanto piace a Cesar Pelli, quella del quartiere su cui lui e il suo studio hanno avvitato alcuni edifici e spazi (non è vero che abbiano progettato un quartiere, quella è strategia di comunicazione), non si stacca molto dal modello novecentesco in cui il rapporto fra densità e spazio aperto è scandito esclusivamente dalle grandi arterie stradali, anche se nel caso specifico esse vengono molto costosamente scavalcate da verde e percorsi. Ma non è certo scopando la città autocentrica sotto questo mega-tappeto, che si risolve il problema. E neppure delegando qualunque responsabilità alla discrezione di progettisti e costruttori: non è il loro mestiere (f.b.)

trovare unità d’azione? Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2013
La grandiosa Cittadella di Alessandria (estesa su venti ettari) è una delle più importanti testimonianze sopravvissute dell’arte della fortificazione monumentale in età moderna. Candidata a entrare nella lista dei siti Unesco, nel 2012 è arrivata prima nella classifica dei “Luoghi del cuore” promossa dal Fai: sono stati 53.953 i cittadini italiani che l’hanno segnalata. Ed è sui suoi bastioni che, il 10 marzo 1821, ha sventolato per la prima volta il tricolore nazionale.

Nel 2007 la Cittadella è stata ceduta dal ministero della Difesa al Demanio: è dunque tornata alla comunità civile? Manco per sogno, è sprofondata nel più completo degrado. Denunciando il quale degrado, Gian Antonio Stella ha scritto sul Corriere della Sera: “È una questione di scelte: o la manutenzione quotidiana, che forse è noiosa e ripetitiva ma salva i monumenti, oppure l’abbandono in attesa, di anno in anno, di decennio in decennio, di un mega-progetto sbandieratissimo e complicatissimo e costosissimo... Scelte: solo una questione di scelte. Certo, in un Paese che vive di proclami roboanti e di promesse di ponti giganteschi e tunnel fantasmagorici ed Expo planetarie, la quotidiana manutenzione del buon padre di famiglia non porta voti, non porta gloria, non porta titoli sui giornali...”. Era il luglio 2011: dopo oltre due anni siamo ancora a quel punto. Poche settimane fa il Demanio ha esplicitato la propria intenzione di affidare in gestione la Cittadella a un concessionario privato.

Quel che è peggio è che il Comune di Alessandria e le associazioni come il Fai sono state tagliate fuori dalla delicatissima fase di costruzione del bando, tanto che il sindaco Maria Rita Rossa ha dovuto dichiarare che bisognerà “mettere dei paletti per la tutela del Bene e la salvaguardia delle legittime aspettative della cittadinanza alessandrina”. Nelle migliori tradizioni: all’incuria segue la privatizzazione, l’incapacità di chi dovrebbe tutelare l’interesse pubblico fa largo al profitto privato. Non era questo il progetto della Costituzione.


Nella filosofia del Piano Paesaggistico Regionale attualmente vigente, il territorio costiero perimetrato è considerato un bene paesaggistico d’insieme, prefigurando il suo ruolo di “risorsa strategica fondamentale per lo sviluppo sostenibile del territorio sardo, che necessita di pianificazione e gestione integrata” (Titolo I - Assetto ambientale; Art. 19 - Territori costieri, p. 26 Norme T.A.).

Non è un caso che Il Piano vigente si estenda con dettaglio maggiore, almeno inizialmente, al territorio costiero. Infatti, la Regione Sardegna ha definito come punto di partenza del Piano i 27 ambiti di paesaggio costieri (pp. 54-56 Norme T.A., artt. 97, 98: Individuazione degli ambiti di paesaggio, Relazione Tecnica Generale – Allegato alla D.G.R. 59/36 del 13/12/2005 pp. 118-124).

Negli ambiti costieri è predisposta una disciplina particolare perché il Piano nasce con l’idea di affrontare innanzi tutto i problemi dei territori costieri. Con la L.R. n. 8/2004 (c.d. “salvacoste”) i territori costieri sono individuati attraverso una fascia di 2 km, mentre con l’adozione del Piano si passa da uno spazio geometrico ad uno spazio configurato. La particolare fragilità di sistemi dinamici e complessi come gli ambiti costieri, che stentano ad avere capacità spontanee di mantenersi per le trasformazioni rapide che li interessano, in aggiunta alla vacatio legis determinata dall’annullamento dei Piani Territoriali Paesisitici (13 dei quali piani costieri e ad eccezione di quello della Penisola del Sinis), che ha contribuito al forte ritardo con cui i comuni avrebbero dovuto procedere all’adeguamento dei propri strumenti urbanistici ai piani sovraordinati, ha imposto di partire dalla dimensione ambientale per rigenerare metodi e tecniche di delimitazione e di progettazione della città costiera.

La scomparsa del principio cardine della fascia costiera come bene paesaggistico d’insieme e il suo declassamento al più generico “sistema ambientale”, definito come “un contesto territoriale i cui elementi costitutivi sono inscindibilmente interrelati e la preminenza dei valori ambientali è esposta a fattori di rischio”, comporta una perdita di significato per l’elemento cardine su cui il piano si centra, l’ambito di paesaggio, una figura spaziale riconosciuta come omogenea, il luogo del progetto unitario, dove le parti sono in relazione col tutto. In particolare, i 27 ambiti di paesaggio costieri sono delineati considerando processi che riguardano fattori climatici, esposizione, geografia, natura geologica e fitosociologica, ecc. e non riducendo il limite tra terra e acqua un mero fatto di distanze metriche, anche se – come si legge nell’art. 16 della proposta di modifica, si tratta pur sempre di “aree tutelate per legge”, attraverso “una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia” per i territori costieri, come recita la parte III del D. Lgs. 42/2004 - Art. 142 lett. a - Aree tutelate per legge del Codice Urbani, che a sua volta la recepisce dal vincolo paesaggistico (il c.d. “Galassino”) ex L. 431/85.

Fin qui tutto a posto, tranne che allora indici e parametri per la pianificazione di natura spaziale occorrevano perché fungessero da strumento di controllo nella realizzazione del piano. Se si perdesse il carattere unificante dato dal considerare la fascia costiera nella sua continuità e unitarietà come bene paesaggistico, torneremo indietro di quasi trent’anni: dalla tutela dei processi a quella degli oggetti, perché tutti gli elementi fondanti che mettono in relazione ecosistemi marini e terrestri (campi dunari e compendi sabbiosi, zone umide costiere, ecc.), ritornano ad essere oggetto di tutela individuale e non integrata rispetto ai processi unitari che regolano gli ecosistemi. È altresì indicativa la scomparsa delle “Praterie di posidonia” dai beni paesaggistici (Titolo I, Art. 11 - Assetto ambientale. Generalità ed individuazione dei beni paesaggistici), la biocenosi più importante per la biodiversità marina, sostituite allo stesso comma l dal più imponente “i vulcani” (quelli spenti del Meilogu?).

Per concludere, si impongono due ordini di ragionamento, utili anche alla redazione dei PUL, il primo che riguarda la dimensione ambientale, il secondo la dimensione collettiva dei nostri territori costieri:

a) il territorio costiero è quello in cui sono significativi i rapporti di interfaccia tra terra e mare – sotto l’aspetto ambientale e secondo diverse articolazioni (è assolutamente fondamentale la geomorfologia, fino ad arrivare alla fito-sociologia, il clima con l’influenza dell’aerosol marino, ecc.). Pertanto, i criteri di delimitazione dei territori costieri sono e devono essere soprattutto ambientali e non è un caso che i territori costieri siano riportati nell’assetto ambientale del Piano.

b) La dimensione collettiva dei territori costieri ci impone di riflettere, in modo coerente con le istanze e le aspettative degli abitanti dei territori costieri, o di coloro che con essi si rapportano, riconoscendo l’importanza dell’apporto collettivo al progetto dell’ambito di paesaggio nell’insieme, dove tutti i territori riconoscono e considerano l’ambito costiero come centro fondamentale della loro organizzazione.



[1]Alessandro Plaisant è docente di Urbanistica nel Dipartimento di Architettura,Design e Urbanistica di Alghero.

Il manifesto, 2 novembre 2013

Ugo Cappellacci, con la spregiudicatezza tipica del suo partito e del suo 'principale' rispetto alla legge, ha promulgato le variazioni al piano paesaggistico della precedente giunta regionale guidata da Renato Soru (piano coordinato da Edoardo Salzano, a capo di una qualificata equipe di studiosi, ricercatori ed esperti). Inaugurando così una campagna elettorale per le prossime elezioni regionali della Sardegna che si preannuncia movimentata. Lo ha chiamato Pps, Piano paesaggistico sardo.

Una fretta calcolata, che deve aver messo in conto la tensione - da giocare come anelito sovranista - con le istituzioni statali. Rotta la copianificazione con il ministero dei Beni e delle Attività Culturali. Ecco la prima riserva giuridica, di rilievo, subito espressa da un duro comunicato della direzione regionale sarda del ministero. Con altri limiti di 'legalità' che appaiono in questo complesso provvedimento.

Il governatore si atteggia a difensore dell'identità preparando il territorio a investimenti speculativi, partendo da golf, cubature ed emiri. Se la prende con lo Stato ignorandone le leggi; dice che sono ingiuste e pensa al vero obiettivo: agli interessi economici che vengono favoriti e al blocco sociale per le prossime elezioni. D'altronde era a Roma qualche giorno fa nel gruppo dei venticinque berlusconiani che preparava la resa dei conti con i cosiddetti dissidenti e la nuova Forza Italia: un nome che svela la natura del suo sovranismo.

Le ragioni elettorali di questo strappo sono evidenti, assieme all'apertura alla speculazione secondo la vecchia e sicura forma dell'edilizia. Lo confermano queste ore, con la rassicurazione data ai sindaci della Gallura di poter lavorare con meno vincoli e più prospettive. Si scarica così una gigantesca confusione sulla gran parte dei piani urbanistici ancora da approvare, molti predisposti secondo le precedenti norme e regole.

L'azione di modifica del Piano paesaggistico regionale è per certi versi lineare. Vi sono inseriti il «piano casa» e il «piano golf», sotto giudizio della Corte Costituzionale, che permettono - il primo con la possibilità di aggiungere volumetrie, il secondo con il suo regime particolare - di aggirare i trecento metri dalla linea di costa. Ad essa va aggiunta la recente legge sugli «usi civici», approvata in modo bipartisan, che prepara - in forte tensione con le norme nazionali sui terreni sottoposti a usi civici (legge 42/2004, articolo 142, 1h) - nuove possibilità speculative, e la velleitaria ma significativa, per logica e interessi, proposta della zona franca.

Nel consultare la copiosa documentazione che appare ora dopo ora nel sito della Regione autonoma della Sardegna si colgono l'idea di non considerare - dandogli il fuorviante e ampolloso riconoscimento di «sistema ambientale ad alta densità di tutela» - la fascia costiera come bene paesaggistico («Linee Guida», p. 70), valutando contestualmente, volta per volta, le operazioni da compiere. Anche per i corsi d'acqua vi è il sospetto di una percezione arbitraria del valore paesaggistico rispetto a quanto indicato nel decreto legislativo 42/2004 (come sottolinea il gruppo di intervento giuridico) oppure nei centri storici, dove nei «centri di prima e antica formazione», normalmente tutelati di per sé e con severissimi limiti di edificabilità, si introduce una distinzione «in base alle caratteristiche di notevole valore paesaggistico» preludio ad autorizzazioni edificatrici («Sintesi non tecnica», punto 7, p. 9). O, ancora, il pesante depotenziamento dei beni identitari, sino al silenzio, almeno così mi appare, sul fatto che continuino le procedure tramite il sistema di catalogazione già predisposto, il database 'mosaico' e relativo tracciato: pesante in alcuni aspetti ma legato a standard scientifici e di tutela solidi e forse per questo malvisti.

Credo sia importante avversare questa azione del governatore Cappellacci, anche per i non sardi: non si tratta solo di un'azione di evidente significato e peso nazionale, ma anche di impedire che in un'area che ospita il sogno di uno sviluppo diverso e possibile, con ruolo centrale di cultura e paesaggio tutelato, tale prospettiva si spenga.

La semplice lettura critica e politica di questa operazione, dal punto di vista del territorio e del paesaggio, necessita di un quadro di lettura più adeguato alla situazione che oggi muove i nostri territori e il pianeta; che innovi il sistema di tutela costruendo - come propongono diversi giuristi e movimenti che animano la «Costituente dei beni comuni», in sviluppo alle proposte della «Commissione Rodotà» fra il 2007 e il 2008 - nuovi orizzonti per il territorio.

Un secolo di evoluzione giuridica ha condotto a importanti momenti di unitarietà nella lettura di cultura e paesaggio, in interazione virtuosa con le normative urbanistiche. Ma le forze sono inadeguate, il ministero si scioglie, le forme obsolete, gli attacchi si moltiplicano. Forse la soluzione è davvero in un nuovo sistema che parta dalle comunità - entro grandi leggi quadro - e costruisca il governo dei territorio con nuovi assetti giuridici di tutela in grado di recepire qualità culturale e operativa dei beni comuni.

In Sardegna il Piano paesaggistico sardo del proconsole berlusconiano completa un attacco a una Sardegna preda di ripetuti tentativi di impianti energetici di ogni tipo, di sperimentazioni di cosiddetta chimica verde autorizzate a chi dovrebbe essere obbligato alle bonifiche, come l'Eni a Porto Torres, di profonde trivellazioni in aree di grande pregio paesaggistico e agrario come cerca di fare la potente Saras ad Arborea, di campi da golf e edifici proposti nella splendida costa di Bosa da Condotte. Centinaia di movimenti si oppongono a questo sistema, che ha non di rado l'appoggio comune di Pd e Pdl e spesso coincide con lo Stato. Si moltiplicano i ricorsi.

Il territorio, con evidenza principale mezzo di produzione, è il vero centro della politica. Ma le azioni sono più veloci dei cambiamenti attesi, delle possibili difese e dei progetti alternativi. Ci auguriamo che il ministro dei Beni e delle Attività culturali ripristini intanto la legalità pesantemente violata dalla promulgazione del Piano paesaggistico sardo.

Zona franca e meno tasse,
Cappellacci punta alla rielezione
di Costantino Cossu

Il presidente accusa Soru di complotto: «Con un'intervista al 'manifesto', ha chiesto a Bray di fermare il nuovo piano paesaggistico»

Il prossimo anno, a febbraio o al più tardi in primavera, in Sardegna si vota per il rinnovo del consiglio regionale. La campagna elettorale è già cominciata e il presidente in carica, Ugo Cappellacci, Pdl, punta a farsi ricandidare dal suo partito. La volata Cappellacci l'ha lanciata da più di un anno, puntando su due temi: l'istituzione di una zona franca integrale su tutto il territorio dell'isola e la revisione del piano di tutela del paesaggio approvato nel 2006 dalla giunta guidata da Renato Soru. Meno tasse e più cemento, insomma: slogan perfetto per pescare voti nel bacino elettorale del centrodestra.

La zona franca significherebbe che le imprese che operano in Sardegna possono usufruire di un regime fiscale di vantaggio. Cappellacci presenta la proposta come un toccasana destinato a curare tutti i mali di un'economia regionale esausta, in alcuni settori prossima al collasso. Fa finta di non sapere, il presidente Pdl, che in tutte le realtà europee in cui questa soluzione è stata adottata non ha risolto alcun problema. Ridurre, infatti, alcuni costi aziendali (che siano tasse o salari, concettualmente la questione non cambia) senza tenere presente che la complessità dei mercati pone un problema di ridefinizione complessiva dell'offerta soprattutto in termini di valore aggiunto di innovazione dei prodotti, significa andare incontro a cocenti delusioni. Ad esempio, ridurre le tasse alle imprese edilizie sarde che operano in un mercato ristretto all'isola e ormai più che saturo - oltre che rigido quanti pochi altri sul terreno dell'innovazione di prodotto - significa solo fare demagogia. Ed esattamente ciò che fa Cappellacci: gli basta dire che saranno ridotte le tasse. Questa è la bandiera da agitare in campagna elettorale.

L'altro drappo glorioso sventolato dal presidente della regione Sardegna è grigio color cemento. La revisione-demolizione del piano del paesaggio approvato nel 2006 punta essenzialmente a rilanciare l'industria del mattone lungo le coste. Obiettivo per raggiungere il quale viene abolita la tutela integrale del litorale: in alcune zone i vincoli restano, in altre, molte altre, no. Ma secondo il Codice Urbani, che detta le regole in materia urbanistica e di tutela del paesaggio, Cappellacci questa cosa non la può fare da solo. Esiste infatti, dice il Codice, un obbligo di copianificazione: a decidere sono, insieme, le regioni e lo stato. Cappellacci però fa finta di non saperlo e dice che in materia di paesaggio la competenza esclusiva è delle regioni. E siccome dal ministero dei beni culturali, tre giorni fa, con una nota molto secca gli hanno ricordato che senza la firma del ministro Massimo Bray qualunque delibera regionale di modifica del piano del paesaggio voluto da Soru è da considerarsi carta straccia, il presidente prima ha gridato all'attentato contro l'autonomia della Sardegna, sancita come speciale dalla Costituzione, e poi, vedendo che l'argomento era debole (il Codice Urbani parla chiarissimo), s'è inventato una bella teoria del complotto: «Con i tecnici della Direzione regionale per i beni culturali tutto - ha detto - è filato liscio sino a maggio di quest'anno.

I problemi sono nati quando, a quella data, il ministro Lorenzo Ornaghi è stato sostituito da Bray». Ed è stato Soru, secondo Cappellacci, a mettergli contro Bray. Come? Sentite il presidente: «Il 7 settembre l'ex governatore Renato Soru, con un'intervista concessa al quotidiano il manifesto, ha chiesto a Bray di fermare il nuovo piano paesaggistico». Insomma, Bray s'è messo di traverso non per rispetto della legge, il Codice Urbani, ma perché glielo ha chiesto Soru attraverso il manifesto. Un complotto. Per tutta risposta, dal ministero e dalla direzione regionale dei beni culturali è arrivato uno sonoro ceffone: «Il presunto problema politico indicato dal presidente Cappellacci come causa del rallentamento dei lavori per l'adeguamento del Piano paesaggistico non esiste. Tutta la nostra azione è stata esclusivamente indirizzata da un' ottica di massima attenzione alla tutela del territorio, e se i lavori di copianificazione hanno registrato momenti di criticità ciò è avvenuto quando le proposte della regione sono risultate non in linea con la richiamata esigenza di tutela del territorio, e quindi non condivisibili».

Dichiarazione subito seguita dalle parole di Soru: «Cappellacci si rassegni: il piano paesaggistico del 2006 è entrato nella coscienza ambientale dell'Italia e dell'Europa. Non riuscirà a cancellarlo».

«Il disprezzo di chi sta bene verso chi soffre è sintomo di una cieca negazione della violenza della crisi economica e delle incapacità politiche di affrontarla. Ignorare o criminalizzare non servirà a nulla». Il fatto quotidiano, "Blog di Barbara Collevecchio", 31 ottobre 2013

Cos’è un essere umano senza il diritto ad una casa? Psicologicamente è ridotto ad uno zero, senza dignità, senza diritti, senza la possibilità di un riparo, prima fisico, poi psicologico. Come si può buttare per strada ragazze madri, disoccupati, anziani, famiglie? Qui c’è una mappa degli stabili abbandonati di Roma, chi rivendica il diritto ad abitare e a vivere una vita dignitosa è un criminale o è criminale una politica che umilia e rinnega i bisogni primari di un essere umano? Da dove parte questo movimento popolare che chiede le basi minime per vivere da essere umano? Il Coordinamento Cittadino di lotta per la casa è il primo movimento autorganizzato sul diritto alla casa che nasce a Roma.

È dal Dopo il 1996 il Coordinamento lancia la battaglia per il riconoscimento dello “stato di emergenza” nella città di Roma e da quel momento inizia una nuova dura fase di lotta che porta, nel settembre 1999, alla prima ratifica del “Protocollo sull’emergenza abitativa” che a Roma prevede 170 miliardi di vecchie lire per gli acquisti di nuove case popolari e in più i finanziamenti per altri sei progetti di autorecupero ed altri interventi in alcune periferie romane. I tempi di approvazione e di attuazione sono però infiniti e l’emergenza è cresciuta fino ad esplodere. La Conferenza Stato/Regioni/Province/Comuni, convocata dal Governo Letta per il 31 ottobre con l’obiettivo di definire un decreto sulle politiche abitative, ha avuto un prologo decisamente insoddisfacente nell’incontro tra i movimenti sociali e il ministro Maurizio Lupi. La giornata di oggi è stata una “giornata di lotta e determinazione che ha visto riscendere in piazza e consolidarsi come vera opposizione agli occhi del paese tutta quella composizione sociale – con in testa lo spezzone migrante – manifestatasi negli assedi del 19 ottobre e nella presa di Porta Pia“.

Una malattia è fatta da sintomi: reprimere con manganellate la rabbia degli esclusi è cercare di reprimere e rimuovere i sintomi di un malessere, ma, come la psicologia insegna, i sintomi li puoi mettere a tacere ma la malattia e il disagio restano. Più lo stato reprimerà più in chi è senza diritti monterà la rabbia. I moralisti disprezzano chi è depresso, chi è emarginato, dicono che la casa te la devi sudare. Questo disprezzo di chi sta bene verso chi soffre è sintomo di una cieca negazione della violenza della crisi economica e delle incapacità politiche diaffrontarla. Ignorare o criminalizzare non servirà a nulla. Questo è solol’inizio.

Sandro Roggio è un architetto e si occupa soprattutto di urbanistica. È autore di pubblicazioni tra cui il Prologo di Lezioni di Piano. L'esperienza pioniera del ppr raccontata per voci. Scrive su La Nuova Sardegna e collabora con eddyburg.it diretto da Edoardo Salzano.

Architetto Roggio quali sono le differenze tra il PPR e il PPS?
«Solo da ieri disponiamo del quadro completo delle variazioni e ci vorrà un po' di tempo per leggere e capire, ma a prima vista c'è tutto ciò che si temeva, annunciato dal dibattito rivelatore di questi anni. Ci sono gli strilli della campagna elettorale scorsa, via via mitigati, e le anticipazioni nel piano casa che si applica scandalosamente pure nei 300 metri dal mare, e nella legge sul golf che rappresentano un modo di pensare inequivocabile. Si tratta di provvedimenti già impugnati dal governo che si pensava di mettere nel Ppr con la complicità dello Stato. Ma gli è andata male»

Quindi lei riconosce due diversi orientamenti: quello del Ppr della giunta Soru e questo del nuovo Piano.
«Da una parte c'è il Ppr del 2006 che interpreta l'idea più progredita sul paesaggio come bene pubblico non negoziabile, come è nella Convenzione europea del paesaggio. Dall'altra c'è la propensione ad accogliere ogni richiesta di trasformazione del territorio, mettendo turismo ed edilizia sullo stesso piano e tutto nello stesso frullatore. Con il pretesto che occorre rispondere alla crisi e che l'edilizia fa crescere il Pil. Racconti gravemente omissivi. In Spagna hanno addirittura deciso di demolire l'invenduto in mano alle banche che ha messo in difficoltà quel paese. L'edilizia per la villeggiatura ha un peso rilevante in quel crac»
Due politiche molto diverse?
«A ben vedere il piano del 2006 guarda lontano all'insegna della solidarietà ecologica e generazionale. Il nuovo piano è piuttosto sintonizzato sui tempi brevi della politica politicante. Tutto e subito: al grido libertà-libertà, abbasso le regole e così via. Serve a catturare voti, gli stessi di chi vorrebbe sentirsi dire niente tasse o roba simile»
Cappellacci lo ha definito il Piano paesaggistico dei sardi e ha lanciato lo slogan «La Sardegna dei sardi liberi di decidere sulla propria terra e sul paesaggio«. Lei cosa ne pensa?
«Il messaggio è suggestivo e non sorprende che abbia consenso, ma sollecita un'idea perdente. Chi pensa così è fuori strada. Non capisce che se il paesaggio sardo sta tra i beni culturali del Paese e lo Stato concorre alla sua tutela non è un impiccio. Che i luoghi preziosi dell'isola siano d'interesse nazionale è un vantaggio e non è un disonore che la comunità nazionale se ne occupi come chiede la Costituzione. Caso mai bisogna esigere dallo Stato che si preoccupi di essere conseguente e darci una o due mani a curarlo il paesaggio e a difenderlo, ad esempio dagli incendi. Ecco un modo concreto per corrispondere all'idea di federalismo solidale. E poi, mi chiedo, non era lo stesso Cappellacci che interloquiva con potentati romani per dare il via libera all'eolico nell'isola? E non si trattava di funzionari dello Stato»
Cappellacci sostiene che andrà avanti senza il concorso del Mibac per approvare il nuovo Piano, è una posizione legittima?
«È sbagliato, interpreta la Costituzione e le leggi in modo arbitrario per giustificare lo strappo. Cita un sentenza della Corte Costituzionale, la 51 del 2006, che gli dà torto senza riserve proprio per i limiti dello Statuto sardo. La Regione è autorizzata a redigere e approvare il piano paesaggistico ma lo deve fare congiuntamente con lo Stato, secondo l'art 135 del Codice Urbani, specie nelle aree su cui insistono vincoli già posti dall'autorità statale»
Ma perché la fuga in avanti di Cappellacci?
«Cappellacci ha tempi stretti per arrivare a completare l'iter della pianificazione. Ha impiegato quasi 5 anni di tempo per deliberare la variante, quando per approvare il Ppr da parte del governo Soru ci sono voluti meno di 2 anni. E ora ha fretta e deve correre saltando le regole della co-pianificazione. E preferendo lo strappo finale con clamore che gli consente di non spiegare il disaccordo nel merito con i tecnici del Mibac e di cui la Direzione regionale ha detto in modo chiaro nell'ultimo comunicato»
Cosa c'è che non va nel nuovo Piano?
«Ho iniziato a leggere e ci vorrà un po' di tempo per approfondire nel labirinto di rimandi. Mi sono intanto concentrato sugli effetti che il Piano può determinare nei tempi brevi, perché credo che non avrà vita lunga. Temo che si voglia dare efficacia immediata allo strumento già dopo l'approvazione preliminare. La ambiguità dell'art. 87 comma 2 delle norme tecniche di attuazione (NTA) dovrà essere eliminata quanto prima. C'è poi il pacchetto delle disposizioni in via transitoria dell'art. 69 NTA, e non solo, che consentono di operare, con grandi margini di libertà, ancora prima che i comuni si adeguino al Piano regionale. Ed è questa la soluzione data, una semplificazione, come si dice oggi, che potrebbe rendere superfluo adeguare i PUC. Penso ai comuni che non hanno adeguato neppure ai vecchi PTP i loro piani degli anni Settanta!»
Ci sono aspetti della variante che stanno creando molto allarme nello schieramento che si batte in Sardegna per salvaguardare il territorio e l’ambiente. Sono timori giustificati?
«C'è in particolare una norma, la più pericolosa, che lascia scandalosamente ampi margini all'arbitrio e che contraddice alla radice i principi della tutela. Mi riferisco all' articolo 50 NTA. Omologo e altrettanto pericoloso è l'articolo 58, che porta il titolo «Programmi e interventi di recupero e valorizzazione dell’assetto ambientale«. È la riproposizione dell'articolo 12 del Piano casa che così trova un puntello nel nuovo Piano paesaggistico e altrimenti sarebbe inapplicabile. In questo modo si realizza il delirio della deroga congenita che spalanca la porta a tutte le richieste altolocate, come se chi realizza un sistema di sicurezza avesse previsto di consegnare a chi li domanda i codici per violarlo. Credono di avere costruito un capolavoro di destrezza. Conservando la fascia costiera come bene paesaggistico, solo nominalmente, ma consentendo a qualsiasi progetto definito strategico di essere ammesso ovunque e senza limitazioni dimensionali: basta l'autocertificazione dei padrini, il via libera della Regione e una variante al Piano comunale. Un procedimento sgangherato che si fa beffa della pianificazione. In palese violazione del Codice con la eliminazione del presupposto essenziale che sia il piano paesaggistico attraverso analisi e criteri oggettivi, estesi a tutto il territorio, a consentire eventualmente le trasformazioni. Ma c'è di più. Questa norma, utilizzabile a discrezione, sta in una corsia privilegiata perché è applicabile subito, anche prima dell’adeguamento dei piani comunali alle previsioni del PPR, come prevede temerariamente l'articolo 69 comma 13. Una formula scorciatoia, più grossolana ma simile a quella dei PTP cassati negli anni Novanta, che almeno individuavano preventivamente le aree da trasformare, chiamate 2D con asterisco. È una norma sconcertante, pensata per i grandi speculatori che hanno bussato forte in questi anni, e che contribuirà alla cancellazione del Piano del governo regionale, speriamo prima che abbia effetti. Non so se questa scriteriata previsione avrà credito, i comuni e le imprese hanno già avuto a che fare con norme improbabili e hanno perso tanti anni a inseguirle. Basti solo pensare che non è comunque eliminabile dal procedimento l'autorizzazione paesaggistica del competente organo dello Stato che in una siffatta temperie credo sarebbe impossibile ottenere«.

sprawl è un vero e proprio incubo di frammentazione spaziale e sociale, altro che

C'è un'abitudine ormai consolidata a buttar lì, ogni tanto, in comodo formato tascabile, l'equilibrio locale/globale. Salva la faccia, è comprensivo, prende miriadi di piccioni anche solo promettendo la proverbiale fava. Vale anche per le scale intermedie, che so, quel tipo di dimensione locale un po' più complessa e allargata che è la città, e il suo ex contado diventato area metropolitana, o sprawl per gli appassionati di anglicismi (o magari solo acquirenti di album degli Arcade Fire). Così, ragionando di territorio e relative trasformazioni, o trasformazioni mancate, nessuno manca mai di tributare il dovuto omaggio all'equilibrio locale/globale, di solito proiettando la prospettiva per un istante, tanto per capire che ci è e non ci fa. Le forme sono salve. Peccato che poi resti la sostanza, che salva non è affatto, o almeno la cui salvezza è tutta da verificare.

Personalmente una verifica ho provato a farla, anche mio malgrado, sulle assai discusse ma pare poco praticate trasformazioni globali/locali dell'area metropolitana milanese, quelle indotte dalle opere autostradali connesse al traguardo Expo 2015, che interessano per ora la fascia orientale di Milandia, segnatamente Tangenziale Esterna, BreBeMi e opere direttamente collegate. L'occasione, la scintilla diciamo così, è stata una prima passeggiata critica durante la preparazione dei Seminari di Eddyburg, dove con Serena Righini avevo deciso di presentare brevi riflessioni sui “nodi di urbanità” a scala sovracomunale, individuati nella città lineare continua dall'anello interno al confine dell'Adda. Nodi di urbanità assai vistosi, consolidati, che parevano invocare a gran voce “e dateci questa Città Metropolitana una volta per tutte!”, ma che verificati direttamente sul territorio lasciavano intravedere anche qualche discontinuità vistosa, troppo vistosa per non disturbare. Per comune accordo, sia sul versante della comunicazione che sulle prospettive di osservazione, era Serena ad essersi assunta il compito di restituire una immagine globale, attraverso gli strumenti dei piani e delle strategie di medio-lungo periodo. A me restava la verifica locale, a sostegno della tesi comune: Città Metropolitana reale, sostanziata in spazi fisici e identità collettiva, contro territorio a rischio di frammentazione e degrado, da sprawl e politiche infrastrutturali a dir poco miopi.

BreBeMi al punto di innesto sulla Tangenziale esterna
Restava quindi, a essere coerenti fino in fondo, la verifica del rovescio della medaglia, ovvero usare la tecnica del sopralluogo anche sulla dimensione globale, ponendosi la domanda: cosa c'è al di fuori dei vistosi e virtuosi nodi di urbanità dell'insediamento metropolitano storico? Quali impatti ha, e potrebbe avere in futuro, la grande trasformazione infrastrutturale che istintivamente in qualche modo tutti associamo all'idea di metropoli? Un'occasione di parziale ma significativa verifica me l'ha data questo autunno ancora mite, a combinare casualmente una giornata di sole che però termina fatalmente in quanto tale a metà pomeriggio. Il percorso iniziale del sopralluogo è stato una tappa di trasferimento simile a un riassunto delle puntate precedenti, ovvero attraverso i medesimi e già verificati nodi di urbanità lungo il naviglio Martesana, le stazioni della MM2, i nuclei storici allineati sull'asse di sviluppo e le loro periferie e fasce verdi di interposizione. Città lineare, accogliente, amichevole, continua e leggibile, per una ventina di chilometri circa. Salvo a sprazzi intravedere quei segnali della grande trasformazione in corso.

Per vederli meglio in una prospettiva locale, ho usato il medesimo strumento: spostarsi in bicicletta, anziché lungo un asse lineare, sull'arco che taglia trasversalmente il settore metropolitano orientale, dall'altezza della Martesana a una fascia un po' a sud della strada Rivoltana, più o meno. Per chi osservasse una carta delle grandi opere in corso, si tratta dell'area di maggior concentrazione di tracciati, incroci, adeguamenti collaterali, dove spesso anche le vecchie e nuove arterie di collegamento fra le autostrade vere e proprie sono state concepite coi medesimi criteri di sovrapposizione autoreferenziale al territorio. Se ne raccolgono immagini e sensazioni del tutto soggettive, e influenzate dalla stagione autunnale, ovvero dal fatto che per via dei tempi di spostamento tutto il percorso lungo l'arco trasversale in corso di trasformazione è avvenuto mentre il sole scendeva verso l'orizzonte, e mentre saliva il traffico dell'ora di punta serale.

C'è naturalmente il disagio dei cantieri, dei tantissimi cantieri grandi e piccoli sparsi ovunque, sia che ci lavori qualcuno, sia che appaiano come voragini in attesa di qualcosa che non sta arrivando. Il concetto di margine così come definito da Kevin Lynch, che nell'insediamento lineare urbano appare chiaramente svolgere un ruolo di guida e orientamento, qui diventa brutale interruzione, sovrapposizione, fa esplodere spazi e flussi. Il segnale, chiarissimo, è quello delle strade secondarie intercomunali, per intenderci il tipo di percorsi di solito usati localmente da abitanti e mezzi agricoli, più raramente e occasionalmente da chi attraversa questa rete irregolare su scala metropolitana. Ecco, oggi i margini indotti da cantieri e nuovi tracciati irrisolti stravolgono il ruolo delle ex strade campestri, facendone assi di comunicazione di una certa importanza, sia a scaricare spontaneamente il traffico, sia in una logica “pianificata” (virgolette d'obbligo) come si capisce dalle segnalazioni o dagli occasionali semafori mobili di senso unico alternato. Anche quando non si verifica una interruzione totale di flusso, attorno ai ponti o svincoli in costruzione i tracciati deviati cancellano qualunque gerarchia, ficcando nel medesimo trogolo i camion dei trasporti internazionali, i trattori al lavoro che saltano da un podere all'altro, e obbligatoriamente anche lo sventurato ciclista, traballante a evitare un fosso fangoso sulla destra, e la collisione del gomito con una portiera a sinistra. Sensazioni personali a parte, l'idea che ne esce suona più o meno: siamo tutti nella stessa autostrada, nel laissez faire trasportistico del terzo millennio. Dov'è finito il territorio metropolitano, con le sue gerarchie, i suoi spazi abitabili, la sua campagna più o meno tutelata da greenbelt o semplici interessi economici?

Un cantiere minore sulla viabilità di collegamento
Tramonta il sole, vengono meno i facili riferimenti di orientamento geografico, e appare sempre più evidente quanto le infrastrutture auto-oriented, pensate esattamente ed esclusivamente nella logica dello spostamento veicoli motorizzati dalla origine A alla destinazione B, se concentrate in un piccolo territorio finiscano per obliterarlo. O quantomeno ridurre lo spazio locale a bifolchistan in una sorta di ritorno obbligato allo storico idiotismo della vita rustica, micro-nuclei dove invece del nodo di urbanità del corridoio continuo, si percepisce solo l'isolamento, il buio oltre la siepe a segnare l'inizio della terra di nessuno. Il ciclista, che in altre incarnazioni è stato ovviamente anche automobilista, segue come può il gregge motorizzato, attraverso lottizzazioni industriali (dove almeno l'interesse economico tiene fuori l'invadenza di cantieri e deviazioni) e rarissimi tratti di ex poderale abbastanza integri. Non mancano i momenti di vero e proprio panico, quando le deviazioni decise a tavolino da qualche ingegnere con criteri solo automobilistici, scaraventano chi automobilista non è dentro al buio pesto di un'aia abbandonata sotto un ponte mezzo costruito e davanti a un corso d'acqua insuperabile. Ma sono dettagli.

Le mille luci della città ricompaiono all'orizzonte, una specie di insegna della prima calamita di Howard, e col relativo sollievo si fa strada una domanda: è questo ritagliare bantustan territoriali incomunicanti, fra le corsie di comunicazione dedicate, il destino ineluttabile del territorio concepito in funzione autostradale? Indipendentemente dalle strategie, di sicuro perverse, che hanno indotto qualcuno a progettare, sostenere, finanziare e realizzare la ragnatela di interventi, c'è un'idea di rete complementare parallela, che possa in tutto o in parte restituire organicità spaziale, sociale, ambientale, identitaria, a questa fetta d'anguria metropolitana? O meglio, visto che la pianificazione a questa scala languisce in quanto tale, sostituita appunto dai puri mega-progetti ingegneristici, c'è qualche prospettiva per una reazione, propositiva, progressiva, di società locali che provino a pensare “globalmente”, almeno alla scala di queste trasformazioni? Difficile dirlo.

(qui di seguito i tracciati delle opere principali e un sommario perimetro del territorio percorso in bicicletta)
L'Autore citato in occhiello è Robert Bruegmann, quando nel suo bestseller Sprawl: a compact history (University of Chicago Press, 2005), spiega: "Formy purpose I found the best source of information was the builtenvironment. A great deal of my research has consisted of going outand looking around"



Aree ex pubbliche e plusvalore fondiario per la città dei cittadini o per la città della rendita (privata). Ladecisione è aperta, ed è affidata alla politica: quella buona o quella cattiva?Corriere della sera, ed. Milano. 30 ottobre 2013

Entro Natale accordo sugli scali ferroviari dismessi, oppurequel milione e 200 mila metri quadri di terreno tornerà ad avere il valore di«zero euro», come detta il Pgt. La trattativa tra Comune, Regione e Ferroviedello Stato è a una svolta. Rimane solo un nodo da sciogliere - cioè doveinvestire i 50 milioni di plusvalenze (la prima tranche), derivanti dallavalorizzazione e vendita delle aree che l'accordo di programma rende per dueterzi edificabili -, e una data, il 31 dicembre come termine ultimo che ilComune s'è dato per chiudere la partita.

A otto anni dall'avvio dell'accordo di programma, interrottonel 2010 con l'amministrazione Moratti, in sede di controdeduzioni al Pgt, eripreso in mano dall'assessora all'Urbanistica Ada Lucia De Cesaris, prendecorpo un piano che potrebbe veramente cambiare il destino di sette grandi areecittadine - Farini, Greco, Lambrate, Porta Romana, Rogoredo, Porta Genova, SanCristoforo -, ricucire quartieri divisi, cancellare zone di degrado eabbandono.
Nel pacchetto non c'è solo un capitolo che parla di bonificadei suoli e riqualificazione ambientale, c'è anche un'offerta abitativa dihousing sociale con affitti calmierati che Cassa Depositi e Prestiti - scesa incampo da qualche mese — si propone di realizzare: 2.600 alloggi in una(Lambrate), massimo tre localizzazioni. C'è un oceano verde grande mezzomilione di metri quadrati: una sorta di Central Park spalmato in città. E c'èanche un parco lineare di 100 mila metri quadrati a San Cristoforo, tale dacollegare la zona Navigli con il comune di Corsico. Ci sarà, certamente,cemento nelle due più grandi aree dismesse, gli scali Farini e Porta Romana. Mail cosiddetto «carico urbanistico», la superficie edificabile, crolla del 33per cento rispetto alla versione dell'accordo ante Pgt.
Ieri la bozza di accordo di programma, limata da oltre unanno di trattative a tre, è stata illustrata dalla vicesindaco alla CommissioneUrbanistica, dando il via ad un acceso dibattito. Contrario il grillino MattiaCalise che ha ricordato «le promesse elettorali del centrosinistra» e l'esitodei referendum cittadini («Daremo battaglia per ogni singolo scalo e metro diterra tolto al verde»). Determinato il presidente di Commissione, RobertoBiscardini: «Dobbiamo vincolare i soldi che FS incasseranno come plusvalenzedalla vendita delle aree, perché siano riversati su Milano, per lo sviluppodelle infrastrutture, dei trasporti. Non mi fido di FS, penso debbano averemaggiore attenzione alla città e all'interesse pubblico».
Dalle plusvalenze potrebbe nascere un secondo Passanteferroviario, ma anche nuove stazioni in città. Non è escluso che la Regionechieda treni nuovi per i suoi pendolari. Ma neppure che FS pensi di investire,invece, in alta velocità. Un solo nodo da sciogliere ma decisivo, dunque.
Se non si dovesse chiudere l'accordo? «Faremo altreriflessioni», chiarisce sorridendo la vicesindaco. Il valore delle immense areedegli scali dismessi però, potrebbe precipitare, come da Pgt.E pensare che l'accordo, nel 2010, era saltato, perché in FS«contavano di avere un 33 per cento in più di metri quadrati edificabili».Chissà che il vecchio adagio «Chi troppo vuole nulla stringe» sia allora fonted'ispirazione. «Non siamo disponibili a cedere di un millimetro — conclude DeCesaris —. Siamo convinti che il patrimonio di FS appartenga a tutti icittadini, anche se per una scellerata legge dello Stato è consideratopatrimonio privato».

Il manifesto, 30 ottobre 2013

a ristrutturazione della Fondazione cassa di risparmio di Perugia, proprietaria del bene storico, fa scattare l'allarme. Sotto accusa la Soprintendenza che in soli due giorni ha dato il via libera
Le Logge dei Tiratori di Gubbio sono diventate il «loggiato della discordia» sui giornali locali. Il motivo è tutto nel progetto di ristrutturazione, o meglio di «chiusura» a base di vetri e acciaio, presentato da Carlo Colaiacovo, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, proprietaria di questo pezzo di patrimonio della città dal 2012 dopo averlo rilevato da Unicredit. La «cura ricostituente» pensata dalla Fondazione ha immediatamente scatenato l'ira dei comitati cittadini, di Italia Nostra, Terra Mater, e dei consiglieri regionali Paolo Brutti dell'Idv e Orfeo Goracci, del gruppo Comunista Umbro, che hanno presentato già un'interrogazione in merito.

«Le Logge», come le chiamano familiarmente a Gubbio, fonte di discordia lo sono state fin dalla loro costruzione, avvenuta all'inizio del XVII secolo, dopo innumerevoli controversie, sopra il lungo edificio, eretto nel 1326, provvisto di porticato e delimitato dalla chiesa di Santa Maria dei Laici, in origine adibito a ospedale. Un affresco con la Madonna tra i SS. Pietro e Paolo datato 1473 e dovuto a un allievo del Nelli ancora oggi ne impreziosisce la facciata. Già dalla metà del secolo XV l'Arte della Lana mirava a costruire, sopra l'ospedale, un locale coperto per «tirare» i panni (cioè per asciugare la stoffa una volta tinta, tesa in modo da farle assumere una lunghezza e una larghezza determinata).

Le Logge, secondo quello splendido principio espresso da Goethe secondo cui «l'architettura degli antichi è una seconda natura», si sono bene integrate nel contesto della città, proprio grazie a quel loro essere aperte, come un tempio greco, dove l'aria e la luce giocano con le prospettive che si intravedono fra le colonne. Da un'angolazione si vede il Palazzo dei Consoli, Piazza Grande, dall'altra la chiesa di S. Giovanni, la prima, antica Cattedrale della città. Un abile gioco di prospettive che ha permesso ai commercianti dell'epoca di intervenire per i propri interessi utilizzando uno spazio pubblico in modo così accorto e poco invadente da far credere che quel livello superiore del loggiato sia da sempre esistito, senza urti né interferenze.

Ma ecco che i proprietari, venuti tragicamente in possesso di un bene monumentale che doveva restare pubblico, cercano di ristrutturare, «rifunzionalizzare», come dicono loro, qualcosa che percepiscono come «vuoto architettonico», senza pensare che altrettanto «vuote» potrebbero essere definite le arcate del Colosseo, dei teatri greci e romani, dei loggiati di Siena e Firenze, e di tutti quelli che abbelliscono le piazze dell'Italia settentrionale e centrale. Arena di Verona, Valle dei Templi... perché non coprirli tutti con meravigliose soluzioni innovative, magari firmate da architetti compiacenti?

Le leve che vengono utilizzate per scardinare le resistenze sono quelle consuete, della filantropia e dell'innovazione capace di portare lavoro in tempo di crisi: le Logge di piazza 40 Martiri saranno trasformate in sala convegni, saranno sede di mostre che andranno a benificio di tutta la città, ospiteranno esposizioni internazionali che permetteranno a Gubbio di uscire dal suo provincialismo e alle Logge di assurgere alle vette della «Piramide» del Louvre. Mutatis mutandis, l'architetto Carlo Salucci, a cui è stato dato l'incarico, si sente un piccolo Ieoh Ming Pei, visto che anche lui deve «coprire» lavorando con vetro e acciaio. Ed è proprio su questo punto che si è scatenata la ribellione: si può accettare che la vocazione «naturale» delle logge dei Tiratori di Lana sia quella di essere un centro Congressi, o che si punti sulla fruizione di un bene finora inutilizzato «anche da parte del pubblico», per quanto la proprietà privata resti con tutte le conseguenze, ma che le Logge si debbano chiudere con vetri e acciaio, proprio no. E su questo si stanno scatenando le polemiche che già alla presentazione del progetto, nella sala conferenze dell'Unicredit, hanno fatto sollevare una parte della cittadinanza, che non ci sta a farsi imbonire, contro i grandi prestigiatori che velatamente ricattano con il più apprezzato di tutti i ricatti, quello del lavoro, mentre decantano lo sviluppo (sostenibile o insostenibile per loro nulla importa) turistico, le promettenti ricadute sulla città, le irripetibili iniziative che si potrebbero svolgere in un terrazzo meraviglioso, finora abbandonato alle intemperie e ai piccioni.

Invece: parquet al pavimento, ascensore e passerella che colleghi la struttura alla piazza. 5 metri x 3,20 la misura di ciascun vetro, "ad alta trasparenza, autopulente e antisfondamento" pubblicizzato con il linguaggio tipico del piazzista. Ma dare «la colpa» alla proprietà in fondo non serve. La responsabilità vera, in tutta questa amarissima vicenda, è della Soprintendenza, che in soli due giorni ha dato il via libera al progetto, quando, come tutti gli eugubini sanno bene, non esiste in città, e a ragione, la possibilità di aprire nemmeno un miserevole lucernaio o di spostare una singola pietra da parte dei privati. Inesplicabile anche il parere favorevole della commissaria prefettizia Maria Luisa D'Alessandro, intervenuta alla guida della città dopo il suicidio del Consiglio Comunale, che si è detta felice del raggiungimento dell'equilibrio di bilancio, grazie alle entrate che il Comune percepirà in seguito a un intervento di tale portata.

«Il progetto è ritenuto valorizzante e non impattante per la città» ha concluso la commissaria, alla quale più di un soggetto politico aveva rivolto la preghiera di demandare una decisione tanto importante agli organi amministrativi una volta eletti.

«È inaccettabile l'introduzione di elementi incompatibili con la struttura»
Il progetto di ristrutturazione delle Logge dei Tiratori di Gubbio, finanziato dalla Cassa di risparmio di Perugia in convenzione con il Comune, ha provocato una partecipata sollevazione di comitati cittadini insieme a Italia Nostra e Terra Mater: ricorsi, fiaccolate, tavole rotonde sono in programmazione nei prossimi giorni.
Il presidente della sezione di Gubbio di Italia Nostra Mario Franceschetti e il segretario generale di Terra Mater Franco Raffi, sostengono che quanto si vuol fare alle Logge è una vera e propria manomissione del patrimonio storico-artistico italiano.
«Con note trionfalistiche, del tutto fuori luogo, è stato presentato a Gubbio il progetto di ristrutturazione delle Logge dei Tiratori. Il piano attuativo - approvato dal commissario prefettizio e dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici dell'Umbria - prevede la realizzazione di una sala convegni, con vetrate e tendaggi, e di una passerella sul torrente Camignano per collegare piazza del mercato con piazza san Giovanni. È oggi necessario che lo Stato - nelle sue varie articolazioni - recuperi credibilità, sottraendo un patrimonio comune all'arbitrio di mecenati improvvisati e di burocrati compiacenti», si legge nel documento unitario inviato alle autorità competenti. «Ciò che rende inaccettabile il progetto - sottolineano le associazioni - è l'introduzione di elementi incompatibili con la struttura delle Logge, rarissimo esemplare di archeologia preindustriale. È certo auspicabile l'apertura al pubblico del grandioso monumento, ma solo per usi che non comportino manomissioni».

la Nuova Sardegna, 27 ottobre 2013

Pps, Cappellacci lancia la sfida al ministero.
il nuovo piano paesaggistico
di Alfredo Franchini

Dopo due conferenze stampa consecutive, la prima a Sassari e l’altra, ieri, a Cagliari, il Ppr rinnovato continua a restare un mistero. I giornalisti convenuti ieri a Villa Devoto sono rimasti delusi: per l’occasione era stato montato un maxi schermo che, però, è servito solo per vedere la pagina Facebook dedicata al «Piano paesaggistico dei sardi». La scelta di andare su Facebook, precisa Cappellacci, è dettata dalla necessità di operare nella massima trasparenza: «Ci saranno tutti i documenti», assicura Cappellacci e tutti potranno sapere cosa è vincolato». Per ora, nel merito, si sa ben poco e si dovrà attendere sino a domani per leggere la delibera: la giunta - ha spiegato Cappellacci - ha approvato un paio di emendamenti e dunque serve il tempo tecnico necessario per la riscrittura. Chi andrà oggi sulla pagina Facebook dedicata al Pps, (non più Ppr ma Piano paesaggistico Sardegna), troverà un video con lo stesso presidente che cammina nel verde, zainetto in spalla, e quando si ferma dice: «La nostra isola non va difesa dal popolo che la abita, ma è il popolo che la abita che la deve difendere per consegnarla alle generazioni future».

Non c’è l’assessore all’Urbanistica Rassu accanto al governatore e non c’è nemmeno il direttore generale dell’assessorato: al fianco di Cappellacci siede il capo di gabinetto Massimiliano Tavolacci a cui il presidente delega anche qualche risposta di tipo politico. Ma certo il governatore non si sottrae alle risposte più importanti a cominciare da quella bocciatura della procedura, avvenuta a tempo di record da parte del ministero dei Beni culturali.
«La Regione ha competenze primarie», afferma Cappellacci, «dunque non devo chiedere l’autorizzazione a nessuno per approvare delibere in giunta». Il progetto di condivisione che era stato avviato parecchi mesi fa era «facoltativo». Il ministero sostiene, invece, che annunciare di aver cambiato il piano è un atto unilaterale.

Cappellacci nega e aggiunge: «Spero che al ministero vogliano imprimere velocità e che sia di buon auspicio, anche se devo dire che, in realtà, stiamo aspettando dal 9 luglio la firma sul verbale dell’ultimo incontro al Mibac». La pagina facebook, pubblicata ufficialmente con un click del presidente davanti a tutti i giornalisti non è l’unica iniziativa. Cappellacci ha annunciato che a fine mese inizierà il tour di una task force regionale che girerà la Sardegna per spiegare a sindaci, associazioni e cittadini le novità del piano «in modo che tutti possano dire la loro». Cappellacci e Tavolacci mostrano quindi attraverso un’applicazione scaricabile su un telefono, la cartografia aggiornata e gli errori che il vecchio Piano si era portato dietro: il vincolo su un corso d’acqua che non c’è più, la grotta della vipera a Cagliari che vincola una porzione di territorio ben distante dal sito. E poi le ipotesi di ricadute sull’economia: tre scenari, come si usa nelle migliori scuole, dalla congiuntura peggiore a quella stimata normalmente. Nell’ipotesi peggiore il nuovo Ppr potrà generare - afferma Cappellacci - un aumento dello 0,3% del Pil che porterebbero alla creazione di 4.000 posti; nello scenario migliore si arriva alla creazione di un valore aggiunto di 350 milioni di euro, una crescita del Pil di 1,3 punti e alla creazione di quindicimila posti di lavoro. Al di là dei numeri qual è la filosofia del piano? «Non allentare i vincoli», assicura Cappellacci, «la salvaguardia resta ma permettere l’uso razionale del territorio. Parliamone senza preconcetti».

Gianvalerio Sanna (Pd) attacca: «Lo Stato è sovrano»
Sel: «Fermiamoli»

Il presidente della giunta Cappellacci spiega che il Piano paesaggistico andrà avanti, anche in maniera unilaterale perché il parere del ministero dei Beni culturali è «facoltativo» e la Regione ha competenza primaria. Una tesi respinta dai consiglieri dell’opposizione: «C’è un motivo molto semplice», afferma Gian Valerio Sanna, «l’articolo 9 della Costituzione assegna allo Stato la competenza. È una norma blindata». Sul piano paesistico regionale si sovrappongono competenze differenti: la Regione ha sicuramente competenza primaria in campo urbanistico, (l’esempio sono i piani comunali) ma non ce l’ha in materia paesaggistica, da qui l’intervento immediato del ministero con l’intento di fermare l’annuncio e il lavoro fatto dalla giunta sarda. E, a questo proposito, c’è un precedente che può fare chiarezza: l’annullamento dei tredici Ptp proprio perché lo strumento dei piani territoriali varato in Sardegna non era stato concordato a livello ministeriale. La rivista scientifica Gazzetta ambiente ha esaminato, peraltro prima che la giunta Cappellacci annunciasse le modifiche, il Ppr dell’isola e ha individuato proprio nella collaborazione tra Stato- direzione regionale del Ministero per l’ambiente e le Soprintendenze la chiave di una pianificazione sostenibile del paesaggio sardo. Sinora le risposte messe in campo con gli strumenti approvati dal Consiglio regionale (su tutti il Piano casa, giunto alla terza versione), non hanno dato risposte al sistema economico: Maurizio De Pascale, presidente dei costruttori di Confindustria, sollecita, senza mezzi termini l’approvazione di una vera e propria legge urbanistica. Ma piccole imprese e aziende artigiane guardano con favore a una legge urbanistica più che al Ppr o al piano casa.

Francesca Barracciu, eurodeputata del Pd, candidata alla presidenza della Regione, afferma: «In Consiglio regionale quando è stato rinnovato l’ennesimo Piano casa, fu proposto alla giunta di concordare tempi e modi per arrivare alla legge urbanistica. Non hanno voluto». Ma perché? «Perché Cappellacci ha preferito l’ennesimo atto propagandistico». Per quanto riguarda gli errori denunciati ieri da Cappellacci, Gian Valerio Sanna spiega: «È vero, ci sono molte imprecisioni nell’attuale Ppr perché facemmo le cose in fretta e in quei casi occorre avere le coordinate precise. Ma si tratta di errori di cartografia non certo di inadeguatezza del vincolo». Mai nessun errore, sostiene l’opposizione che dà battaglia in parlamento.

Sel, infatti, ha presentato da qualche settimana un’interpellanza alla Camera redatta con l’apporto di una serie di intellettuali ed esperti del settore, tra i quali l'urbanista Sandro Roggio, e sottoscritta da Manuela Corda, deputata del Movimento Cinquestelle. Alla base dell’interpellanza illustrata da Michele Piras (Sel), e con l’intento dichiarato nel titolo: «Fermate la giunta Cappellacci», una serie di incongruenze e persino la tempistica che era stata accettata dal ministero dei Beni culturali e che, secondo gli interpellanti, era troppo ravvicinata considerato la complessità dell'operazione. «Bastano le riserve dei costruttori e della Confindustria per ridimensionare l’annuncio elettorale di Ugo Cappellacci e del centrodestra », afferma Giuseppe Stocchino di Rifondazione, «siamo di fronte ad una modifica virtuale del Piano paesaggistico regionale, una favola che secondo il presidente della Regione porterebbe addirittura ad un aumento dell'uno per cento del Pil regionale»

Piano paesaggistico, messincena per disfarsi delle regole
di Sandro Roggio

Bisogna riconoscerlo: ce l'hanno messa tutta in questi anni per cancellare il piano paesaggistico di cui la Sardegna si può vantare in Europa– come ha scritto Edoardo Salzano su queste pagine. Siamo arrivati all'atto finale, scortato dalla tenace azione di contraffazione delle vere intenzioni, dalla pavida minimizzazione delle importanti modifiche immaginate, e di cui sapremo quando saranno rese pubbliche.

Ed è davvero singolare che di un atto così importante (come si riconosce nel primo e unico resoconto di stampa sulla delibera) siano mancate informazioni nella fase più recente e decisiva, negate fino a ieri pure ai consiglieri regionali. Mentre nella fase di avvio e fino all'anno scorso ( ricordate le pagine di pubblicità a pagamento sui quotidiani ?) ci hanno assicurato informazione- partecipazione-condivisione. Colpisce l' accelerazione degli ultimi giorni che ha comportato la brusca e irriguardosa interruzione degli incontri tra Regione e Stato chiamato a condividere, secondo il Codice dei beni culturali, il documento di pianificazione. Cappellacci ha scelto il male minore che pensa di volgere a suo vantaggio: meglio il conflitto populista con lo Stato “prevaricatore” che dare conto nel merito del disaccordo del Ministero, su gran parte, pare, del soprannominato Pps, “Piano paesaggistico dei sardi”.

Lo strappo era comunque prevedibile: sulla base di notizie ricorrenti sul dissenso sostanziale degli organi tecnici del Ministero sul disegno della Regione. Pensato per ridurre il livello di tutela del paesaggio sardo, e corrispondente all'idea di Cappellacci di liquidarlo il Ppr – come diceva intrepido nel fulgore della campagna elettorale. Ed espresso in modi spicci nel Pps che incorpora, come sembra, le leggi orribili – piano casa e sul golf – impugnate dallo Stato. Pensando che lo Stato possa fare finta di nulla.

Non sarà facile disfarsi del Ppr del 2006. Uno strumento che corrisponde ad una idea progredita di Sardegna, e che ha resistito ad un numero impressionante di ricorsi curati da avvocati di grido, come se fosse munito di speciali anticorpi. Lo deve avere capito lo squadrone all'opera da oltre quattro anni per anatomizzarlo e rimpiazzarlo sulla spinta di quella insondabile sequela di incontri denominata “Sardegna nuove idee”. Inutile spreco di denaro pubblico per una messinscena supponente che avrebbe dovuto certificare la smania del popolo sardo di disfarsi di ogni regola. Come se non bastasse il fallimento del referendum promosso per la sua abrogazione: un fiasco a furor di popolo che per un po' ci ha fatto sorridere e ha messo a tacere lo schieramento trasversale tra le forze politiche anti Ppr, ben più vasto – sob! – di quello che si immagina.

Anche per questo è bene non sottovalutare i rischi del cortocircuito che sembra pianificato con cura. Se il bluff non sarà tempestivamente svelato potrà avere effetti in campagna elettorale, renderà incerta l'attività di pianificazione dei comuni, e nel disorientamento non è escluso che qualche iniziativa possa essere temerariamente approvata. Nello sfondo un contenzioso duraturo, mentre già emerge la faciloneria delle prime reazioni alle critiche. Alla nota della Direzione regionale del Mibac – che denuncia “l'iniziativa unilateralmente assunta dalla Regione Sardegna” – il presidente Cappellacci replica che "sui beni paesaggistici la Regione ha competenza primaria”. Com'è ampiamente noto, non sono mai eludibili le competenze dello Stato in questa materia che neppure la Sardegna può ignorare, soprattutto con riguardo alla pianificazione paesaggistica.

dichiarazioni di E Salzano, M. Bruno e R. Soru. La Nuova Sardegna, 26 ottobre 2013.

La giunta riunita a Sassari ha dato il via libera al nuovo Piano paesaggistico regionale che dovrebbe sostituire quello dell’ex-governatore Soru, ma subito arrivano lo stop del ministero e le polemiche. Il presidente della Regione Cappellacci annuncia la delibera che avvia l’ok al nuovo Ppr (Piano paesaggistico) e subito gli arriva la doccia fredda del ministero dei Beni e delle attività culturali sull'iter di revisione. In a nota stringata, pubblicata sul sito istituzionale, la direzione regionale Beni culturali e paesaggistici della Sardegna precisa che l'adozione provvisoria del Ppr «trattasi, evidentemente, di una iniziativa unilateralmente assunta dalla Regione Sardegna in quanto sono attualmente ancora in itinere tutte le attività inerenti la copianificazione prevista dal Codice Urbani e così come recepite dagli accordi sottoscritti fra le due Amministrazioni».

L’annuncio di Cappellacci è avvenuto stamattina. A quattro mesi dalle elezioni regionali, il governatore imprime una accelerata e punta ad approvare - ministero permettendo - un nuovo Piano paesaggistico che manderà in soffitta quello varato dalla Giunta di Renato Soru nel 2006. Primo passo oggi con il via libera dell'Esecutivo regionale riunito a Sassari con Cappellacci e tutti gli assessori.

Una «rivoluzione» destinata a inasprire il confronto tra maggioranza e opposizione, con il centrosinistra pronto a fare le barricate. Il Piano, innanzitutto, cambia nome: da Piano paesaggistico regionale diventa Piano paesaggistico dei sardi. Ma al di là della denominazione, viene stravolta gran parte della pianificazione voluta da Soru. Si allentano così i vincoli nella fascia costiera dove sarà possibile intervenire, ristrutturando l'esistente, sulla base di «precise regole». Quanto ai corsi d'acqua, solo fiumi e torrenti di rilievo paesaggistico saranno soggetti a restrizioni. E per i centri storici, massima attenzione a quelli di pregio, più libertà di manovra in tutti gli altri.

Lo schema voluto da Cappellacci recepisce, inoltre, la legge sul golf e quella sui Piani strategici e, come detto, mette paletti sul riconoscimento di «bene paesaggistico». Il Piano così concepito diventa lo strumento di governo delle trasformazioni, mentre i tempi di redazione dei Piani urbanistici comunali (Puc) vengono «notevolmente ridotti» con l'introduzione dell'atto di accordo tra Comuni, Regione e Ministero.

La proposta di modifica del vecchio Ppr dovrà ora compiere un lungo iter per la validazione degli atti, con l'assenso finale da parte del ministero dei Beni ambientali e culturali, con il quale attualmente sono state verificate alcune cartografie. Entro 60 giorni dall'approvazione della delibera - non ancora disponibile perchè si dovranno recepire alcuni emendamenti - si potranno presentare le osservazioni, mentre entro 30 giorni il documento dovrà essere trasmesso alla commissione Urbanistica del Consiglio regionale. «Le regole confuse e imprecise imposte negli anni passati, hanno intrappolato la libertà del nostro popolo e questo ha provocato enormi danni», ha chiarito Cappellacci difendendo a spada tratta il suo progetto.

Dal canto loro, anche le associazioni ambientaliste hanno bocciato il nuovo Ppr «Ai tentativi di travolgimento della disciplina di tutela complicheremo la vita in ogni modo, con ogni appiglio legale, con ogni attività di sensibilizzazione. Se alcune anticipazioni giornalistiche fossero confermate, infatti, ci ritroveremo davanti a palesi illegittimità». Così il Gruppo di intervento giuridico, Amici della terra e Lega per l'abolizione della caccia bocciano le prime notizie sui contenuti della revisione del Piano paesaggistico regionale approvato oggi dalla Giunta. E lanciano un appello per la sottoscrizione di una petizione on line al ministro dei Beni e attività culturali, allo stesso governatore e alla presidente del Consiglio regionale.

Salzano: «È una svendita del paesaggio sardo». Mario Bruno: «Obbrobrio giuridico»
di Mauro Lissia


Edoardo Salzano, urbanista pianificatore di fama internazionale, non le manda a dire. Lui, il padre nobile del Ppr del 2004, è indignato per il nuovo assalto al paesaggio che la Regione promette: «La giunta Cappellacci aveva già rivelato la sua volontà di rimuovere tutti i vincoli che si propongono di tutelare le bellezze del patrimonio universale costituito dal paesaggio della Sardegna, che non è solo dei sardi, come quello di Venezia non è solo dei veneziani - sostiene in una nota - le varie edizioni del piano casa e la legge per il golf, approvate in aperta violazione della leggi vigenti, lo smantellamento dell'ufficio del piano, i proclami pubblicati sulla stampa locale a spese dei contribuenti, tutto ciò aveva testimoniato la pervicace volontà di Cappellacci e dei suoi complici di svendere ai cementificatori il patrimonio comune delle bellezze dell'isola. La dissociazione dell'ufficio regionale del Mibac dal piano di Cappellacci - è scritto ancora - ribadisce la sua illegittimità. La speranza è che il governo (ministro Bray, dove sei?) intervenga per bloccare subito gli effetti immediati delle perverse "norme di salvaguardia" già operative». E a Roma qualcosa si è già mossa. A parte la nota quasi irridente diffusa ieri dai Beni culturali, il contenuto del carteggio Regione–Mibac dei mesi scorsi conferma come non esista alcun accordo reale fra la Regione e Roma: c’è un’intesa su alcuni aspetti delle cartografie ma l’idea di inserire piano casa e legge sul golf, così come di indebolire le tutele, è stata rispedita al mittente. Il Ppr di Renato Soru e di Salzano rappresenta un caposaldo a livello nazionale, dal Mibac fanno capire chiaramente che il Pps di Cappellacci è destinato a finire in un vicolo cieco. Durissimo anche Mario Bruno, vicepresidente del consiglio regionale del Pd: «Il nuovo Ppr- Pps di Cappellacci è solo un piano di marketing - ha detto Bruno - anzi il piano di presa in giro dei sardi, che non avrà alcun effetto». Bruno giudica il Pps un «obbrobrio giuridico e i comuni, in nome dei quali si sarebbe intervenuti per fare chiarezza, in realtà saranno sempre più disorientati».

Soru: «Un piano di mistificazione mediatica»
intervista di di Pier Giorgio Pinna

Renato Soru, lei è stato il padre della legge salvacoste: come giudica l’annuncio sulla revisione del Piano paesaggistico regionale? «Non è una cosa seria. Mi appare come una sparata. Una mistificazione nei confronti dei sardi. A ogni modo, si tratta di un’iniziativa totalmente fuori dalle regole della co-pianificazione con il ministero dei Beni culturali». Per quale ragione? «Questo è un atto che non vale la carta su cui è scritto. Non avrà alcun riscontro pratico né la minima conseguenza effettiva: mancano i tempi e il consenso da parte del ministero». E allora perché l’approvazione di questa delibera? «Cappellacci è in campagna elettorale. Il suo è uno studiato piano di mistificazione mediatica. Con queste uscite a effetto cerca solamente di coprire il disastro delle sue politiche». A che cosa si riferisce? «Ad altri progetti altrettanto fallimentari sbandierati negli ultimi mesi. Dalla flotta sarda, inquietante sin da un nome che - non si sa perché - richiama spiegamenti militari, alla zona franca integrale e alla nuova continuità territoriale. Tutti piani già caduti o che cadranno presto perché di fatto non varabili. Nel frattempo le linee aeree a nostra disposizione si dimezzano. E così per viaggiare incontriamo sempre più disagi e difficoltà. Ai sardi sui voli vengono garantiti sconti ridicoli e chi non risiede nell’isola ottiene i benefici maggiori. Per ogni dieci euro concessi a noi, agli altri ne vengono dati cento». Perché ritiene che nessuna di queste idee sia attuabile? «Prendiamo il caso della zona franca integrale. Cappellacci si esibisce in piazzate con il parlamentare del Pd Francesco Sanna, pur sapendo bene che nella sostanza un piano come quello che ha pensato per una regione vasta come la Sardegna produrrà più danni sotto il profilo fiscale di quelli che potrebbero essere gli inesistenti vantaggi tributari. E tutto questo sempre che in sede europea qualcuno sia davvero disponibile ad avallare progetti del genere». Che cosa pensa comunque dell’idea di cambiare così radicalmente la normativa regionale a tutela delle coste e più in generale il piano paesaggistico regionale? «La normativa approvata durante il periodo nel quale sono stato presidente della Regione è stata una grande conquista. Nella sostanza non riesco a capire dove sia il problema e perché oggi si cerchi di cambiarla: con trecentomila case estive che anche quest’anno sono rimaste chiuse, in realtà, nessuno ha più un reale interesse a cementificare». Eppure, continuano ad arrivare molte spinte in questa direzione da parte del settore edile. «Io sostengo che iniziative del genere non portano ricchezza. Quel che conta, a ogni modo, è non consumare più il territorio». Come andrà finire, in questo caso specifico? «Lo ripeto: sono sicuro che la delibera presentata nelle ultime ore non avrà alcun seguito. Sembra quasi che Cappellacci ci voglia prendere in giro. Ecco perché non sono preoccupato: questo non è un atto di programmazione, non produce effetti se non viene approvato dal governo. È solo l’inganno di un demagogo da repubblica delle banane»

Corriere della Sera Lombardia, 25 ottobre 2013, postilla (f.b.)

Gentile Signor Ministro Orlando,

dopo alcuni anni di silenzio, riappare tra i progetti delle cosiddette infrastrutture strategiche il raccordo tra le autostrade A21 e A26, noto come Autostrada Broni-Mortara, in provincia di Pavia. Un’opera progettata circa un decennio fa, che già allora suscitava forti dubbi e contrarietà e che oggi diventa quasi paradossale, in un momento di crisi sia dal punto di vista economico sia da quello ambientale.

Il tracciato previsto riguarda un’area della Lomellina, zona famosa per il suo territorio agricolo tra i migliori al mondo per fertilità e per l’integra bellezza del suo paesaggio. In questo contesto prezioso si vuole inserire un’opera autostradale lunga 52 km, larga oltre 45 metri e, per più di 40 km, alta 4,5 metri sopra il piano campagna. L’infrastruttura diventerebbe un vero e proprio muro che per decine di chilometri modificherebbe la prospettiva visuale del paesaggio agricolo, interrompendo inoltre — con un danno irrimediabile — il reticolo di canali e rogge che lo caratterizzano da secoli e distruggendo i preziosissimi fontanili, patrimonio naturale e storico.

Sappiamo che questa infrastruttura è stata fortemente voluta dalla Regione Lombardia, nel quadro di una logica di sviluppo vecchia, che riteniamo superata. Ci rivolgiamo a Lei, signor Ministro, perché si è appena aperta la procedura di integrazioni sulla valutazione di compatibilità ambientale (Via) nella piena fiducia che, attraverso questo strumento, sia possibile rigettare il progetto. I volumi di traffico attuali e previsti sono infatti largamente insufficienti per giustificare l’infrastruttura, a meno che non si vogliano imporre pedaggi intollerabili per il traffico locale.

Inoltre, per questo territorio, è sempre più necessario ed urgente l’investimento nella ferrovia, come dimostra la crescente domanda di mobilità soprattutto verso Milano e per i collegamenti interni. Ci troviamo in una zona dove semmai la priorità di intervento è la manutenzione delle strutture viarie esistenti, che versano in condizioni pessime, ponti sul Po inclusi. Inoltre, anche se la «Broni-Mortara» fosse una nuova alternativa per collegare la bassa Pianura Padana con il Nord-Ovest del Paese, senza dover passare da Milano, bisogna considerare che già l’A21 oggi collega adeguatamente questi due poli. Mentre, sempre con riferimento ai collegamenti est-ovest, recenti grandi investimenti nella tratta Milano-Torino per l’ampliamento dell’autostrada e all’Alta Velocità ferroviaria hanno molto rinforzato le connessioni tra i due grandi centri urbani.

Le scriviamo dunque, signor Ministro, preoccupati dall’impatto di quest’opera, ma anche spronati dalle Sue recenti dichiarazioni sulla necessità di tutelare il suolo agricolo e, più in generale, sulla necessità di misure urgenti per la riduzione del consumo del suolo. Quest’opera produrrà infatti un impatto rilevante in termini di consumo di suolo: 839 ettari sottratti alla conduzione agricola, ben 602 le aziende agricole coinvolte, 218 di queste attraversate direttamente dall’infrastruttura. Gli scavi e le discariche necessari al cantiere consumerebbero ulteriore suolo, senza contare le cave da cui estrarre 11 milioni di metri cubi di sabbia e ghiaia e l’eventuale indotto — per nostra esperienza inevitabile! — che porterebbe capannoni e zone industriali lungo il tracciato.

Anche l’impatto ecologico ci preoccupa: il progetto infatti interferisce in modo irreversibile sulla rete ecologica individuata dal Parco del Ticino, dalla Regione Lombardia e dalla Provincia di Pavia, andando a pregiudicare la continuità del corridoio ecologico della valle del Ticino, patrimonio mondiale dell’Unesco, così come le riserve naturali limitrofe. Le infrastrutture di cui abbiamo realmente bisogno e che porterebbero a una misurata ma stabile crescita sono quelle di riassetto del territorio e di valorizzazione dell’enorme patrimonio storico, agricolo, culturale, ambientale di cui l’Italia, malgrado tutto, ancora dispone. Non certamente di opere come la «Broni-Mortara». Ci appelliamo dunque a lei, signor Ministro, insieme a molti esponenti del territorio pavese e lombardo, affinché il suo Ministero, con tutti gli strumenti a sua disposizione, respinga definitivamente questo progetto, inutile e dannoso sotto tutti i punti di vista.

postilla
Coerentemente con la propria cultura e il proprio mandato, i due ambientalisti si soffermano su alcuni aspetti dell'impatto diretto di questa surreale infrastruttura, e forse è indispensabile richiamarne anche altri, che si chiamano in gergo “sprawl programmato”. Come ho provato puntualmente anni fa a sottolineare esaminando il progetto e il contesto in cui si colloca esiste infatti qualcosa che va molto oltre gli impatti ambientali dell'opera, ed è la sua intenzione dichiarata di grimaldello per indurre urbanizzazione dispersa, il cosiddetto sviluppo del territorio locale fatto di lottizzazioni industriali aggrappate agli svincoli, schiere di villette sparse qui e là, tutto quanto ben conosciamo insomma, e che alimenta certi appetiti. Questa dispersione insediativa indotta, in più, andrebbe a sabotare anche l'equilibrio millenario di terra e acqua costituito dal sistema delle risaie, per cui quel territorio è famoso. Il tutto per trasportare fisicamente il modello già consolidato nella fascia pedemontana (Padana Superiore) anche nel cuore verde a cavallo del Po, ancora oggi insediativamente definito dall'antico asse della Postumia romana. Lo stato di fatto di quei territori ho provato a raccontarlo nel saggio pubblicato nella raccolta
No Sprawl (a cura di M.C. Gibelli e E. Salzano, Alinea 2005, qui un sommario della lezione da cui trae origine il saggio). Qui una descrizione più puntuale - scaricabile il testo integrale col le mappe - della Autostrada della Lomellina (f.b.)

Il racconto di un segmento importante della storia del Progetto Fori: come si passò dall'intenzione al progetto. Dal sindaco Marino e dalla sua giunta i primi segnali di una ripresa del cammino interrotto dopo la scomparsa del sindaco Luigi Petroselli. La speranza è che su quella strada si cammini con coerenza. Corriere della sera, 23 ottobre 2013

Trent’anni or sono, era il 1983, il sovrintendente all’archeologia di Roma, Adriano La Regina ed il celebre storico dell’architettura Leonardo Benevolo proposero al nostro studio di preparare una proposta generale dell’area centrale dei Fori. Fu costituito un gruppo formato, oltre che dallo stesso Benevolo e da un suo collaboratore, da Augusto Cagnardi e dai professori Zambrini e Podestà per uno studio urbanistico e dei trasporti che consentisse la completa pedonalizzazione dell’area; dal professor Pizzetti per lo studio del verde e dal professor Campagnoli per la sistemazione delle aree degli scavi archeologici, che concernevano l’area su cui era stata costruita l’assai discutibile via dei Fori Imperiali negli anni Trenta, con la demolizione della collina della Velia, una delle quattro, con il Palatino, il Celio e l’Oppio al centro delle quali si colloca il Colosseo.

L’area presa in considerazione era assai vasta e comprendeva la riorganizzazione dell’area archeologica centrale, quella che nel suo insieme era già stata presa in questione dagli studi della fine del XIX secolo. L’intervento sul Colosseo e la via dei Fori Imperiali era oggetto di uno studio a parte. Per la sistemazione del parco archeologico centrale furono prese in esame diciassette «aree problematiche» che riguardavano i diversi confini con i tessuti storici pontifici, e con alcune sistemazioni dopo che Roma divenne capitale d’Italia. In particolare sull’asse dell’attuale via del Tempio con le sue possibilità archeologiche (basilica Ulpia, Foro di Traiano e Forum Augusti), la ricostruzione della collina della Velia, al di sotto della quale avrebbe potuto trovar posto il museo archeologico.

È probabile che molte delle ipotesi presentate siano state negli ultimi trent’anni superate da nuove soluzioni archeologiche e da decisioni generali del nuovo piano e del sistema dei trasporti ma è importante collocare, dopo trent’anni, il primo indispensabile passo dell’area della pedonalizzazione della via dei Fori Imperiali compiuto dalla nuova amministrazione comunale di Roma nella logica più ampia della sistemazione del parco archeologico centrale anche rispetto ai più ampi obbiettivi individuati trent’anni orsono e che certamente oggi troveranno nuovi ostacoli. Il lavoro della proposta generale di progetto durò circa due anni e nel 1985 fu pubblicato, a cura di Leonardo Benevolo, un volume (De Luca Editore) che riportava l’insieme dei vari studi e progetti ed un secondo volume ne fissava alcune precisazioni di previsioni progettuali. L’introduzione di Adriano La Regina terminava ricordando come gli obiettivi fossero l’allontanamento del traffico e la conseguente possibilità di ricomposizione dei grandi complessi della zona archeologica centrale di Roma, concludendo che «una siffatta interpretazione viene ora elaborata da questo studio e la Soprintendenza Archeologica di Roma ne propone, dopo ogni necessario approfondimento, l’adozione e la concreta attuazione da parte della città e del Governo». Ma la proposta non ebbe mai esito concreto.

È quindi con grande soddisfazione che, a nome dei progettisti ancora viventi, ho accolto la meritoria iniziativa del nuovo sindaco di Roma, che ha deciso di sperimentare la pedonalizzazione della via dei Fori Imperiali. Ovviamente considero questo un primo importante passo verso il necessario approfondimento delle proposte generali che, con tutti gli aggiornamenti utili, ho cercato di riassumere in questa mia breve descrizione che trent’anni or sono il nostro gruppo ha cercato di mettere in campo. Si tratta ora di mettere in atto il nuovo e complessivo progetto per la sistemazione del grandioso patrimonio di tutta l’area centrale della nostra capitale: un compito difficile ma opportuno.

Riferimenti

Vedi anche il recente articolo di Vezio De Lucia, la sua lezione all'edizione 2009 della Scuola di eddyburg. Numerosi altri documenti sul progetto Fori e sulle proposte per il Parco dell'Appia antiva (due progetti urbani tra loroi strettamente connessi) li trovate digitando le parole Progetto Fori e Appia Antica sul cerca della nuova e della vecchia edizione di eddyburg

Intervistato da Federico Gurgone, il soprintendente romano dal 1976 al 2004, analizza anche storicamente il caso di via dei Fori Imperiali. «L'aspirazione a creare una zona monumentale nel cuore di Roma è sempre esistita». Il manifesto, 18 ottobre 2013

La prima giunta di sinistra ottenne il Campidoglio con lo storico dell'arte Giulio Carlo Argan nel 1976 e lo resse fino al 1985, termine del mandato di Ugo Vetere. In mezzo, la breve e intensa esperienza di Luigi Petroselli. Soprattutto con lui, nonostante gli anni di piombo, la Città Eterna parve davvero lanciata verso quella modernità ancora agognata. Il segno programmatico della discontinuità fu la visione audace di una rivoluzione urbanistica. L'idea di un parco archeologico centrale senza eguali, che sacrificando via dei Fori Imperiali collegasse i fori all'Appia Antica, non poteva accontentarsi di restare materia di discussione per soli intellettuali e guadagnò per mesi le prime pagine della stampa internazionale. Tuttavia, l'ambizioso progetto, approvato in sede tecnica e politica nel novembre del 1982, si arenò con la prematura morte del sindaco. Prima però, si ottennero risultati epocali: nel 1980 furono smantellate Via del Foro Romano, che separava il Campidoglio dal Foro Romano, e la trafficata strada che scorreva tra quest'ultimo e il Colosseo, relegato al ruolo di rotatoria.

Protagonista indiscusso di quegli anni fu Adriano La Regina, soprintendente di Roma dal 1976 al 2004. È quindi d'obbligo chiedere lumi all'archeologo, all'epoca accusato di essere un «Nerone dalle manie demolitorie», per lasciarsi alle spalle gli slogan e penetrare nelle reali problematiche sollevate dal manifesto di Marino, il sindaco con cui l'archeologia torna politica per sigillare una cesura. La Regina è oggi presidente dell'Istituto nazionale di archeologia e storia dell'arte, che ha sede a Palazzo Venezia, luogo del nostro incontro.

È soddisfatto dei primi provvedimenti presi da Marino su via dei Fori Imperiali?Ho aderito con convinzione al suo programma partecipando alla manifestazione del 3 agosto. Finora, tuttavia, abbiamo soltanto ascoltato buone intenzioni, nell'ambito delle quali ottimi segnali sono rappresentati da quella che non è nulla più se non una semplice riduzione del traffico, piuttosto che una reale pedonalizzazione. Di per sé, tale provvedimento è comunque utile perché riduce l'inquinamento che, per le emissioni dei motori e le polveri prodotte dal logorio dei pneumatici sull'asfalto, danneggia gravemente i monumenti. Già avevamo avuto piena consapevolezza di questo dramma nel 1978, quando fu per la prima volta verificato e misurato il decadimento delle superfici marmoree dei monumenti romani.

Sono ancora validi i toni apocalittici usati negli anni '70, quando Argan fu assalito dal dilemma «o i monumenti o le automobili»?Considerando che negli ultimi decenni il traffico è aumentato, simili preoccupazioni sono ancora più attuali: pedonalizzare via dei Fori Imperiali è necessario, non solo preferibile. Se i monumenti sembrano meno deturpati da quel nerume grasso che li affliggeva allora, ciò si deve alla sistematica operazione di pulitura e consolidamento finanziata con la cosiddetta Legge Speciale per Roma, la n. 92 del 23 marzo 1981. Quelle misure devono essere però replicate: curare senza eliminare le cause del danno significa accettare la ciclicità del processo. Il nostro progetto, rispetto a quello attuale, aveva un respiro maggiore perché riguardava il recupero integrale delle piazze monumentali antiche allo scopo di restituirle all'uso urbano, politica che ebbe inizio con l'apertura gratuita del Foro Romano al pubblico.
Del resto, teoricamente, non c'è differenza tra Piazza Navona e il Foro Romano. Ovviamente servono controlli e cautele, ma non possiamo dare per scontato che la nostra società sia incivile e che non sia degna di vivere un monumento. Se ragionassimo così, rinunceremmo a inseguire la crescita culturale della comunità.

Dovremmo quindi attualizzare l'antico senza imbalsamarlo, passando dal concetto di monumento a quello di luogo pubblico. In alternativa alla sostanziale continuità urbanistica tra l'epoca napoleonica, sabauda e fascista, il Parco archeologico assume il volto della più rivoluzionaria intuizione urbanistica concepita dalla Roma moderna.L'aspirazione a creare una zona monumentale nel cuore della città è sempre esistita. Le basi teoriche vennero gettate nel Rinascimento, quando Raffaello volle ricostruire con il disegno la città antica per riguadagnarne la conoscenza. Questa volontà diventò concreto impegno politico nel primo ventennio del XIX secolo, nel momento in cui Pio VII iniziò la trasformazione del Campo Vaccino in un'area archeologica unitaria. Solo nel 1980, con l'eliminazione della strada ai piedi del Campidoglio e il collegamento del Colosseo con il Foro Romano, tale programma è stato completato. Il nostro progetto, quello formalizzato nel 1982, non era stato invece mai adombrato, se non in maniera larvale all'inizio del '900 con Corrado Ricci. Non si poteva però pensare, allora, di sbancare lo storico quartiere Alessandrino, costruito a partire dal XVI secolo sui resti dei Fori Imperiali. La possibilità di immaginare un'organizzazione diversa di quello spazio nacque solo constatando che, con le demolizioni di età fascista, lì si è creato un vuoto. Se ciò non fosse accaduto, in seguito a nessuno sarebbe venuto in mente di scavare un intero rione rinascimentale, come nessuno oggi pensa di buttar giù Piazza Navona per tirar fuori lo Stadio di Domiziano.
Tutto cambiò al cospetto di una catastrofe. Nel 1944, a Palestrina, fu distrutto da un bombardamento l'abitato medioevale sovrappostosi al Tempio della Fortuna Primigenia: a quel punto, fu d'obbligo recuperare il santuario. Allo stesso modo, anche a Roma abbiamo assistito alla cancellazione totale di secoli di storia per creare uno stradone anodino diventato presto un'autostrada urbana. A questo punto, siccome al di sotto abbiamo capolavori di Apollodoro di Damasco, i vari fori e il Tempio della Pace, spingiamoci oltre e scaviamo via dei Fori Imperiali. Ne vale la pena.

Pensa sia questo l'obiettivo del sindaco?C'è sicuramente una certa timidezza da parte dell'amministrazione, forse per evitare di riaprire in maniera eclatante dibattiti che, oltre tutto, non possono che essere utili, se l'opinione pubblica viene coinvolta con chiarezza. Un progetto superiore deve esserci necessariamente. Una semplice pedonalizzazione avrebbe una dimensione contenuta anche perché riguarderebbe solo i romani e turisti che, probabilmente, preferirebbero passeggiare nei fori piuttosto che su via dei Fori Imperiali. Il recupero di un nucleo monumentale senza pari al mondo, invece, accenderebbe un interesse universale. Quanto sta succedendo può evolvere in senso positivo, oppure si può arenare nelle secche di un innocuo cabotaggio.

Quale senso avrebbe la strada senza automobili, taxi, autobus? La via non è un monumento in sé. È chiaro che una pedonalizzazione totale porterebbe nella direzione del suo scavo. Se c'è un padre nobile di un simile approccio, il merito va soprattutto all'architetto Leonardo Benevolo: il teorico di una nuova Roma in cui si deve costruire per sottrazione, non per addizione. Tanti e tali i guasti speculativi da cui è stata mortificata, che per restituire alla città decoro urbano e qualità della vita bisogna procedere per eliminazione. Fu Benevolo, considerato da molti un matto, un Nerone peggiore di me, a conferire valore scientifico al nostro progetto, coinvolgendo urbanisti di primo piano e specialisti del traffico.

Una via dei Fori Imperiali non pedonale ha inoltre il difetto di concentrare il traffico sul centro, mentre bisognerebbe de-localizzare Roma per migliorarla. Il dibattito sui fori deve riguardare anche la periferia? Toccare punti nevralgici comporta obbligatoriamente un nuovo disegno della città, globale. Troppi interventi hanno stravolto la periferia romana. Noi avevamo individuato lo strumento cardine della sua protezione nel vincolo dei suoli agricoli, chiedendo invano una legge che li tutelasse. La maggior parte dei terreni urbani sono stati oggetto di manovre speculative per poterli acquistare come suoli agricoli e, in seguito, chiederne la conversione in edificabili: costa molto meno trasformare un campo in un quartiere, che intervenire su un quartiere già esistente. Pensammo che se questi terreni fossero stati tutelati sarebbe stato indotto automaticamente il recupero delle periferie, così come era avvenuto per i centri storici grazie alla legge Ponte del 1967.

Una prospettiva di città, quella degli anni che vanno dal 1976 all'85, alimentata da un coraggio mai più ritrovato. Perché fallì?Se Petroselli non fosse scomparso così improvvisamente, avremmo ottenuto successi maggiori. Non so, tuttavia, se avrebbe avuto la forza di portare a compimento l'intero progetto. Si cristallizzarono subito due posizioni opposte e troppi furono gli interessi in ballo perché la cultura non fosse soverchiata dalla politica. Il dibattito fu ferocissimo, come si può leggere sui quotidiani dell'epoca. E, alla fine, prevalse la Roma democristiana.

Ma lei ancora ci crede?Io sono sicuro che il Parco Archeologico Centrale si farà e che l'asse Fori-Appia andrà ben oltre i limiti del comune di Roma. L'incertezza riguarda soltanto i tempi. L'idea ha una forza di attrazione inarrestabile; il futuro asseconderà naturalmente questa tendenza. Ci piacerebbe però che non fosse troppo in là, che non ci vogliano duecento anni come fu necessario per riportare in vita il Foro Romano.

l Fatto Quotidiano, 12 Ottobre 2013 (m.p.g.)

Non potrebbe esserci situazione più simbolica: per non intaccare la ricchezza privata si aggredisce la ricchezza pubblica, per non far pagare l’Imu nemmeno ai milionari si svendono gli immobili che appartengono a tutti, e dunque anche a chi non ha nemmeno una casa propria. Come sempre quando si tratta di raschiare il fondo del barile, anche il governo Letta lancia la vendita del patrimonio immobiliare pubblico: case, palazzi, castelli e caserme del popolo italiano saranno offerti in vendita a privati e a imprese, italiani o stranieri poco importa. Ci si aspetta di tirar su 2 miliardi di euro da un lotto che comprende un’isola della Laguna di Venezia, un castello medioevale nel Viterbese, ville storiche a Monza come a Ercolano e molto altro. Ci sono molte ragioni per cui questa scelta appare profondamente sbagliata: alcune sono pratiche, altre di principio. Le prime riguardano la congiuntura economica. Perché lo Stato dovrebbe fare ciò che nessuno di noi farebbe volentieri: e cioè vendere in un momento in cui il mercato immobiliare è in ribasso? Non si rischia così di svendere i beni di tutti, magari avvantaggiando la speculazione dei soliti noti? E non sarebbe meglio – parlo degli immobili non storici e non di pregio – affittarli? Magari non a enti pubblici, secondo il percorso perverso per cui non di rado lo Stato vende i beni che ospitano alcune sue istituzioni (per esempio le università), le quali sono poi costrette a pagare l’affitto ai nuovi padroni privati.

Ma, ammesso e non concesso che si riesca a vendere questo patrimonio a prezzi non iugulatori, siamo proprio sicuri che sia meglio monetizzarlo, e cioè esporne i proventi alle altalene di un mercato finanziario che potrebbe farli evaporare in un batter d'occhio, vanificando così il sacrificio di tutti noi? Già, perché l’endemica assenza di consapevolezza circa il fatto che “lo Stato siamo noi”rischia di farci dimenticare che vendendo questa riserva pubblica impoveriamo non solo noi stessi, ma le generazioni future, che ovviamente non hanno alcuna voce in capitolo nelle nostre scelte. Come ha efficacemente scritto Ugo Mattei (in Contro riforme): “In Italia il maggiordomo assunto a termine (la maggioranza del momento) ha il potere di vendere il patrimonio di famiglia (appartenente alla collettività dei cittadini) trasferendolo sottocosto ad attori privati amici e compensando profumatamente le banche d’affari che gestiscono tali ‘cartolarizzazioni’.

Questo vero e proprio saccheggio è stato esercitato in modo rigorosamente bipartisan da governi tecnici e riformisti, tutti preda senza alcuna distinzione degli stessi poteri forti di cui gran parte dei ministri è consulente, o comunque a libro paga”. E il fatto che questa operazione di ulteriore smantellamento della ricchezza pubblica venga affidata alla Cassa Depositi e Prestiti diretta da Franco Bassanini, tra i principali artefici del massacro della Pubblica amministrazione, non fa che confermare l’analisi di Mattei. Oltre al danno patrimoniale, le svendite decise dal governo Letta rischiano di provocarne altri sul piano culturale e sociale. Nelle ultime settimane il comitato di redazione del Corriere della Sera ha pubblicato una serie di comunicati sindacali dedicati alla possibile vendita della storica sede di via Solferino. In uno di essi (25 settembre) si legge che la Rizzoli non è nelle condizioni di Antonio, il Mercante di Venezia di Shakespeare che è costretto a dare in pegno all'usuraio Shylock una libbra della propria carne. Ed è per questo che i giornalisti del Corriere credono che non sia giusto “fare cassa svendendo il patrimonio storico e un pezzo dell’identità del gruppo (libbra di carne)”.

Se questa sacrosanta considerazione vale per il Corriere , essa deve valere a maggior ragione per la Repubblica italiana, che ha messo il patrimonio storico e artistico tra i propri principi fondamentali. Gli immobili pubblici, infine, sono una straordinaria riserva di democrazia,partecipazione e coesione sociali. Nelle nostre città c’è un enorme bisogno di restituire alla gestione diretta dei cittadini gli spazi improduttivi, e dunque sottratti a ogni forma di utilità sociale. Se questo vale, a rigor di Costituzione, addirittura per gli spazi privati, cosa dovremmo dire di quelli che appartengono a tutti noi? L’occupazione del Teatro Valle a Roma, del Teatro Rossi e del Colorificio a Pisa, dell'Asilo Filangieri a Napoli e moltissime altre sono lì a testimoniare la fame di spazi pubblici da rimettere al servizio della comunità. Moltissimi dei nostri archivi e delle nostre biblioteche non hanno spazio, e molti dei nostri musei dovrebbero potersi espandere. E molti degli immobili pubblici comunque a ciò non adatti potrebbero essere piuttosto affittati, a prezzi sociali, a cooperative di giovani pronti a impiantarvi delle attività imprenditoriali. Insomma, solo un cieco o un affarista non vede il potenziale democratico e sociale di un patrimonio che a tutto dovrebbe servire tranne che ad arricchire la speculazione.

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