«Si è costruito molto e in modo mediocre negli ultimi 30 anni. Un ciclo edilizio perpetuo, che neanche la crisi ha fermato, dove città e campagna si sono confuse». La seconda inchiesta sel manifesto sulle città d'oggi, 13 febbraio 3014
Sarà sembrata una città prestante quand’era racchiusa dalle mura, di cui resta qualche lacerto a certificarne il ruolo nel povero sistema difensivo della Sardegna, con tutti quei campanili e gli edifici adibiti funzioni di direzione e di servizio che l’hanno accreditata come capoluogo di una vasta provincia. Così qualcuno ci ha creduto, fino al XVIII secolo, che potesse contendere il primato a Cagliari, favorita dalla presenza stabile del vicerè. Non le manca l’impronta ottocentesca: i luccichii di un teatro, e poi un piano di ampliamento, progettato secondo i criteri collaudati in Terraferma, una sferzata di energia dopo il 1837. Un disegno buono per un secolo, cornice alle architetture in linea con il sentimento nazionale, e poi premessa alla città moderna, con lo sguardo rivolto ai migliori modelli.
La popolazione è cresciuta con un ritmo lento ma costante; per quanto afflitta dalla sovrabbondanza di indigenti alloggiati in case basse e malsane, una circostanza che suscita grande inquietudine dopo la tragica epidemia del 1855. Appena confortata dalla processione dei Candelieri che ogni anno a Ferragosto rinnova il voto contro la peste.
Preoccupazioni fondate; e infatti negli anni ’50 del Novecento si diffonde la Tbc con picchi di mortalità molto più elevati di quelli riscontrati fino a quel momento in Sardegna. Si spiega con l’indice di affollamento (fino a 10 persone/vano), la penuria d’acqua, le fogne inefficienti. Un’emergenza igienico-sanitaria che s’immagina di affrontare con la ricetta di Concezio Petrucci, autore del Piano regolatore generale fascista, facendo tabula rasa del vecchio centro. Con un’idea vaga sul trasferimento della popolazione. I meno abbienti allo sbando, o in lista per accedere al programma Ina-Casa nelle aree di Monte Rosello. I più fortunati impegnati da un po’ a mettersi in salvo, con mezzi propri, lontano dalle vecchie strade Purior hic aer è scritto sulla facciata di una casa, timidamente liberty, nel colle dei Cappuccini).
Si è formato così un pregiudizio, chiave di volta di una ideologia resistente: il nucleo antico causa di tutti i mali, infetto e insanabile. Che sottintende la rinuncia a prestargli cure; meglio amputare, come/dove capita, per ricostruire a piacere; applausi per chi concorre alla catarsi. Primo cimento: due palazzoni (grattacieli — li chiamano i sassaresi) che gettano la loro ombra ben oltre la piazza che a mala pena li contiene.
Una trasformazione fuori misura ma modello per altri interventi più moderati nei dintorni, eccitati dalla convinzione che la vita della città continuerà a svolgersi in quell’area circoscritta dove la borghesia più istruita e facoltosa esprime una multiforme vitalità (nella sede del Pci di Enrico Berlinguer o nella parrocchia di Francesco Cossiga).
Compattezza e frammenti
Non ci sono sintomi che facciano prevedere la dispersione dell’insediamento che si avvierà di lì a poco. Alla propensione secessionista obbedisce la pianificazione intrapresa nei primi anni ’50, attuata nel decennio successivo. Il più rilevante esito di quelle previsioni centrifughe è il quartiere marginal-popolare di Santa Maria di Pisa dove si relega quasi tutta l’edilizia economica dell’ultimo mezzo secolo. Una mossa esiziale per il disegno della città, impedimento per ogni futuro proposito di coesione sociale. A cui si somma lo sparpagliamento nel territorio agricolo di abitazioni unifamiliari su lotti di varia misura, e anche in questo caso i suburbi, più o meno laschi, sono connotati dalla omogeneità del reddito: a sud le ville dei più fortunati, a nord, lungo il percorso dell’antica strada reale, il regno di autocostruttori, spesso abusivi, tollerati dalle amministrazioni altrimenti chiamate a farsi carico di un vasto disagio abitativo.
La crisi del vecchio centro murato è evidente quando, nel 1983, è approvato il nuovo piano regolatore, compiacente verso ogni propensione alla crescita, soprattutto nelle forme più speculative. Dappertutto, e ancora in danno del paesaggio urbano: questa volta alla fisionomia modernista, con la serie di demolizioni di eleganti casette del primo Novecento sostituite da più vantaggiosi edifici multipiano.
Si è costruito molto e in modo mediocre e ovunque negli ultimi 30 anni, anche per rispondere alla immigrazione dai paesi. Non sarebbe difficile quantificare la crescita e preoccuparsi della sproporzione. Il patrimonio edilizio che nel 1919 è costituito da circa 2600 edifici — realizzato in 5–600 anni — è aumentato di almeno sei volte volte nel tempo breve di mezzo secolo (a cui non corrisponde un cosi importante incremento di abitanti). La estensione di territorio investito dal processo di urbanizzazione, fotografata nel passaggio di secolo, è almeno venti volte quello della struttura urbana com’era negli anni Cinquanta, con i suoi preziosi oliveti e orti a contorno.
«Predda Niedda»
Dopo il 1980 è già difficile capire dove finisce la città e comincia la campagna, ma pochi ci fanno caso. Prevale la convinzione che si tratti del metabolismo giusto. E neppure la crisi economica — dagli esordi alla maturità — spinge a riconsiderare la smisurata fiducia riposta nel ciclo edilizio perpetuo, anche da parte delle banche domestiche (quando fiducia sta per credito). Si preferisce conservare l’atteggiamento corrivo che ha contribuito alla graduale svalutazione della città imbruttita dall’ingordigia, e indifferente come altrove al rischio di una bolla immobiliare.
Il più grande errore? Un’area chiamata «Predda Niedda» (pietra nera), centinaia di ettari urbanizzati con denaro pubblico: una «zona industriale d’interesse regionale» (Zir), ma sono pochissime le manifatture in una moltitudine di ipernegozi e negozietti a contorno. Il bilancio: 172mq di superficie commerciale ogni 1.000 abitanti nel distretto sassarese, un rapporto molto più elevato delle medie nel Centro e nel Nord del Paese e che a Cagliari si ferma a 121 mq.
Questo schiacciante trionfo della grande distribuzione ha provocato lo scollamento tra residenze e attività commerciali, amalgama indispensabile per dare senso all’abitare. E quindi la crisi delle attività commerciali nella città compatta, che pensano di risollevarsi omologandosi agli standard e ai codici estetici di «Predda Niedda» premiata da una cangiante movida pomeridiana.
Un nuovo piano urbanistico è in costruzione da una decina di anni. Le previsioni dell’amministrazione di centrosinistra non hanno trovato il consenso della Regione. Il confronto sulle importanti censure è in corso, e non è facile prevederne gli esiti. L’impressione è che l’attività di pianificazione non sia stata accompagnata da un dibattito all’altezza delle attese. Così permangono sottovalutazioni, specie della città «sdraiata», della seconda Sassari dove abitano ormai 30mila cittadini, un quarto della popolazione. Una doppiezza inesplorata: da una parte la città densa con profili da strapaese; dall’altra lo strampalato blob che la accerchia, con le figure tipiche e gli svantaggi della metropoli dissipatrice, energivora, inquinante, disequilibrata e disequilibrante, iniqua. E sconveniente, perché questo modo di vivere ha già un costo insostenibile.
È urgente guardarla bene questa realtà, tutt’altro che fantasmatica: per accettarla senza subirne le scosse, e quindi per governarla. Andando oltre le definizioni spicce (come quella di non-luogo — uffa!).
Nel frattempo sarebbe opportuno smetterla di compromettere altro suolo. Riconsiderando la crescita proposta: un volume per oltre 30mila nuovi abitanti, inconciliabile con il previsto decremento di popolazione di 10mila nel 2030. L’estensione delle urbanizzazioni ad aree ancora libere renderebbe più marcate le distanze, accrescendo le esclusioni e le disuguaglianze.
Il manifesto, 13 febbraio 2014
Sulla campagna per le elezioni regionali di domenica prossima in Sardegna si staglia il fantasma minaccioso del Piano paesaggistico dei sardi (Pps) di Ugo Cappellacci. Il governatore uscente ha pronto un progetto che modifica sino a snaturarlo il Piano paesaggistico regionale (Ppr) approvato nel 2006 dalla giunta Soru. E vorrebbe farlo approvare dalla sua giunta prima di domenica. Un colpo di mano che serve a Cappellacci per tenere caldo uno dei due cardini sui quali ha appoggiato la strategia per la rielezione: lo smantellamento dei vincoli previsti dal Ppr, con il conseguente via libera alla ripresa della speculazione edilizia sulle coste. L’altro cardine è la zona franca. Cappellacci vorrebbe che tutta la Sardegna diventasse una free zone fiscale. Da un lato, quindi, più cemento, dall’altro meno tasse.
Sul tema ambiente lo scontro è aspro e ieri è arrivato sugli schermi televisivi durante il programma Mattino 5, del quale erano ospiti, con Cappellacci, Francesco Pigliaru, il candidato del centrosinistra, e Michela Murgia, alla guida della coalizione Sardegna possibile. Pigliaru ha difeso l’operato della giunta Soru, nella quale è stato assessore al bilancio e alla programmazione dal 2006 al 2006. «Negli anni tra il 2004 e il 2009 — ha detto Pigliaru — il centrosinistra ha fatto un lavoro straordinario per il territorio. Il Ppr è stato la salvezza del paesaggio, che è un bene fondamentale per il nostro sviluppo turistico». Dopo l’annuncio di Cappellacci, durante il confronto di lunedì scorso in Confindustria a Cagliari, di voler commissariare il servizio di valutazione ambientale della Regione Sardegna che non ha ancora espresso il parere sul Pps previsto dalle procedure amministrative, Pigliaru ha attaccato frontalmente il governatore uscente: «Non è contento di aver commissariato tutto: i consorzi di bonifica, le agenzie, le province, le Asl, dicendo che avrebbe fatto le riforme; ora addirittura vuole commissariare dirigenti e funzionari che rispettano appieno le procedure previste dalla legge e giustamente non rispondono ai suoi ordini. Non si sogni di creare questo caos istituzionale per la sua propaganda; se deve fare campagna elettorale appenda manifesti, ma non usi le istituzioni e non si permetta di stravolgere il diritto dentro le istituzioni».
Davanti alle telecamere, incalzati su trasporti e tutela del paesaggio i tre candidati non hanno risparmiato reciproche frecciate. Sui trasporti Cappellacci ha nuovamente attaccato Murgia, ripetendo l’accusa secondo cui la candidata di Sardegna possibile avrebbe «l’appoggio di armatori privati», mentre la scrittrice ha ripetuto che «di queste affermazioni il presidente risponderà davanti ai tribunali». Pigliaru ha invece attaccato Cappellacci, che con i soldi pubblici ha creato una compagnia di navigazione della Regione Sardegna, sulla privatizzazione della Tirrenia, affermando che «la Regione non è stata presente al tavolo nazionale al quale si decideva la partita», di fatto lasciando via libera agli armatori privati. Sul fronte della tutela del paesaggio e del rischio idrogeologico Murgia ha puntato il dito sia contro il centrodestra sia contro il centrosinistra «che difendono gli stessi interessi immobiliari», ricordando che «la Giunta Soru è caduta sul tema urbanistico». In difesa del Ppr si è schierato il segretario regionale del Pd, Silvio Lai: «Approvare la revisione del Piano paesaggistico, per di più con un atto di forza nei confronti dei funzionari regionali, è da irresponsabili. Cappellacci gioca cinicamente la sua partita elettorale, sparando cartucce a salve e sapendo bene che sta approvando un atto senza alcuna efficacia». «L’unico effetto che sortirà — ha aggiunto Lai — sarà quello di creare confusione per chi lavora negli uffici tecnici comunali, dove non sapranno se attenersi al Ppr in vigore o a quello di Cappellacci, che nasce in pieno contrasto con il ministero dei beni culturali e che serve solo per far dire al presidente uscente che almeno una cosa di quanto promesso cinque anni fa in campagna elettorale è stata fatta»
Benefattori della cultura o commensali?
I dettagli della cena che ha fatto infuriare la sovrintendenza
di Elisabetta Ambrosi e David Perluigi,
Qualunque visitatore che oggi entri al Metropolitan di New York può apprezzare i magnifici mazzi di fiori che adornano la sala principale. Un legato testamentario di una signora che ha voluto donare a tutti un piccolo dettaglio di bellezza. Se oltreoceano il mecenatismo ha ancora qualche legame con l’antico significato di colui che aiuta gli artisti ridotti alla fame – o comunque i musei – ad esempio donando con discrezione una collezione privata – da noi il mecenate è l’invitato del salotto buono alla cena “cafona”, stile Grande Bellezza. Che si affitta nientemeno la Galleria Borghese, a Roma, uno dei più bei musei del mondo, utilizzandone l’esterno per una cena sotto enormi en dehors (d’altronde ne è piena la Capitale), di ferro e plastica. Con tanto di cucina abusiva e di danni ai basamenti di tufo del piazzale, denunciati da un furioso Sovrintendente capitolino, che ha preso carta e penna per scrivere al competente Soprintendente del ministero dei Beni culturali.
3 febbraio scorso: sotto gli enormi gazebo – anzi, pardon, sotto il jardin d’hiver firmato dall’esperto di allestimenti Jean Paul Troili – va in onda una cena a tema immortalata da un video esclusivo che pubblichiamo oggi su ilfattoquotidiano.i . Quale il leitmotiv? L’ineffabile agitazione vitale dei ritratti dello scultore Giacometti, la cui mostra veniva inaugurata proprio quel giorno? O il Caravaggio tormentato e ascetico del San Girolamo, presente in Galleria? Macché. Per la cena barocca e dall’età media avanzata meglio ispirarsi alle nature morte del Merisi, opulente solo per chi non sa leggerne la decadenza raccontata dai frutti imprecisi.
Ad affollarsi intorno ai centrotavola con uva e melograni, trecento soliti arcinoti, questa volta in veste di novelli mecenati dell’associazione onlus “Mecenati per Roma”, presieduta da Maite Carpio: produttrice e già finanziatrice di Sant’Egidio, ex veltroniana, già nel Cda dell’Opera di Roma, soprattutto sposata con Paolo Bulgari (a sua volta sostanzioso donatore dell’Accademia di Santa Cecilia).
Invitati? Oltre all’esuberante direttrice della Galleria Anna Coliva, insignita della Légion d’Honneur dall’ambasciatore di Francia Alain Le Roy, lo stesso Alain Le Roy, Gianni Letta, ça va sans dire, (“Stasera vi dovete accontentare dello zio”), i principi Ruspoli, Gaetano Caltagirone, Paolo Scaroni e Fulvio Conti, Sonia Raule, Ferdinando Brachetti Peretti e Rosi Greco, Ginevra Elkann e marito, Luigi Abete, Carlo e Lucia Odescalchi. E poi i fondatori-dei-mecenati Jacaranda Caracciolo Borghese, Silvia Venturini Fendi e Miuccia Prada, il sottosegretario al Mibac Ilaria Borletti Buitoni, Carlo e Lisa Vanzina, Joaquin Navarro Valls, l’Ambasciatore d’Israele Naor Gilon, gli immancabili coniugi Bertinotti e la presidente del Maxxi Giovanna Melandri, apprendista-Coliva del mix pubblico privato all’italiana.
In questa vicenda in cui, al solito, la sensibilità culturale si traduce in spaghettata tra potenti, ci sono vari aspetti. I danni, anzitutto, riportati da una dettagliata relazione della Sovrintendenza capitolina, allertata – insieme alla Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico per il Polo Museale della Città di Roma e alla Sovrintendenza ai Beni culturali – dal presidente del II municipio Giuseppe Gerace. Come riportato sulle pagine romane di Repubblica , oltre ai danni al piazzale, nella relazione del Sovrintendente Claudio Parisi Presicce, è stato evidenziato come vi fosse addirittura una cucina mobile montata senza autorizzazione, così come la tensostruttura collegata al padiglione principale del museo. Anche se le normative spiegano che l’autorizzazione è concessa solo se le strutture utilizzate “sono posizionate a distanza dalle emergenze monumentali e non coinvolgano le alberature e gli arredi presenti in loco”. Ma c’è, soprattutto, una gigantesca questione di stile. Non si poteva, ad esempio, fondare prima l’associazione, di cui non c’è praticamente traccia in rete, e renderla operativa (ad oggi c’è solo una vaga idea di finanziamento per vaghi studi su Caravaggio), invece di buttarsi subito sul magna magna? “Perché rinfocolare l’odio di classe, quando la charity è diffusa in tutto il mondo? Perché alzare i forconi del populismo se il pubblico può esistere solo col Privato”, ha scritto un’indignata Paola Ugolini. Glielo diciamo noi: in Francia fanno pure i bed and breakfast nei consolati, per racimolare fondi. Ma i tubi innocenti e i tiranti legati alle statue del Bernini, fossero anche copie fatte nella Silicon Valley, sono tutt’altra cosa. Perché l’immagine che si dà ai cittadini impoveriti è indelebile: mentre i ricchi si comprano pure la bellezza, il beneficio di tanta “eccellenza” sembra arrivare più alle persone coinvolte che a quelle istituzioni che si vorrebbe difendere dai tagli.
La posta in gioco, materiale e simbolica, del padiglione per feste montato accanto alla Galleria Borghese si comprende guardando alle mille altre situazioni analoghe (anzi, per la verità, assai peggiori) che costellano l’Italia: dalle auto da corsa che rombano nel Teatro Greco di Siracusa ai Masai fatti sfilare agli Uffizi nell’ambito di una sfilata di moda con annessa cena esclusiva; dalla festa di capodanno all’Archivio centrale dello Stato alle partite di golf disputate nelle sale di lettura di una Biblioteca Nazionale, fino al Ponte Vecchio noleggiato alla Ferrari da Matteo Renzi.
Anni e anni di sistematico e pianificato massacro dei bilanci degli enti locali e del ministero per i Beni culturali inducono sindaci, assessori e direttori di biblioteche e musei a far qualche soldo attraverso la privatizzazione temporanea dei loro gioielli. Come ha detto la direttrice della Borghese: “Senza risorse, è l’unico modo di mantenerci”. Ma la prostituzione per indigenza è il modo peggiore per rapportarsi agli interessi privati che chiedono di legittimarsi attraverso l’appropriazione dello straordinario spazio pubblico del nostro patrimonio. E, infatti, in nessun paese del mondo l’apporto dei privati è necessario per garantire la sopravvivenza delle istituzioni culturali pubbliche: perché un simile situazione di ricatto genera necessariamente sudditanza, svendita dei beni comuni, arbitrio.
Se invece lo Stato facesse la sua parte – e cioè se destinasse alla cultura almeno il 3% della spesa pubblica (la media europea è il 2,2, in Spagna è del 3,3: da noi dell’1,1) – potrebbe poi decidere da una posizione di forza quali contropartite eventualmente concedere ai privati.
Nel frattempo, sarebbe vitale che il ministero per i Beni culturali facesse rispettare le regole: perché se è vero che dalla pessima legge Ronchey (1993) i privati possono, in vario modo, “entrare nei musei”, il Codice dei Beni culturali (2004) prescrive che “i beni culturali non possono essere ... adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione”. E i pregiudizi possono essere elevatissimi: nel 1997 abbiamo perduto per sempre la più bella architettura barocca italiana, la torinese Cappella della Sindone, distrutta da un incendio scoppiati dalle cucine provvisorie installate negli adiacenti locali del Palazzo Reale in vista di una cena offerta da Lamberto Dini e Gianni Agnelli a Kofi Annan. Ma c’è un rischio anche più grande: trasformare il patrimonio culturale – che la Costituzione vuole al servizio del pieno sviluppo della persona umana e della costruzione dell’uguaglianza sostanziale – in un potente fattore di legittimazione della disuguaglianza, del dominio del mercato, dell’arbitrio assoluto di una ricchezza disonesta, ignorante, grottesca. Trasformare uno strumento di inclusione in una location esclusiva sarebbe letale: la grande bellezza non sopravvive alla grande ingiustizia.
«Dagli anni Novanta la città e l’hinterland stanno subendo un cambiamento epocale, spinto da deregulation e appetiti speculativi. Rispetto al quale l’attuale giunta non è riuscita a segnare una netta inversione di rotta. Il banco di prova sarà la gestione del post Expo nell’interesse collettivo».
Il primo di una serie di articoli che il giornale ha programmato per comprendere qual'è il risultato d'un trentennio di neoliberalismo in salsa italiana nelle nostre città. Il manifesto, 6 aprile 2014
Milano, che come molte grandi città del mondo occidentale ha subìto dagli Anni Novanta un cambiamento epocale tuttora in corso, sotto la spinta di un mutamento del modello produttivo caratterizzato dall’abbandono delle collocazioni urbane delle grandi fabbriche, delle infrastrutture di trasporto e distribuzione delle merci e delle grandi attrezzature istituzionali (caserme, mercati generali, fiere, ecc.) sostituite da residenze, uffici e grandi centri commerciali, ha da tempo ed ampiamente utilizzato tutte le possibilità consentite dagli strumenti di pianificazione negoziata (Accordi di Programma con la Regione e altri enti pubblici e privati, Programmi Integrati di Intervento per lo più proposti da privati) introdotti dal 1992 in poi, per imprimere nelle grandi trasformazioni urbane derivanti dal riutilizzo di aree dismesse dall’uso produttivo o da servizi tecnologici ampie modifiche di destinazione funzionale e quantità edificatorie rispetto alle previsioni del proprio Piano Regolatore, fissandole arbitrariamente sulla base delle convenienze economiche derivanti ai futuri realizzatori immobiliari dal prezzo della rendita fondiaria attesa dalla proprietà dell’area, anziché da un ragionamento di congruenza ad un progetto urbanistico di città civilmente pensata.
Questo quadro di derelogazione normativo-legislativa e di crescente aggressività dell’iniziativa immobiliare, passata dal circuito fondiario-edilizio a quello della grande finanza che la salda alla fase di riorganizzazione produttiva, ha caratterizzato la cosiddetta politica del “Rinascimento Urbano” perseguita dalle Giunte Albertini/Lupi (1997-2006), prima, e Moratti/Masseroli (2006-2011), poi, che ha costellato tutte le aree dismesse della città di tipologie edilizie estremamente concentrate in altezza e in molti casi con quantità doppie o triple di quelle programmate in precedenza e che, quindi, hanno reso ridicolmente insufficiente il 50% a verde, spesso sbandierato come grande conquista
In questa visione, ogni tentativo di porre limiti ed indirizzi ai criteri di riutilizzo di queste aree sulla base di interessi generali degli utenti delle città è stato considerato un’indebita intromissione nelle “magnifiche sorti e progressive” che le forze economiche e finanziarie stavano attuando con la trasformazione delle città, e per la quale ritenevano propria legittima prerogativa non solo proporre quantità e funzioni secondo una propria valutazione delle opportunità di mercato di volta in volta stimate e una docile adattabilità alle loro eventuali fluttuazioni, ma anche quella di fornirne una conformazione progettuale e di immagine che, ovviamente, nella loro visione atteneva più al carattere della riconoscibilità del marchio o della pubblicità aziendale, che non a quello dei caratteri insediativi o della tradizione culturale del contesto urbano in cui si collocava l’intervento.
Una fase rispetto alla quale l’attuale Giunta Pisapia/De Cesaris non è riuscita a segnare una netta inversione di rotta, subendo passivamente l’attuazione dei progetti già avviati sulle principali aree di trasformazione urbana (ex Fiera Citylife, Centro Direzionale/Porta Nuova/Garibaldi/Repubblica), e in prospettiva sugli scali ferroviari dismessi, sulle ex caserme, sul riuso delle aree dopo l’EXPO 2015, limitandosi a ridimensionare, ancorché sensibilmente, le quantità edificatorie del Piano di Governo del Territorio (PGT) adottato dalla precedente Giunta di centro-destra, senza però riuscire a cambiarne il carattere liberista e privo di indirizzi strategici, impressogli anche da una dirigenza tecnica avvezza ad essere succube degli interessi privati, quando non apertamente collusa, e che non si è avuto la forza e la volontà di avvicendare.
D’altra parte, sotto l’incontenibile appetito di oneri urbanizzativi per tamponare le contingenti esigenze di bilancio, del tutto analogamente si stanno orientando molte amministrazioni comunali dell’hinterland, tra cui l’amministrazione di Sesto San Giovanni, storicamente di sinistra, che nel riuso delle aree dell’ex acciaieria Falck, aderisce a un progetto di Renzo Piano proposto dalla proprietà dell’area con indici edificatori, tipologie e funzioni pressoché identiche a quelle avallate dalle Giunte di centro-destra a Milano.
Molti hanno commentato in maniera un po’ scontata e convenzionale che le scelte in corso a Milano e nell’hinterland segneranno il destino urbanistico dell’area metropolitana per i prossimi venti-trent’anni: non si sono resi conto, tuttavia, di accreditare con ciò una verità paradossale. Infatti, con una scelta per vero discutibile e di dubbia legittimità, la legge urbanistica regionale del 2005 ha deciso di utilizzare in Lombardia solo una pianificazione urbanistica di durata quinquennale, senza più alcun orizzonte strategico di medio-lungo periodo, e quindi le previsioni dei PGT di Milano ed hinterland cesseranno di avere effetto verso il 2016-2018, giusto all’indomani della conclusione del mitizzato evento di Expo 2015.
E’ forse per questo che attorno alle aree di Expo 2015 gli appetiti speculativi sull’uso finale dell’area (che se resa edificabile potrebbe rendere alla proprietà circa 700 milioni di Euro, dopo essere stata acquisita da Fondazione Fiera a prezzi agricoli per circa 60 milioni di Euro e rivenduta alla newco regionale Arexpo a 200 Milioni di Euro) e che hanno aleggiato a lungo nella sotterranea contesa tra i potentati di CL, della Lega e delle Coop, tornano oggi a rispuntare.
Per quanto grande possa essere il potere di convincimento/condizionamento di una Regione Lombardia persistentemente amministrata dal centro-destra (Formigoni, poi Maroni), nell’ Accordo di programma sull’evento Expo 2015 la decisione sull’uso finale delle aree dopo l’evento resta in capo al Comune di Milano, che, dopo aver scelto la linea minimalista di riduzione del danno nell’approvazione del PGT, ora dovrà finalmente esprimersi sull’opzione strategica del mantenimento ad uso pubblico permanente di quell’area o della sua spartizione tra gli appetiti bi-partizan della sussidiarietà cooperativistico-edilizia.
Un banco di prova concreto per verificare, al di là di divisioni ideologiche e schieramenti strumentali, dove risieda la volontà reale delle forze politiche e dei programmi amministrativi di farsi difensori civici dell’interesse collettivo della città.
Infatti, se non si vuole ridurre la discussione sull’assetto urbano che si vuol ottenere a mero pettegolezzo sulle personali preferenze estetiche di questo o quel pubblico amministratore, di questo o di quell’architetto di grido, occorre avere il coraggio di rivendicare alle scelte dell’amministrazione pubblica la responsabilità che una collettività si assume nei confronti della conformazione urbana di cui intende dotarsi, Un tempo l'urbanistica progressista vedeva nel contenimento della rendita fondiaria non solo la possibilità di destinare nuove risorse ad usi più produttivi e socialmente più utili, ma anche di rivendicare una democrazia nelle decisioni su quel bene primariamente pubblico e collettivo che è l’uso della città, del territorio, dell’ambiente.
Oggi, in questa frenesia di privatismo che nei consigli comunali sembra coinvolgere sia la maggioranze che le opposizioni, nemmeno le idee sono più in libera disponibilità, come accadrebbe in una pianificazione promossa da proposte dall’Ente pubblico. Esse, invece, tendono ad appartenere privatamente a qualcuno. Il Comune e i cittadini sono, cioè, liberi di discutere solo le impostazioni progettuali e insediative dell’acquirente con cui il proprietario delle aree ha stretto un contratto, di chi – col più caro prezzo pagato – si è comprato anche il diritto di essere padrone delle idee della città e suo interlocutore unico.
l Fatto quotidiano, 2 febbraio 2014
Bologna regala a Farinetti una Disneyland in campagna
di Carlo Tecce
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La chiamano esperienza sensoriale. Non materiale. E sarà un olezzo di vacche, un profumo di mandarini, un impasto di pizza. E la mungitura farà il latte e il latte sarà mozzarella e la mozzarella sarà capricciosa e la capricciosa sarà fatturato. Un monumento a Eataly, in mezzo a svincoli e viadotti, a una radura larga e lunga 72 ettari, due volte il Vaticano. E il Colosseo sarà invidioso, Venezia e Firenze creperanno. E otto o nove, chissà dieci milioni di italiani e stranieri verranno qui. Dove la pianura bolognese s’ingrossa per i capannoni e le vetrate; la campagna sventrata ansima per il cemento, il legname, i pannelli fotovoltaici e d’acciaio. Ma Natale detto Oscar Farinetti, imprenditore con la passione per Renzi e il biologico di lusso, ha giurato: sarà la Disneyland per il cibo tricolore, datemi 100 milioni di euro, un treno veloce e vi porto 10 milioni di donne, bambini e uomini. E Bologna, la signora rossa sbiadita, s’è consegnata, disarmata, forse disperata.
La sigla Caab suona anonima. La politica l’ha creata vent’anni fa. E ci ha speso oltre 100 miliardi di lire. Caab è un mercato di proprietà pubblica, primo azionista il Comune (80%), che vive di notte e dorme di giorno, che distribuisce frutta e verdura, che incassa centinaia di milioni di euro, che fa lavorare 2000 persone, che sta a Bologna eppure non vicino a Bologna. La stazione centrale è lontana dieci chilometri e un binario morente è ficcato in qualche anfratto. Bob Dylan ha cantato qui per Giovanni Paolo II, era il ’97.
Anno 2012. I limoni e la bietola sono affari precari. E così Andrea Segré, presidente di Caab, ambizioso e renziano, fustigatore di sprechi alimentari (teorizza e pratica il consumo di yogurt scaduti), s’è inventato un acronimo più affascinante, doppio senso, doppio scopo: Fico, fabbrica italiana contadina, dove vendere e mostrare i prodotti. E Farinetti non c’era. Il sindaco Virgilio Merola, candidato da Pier Luigi Bersani e presto convertito a Matteo Renzi, osserva con l’entusiasmo di un vigile che incanala il traffico. E Farinetti non c’era. Il professor Segré, che insegna Agraria e frequenta la Leopolda di Renzi e che gestisce con profitto il Caab, fa un giretto che a Bologna è convenzionale: cooperative, fondazioni, mecenati, cattolici, agnostici. Ci vogliono dei milioni, non pochi, non troppi. Un mese di attesa, un anno e giorni, un anno e mezzo.
Natale detto Oscar non è più ospite di Bologna: il capoluogo emiliano è ospite di Farinetti. Ha convocato una conferenza stampa a Milano, l’11 di febbraio, e gli intrusi saranno Segré e forse Merola. Le ruspe stanno per cominciare a smontare il Caab e i milioni pubblici e privati costruiranno Eataly World. Se va male, Farinetti se ne torna a Firenze. Se va bene, ci guadagna un sacco di denaro. Per pareggiare il bilancio ci vorranno almeno 5,5 milioni di visitatori, che comprano, che mangiano, che vanno e vengono in automobile.
Il padre nobile di Bologna, Romano Prodi, ha posto una semplice domanda: “E con i trasporti come farete, voi dispersi in campagna?”. Il dubbio di Prodi non ha contagiato il sindaco Merola, né la Confindustria locale, né Provincia né Regione. Peggio. È vietato criticare Farinetti e Eataly World. Soltanto Alberto Ronchi, assessore alla Cultura, s’è permesso di suggerire un po’ di riflessione. Per Farinetti è l’investimento perfetto: rischio d’impresa zero contro un sostegno pubblico che vale 55 milioni e una superficie da base aerospaziale. E mentre un dirigente ti indica dove fiorirà la zucca e dove toseranno le pecore, proprio lì, fra le prossime piante di peperoncino e di finocchio, scoloriscono una ventina di Filobus Civis. Dovevano salvare i pendolari bolognesi, non dovevano inquinare e neanche fare rumore. Straordinari. Poi un giorno Bologna s’è accorta che questi Filobus non potevano circolare. E li hanno buttati qui. Prima di un monumento a Eataly World, c’è un monumento alla memoria. Ma non è Fico.
E Siena vuol dare a Eataly Santa Maria della Scala
di Tomaso Montanari
E ora tocca a Siena. Dopo aver accompagnato Oscar Farinetti in giro per la città, il sindaco di Siena Bruno Valentini (Pd, di osservanza renziana) ha detto che il complesso monumentale del Santa Maria della Scala potrebbe diventare un mega-supermercato di Eataly. E ora si aspetta che il sindaco risponda a una interrogazione, dei consiglieri comunali Andrea Corsi e Massimo Bianchini, che lo invita a render pubblico il progetto e ad aprire “una discussione sulla politica culturale del Comune di Siena con particolare riferimento al ruolo da assegnare all’antico Spedale senese”.
Dare un senso ai duecentomila metri cubi dell’ospizio che nel Medioevo accoglieva i pellegrini che percorrevano la Francigena, e che oggi occupa l’ “acropoli” senese è una delle sfide del governo di una Siena orfana del Monte dei Paschi. Il progetto più sensato sarebbe trasformare la Scala nel Museo di Siena per eccellenza, portandoci la Pinacoteca Nazionale e altri musei, il dipartimento di storia dell’arte dell’Università insieme a varie biblioteche, da unire a quella di uno dei più importanti storici dell’arte italiani, Giuliano Briganti. Un progetto che non esclude certo spazi espositivi, caffè e altri luoghi pubblici. Un progetto capace di trasmettere un’idea forte di cittadinanza basata sulla cultura.
Ma fin dagli scorsi mesi ha preso quota un’alternativa commerciale. Molti segnali lasciavano pensare che anche la Scala sarebbe finita in mano a Civita, la più grande concessionaria nazionale di patrimonio culturale, presieduta da Gianni Letta. Attraverso una sua controllata, Civita gestisce già il Duomo e la Torre del Mangia, e mira a conquistare i musei delle contrade e l’assai discutibile Museo del Palio da costruire nell’ambito della candidatura di Siena a capitale europea della cultura 2019. Ma ora le cose sembrano cambiare: un po’ perché la Procura di Siena ha aperto un’inchiesta sulla gestione del Duomo, un po’ perché il vento renziano fa volare la soluzione Farinetti.
Se davvero Eataly riuscisse ad aprire dentro uno dei più importanti spazi storici italiani, si tratterebbe di una importate svolta simbolica nel processo di mercificazione di quello che la Costituzione chiama “il patrimonio storico e artistico della nazione”. Il nuovo negozio fiorentino di Eataly viene reclamizzato sui giornali locali con intere pagine come questa: “Eataly Firenze merita una visita anche solo per gustare ... il Rinascimento. Antonio Scurati, celebre scrittore e professore universitario, ha curato in esclusiva per Eataly un percorso museale che racconta i luoghi, i valori e le figure storiche che hanno contribuito al periodo artistico e culturale più fulgido di sempre. Chiedi l’audioguida al box informazioni”. Ma se il progetto del sindaco di Siena andasse in porto, Eataly non avrebbe più bisogno di mascherare un supermercato dietro un museo inesistente: sarebbe il museo a trasformarsi in supermercato. E possiamo solo immaginare cosa ne verrebbe fuori: una specie di Mall del Gotico, una Gardaland di Duccio, una Las Vegas di Simone Martini.
Ora Siena è a un bivio, deve decidersi: i suoi straordinari beni comuni monumentali possono ancora servire a formare cittadini, o devono trasformarsi in una fabbrica di clienti? Il Santa Maria della Scala sarà una 'piazza' della cultura o sarà un supermercato?
Se Eataly aprirà un negozio a Siena, i senesi avranno un altro posto in cui poter andare a mangiare. Ma se a Farinetti verrà consegnato il Santa Maria della Scala, allora sarà Eataly a essersi mangiato Siena, e i senesi.
Finalmente oltre la fase ideologica e lo stallo, cambia pelle e sostanza uno dei progetti simbolo della metropoli ingiusta dei berlusconidi. Corriere della Sera Milano, 1 febbraio 2014
Fase due. Il futuro di Santa Giulia è disegnato sulle carte di sir Norman Foster, vincolato alla bonifica dei terreni ex Montedison e appeso a una trattativa finanziaria che si trascina da oltre un anno tra la proprietà Risanamento e la sgr Idea Fimit. Il punto di ripartenza della maxi operazione immobiliare è indicato nella nuova proposta di masterplan depositata a Palazzo Marino il 22 gennaio: «È il primo passaggio di un lungo percorso di confronto con gli uffici comunali», dicono dal gruppo Zunino, cioè l’atto formale che introduce gli approfondimenti tecnici e gli accordi di programma. L’orizzonte temporale è piuttosto lungo: serviranno almeno otto-dieci anni, nella migliore delle ipotesi, per completare la trasformazione di 450 mila metri quadri di città al margine Sud-Est di Milano, l’enorme pianura (attualmente sotto sequestro giudiziario) definita come zona Nord di Santa Giulia. La porzione Sud è stata realizzata, dopo un lunghissimo travaglio legale, economico e amministrativo, sulle ceneri delle acciaierie Redaelli.
Questo schema dovrebbe venire approvato entro la fine del 2014. Spiega il vicesindaco e assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris: «Il procedimento di bonifica è già cominciato, ora valuteremo con attenzione — assieme ai cittadini e all’impresa — i parametri su volumetrie e servizi. Una prima conferenza di servizi potrebbe essere riunita a marzo. Le problematiche sono complesse: lavoriamo a ritmi spediti, ma con grande cautela». Quando potrebbero partire gli scavi di bonifica? «Se il privato si dimostrerà collaborativo, potremo procedere velocemente».
Il settore Sud è abitato fin dal 2009. Gli appartamenti sono quasi tutti occupati, c’è la farmacia, sono frequentati i bar-ristoranti ai piedi dei condomini, qualche vetrina è libera o promette l’arrivo di un’attività. Nel lato addossato alla ferrovia, tra via Pizzolpasso e Monte Penice, cresce il complesso Sky e aspetta i cantieri la zona destinata all’Hotel Nh. Stefano Bianco è il portavoce del comitato dei residenti: «L’avvio dell’istruttoria sulla zona Nord è un segnale positivo — riflette —. Ci auguriamo che l’operazione Santa Giulia venga portata avanti concretamente nei tempi previsti».
Studi Trentini, 2, 2013 (m.p.g.)
«Il museo è un'istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell'uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto». Nell'imbarbarimento del discorso pubblico dell'Italia del 2014 anche la piana ed innocua definizione del museo messa a punto dall'International Council of Museums rischia di suonare rivoluzionaria. Ripartiamo dunque da queste parole: per tornare ad indicare con fermezza il senso dei musei.
«Il museo»
Sia consentito ricordare che delle nove Muse nessuna presiedeva alla pittura, alla scultura o all'architettura: il museo prende il nome da un consesso che praticava la poesia in tutte le sue varianti, il canto, il mimo e il teatro, la scienza e la storia. È l'uomo tutto intero intero, il vero progetto del museo. Le competenze specialistiche sono fondamentali: ma l'ago della bussola segue l'humanitas, la civilizzazione, «il pieno sviluppo della persona umana» (Costituzione della Repubblica, art. 3).
«è un'istituzione»
Politica: il museo è un'istituzione politica, un elemento cruciale nella costruzione della polis. E con le altre istituzioni politiche dell'Italia di oggi il museo condivide lo smarrimento, la confusione, a volte la corruzione, spesso il discredito. Ma, proprio come loro, non può essere sostituito con qualcosa di meglio: come loro, per tornare ad essere utile deve tornare ad essere davvero istituzione. Non asservita ai fini di chi temporaneamente la dirige: ma indipendente, autorevole, obbediente solo alla scienza, alla coscienza, alla legge.
«permanente»
Il museo non è una mostra. Non è effimero. Non si smonta. Non apre a singhiozzo. Non deve essere fagocitato, occultato, distrutto dalle mostre che ospita, né spolpato da quelle che alimenta. Deve essere un indirizzo sicuro: dove un cittadino sa che può trovare le opere che cerca.
Non può ridurre la sua attività scientifica, né la sua attività didattica, alle mostre. Forse in questo momento dovrebbe rifiutarsi di accoglierle, promuoverle, alimentarle. È un contesto intellettuale, non un'attrezzeria di scena.
«senza scopo di lucro»
Le opere dei musei sono uscite, faticosamente, dal circuito economico. Hanno un senso nuovo. Un senso che non si vende e non si compra. Un senso che dà senso a ciò che, invece, si vende e si compra.
Un museo che presta le sue opere a pagamento non è un museo. Un museo che noleggia le sue sale a pagamento non è un museo. Non si può servire a due padroni. In Italia, i musei pubblici dovrebbero essere gratuiti. Devono esserlo: come le biblioteche e le scuole.
«al servizio della società e del suo sviluppo»
I musei non sono al servizio di chi li dirige, né di chi ci lavora, né di chi li studia.
Non sono al servizio del denaro, né della classe politica. Non sono al servizio delle società di servizi – che, a Firenze o a Roma, ne hanno fatto 'cosa loro' – ma al servizio della società.
In Italia i musei sono al servizio del progetto della Costituzione: della sovranità del popolo, dell'uguaglianza sostanziale, del pieno sviluppo della persona umana. Al servizio dell'integrazione e della dignità di tutti. L'arte del passato, e i suoi legami con gli uomini e con la natura, ci introducono in un mondo di forme in cui sperimentiamo la disciplina e la libertà, l'invenzione e il realismo. E ci fa anche capire quanti modi diversi ci sono stati, e ci sono, per essere uomini: ci educa alla complessità, alla tolleranza, alla laicità. In una parola, accresce e sviluppa il nostro essere umani: la nostra humanitas, come si dice almeno dai tempi di Cicerone.
«aperta al pubblico»
Al pubblico: non al privato. Come la biblioteca, anche il museo deve essere una piazza del sapere. Non un luogo dove si va una volta nella vita, per vaccinarsi: ma uno spazio pubblico aperto. Ai cittadini, prima che ai turisti. Un luogo dove i bambini possono crescere, gli adulti rimanere umani, gli anziani godersi la libertà. Un luogo dove si va per vedere anche un'opera sola: come si va in biblioteca a leggere un libro. Un luogo dove, chi lo desidera, possa essere guidato: ma dove chi vuole perdersi possa farlo. Un luogo comodo: con molte sedie, buoni ristoranti, belle librerie.Un luogo aperto alla vita quotidiana, non il tempio di uno stanco rito sociale.
«che effettua ricerche»
Il cuore vero del museo è la ricerca. Un museo che non fa ricerca è un deposito di roba vecchia. Il fine non è la tutela: la tutela è uno strumento per la conoscenza. Quella scientifica, che poi deve diventare diffusa. Un museo non è una discarica per politici trombati, giornalisti finiti, membri cadetti di grandi famiglie. Un museo che non è guidato da un ricercatore è come un aereo che non è guidato da un pilota.Se non capiremo che un museo è più vicino ad un laboratorio di fisica che ad un club esclusivo, il museo non avrà futuro.
«sulle testimonianze materiali e immateriali dell'uomo e del suo ambiente»
Il museo è come l'orco della favola: segue l'odore del sangue umano. Non per divorarlo, però: per farlo scorrere più forte. Al centro di ogni museo c'è l'uomo, nel suo contesto: l'ambiente. Il museo non può diventare opaco, non deve essere un feticcio, un idolo. Il museo è un mezzo: più e trasparente, più funziona. Non deve separare dall'ambiente: deve permettere di ricostruire i nessi, non spezzarli. Deve dichiarare la propria condizione di frammento: non autodivinizzarsi, non assolutizzarsi. Non può essere un mondo separato: ma un crocicchio di strade che portano fuori dalle sue mura.
«le acquisisce, le conserva, le comunica»
Le acquisisce per conservarle, le conserva per comunicarle. Un museo che non sa comunicare è meglio chiuderlo. Un museo che appalta la didattica o le mostre a un concessionario, non è un museo.
Nessun mezzo della comunicazione moderna è troppo basso: un museo di ricerca e senza fini di lucro non dovrebbe temere alcun canale di comunicazione. E fosse dato ai musei un millesimo del denaro gettato per comunicare le grandi mostre trash! Il patrimonio è come il repertorio della musica, o quello del teatro: va eseguito, generazione dopo generazione. Va narrato: è indivisibile dal lavoro di chi lo studia, lo 'parla', lo rimette nell'anima dei sui coetanei, lo tiene al centro del discorso pubblico.
«e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto»
Studio vuol dire amore, educazione vuol dire tirar fuori l'umanità che è chiusa nell'uomo, il diletto è la dolcezza che ci avvince alla vita.Se un museo riesce a ridare a queste tre parole il loro significato etimologico, quello profondo: ebbene, quello è davvero un museo.
Stupisce nel brillante articolo l’accreditare De Luca come «il riformatore che aveva restituito dignità a un territorio desertificato» e l’uomo «di sinistra» che ha trasformato Salerno in «una delle più vitali e solari città del sud, con un water front moderno e funzionante». Davvero sono troppi i giornalisti che non sanno comprendere che cosa avviene nelle città. La Repubblica, 25 gennaio 2014
Sembrava, sino a ieri, il meglio e il peggio del sud mischiati in una ganga compattissima: il riformatore che aveva restituito dignità a un territorio desertificato e lo sceriffo guappo che sottometteva la città alla sua legge, padrone e al tempo stesso governatore coraggioso: con lui Salerno è diventata una delle più vitali e solari città del sud, con un water frontmoderno e funzionante, belle strade, grandi architetti e conti in ordine.
Ebbene, tutto questo successo gli ha dato alla testa. E adesso che ha deciso di non obbedire neppure al Tribunale civile, in lui ha definitivamente prevalso il sangue pazzo del meridionale sul politico arguto e virtuoso. E butta fumo dalle narici, subisce il Diritto come una soperchieria, insulta il ministro Lupi che da mesi gli chiede di scegliere: «figurati se mi faccio ricattare da uno come te». E non cede neppure ai giudici. È la versione salernitana del siciliano Mirello Crisafulli, del veneto Cota, del lombardo Formigoni, è il notabile di sinistra che mette se stesso al di sopra di tutto, come fosse un altro unto del signore.
È arrivato, in questo suo “teppismo democratico”, a fare l'elogio dell'immoralità «che ci permette di governare», ha esibito come scalpi le indagini alle quali è sottoposto, di cui non ci occupiamo, e dalle quali gli auguriamo di uscire pulitissimo: «Io sono orgoglioso. In questo paese siamo tutti indagati. Non c'è un amministratore che non abbia un avviso di garanzia. Chi non ce l'ha è una chiavica ». E ha sempre cercato cariche: quando era eletto alla Camera si ricandidava come sindaco; da sindaco si candidava come presidente della Regione; e, podestà di Salerno, “sindaco per sempre” più di Orlando a Palermo, ha golosamente accettato di fare il sottosegretario. E ha candidato pure il figlio, proprio come fecero Raffaele Lombardo in Sicilia e Bossi in Padania: «Quelli che ce l'hanno con mio figlio sono cialtroni e farisei ».
Avrebbe dovuto dimettersi allora, nell’aprile del 2013, quando venne nominato ai trasporti nel governo Letta. L'incompatibilità infatti non ha bisogno di sentenze, si impone per evidenza: se vuoi amministrare
(bene) i trasporti d'Italia non hai certo il tempo di governare (bene) Salerno. È roba da
fantuttone,
da “ghe pensi mi” che purtroppo tradotto in salernitano rimanda al pregiudizio della prepotenza antropologica: «A Salerno mi votano anche le pietre». Solo Brunetta avrebbe voluto fare allo stesso tempo il ministro della Funzione pubblica, il sindaco di Venezia e il deputato. I doppi incarichi e l'amministrazione come accumulo di roba non sono mai stati valori di sinistra, e non basta certo il tifo da stadio dei salernitani che lo eleggono per acclamazione a farne un eroe al di sopra della legge, come gli indimenticabili briganti delle due Sicilie.
E poi c'è quel parlare a gesti, quel lessico da duro pittoresco, una lingua impastata di esclamazioni, minacce, rancori e ripicche. E intanto si tocca, fa le corna e gli scongiuri, si gratta perché Lupi porta sfiga: «non si sa mai, ho due figli, abbiate pazienza: una grattatina ». E «la grillina Lombardi vada a mori’ ammazzata », «il collega del pd Zoggia sembra un raccoglitore di funghi», «il doppio incarico è una palla!», «coglioni!», «dei rom me ne frego!», «le discariche vanno aperte con il carro armato», «nel Pd c'è un gruppo dirigente di miserabili e il partito vive nella demenzialità », «spero di incontrare quel grandissimo sfessato e “pipì” di Marco Travaglio di notte e al buio», «Grillo sta con il panzone al sole», «Monti si mette il chihuahua sulla testa»...
Gli archivi e i blog sono pieni delle gag di De Luca e su Youtube è più cliccato di Ficarra e Picone. Ovviamente è molto parodiato, si ride di lui, è una specie di fattucchiero, una riedizione del Rosario Chiarchiaro interpretato da Totò... In realtà tutto questo divertirsi è una smorfia dolorosa, una partita sospesa sul Sud d’Italia, quello dei notabili e dei capibastone. De Luca, caudillo liberale («sono gobettiano» dice), è l'ennesima sconfitta, forse quella definitiva, dell'utopia dello sviluppo nella terra dei diavoli: da poveri a ricchi, da attardati a veloci, dall'indolenza alla nevrosi, dall'immobilismo all'iperattivismo. Nella miseria del guappo democratico stravaccato su due poltrone c’è la morte di un sogno antico che è anche nostro, il sogno di tutti i meridionali d’Italia, di un Paese che per tre quarti è Meridione.
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Sembrava, sino a ieri, il meglio e il peggio del sud mischiati in una ganga compattissima: il riformatore che aveva restituito dignità a un territorio desertificato e lo sceriffo guappo che sottometteva la città alla sua legge, padrone e al tempo stesso governatore coraggioso: con lui Salerno è diventata una delle più vitali e solari città del sud, con un
water front
moderno e funzionante, belle strade, grandi architetti e conti in ordine.
Ebbene, tutto questo successo gli ha dato alla testa. E adesso che ha deciso di non obbedire neppure al Tribunale civile, in lui ha definitivamente prevalso il sangue pazzo del meridionale sul politico arguto e virtuoso. E butta fumo dalle narici, subisce il Diritto come una soperchieria, insulta il ministro Lupi che da mesi gli chiede di scegliere: «figurati se mi faccio ricattare da uno come te». E non cede neppure ai giudici. È la versione salernitana del siciliano Mirello Crisafulli, del veneto Cota, del lombardo Formigoni, è il notabile di sinistra che mette se stesso al di sopra di tutto, come fosse un altro unto del signore.
È arrivato, in questo suo “teppismo democratico”, a fare l'elogio dell'immoralità «che ci permette di governare», ha esibito come scalpi le indagini alle quali è sottoposto, di cui non ci occupiamo, e dalle quali gli auguriamo di uscire pulitissimo: «Io sono orgoglioso. In questo paese siamo tutti indagati. Non c'è un amministratore che non abbia un avviso di garanzia. Chi non ce l'ha è una chiavica ». E ha sempre cercato cariche: quando era eletto alla Camera si ricandidava come sindaco; da sindaco si candidava come presidente della Regione; e, podestà di Salerno, “sindaco per sempre” più di Orlando a Palermo, ha golosamente accettato di fare il sottosegretario. E ha candidato pure il figlio, proprio come fecero Raffaele Lombardo in Sicilia e Bossi in Padania: «Quelli che ce l'hanno con mio figlio sono cialtroni e farisei ».
Avrebbe dovuto dimettersi allora, nell’aprile del 2013, quando venne nominato ai trasporti nel governo Letta. L'incompatibilità infatti non ha bisogno di sentenze, si impone per evidenza: se vuoi amministrare
(bene) i trasporti d'Italia non hai certo il tempo di governare (bene) Salerno. È roba da fantuttone,
da “ghe pensi mi” che purtroppo tradotto in salernitano rimanda al pregiudizio della prepotenza antropologica: «A Salerno mi votano anche le pietre». Solo Brunetta avrebbe voluto fare allo stesso tempo il ministro della Funzione pubblica, il sindaco di Venezia e il deputato. I doppi incarichi e l'amministrazione come accumulo di roba non sono mai stati valori di sinistra, e non basta certo il tifo da stadio dei salernitani che lo eleggono per acclamazione a farne un eroe al di sopra della legge, come gli indimenticabili briganti delle due Sicilie.
E poi c'è quel parlare a gesti, quel lessico da duro pittoresco, una lingua impastata di esclamazioni, minacce, rancori e ripicche. E intanto si tocca, fa le corna e gli scongiuri, si gratta perché Lupi porta sfiga: «non si sa mai, ho due figli, abbiate pazienza: una grattatina ». E «la grillina Lombardi vada a mori’ ammazzata », «il collega del pd Zoggia sembra un raccoglitore di funghi», «il doppio incarico è una palla!», «coglioni!», «dei rom me ne frego!», «le discariche vanno aperte con il carro armato», «nel Pd c'è un gruppo dirigente di miserabili e il partito vive nella demenzialità », «spero di incontrare quel grandissimo sfessato e “pipì” di Marco Travaglio di notte e al buio», «Grillo sta con il panzone al sole», «Monti si mette il chihuahua sulla testa»...
Gli archivi e i blog sono pieni delle gag di De Luca e su Youtube è più cliccato di Ficarra e Picone. Ovviamente è molto parodiato, si ride di lui, è una specie di fattucchiero, una riedizione del Rosario Chiarchiaro interpretato da Totò... In realtà tutto questo divertirsi è una smorfia dolorosa, una partita sospesa sul Sud d’Italia, quello dei notabili e dei capibastone. De Luca, caudillo liberale («sono gobettiano» dice), è l'ennesima sconfitta, forse quella definitiva, dell'utopia dello sviluppo nella terra dei diavoli: da poveri a ricchi, da attardati a veloci, dall'indolenza alla nevrosi, dall'immobilismo all'iperattivismo. Nella miseria del guappo democratico stravaccato su due poltrone c’è la morte di un sogno antico che è anche nostro, il sogno di tutti i meridionali d’Italia, di un Paese che per tre quarti è Meridione.
Riferimenti
Vedi su eddyburg i molti articoli dedicati al "crescent" di Salerno e alle gesta del suo patron politico. Li abbiamo raccolti in una cartella in cui presentevamo la Salerno di DeLuca come un caso di «demagogia e distruzione edilizia della città saldamente legate in un unico progetto politico e personale».
Lassù si è deciso che «il commercio sarà la leva economica della trasformazione di Torino nei prossimi anni». Tutto il resto è sacrificato
La vicenda della realizzazione del centro congressi nell’ex area Westinghouse in Torino ha assunto i toni ed il carattere di emblema del modo di gestire e –ancor più- di concepire, oggi, l’urbanistica da parte dei nostri politici. L’area in questione –oggi in una zona strategica della città (a contatto con i nuovi Palagiustizia, Politecnico, grattacielo “Intesa-SanPaolo”, grande stazione ferroviaria di Porta Susa, ecc.)- è una di quelle rimaste libere a seguito della dismissione dall’industria che allora occupava zone - poi risultate centrali - in stretto rapporto con le vecchie barriere operaie. La destinazione d’uso di tale area fu quella della realizzazione di una nuova, grande biblioteca centrale multimediale e un centro congressi che fosse una valida alternativa in centro città a quello periferico del ‘Lingotto’. Fu bandito un concorso vinto dall’arch. Bellini.
A prescindere dalla scelta di localizzare il suddetto centro congressi ( per 5000 posti) all’interno della zona centrale urbana e quindi, ancora una volta, escludente le zone periferiche (che ne avrebbero un gran bisogno per risollevarsi dal loro stato di emarginazione dalle strutture fieristiche e culturali) e a prescindere dai problemi di concentrazione e sovrapposizione funzionale e logistica in quella precisa zona (oltre al perdurare della soppressione del piccolo commercio di prossimità), ciò che colpisce è la filosofia di fondo assurta ad ideologia: “..il commercio sarà la leva economica della trasformazione di Torino nei prossimi anni..” in quanto “..non è più immaginabile pagare la riqualificazione aumentando il debito dell’amministrazione..”è stato affermato dall’assessore all’urbanistica torinese Lo Russo.
Dunque, non c’è alternativa? E’ un destino segnato? Se è così, ci si deve adeguare al principio che, per esempio, se anche non c’è alcun bisogno di ipermercati, i torinesi si devono rassegnare ad averli in cambio di ciò che realmente a loro serve. Equivale a stabilire che la città non potrà mai pianificare in base agli effettivi bisogni dei suoi abitanti (cosa già rara in passato) ma dovrà prima assoggettarsi ad un ‘congruo’ numero di centri commerciali nei luoghi più convenienti per essi e, se resteranno ancora aree libere, tentare anche di soddisfare i propri cittadini con i sempre più sacrificati servizi pubblici. Ed è come augurarsi che l’investimento privato in centri commerciali non si esaurisca mai perché, se no, cesserebbe “..la leva economica della trasformazione di Torino..” per il suo sviluppo, il suo avvenire. Ma i megastore, così come il territorio, sono entità finite (come il mondo). Quando non ci sarà più nulla da scambiare con i privati, come faremo?
Abbiamo condannato per anni il ‘rito ambrosiano’, quello della cosiddetta urbanistica contrattata, e ora noi la assumiamo come regola fondante universale? E’ il segno che l’arte del disegno delle città è completamente da rifondare e che, anziché condividere e/o teorizzare l’attuale sua deriva, occorre mettere mano a processi che leghino la fiscalità locale e quella nazionale alle trasformazioni urbane (sempre più rapide e sempre più onerose rispetto al passato) in modo chiaro, preordinato, strategico. Processi che, a partire da iniziative locali, si prefiggano di condurre -in tempi certi- ad una legislazione nazionale per la profonda riforma urbanistica attesa da settant’anni. La riqualificazione/rigenerazione urbane –soprattutto dei grandi centri, come quella del territorio nazionale- deve diventare un punto specifico del programma di governo nazionale e locale. La ri-progettazione/pianificazione della forma e dell’organizzazione delle città deve essere pensata e gestita in base al prevalere dell’interesse pubblico, quindi a prescindere da interessi particolari privati. La partecipazione di quello (economico) privato, pur necessario, non deve in alcun modo condizionare lo sviluppo della città che è e resta ‘pubblica’. Se ciò non avviene -o avviene il contrario (come ora)- è perché la gestione e distribuzione della fiscalità non sono adeguate e corrette: l’armonia e la tutela dei territori vanno di pari passo con l’equità nelle scelte economiche. L’idea che la città deve vendere ciò che ha per sopravvivere o accettare programmi diversi e distorsivi rispetto a quelli previsti, è conseguenza dell’accettazione e sottomissione all’ideologia dell’austerità anziché impegnarsi nel coordinamento dell’azione degli amministratori dei territori per rivendicare il superamento delle sue assurde regole: assurde e profondamente punitive di ogni equilibrato progetto urbano. Al contrario, le risorse devono poter essere accantonate (e usate) dalla fiscalità generale e da quella locale (anche a debito,anche ricorrendo se necessario- all’azionariato popolare) purchè, in totale trasparenza, devolute allo scopo per cui sono state richieste. La politica locale ha il compito-dovere di dirottare in tal senso la politica nazionale. Le città hanno grandi e urgenti progetti da realizzare, se possibile, evitando ai propri cittadini la pena del baratto.
Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2014
Ci Sono voluta Una causa amministrativa Sentenze della Magistratura per Salvare Capo Malfatano, Comune di Teulada, Sardegna. E this E nel contempo una bella cura di Una cattiva notizia.
La bella notizia l'ho Già detta:. Prima il TAR Sardegna e poi il Consiglio di Stato ha sancito l'illegittimità Annone di un'enorme / ennesima Speculazione edilizia Sulle martoriate coste della Sardegna Circa 200.000 metri cubi di cemento a 300 metri Dalla splendida spiaggia di Tueredda.
La cattiva notizia e Che Ancora una volta SIA Stato Necessario l'Intervento della magistratura per Fermare lo scempio. Perché Dall'altra parte erano Tutti d'Accordo, il Comune di Teulada, la Soprintendenza, la Regione Sardegna, ndr ovviamente i costruttori Tra i Quali Benetton ("United Colors of Benetton", ricordate?) E Caltagirone. Da this parte la ferma Volontà di un singolo pastore, Ovidio Marras, di 82 anni, e del supporto Ricevuto dal Gruppo di Intervento Giuridico e di Italia Nostra per Fermare lo scempio. Ed e purtroppo Una cattiva notizia Anche Il Fatto Che Una parte delle costruzioni Sono in corso d'opera.
Ho scritto Già nel passato della follia Caso delle seconde, delle scritte "vendesi" sempre Più Numerose also in Sardegna. Eppure il virus edificatorio arrestarsi non pare. E l'ultimo atto e Stato lo stravolgimento del Piano Paesaggistico di Soru, da parte della Giunta Cappellacci ("cominci a preparare il cemento ei mattoni"), Che darebbe il via libera a Nuove lottizzazioni sul litorale, fortunatamente impugnato dal Governo alla Corte Davanti Costituzionale.
Si dice Che il mondo ambientalista dadi sempre di no. Ma, Vieni dadi giustamente un mio caro amico: "continueremo a dire sempre di no, se Dall'altra parte proporranno e progetteranno sempre le stesse cose".
"Non esiste mondo fuori delle mura di Verona: non c’è che purgatorio, supplizio, l’inferno stesso”, scrive Shakespeare: certo, sotto Flavio Tosi anche dentro quelle mura la situazione non è molto più allegra. Almeno per la cultura.
Non è certo colpa di Tosi se la straordinaria qualità del tessuto artistico veronese è occultata da decenni sotto la coltre di paccottiglia collegata proprio a Romeo e Giulietta: anche se la giunta ci ha messo del suo, spiaggiando di fronte all’Arena una incredibile panchina a forma di cuore per foto di coppia. Da notare il divisorio centrale, che impedisce ai senzatetto di dormirci durante la notte: limiti dell’amore al tempo della Lega. Il tono culturale è invece da cercare nell’idea di Gianni Morandi (sic), che ha proposto a Tosi di dotare di un tetto proprio l’Arena: “Ho pensato che in fondo una copertura avrebbe potuto valorizzare l’anfiteatro, i grandi eventi e la città di Verona”.
Magari il settantenne ragazzo di Monghidoro scherzava, ma il sindaco si è precipitato a Roma: dove però è stato gelato dal ministro per i Beni culturali, il quale deve avergli fatto notare che un anfiteatro romano non è esattamente un palasport. Poco male, a Verona non mancano i progetti di “valorizzazione”. Uno dei più contestati riguarda l’Arsenale austriaco, importantissimo monumento di architettura e urbanistica militare dell’Impero asburgico, e cornice di un giardino pubblico assai frequentato nonostante le pessime condizioni. I cittadini, riuniti in un comitato, chiedono che anche gli edifici trovino una destinazione sociale e culturale, in una città che ha fame di spazi pubblici. La giunta, invece, dopo aver lasciato andare in malora il complesso, preferisce destinarlo alla speculazione edilizia, immaginando di trasformarlo in centro commerciale, attraverso il discutibile strumento del project financing. Il Comune dovrebbe, per di più, investire ben 12 milioni di euro in un progetto che porterà a una privatizzazione di due terzi del complesso per 99 anni. L’appello online che chiede il ritiro dell’operazione (“perché palesemente contraria all’interesse pubblico e a quello delle attività commerciali della zona e perché porterebbe a un enorme aumento del traffico, già ora insostenibile, e a una forte diminuzione del verde pubblico”) ha già raccolto oltre 2500 firme. Un altro caso che ha visto una vivace mobilitazione popolare riguarda Palazzo Bocca Trezza, già sede dell’Istituto d’Arte Nani: un bell’edificio del Cinquecento, ancora denso di decorazioni a stucco e ad affresco.
Dopo aver interrotto ogni manutenzione (nel silenzio incomprensibile della Soprintendenza), e dopo aver permesso che il giardino e il palazzo stesso diventassero una centrale di spaccio, la giunta Tosi si accorge delle pessime condizioni del complesso. Che, guarda caso, non lasciano scelta: bisogna disfarsene, alienarlo, privatizzarlo: cioè, dati i tempi, svenderlo. E tanto peggio per le associazioni, i comitati e i singoli cittadini che presidiano il palazzo e il giardino, propongono destinazioni sociali più che sostenibili, si riuniscono per protestare a suon di musica.
Ma Tosi non è solo capace di vendere, perbacco: sa anche costruire. Un fiore all’occhiello della politica culturale del sindaco è il museo AMO (si scioglie in: ArenaMuseOpera). Per realizzarlo è stato sfrattato dalla sua sede storica uno dei più importanti musei della città, la Galleria d’arte moderna. E il palazzo (che è quello del tiranno medioevale di Verona Ezzelino da Romano, del patriota Pietro Emilei e infine donato alla città da Achille Forti) è stato alienato (è un vizio) alla Fondazione Cariverona. Quindi Tosi (come presidente della Fondazione Arena) ha sostanzialmente preso in affitto (per modici 6,5 milioni di euro) dalla fondazione bancaria ciò che Tosi (come sindaco) aveva venduto, e ci ha realizzato l’AMO. Non ci sono parole per descrivere lo sconcerto di questo non-museo, che ha un salatissimo biglietto di ingresso ed è vietato (iddio sa perché) ai bambini con meno di quattro anni. La cosa più incredibile è che quasi tutti i documenti esposti sono fotocopie, anche se nessuna didascalia lo ammette. L’altra cosa lunare sono le didascalie stesse, un esilarante diluvio di trascrizioni errate e di errori storici (per esempio: Puccini viene fatto morire nel 1901, invece che nel 1924), sintattici, grammaticali. Il nome dell’Archivio e delle edizioni Ricordi (fondamentali, parlandosi di opera lirica) è quasi sempre tradotto in inglese come “Memories”. Con una variante sublime in cui “Casa Ricordi” si trasforma in una severa ammonizione: “Remember the Family”. Che, in effetti, dopo le disavventure del Trota è anche un buon consiglio politico. Insomma, non è poi un male che i numeri che rinviano all’audioguida siano sempre nascosti dai pesanti tendaggi.
La direttrice e curatrice del ‘museo’, che si firma Kikka Ricchio, è soprattutto nota come coautrice del volume Passione e cucina. Sarà per questo che a Verona c’è chi dice che fare un museo in quel palazzo serviva soprattutto ad aprirci un ristorante aggirando il vincolo monumentale. Di certo c’è che la qualità del ristorante è sideralmente superiore a quella del ‘museo’. Sull’ultimo numero dell’Espresso, Salvatore Settis ha notato che Tosi gareggia con Matteo Renzi in “invettive contro le soprintendenze ai beni culturali”. Si capisce: con una politica culturale così forte, aspira all’esclusiva.
Corriere della Sera Lombardia, 16 gennaio 2014, postilla (f.b.)
MILANO — C’è chi ha inventato un’applicazione per smartphone per far incrociare consumatore e azienda agricola. C’è chi ha creato una piattaforma web per le massaie che sono alla caccia di prodotti a chilometro zero. C’è chi ha ideato gli alveari urbani. E ancora: chi ha realizzato una piattaforma digitale di servizi e applicazioni per semplificare le attività in agricoltura, con l’obiettivo di ridurre lo spreco di risorse primarie. E chi ha dato vita a una community per incontrare nuovi amici a tavola. Nuove idee in campagna: vengono dagli agricoltori under 35, una nuova classe di imprenditori della terra che avanza sposando tradizione e creatività, zappa e palmare, tecnologia e sudore.
In Lombardia, i giovani contadini sono uno su 14, il 7,2% del totale, sono titolari di 3.520 aziende (start up e non solo) su un totale di 48.909. In cima alla classifica c’è la provincia di Como con il 12,5% (268 aziende su 2.150), seguita da Lecco con l’11,7% (131 su 1.122) e Sondrio con il 10,2% (268 su 2.621). Una generazione di agricoltori 2.0 che giocherà un ruolo chiave anche in vista dell’Esposizione universale del 2015, com’è emerso ieri al Tavolo agroalimentare di Expo, organizzato dalla Camera di commercio di Milano, nelle sale di palazzo Giureconsulti. Sviluppo sostenibile, salvaguardia dell’ambiente, buona e cattiva nutrizione, lotta alla contraffazione, guerra agli sprechi e innovazione tecnologica. Una lunga lista di sfide da vincere nel presente e nel futuro e su cui questa nuova generazione di imprenditori green costruisce i i progetti di lavoro delle proprie aziende.
Perché, nonostante il numero delle imprese «verdi» sia sceso, nella nostra regione, da 50.506 a 48.909 in dodici mesi, sempre di più i giovani ritornano alla terra, tanto che un nuovo agricoltore su quattro ha meno di 35 anni. Tradotto in cifre: si tratta di 227 su 963 nuove iscrizioni alle Camera di commercio, da gennaio a settembre 2013. Numeri da record, dunque. A cui si somma il fatto che i giovani imprenditori agricoli danno anche ossigeno all’occupazione: hanno infatti creato 3.968 posti di lavoro su un totale di 78.827 in Lombardia.
Ma è per colpa di una disoccupazione galoppante che i giovani riscoprono il fascino antico della campagna? «In questo periodo di crisi, fra i giovani lombardi c’è una forte propensione ad accostarsi a queste attività, più vicine alla natura e all’ambiente — osserva Giovanni Benedetti, della Camera di commercio di Milano —. E stimiamo che il loro numero possa continuare a crescere con l’approssimarsi dell’Expo. Perché l’evento del 2015, certamente, rappresenta un’opportunità per il settore agricolo. Così come i Tavoli Expo possono rappresentare un’opportunità per promuovere le start up e creare sinergie».
Entra nel vivo la scissione dell'atomo di Umberto Veronesi, tra le due componenti della ricerca scientifica e della speculazione edilizia: riuscirà l'esperimento? La Repubblica Milano, 15 gennaio 2014 (f.b.)
Comune e Fondazione Cerba ricominciano a trattare per salvare il Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata. Dopo la decisione di Palazzo Marino, il 18 dicembre, di non concedere un’ulteriore proroga alla firma degli atti integrativi all’Accordo di programma (con conseguente rischio di far decadere il piano), ieri durante una seduta della commissione Urbanistica le parti hanno avviato le prove d’intesa. Il vice sindaco Ada Lucia De Cesaris ha messo sul piatto la proposta del Comune: la revisione del progetto iniziale, con la riduzione dell’impatto urbanistico sul Parco e lo spostamento di parte delle costruzioni in un’altra zona, esterna all’area agricola.
Un’ipotesi che non dispiace alla Fondazione: «Siamo disposti a rivedere il progetto — spiega il direttore generale Maurizio Mauri — La parte del Cerba inerente alla ricerca e all’attività clinica deve essere necessariamente realizzata accanto allo Ieo, nel Parco agricolo Sud. Il resto, però, può anche essere costruito altrove: noi non vogliamo fare alcuna speculazione edilizia, ma solo portare avanti un disegno scientifico».
L’ipotesi sarebbe quella di spostare le “funzioni ancillari” del Cerba (le case per studenti e ricercatori in arrivo dall’estero, i magazzini, le aule per la didattica) in un’altra zona: si potrebbero utilizzare, si ragiona in Comune, alcune di quelle aree dismesse o edificabili che appartengono al pacchetto del fallimento Ligresti, ma si trovano dall’altro lato di via Ripamonti, fuori dal Parco agricolo Sud. Su cui, così, l’impatto potrebbe diminuire anche di un terzo. «Siamo pronti a partire su nuove basi purché sia chiaro l’iter urbanistico — sottolinea De Cesaris — Il Cerba si può fare benissimo con un lavoro di contemperazione. Ci si mette tutti di buona volontà e lo si fa in modo trasparente, con un accordo alla luce del sole e non pasticciato». Uno scenario che la Fondazione non esclude, anche se mette il paletto dei tempi: «Tutto dovrà essere risolto entro un anno, non di più», puntualizza Mauri.
Un compromesso, insomma. Che potrebbe essere formalizzato nelle prossime settimane, con l’avvio di un nuovo tavolo tra Palazzo Marino, Fondazione e Visconti srl, la società costituitadalla banche creditrici di Ligresti per presentare il concordato (che ancora attende l’omologazione) e rilevare il Cerba. Resta il nodo dei ricorsi al Tar, presentati contro il Comune dalla Fondazione e dalla curatela Ligresti, e su cui il Tribunale si esprimerà il 23 gennaio. Se la Fondazione si dice disposta a ritirarlo qualorale trattative dovessero riprendere ufficialmente, quello presentato dalla curatela per ora rimane in piedi. Anche perché è proprio con i curatori fallimentari (che il 27 dicembre hanno scritto al sindaco Pisapia, invocando un ripensamento per evitare che il concordato salti) che i rapporti sono più tesi: «La curatela finora non si è dimostrata disponibile ad arrivare a un compromesso — dice De Cesaris — In questi mesi abbiamo proposto diverse proposte di modifica al piano originale, ma l’accordo non è mai stato raggiunto: se ci avessero seguito, non saremmo a questo punto».
eddyburg) si battono da anni contro la distruzione di un prezioso paesaggio della costa della Sardegna. Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2014, con postilla
MADE IN BENETTON. Ogni tanto una buona notizia. Il 9 gennaio le sessanta cartelle di una sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato hanno salvato un pezzo di paesaggio italiano: Capo Malfatano, all'estremo sud della costa della Sardegna. Qui la Società Iniziative Turistiche Agricole Sarde e una cordata di costruttori di tutto rispetto (Sansedoni, Benetton, Toti e Caltagirone) stavano costruendo hotel e servizi per quasi 200.000 mila metri cubi di cemento (pari a circa 15 palazzi di dieci piani) collocati a 300 metri dalla spiaggia di Tueredda. Se è dovuto intervenire il Consiglio di Stato è perché il Comune di Teulada e la Regione Sardegna avevano tranquillamente concesso tutte le autorizzazioni (ennesimo atto di interessato suicidio), e la Soprintendenza non aveva fatto una piega (ennesima complicità nel suicidio). Il primo a opporsi un semplice cittadino: Ovidio Marras, contadino e pastore di 82 anni, supportato dallo straordinario GrIG (Gruppo di Intervento Giuridico). Ma mancavano i soldi per percorrere fino in fondo l'iter della giustizia amministrativa, ed è qua che è intervenuta Italia Nostra, un'associazione cui tutti noi dovremmo essere profondamente grati. “La sentenza – scrive proprio Italia Nostra – è una vittoria contro un’immensa e continua aggressione all’ambiente. Il Consiglio di Stato non solo ha riconfermato il valore assoluto del paesaggio sugli interessi economici, ma ha anche confermato la funzione delle associazioni in difesa del patrimonio culturale. Un’azione svolta con grande impegno e determinazione dal consiglio regionale di Italia Nostra Sardegna, da Maria Paola Morittu e dall’avvocato Filippo Satta per la difesa di un luogo unico. Malfatano deriva dall’arabo ‘Amal fatah’ che vuol dire ‘il luogo della speranza’, la speranza che per Italia Nostra sentenze come queste indichino quale debba essere il rispetto che il nostro patrimonio storico, artistico e naturale merita ogni giorno nel nostro Paese”. E sembra di vederlo, su qualche nuvola nel cielo della Sardegna, il sorriso di Antonio Cederna.
postilla
Sulla vicenda vedi su eddyburg l'articolo di Maria Paola Morittu,che nell'agosto 2010 ha aperto la critica e lanciato l'appello, gli articolipubblicati nel 2010 da Giorgio Todde (eddyburg) e Sandro Roggio (L’Unità),quelli scritti negli anni successivi da Andrea Massidda e Mauro Lissia (LaNuova Sardegna), Giorgio Meletti (Il Fatto quotidiano), Giorgio Todde (eddyburg). Su Ovidio vedi anche lo splendido servizio di Giorgio Galeano, per TG3,su YouTube.
Corriere della Sera, 14 gennaio 2013
Bellezza e occupazione possono andare d’accordo? Protezione dell’ambiente e occupazione possono sostenersi a vicenda? Chi crede solo nell’industrializzazione forzata, nella liberalizzazione edilizia e nella cementificazione del territorio, risponde di no, sostenendo che arte, cultura, ambiente e prevenzione non danno lavoro e comportano solo spese. Molte voci consapevoli stanno dimostrando invece, prove alla mano, che un Paese privo di materie prime come il nostro, può svilupparsi solo puntando sulle sue eccellenze. Suggerisco a questo proposito un bel libro di Montanari, Leone, Maddalena e Settis, sul rapporto fra Costituzione e ambiente, fra ricchezza accumulata nelle mani di pochi speculatori e perdita del lavoro, (Costituzione incompiuta, Einaudi). D’altronde non posso scordare la risposta di una studentessa vietnamita alla mia domanda del perché studiassero una lingua lontana e poco potente come l’italiano: «Perché siete la più grande potenza culturale del mondo!». Accidenti, mi sono detta, possibile che lo pensino i vietnamiti e da noi nessuno ci faccia caso?
Prendo qualche dato fornito da Roberto Ippolito, autore del lucido e informatissimo libro Ignoranti, Chiarelettere. Quest’anno i visitatori della Biennale d’arte di Venezia sono stati 475 mila, l’8% in più rispetto al 2012. A Torino i musei hanno aumentato i loro visitatori del 50% dal 2012. Nella città di Torino e provincia si contano oggi più di 33.000 addetti alla cultura, il doppio dei dipendenti Fiat. Purtroppo spesso la trascuratezza e la speculazione allontanano i turisti, fino a impoverire intere zone di alta qualità artistica. Ippolito cita il caso di Montescaglioso in Basilicata, dove è franata la località Cinque Bocche. «Strade inghiottite, villette crollate, un supermercato sprofondato, cancellato il collegamento con Potenza». Eppure Montescaglioso è un luogo di importanti testimonianze storiche: «Si trova nel parco delle chiese rupestri del Materano, vanta l’abbazia benedettina di San Michele Arcangelo del XII secolo, fa parte dell’associazione città dell’olio».
Come partecipazione alla vita culturale, l’Italia si trova al 23° posto su 28 Paesi dell’Unione Europea. Fra gli ultimi per laureati, per quantità di lettori, abbiamo una dispersione scolastica da Paese sottosviluppato, e la scuola è degradata. Se andiamo a vedere i dati del turismo, risulta che le città più visitate non sono quelle marine o dei divertimenti, ma le città artistiche, fra cui Torino, Firenze e Venezia. I turisti quest’anno hanno speso 32 miliardi , contro i 29 del 2010, con un aumento del 20%. Mentre ci sono città e luoghi artistici importantissimi come Pompei o Agrigento che, a causa dell’incuria, stanno perdendo visitatori. Insomma è chiaro che lì dove la bellezza è tutelata e protetta, dove l’accoglienza è garantita con visite guidate, vendita di libri, presenza di bar e ristoranti, la gente accorre. Dove c’è abbandono e cattiva gestione, la gente scappa. «L’Italia non ha capito che potrebbe recuperare migliaia di posti di lavoro puntando sulle sue vere, invidiate e inesauribili ricchezze». Chi lo dice? un vietnamita innamorato del nostro Paese o un italiano che tocca con mano tutti i giorni i danni che fanno la speculazione, la cementificazione, il cattivo uso del territorio e dei beni culturali ?
II contenimento del consumo di suolo non comporta solo l'inedificabilità dei suoli attualmente ancora liberi e la densificazione indiscriminata delle aree già urbanizzate. Richiede anche un'utilizzazione ragionevole del già costruito , 11 gennaio 2014, con postilla (f.b.)
È vuota da più di quindici anni: un monumento alle città abbandonate, la Torre Galfa, tanto che un anno e mezzo fa il collettivo Macao l’aveva scelta come prima sede per una breve ma intensa occupazione abusiva. Ora il grattacielo di via Galvani passa dalle mani del gruppo Fondiaria-Sai a quelle del gruppo Unipol (che ha acquistato il gruppo di Ligresti nel 2012), che sta iniziando a studiare un progetto di riqualificazione del Comune. Obiettivo: trovare investitori anche internazionali per poter partire con i lavori di recupero nel corso di quest’anno.
È soddisfatta l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris per un accordo che va nella direzione delle politiche di recupero del costruito fissate anche dal nuovo regolamento edilizio: «Abbiamo avviato un processo condiviso con Unipol per definire il progetto migliore per la riqualificazione della Torre Galfa, che potrà tornare ad essere un elemento di qualità per la città, mi auguro che possa essere d’esempio per gli altri proprietari di edifici abbandonati». Il progetto di riqualificazione e valorizzazione, che riguarderà non solo la torre, ma anche lo spazio urbano circostante, è nella fase iniziale (Unipol ha preso possesso del grattacielo da poco). Non è un caso, forse, che la notizia dell’accordo sia arrivata ieri: perché per oggi alle 14 Macao ha in programma un “laboratorio itinerante” che parte dalla Torre Galfa e arriva nell’edificio attualmente occupato, l’ex macello di viale Molise.
postilla
L'occupazione da parte di un gruppo di artisti del grattacielo griffato anni '60 in pieno centro a Milano, lasciato strumentalmente vuoto dal gruppo Ligresti a marcire, aveva fatto sensazione in tutto il paese: si denunciava esplicitamente tutta l'ideologia della cosiddetta eccellenza e sviluppo del territorio in salsa ciellino-formigoniana. Mentre una massa enorme di metri cubi disponibili a uffici veniva lasciata a far muffa, a duecento metri da un nodo di trasporti come la Stazione Centrale, un isolato più in là si scaraventava inopinatamente sul quartiere una specie di piramide di Cheope fortemente voluta dall'onnipotente governatore, e ancora poco distante crescevano gli altri parti delle fantasie di archistar e immobiliaristi d'assalto. Oggi, la sola idea di far qualcosa di minimamente ragionevole con quel grattacielo, contemporaneo al più noto Pirelli e allineato sulla medesima via Galvani angolo Fara (da cui il nome GalFa), può anche indicare una inversione di rotta. Certo non basta, ma come si dice aiuta. Su questo sito a vedi anche Torre GalFa e la responsabilità sociale dell'immobiliarista, di Diego Corrado e Gaetano Nicosia, ripreso da Arcipelago Milano (f.b.)
La Nuova Venezia, 5 gennaio 2014
«Il nuovo Piano casa approvato dalla Regione non sta in piedi, siamo pronti ad avviare tutte le iniziative legali per salvaguardare le nostre prerogative in materia urbanistica e difendere l’identità dei centri storici. Il 9 gennaio a Venezia i sindaci delle principali città venete concorderanno un documento che getta le basi per il ricorso contro la Regione».
Ivo Rossi, sindaco reggente di Padova, si è sentito a lungo con Giorgio Orsoni di Venezia, Giovanni Manildo di Treviso, Jacopo Massaro di Belluno e Achille Variati di Vicenza, per fissare l’agenda del meeting dei sindaci metropolitani in rotta di collisione con Palazzo Balbi su una materia delicatissima: il governo del territorio, che «rischia di subire l’oltraggio dei nuovi barbari».
Rossi dichiara il pieno appoggio ad Andrea Gios, il sindaco di Asiago che con una delibera del consiglio comunale ha bocciato la legge regionale 32 che spalanca le porte alla riqualificazione urbanistica. Vale a dire: demolire, ricostruire nuovi volumi con ampliamenti del 20 per cento. C’è chi teme una colata di cemento e chi invece spera che il settore dell’edilizia possa ripartire dopo la lunga crisi, grazie ad una procedura che non prevede né gli oneri di urbanizzazione né la concessione edilizia. Una sorta di deregulation che i geometri stanno cavalcando con offerte di consulenze on line, senza però abbassare le tariffe.
Asiago ha rotto il ghiaccio, seguita da Cortina che teme lo snaturamento della propria identità urbanistica con la riconversione selvaggia degli alberghi trasformati in residence. Marino Zorzato, il «padre» del Piano casa 3, non accetta di finire sul banco degli imputati e rilancia la palla ai sindaci: se proprio volete tutelare il territorio, cancellate dai Prg le zone residenziali non edificate su cui fate pagare l’Imu, dice il vicegovernatore del Veneto. Che aggiunge: i danni al territorio nascono dalla fame insaziabile dei comuni che hanno concesso lottizzazioni selvagge negli anni d’oro per incassare gli oneri di urbanizzazione: la festa è finita, anche se l’Imu sui terreni edificabili pesa come un macigno sulle tasche dei proprietari. Zorzato non desidera vincere il premio Attila che Legambiente assegna al «re dei cementificatori» e annuncia che tra martedì il consiglio regionale avvierà l’esame della legge sul consumo zero del territorio. Depositata dal Pd, sottolinea come tra il 1970 e il 2012 la superficie agricola del Veneto è stata ridotta del 9,85% con 180 mila ettari edificati. In quarant’anni il Veneto si è «mangiato» l’intera provincia di Rovigo.
«Il 9 gennaio a Venezia, i sindaci valuteranno i presupposti giuridici per impugnare il Piano casa 3: si tratta di capire se sia più utile ricorrere al Tar per bloccare l’effetto immediato dalla legge 32 o se invece non si debba addirittura chiedere l’intervento della Corte costituzionale. Il tema è molto delicato, perché cancella tutti gli strumenti di pianificazione e di governo del territorio», spiega Ivo Rossi, «azzera trent’anni di cultura urbanistica e spalanca le porte alle deregulation più selvaggia: non si può diventare dei moderni barbari con la scusa di uscire dalla crisi. Ci vuole un grande senso d’equilibrio, capacità di progettare il futuro e rigenerare i quartieri degradati», conclude Rossi. Il summit di giovedì a Venezia affronterà anche la stangata dei pedaggi delle autostrade e gli effetti della legge di stabilità sui bilanci dei comuni. A rappesentare il governo sarà il ministro Flavio Zanonato.
Gruppo d'intervento giuridico onlus, 5 gennaio 2014
L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridicoonlus ha chiesto con una specifica istanza (30 dicembre 2013) al Governo nazionale di proporre ricorso davanti alla Corte costituzionale (art. 127 cost.) avverso la legge regionale Veneto 29 novembre 2013, n. 32 contenente la terza edizione del c.d. piano casa per la lesione delle competenze statali in materia di ambiente e urbanistica (artt. 117 e 118 cost.) e, indirettamente, per lo svuotamento delle competenze comunali in materia urbanistica. Non solo.
In proposito mette a disposizione di chiunque lo desideri un fac simile di istanza da completare con le proprie generalità e qualifica e da rivolgere direttamente al Governo perché impugni davanti alla Corte costituzionale questo vero e proprio regalo alla speculazione edilizia più becera. Chiunque fosse interessato può richiederla all’indirizzo di posta elettronica grigsardegna5@gmail.com. Copia dell’istanza è già stata fornita al Comune di Asiago, insieme a Cortina d’Ampezzo uno dei primi Comuni veneti a battersi apertamente contro il provvedimento legislativo, con una deliberazione consiliare (23 dicembre 2013) di disapplicazione del c.d. terzo piano casa.
Ma è tutt’altro che un piano casa. Bisogna ricordare che il vero e unico “piano casa” è stato il piano straordinario di intervento dello Stato per realizzare edilizia residenziale pubblica su tutto il territorio italiano nell'immediato secondo dopoguerra, con i fondi gestiti da un'apposita organizzazione presso l'Istituto Nazionale delle Assicurazioni, la Gestione INA-Casa, in base alla legge n. 43/1949. Al termine (1963) saranno realizzati ben 355 mila appartamenti nei tanti quartieri “razionali” predisposti grazie anche al contributo di alcuni fra i più importanti architetti e urbanisti del tempo (da Carlo Aymonino a Ettore Sottsass, da Michele Valori a Mario Ridolfi).
In realtà – così come in Sardegna e in altre regioni italiane – si tratta di un provvedimento legislativo adottato per favorire la più becera speculazione edilizia. La terza proroga[1] del finto piano casa e vero piano scempi sarà applicabile fino al 10 maggio 2017 e sarà utilizzabile addirittura per gli edifici realizzati fino al 31 ottobre 2013 (art. 3, comma 2°), per il 20% della volumetria o della superficie esistente (aumentabile di un ulteriore 5% per edifici residenziali o del 10% per gli altri quando si faccia l’adeguamento per la sicurezza sismica), fino a mc. 150 per unità immobiliare, anche su corpi separati entro una distanza di 200 mt. dall’edificio principale.
Nel caso di demolizioni e ricostruzioni con miglioramenti energetici o con edilizia sostenibile gli aumenti volumetrici possono addirittura essere rispettivamente del 70% e dell’80% della volumetria esistente (art. 4, comma 2°), anche su aree di sedime diverse da quelle dell’edificio originario (artt. 4, comma 3° e 11).
Anche per l’obbligatoria rimozione dell’amianto è concesso un aumento volumetrico del 10% (art. 6), così come è incentivata la demolizione di edifici in zone a rischio idraulico con la ricostruzione in altre zone con un premio volumetrico del 50% della volumetria esistente (art. 7). Per l’eliminazione delle barriere architettoniche è concesso un ulteriore ampliamento del 40% della volumetria (art. 12).
Sono inoltre consentiti nuovi centri commerciali nei centri storici anche in deroga agli strumenti urbanistici (art. 16). Non esistono più limiti alle altezze degli edifici, né c’è la minima traccia delle necessarie autorizzazioni ambientali per le aree tutelate con il vincolo paesaggistico (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.) o con il vincolo idrogeologico (regio decreto n. 3267/1923 e s.m.i.) o rientranti in siti di importanza comunitaria e zone di protezione speciale (direttive n. 92/43/CEE e n. 09/47/CE, D.P.R. n. 357/1997 e s.m.i.).
Ma soprattutto – incredibile per una regione come il Veneto dove la Lega Nord governa – di fatto saranno esautorati i 581 Comuni veneti, che non avranno alcuna possibilità di mitigare o adeguare le previsioni legislative alla realtà locale: gli strumenti urbanistici comunali saranno in pratica disapplicati.
Basti pensare a che cosa potrebbe accadere sull’Altopiano di Asiago, sulla Riviera del Brenta o nella conca di Cortina d’Ampezzo, una vera follìa, un autentico far west urbanistico in danno delle aree più pregiate sul piano ambientale e forti richiami per il turismo.
La pianura veneta, un tempo celebrata da poeti e scrittori e già ora a rischio di collasso ambientale, potrebbe divenire un unico capannonificio, inutile e sempre meno ricco di lavoro.
L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico onlus confida in una risposta ferma e determinata da parte dei Comuni, associazioni e comitati veneti, singoli cittadini e – soprattutto – del Governo nazionale perché questo piano scempi sia portato davanti alla Consulta nel più breve tempo possibile.
p. Gruppo d’Intervento Giuridico onlus
Stefano Deliperi
Intervistato da Giampiero Rossi, l'oncologo ci rivela un vero e proprio miracolo di Natale: la scissione del nucleo del suo progetto, fra Scienza e Metri Cubi. Forse è la volta buona per la città. Corriere della Sera Milano, 5 gennaio 2014, con postilla (f.b.)
Sono passate poco più di due settimane dallo strappo tra Palazzo Marino e la Fondazione Cerba. E, in particolare, tra il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris e il fondatore dello Ieo Umberto Veronesi. «Non riesco proprio a capire», diceva il 18 dicembre scorso al Corriere della Sera lo stesso Veronesi, «è davvero strano avere un sindaco contrario a un’opera di scienza, di civiltà, di avanzamento culturale...». Partita chiusa? Molti hanno pensato di sì, la sera in cui la vice di Pisapia ha rifiutato la proroga della convenzione che teneva in vita il progetto Cerba sui terreni del fallimento del gruppo Ligresti, a sud della città. Invece, durante le feste ci sono stati contatti diretti tra il sindaco e Veronesi e adesso, alle parole di distensione del vicesindaco nell’intervista di ieri, risponde il padre dell’oncologia italiana con messaggi altrettanto distensivi.
Professor Veronesi, ha letto le parole di ieri del vicesindaco De Cesaris?
«Sì, ho letto e dico che anch’io sono molto favorevole a riprendere il discorso su basi nuove. Dobbiamo tenere conto anche delle esigenze del Comune».
Prima di Natale sembrava tutto finito, lei era molto amareggiato. Cosa è successo in queste due settimane?
«È vero. Ho capovolto alcune mie posizioni, anche perché in effetti allora ero molto deluso all’idea che potesse sfumare questa grande opportunità per Milano. È successo che in questi giorni ho avuto un lungo dialogo con il sindaco Pisapia, che si è confermato una persona di vedute ampie, che mi ha spiegato le esigenze dell’amministrazione comunale».
E quali sono?
«Innanzitutto noi abbiamo già ridotto notevolmente le volumetrie del progetto iniziale, dopodiché si tratta di ragionare sui terreni nella stessa area ma più a ridosso di via Ripamonti, dove l’impatto ambientale è più ridotto. In pratica si ripropone il problema che avevamo già incontrato vent’anni fa con lo Ieo: dal momento che sorgeva nell’area agricola, quindi doveva essere vicino a via Ripamonti e architettonicamente compatibile, e infatti assomiglia a una grande cascina».
Dunque si tratta di spostare di poco la sede del futuro Cerba?
«Vorrà dire che non staremo in mezzo a un parco ma ai margini. L’importante è salvaguardare il principio del progetto, che resta solido. Noi chiediamo che vengano mantenute le tre aree — oncologia, cardiologia e neuroscienze — e che tutte possano fare capo a un grande centro di ricerca biomolecolare e uno di tecnologie biomediche avanzate. Perché il Cerba deve avere la capacità di diventare il punto di riferimento europeo, sovranazionale come il Nih negli Stati Uniti».
Quindi è tornato ottimista, professore, il Cerba si farà?
«Io credo di sì, che anche il Comune lo voglia fare. La vicesindaco De Cesaris è una donna forte, inflessibile, ci siamo scontrati, ma le riconosco di essere una persona intelligente. Quindi non è difficile trovare un punto di incontro. Presto torneremo tutti attorno a un tavolo».
postilla
Pare davvero di vederlo, il sindaco Pisapia, mentre spiega al professore nuclearista Veronesi le analogie fra la scissione dell'atomo e quella del Cerba: separando le due componenti della Ricerca di livello europeo, e del Metro cubo speculativo ad elevato impatto ambientale (che sinora apparivano inscindibili), si liberano energie straordinarie, in grado di creare occupazione qualificata e avanzamenti del sapere, più e meglio di quanto immaginato sinora sotto la cappa di piombo degli immobiliaristi nascosti dietro la scusa del polo sanitario. Poi naturalmente, come già accaduto e ancora accade ad esempio per certi progetti Expo, ci si può pestare le corna sulla qualità dei progetti, ma nessuno potrà più nemmeno per scherzo etichettare Nemici della Scienza quelli che provano a difendere la relativa integrità della greenbelt agricola milanese, e un metodo di decisione urbanistica degno di un paese civile deberlusconizzato (f.b.)
Nota: su questo sito sono decisamente troppi gli articoli riferiti al progetto Cerba, per poter ipotizzare qui anche indicativamente qualche link specifico. Il suggerimento è di inserire la parola chiave nella finestra del motore interno in alto a destra
L'Unità, 30 dicembre 2013, con postilla
Una follia, più volte denunciata su queste pagine. Tollerata da troppi, contestata da pochi. Un classico esempio dell'oggettistica architetturonica adoperata dal demagogo locale come pedana per lanciarsi al livello nazionale, e riuscire. Un esempio dell'Italia da rottamare. Il manifesto, 29 dicembre 2013
Il Crescent è una presenza incombente sulla spiaggia di Santa Teresa. Nel trionfo di luci che è il centro di Salerno in questi giorni tra Natale e Capodanno, il gigantesco palazzo progettato dall’archistar catalana Ricardo Bofill e la piazza a forma di mezzaluna sulla quale si affaccia e che a sua volta si apre sul mare rimangono invece nella penombra appena il sole tramonta. L’«ecomostro d’autore», emblema della grandeur dell’amato-odiato sindaco Vincenzo de Luca insieme alla vicina Stazione marittima a forma di ostrica progettata da Zaha Hadid, è stato sequestrato dalla magistratura e sul progetto di riqualificazione dell’ex area portuale dismessa pende un’inchiesta penale che coinvolge una trentina di persone, primo cittadino compreso.
Due giorni fa il Consiglio di Stato ha emesso una sentenza che lo boccia a metà e non consente di riprendere i lavori, però ciò non ha impedito ai sostenitori dell’opera di brindare con il bicchiere mezzo pieno. De Luca ha commentato trionfante via Facebook: «È una vittoria senza mezzi termini». I comitati che si oppongono a quello che ritengono un ecomostro d’autore hanno convocato invece una conferenza stampa per ribadire che secondo i giudici amministrativi l’opera è «illegittima a monte», dunque «non condonabile» e pertanto «va demolita e basta, come Punta Perotti a Bari o il Fuenti in Costiera amalfitana».
Per provare a capire chi ha ragione è necessario provare a decodificare le parole dei magistrati amministrativi in relazione al ricorso presentato dall’associazione ambientalista Italia Nostra e poi leggere la sentenza insieme al provvedimento di sequestro dell’area. Ci si accorgerà dell’opposta interpretazione su un punto centrale della questione: l’autorizzazione paesaggistica e la relativa relazione della commissione edilizia integrata inviata alla Soprintendenza di Salerno. Secondo gli ambientalisti «il progetto trasmesso alla Soprintendenza sarebbe un mero progetto architettonico privo dei requisiti che deve possedere il progetto definitivo. Mancherebbero, inoltre, tutte le necessarie indagini geologiche, idrologiche, sismiche, agronomiche, biologiche, chimiche». Così rispondono i magistrati: «Nella motivazione indicata negli atti autorizzatori rilasciati dal Comune non viene descritto in modo dettagliato l’edificio (anche mediante l’indicazione delle dimensioni, venendo in rilievo una struttura con una lunghezza di circa 260 metri, uno sviluppo lineare percepibile di circa 200 metri, una altezza fuori terra di circa 25,80 metri e una cubatura di circa 73 mila metri cubi, dei colori e dei materiali impiegati, non essendo sufficiente affermare che l’amministrazione “condivide l’articolazione dei materiali e delle cromie delle pavimentazioni”), il paesaggio nell’ambito del quale esso è collocato (non essendo sufficiente affermare che la volumetria edilizia a semicerchio porticato è idonea a rimarcare la volontà simbolica di accogliere e definire formalmente ciò che per definizione è continuamente mutevole come il mare), il modo in cui l’edificio si inserisce in modo coerente ed armonico nel contesto complessivo (non essendo sufficiente affermare che le aperture nella cortina edilizia realizzano la necessaria permeabilità visuale, oltre che funzionale, tra la piazza e il tessuto urbano e che l’altezza dell’emiciclo raggiunge il giusto equilibrio tra la profondità della piazza, le altezze di alcuni fabbricati moderni alle spalle e la necessità di monumentalizzare il sito)». Quindi, «le nuove eventuali autorizzazioni dovranno essere oggetto di rinnovate valutazioni da parte dei competenti uffici e, in particolare, della Soprintendenza».
Per il resto è tutto ok. Nessun problema urbanistico, nessuna discrepanza tra il Purbanistico comunale e il Piano attuativo, nessun contrasto con il piano territoriale di coordinamento provinciale, nessuna violazione delle norme di sdemanializzazione, nessuna illegittimità del parere dell’Autorità di bacino sulla deviazione del torrente Fusandola e nessun dubbio sulla relazione sismica.
Ecco spiegato il perché ognuno vede nella sentenza quello che vuole vedere. Per il sindaco De Luca «la sentenza del Consiglio di Stato sul caso Crescent riconosce la piena legittimità di tutta la procedura amministrativa e urbanistica. È stato rilevato un difetto di motivazione rispetto alla valutazione paesaggistica. Si invitano, pertanto, le istituzioni interessate a sanare tale rilievo formale». Però quel difetto «di motivazione» sulla questione paesaggistica appare ben più che una questione meramente formale. È proprio per quel motivo, infatti, che un mese fa la procura di Salerno ha deciso di mettere i sigilli all’opera, mettendo sotto inchiesta trenta persone per abuso d’ufficio, falso in atto pubblico e lottizzazione abusiva. Nel decreto di sequestro del gip Donatella Mancini si sostiene l’illegittimità dell’iter seguito per arrivare all’autorizzazione paesaggistica. Secondo l’accusa, inoltre, amministratori e funzionari pubblici avrebbero «consapevolmente e volontariamente» aggirato le procedure per «accelerare i tempi di realizzazione dell’opera» e «contenere i costi per i privati appaltatori».
Nel frattempo, la piazza della Libertà, la cui forma dovrebbe evocare l’apertura al mare e le antiche relazioni della città mediterranea con il mondo arabo e le cui dimensioni ne fanno la più grande d’Europa con i suoi 35 mila metri quadri, ha avuto un cedimento e rischia di dover essere rifatta. Per De Luca, che al ridisegno urbanistico della città deve gran parte del suo successo politico — dal piano regolatore affidato a Oriol Bohigas negli anni ’90 alla metropolitana leggera inaugurata un mese fa — una volta terminata essa «sarà il simbolo dell’architettura moderna in Italia». Gli attivisti No Crescent non sono della stessa opinione e hanno diffuso un dossier — intitolato «mala gestio» — nel quale denunciano, tra le altre cose, lo spreco di fondi comunitari e la cementificazione di aree demaniali. «Finora è stata costruita solo metà dell’opera, è stato già spostato un torrente e scompariranno duemila metri quadri di mare e seimila di spiaggia», denuncia Pierluigi Morena, un avvocato del comitato.
In questi giorni, al tramonto Salerno si illumina con le «Luci d’artista». La ressa di curiosi e turisti interessati agli addobbi natalizi d’autore ha mandato in tilt la neonata metropolitana e provocato persino una rissa su un bus particolarmente affollato. «Le luci nascondono tante ombre», afferma un altro ambientalista, Oreste Agosto. Tra queste, risalta quella del Crescent.
L’Unità, 29 dicembre 2013
È un crollo. Rovinoso. Come a Pompei, o quelli degli edifici trascinati via dall’acqua in Sardegna dopo le piogge di novembre. Parliamo della percentuale del nostro territorio posto sotto tutela paesaggistica o ambientale, che dal 2008 al 2011 si è ridotto a meno della metà. Dopo la Legge Galasso del 1985, si disse che oltre il 50% del territorio fosse tutelato. Secondo il «Sole 24 Ore» di inizio 2010, con dati che perciò risalivano almeno al 2008, la percentuale si attestava al 46,9%. Se quella cifra è esatta, e non abbiamo motivo per dubitarne, nel 2011 secondo i dati del rapporto «Minicifre» del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (Mibac) siamo crollati sotto il 20%. La metà, in tre anni. Come è potuto accadere?
Lo strumento legislativo che servirebbe ad arginarne la distruzione, sono i Piani paesaggistici, uno per Regione da realizzare in copianificazione con il Ministero dei Beni e le Attività Culturali il paesaggio è stato dichiarato per legge un bene culturale. Ma a dieci anni dall’entrata in vigore delle leggi che li prevedevano (d.l. 42 2004 e l. 137 – 2002), i Piani restano ancora lettera morta. Il tutto appare perverso considerando che proprio l’Italia volle nel 2000 lanciare a Firenze la Convenzione europea del paesaggio, i cui contenuti più innovativi stentiamo ad assorbire nel Codice per i Beni culturali, giunto in meno di dieci anni alla sua terza redazione, con esiti deludenti soprattutto per il paesaggio.
Il caso del Lazio è emblematico: già nel 2007 il Piano paesaggistico è pronto e approvato, ma si attendono le controdeduzioni. La giunta Marrazzo tuttavia conosceva bene gli appetiti della sua regione e, con mossa a sorpresa, lo adotta comunque prima in Italia -, dandosi 5 anni di tempo per modificarlo alla luce di quanto emergerà dalle controdeduzioni e dalle risposte che a queste daranno le pubbliche istituzioni.
Durante la giunta di centrodestra del governatore Renata Polverini il piano si arena e nulla sembra muoversi o, meglio, si muove lei, che si affretta a presentare un piano del tutto diverso: è il «piano casa» regionale, frutto della omonima legge promulgata dal governo Berlusconi che scavalca i piani paesaggistici. La parola d’ordine è: più cemento per tutti per rilanciare l’economia, e parte l’assalto al territorio. Nel frattempo quello tutelato nel Lazio cade dal 46,7% del 2008 al 20,8% del 2011.
L’economia non riparte, anzi peggiora, ma, per fortuna, non parte neppure il piano casa: anche un Pdl come Giancarlo Galan, allora ministro dei Beni e delle Attività Culturali, non riesce a mandare giù una porcata dove l’ufficio legislativo del Mibac rileva una ventina di possibili incostituzionalità: il piano viene bloccato. Nel frattempo, all’inizio del 2013, i termini per la definitiva approvazione del Piano paesaggistico del Lazio stanno scadendo: nella ingloriosa débâcle della giunta Polverini, tra gli scandali di Fiorito e compagnia, alcuni funzionari della Regione fanno passare una proroga di un anno, anche perché sono arrivate le controdeduzioni.
A questo punto è lo Stato che comincia a perdere tempo: dalla direzione regionale Mibac del Lazio si impongono una serie infinita di controlli, si chiede più tutela e tutele incrociate tra le soprintendenze archeologiche, architettoniche e paesaggistiche. Cose anche giuste, ma che hanno poco a che vedere con le controdeduzioni: avrebbero potuto e dovuto essere fatte prima, e comunque si possono fare e ottener e anche dopo l’approvazione del piano. Con lo scarso personale a disposizione delle soprintendenze, il risultato è una dilazione di un anno. A termine oramai scaduto. È un atteggiamento non nuovo per taluni dirigenti del Mibac. In generale di fronte a casi simili è difficile stabilire se si tratti di vero amore per i beni culturali o di quella che è definita la tattica del cosiddetto «finto pasdaran della tutela», che in nome dei sacri principi di un proclamato beneculturalismo blocca tutto, in modo che si vada avanti come sempre, cioè male.
Cosa accadrebbe se il piano paesaggistico della Regione Lazio non sarà definitivamente approvato e adottato prima di febbraio? Si dovrebbe tornare alla «normale amministrazione», antecedente al Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2002: ma in Italia nulla è mai «normale».
La storia della tutela del paesaggio nel nostro Paese è una lunga guerriglia tra Stato e Regioni su chi debba esercitare il controllo: già nel 1972, in base alla legge sul decentramento, il cosiddetto «territorio» passa alle Regioni, aprendo la strada al periodo più nero della cementificazione. Il 28 febbraio del 1985 il primo governo presieduto dall’onorevole Bettino Craxi, ministro delle finanze Bruno Visentini, promulga la Legge n. 47: è il primo storico condono edilizio, ne seguiranno altri due. Associazioni, media, società civile , s’indignano: sotto la pressione dell’opinione pubblica l’8 agosto 1985 viene promulgata la legge 431/85 detta anche Legge Galasso dal nome del sottosegretario ai Beni Culturali Giuseppe Galasso (Pri)–, che introduce una serie di tutele e regole sul paesaggio e l’ambiente, obbliga le regioni a fare dei «Piano paesistici» – cosa diversa da quelli paesaggistici e solo parzialmente realizzati –, e una parte del territorio viene comunque vincolata in base a criteri estetici. Ma la battaglia ricomincia: le Regioni si indignano, perché si sentono deprivate dal controllo del territorio che ritengono un loro diritto, oltreché fonte di notevoli interessi.
Si arriva alla Corte Costituzionale che dalla fine degli anni ’90 con una serie di sentenze stabilisce che il paesaggio è competenza dello Stato, o per lo meno anche dello Stato poiché deve essere considerato in maniera unitaria su tutto il territorio nazionale e non regione per regione. Tra le sentenze spicca quella che bloccando la costruzione di un’installazione militare in Puglia, ricorda agli amministratori regionali che il paesaggio è di prioritario interesse nazionale, superando anche le esigenze militari, almeno in tempo di pace.
Sembrerebbe tutto chiaro. Ecco che si arriva al Codice dei Beni Culturali e ai Piani, che da paesistici sono divenuti paesaggistici e prevedono la collaborazione tra Stato e Regioni: la seconda stesura del Codice, del 2006 ministro Buttiglione, prescrive che la copianificazione sul paesaggio avvenga tra Stato – cioè Mibac – e Regioni su tutto il territorio. Terza stesura del 2008, ministro Rutelli: il Mibac copianifica solo per le aree già vincolate (in entrambi i casi estensore del Codice è Salvatore Settis). Così si tradisce lo spirito e la lettera delle sentenze della Consulta, dal momento che le aree vincolate non sono l’intero territorio nazionale, dando oltretutto adito a infiniti contenziosi fra lo Stato e le singole Regioni, che allungano i tempi della realizzazione dei piani, come infatti è avvenuto.
Nel 2008 subentra un nuovo governo Berlusconi, e il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Sandro Bondi, si allinea allo slogan «più cemento per tutti». A più riprese invita il Mibac ad alleviare i controlli e, attraverso pressioni e nomine mirate, agisce sulle Direzioni Regionali – cui spettano le autorizzazioni. Il 28 aprile del 2010 in Parlamento di fronte alla 13° Commissione permanente spiega che alleggerirà la tutela: si arriva a nuovi regolamenti per l’autorizzazione paesaggistica, che scardinano la Legge Galasso, in maniera subdola, attraverso articoli e articoletti depositati nelle varie leggi omnibus e milleproroghe. Sono gli strumenti per smantellare la tutela, la necessaria premessa al crollo della percentuale di territorio vincolato da oltre il 50% a meno del 20%. Il tutto in un silenzio assordante rotto solo dal «Rapporto sul paesaggio» di Italia Nostra del 2010, a firma Maria Pia Guermandi e Vezio De Lucia, che parlano di «convergenza viziosa – tra Stato, Mibac, regioni ed enti locali– nella elusione amministrativa».
Con la precedente normativa di tutela smontata e depotenziata la Regione Lazio, se non sarà approvato entro febbraio il Piano, e tutto il territorio nazionale saranno esposti ai capricci della sorte: di amministratori locali, spesso incompetenti e soggetti a pressioni e lusinghe del territorio, unitamente a Direzioni regionali del Mibac che si dimostrano sempre più una semplice cinghia di trasmissione tra il potere politico nazionale e gli interessi locali. (1 – continua)
Dopo le elezioni del 2009 per il rinnovo del Presidente e del Consiglio, la Regione Sardegna ha assunto varie iniziative volte ad aggirare e attenuare le misure di tutela del paesaggio ...>>>
Dopo le elezioni del 2009 per il rinnovo del Presidente e del Consiglio, la Regione Sardegna ha assunto varie iniziative volte ad aggirare e attenuare le misure di tutela del paesaggio disposte dal piano paesaggistico regionale approvato nella legislatura precedente. Queste iniziative hanno suscitato non soltanto opposizioni politiche locali e ferme denunce sul piano culturale, ma anche controversie di fronte alla Corte costituzionale descritte nel volume Lezioni di piano[1].
Una di queste controversie si riferisce allo stagno della salina di Molentargius, in Comune di Cagliari, una zona umida che la Regione aveva costituito in parco naturale nel 1999; il piano paesaggistico del 2006 aveva rafforzato la tutela di tutte le zone umide, istituendo una fascia di rispetto di 300 metri. Il contenzioso è nato dopo che il Comune di Cagliari aveva rilasciato la concessione edilizia per la realizzazione in via Gallinara, a poche decine di metri dallo stagno di Molentargius, di un edificio di sei piani, senza curarsi del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, che pure secondo il codice dei beni culturali e del paesaggio costituisce atto distinto e presupposto della concessione edilizia.
Il tribunale amministrativo regionale ha annullato la concessione edilizia, e la sentenza è stata confermata in appello dal Consiglio di Stato[2]. Ma la Regione Sardegna, al fine di salvare l’edificio che nel frattempo era stato effettivamente realizzato, aveva approvato una legge con la quale, a sei anni di distanza dal piano paesaggistico regionale, dava mandato alla Giunta regionale di assumere una deliberazione di interpretazione autentica del piano stesso al fine di stabilire che la fascia di rispetto non si applica alle zone umide, ma solo ai laghi naturali ed agli invasi artificiali, con conseguente esclusione della predetta fascia dal regime di autorizzazione paesaggistica[3]. La disposizione aveva carattere retroattivo, poiché la legge imponeva ai Comuni e agli altri enti competenti di «adottare i necessari atti conseguenti con riferimento ai titoli abilitativi rilasciati a decorrere dal 24 maggio 2006, data di entrata in vigore del Piano paesaggistico regionale», in conformità alla delibera di interpretazione autentica.
La Corte costituzionale non si è lasciata ingannare dalla prospettazione della legge regionale, impugnata dal governo Monti. Essa ha ricordato i propri precedenti, secondo cui le leggi di interpretazione autentica con efficacia retroattiva non sono del tutto escluse ma devono trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza. La Corte ha ricordato altresì che la preminenza del diritto e il diritto a un equo processo stabilito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ostano, in linea di principio, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia. L’unica eccezione, tale da legittimare interventi retroattivi del legislatore, è costituita dalla sussistenza di “motivi imperativi di interesse generale” che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ravvisato al verificarsi di specifiche condizioni, fra le quali la sussistenza di “ragioni storiche epocali” o anche la necessità di porre rimedio a una imperfezione tecnica della legge interpretata, ristabilendo un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore, o di «riaffermare l’intento originale del Parlamento».
La norma regionale della Sardegna impugnata non è stata considerata riconducibile alle fattispecie di leggi retroattive fatte salve dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il suo effetto era quello di una riduzione dell’ambito di protezione riferita a una categoria di beni paesaggistici, le zone umide, senza che ciò fosse imposto dal necessario soddisfacimento di preminenti interessi costituzionali; e ciò, peraltro, in violazione dei limiti che la giurisprudenza costituzionale ha ravvisato alla portata retroattiva delle leggi, con particolare riferimento al rispetto delle funzioni riservate al potere giudiziario.
La Corte ha dunque dichiarato illegittima la norma impugnata, ma ha anche fatto cadere la legge regionale nella sua interezza, estendendo in via conseguenziale la pronuncia di illegittimità anche alla diposizione che imponeva ai Comuni e agli altri enti competenti di adottare, in conformità alla deliberazione di interpretazione autentica della Giunta regionale, i necessari atti conseguenti con riferimento ai titoli abilitativi edilizi rilasciati a decorrere dal 24 maggio 2006, data di adozione del Piano paesaggistico regionale. Quest’ultima disposizione era infatti strettamente e inscindibilmente connessa alla disposizione precedente, non solo perché ne confermava la portata retroattiva, ma anche in quanto ne presupponeva l’applicazione[4].
La motivazione della sentenza è ancora più persuasiva per l’ampio e felice intreccio tra i princìpi della giurisprudenza costituzionale interna e quelli della giurisprudenza sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La legge regionale è risultata in violazione dei princìpi della Costituzione italiana, ma anche e contemporaneamente di quelli del patrimonio costituzionale sovranazionale europeo. Ma la sentenza è anche di buon auspicio per la definizione degli altri contenziosi di costituzionalità in tema di paesaggio nella Regione Sardegna.
L'Unità, 24 dicembre 2013
Quindi, domanda mal posta. Che ne presuppone in genere un’altra (errata). Perché all’estero i grandi musei “sono macchine da soldi” e in Italia no? Una balla sonora. Allo stesso Metropolitan biglietti e altri proventi coprono soltanto ad una metà dei costi, il resto lo si colma con denaro federale, dello Stato, donazioni, ecc. Ugualmente il Louvre che, coi suoi tanto vantati 9 milioni di visitatori e con un apparato di servizi commerciali aggiuntivi da paura ha un 40-45 % di disavanzo annuale. Coperto dal denaro dei contribuenti. Gli inglesi hanno scelto nei Musei nazionali la via della gratuità e, secondo i dati del Department for Culture, i visitatori, dal 2001 al 2012, sono cresciuti del 51 %. Quando i musei impongono un biglietto per le mostre, gli ingressi calano subito. Quindi la gratuità dei musei fa aumentare l’indotto turistico. Dove noi siamo e restiamo deboli, molto deboli.
Il ministro Bray, invece di smentire, dati nazionali e internazionali alla mano, Fazio, ha preferito raccontare la sua tormentata gita ferroviaria a Pompei. E qui cade l’autoflagellazione (o la inarrestabile tendenza “tafazziana”) tipica di noi italiani: parlare soltanto di ciò che va male, e a Pompei non v’è dubbio che è andata molto male. Per l’insipienza degli archeologi? No, per tante ragioni fra le quali il commissariamento demenziale di un certo Marcello Fiori che ora Berlusconi ha eletto timoniere della rinata Forza Italia (auguri) e la sottovalutazione del rischio-camorra negli anni passati. Altra “tafazzata” per la vicenda del gigantesco corno rosso davanti alla Reggia di Caserta: perché non accennare al fatto che la splendida fabbrica, borbonica e murattiana - che ha avuto, certo, problemi seri per i Giardini - è stata splendidamente restaurata anni fa dallo Stato?
Bray è stato efficace, va detto, sui Bronzi di Riace finalmente restaurati e presto di nuovo esposti nel Museo di Reggio Calabria nonostante le pressioni per portarli in città turisticamente più appetibili, o magari all’estero, come sta succedendo al Galata morente dei Capitolini, ai 35 Raffaello mandati nel lontano Giappone o ai tanti Caravaggio fatti viaggiare su e giù in Tir. Con tutti gli stress climatici e fisici del caso. Ma soprattutto sottraendoli ai visitatori stranieri venuti apposta nei nostri musei per ammirarli. E imbufaliti.
Un’altra scemenza ormai in vena: siamo dei poveretti perché nel centro storico romano non circolano (?) le masse di turisti di Berlino, di Londra, o di Parigi. Trascurando due o tre cosucce: a) che l’Italia può offrire una dozzina di capitali dell’arte oltre a Roma (Firenze, Napoli, Venezia, Palermo, Genova, Torino, Milano, Bologna, magari Mantova e Parma, e pure Assisi e Pompei); b) che a Roma il centro storico romano, medioevale, rinascimentale, barocco, neoclassico, ecc. esiste ancora, con una fitta rete di strade, stradette, vicoli e piazzette, che - al pari della Galleria Borghese dove le visite sono ovviamente contingentate per ragioni di sicurezza e di microclima - non possono essere “gonfiate” e trasformate in un totale Divertimentificio essendovi residenti, fissi e saltuari, uffici, pubblici e privati, insomma una città - mentre a Londra (per incendi e speculazioni), a Berlino (per le bombe) e a Parigi (per il barone Haussmann) - il centro storico medievale e successivo non esiste più, se non a brandelli; c) che già la flotta di bus turistici e di quelli dei pellegrini, per ora sgovernata, sta rendendo meno vivibile, a tutti, Roma. Quanto ai dati sul turismo a Roma, ci andrei cauto: quelli ufficiali registrano forse la marea dei B&B in nero sorti di recente e il pianeta delle case religiose offerte a buon prezzo un po’ dovunque? Un’ultima cosa (trascurata dai luoghi comuni calcificati): il turismo che va per chiese, e non solo per musei, chi lo censisce? E però nel Sud le chiese conservano i due terzi circa del patrimonio. A Roma - nel tratto fra Ponte Sant’Angelo e il Pantheon, un paio di Km scarsi - incontri l’antica Zecca e palazzi vicini (Sangallo), l’Oratorio dei Filippini (Borromini), la Chiesa Nuova (2 Rubens, 2 Barocci, un Guido Reni, ecc.), San Salvatore in Lauro (Pietro da Cortona e il Cenacolo dei Piceni, arte veneta), Santa Maria della Pace (Raffaello, Peruzzi, Gentileschi, il chiostro di Bramante, Pietro da Cortona), Sant’Andrea della Valle (grandioso ciclo di Domenichino, Mattia Preti, Lanfranco, ecc.), Sant’Agnese in Agone (Borromini) e, dico niente, piazza Navona (Bernini e altri), Sant’Agostino (Raffaello e Caravaggio), San Luigi dei Francesi (Caravaggio, e che Caravaggio, e Domenichino) e altro ancora prima del Pantheon che, essendo una chiesa, non fa pagare né registra ingressi…Chi fa conoscere o “promuove” questo patrimonio? Nessuno. Santa Maria della Pace è aperta tre mattine, stentate, a settimana.
“Unità”, 24 dicembre 2013