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«Si è costruito molto e in modo mediocre negli ultimi 30 anni. Un ciclo edilizio perpetuo, che neanche la crisi ha fermato, dove città e campagna si sono confuse». La seconda inchiesta sel manifesto sulle città d'oggi, 13 febbraio 3014

Sas­sari nasce in un ter­ri­to­rio vasto, ottimo per l’uso agri­colo; ma per la sua popo­la­zione la vita non sarà facile. Il risul­tato della fati­cosa tra­ver­sata nel tempo, tra care­stie e pesti­lenze, è un inse­dia­mento gra­cile, eppure sor­pren­dente se con­fron­tato con i limi­tati mezzi a disposizione.

Sarà sem­brata una città pre­stante quand’era rac­chiusa dalle mura, di cui resta qual­che lacerto a cer­ti­fi­carne il ruolo nel povero sistema difen­sivo della Sar­de­gna, con tutti quei cam­pa­nili e gli edi­fici adi­biti fun­zioni di dire­zione e di ser­vi­zio che l’hanno accre­di­tata come capo­luogo di una vasta pro­vin­cia. Così qual­cuno ci ha cre­duto, fino al XVIII secolo, che potesse con­ten­dere il pri­mato a Cagliari, favo­rita dalla pre­senza sta­bile del vicerè. Non le manca l’impronta otto­cen­te­sca: i luc­ci­chii di un tea­tro, e poi un piano di amplia­mento, pro­get­tato secondo i cri­teri col­lau­dati in Ter­ra­ferma, una sfer­zata di ener­gia dopo il 1837. Un dise­gno buono per un secolo, cor­nice alle archi­tet­ture in linea con il sen­ti­mento nazio­nale, e poi pre­messa alla città moderna, con lo sguardo rivolto ai migliori modelli.

La popo­la­zione è cre­sciuta con un ritmo lento ma costante; per quanto afflitta dalla sovrab­bon­danza di indi­genti allog­giati in case basse e mal­sane, una cir­co­stanza che suscita grande inquie­tu­dine dopo la tra­gica epi­de­mia del 1855. Appena con­for­tata dalla pro­ces­sione dei Can­de­lieri che ogni anno a Fer­ra­go­sto rin­nova il voto con­tro la peste.

Pre­oc­cu­pa­zioni fon­date; e infatti negli anni ’50 del Nove­cento si dif­fonde la Tbc con pic­chi di mor­ta­lità molto più ele­vati di quelli riscon­trati fino a quel momento in Sar­de­gna. Si spiega con l’indice di affol­la­mento (fino a 10 persone/vano), la penu­ria d’acqua, le fogne inef­fi­cienti. Un’emergenza igienico-sanitaria che s’immagina di affron­tare con la ricetta di Con­ce­zio Petrucci, autore del Piano rego­la­tore gene­rale fasci­sta, facendo tabula rasa del vec­chio cen­tro. Con un’idea vaga sul tra­sfe­ri­mento della popo­la­zione. I meno abbienti allo sbando, o in lista per acce­dere al pro­gramma Ina-Casa nelle aree di Monte Rosello. I più for­tu­nati impe­gnati da un po’ a met­tersi in salvo, con mezzi pro­pri, lon­tano dalle vec­chie strade Purior hic aer è scritto sulla fac­ciata di una casa, timi­da­mente liberty, nel colle dei Cappuccini).

Si è for­mato così un pre­giu­di­zio, chiave di volta di una ideo­lo­gia resi­stente: il nucleo antico causa di tutti i mali, infetto e insa­na­bile. Che sot­tin­tende la rinun­cia a pre­star­gli cure; meglio ampu­tare, come/dove capita, per rico­struire a pia­cere; applausi per chi con­corre alla catarsi. Primo cimento: due palaz­zoni (grat­ta­cieli — li chia­mano i sas­sa­resi) che get­tano la loro ombra ben oltre la piazza che a mala pena li contiene.

Una tra­sfor­ma­zione fuori misura ma modello per altri inter­venti più mode­rati nei din­torni, ecci­tati dalla con­vin­zione che la vita della città con­ti­nuerà a svol­gersi in quell’area cir­co­scritta dove la bor­ghe­sia più istruita e facol­tosa esprime una mul­ti­forme vita­lità (nella sede del Pci di Enrico Ber­lin­guer o nella par­roc­chia di Fran­ce­sco Cossiga).

Com­pat­tezza e frammenti

Non ci sono sin­tomi che fac­ciano pre­ve­dere la disper­sione dell’insediamento che si avvierà di lì a poco. Alla pro­pen­sione seces­sio­ni­sta obbe­di­sce la pia­ni­fi­ca­zione intra­presa nei primi anni ’50, attuata nel decen­nio suc­ces­sivo. Il più rile­vante esito di quelle pre­vi­sioni cen­tri­fu­ghe è il quar­tiere marginal-popolare di Santa Maria di Pisa dove si relega quasi tutta l’edilizia eco­no­mica dell’ultimo mezzo secolo. Una mossa esi­ziale per il dise­gno della città, impe­di­mento per ogni futuro pro­po­sito di coe­sione sociale. A cui si somma lo spar­pa­glia­mento nel ter­ri­to­rio agri­colo di abi­ta­zioni uni­fa­mi­liari su lotti di varia misura, e anche in que­sto caso i suburbi, più o meno laschi, sono con­no­tati dalla omo­ge­neità del red­dito: a sud le ville dei più for­tu­nati, a nord, lungo il per­corso dell’antica strada reale, il regno di auto­co­strut­tori, spesso abu­sivi, tol­le­rati dalle ammi­ni­stra­zioni altri­menti chia­mate a farsi carico di un vasto disa­gio abitativo.

La crisi del vec­chio cen­tro murato è evi­dente quando, nel 1983, è appro­vato il nuovo piano rego­la­tore, com­pia­cente verso ogni pro­pen­sione alla cre­scita, soprat­tutto nelle forme più spe­cu­la­tive. Dap­per­tutto, e ancora in danno del pae­sag­gio urbano: que­sta volta alla fisio­no­mia moder­ni­sta, con la serie di demo­li­zioni di ele­ganti casette del primo Nove­cento sosti­tuite da più van­tag­giosi edi­fici multipiano.

Si è costruito molto e in modo medio­cre e ovun­que negli ultimi 30 anni, anche per rispon­dere alla immi­gra­zione dai paesi. Non sarebbe dif­fi­cile quan­ti­fi­care la cre­scita e pre­oc­cu­parsi della spro­por­zione. Il patri­mo­nio edi­li­zio che nel 1919 è costi­tuito da circa 2600 edi­fici — rea­liz­zato in 5–600 anni — è aumen­tato di almeno sei volte volte nel tempo breve di mezzo secolo (a cui non cor­ri­sponde un cosi impor­tante incre­mento di abi­tanti). La esten­sione di ter­ri­to­rio inve­stito dal pro­cesso di urba­niz­za­zione, foto­gra­fata nel pas­sag­gio di secolo, è almeno venti volte quello della strut­tura urbana com’era negli anni Cin­quanta, con i suoi pre­ziosi oli­veti e orti a contorno.

«Predda Niedda»

Dopo il 1980 è già dif­fi­cile capire dove fini­sce la città e comin­cia la cam­pa­gna, ma pochi ci fanno caso. Pre­vale la con­vin­zione che si tratti del meta­bo­li­smo giu­sto. E nep­pure la crisi eco­no­mica — dagli esordi alla matu­rità — spinge a ricon­si­de­rare la smi­su­rata fidu­cia ripo­sta nel ciclo edi­li­zio per­pe­tuo, anche da parte delle ban­che dome­sti­che (quando fidu­cia sta per cre­dito). Si pre­fe­ri­sce con­ser­vare l’atteggiamento cor­rivo che ha con­tri­buito alla gra­duale sva­lu­ta­zione della città imbrut­tita dall’ingordigia, e indif­fe­rente come altrove al rischio di una bolla immobiliare.

Il più grande errore? Un’area chia­mata «Predda Niedda» (pie­tra nera), cen­ti­naia di ettari urba­niz­zati con denaro pub­blico: una «zona indu­striale d’interesse regio­nale» (Zir), ma sono pochis­sime le mani­fat­ture in una mol­ti­tu­dine di iper­ne­gozi e nego­zietti a con­torno. Il bilan­cio: 172mq di super­fi­cie com­mer­ciale ogni 1.000 abi­tanti nel distretto sas­sa­rese, un rap­porto molto più ele­vato delle medie nel Cen­tro e nel Nord del Paese e che a Cagliari si ferma a 121 mq.

Que­sto schiac­ciante trionfo della grande distri­bu­zione ha pro­vo­cato lo scol­la­mento tra resi­denze e atti­vità com­mer­ciali, amal­gama indi­spen­sa­bile per dare senso all’abitare. E quindi la crisi delle atti­vità com­mer­ciali nella città com­patta, che pen­sano di risol­le­varsi omo­lo­gan­dosi agli stan­dard e ai codici este­tici di «Predda Niedda» pre­miata da una can­giante movida pomeridiana.

Un nuovo piano urba­ni­stico è in costru­zione da una decina di anni. Le pre­vi­sioni dell’amministrazione di cen­tro­si­ni­stra non hanno tro­vato il con­senso della Regione. Il con­fronto sulle impor­tanti cen­sure è in corso, e non è facile pre­ve­derne gli esiti. L’impressione è che l’attività di pia­ni­fi­ca­zione non sia stata accom­pa­gnata da un dibat­tito all’altezza delle attese. Così per­man­gono sot­to­va­lu­ta­zioni, spe­cie della città «sdra­iata», della seconda Sas­sari dove abi­tano ormai 30mila cit­ta­dini, un quarto della popo­la­zione. Una dop­piezza ine­splo­rata: da una parte la città densa con pro­fili da stra­paese; dall’altra lo stram­pa­lato blob che la accer­chia, con le figure tipi­che e gli svan­taggi della metro­poli dis­si­pa­trice, ener­gi­vora, inqui­nante, dise­qui­li­brata e dise­qui­li­brante, ini­qua. E scon­ve­niente, per­ché que­sto modo di vivere ha già un costo insostenibile.

È urgente guar­darla bene que­sta realtà, tutt’altro che fan­ta­sma­tica: per accet­tarla senza subirne le scosse, e quindi per gover­narla. Andando oltre le defi­ni­zioni spicce (come quella di non-luogo — uffa!).

Nel frat­tempo sarebbe oppor­tuno smet­terla di com­pro­met­tere altro suolo. Ricon­si­de­rando la cre­scita pro­po­sta: un volume per oltre 30mila nuovi abi­tanti, incon­ci­lia­bile con il pre­vi­sto decre­mento di popo­la­zione di 10mila nel 2030. L’estensione delle urba­niz­za­zioni ad aree ancora libere ren­de­rebbe più mar­cate le distanze, accre­scendo le esclu­sioni e le disuguaglianze.

Il manifesto, 13 febbraio 2014

Sulla cam­pa­gna per le ele­zioni regio­nali di dome­nica pros­sima in Sar­de­gna si sta­glia il fan­ta­sma minac­cioso del Piano pae­sag­gi­stico dei sardi (Pps) di Ugo Cap­pel­lacci. Il gover­na­tore uscente ha pronto un pro­getto che modi­fica sino a sna­tu­rarlo il Piano pae­sag­gi­stico regio­nale (Ppr) appro­vato nel 2006 dalla giunta Soru. E vor­rebbe farlo appro­vare dalla sua giunta prima di dome­nica. Un colpo di mano che serve a Cap­pel­lacci per tenere caldo uno dei due car­dini sui quali ha appog­giato la stra­te­gia per la rie­le­zione: lo sman­tel­la­mento dei vin­coli pre­vi­sti dal Ppr, con il con­se­guente via libera alla ripresa della spe­cu­la­zione edi­li­zia sulle coste. L’altro car­dine è la zona franca. Cap­pel­lacci vor­rebbe che tutta la Sar­de­gna diven­tasse una free zone fiscale. Da un lato, quindi, più cemento, dall’altro meno tasse.

Sul tema ambiente lo scon­tro è aspro e ieri è arri­vato sugli schermi tele­vi­sivi durante il pro­gramma Mat­tino 5, del quale erano ospiti, con Cap­pel­lacci, Fran­ce­sco Pigliaru, il can­di­dato del cen­tro­si­ni­stra, e Michela Mur­gia, alla guida della coa­li­zione Sar­de­gna pos­si­bile. Pigliaru ha difeso l’operato della giunta Soru, nella quale è stato asses­sore al bilan­cio e alla pro­gram­ma­zione dal 2006 al 2006. «Negli anni tra il 2004 e il 2009 — ha detto Pigliaru — il cen­tro­si­ni­stra ha fatto un lavoro straor­di­na­rio per il ter­ri­to­rio. Il Ppr è stato la sal­vezza del pae­sag­gio, che è un bene fon­da­men­tale per il nostro svi­luppo turi­stico». Dopo l’annuncio di Cap­pel­lacci, durante il con­fronto di lunedì scorso in Con­fin­du­stria a Cagliari, di voler com­mis­sa­riare il ser­vi­zio di valu­ta­zione ambien­tale della Regione Sar­de­gna che non ha ancora espresso il parere sul Pps pre­vi­sto dalle pro­ce­dure ammi­ni­stra­tive, Pigliaru ha attac­cato fron­tal­mente il gover­na­tore uscente: «Non è con­tento di aver com­mis­sa­riato tutto: i con­sorzi di boni­fica, le agen­zie, le pro­vince, le Asl, dicendo che avrebbe fatto le riforme; ora addi­rit­tura vuole com­mis­sa­riare diri­genti e fun­zio­nari che rispet­tano appieno le pro­ce­dure pre­vi­ste dalla legge e giu­sta­mente non rispon­dono ai suoi ordini. Non si sogni di creare que­sto caos isti­tu­zio­nale per la sua pro­pa­ganda; se deve fare cam­pa­gna elet­to­rale appenda mani­fe­sti, ma non usi le isti­tu­zioni e non si per­metta di stra­vol­gere il diritto den­tro le istituzioni».

Davanti alle tele­ca­mere, incal­zati su tra­sporti e tutela del pae­sag­gio i tre can­di­dati non hanno rispar­miato reci­pro­che frec­ciate. Sui tra­sporti Cap­pel­lacci ha nuo­va­mente attac­cato Mur­gia, ripe­tendo l’accusa secondo cui la can­di­data di Sar­de­gna pos­si­bile avrebbe «l’appoggio di arma­tori pri­vati», men­tre la scrit­trice ha ripe­tuto che «di que­ste affer­ma­zioni il pre­si­dente rispon­derà davanti ai tri­bu­nali». Pigliaru ha invece attac­cato Cap­pel­lacci, che con i soldi pub­blici ha creato una com­pa­gnia di navi­ga­zione della Regione Sar­de­gna, sulla pri­va­tiz­za­zione della Tir­re­nia, affer­mando che «la Regione non è stata pre­sente al tavolo nazio­nale al quale si deci­deva la par­tita», di fatto lasciando via libera agli arma­tori pri­vati. Sul fronte della tutela del pae­sag­gio e del rischio idro­geo­lo­gico Mur­gia ha pun­tato il dito sia con­tro il cen­tro­de­stra sia con­tro il cen­tro­si­ni­stra «che difen­dono gli stessi inte­ressi immo­bi­liari», ricor­dando che «la Giunta Soru è caduta sul tema urba­ni­stico». In difesa del Ppr si è schie­rato il segre­ta­rio regio­nale del Pd, Sil­vio Lai: «Appro­vare la revi­sione del Piano pae­sag­gi­stico, per di più con un atto di forza nei con­fronti dei fun­zio­nari regio­nali, è da irre­spon­sa­bili. Cap­pel­lacci gioca cini­ca­mente la sua par­tita elet­to­rale, spa­rando car­tucce a salve e sapendo bene che sta appro­vando un atto senza alcuna effi­ca­cia». «L’unico effetto che sor­tirà — ha aggiunto Lai — sarà quello di creare con­fu­sione per chi lavora negli uffici tec­nici comu­nali, dove non sapranno se atte­nersi al Ppr in vigore o a quello di Cap­pel­lacci, che nasce in pieno con­tra­sto con il mini­stero dei beni cul­tu­rali e che serve solo per far dire al pre­si­dente uscente che almeno una cosa di quanto pro­messo cin­que anni fa in cam­pa­gna elet­to­rale è stata fatta»

Benefattori della cultura o commensali?
I dettagli della cena che ha fatto infuriare la sovrintendenza
di Elisabetta Ambrosi e David Perluigi,

Qualunque visitatore che oggi entri al Metropolitan di New York può apprezzare i magnifici mazzi di fiori che adornano la sala principale. Un legato testamentario di una signora che ha voluto donare a tutti un piccolo dettaglio di bellezza. Se oltreoceano il mecenatismo ha ancora qualche legame con l’antico significato di colui che aiuta gli artisti ridotti alla fame – o comunque i musei – ad esempio donando con discrezione una collezione privata – da noi il mecenate è l’invitato del salotto buono alla cena “cafona”, stile Grande Bellezza. Che si affitta nientemeno la Galleria Borghese, a Roma, uno dei più bei musei del mondo, utilizzandone l’esterno per una cena sotto enormi en dehors (d’altronde ne è piena la Capitale), di ferro e plastica. Con tanto di cucina abusiva e di danni ai basamenti di tufo del piazzale, denunciati da un furioso Sovrintendente capitolino, che ha preso carta e penna per scrivere al competente Soprintendente del ministero dei Beni culturali.

3 febbraio scorso: sotto gli enormi gazebo – anzi, pardon, sotto il jardin d’hiver firmato dall’esperto di allestimenti Jean Paul Troili – va in onda una cena a tema immortalata da un video esclusivo che pubblichiamo oggi su ilfattoquotidiano.i . Quale il leitmotiv? L’ineffabile agitazione vitale dei ritratti dello scultore Giacometti, la cui mostra veniva inaugurata proprio quel giorno? O il Caravaggio tormentato e ascetico del San Girolamo, presente in Galleria? Macché. Per la cena barocca e dall’età media avanzata meglio ispirarsi alle nature morte del Merisi, opulente solo per chi non sa leggerne la decadenza raccontata dai frutti imprecisi.

Ad affollarsi intorno ai centrotavola con uva e melograni, trecento soliti arcinoti, questa volta in veste di novelli mecenati dell’associazione onlus “Mecenati per Roma”, presieduta da Maite Carpio: produttrice e già finanziatrice di Sant’Egidio, ex veltroniana, già nel Cda dell’Opera di Roma, soprattutto sposata con Paolo Bulgari (a sua volta sostanzioso donatore dell’Accademia di Santa Cecilia).

Invitati? Oltre all’esuberante direttrice della Galleria Anna Coliva, insignita della Légion d’Honneur dall’ambasciatore di Francia Alain Le Roy, lo stesso Alain Le Roy, Gianni Letta, ça va sans dire, (“Stasera vi dovete accontentare dello zio”), i principi Ruspoli, Gaetano Caltagirone, Paolo Scaroni e Fulvio Conti, Sonia Raule, Ferdinando Brachetti Peretti e Rosi Greco, Ginevra Elkann e marito, Luigi Abete, Carlo e Lucia Odescalchi. E poi i fondatori-dei-mecenati Jacaranda Caracciolo Borghese, Silvia Venturini Fendi e Miuccia Prada, il sottosegretario al Mibac Ilaria Borletti Buitoni, Carlo e Lisa Vanzina, Joaquin Navarro Valls, l’Ambasciatore d’Israele Naor Gilon, gli immancabili coniugi Bertinotti e la presidente del Maxxi Giovanna Melandri, apprendista-Coliva del mix pubblico privato all’italiana.

In questa vicenda in cui, al solito, la sensibilità culturale si traduce in spaghettata tra potenti, ci sono vari aspetti. I danni, anzitutto, riportati da una dettagliata relazione della Sovrintendenza capitolina, allertata – insieme alla Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico per il Polo Museale della Città di Roma e alla Sovrintendenza ai Beni culturali – dal presidente del II municipio Giuseppe Gerace. Come riportato sulle pagine romane di Repubblica , oltre ai danni al piazzale, nella relazione del Sovrintendente Claudio Parisi Presicce, è stato evidenziato come vi fosse addirittura una cucina mobile montata senza autorizzazione, così come la tensostruttura collegata al padiglione principale del museo. Anche se le normative spiegano che l’autorizzazione è concessa solo se le strutture utilizzate “sono posizionate a distanza dalle emergenze monumentali e non coinvolgano le alberature e gli arredi presenti in loco”. Ma c’è, soprattutto, una gigantesca questione di stile. Non si poteva, ad esempio, fondare prima l’associazione, di cui non c’è praticamente traccia in rete, e renderla operativa (ad oggi c’è solo una vaga idea di finanziamento per vaghi studi su Caravaggio), invece di buttarsi subito sul magna magna? “Perché rinfocolare l’odio di classe, quando la charity è diffusa in tutto il mondo? Perché alzare i forconi del populismo se il pubblico può esistere solo col Privato”, ha scritto un’indignata Paola Ugolini. Glielo diciamo noi: in Francia fanno pure i bed and breakfast nei consolati, per racimolare fondi. Ma i tubi innocenti e i tiranti legati alle statue del Bernini, fossero anche copie fatte nella Silicon Valley, sono tutt’altra cosa. Perché l’immagine che si dà ai cittadini impoveriti è indelebile: mentre i ricchi si comprano pure la bellezza, il beneficio di tanta “eccellenza” sembra arrivare più alle persone coinvolte che a quelle istituzioni che si vorrebbe difendere dai tagli.

Non troviamo scuse
La legge Ronchey è stata superata dal Codice del 2004
di Tomaso Montanari

La posta in gioco, materiale e simbolica, del padiglione per feste montato accanto alla Galleria Borghese si comprende guardando alle mille altre situazioni analoghe (anzi, per la verità, assai peggiori) che costellano l’Italia: dalle auto da corsa che rombano nel Teatro Greco di Siracusa ai Masai fatti sfilare agli Uffizi nell’ambito di una sfilata di moda con annessa cena esclusiva; dalla festa di capodanno all’Archivio centrale dello Stato alle partite di golf disputate nelle sale di lettura di una Biblioteca Nazionale, fino al Ponte Vecchio noleggiato alla Ferrari da Matteo Renzi.

Anni e anni di sistematico e pianificato massacro dei bilanci degli enti locali e del ministero per i Beni culturali inducono sindaci, assessori e direttori di biblioteche e musei a far qualche soldo attraverso la privatizzazione temporanea dei loro gioielli. Come ha detto la direttrice della Borghese: “Senza risorse, è l’unico modo di mantenerci”. Ma la prostituzione per indigenza è il modo peggiore per rapportarsi agli interessi privati che chiedono di legittimarsi attraverso l’appropriazione dello straordinario spazio pubblico del nostro patrimonio. E, infatti, in nessun paese del mondo l’apporto dei privati è necessario per garantire la sopravvivenza delle istituzioni culturali pubbliche: perché un simile situazione di ricatto genera necessariamente sudditanza, svendita dei beni comuni, arbitrio.

Se invece lo Stato facesse la sua parte – e cioè se destinasse alla cultura almeno il 3% della spesa pubblica (la media europea è il 2,2, in Spagna è del 3,3: da noi dell’1,1) – potrebbe poi decidere da una posizione di forza quali contropartite eventualmente concedere ai privati.

Nel frattempo, sarebbe vitale che il ministero per i Beni culturali facesse rispettare le regole: perché se è vero che dalla pessima legge Ronchey (1993) i privati possono, in vario modo, “entrare nei musei”, il Codice dei Beni culturali (2004) prescrive che “i beni culturali non possono essere ... adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione”. E i pregiudizi possono essere elevatissimi: nel 1997 abbiamo perduto per sempre la più bella architettura barocca italiana, la torinese Cappella della Sindone, distrutta da un incendio scoppiati dalle cucine provvisorie installate negli adiacenti locali del Palazzo Reale in vista di una cena offerta da Lamberto Dini e Gianni Agnelli a Kofi Annan. Ma c’è un rischio anche più grande: trasformare il patrimonio culturale – che la Costituzione vuole al servizio del pieno sviluppo della persona umana e della costruzione dell’uguaglianza sostanziale – in un potente fattore di legittimazione della disuguaglianza, del dominio del mercato, dell’arbitrio assoluto di una ricchezza disonesta, ignorante, grottesca. Trasformare uno strumento di inclusione in una location esclusiva sarebbe letale: la grande bellezza non sopravvive alla grande ingiustizia.

«Dagli anni Novanta la città e l’hinterland stanno subendo un cambiamento epocale, spinto da deregulation e appetiti speculativi. Rispetto al quale l’attuale giunta non è riuscita a segnare una netta inversione di rotta. Il banco di prova sarà la gestione del post Expo nell’interesse collettivo».
Il primo di una serie di articoli che il giornale ha programmato per comprendere qual'è il risultato d'un trentennio di neoliberalismo in salsa italiana nelle nostre città. Il manifesto, 6 aprile 2014
Milano, che come molte grandi città del mondo occidentale ha subìto dagli Anni Novanta un cambiamento epocale tuttora in corso, sotto la spinta di un mutamento del modello produttivo caratterizzato dall’abbandono delle collocazioni urbane delle grandi fabbriche, delle infrastrutture di trasporto e distribuzione delle merci e delle grandi attrezzature istituzionali (caserme, mercati generali, fiere, ecc.) sostituite da residenze, uffici e grandi centri commerciali, ha da tempo ed ampiamente utilizzato tutte le possibilità consentite dagli strumenti di pianificazione negoziata (Accordi di Programma con la Regione e altri enti pubblici e privati, Programmi Integrati di Intervento per lo più proposti da privati) introdotti dal 1992 in poi, per imprimere nelle grandi trasformazioni urbane derivanti dal riutilizzo di aree dismesse dall’uso produttivo o da servizi tecnologici ampie modifiche di destinazione funzionale e quantità edificatorie rispetto alle previsioni del proprio Piano Regolatore, fissandole arbitrariamente sulla base delle convenienze economiche derivanti ai futuri realizzatori immobiliari dal prezzo della rendita fondiaria attesa dalla proprietà dell’area, anziché da un ragionamento di congruenza ad un progetto urbanistico di città civilmente pensata.

Questo quadro di derelogazione normativo-legislativa e di crescente aggressività dell’iniziativa immobiliare, passata dal circuito fondiario-edilizio a quello della grande finanza che la salda alla fase di riorganizzazione produttiva, ha caratterizzato la cosiddetta politica del “Rinascimento Urbano” perseguita dalle Giunte Albertini/Lupi (1997-2006), prima, e Moratti/Masseroli (2006-2011), poi, che ha costellato tutte le aree dismesse della città di tipologie edilizie estremamente concentrate in altezza e in molti casi con quantità doppie o triple di quelle programmate in precedenza e che, quindi, hanno reso ridicolmente insufficiente il 50% a verde, spesso sbandierato come grande conquista

In questa visione, ogni tentativo di porre limiti ed indirizzi ai criteri di riutilizzo di queste aree sulla base di interessi generali degli utenti delle città è stato considerato un’indebita intromissione nelle “magnifiche sorti e progressive” che le forze economiche e finanziarie stavano attuando con la trasformazione delle città, e per la quale ritenevano propria legittima prerogativa non solo proporre quantità e funzioni secondo una propria valutazione delle opportunità di mercato di volta in volta stimate e una docile adattabilità alle loro eventuali fluttuazioni, ma anche quella di fornirne una conformazione progettuale e di immagine che, ovviamente, nella loro visione atteneva più al carattere della riconoscibilità del marchio o della pubblicità aziendale, che non a quello dei caratteri insediativi o della tradizione culturale del contesto urbano in cui si collocava l’intervento.

Una fase rispetto alla quale l’attuale Giunta Pisapia/De Cesaris non è riuscita a segnare una netta inversione di rotta, subendo passivamente l’attuazione dei progetti già avviati sulle principali aree di trasformazione urbana (ex Fiera Citylife, Centro Direzionale/Porta Nuova/Garibaldi/Repubblica), e in prospettiva sugli scali ferroviari dismessi, sulle ex caserme, sul riuso delle aree dopo l’EXPO 2015, limitandosi a ridimensionare, ancorché sensibilmente, le quantità edificatorie del Piano di Governo del Territorio (PGT) adottato dalla precedente Giunta di centro-destra, senza però riuscire a cambiarne il carattere liberista e privo di indirizzi strategici, impressogli anche da una dirigenza tecnica avvezza ad essere succube degli interessi privati, quando non apertamente collusa, e che non si è avuto la forza e la volontà di avvicendare.

D’altra parte, sotto l’incontenibile appetito di oneri urbanizzativi per tamponare le contingenti esigenze di bilancio, del tutto analogamente si stanno orientando molte amministrazioni comunali dell’hinterland, tra cui l’amministrazione di Sesto San Giovanni, storicamente di sinistra, che nel riuso delle aree dell’ex acciaieria Falck, aderisce a un progetto di Renzo Piano proposto dalla proprietà dell’area con indici edificatori, tipologie e funzioni pressoché identiche a quelle avallate dalle Giunte di centro-destra a Milano.

Molti hanno commentato in maniera un po’ scontata e convenzionale che le scelte in corso a Milano e nell’hinterland segneranno il destino urbanistico dell’area metropolitana per i prossimi venti-trent’anni: non si sono resi conto, tuttavia, di accreditare con ciò una verità paradossale. Infatti, con una scelta per vero discutibile e di dubbia legittimità, la legge urbanistica regionale del 2005 ha deciso di utilizzare in Lombardia solo una pianificazione urbanistica di durata quinquennale, senza più alcun orizzonte strategico di medio-lungo periodo, e quindi le previsioni dei PGT di Milano ed hinterland cesseranno di avere effetto verso il 2016-2018, giusto all’indomani della conclusione del mitizzato evento di Expo 2015.

E’ forse per questo che attorno alle aree di Expo 2015 gli appetiti speculativi sull’uso finale dell’area (che se resa edificabile potrebbe rendere alla proprietà circa 700 milioni di Euro, dopo essere stata acquisita da Fondazione Fiera a prezzi agricoli per circa 60 milioni di Euro e rivenduta alla newco regionale Arexpo a 200 Milioni di Euro) e che hanno aleggiato a lungo nella sotterranea contesa tra i potentati di CL, della Lega e delle Coop, tornano oggi a rispuntare.

Per quanto grande possa essere il potere di convincimento/condizionamento di una Regione Lombardia persistentemente amministrata dal centro-destra (Formigoni, poi Maroni), nell’ Accordo di programma sull’evento Expo 2015 la decisione sull’uso finale delle aree dopo l’evento resta in capo al Comune di Milano, che, dopo aver scelto la linea minimalista di riduzione del danno nell’approvazione del PGT, ora dovrà finalmente esprimersi sull’opzione strategica del mantenimento ad uso pubblico permanente di quell’area o della sua spartizione tra gli appetiti bi-partizan della sussidiarietà cooperativistico-edilizia.

Un banco di prova concreto per verificare, al di là di divisioni ideologiche e schieramenti strumentali, dove risieda la volontà reale delle forze politiche e dei programmi amministrativi di farsi difensori civici dell’interesse collettivo della città.

Infatti, se non si vuole ridurre la discussione sull’assetto urbano che si vuol ottenere a mero pettegolezzo sulle personali preferenze estetiche di questo o quel pubblico amministratore, di questo o di quell’architetto di grido, occorre avere il coraggio di rivendicare alle scelte dell’amministrazione pubblica la responsabilità che una collettività si assume nei confronti della conformazione urbana di cui intende dotarsi, Un tempo l'urbanistica progressista vedeva nel contenimento della rendita fondiaria non solo la possibilità di destinare nuove risorse ad usi più produttivi e socialmente più utili, ma anche di rivendicare una democrazia nelle decisioni su quel bene primariamente pubblico e collettivo che è l’uso della città, del territorio, dell’ambiente.

Oggi, in questa frenesia di privatismo che nei consigli comunali sembra coinvolgere sia la maggioranze che le opposizioni, nemmeno le idee sono più in libera disponibilità, come accadrebbe in una pianificazione promossa da proposte dall’Ente pubblico. Esse, invece, tendono ad appartenere privatamente a qualcuno. Il Comune e i cittadini sono, cioè, liberi di discutere solo le impostazioni progettuali e insediative dell’acquirente con cui il proprietario delle aree ha stretto un contratto, di chi – col più caro prezzo pagato – si è comprato anche il diritto di essere padrone delle idee della città e suo interlocutore unico.

l Fatto quotidiano, 2 febbraio 2014

Bologna regala a Farinetti una Disneyland in campagna
di Carlo Tecce


72 ettari a dieci km dalla città. il comune ci ha messo 55 milioni di euro, coop e fondazioni altri 45. conta di portarci 10 milioni di turisti all’anno.

La chiamano esperienza sensoriale. Non materiale. E sarà un olezzo di vacche, un profumo di mandarini, un impasto di pizza. E la mungitura farà il latte e il latte sarà mozzarella e la mozzarella sarà capricciosa e la capricciosa sarà fatturato. Un monumento a Eataly, in mezzo a svincoli e viadotti, a una radura larga e lunga 72 ettari, due volte il Vaticano. E il Colosseo sarà invidioso, Venezia e Firenze creperanno. E otto o nove, chissà dieci milioni di italiani e stranieri verranno qui. Dove la pianura bolognese s’ingrossa per i capannoni e le vetrate; la campagna sventrata ansima per il cemento, il legname, i pannelli fotovoltaici e d’acciaio. Ma Natale detto Oscar Farinetti, imprenditore con la passione per Renzi e il biologico di lusso, ha giurato: sarà la Disneyland per il cibo tricolore, datemi 100 milioni di euro, un treno veloce e vi porto 10 milioni di donne, bambini e uomini. E Bologna, la signora rossa sbiadita, s’è consegnata, disarmata, forse disperata.

La sigla Caab suona anonima. La politica l’ha creata vent’anni fa. E ci ha speso oltre 100 miliardi di lire. Caab è un mercato di proprietà pubblica, primo azionista il Comune (80%), che vive di notte e dorme di giorno, che distribuisce frutta e verdura, che incassa centinaia di milioni di euro, che fa lavorare 2000 persone, che sta a Bologna eppure non vicino a Bologna. La stazione centrale è lontana dieci chilometri e un binario morente è ficcato in qualche anfratto. Bob Dylan ha cantato qui per Giovanni Paolo II, era il ’97.

Anno 2012. I limoni e la bietola sono affari precari. E così Andrea Segré, presidente di Caab, ambizioso e renziano, fustigatore di sprechi alimentari (teorizza e pratica il consumo di yogurt scaduti), s’è inventato un acronimo più affascinante, doppio senso, doppio scopo: Fico, fabbrica italiana contadina, dove vendere e mostrare i prodotti. E Farinetti non c’era. Il sindaco Virgilio Merola, candidato da Pier Luigi Bersani e presto convertito a Matteo Renzi, osserva con l’entusiasmo di un vigile che incanala il traffico. E Farinetti non c’era. Il professor Segré, che insegna Agraria e frequenta la Leopolda di Renzi e che gestisce con profitto il Caab, fa un giretto che a Bologna è convenzionale: cooperative, fondazioni, mecenati, cattolici, agnostici. Ci vogliono dei milioni, non pochi, non troppi. Un mese di attesa, un anno e giorni, un anno e mezzo.

E appare Natale detto Oscar Farinetti. Ovazione bolognese. Il padrone di Eataly fa un paio di visite e spiega come va il mondo: va verso Eataly. Distribuisce consigli non richiesti, calcola il flusso economico e occupazionale, invoca il piano di trasporto pubblico, pretende un convoglio per il Caab, promette, ringrazia e arrivederci. E il progetto di Fico diventa Eataly World: il Consiglio di amministrazione approva, il Comune di Merola ratifica. E quei giretti bolognesi, cooperative, fondazioni e l’ex massone Fabio Alberto Roversi Monaco, vanno in estasi. Plasmano una società e sganciano 45 milioni di euro. E annunciano contributi asiatici: Giappone, Azerbaigian, Cina. Il Comune, pronto, regala 55 milioni di patrimonio immobiliare. Ecco i 100 milioni che voleva Farinetti. Il vecchio mercato verrà dimezzato, stalle e serre saranno le trincee di protezione e il marchio di Eataly World avrà uno spazio equivalente a 50 campi da calcio, sarà maestoso e luminoso al centro di un parco agroalimentare da 80.000 metri quadri. Farinetti ha già previsto 30 ristoranti, 40 laboratori e 50 punti vendita. E ha garantito al notaio che ha officiato al concepimento di Fico che, non tardi, verserà la quota nominale di un milione di euro . Ma quel che incasserà Eataly World, fra tagliate di manzo e olive impanate, va a Eataly. Farinetti ha fretta. Vuole inaugurare il 1 novembre 2015, appena finisce l’Expo di Milano. Perché il modello contrattuale che verrà sperimentato per i sei mesi milanesi – fra tempi determinati, stagisti e volontari – sarebbe perfetto per il Fico, ovvero Eataly World.

Natale detto Oscar non è più ospite di Bologna: il capoluogo emiliano è ospite di Farinetti. Ha convocato una conferenza stampa a Milano, l’11 di febbraio, e gli intrusi saranno Segré e forse Merola. Le ruspe stanno per cominciare a smontare il Caab e i milioni pubblici e privati costruiranno Eataly World. Se va male, Farinetti se ne torna a Firenze. Se va bene, ci guadagna un sacco di denaro. Per pareggiare il bilancio ci vorranno almeno 5,5 milioni di visitatori, che comprano, che mangiano, che vanno e vengono in automobile.

Il padre nobile di Bologna, Romano Prodi, ha posto una semplice domanda: “E con i trasporti come farete, voi dispersi in campagna?”. Il dubbio di Prodi non ha contagiato il sindaco Merola, né la Confindustria locale, né Provincia né Regione. Peggio. È vietato criticare Farinetti e Eataly World. Soltanto Alberto Ronchi, assessore alla Cultura, s’è permesso di suggerire un po’ di riflessione. Per Farinetti è l’investimento perfetto: rischio d’impresa zero contro un sostegno pubblico che vale 55 milioni e una superficie da base aerospaziale. E mentre un dirigente ti indica dove fiorirà la zucca e dove toseranno le pecore, proprio lì, fra le prossime piante di peperoncino e di finocchio, scoloriscono una ventina di Filobus Civis. Dovevano salvare i pendolari bolognesi, non dovevano inquinare e neanche fare rumore. Straordinari. Poi un giorno Bologna s’è accorta che questi Filobus non potevano circolare. E li hanno buttati qui. Prima di un monumento a Eataly World, c’è un monumento alla memoria. Ma non è Fico.

E Siena vuol dare a Eataly Santa Maria della Scala
di Tomaso Montanari

E ora tocca a Siena. Dopo aver accompagnato Oscar Farinetti in giro per la città, il sindaco di Siena Bruno Valentini (Pd, di osservanza renziana) ha detto che il complesso monumentale del Santa Maria della Scala potrebbe diventare un mega-supermercato di Eataly. E ora si aspetta che il sindaco risponda a una interrogazione, dei consiglieri comunali Andrea Corsi e Massimo Bianchini, che lo invita a render pubblico il progetto e ad aprire “una discussione sulla politica culturale del Comune di Siena con particolare riferimento al ruolo da assegnare all’antico Spedale senese”.

Dare un senso ai duecentomila metri cubi dell’ospizio che nel Medioevo accoglieva i pellegrini che percorrevano la Francigena, e che oggi occupa l’ “acropoli” senese è una delle sfide del governo di una Siena orfana del Monte dei Paschi. Il progetto più sensato sarebbe trasformare la Scala nel Museo di Siena per eccellenza, portandoci la Pinacoteca Nazionale e altri musei, il dipartimento di storia dell’arte dell’Università insieme a varie biblioteche, da unire a quella di uno dei più importanti storici dell’arte italiani, Giuliano Briganti. Un progetto che non esclude certo spazi espositivi, caffè e altri luoghi pubblici. Un progetto capace di trasmettere un’idea forte di cittadinanza basata sulla cultura.

Ma fin dagli scorsi mesi ha preso quota un’alternativa commerciale. Molti segnali lasciavano pensare che anche la Scala sarebbe finita in mano a Civita, la più grande concessionaria nazionale di patrimonio culturale, presieduta da Gianni Letta. Attraverso una sua controllata, Civita gestisce già il Duomo e la Torre del Mangia, e mira a conquistare i musei delle contrade e l’assai discutibile Museo del Palio da costruire nell’ambito della candidatura di Siena a capitale europea della cultura 2019. Ma ora le cose sembrano cambiare: un po’ perché la Procura di Siena ha aperto un’inchiesta sulla gestione del Duomo, un po’ perché il vento renziano fa volare la soluzione Farinetti.

Se davvero Eataly riuscisse ad aprire dentro uno dei più importanti spazi storici italiani, si tratterebbe di una importate svolta simbolica nel processo di mercificazione di quello che la Costituzione chiama “il patrimonio storico e artistico della nazione”. Il nuovo negozio fiorentino di Eataly viene reclamizzato sui giornali locali con intere pagine come questa: “Eataly Firenze merita una visita anche solo per gustare ... il Rinascimento. Antonio Scurati, celebre scrittore e professore universitario, ha curato in esclusiva per Eataly un percorso museale che racconta i luoghi, i valori e le figure storiche che hanno contribuito al periodo artistico e culturale più fulgido di sempre. Chiedi l’audioguida al box informazioni”. Ma se il progetto del sindaco di Siena andasse in porto, Eataly non avrebbe più bisogno di mascherare un supermercato dietro un museo inesistente: sarebbe il museo a trasformarsi in supermercato. E possiamo solo immaginare cosa ne verrebbe fuori: una specie di Mall del Gotico, una Gardaland di Duccio, una Las Vegas di Simone Martini.

Ora Siena è a un bivio, deve decidersi: i suoi straordinari beni comuni monumentali possono ancora servire a formare cittadini, o devono trasformarsi in una fabbrica di clienti? Il Santa Maria della Scala sarà una 'piazza' della cultura o sarà un supermercato?

Se Eataly aprirà un negozio a Siena, i senesi avranno un altro posto in cui poter andare a mangiare. Ma se a Farinetti verrà consegnato il Santa Maria della Scala, allora sarà Eataly a essersi mangiato Siena, e i senesi.

Finalmente oltre la fase ideologica e lo stallo, cambia pelle e sostanza uno dei progetti simbolo della metropoli ingiusta dei berlusconidi. Corriere della Sera Milano, 1 febbraio 2014

Fase due. Il futuro di Santa Giulia è disegnato sulle carte di sir Norman Foster, vincolato alla bonifica dei terreni ex Montedison e appeso a una trattativa finanziaria che si trascina da oltre un anno tra la proprietà Risanamento e la sgr Idea Fimit. Il punto di ripartenza della maxi operazione immobiliare è indicato nella nuova proposta di masterplan depositata a Palazzo Marino il 22 gennaio: «È il primo passaggio di un lungo percorso di confronto con gli uffici comunali», dicono dal gruppo Zunino, cioè l’atto formale che introduce gli approfondimenti tecnici e gli accordi di programma. L’orizzonte temporale è piuttosto lungo: serviranno almeno otto-dieci anni, nella migliore delle ipotesi, per completare la trasformazione di 450 mila metri quadri di città al margine Sud-Est di Milano, l’enorme pianura (attualmente sotto sequestro giudiziario) definita come zona Nord di Santa Giulia. La porzione Sud è stata realizzata, dopo un lunghissimo travaglio legale, economico e amministrativo, sulle ceneri delle acciaierie Redaelli.

I primi progetti sono stati presentati nel 2004 e dieci anno dopo il lavoro è a finito per metà. Nel settore Sud si è insediata Sky (il terzo palazzo è in cantiere), è stato costruito un quartiere residenziale per 1.800 famiglie e, un pezzo per volta, sono stati liberati dalle scorie e inaugurati l’asilo, la promenade pedonale e il giardino Trapezio. Il blocco Nord è fermo al decennio scorso, una bomba ecologica da disinnescare e uno scandalo tutt’ora sotto indagine. Il nuovo masterplan tratteggia lo scenario di sviluppo successivo al necessario intervento di bonifica ambientale. Le linee guida sono scritte: «Milano Santa Giulia sarà un “quartiere aperto”», non il villaggio «esclusivo» immaginato all’origine dell’investimento. Lo studio dell’archistar Norman Foster ha spalmato le volumetrie, abbassato le altezze dei palazzi (da otto-nove a cinque-sei piani) e inserito una trama di piazze pedonali, negozi e «punti d’interesse» nella futura geografia di questo lembo di città: il Museo Tecnologico e dell’Innovazione per Bambini (spin off del polo «Leonardo da Vinci» di via San Vittore), un’arena sportiva, biblioteca e mediateca, un cinema multisala (forse) e un supermercato Esselunga. Il parco di 330 mila metri quadrati sarà «l’elemento di congiunzione» con i quartieri Rogoredo e Bonfadini-Ungheria. Per sintetizzare il cambio di filosofia: archiviata la suggestione della Santa Giulia elitaria, la versione è stata aggiornata in stile familiare -pop. Più «innovazione e benessere», meno lusso. Spirito social e sostenibilità ambientale (già certificata dal protocollo Leed).

Questo schema dovrebbe venire approvato entro la fine del 2014. Spiega il vicesindaco e assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris: «Il procedimento di bonifica è già cominciato, ora valuteremo con attenzione — assieme ai cittadini e all’impresa — i parametri su volumetrie e servizi. Una prima conferenza di servizi potrebbe essere riunita a marzo. Le problematiche sono complesse: lavoriamo a ritmi spediti, ma con grande cautela». Quando potrebbero partire gli scavi di bonifica? «Se il privato si dimostrerà collaborativo, potremo procedere velocemente».

Il settore Sud è abitato fin dal 2009. Gli appartamenti sono quasi tutti occupati, c’è la farmacia, sono frequentati i bar-ristoranti ai piedi dei condomini, qualche vetrina è libera o promette l’arrivo di un’attività. Nel lato addossato alla ferrovia, tra via Pizzolpasso e Monte Penice, cresce il complesso Sky e aspetta i cantieri la zona destinata all’Hotel Nh. Stefano Bianco è il portavoce del comitato dei residenti: «L’avvio dell’istruttoria sulla zona Nord è un segnale positivo — riflette —. Ci auguriamo che l’operazione Santa Giulia venga portata avanti concretamente nei tempi previsti».

Studi Trentini, 2, 2013 (m.p.g.)

«Il museo è un'istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell'uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto». Nell'imbarbarimento del discorso pubblico dell'Italia del 2014 anche la piana ed innocua definizione del museo messa a punto dall'International Council of Museums rischia di suonare rivoluzionaria. Ripartiamo dunque da queste parole: per tornare ad indicare con fermezza il senso dei musei.

«Il museo»
Sia consentito ricordare che delle nove Muse nessuna presiedeva alla pittura, alla scultura o all'architettura: il museo prende il nome da un consesso che praticava la poesia in tutte le sue varianti, il canto, il mimo e il teatro, la scienza e la storia. È l'uomo tutto intero intero, il vero progetto del museo. Le competenze specialistiche sono fondamentali: ma l'ago della bussola segue l'humanitas, la civilizzazione, «il pieno sviluppo della persona umana» (Costituzione della Repubblica, art. 3).

«è un'istituzione»
Politica: il museo è un'istituzione politica, un elemento cruciale nella costruzione della polis. E con le altre istituzioni politiche dell'Italia di oggi il museo condivide lo smarrimento, la confusione, a volte la corruzione, spesso il discredito. Ma, proprio come loro, non può essere sostituito con qualcosa di meglio: come loro, per tornare ad essere utile deve tornare ad essere davvero istituzione. Non asservita ai fini di chi temporaneamente la dirige: ma indipendente, autorevole, obbediente solo alla scienza, alla coscienza, alla legge.

«permanente»
Il museo non è una mostra. Non è effimero. Non si smonta. Non apre a singhiozzo. Non deve essere fagocitato, occultato, distrutto dalle mostre che ospita, né spolpato da quelle che alimenta. Deve essere un indirizzo sicuro: dove un cittadino sa che può trovare le opere che cerca.
Non può ridurre la sua attività scientifica, né la sua attività didattica, alle mostre. Forse in questo momento dovrebbe rifiutarsi di accoglierle, promuoverle, alimentarle. È un contesto intellettuale, non un'attrezzeria di scena.

«senza scopo di lucro»
Le opere dei musei sono uscite, faticosamente, dal circuito economico. Hanno un senso nuovo. Un senso che non si vende e non si compra. Un senso che dà senso a ciò che, invece, si vende e si compra.
Un museo che presta le sue opere a pagamento non è un museo. Un museo che noleggia le sue sale a pagamento non è un museo. Non si può servire a due padroni. In Italia, i musei pubblici dovrebbero essere gratuiti. Devono esserlo: come le biblioteche e le scuole.

«al servizio della società e del suo sviluppo»
I musei non sono al servizio di chi li dirige, né di chi ci lavora, né di chi li studia.
Non sono al servizio del denaro, né della classe politica. Non sono al servizio delle società di servizi – che, a Firenze o a Roma, ne hanno fatto 'cosa loro' – ma al servizio della società.

In Italia i musei sono al servizio del progetto della Costituzione: della sovranità del popolo, dell'uguaglianza sostanziale, del pieno sviluppo della persona umana. Al servizio dell'integrazione e della dignità di tutti. L'arte del passato, e i suoi legami con gli uomini e con la natura, ci introducono in un mondo di forme in cui sperimentiamo la disciplina e la libertà, l'invenzione e il realismo. E ci fa anche capire quanti modi diversi ci sono stati, e ci sono, per essere uomini: ci educa alla complessità, alla tolleranza, alla laicità. In una parola, accresce e sviluppa il nostro essere umani: la nostra humanitas, come si dice almeno dai tempi di Cicerone.

«aperta al pubblico»
Al pubblico: non al privato. Come la biblioteca, anche il museo deve essere una piazza del sapere. Non un luogo dove si va una volta nella vita, per vaccinarsi: ma uno spazio pubblico aperto. Ai cittadini, prima che ai turisti. Un luogo dove i bambini possono crescere, gli adulti rimanere umani, gli anziani godersi la libertà. Un luogo dove si va per vedere anche un'opera sola: come si va in biblioteca a leggere un libro. Un luogo dove, chi lo desidera, possa essere guidato: ma dove chi vuole perdersi possa farlo. Un luogo comodo: con molte sedie, buoni ristoranti, belle librerie.Un luogo aperto alla vita quotidiana, non il tempio di uno stanco rito sociale.

«che effettua ricerche»
Il cuore vero del museo è la ricerca. Un museo che non fa ricerca è un deposito di roba vecchia. Il fine non è la tutela: la tutela è uno strumento per la conoscenza. Quella scientifica, che poi deve diventare diffusa. Un museo non è una discarica per politici trombati, giornalisti finiti, membri cadetti di grandi famiglie. Un museo che non è guidato da un ricercatore è come un aereo che non è guidato da un pilota.Se non capiremo che un museo è più vicino ad un laboratorio di fisica che ad un club esclusivo, il museo non avrà futuro.

«sulle testimonianze materiali e immateriali dell'uomo e del suo ambiente»
Il museo è come l'orco della favola: segue l'odore del sangue umano. Non per divorarlo, però: per farlo scorrere più forte. Al centro di ogni museo c'è l'uomo, nel suo contesto: l'ambiente. Il museo non può diventare opaco, non deve essere un feticcio, un idolo. Il museo è un mezzo: più e trasparente, più funziona. Non deve separare dall'ambiente: deve permettere di ricostruire i nessi, non spezzarli. Deve dichiarare la propria condizione di frammento: non autodivinizzarsi, non assolutizzarsi. Non può essere un mondo separato: ma un crocicchio di strade che portano fuori dalle sue mura.

«le acquisisce, le conserva, le comunica»
Le acquisisce per conservarle, le conserva per comunicarle. Un museo che non sa comunicare è meglio chiuderlo. Un museo che appalta la didattica o le mostre a un concessionario, non è un museo.
Nessun mezzo della comunicazione moderna è troppo basso: un museo di ricerca e senza fini di lucro non dovrebbe temere alcun canale di comunicazione. E fosse dato ai musei un millesimo del denaro gettato per comunicare le grandi mostre trash! Il patrimonio è come il repertorio della musica, o quello del teatro: va eseguito, generazione dopo generazione. Va narrato: è indivisibile dal lavoro di chi lo studia, lo 'parla', lo rimette nell'anima dei sui coetanei, lo tiene al centro del discorso pubblico.

«e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto»
Studio vuol dire amore, educazione vuol dire tirar fuori l'umanità che è chiusa nell'uomo, il diletto è la dolcezza che ci avvince alla vita.Se un museo riesce a ridare a queste tre parole il loro significato etimologico, quello profondo: ebbene, quello è davvero un museo.

Stupisce nel brillante articolo l’accreditare De Luca come «il riformatore che aveva restituito dignità a un territorio desertificato» e l’uomo «di sinistra» che ha trasformato Salerno in «una delle più vitali e solari città del sud, con un water front moderno e funzionante». Davvero sono troppi i giornalisti che non sanno comprendere che cosa avviene nelle città. La Repubblica, 25 gennaio 2014

Sembrava, sino a ieri, il meglio e il peggio del sud mischiati in una ganga compattissima: il riformatore che aveva restituito dignità a un territorio desertificato e lo sceriffo guappo che sottometteva la città alla sua legge, padrone e al tempo stesso governatore coraggioso: con lui Salerno è diventata una delle più vitali e solari città del sud, con un water frontmoderno e funzionante, belle strade, grandi architetti e conti in ordine.

Ebbene, tutto questo successo gli ha dato alla testa. E adesso che ha deciso di non obbedire neppure al Tribunale civile, in lui ha definitivamente prevalso il sangue pazzo del meridionale sul politico arguto e virtuoso. E butta fumo dalle narici, subisce il Diritto come una soperchieria, insulta il ministro Lupi che da mesi gli chiede di scegliere: «figurati se mi faccio ricattare da uno come te». E non cede neppure ai giudici. È la versione salernitana del siciliano Mirello Crisafulli, del veneto Cota, del lombardo Formigoni, è il notabile di sinistra che mette se stesso al di sopra di tutto, come fosse un altro unto del signore.

È arrivato, in questo suo “teppismo democratico”, a fare l'elogio dell'immoralità «che ci permette di governare», ha esibito come scalpi le indagini alle quali è sottoposto, di cui non ci occupiamo, e dalle quali gli auguriamo di uscire pulitissimo: «Io sono orgoglioso. In questo paese siamo tutti indagati. Non c'è un amministratore che non abbia un avviso di garanzia. Chi non ce l'ha è una chiavica ». E ha sempre cercato cariche: quando era eletto alla Camera si ricandidava come sindaco; da sindaco si candidava come presidente della Regione; e, podestà di Salerno, “sindaco per sempre” più di Orlando a Palermo, ha golosamente accettato di fare il sottosegretario. E ha candidato pure il figlio, proprio come fecero Raffaele Lombardo in Sicilia e Bossi in Padania: «Quelli che ce l'hanno con mio figlio sono cialtroni e farisei ».

Avrebbe dovuto dimettersi allora, nell’aprile del 2013, quando venne nominato ai trasporti nel governo Letta. L'incompatibilità infatti non ha bisogno di sentenze, si impone per evidenza: se vuoi amministrare

(bene) i trasporti d'Italia non hai certo il tempo di governare (bene) Salerno. È roba da

fantuttone,

da “ghe pensi mi” che purtroppo tradotto in salernitano rimanda al pregiudizio della prepotenza antropologica: «A Salerno mi votano anche le pietre». Solo Brunetta avrebbe voluto fare allo stesso tempo il ministro della Funzione pubblica, il sindaco di Venezia e il deputato. I doppi incarichi e l'amministrazione come accumulo di roba non sono mai stati valori di sinistra, e non basta certo il tifo da stadio dei salernitani che lo eleggono per acclamazione a farne un eroe al di sopra della legge, come gli indimenticabili briganti delle due Sicilie.

E poi c'è quel parlare a gesti, quel lessico da duro pittoresco, una lingua impastata di esclamazioni, minacce, rancori e ripicche. E intanto si tocca, fa le corna e gli scongiuri, si gratta perché Lupi porta sfiga: «non si sa mai, ho due figli, abbiate pazienza: una grattatina ». E «la grillina Lombardi vada a mori’ ammazzata », «il collega del pd Zoggia sembra un raccoglitore di funghi», «il doppio incarico è una palla!», «coglioni!», «dei rom me ne frego!», «le discariche vanno aperte con il carro armato», «nel Pd c'è un gruppo dirigente di miserabili e il partito vive nella demenzialità », «spero di incontrare quel grandissimo sfessato e “pipì” di Marco Travaglio di notte e al buio», «Grillo sta con il panzone al sole», «Monti si mette il chihuahua sulla testa»...

Gli archivi e i blog sono pieni delle gag di De Luca e su Youtube è più cliccato di Ficarra e Picone. Ovviamente è molto parodiato, si ride di lui, è una specie di fattucchiero, una riedizione del Rosario Chiarchiaro interpretato da Totò... In realtà tutto questo divertirsi è una smorfia dolorosa, una partita sospesa sul Sud d’Italia, quello dei notabili e dei capibastone. De Luca, caudillo liberale («sono gobettiano» dice), è l'ennesima sconfitta, forse quella definitiva, dell'utopia dello sviluppo nella terra dei diavoli: da poveri a ricchi, da attardati a veloci, dall'indolenza alla nevrosi, dall'immobilismo all'iperattivismo. Nella miseria del guappo democratico stravaccato su due poltrone c’è la morte di un sogno antico che è anche nostro, il sogno di tutti i meridionali d’Italia, di un Paese che per tre quarti è Meridione.

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Sembrava, sino a ieri, il meglio e il peggio del sud mischiati in una ganga compattissima: il riformatore che aveva restituito dignità a un territorio desertificato e lo sceriffo guappo che sottometteva la città alla sua legge, padrone e al tempo stesso governatore coraggioso: con lui Salerno è diventata una delle più vitali e solari città del sud, con un

water front

moderno e funzionante, belle strade, grandi architetti e conti in ordine.

Ebbene, tutto questo successo gli ha dato alla testa. E adesso che ha deciso di non obbedire neppure al Tribunale civile, in lui ha definitivamente prevalso il sangue pazzo del meridionale sul politico arguto e virtuoso. E butta fumo dalle narici, subisce il Diritto come una soperchieria, insulta il ministro Lupi che da mesi gli chiede di scegliere: «figurati se mi faccio ricattare da uno come te». E non cede neppure ai giudici. È la versione salernitana del siciliano Mirello Crisafulli, del veneto Cota, del lombardo Formigoni, è il notabile di sinistra che mette se stesso al di sopra di tutto, come fosse un altro unto del signore.

È arrivato, in questo suo “teppismo democratico”, a fare l'elogio dell'immoralità «che ci permette di governare», ha esibito come scalpi le indagini alle quali è sottoposto, di cui non ci occupiamo, e dalle quali gli auguriamo di uscire pulitissimo: «Io sono orgoglioso. In questo paese siamo tutti indagati. Non c'è un amministratore che non abbia un avviso di garanzia. Chi non ce l'ha è una chiavica ». E ha sempre cercato cariche: quando era eletto alla Camera si ricandidava come sindaco; da sindaco si candidava come presidente della Regione; e, podestà di Salerno, “sindaco per sempre” più di Orlando a Palermo, ha golosamente accettato di fare il sottosegretario. E ha candidato pure il figlio, proprio come fecero Raffaele Lombardo in Sicilia e Bossi in Padania: «Quelli che ce l'hanno con mio figlio sono cialtroni e farisei ».

Avrebbe dovuto dimettersi allora, nell’aprile del 2013, quando venne nominato ai trasporti nel governo Letta. L'incompatibilità infatti non ha bisogno di sentenze, si impone per evidenza: se vuoi amministrare
(bene) i trasporti d'Italia non hai certo il tempo di governare (bene) Salerno. È roba da fantuttone,
da “ghe pensi mi” che purtroppo tradotto in salernitano rimanda al pregiudizio della prepotenza antropologica: «A Salerno mi votano anche le pietre». Solo Brunetta avrebbe voluto fare allo stesso tempo il ministro della Funzione pubblica, il sindaco di Venezia e il deputato. I doppi incarichi e l'amministrazione come accumulo di roba non sono mai stati valori di sinistra, e non basta certo il tifo da stadio dei salernitani che lo eleggono per acclamazione a farne un eroe al di sopra della legge, come gli indimenticabili briganti delle due Sicilie.

E poi c'è quel parlare a gesti, quel lessico da duro pittoresco, una lingua impastata di esclamazioni, minacce, rancori e ripicche. E intanto si tocca, fa le corna e gli scongiuri, si gratta perché Lupi porta sfiga: «non si sa mai, ho due figli, abbiate pazienza: una grattatina ». E «la grillina Lombardi vada a mori’ ammazzata », «il collega del pd Zoggia sembra un raccoglitore di funghi», «il doppio incarico è una palla!», «coglioni!», «dei rom me ne frego!», «le discariche vanno aperte con il carro armato», «nel Pd c'è un gruppo dirigente di miserabili e il partito vive nella demenzialità », «spero di incontrare quel grandissimo sfessato e “pipì” di Marco Travaglio di notte e al buio», «Grillo sta con il panzone al sole», «Monti si mette il chihuahua sulla testa»...

Gli archivi e i blog sono pieni delle gag di De Luca e su Youtube è più cliccato di Ficarra e Picone. Ovviamente è molto parodiato, si ride di lui, è una specie di fattucchiero, una riedizione del Rosario Chiarchiaro interpretato da Totò... In realtà tutto questo divertirsi è una smorfia dolorosa, una partita sospesa sul Sud d’Italia, quello dei notabili e dei capibastone. De Luca, caudillo liberale («sono gobettiano» dice), è l'ennesima sconfitta, forse quella definitiva, dell'utopia dello sviluppo nella terra dei diavoli: da poveri a ricchi, da attardati a veloci, dall'indolenza alla nevrosi, dall'immobilismo all'iperattivismo. Nella miseria del guappo democratico stravaccato su due poltrone c’è la morte di un sogno antico che è anche nostro, il sogno di tutti i meridionali d’Italia, di un Paese che per tre quarti è Meridione.

Riferimenti

Vedi su eddyburg i molti articoli dedicati al "crescent" di Salerno e alle gesta del suo patron politico. Li abbiamo raccolti in una cartella in cui presentevamo la Salerno di DeLuca come un caso di «demagogia e distruzione edilizia della città saldamente legate in un unico progetto politico e personale».

Lassù si è deciso che «il commercio sarà la leva economica della trasformazione di Torino nei prossimi anni». Tutto il resto è sacrificato

La vicenda della realizzazione del centro congressi nell’ex area Westinghouse in Torino ha assunto i toni ed il carattere di emblema del modo di gestire e –ancor più- di concepire, oggi, l’urbanistica da parte dei nostri politici. L’area in questione –oggi in una zona strategica della città (a contatto con i nuovi Palagiustizia, Politecnico, grattacielo “Intesa-SanPaolo”, grande stazione ferroviaria di Porta Susa, ecc.)- è una di quelle rimaste libere a seguito della dismissione dall’industria che allora occupava zone - poi risultate centrali - in stretto rapporto con le vecchie barriere operaie. La destinazione d’uso di tale area fu quella della realizzazione di una nuova, grande biblioteca centrale multimediale e un centro congressi che fosse una valida alternativa in centro città a quello periferico del ‘Lingotto’. Fu bandito un concorso vinto dall’arch. Bellini.

La realizzazione del progetto vincitore si dimostrò presto molto costoso . Il peggioramento della situazione della finanza locale (segnata dall’aumento vertiginoso del debito anche a seguito delle olimpiadi del 2006), impose di fatto l’abbandono di quell’idea pur considerata di gran pregio e la sua area è stata oggetto di varie ipotesi con continui rinvii sul suo utilizzo. L’amministrazione Fassino, di centrosinistra, proseguendo la politica della gestione delle aree dismesse come merce di scambio per finanziare la riqualificazione (?) delle lacerazioni nel tessuto urbano successive all’abbandono delle industrie, ha deciso di rifare il bando (sfacciatamente su misura dei gruppi imprenditoriali dichiaratisi interessati purché contenesse l’oggetto del loro desiderio) al quale risposero due catene della grande distribuzione (Esselunga e Coop) così come era già previsto dal patto precedente la scrittura del bando. Con il bando si abbandonava l’obiettivo della grande biblioteca ma si confermava quello del centro congressi. A compensazione di questo impegno, il bando prevedeva quindi il permesso della costruzione di un grande supermercato da parte della ditta vincente. E così sarà

A prescindere dalla scelta di localizzare il suddetto centro congressi ( per 5000 posti) all’interno della zona centrale urbana e quindi, ancora una volta, escludente le zone periferiche (che ne avrebbero un gran bisogno per risollevarsi dal loro stato di emarginazione dalle strutture fieristiche e culturali) e a prescindere dai problemi di concentrazione e sovrapposizione funzionale e logistica in quella precisa zona (oltre al perdurare della soppressione del piccolo commercio di prossimità), ciò che colpisce è la filosofia di fondo assurta ad ideologia: “..il commercio sarà la leva economica della trasformazione di Torino nei prossimi anni..” in quanto “..non è più immaginabile pagare la riqualificazione aumentando il debito dell’amministrazione..”è stato affermato dall’assessore all’urbanistica torinese Lo Russo.

Dunque, non c’è alternativa? E’ un destino segnato? Se è così, ci si deve adeguare al principio che, per esempio, se anche non c’è alcun bisogno di ipermercati, i torinesi si devono rassegnare ad averli in cambio di ciò che realmente a loro serve. Equivale a stabilire che la città non potrà mai pianificare in base agli effettivi bisogni dei suoi abitanti (cosa già rara in passato) ma dovrà prima assoggettarsi ad un ‘congruo’ numero di centri commerciali nei luoghi più convenienti per essi e, se resteranno ancora aree libere, tentare anche di soddisfare i propri cittadini con i sempre più sacrificati servizi pubblici. Ed è come augurarsi che l’investimento privato in centri commerciali non si esaurisca mai perché, se no, cesserebbe “..la leva economica della trasformazione di Torino..” per il suo sviluppo, il suo avvenire. Ma i megastore, così come il territorio, sono entità finite (come il mondo). Quando non ci sarà più nulla da scambiare con i privati, come faremo?

Abbiamo condannato per anni il ‘rito ambrosiano’, quello della cosiddetta urbanistica contrattata, e ora noi la assumiamo come regola fondante universale? E’ il segno che l’arte del disegno delle città è completamente da rifondare e che, anziché condividere e/o teorizzare l’attuale sua deriva, occorre mettere mano a processi che leghino la fiscalità locale e quella nazionale alle trasformazioni urbane (sempre più rapide e sempre più onerose rispetto al passato) in modo chiaro, preordinato, strategico. Processi che, a partire da iniziative locali, si prefiggano di condurre -in tempi certi- ad una legislazione nazionale per la profonda riforma urbanistica attesa da settant’anni. La riqualificazione/rigenerazione urbane –soprattutto dei grandi centri, come quella del territorio nazionale- deve diventare un punto specifico del programma di governo nazionale e locale. La ri-progettazione/pianificazione della forma e dell’organizzazione delle città deve essere pensata e gestita in base al prevalere dell’interesse pubblico, quindi a prescindere da interessi particolari privati. La partecipazione di quello (economico) privato, pur necessario, non deve in alcun modo condizionare lo sviluppo della città che è e resta ‘pubblica’. Se ciò non avviene -o avviene il contrario (come ora)- è perché la gestione e distribuzione della fiscalità non sono adeguate e corrette: l’armonia e la tutela dei territori vanno di pari passo con l’equità nelle scelte economiche. L’idea che la città deve vendere ciò che ha per sopravvivere o accettare programmi diversi e distorsivi rispetto a quelli previsti, è conseguenza dell’accettazione e sottomissione all’ideologia dell’austerità anziché impegnarsi nel coordinamento dell’azione degli amministratori dei territori per rivendicare il superamento delle sue assurde regole: assurde e profondamente punitive di ogni equilibrato progetto urbano. Al contrario, le risorse devono poter essere accantonate (e usate) dalla fiscalità generale e da quella locale (anche a debito,anche ricorrendo se necessario- all’azionariato popolare) purchè, in totale trasparenza, devolute allo scopo per cui sono state richieste. La politica locale ha il compito-dovere di dirottare in tal senso la politica nazionale. Le città hanno grandi e urgenti progetti da realizzare, se possibile, evitando ai propri cittadini la pena del baratto.

Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2014

Ci Sono voluta Una causa amministrativa Sentenze della Magistratura per Salvare Capo Malfatano, Comune di Teulada, Sardegna. E this E nel contempo una bella cura di Una cattiva notizia.

La bella notizia l'ho Già detta:. Prima il TAR Sardegna e poi il Consiglio di Stato ha sancito l'illegittimità Annone di un'enorme / ennesima Speculazione edilizia Sulle martoriate coste della Sardegna Circa 200.000 metri cubi di cemento a 300 metri Dalla splendida spiaggia di Tueredda.

La cattiva notizia e Che Ancora una volta SIA Stato Necessario l'Intervento della magistratura per Fermare lo scempio. Perché Dall'altra parte erano Tutti d'Accordo, il Comune di Teulada, la Soprintendenza, la Regione Sardegna, ndr ovviamente i costruttori Tra i Quali Benetton ("United Colors of Benetton", ricordate?) E Caltagirone. Da this parte la ferma Volontà di un singolo pastore, Ovidio Marras, di 82 anni, e del supporto Ricevuto dal Gruppo di Intervento Giuridico e di Italia Nostra per Fermare lo scempio. Ed e purtroppo Una cattiva notizia Anche Il Fatto Che Una parte delle costruzioni Sono in corso d'opera.

Ho scritto Già nel passato della follia Caso delle seconde, delle scritte "vendesi" sempre Più Numerose also in Sardegna. Eppure il virus edificatorio arrestarsi non pare. E l'ultimo atto e Stato lo stravolgimento del Piano Paesaggistico di Soru, da parte della Giunta Cappellacci ("cominci a preparare il cemento ei mattoni"), Che darebbe il via libera a Nuove lottizzazioni sul litorale, fortunatamente impugnato dal Governo alla Corte Davanti Costituzionale.

Si dice Che il mondo ambientalista dadi sempre di no. Ma, Vieni dadi giustamente un mio caro amico: "continueremo a dire sempre di no, se Dall'altra parte proporranno e progetteranno sempre le stesse cose".

A Verona il sindaco vorrebbe mettere un tetto all’Arena e fare dell’Arsenale austriaco un ipermercato. Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2014

"Non esiste mondo fuori delle mura di Verona: non c’è che purgatorio, supplizio, l’inferno stesso”, scrive Shakespeare: certo, sotto Flavio Tosi anche dentro quelle mura la situazione non è molto più allegra. Almeno per la cultura.

Non è certo colpa di Tosi se la straordinaria qualità del tessuto artistico veronese è occultata da decenni sotto la coltre di paccottiglia collegata proprio a Romeo e Giulietta: anche se la giunta ci ha messo del suo, spiaggiando di fronte all’Arena una incredibile panchina a forma di cuore per foto di coppia. Da notare il divisorio centrale, che impedisce ai senzatetto di dormirci durante la notte: limiti dell’amore al tempo della Lega. Il tono culturale è invece da cercare nell’idea di Gianni Morandi (sic), che ha proposto a Tosi di dotare di un tetto proprio l’Arena: “Ho pensato che in fondo una copertura avrebbe potuto valorizzare l’anfiteatro, i grandi eventi e la città di Verona”.

Magari il settantenne ragazzo di Monghidoro scherzava, ma il sindaco si è precipitato a Roma: dove però è stato gelato dal ministro per i Beni culturali, il quale deve avergli fatto notare che un anfiteatro romano non è esattamente un palasport. Poco male, a Verona non mancano i progetti di “valorizzazione”. Uno dei più contestati riguarda l’Arsenale austriaco, importantissimo monumento di architettura e urbanistica militare dell’Impero asburgico, e cornice di un giardino pubblico assai frequentato nonostante le pessime condizioni. I cittadini, riuniti in un comitato, chiedono che anche gli edifici trovino una destinazione sociale e culturale, in una città che ha fame di spazi pubblici. La giunta, invece, dopo aver lasciato andare in malora il complesso, preferisce destinarlo alla speculazione edilizia, immaginando di trasformarlo in centro commerciale, attraverso il discutibile strumento del project financing. Il Comune dovrebbe, per di più, investire ben 12 milioni di euro in un progetto che porterà a una privatizzazione di due terzi del complesso per 99 anni. L’appello online che chiede il ritiro dell’operazione (“perché palesemente contraria all’interesse pubblico e a quello delle attività commerciali della zona e perché porterebbe a un enorme aumento del traffico, già ora insostenibile, e a una forte diminuzione del verde pubblico”) ha già raccolto oltre 2500 firme. Un altro caso che ha visto una vivace mobilitazione popolare riguarda Palazzo Bocca Trezza, già sede dell’Istituto d’Arte Nani: un bell’edificio del Cinquecento, ancora denso di decorazioni a stucco e ad affresco.

Dopo aver interrotto ogni manutenzione (nel silenzio incomprensibile della Soprintendenza), e dopo aver permesso che il giardino e il palazzo stesso diventassero una centrale di spaccio, la giunta Tosi si accorge delle pessime condizioni del complesso. Che, guarda caso, non lasciano scelta: bisogna disfarsene, alienarlo, privatizzarlo: cioè, dati i tempi, svenderlo. E tanto peggio per le associazioni, i comitati e i singoli cittadini che presidiano il palazzo e il giardino, propongono destinazioni sociali più che sostenibili, si riuniscono per protestare a suon di musica.

Ma Tosi non è solo capace di vendere, perbacco: sa anche costruire. Un fiore all’occhiello della politica culturale del sindaco è il museo AMO (si scioglie in: ArenaMuseOpera). Per realizzarlo è stato sfrattato dalla sua sede storica uno dei più importanti musei della città, la Galleria d’arte moderna. E il palazzo (che è quello del tiranno medioevale di Verona Ezzelino da Romano, del patriota Pietro Emilei e infine donato alla città da Achille Forti) è stato alienato (è un vizio) alla Fondazione Cariverona. Quindi Tosi (come presidente della Fondazione Arena) ha sostanzialmente preso in affitto (per modici 6,5 milioni di euro) dalla fondazione bancaria ciò che Tosi (come sindaco) aveva venduto, e ci ha realizzato l’AMO. Non ci sono parole per descrivere lo sconcerto di questo non-museo, che ha un salatissimo biglietto di ingresso ed è vietato (iddio sa perché) ai bambini con meno di quattro anni. La cosa più incredibile è che quasi tutti i documenti esposti sono fotocopie, anche se nessuna didascalia lo ammette. L’altra cosa lunare sono le didascalie stesse, un esilarante diluvio di trascrizioni errate e di errori storici (per esempio: Puccini viene fatto morire nel 1901, invece che nel 1924), sintattici, grammaticali. Il nome dell’Archivio e delle edizioni Ricordi (fondamentali, parlandosi di opera lirica) è quasi sempre tradotto in inglese come “Memories”. Con una variante sublime in cui “Casa Ricordi” si trasforma in una severa ammonizione: “Remember the Family”. Che, in effetti, dopo le disavventure del Trota è anche un buon consiglio politico. Insomma, non è poi un male che i numeri che rinviano all’audioguida siano sempre nascosti dai pesanti tendaggi.

La direttrice e curatrice del ‘museo’, che si firma Kikka Ricchio, è soprattutto nota come coautrice del volume Passione e cucina. Sarà per questo che a Verona c’è chi dice che fare un museo in quel palazzo serviva soprattutto ad aprirci un ristorante aggirando il vincolo monumentale. Di certo c’è che la qualità del ristorante è sideralmente superiore a quella del ‘museo’. Sull’ultimo numero dell’Espresso, Salvatore Settis ha notato che Tosi gareggia con Matteo Renzi in “invettive contro le soprintendenze ai beni culturali”. Si capisce: con una politica culturale così forte, aspira all’esclusiva.

Corriere della Sera Lombardia, 16 gennaio 2014, postilla (f.b.)

MILANO — C’è chi ha inventato un’applicazione per smartphone per far incrociare consumatore e azienda agricola. C’è chi ha creato una piattaforma web per le massaie che sono alla caccia di prodotti a chilometro zero. C’è chi ha ideato gli alveari urbani. E ancora: chi ha realizzato una piattaforma digitale di servizi e applicazioni per semplificare le attività in agricoltura, con l’obiettivo di ridurre lo spreco di risorse primarie. E chi ha dato vita a una community per incontrare nuovi amici a tavola. Nuove idee in campagna: vengono dagli agricoltori under 35, una nuova classe di imprenditori della terra che avanza sposando tradizione e creatività, zappa e palmare, tecnologia e sudore.

In Lombardia, i giovani contadini sono uno su 14, il 7,2% del totale, sono titolari di 3.520 aziende (start up e non solo) su un totale di 48.909. In cima alla classifica c’è la provincia di Como con il 12,5% (268 aziende su 2.150), seguita da Lecco con l’11,7% (131 su 1.122) e Sondrio con il 10,2% (268 su 2.621). Una generazione di agricoltori 2.0 che giocherà un ruolo chiave anche in vista dell’Esposizione universale del 2015, com’è emerso ieri al Tavolo agroalimentare di Expo, organizzato dalla Camera di commercio di Milano, nelle sale di palazzo Giureconsulti. Sviluppo sostenibile, salvaguardia dell’ambiente, buona e cattiva nutrizione, lotta alla contraffazione, guerra agli sprechi e innovazione tecnologica. Una lunga lista di sfide da vincere nel presente e nel futuro e su cui questa nuova generazione di imprenditori green costruisce i i progetti di lavoro delle proprie aziende.

Perché, nonostante il numero delle imprese «verdi» sia sceso, nella nostra regione, da 50.506 a 48.909 in dodici mesi, sempre di più i giovani ritornano alla terra, tanto che un nuovo agricoltore su quattro ha meno di 35 anni. Tradotto in cifre: si tratta di 227 su 963 nuove iscrizioni alle Camera di commercio, da gennaio a settembre 2013. Numeri da record, dunque. A cui si somma il fatto che i giovani imprenditori agricoli danno anche ossigeno all’occupazione: hanno infatti creato 3.968 posti di lavoro su un totale di 78.827 in Lombardia.

Ma è per colpa di una disoccupazione galoppante che i giovani riscoprono il fascino antico della campagna? «In questo periodo di crisi, fra i giovani lombardi c’è una forte propensione ad accostarsi a queste attività, più vicine alla natura e all’ambiente — osserva Giovanni Benedetti, della Camera di commercio di Milano —. E stimiamo che il loro numero possa continuare a crescere con l’approssimarsi dell’Expo. Perché l’evento del 2015, certamente, rappresenta un’opportunità per il settore agricolo. Così come i Tavoli Expo possono rappresentare un’opportunità per promuovere le start up e creare sinergie».

postilla

La domanda che chiude la serie delle interessanti statistiche proposte, racchiude in sé le due possibili alternative di sviluppo del fenomeno: da un lato la pura risposta, abbastanza casuale alla crisi, che assume forme tendenzialmente regressive, simili ad esempio all'apertura di negozi tradizionali destinati ad una vita breve di fronte alla concorrenza della grande distribuzione; d'altro canto, il solo fatto che si tratti di giovani “urbani” nelle aspettative, nelle aspirazioni, nella formazione di base, suggerisce qualcosa che va oltre il puro recupero di un'attività tradizionale e dei relativi territori. Non bisogna dimenticarsi che ad esempio anche il movimento per le città giardino si inserì in una grande ondata di “ritorno alla terra” e di assestamento insediativo e occupazionale alla fine di un arco di sviluppo industriale e urbano. Allo stesso modo nuove attività produttive primarie potrebbero segnare (con adeguate strategie pubbliche di orientamento) il confine tra il banale sprawl padano attuale e qualcosa di più simile all'integrazione delineata in teoria da Expo (f.b.)

Entra nel vivo la scissione dell'atomo di Umberto Veronesi, tra le due componenti della ricerca scientifica e della speculazione edilizia: riuscirà l'esperimento? La Repubblica Milano, 15 gennaio 2014 (f.b.)

Comune e Fondazione Cerba ricominciano a trattare per salvare il Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata. Dopo la decisione di Palazzo Marino, il 18 dicembre, di non concedere un’ulteriore proroga alla firma degli atti integrativi all’Accordo di programma (con conseguente rischio di far decadere il piano), ieri durante una seduta della commissione Urbanistica le parti hanno avviato le prove d’intesa. Il vice sindaco Ada Lucia De Cesaris ha messo sul piatto la proposta del Comune: la revisione del progetto iniziale, con la riduzione dell’impatto urbanistico sul Parco e lo spostamento di parte delle costruzioni in un’altra zona, esterna all’area agricola.

Un’ipotesi che non dispiace alla Fondazione: «Siamo disposti a rivedere il progetto — spiega il direttore generale Maurizio Mauri — La parte del Cerba inerente alla ricerca e all’attività clinica deve essere necessariamente realizzata accanto allo Ieo, nel Parco agricolo Sud. Il resto, però, può anche essere costruito altrove: noi non vogliamo fare alcuna speculazione edilizia, ma solo portare avanti un disegno scientifico».

L’ipotesi sarebbe quella di spostare le “funzioni ancillari” del Cerba (le case per studenti e ricercatori in arrivo dall’estero, i magazzini, le aule per la didattica) in un’altra zona: si potrebbero utilizzare, si ragiona in Comune, alcune di quelle aree dismesse o edificabili che appartengono al pacchetto del fallimento Ligresti, ma si trovano dall’altro lato di via Ripamonti, fuori dal Parco agricolo Sud. Su cui, così, l’impatto potrebbe diminuire anche di un terzo. «Siamo pronti a partire su nuove basi purché sia chiaro l’iter urbanistico — sottolinea De Cesaris — Il Cerba si può fare benissimo con un lavoro di contemperazione. Ci si mette tutti di buona volontà e lo si fa in modo trasparente, con un accordo alla luce del sole e non pasticciato». Uno scenario che la Fondazione non esclude, anche se mette il paletto dei tempi: «Tutto dovrà essere risolto entro un anno, non di più», puntualizza Mauri.

Un compromesso, insomma. Che potrebbe essere formalizzato nelle prossime settimane, con l’avvio di un nuovo tavolo tra Palazzo Marino, Fondazione e Visconti srl, la società costituitadalla banche creditrici di Ligresti per presentare il concordato (che ancora attende l’omologazione) e rilevare il Cerba. Resta il nodo dei ricorsi al Tar, presentati contro il Comune dalla Fondazione e dalla curatela Ligresti, e su cui il Tribunale si esprimerà il 23 gennaio. Se la Fondazione si dice disposta a ritirarlo qualorale trattative dovessero riprendere ufficialmente, quello presentato dalla curatela per ora rimane in piedi. Anche perché è proprio con i curatori fallimentari (che il 27 dicembre hanno scritto al sindaco Pisapia, invocando un ripensamento per evitare che il concordato salti) che i rapporti sono più tesi: «La curatela finora non si è dimostrata disponibile ad arrivare a un compromesso — dice De Cesaris — In questi mesi abbiamo proposto diverse proposte di modifica al piano originale, ma l’accordo non è mai stato raggiunto: se ci avessero seguito, non saremmo a questo punto».

eddyburg) si battono da anni contro la distruzione di un prezioso paesaggio della costa della Sardegna. Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2014, con postilla

MADE IN BENETTON. Ogni tanto una buona notizia. Il 9 gennaio le sessanta cartelle di una sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato hanno salvato un pezzo di paesaggio italiano: Capo Malfatano, all'estremo sud della costa della Sardegna. Qui la Società Iniziative Turistiche Agricole Sarde e una cordata di costruttori di tutto rispetto (Sansedoni, Benetton, Toti e Caltagirone) stavano costruendo hotel e servizi per quasi 200.000 mila metri cubi di cemento (pari a circa 15 palazzi di dieci piani) collocati a 300 metri dalla spiaggia di Tueredda. Se è dovuto intervenire il Consiglio di Stato è perché il Comune di Teulada e la Regione Sardegna avevano tranquillamente concesso tutte le autorizzazioni (ennesimo atto di interessato suicidio), e la Soprintendenza non aveva fatto una piega (ennesima complicità nel suicidio). Il primo a opporsi un semplice cittadino: Ovidio Marras, contadino e pastore di 82 anni, supportato dallo straordinario GrIG (Gruppo di Intervento Giuridico). Ma mancavano i soldi per percorrere fino in fondo l'iter della giustizia amministrativa, ed è qua che è intervenuta Italia Nostra, un'associazione cui tutti noi dovremmo essere profondamente grati. “La sentenza – scrive proprio Italia Nostra – è una vittoria contro un’immensa e continua aggressione all’ambiente. Il Consiglio di Stato non solo ha riconfermato il valore assoluto del paesaggio sugli interessi economici, ma ha anche confermato la funzione delle associazioni in difesa del patrimonio culturale. Un’azione svolta con grande impegno e determinazione dal consiglio regionale di Italia Nostra Sardegna, da Maria Paola Morittu e dall’avvocato Filippo Satta per la difesa di un luogo unico. Malfatano deriva dall’arabo ‘Amal fatah’ che vuol dire ‘il luogo della speranza’, la speranza che per Italia Nostra sentenze come queste indichino quale debba essere il rispetto che il nostro patrimonio storico, artistico e naturale merita ogni giorno nel nostro Paese”. E sembra di vederlo, su qualche nuvola nel cielo della Sardegna, il sorriso di Antonio Cederna.

postilla
Sulla vicenda vedi su eddyburg l'articolo di Maria Paola Morittu,che nell'agosto 2010 ha aperto la critica e lanciato l'appello, gli articolipubblicati nel 2010 da Giorgio Todde (eddyburg) e Sandro Roggio (L’Unità),quelli scritti negli anni successivi da Andrea Massidda e Mauro Lissia (LaNuova Sardegna), Giorgio Meletti (Il Fatto quotidiano), Giorgio Todde (eddyburg). Su Ovidio vedi anche lo splendido servizio di Giorgio Galeano, per TG3,su YouTube.

Corriere della Sera, 14 gennaio 2013

Bellezza e occupazione possono andare d’accordo? Protezione dell’ambiente e occupazione possono sostenersi a vicenda? Chi crede solo nell’industrializzazione forzata, nella liberalizzazione edilizia e nella cementificazione del territorio, risponde di no, sostenendo che arte, cultura, ambiente e prevenzione non danno lavoro e comportano solo spese. Molte voci consapevoli stanno dimostrando invece, prove alla mano, che un Paese privo di materie prime come il nostro, può svilupparsi solo puntando sulle sue eccellenze. Suggerisco a questo proposito un bel libro di Montanari, Leone, Maddalena e Settis, sul rapporto fra Costituzione e ambiente, fra ricchezza accumulata nelle mani di pochi speculatori e perdita del lavoro, (Costituzione incompiuta, Einaudi). D’altronde non posso scordare la risposta di una studentessa vietnamita alla mia domanda del perché studiassero una lingua lontana e poco potente come l’italiano: «Perché siete la più grande potenza culturale del mondo!». Accidenti, mi sono detta, possibile che lo pensino i vietnamiti e da noi nessuno ci faccia caso?

Prendo qualche dato fornito da Roberto Ippolito, autore del lucido e informatissimo libro Ignoranti, Chiarelettere. Quest’anno i visitatori della Biennale d’arte di Venezia sono stati 475 mila, l’8% in più rispetto al 2012. A Torino i musei hanno aumentato i loro visitatori del 50% dal 2012. Nella città di Torino e provincia si contano oggi più di 33.000 addetti alla cultura, il doppio dei dipendenti Fiat. Purtroppo spesso la trascuratezza e la speculazione allontanano i turisti, fino a impoverire intere zone di alta qualità artistica. Ippolito cita il caso di Montescaglioso in Basilicata, dove è franata la località Cinque Bocche. «Strade inghiottite, villette crollate, un supermercato sprofondato, cancellato il collegamento con Potenza». Eppure Montescaglioso è un luogo di importanti testimonianze storiche: «Si trova nel parco delle chiese rupestri del Materano, vanta l’abbazia benedettina di San Michele Arcangelo del XII secolo, fa parte dell’associazione città dell’olio».

Come partecipazione alla vita culturale, l’Italia si trova al 23° posto su 28 Paesi dell’Unione Europea. Fra gli ultimi per laureati, per quantità di lettori, abbiamo una dispersione scolastica da Paese sottosviluppato, e la scuola è degradata. Se andiamo a vedere i dati del turismo, risulta che le città più visitate non sono quelle marine o dei divertimenti, ma le città artistiche, fra cui Torino, Firenze e Venezia. I turisti quest’anno hanno speso 32 miliardi , contro i 29 del 2010, con un aumento del 20%. Mentre ci sono città e luoghi artistici importantissimi come Pompei o Agrigento che, a causa dell’incuria, stanno perdendo visitatori. Insomma è chiaro che lì dove la bellezza è tutelata e protetta, dove l’accoglienza è garantita con visite guidate, vendita di libri, presenza di bar e ristoranti, la gente accorre. Dove c’è abbandono e cattiva gestione, la gente scappa. «L’Italia non ha capito che potrebbe recuperare migliaia di posti di lavoro puntando sulle sue vere, invidiate e inesauribili ricchezze». Chi lo dice? un vietnamita innamorato del nostro Paese o un italiano che tocca con mano tutti i giorni i danni che fanno la speculazione, la cementificazione, il cattivo uso del territorio e dei beni culturali ?

II contenimento del consumo di suolo non comporta solo l'inedificabilità dei suoli attualmente ancora liberi e la densificazione indiscriminata delle aree già urbanizzate. Richiede anche un'utilizzazione ragionevole del già costruito , 11 gennaio 2014, con postilla (f.b.)

È vuota da più di quindici anni: un monumento alle città abbandonate, la Torre Galfa, tanto che un anno e mezzo fa il collettivo Macao l’aveva scelta come prima sede per una breve ma intensa occupazione abusiva. Ora il grattacielo di via Galvani passa dalle mani del gruppo Fondiaria-Sai a quelle del gruppo Unipol (che ha acquistato il gruppo di Ligresti nel 2012), che sta iniziando a studiare un progetto di riqualificazione del Comune. Obiettivo: trovare investitori anche internazionali per poter partire con i lavori di recupero nel corso di quest’anno.

È soddisfatta l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris per un accordo che va nella direzione delle politiche di recupero del costruito fissate anche dal nuovo regolamento edilizio: «Abbiamo avviato un processo condiviso con Unipol per definire il progetto migliore per la riqualificazione della Torre Galfa, che potrà tornare ad essere un elemento di qualità per la città, mi auguro che possa essere d’esempio per gli altri proprietari di edifici abbandonati». Il progetto di riqualificazione e valorizzazione, che riguarderà non solo la torre, ma anche lo spazio urbano circostante, è nella fase iniziale (Unipol ha preso possesso del grattacielo da poco). Non è un caso, forse, che la notizia dell’accordo sia arrivata ieri: perché per oggi alle 14 Macao ha in programma un “laboratorio itinerante” che parte dalla Torre Galfa e arriva nell’edificio attualmente occupato, l’ex macello di viale Molise.

postilla

L'occupazione da parte di un gruppo di artisti del grattacielo griffato anni '60 in pieno centro a Milano, lasciato strumentalmente vuoto dal gruppo Ligresti a marcire, aveva fatto sensazione in tutto il paese: si denunciava esplicitamente tutta l'ideologia della cosiddetta eccellenza e sviluppo del territorio in salsa ciellino-formigoniana. Mentre una massa enorme di metri cubi disponibili a uffici veniva lasciata a far muffa, a duecento metri da un nodo di trasporti come la Stazione Centrale, un isolato più in là si scaraventava inopinatamente sul quartiere una specie di piramide di Cheope fortemente voluta dall'onnipotente governatore, e ancora poco distante crescevano gli altri parti delle fantasie di archistar e immobiliaristi d'assalto. Oggi, la sola idea di far qualcosa di minimamente ragionevole con quel grattacielo, contemporaneo al più noto Pirelli e allineato sulla medesima via Galvani angolo Fara (da cui il nome GalFa), può anche indicare una inversione di rotta. Certo non basta, ma come si dice aiuta. Su questo sito a vedi anche Torre GalFa e la responsabilità sociale dell'immobiliarista, di Diego Corrado e Gaetano Nicosia, ripreso da Arcipelago Milano (f.b.)

La Nuova Venezia, 5 gennaio 2014

«Il nuovo Piano casa approvato dalla Regione non sta in piedi, siamo pronti ad avviare tutte le iniziative legali per salvaguardare le nostre prerogative in materia urbanistica e difendere l’identità dei centri storici. Il 9 gennaio a Venezia i sindaci delle principali città venete concorderanno un documento che getta le basi per il ricorso contro la Regione».

Ivo Rossi, sindaco reggente di Padova, si è sentito a lungo con Giorgio Orsoni di Venezia, Giovanni Manildo di Treviso, Jacopo Massaro di Belluno e Achille Variati di Vicenza, per fissare l’agenda del meeting dei sindaci metropolitani in rotta di collisione con Palazzo Balbi su una materia delicatissima: il governo del territorio, che «rischia di subire l’oltraggio dei nuovi barbari».

Rossi dichiara il pieno appoggio ad Andrea Gios, il sindaco di Asiago che con una delibera del consiglio comunale ha bocciato la legge regionale 32 che spalanca le porte alla riqualificazione urbanistica. Vale a dire: demolire, ricostruire nuovi volumi con ampliamenti del 20 per cento. C’è chi teme una colata di cemento e chi invece spera che il settore dell’edilizia possa ripartire dopo la lunga crisi, grazie ad una procedura che non prevede né gli oneri di urbanizzazione né la concessione edilizia. Una sorta di deregulation che i geometri stanno cavalcando con offerte di consulenze on line, senza però abbassare le tariffe.

Asiago ha rotto il ghiaccio, seguita da Cortina che teme lo snaturamento della propria identità urbanistica con la riconversione selvaggia degli alberghi trasformati in residence. Marino Zorzato, il «padre» del Piano casa 3, non accetta di finire sul banco degli imputati e rilancia la palla ai sindaci: se proprio volete tutelare il territorio, cancellate dai Prg le zone residenziali non edificate su cui fate pagare l’Imu, dice il vicegovernatore del Veneto. Che aggiunge: i danni al territorio nascono dalla fame insaziabile dei comuni che hanno concesso lottizzazioni selvagge negli anni d’oro per incassare gli oneri di urbanizzazione: la festa è finita, anche se l’Imu sui terreni edificabili pesa come un macigno sulle tasche dei proprietari. Zorzato non desidera vincere il premio Attila che Legambiente assegna al «re dei cementificatori» e annuncia che tra martedì il consiglio regionale avvierà l’esame della legge sul consumo zero del territorio. Depositata dal Pd, sottolinea come tra il 1970 e il 2012 la superficie agricola del Veneto è stata ridotta del 9,85% con 180 mila ettari edificati. In quarant’anni il Veneto si è «mangiato» l’intera provincia di Rovigo.

«Il 9 gennaio a Venezia, i sindaci valuteranno i presupposti giuridici per impugnare il Piano casa 3: si tratta di capire se sia più utile ricorrere al Tar per bloccare l’effetto immediato dalla legge 32 o se invece non si debba addirittura chiedere l’intervento della Corte costituzionale. Il tema è molto delicato, perché cancella tutti gli strumenti di pianificazione e di governo del territorio», spiega Ivo Rossi, «azzera trent’anni di cultura urbanistica e spalanca le porte alle deregulation più selvaggia: non si può diventare dei moderni barbari con la scusa di uscire dalla crisi. Ci vuole un grande senso d’equilibrio, capacità di progettare il futuro e rigenerare i quartieri degradati», conclude Rossi. Il summit di giovedì a Venezia affronterà anche la stangata dei pedaggi delle autostrade e gli effetti della legge di stabilità sui bilanci dei comuni. A rappesentare il governo sarà il ministro Flavio Zanonato.

Gruppo d'intervento giuridico onlus, 5 gennaio 2014

L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridicoonlus ha chiesto con una specifica istanza (30 dicembre 2013) al Governo nazionale di proporre ricorso davanti alla Corte costituzionale (art. 127 cost.) avverso la legge regionale Veneto 29 novembre 2013, n. 32 contenente la terza edizione del c.d. piano casa per la lesione delle competenze statali in materia di ambiente e urbanistica (artt. 117 e 118 cost.) e, indirettamente, per lo svuotamento delle competenze comunali in materia urbanistica. Non solo.

In proposito mette a disposizione di chiunque lo desideri un fac simile di istanza da completare con le proprie generalità e qualifica e da rivolgere direttamente al Governo perché impugni davanti alla Corte costituzionale questo vero e proprio regalo alla speculazione edilizia più becera. Chiunque fosse interessato può richiederla all’indirizzo di posta elettronica grigsardegna5@gmail.com. Copia dell’istanza è già stata fornita al Comune di Asiago, insieme a Cortina d’Ampezzo uno dei primi Comuni veneti a battersi apertamente contro il provvedimento legislativo, con una deliberazione consiliare (23 dicembre 2013) di disapplicazione del c.d. terzo piano casa.

Ma è tutt’altro che un piano casa. Bisogna ricordare che il vero e unico “piano casa” è stato il piano straordinario di intervento dello Stato per realizzare edilizia residenziale pubblica su tutto il territorio italiano nell'immediato secondo dopoguerra, con i fondi gestiti da un'apposita organizzazione presso l'Istituto Nazionale delle Assicurazioni, la Gestione INA-Casa, in base alla legge n. 43/1949. Al termine (1963) saranno realizzati ben 355 mila appartamenti nei tanti quartieri “razionali” predisposti grazie anche al contributo di alcuni fra i più importanti architetti e urbanisti del tempo (da Carlo Aymonino a Ettore Sottsass, da Michele Valori a Mario Ridolfi).

In realtà – così come in Sardegna e in altre regioni italiane – si tratta di un provvedimento legislativo adottato per favorire la più becera speculazione edilizia. La terza proroga[1] del finto piano casa e vero piano scempi sarà applicabile fino al 10 maggio 2017 e sarà utilizzabile addirittura per gli edifici realizzati fino al 31 ottobre 2013 (art. 3, comma 2°), per il 20% della volumetria o della superficie esistente (aumentabile di un ulteriore 5% per edifici residenziali o del 10% per gli altri quando si faccia l’adeguamento per la sicurezza sismica), fino a mc. 150 per unità immobiliare, anche su corpi separati entro una distanza di 200 mt. dall’edificio principale.

Nel caso di demolizioni e ricostruzioni con miglioramenti energetici o con edilizia sostenibile gli aumenti volumetrici possono addirittura essere rispettivamente del 70% e dell’80% della volumetria esistente (art. 4, comma 2°), anche su aree di sedime diverse da quelle dell’edificio originario (artt. 4, comma 3° e 11).

Anche per l’obbligatoria rimozione dell’amianto è concesso un aumento volumetrico del 10% (art. 6), così come è incentivata la demolizione di edifici in zone a rischio idraulico con la ricostruzione in altre zone con un premio volumetrico del 50% della volumetria esistente (art. 7). Per l’eliminazione delle barriere architettoniche è concesso un ulteriore ampliamento del 40% della volumetria (art. 12).

Sono inoltre consentiti nuovi centri commerciali nei centri storici anche in deroga agli strumenti urbanistici (art. 16). Non esistono più limiti alle altezze degli edifici, né c’è la minima traccia delle necessarie autorizzazioni ambientali per le aree tutelate con il vincolo paesaggistico (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.) o con il vincolo idrogeologico (regio decreto n. 3267/1923 e s.m.i.) o rientranti in siti di importanza comunitaria e zone di protezione speciale (direttive n. 92/43/CEE e n. 09/47/CE, D.P.R. n. 357/1997 e s.m.i.).

Ma soprattutto – incredibile per una regione come il Veneto dove la Lega Nord governa – di fatto saranno esautorati i 581 Comuni veneti, che non avranno alcuna possibilità di mitigare o adeguare le previsioni legislative alla realtà locale: gli strumenti urbanistici comunali saranno in pratica disapplicati.

Basti pensare a che cosa potrebbe accadere sull’Altopiano di Asiago, sulla Riviera del Brenta o nella conca di Cortina d’Ampezzo, una vera follìa, un autentico far west urbanistico in danno delle aree più pregiate sul piano ambientale e forti richiami per il turismo.

La pianura veneta, un tempo celebrata da poeti e scrittori e già ora a rischio di collasso ambientale, potrebbe divenire un unico capannonificio, inutile e sempre meno ricco di lavoro.

L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico onlus confida in una risposta ferma e determinata da parte dei Comuni, associazioni e comitati veneti, singoli cittadini e – soprattutto – del Governo nazionale perché questo piano scempi sia portato davanti alla Consulta nel più breve tempo possibile.

p. Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

Stefano Deliperi

Intervistato da Giampiero Rossi, l'oncologo ci rivela un vero e proprio miracolo di Natale: la scissione del nucleo del suo progetto, fra Scienza e Metri Cubi. Forse è la volta buona per la città. Corriere della Sera Milano, 5 gennaio 2014, con postilla (f.b.)

Sono passate poco più di due settimane dallo strappo tra Palazzo Marino e la Fondazione Cerba. E, in particolare, tra il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris e il fondatore dello Ieo Umberto Veronesi. «Non riesco proprio a capire», diceva il 18 dicembre scorso al Corriere della Sera lo stesso Veronesi, «è davvero strano avere un sindaco contrario a un’opera di scienza, di civiltà, di avanzamento culturale...». Partita chiusa? Molti hanno pensato di sì, la sera in cui la vice di Pisapia ha rifiutato la proroga della convenzione che teneva in vita il progetto Cerba sui terreni del fallimento del gruppo Ligresti, a sud della città. Invece, durante le feste ci sono stati contatti diretti tra il sindaco e Veronesi e adesso, alle parole di distensione del vicesindaco nell’intervista di ieri, risponde il padre dell’oncologia italiana con messaggi altrettanto distensivi.

Professor Veronesi, ha letto le parole di ieri del vicesindaco De Cesaris?
«Sì, ho letto e dico che anch’io sono molto favorevole a riprendere il discorso su basi nuove. Dobbiamo tenere conto anche delle esigenze del Comune».

Prima di Natale sembrava tutto finito, lei era molto amareggiato. Cosa è successo in queste due settimane?
«È vero. Ho capovolto alcune mie posizioni, anche perché in effetti allora ero molto deluso all’idea che potesse sfumare questa grande opportunità per Milano. È successo che in questi giorni ho avuto un lungo dialogo con il sindaco Pisapia, che si è confermato una persona di vedute ampie, che mi ha spiegato le esigenze dell’amministrazione comunale».

E quali sono?
«Innanzitutto noi abbiamo già ridotto notevolmente le volumetrie del progetto iniziale, dopodiché si tratta di ragionare sui terreni nella stessa area ma più a ridosso di via Ripamonti, dove l’impatto ambientale è più ridotto. In pratica si ripropone il problema che avevamo già incontrato vent’anni fa con lo Ieo: dal momento che sorgeva nell’area agricola, quindi doveva essere vicino a via Ripamonti e architettonicamente compatibile, e infatti assomiglia a una grande cascina».

Dunque si tratta di spostare di poco la sede del futuro Cerba?
«Vorrà dire che non staremo in mezzo a un parco ma ai margini. L’importante è salvaguardare il principio del progetto, che resta solido. Noi chiediamo che vengano mantenute le tre aree — oncologia, cardiologia e neuroscienze — e che tutte possano fare capo a un grande centro di ricerca biomolecolare e uno di tecnologie biomediche avanzate. Perché il Cerba deve avere la capacità di diventare il punto di riferimento europeo, sovranazionale come il Nih negli Stati Uniti».

Quindi è tornato ottimista, professore, il Cerba si farà?
«Io credo di sì, che anche il Comune lo voglia fare. La vicesindaco De Cesaris è una donna forte, inflessibile, ci siamo scontrati, ma le riconosco di essere una persona intelligente. Quindi non è difficile trovare un punto di incontro. Presto torneremo tutti attorno a un tavolo».

postilla

Pare davvero di vederlo, il sindaco Pisapia, mentre spiega al professore nuclearista Veronesi le analogie fra la scissione dell'atomo e quella del Cerba: separando le due componenti della Ricerca di livello europeo, e del Metro cubo speculativo ad elevato impatto ambientale (che sinora apparivano inscindibili), si liberano energie straordinarie, in grado di creare occupazione qualificata e avanzamenti del sapere, più e meglio di quanto immaginato sinora sotto la cappa di piombo degli immobiliaristi nascosti dietro la scusa del polo sanitario. Poi naturalmente, come già accaduto e ancora accade ad esempio per certi progetti Expo, ci si può pestare le corna sulla qualità dei progetti, ma nessuno potrà più nemmeno per scherzo etichettare Nemici della Scienza quelli che provano a difendere la relativa integrità della greenbelt agricola milanese, e un metodo di decisione urbanistica degno di un paese civile deberlusconizzato (f.b.)
Nota: su questo sito sono decisamente troppi gli articoli riferiti al progetto Cerba, per poter ipotizzare qui anche indicativamente qualche link specifico. Il suggerimento è di inserire la parola chiave nella finestra del motore interno in alto a destra

L'Unità, 30 dicembre 2013, con postilla

Lohanno chiamato nubifragio, ma la definizione è discutibile: secondo laProtezione civile in Sardegna alla fine di novembre nell’arco di 24 ore sonocaduti dai 250 ai 400 millimetri d’acqua, con punte massime di 450, a secondodelle zone. Nel peggiore dei casi 18,5 mm l’ora, un nubifragio prevederebbeinvece 30 mm l’ora. Ma il risultato non è stato meno devastante, una ventina dimorti, quasi 3000 sfollati, città allagate e distrutte, montagne di acqua efango che viaggiavano lungo le strade ridotte a letto di quei fiumi che lacementificazione aveva espropriato per interessi privati.
Il cosiddettonubifragio in Sardegna ci riporta al cuore del problema della gestione delterritorio e dei Piani paesaggistici che dovevano essere uno strumento per governarlo,ma che nessuna regione italiana è riuscita ancora ad approvare in viadefinitiva, malgrado siano passati dieci anni dalla loro promulgazione. Inrealtà a piegare la Sardegna non è stata tanto l’intensità, certo forte, dellepiogge, ma la loro durata, che si è protratta lungo 48 ore, mandando in tilt unterritorio devastato dalle speculazioni. Piangiamo le vittime del dissestocementizio, non di un nubifragio.
Eppurela Sardegna fin dal 2006 si era dotata di un Piano paesaggisticoall’avanguardia, proprio perché prevedeva un sistema complesso, di cuiavrebbero dovuto far parte anche l’ambiente e il territorio. Insomma, ilpaesaggio non come pura bellezza. Renato Soru, allora presidente della giuntaregionale sarda sul Piano aveva puntato parecchio, partendo dalla legge Salvacoste del 2004, aveva dato vita a un bel progetto che imponeva nuovi vincoli,regole certe e comprendeva anche una digitalizzazione del territorio e dellesue proprietà, su computer facili da usare e aperti anche al cittadino –una innovazionefondamentale considerando che un vincolo paesaggistico decade se solo ilproprietario di una infima particella del territorio in oggetto non riceve ufficialicomunicazioni sull’inizio della procedura di vincolo, sul procedere dell’iter esulla sua definitiva conclusione.
Partesubito la guerriglia dei comuni che si sentono defraudati della possibilità diusare a loro piacimento il territorio, e con particolare veemenza del sindacodi Olbia, secondo cui il Piano avrebbe tarpato le ali all’economia della sua città–oggi invece lamenta essere Olbia ridotta a una montagna di fango e perricostruirla piange soldi allo Stato pantalone.
Acausa del suo Piano, Soru perde anche la compattezza dello schieramentopolitico che lo sostiene. Alle elezioni regionali del 2009 vince ilcentrodestra con Ugo Cappellacci che, appigliandosi a una mera questione diforma –il Piano era stato redatto prima della terza versione del Codice deiBeni Culturali e del Paesaggio–, blocca tutto benché il Mibac ne avesse comunquericonosciuto la validità. E, naturalmente, vai col mambo della betoniera, delpiano casa e dell’autorizzazione facile. Il tutto, ovviamente per rilanciarel’economia.
Ilcaso della Sardegna, che secondo i dati a nostra disposizione dal 35% diterritorio tutelato prima del 2009 crolla al 17% nel 2011, è emblematico nonsolo perché, insieme a Marche e Lazio, è tra le prime a dotarsi di un Pianopaesaggistico che non riesce poi ad adottare in via definitiva, ma soprattuttoperché quel Piano a suo modo comprendeva e recepiva le novità contenute nellaConvenzione europea del paesaggio, che proprio l’Italia aveva voluto lanciarenel 2000 a Firenze, ma che non è riuscita a recepire a pieno nel suo Codice peri Beni Culturali e il Paesaggio.
LaConvenzione infatti dice che paesaggio è sia il territorio «che può essere consideratoeccezionale (per la bellezza NdR), sia i paesaggi della vita quotidiana, sia ipaesaggi degradati» (art.2), che ovviamente vanno riqualificati. Una visionecosì allargata discende da un principio forte che ribalta la tradizionale impostazione,intesa soprattutto in Italia come bellezza naturale. Il paesaggio diventainvece fondante la qualità della vita dei cittadini, qualità della vita che èuno dei cardini della democrazia, e il caso del cosiddetto nubifragio inSardegna è lì a dimostrare la validità del principio.
Sembrerebbero banalità,eppure perfino nella traduzione della Convenzione in italiano su questi puntici sono state incertezze, palesi errori e polemiche: dove in Inglese si legge«Landscape means an area, as perceived…» (il paesaggio è un’area così comepercepita…), in italiano troviamo «Paesaggio designa una “determinata” parte di territorio», ilcorsivo è nostro per segnalare la evidente limitazione rispetto al testo originaledove tutto il territorio, comprese le aree urbane, è paesaggio.
Masiccome l’Italia è il paese del cavillo, il testo valido è quello dellatraduzione, ratificato con la legge n. 9 del 2006, e ora siamo obbligati adelimitare e determinare cosa sia paesaggio e cosa no. Oltre al traduttore e allegislatore, a complicare le cose ci si è messo anche il Governo: con i decretiBassanini della fine degli anni ’90 in Italia, unici al mondo, ciò che ècomunemente definito territorio è stato diviso in tre: il paesaggio ora è dicompetenza del Mibac, il territorio è di competenza delle regioni ed entilocali, l’ambiente è di competenza dell’omonimo Ministero.
Colpevolebarocchismo istituzionale che crea una gran confusione che il Codice dei BeniCulturali e del Paesaggio con la sua terza redazione del 2008 non semplifica,anzi sembra vittima ancora una volta di una eredità di stampo estetizzante ecrociano, dove paesaggio alla fin fine sono le bellezze naturali. Altro cheConvenzione europea sul paesaggio, qui si torna alla Legge Bottai del 1939 o,ben che vada, alla Galasso del 1985.
Tuttaviail Codice, pur con i suoi difetti, prescriveva già dal 2006 che il Mibac dessedelle linee guida valide per tutto il paese. Linee guida mai apparse. È apparsoinvece un Osservatorio nazionale sul paesaggio, creato secondo la tecnica difare una cosa talmente inutile da poterla rapidamente abolire. Come èregolarmente avvenuto mentre la Direzione centrale per il paesaggio venivaaccorpata con altre Direzioni e resa inoffensiva, proprio in quella che dovevaessere la fase cruciale della realizzazione dei Piani paesaggistici.
Diquesta latitanza di Governo e Stato hanno approfittato le regioni che non hannodimostrato alcuna fretta a fare i Piani paesaggistici, e pure quando liredigono non riescono ad approvarli in via definitiva, come è il caso dellaPuglia, dopo il Lazio, le Marche e la Sardegna. In questo modo, cioè finché ipiani non saranno approvati, l’arbitrio sul territorio, sulla concessioneedilizia, sul cemento facile e sui bassi commerci che ne derivano resta a loro:alle regioni o agli enti locali.
Èlecito infine chiedersi come vengano preparati questi Piani paesaggistici, cui dovrebberocollaborare le regioni e lo Stato, attraverso il Mibac. Secondo la Corte costituzionaleil Mibac dovrebbe essere garante dell’unitarietà dei Piani a livello nazionale,così nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2006 la copianificazionecon le regioni era su tutto il territorio. Nel 2008 però la nuova redazione delCodice prevede che il Mibac intervenga solo rispetto alle aree già sottoposte avincolo, e tanti saluti alla Corte Costituzionale e all’unitarietà delterritorio nazionale.
Oggicomunque né lo Stato, con il Mibac, né le regioni sembrano essere dotate distrumenti intellettuali e professionali atti a fare i Piani paesaggistici: loStato non li ha mai avuti avendo decentrato la gestione del territorio alleregioni nel 1972, salvo poi cercare di tornare sui suoi passi visto il disastrosoesito della scelta. Le regioni a loro volta in alcuni casi si erano dotate diuffici urbanistici efficienti, è il caso dell’Emilia Romagna negli anni ’70 e ’80,ma poi li hanno più o meno dismessi. Salvo un paio di eccezioni come laSardegna di Soru, oggi l’iter per lo più si limita al fatto che la regione,dopo aver stipulato pomposi principi introduttivi, affida la reale redazionedel Piano a una ditta esterna –non sempre competentissima–, che di solito nonfa altro che collazionare i vari piani regolatori dell’area in questione, senzaneanche consultare il Mibac, che giustamente boccia i piani per mancatacopianificazione.
Siamoin procinto di una profonda riforma del Mibac, imposta dalla “spending review”,che punta al dimagrimento di un ministero già sfibrato da un decennio di tagli:il testo è stato consegnato al Consiglio dei ministri prima di Natale con larichiesta di una proroga per questioni procedurali, segno che ancora qualchedubbio permane.
Sarebbeuna svolta epocale se dopo decenni di una «convergenza viziosa all’elusioneamministrativa» sul nostro paesaggio, definizione di Guermandi e De Lucia, graziea questa riforma il ministro Massimo Bray dotasse il Mibac di strumenti efficaciper la tutela del territorio, che tutti definiscono il nostro più grandepatrimonio. Ma finora solo a chiacchiere.
Postilla
E’ indubbiamente positiva l’attenzione che l’Unità, conl’inchiesta di Dal Fra, richiama sull’amaro destino dell’attuazione del Codicedel paesaggio e sulle gravi responsabilità del Mibac, e della stragrande maggioranzadelle Regioni, nella sua attuazione,così com’è pienamente condivisibile l’appello rivolto al ministro Bray perchéintervenga al più presto per invertire la tendenza. E’ però necessaria qualcheosservazione a partire dall’attendibilità dei numeri forniti dal Mibac in relazione alle areesottoposte a tutela nel 2008 e nel 2012. Per quanto riguarda la Sardegna (miriferisco all’unico caso che conosco bene) le aree tutelate dopo l’approvazionedel piano paesistico di Soru erano molte di più di quelle comprese nella leggeGalasso e negli altri vincoli ope legis. Quel piano, infatti, ha aggiunto oltre8.400 kmq alle parti di territorio precedentemente vincolate: il 35%dell’intero territorio dell’Isola. ben più del 17% di cui scrive Dal Fracitando gli strabilianti dati del Mibac. .La sola “fascia costiera” tutelata daun’apposita norma, comprende un territorio pari al 14% della superficiecomplessiva dell’intera Sardegna, e ha una profondità variabile dai 300 metriai tremila. Un’altra inesattezza dell’articolo sta nell’inserire la Sardegnatra le Regioni che non hanno un piano paesaggistico, conforme alle prescrizionidel Codice del paesaggio: il PPR di Soru è stato definitivamente approvato findal settembre 2006, ed è ancora pienamente vigente come tutti i tribunali amministrativi, e la medesima Corte costituzionale, hanno reiteratamenteconfermato. Ma su questo punto torneremo più ampiamente anche perché da parte di Cappellacci sta tentando di smantellare proprio quelle tutele che hanno la loro radice nella validità, a tutt'oggi, del Piano Soru. (e.s.)

Una follia, più volte denunciata su queste pagine. Tollerata da troppi, contestata da pochi. Un classico esempio dell'oggettistica architetturonica adoperata dal demagogo locale come pedana per lanciarsi al livello nazionale, e riuscire. Un esempio dell'Italia da rottamare. Il manifesto, 29 dicembre 2013

Il Cre­scent è una pre­senza incom­bente sulla spiag­gia di Santa Teresa. Nel trionfo di luci che è il cen­tro di Salerno in que­sti giorni tra Natale e Capo­danno, il gigan­te­sco palazzo pro­get­tato dall’archistar cata­lana Ricardo Bofill e la piazza a forma di mez­za­luna sulla quale si affac­cia e che a sua volta si apre sul mare riman­gono invece nella penom­bra appena il sole tra­monta. L’«ecomostro d’autore», emblema della gran­deur dell’amato-odiato sin­daco Vin­cenzo de Luca insieme alla vicina Sta­zione marit­tima a forma di ostrica pro­get­tata da Zaha Hadid, è stato seque­strato dalla magi­stra­tura e sul pro­getto di riqua­li­fi­ca­zione dell’ex area por­tuale dismessa pende un’inchiesta penale che coin­volge una tren­tina di per­sone, primo cit­ta­dino com­preso.

Due giorni fa il Con­si­glio di Stato ha emesso una sen­tenza che lo boc­cia a metà e non con­sente di ripren­dere i lavori, però ciò non ha impe­dito ai soste­ni­tori dell’opera di brin­dare con il bic­chiere mezzo pieno. De Luca ha com­men­tato trion­fante via Face­book: «È una vit­to­ria senza mezzi ter­mini». I comi­tati che si oppon­gono a quello che riten­gono un eco­mo­stro d’autore hanno con­vo­cato invece una con­fe­renza stampa per riba­dire che secondo i giu­dici ammi­ni­stra­tivi l’opera è «ille­git­tima a monte», dun­que «non con­do­na­bile» e per­tanto «va demo­lita e basta, come Punta Perotti a Bari o il Fuenti in Costiera amal­fi­tana».

Per pro­vare a capire chi ha ragione è neces­sa­rio pro­vare a deco­di­fi­care le parole dei magi­strati ammi­ni­stra­tivi in rela­zione al ricorso pre­sen­tato dall’associazione ambien­ta­li­sta Ita­lia Nostra e poi leg­gere la sen­tenza insieme al prov­ve­di­mento di seque­stro dell’area. Ci si accor­gerà dell’opposta inter­pre­ta­zione su un punto cen­trale della que­stione: l’autorizzazione pae­sag­gi­stica e la rela­tiva rela­zione della com­mis­sione edi­li­zia inte­grata inviata alla Soprin­ten­denza di Salerno. Secondo gli ambien­ta­li­sti «il pro­getto tra­smesso alla Soprin­ten­denza sarebbe un mero pro­getto archi­tet­to­nico privo dei requi­siti che deve pos­se­dere il pro­getto defi­ni­tivo. Man­che­reb­bero, inol­tre, tutte le neces­sa­rie inda­gini geo­lo­gi­che, idro­lo­gi­che, sismi­che, agro­no­mi­che, bio­lo­gi­che, chi­mi­che». Così rispon­dono i magi­strati: «Nella moti­va­zione indi­cata negli atti auto­riz­za­tori rila­sciati dal Comune non viene descritto in modo det­ta­gliato l’edificio (anche mediante l’indicazione delle dimen­sioni, venendo in rilievo una strut­tura con una lun­ghezza di circa 260 metri, uno svi­luppo lineare per­ce­pi­bile di circa 200 metri, una altezza fuori terra di circa 25,80 metri e una cuba­tura di circa 73 mila metri cubi, dei colori e dei mate­riali impie­gati, non essendo suf­fi­ciente affer­mare che l’amministrazione “con­di­vide l’articolazione dei mate­riali e delle cro­mie delle pavi­men­ta­zioni”), il pae­sag­gio nell’ambito del quale esso è col­lo­cato (non essendo suf­fi­ciente affer­mare che la volu­me­tria edi­li­zia a semi­cer­chio por­ti­cato è ido­nea a rimar­care la volontà sim­bo­lica di acco­gliere e defi­nire for­mal­mente ciò che per defi­ni­zione è con­ti­nua­mente mute­vole come il mare), il modo in cui l’edificio si inse­ri­sce in modo coe­rente ed armo­nico nel con­te­sto com­ples­sivo (non essendo suf­fi­ciente affer­mare che le aper­ture nella cor­tina edi­li­zia rea­liz­zano la neces­sa­ria per­mea­bi­lità visuale, oltre che fun­zio­nale, tra la piazza e il tes­suto urbano e che l’altezza dell’emiciclo rag­giunge il giu­sto equi­li­brio tra la pro­fon­dità della piazza, le altezze di alcuni fab­bri­cati moderni alle spalle e la neces­sità di monu­men­ta­liz­zare il sito)». Quindi, «le nuove even­tuali auto­riz­za­zioni dovranno essere oggetto di rin­no­vate valu­ta­zioni da parte dei com­pe­tenti uffici e, in par­ti­co­lare, della Soprin­ten­denza».

Per il resto è tutto ok. Nes­sun pro­blema urba­ni­stico, nes­suna discre­panza tra il Pur­ba­ni­stico comu­nale e il Piano attua­tivo, nes­sun con­tra­sto con il piano ter­ri­to­riale di coor­di­na­mento pro­vin­ciale, nes­suna vio­la­zione delle norme di sde­ma­nia­liz­za­zione, nes­suna ille­git­ti­mità del parere dell’Autorità di bacino sulla devia­zione del tor­rente Fusan­dola e nes­sun dub­bio sulla rela­zione sismica.

Ecco spie­gato il per­ché ognuno vede nella sen­tenza quello che vuole vedere. Per il sin­daco De Luca «la sen­tenza del Con­si­glio di Stato sul caso Cre­scent rico­no­sce la piena legit­ti­mità di tutta la pro­ce­dura ammi­ni­stra­tiva e urba­ni­stica. È stato rile­vato un difetto di moti­va­zione rispetto alla valu­ta­zione pae­sag­gi­stica. Si invi­tano, per­tanto, le isti­tu­zioni inte­res­sate a sanare tale rilievo for­male». Però quel difetto «di moti­va­zione» sulla que­stione pae­sag­gi­stica appare ben più che una que­stione mera­mente for­male. È pro­prio per quel motivo, infatti, che un mese fa la pro­cura di Salerno ha deciso di met­tere i sigilli all’opera, met­tendo sotto inchie­sta trenta per­sone per abuso d’ufficio, falso in atto pub­blico e lot­tiz­za­zione abu­siva. Nel decreto di seque­stro del gip Dona­tella Man­cini si sostiene l’illegittimità dell’iter seguito per arri­vare all’autorizzazione pae­sag­gi­stica. Secondo l’accusa, inol­tre, ammi­ni­stra­tori e fun­zio­nari pub­blici avreb­bero «con­sa­pe­vol­mente e volon­ta­ria­mente» aggi­rato le pro­ce­dure per «acce­le­rare i tempi di rea­liz­za­zione dell’opera» e «con­te­nere i costi per i pri­vati appal­ta­tori».

Nel frat­tempo, la piazza della Libertà, la cui forma dovrebbe evo­care l’apertura al mare e le anti­che rela­zioni della città medi­ter­ra­nea con il mondo arabo e le cui dimen­sioni ne fanno la più grande d’Europa con i suoi 35 mila metri qua­dri, ha avuto un cedi­mento e rischia di dover essere rifatta. Per De Luca, che al ridi­se­gno urba­ni­stico della città deve gran parte del suo suc­cesso poli­tico — dal piano rego­la­tore affi­dato a Oriol Bohi­gas negli anni ’90 alla metro­po­li­tana leg­gera inau­gu­rata un mese fa — una volta ter­mi­nata essa «sarà il sim­bolo dell’architettura moderna in Ita­lia». Gli atti­vi­sti No Cre­scent non sono della stessa opi­nione e hanno dif­fuso un dos­sier — inti­to­lato «mala gestio» — nel quale denun­ciano, tra le altre cose, lo spreco di fondi comu­ni­tari e la cemen­ti­fi­ca­zione di aree dema­niali. «Finora è stata costruita solo metà dell’opera, è stato già spo­stato un tor­rente e scom­pa­ri­ranno due­mila metri qua­dri di mare e sei­mila di spiag­gia», denun­cia Pier­luigi Morena, un avvo­cato del comi­tato.

In que­sti giorni, al tra­monto Salerno si illu­mina con le «Luci d’artista». La ressa di curiosi e turi­sti inte­res­sati agli addobbi nata­lizi d’autore ha man­dato in tilt la neo­nata metro­po­li­tana e pro­vo­cato per­sino una rissa su un bus par­ti­co­lar­mente affol­lato. «Le luci nascon­dono tante ombre», afferma un altro ambien­ta­li­sta, Ore­ste Ago­sto. Tra que­ste, risalta quella del Crescent.

L’Unità, 29 dicembre 2013

È un crollo. Rovinoso. Come a Pompei, o quelli degli edifici trascinati via dall’acqua in Sardegna dopo le piogge di novembre. Parliamo della percentuale del nostro territorio posto sotto tutela paesaggistica o ambientale, che dal 2008 al 2011 si è ridotto a meno della metà. Dopo la Legge Galasso del 1985, si disse che oltre il 50% del territorio fosse tutelato. Secondo il «Sole 24 Ore» di inizio 2010, con dati che perciò risalivano almeno al 2008, la percentuale si attestava al 46,9%. Se quella cifra è esatta, e non abbiamo motivo per dubitarne, nel 2011 secondo i dati del rapporto «Minicifre» del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (Mibac) siamo crollati sotto il 20%. La metà, in tre anni. Come è potuto accadere?

Lo strumento legislativo che servirebbe ad arginarne la distruzione, sono i Piani paesaggistici, uno per Regione da realizzare in copianificazione con il Ministero dei Beni e le Attività Culturali il paesaggio è stato dichiarato per legge un bene culturale. Ma a dieci anni dall’entrata in vigore delle leggi che li prevedevano (d.l. 42 2004 e l. 137 – 2002), i Piani restano ancora lettera morta. Il tutto appare perverso considerando che proprio l’Italia volle nel 2000 lanciare a Firenze la Convenzione europea del paesaggio, i cui contenuti più innovativi stentiamo ad assorbire nel Codice per i Beni culturali, giunto in meno di dieci anni alla sua terza redazione, con esiti deludenti soprattutto per il paesaggio.

Il caso del Lazio è emblematico: già nel 2007 il Piano paesaggistico è pronto e approvato, ma si attendono le controdeduzioni. La giunta Marrazzo tuttavia conosceva bene gli appetiti della sua regione e, con mossa a sorpresa, lo adotta comunque prima in Italia -, dandosi 5 anni di tempo per modificarlo alla luce di quanto emergerà dalle controdeduzioni e dalle risposte che a queste daranno le pubbliche istituzioni.

Durante la giunta di centrodestra del governatore Renata Polverini il piano si arena e nulla sembra muoversi o, meglio, si muove lei, che si affretta a presentare un piano del tutto diverso: è il «piano casa» regionale, frutto della omonima legge promulgata dal governo Berlusconi che scavalca i piani paesaggistici. La parola d’ordine è: più cemento per tutti per rilanciare l’economia, e parte l’assalto al territorio. Nel frattempo quello tutelato nel Lazio cade dal 46,7% del 2008 al 20,8% del 2011.

L’economia non riparte, anzi peggiora, ma, per fortuna, non parte neppure il piano casa: anche un Pdl come Giancarlo Galan, allora ministro dei Beni e delle Attività Culturali, non riesce a mandare giù una porcata dove l’ufficio legislativo del Mibac rileva una ventina di possibili incostituzionalità: il piano viene bloccato. Nel frattempo, all’inizio del 2013, i termini per la definitiva approvazione del Piano paesaggistico del Lazio stanno scadendo: nella ingloriosa débâcle della giunta Polverini, tra gli scandali di Fiorito e compagnia, alcuni funzionari della Regione fanno passare una proroga di un anno, anche perché sono arrivate le controdeduzioni.

A questo punto è lo Stato che comincia a perdere tempo: dalla direzione regionale Mibac del Lazio si impongono una serie infinita di controlli, si chiede più tutela e tutele incrociate tra le soprintendenze archeologiche, architettoniche e paesaggistiche. Cose anche giuste, ma che hanno poco a che vedere con le controdeduzioni: avrebbero potuto e dovuto essere fatte prima, e comunque si possono fare e ottener e anche dopo l’approvazione del piano. Con lo scarso personale a disposizione delle soprintendenze, il risultato è una dilazione di un anno. A termine oramai scaduto. È un atteggiamento non nuovo per taluni dirigenti del Mibac. In generale di fronte a casi simili è difficile stabilire se si tratti di vero amore per i beni culturali o di quella che è definita la tattica del cosiddetto «finto pasdaran della tutela», che in nome dei sacri principi di un proclamato beneculturalismo blocca tutto, in modo che si vada avanti come sempre, cioè male.

Cosa accadrebbe se il piano paesaggistico della Regione Lazio non sarà definitivamente approvato e adottato prima di febbraio? Si dovrebbe tornare alla «normale amministrazione», antecedente al Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2002: ma in Italia nulla è mai «normale».

La storia della tutela del paesaggio nel nostro Paese è una lunga guerriglia tra Stato e Regioni su chi debba esercitare il controllo: già nel 1972, in base alla legge sul decentramento, il cosiddetto «territorio» passa alle Regioni, aprendo la strada al periodo più nero della cementificazione. Il 28 febbraio del 1985 il primo governo presieduto dall’onorevole Bettino Craxi, ministro delle finanze Bruno Visentini, promulga la Legge n. 47: è il primo storico condono edilizio, ne seguiranno altri due. Associazioni, media, società civile , s’indignano: sotto la pressione dell’opinione pubblica l’8 agosto 1985 viene promulgata la legge 431/85 detta anche Legge Galasso dal nome del sottosegretario ai Beni Culturali Giuseppe Galasso (Pri)–, che introduce una serie di tutele e regole sul paesaggio e l’ambiente, obbliga le regioni a fare dei «Piano paesistici» – cosa diversa da quelli paesaggistici e solo parzialmente realizzati –, e una parte del territorio viene comunque vincolata in base a criteri estetici. Ma la battaglia ricomincia: le Regioni si indignano, perché si sentono deprivate dal controllo del territorio che ritengono un loro diritto, oltreché fonte di notevoli interessi.

Si arriva alla Corte Costituzionale che dalla fine degli anni ’90 con una serie di sentenze stabilisce che il paesaggio è competenza dello Stato, o per lo meno anche dello Stato poiché deve essere considerato in maniera unitaria su tutto il territorio nazionale e non regione per regione. Tra le sentenze spicca quella che bloccando la costruzione di un’installazione militare in Puglia, ricorda agli amministratori regionali che il paesaggio è di prioritario interesse nazionale, superando anche le esigenze militari, almeno in tempo di pace.

Sembrerebbe tutto chiaro. Ecco che si arriva al Codice dei Beni Culturali e ai Piani, che da paesistici sono divenuti paesaggistici e prevedono la collaborazione tra Stato e Regioni: la seconda stesura del Codice, del 2006 ministro Buttiglione, prescrive che la copianificazione sul paesaggio avvenga tra Stato – cioè Mibac – e Regioni su tutto il territorio. Terza stesura del 2008, ministro Rutelli: il Mibac copianifica solo per le aree già vincolate (in entrambi i casi estensore del Codice è Salvatore Settis). Così si tradisce lo spirito e la lettera delle sentenze della Consulta, dal momento che le aree vincolate non sono l’intero territorio nazionale, dando oltretutto adito a infiniti contenziosi fra lo Stato e le singole Regioni, che allungano i tempi della realizzazione dei piani, come infatti è avvenuto.

Nel 2008 subentra un nuovo governo Berlusconi, e il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Sandro Bondi, si allinea allo slogan «più cemento per tutti». A più riprese invita il Mibac ad alleviare i controlli e, attraverso pressioni e nomine mirate, agisce sulle Direzioni Regionali – cui spettano le autorizzazioni. Il 28 aprile del 2010 in Parlamento di fronte alla 13° Commissione permanente spiega che alleggerirà la tutela: si arriva a nuovi regolamenti per l’autorizzazione paesaggistica, che scardinano la Legge Galasso, in maniera subdola, attraverso articoli e articoletti depositati nelle varie leggi omnibus e milleproroghe. Sono gli strumenti per smantellare la tutela, la necessaria premessa al crollo della percentuale di territorio vincolato da oltre il 50% a meno del 20%. Il tutto in un silenzio assordante rotto solo dal «Rapporto sul paesaggio» di Italia Nostra del 2010, a firma Maria Pia Guermandi e Vezio De Lucia, che parlano di «convergenza viziosa – tra Stato, Mibac, regioni ed enti locali– nella elusione amministrativa».

Con la precedente normativa di tutela smontata e depotenziata la Regione Lazio, se non sarà approvato entro febbraio il Piano, e tutto il territorio nazionale saranno esposti ai capricci della sorte: di amministratori locali, spesso incompetenti e soggetti a pressioni e lusinghe del territorio, unitamente a Direzioni regionali del Mibac che si dimostrano sempre più una semplice cinghia di trasmissione tra il potere politico nazionale e gli interessi locali. (1 – continua)

Dopo le elezioni del 2009 per il rinnovo del Presidente e del Consiglio, la Regione Sardegna ha assunto varie iniziative volte ad aggirare e attenuare le misure di tutela del paesaggio ...>>>
Dopo le elezioni del 2009 per il rinnovo del Presidente e del Consiglio, la Regione Sardegna ha assunto varie iniziative volte ad aggirare e attenuare le misure di tutela del paesaggio disposte dal piano paesaggistico regionale approvato nella legislatura precedente. Queste iniziative hanno suscitato non soltanto opposizioni politiche locali e ferme denunce sul piano culturale, ma anche controversie di fronte alla Corte costituzionale descritte nel volume Lezioni di piano[1].

Una di queste controversie si riferisce allo stagno della salina di Molentargius, in Comune di Cagliari, una zona umida che la Regione aveva costituito in parco naturale nel 1999; il piano paesaggistico del 2006 aveva rafforzato la tutela di tutte le zone umide, istituendo una fascia di rispetto di 300 metri. Il contenzioso è nato dopo che il Comune di Cagliari aveva rilasciato la concessione edilizia per la realizzazione in via Gallinara, a poche decine di metri dallo stagno di Molentargius, di un edificio di sei piani, senza curarsi del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, che pure secondo il codice dei beni culturali e del paesaggio costituisce atto distinto e presupposto della concessione edilizia.

Il tribunale amministrativo regionale ha annullato la concessione edilizia, e la sentenza è stata confermata in appello dal Consiglio di Stato[2]. Ma la Regione Sardegna, al fine di salvare l’edificio che nel frattempo era stato effettivamente realizzato, aveva approvato una legge con la quale, a sei anni di distanza dal piano paesaggistico regionale, dava mandato alla Giunta regionale di assumere una deliberazione di interpretazione autentica del piano stesso al fine di stabilire che la fascia di rispetto non si applica alle zone umide, ma solo ai laghi naturali ed agli invasi artificiali, con conseguente esclusione della predetta fascia dal regime di autorizzazione paesaggistica[3]. La disposizione aveva carattere retroattivo, poiché la legge imponeva ai Comuni e agli altri enti competenti di «adottare i necessari atti conseguenti con riferimento ai titoli abilitativi rilasciati a decorrere dal 24 maggio 2006, data di entrata in vigore del Piano paesaggistico regionale», in conformità alla delibera di interpretazione autentica.

La Corte costituzionale non si è lasciata ingannare dalla prospettazione della legge regionale, impugnata dal governo Monti. Essa ha ricordato i propri precedenti, secondo cui le leggi di interpretazione autentica con efficacia retroattiva non sono del tutto escluse ma devono trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza. La Corte ha ricordato altresì che la preminenza del diritto e il diritto a un equo processo stabilito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ostano, in linea di principio, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia. L’unica eccezione, tale da legittimare interventi retroattivi del legislatore, è costituita dalla sussistenza di “motivi imperativi di interesse generale” che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ravvisato al verificarsi di specifiche condizioni, fra le quali la sussistenza di “ragioni storiche epocali” o anche la necessità di porre rimedio a una imperfezione tecnica della legge interpretata, ristabilendo un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore, o di «riaffermare l’intento originale del Parlamento».

La norma regionale della Sardegna impugnata non è stata considerata riconducibile alle fattispecie di leggi retroattive fatte salve dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il suo effetto era quello di una riduzione dell’ambito di protezione riferita a una categoria di beni paesaggistici, le zone umide, senza che ciò fosse imposto dal necessario soddisfacimento di preminenti interessi costituzionali; e ciò, peraltro, in violazione dei limiti che la giurisprudenza costituzionale ha ravvisato alla portata retroattiva delle leggi, con particolare riferimento al rispetto delle funzioni riservate al potere giudiziario.

La Corte ha dunque dichiarato illegittima la norma impugnata, ma ha anche fatto cadere la legge regionale nella sua interezza, estendendo in via conseguenziale la pronuncia di illegittimità anche alla diposizione che imponeva ai Comuni e agli altri enti competenti di adottare, in conformità alla deliberazione di interpretazione autentica della Giunta regionale, i necessari atti conseguenti con riferimento ai titoli abilitativi edilizi rilasciati a decorrere dal 24 maggio 2006, data di adozione del Piano paesaggistico regionale. Quest’ultima disposizione era infatti strettamente e inscindibilmente connessa alla disposizione precedente, non solo perché ne confermava la portata retroattiva, ma anche in quanto ne presupponeva l’applicazione[4].

La motivazione della sentenza è ancora più persuasiva per l’ampio e felice intreccio tra i princìpi della giurisprudenza costituzionale interna e quelli della giurisprudenza sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La legge regionale è risultata in violazione dei princìpi della Costituzione italiana, ma anche e contemporaneamente di quelli del patrimonio costituzionale sovranazionale europeo. Ma la sentenza è anche di buon auspicio per la definizione degli altri contenziosi di costituzionalità in tema di paesaggio nella Regione Sardegna.



[1]V. Tre contenziosi costituzionalità,in Lezioni di piano, L’esperienzapioniera del Piano paesaggistico della Sardegna raccontata per voci, voceguida di Edoardo Salzano, Venezia, Corte del Fontego, 2013, 177 ss.
[2] Cons.St., IV, 16 aprile 2012, n. 2188.
[3]L.r. Sardegna 12 ottobre 2012, n.20, Norme di interpretazione autentica inmateria di beni paesaggistici, modificata dall’art. 2, comma 4, l.r 2agosto 2013, n. 19.
. [4]Corte cost., 17 dicembre 2013, n. 308.

L'Unità, 24 dicembre 2013

Il doping delle tesi preconcette, o precotte, più sbagliate ci è ormai entrato in vena. Domanda Fabio Fazio al ministro Massimo Bray perché al Metropolitan Museum vadano molti più visitatori che ai nostri Uffizi. Domanda che non sta in piedi, anzitutto per ragioni fisiche: il milione e 700 mila visitatori degli Uffizi, se raddoppiati o triplicati, non ci “starebbero” (in attesa del raddoppio del Museo) e però il Polo museale fiorentino - che brilla di tante stelle - ha registrato nel 2012 oltre 5 milioni di visitatori, cifra vicina a quella del Met. Che peraltro pratica il sistema del prezzo “consigliato”, cioè i visitatori danno quanto gli aggrada: circa 10 dollari a testa. Meno di quanto costa, in media, il biglietto in Italia. Agli Uffizi 15 euro, i ridotti 11,75.

Quindi, domanda mal posta. Che ne presuppone in genere un’altra (errata). Perché all’estero i grandi musei “sono macchine da soldi” e in Italia no? Una balla sonora. Allo stesso Metropolitan biglietti e altri proventi coprono soltanto ad una metà dei costi, il resto lo si colma con denaro federale, dello Stato, donazioni, ecc. Ugualmente il Louvre che, coi suoi tanto vantati 9 milioni di visitatori e con un apparato di servizi commerciali aggiuntivi da paura ha un 40-45 % di disavanzo annuale. Coperto dal denaro dei contribuenti. Gli inglesi hanno scelto nei Musei nazionali la via della gratuità e, secondo i dati del Department for Culture, i visitatori, dal 2001 al 2012, sono cresciuti del 51 %. Quando i musei impongono un biglietto per le mostre, gli ingressi calano subito. Quindi la gratuità dei musei fa aumentare l’indotto turistico. Dove noi siamo e restiamo deboli, molto deboli.

Il ministro Bray, invece di smentire, dati nazionali e internazionali alla mano, Fazio, ha preferito raccontare la sua tormentata gita ferroviaria a Pompei. E qui cade l’autoflagellazione (o la inarrestabile tendenza “tafazziana”) tipica di noi italiani: parlare soltanto di ciò che va male, e a Pompei non v’è dubbio che è andata molto male. Per l’insipienza degli archeologi? No, per tante ragioni fra le quali il commissariamento demenziale di un certo Marcello Fiori che ora Berlusconi ha eletto timoniere della rinata Forza Italia (auguri) e la sottovalutazione del rischio-camorra negli anni passati. Altra “tafazzata” per la vicenda del gigantesco corno rosso davanti alla Reggia di Caserta: perché non accennare al fatto che la splendida fabbrica, borbonica e murattiana - che ha avuto, certo, problemi seri per i Giardini - è stata splendidamente restaurata anni fa dallo Stato?

Bray è stato efficace, va detto, sui Bronzi di Riace finalmente restaurati e presto di nuovo esposti nel Museo di Reggio Calabria nonostante le pressioni per portarli in città turisticamente più appetibili, o magari all’estero, come sta succedendo al Galata morente dei Capitolini, ai 35 Raffaello mandati nel lontano Giappone o ai tanti Caravaggio fatti viaggiare su e giù in Tir. Con tutti gli stress climatici e fisici del caso. Ma soprattutto sottraendoli ai visitatori stranieri venuti apposta nei nostri musei per ammirarli. E imbufaliti.

Un’altra scemenza ormai in vena: siamo dei poveretti perché nel centro storico romano non circolano (?) le masse di turisti di Berlino, di Londra, o di Parigi. Trascurando due o tre cosucce: a) che l’Italia può offrire una dozzina di capitali dell’arte oltre a Roma (Firenze, Napoli, Venezia, Palermo, Genova, Torino, Milano, Bologna, magari Mantova e Parma, e pure Assisi e Pompei); b) che a Roma il centro storico romano, medioevale, rinascimentale, barocco, neoclassico, ecc. esiste ancora, con una fitta rete di strade, stradette, vicoli e piazzette, che - al pari della Galleria Borghese dove le visite sono ovviamente contingentate per ragioni di sicurezza e di microclima - non possono essere “gonfiate” e trasformate in un totale Divertimentificio essendovi residenti, fissi e saltuari, uffici, pubblici e privati, insomma una città - mentre a Londra (per incendi e speculazioni), a Berlino (per le bombe) e a Parigi (per il barone Haussmann) - il centro storico medievale e successivo non esiste più, se non a brandelli; c) che già la flotta di bus turistici e di quelli dei pellegrini, per ora sgovernata, sta rendendo meno vivibile, a tutti, Roma. Quanto ai dati sul turismo a Roma, ci andrei cauto: quelli ufficiali registrano forse la marea dei B&B in nero sorti di recente e il pianeta delle case religiose offerte a buon prezzo un po’ dovunque? Un’ultima cosa (trascurata dai luoghi comuni calcificati): il turismo che va per chiese, e non solo per musei, chi lo censisce? E però nel Sud le chiese conservano i due terzi circa del patrimonio. A Roma - nel tratto fra Ponte Sant’Angelo e il Pantheon, un paio di Km scarsi - incontri l’antica Zecca e palazzi vicini (Sangallo), l’Oratorio dei Filippini (Borromini), la Chiesa Nuova (2 Rubens, 2 Barocci, un Guido Reni, ecc.), San Salvatore in Lauro (Pietro da Cortona e il Cenacolo dei Piceni, arte veneta), Santa Maria della Pace (Raffaello, Peruzzi, Gentileschi, il chiostro di Bramante, Pietro da Cortona), Sant’Andrea della Valle (grandioso ciclo di Domenichino, Mattia Preti, Lanfranco, ecc.), Sant’Agnese in Agone (Borromini) e, dico niente, piazza Navona (Bernini e altri), Sant’Agostino (Raffaello e Caravaggio), San Luigi dei Francesi (Caravaggio, e che Caravaggio, e Domenichino) e altro ancora prima del Pantheon che, essendo una chiesa, non fa pagare né registra ingressi…Chi fa conoscere o “promuove” questo patrimonio? Nessuno. Santa Maria della Pace è aperta tre mattine, stentate, a settimana.

“Unità”, 24 dicembre 2013

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