loader
menu
© 2025 Eddyburg

Un lieto fine per i basalti colonnari sommersi di Grotta delle Colombe, affioranti in una parte dell’imponente falesia basaltica nota come Timpa di Acireale, che si estende sulla costa orientale della Sicilia, circa 10 km a nord di Catania.

È stato infatti accantonato il progetto ideato dal Comune di Acireale che, come era stato riportato lo scorso 11 novembre qui su Eddyburg, col presunto scopo di evitare l’erosione costiera, avrebbe sepolto queste straordinarie formazioni geologiche.

L’amministrazione comunale di Acireale ha infatti riconosciuto l’enorme danno ambientale che sarebbe derivato dalla realizzazione dell’opera e si è attivata per promuovere, con le somme per essa previste, un intervento alternativo. Così l’impegno di Legambiente che, anche mediante il ricorso all’autorità giudiziaria e il sostegno di autorevoli studiosi, di amanti del mare e dei pescatori locali, si era posta l’obiettivo di evitare che quell’assurdo progetto si concretizzasse è stato alla fine premiato.

Questa assai travagliata vicenda, conclusasi, a differenza di tante altre, positivamente, consente di trarre alcune conclusioni e può fornire nuovi stimoli.

È sconfortante che in un periodo di crisi economica e in una regione come la Sicilia, nella quale, per vari motivi, sarebbe oltremodo opportuno realizzare progetti di risanamento ambientale, si seguiti invece a concepire opere inutili, mettendo a rischio beni di straordinario interesse scientifico. Nel caso di Grotta delle Colombe, formazioni geologiche rare nel bacino del Mediterraneo, soprattutto in ambiente sottomarino.

Quanto è avvenuto in questa parte della Sicilia dimostra però che non bisogna rassegnarsi all’idea che distruzione ambientale e spreco di pubblico denaro siano processi ineluttabili. Occorre anzi ripetere che alle illogiche consuetudini di consumo irreversibile del territorio e delle risorse naturali si possono e si devono contrapporre le ragioni della conservazione. Questa inversione di tendenza, in prospettiva, si rivela conveniente anche in termini economici, in quanto nel primo caso i benefici avvengono una sola volta e solo a vantaggio dei realizzatori dell’opera, mentre nel secondo diventano permanenti e diffusi, soprattutto a favore delle popolazioni locali.

Convinti di ciò non ci si è voluti limitare alla semplice gratificazione di aver impedito uno scempio ambientale è si è deciso di impegnarsi, in collaborazione con l’Università degli Studi di Catania, per pervenire alla rapida istituzione di un geosito nell’area in cui affiorano, sia a livello subaereo, sia a livello subacqueo, i basalti colonnari di Grotta delle Colombe.

L’istituzione del geosito consentirà di tutelare quest’area e di promuovere la conoscenza sia dei suoi aspetti geologici, sia di quelli culturali e naturalistici. Tale processo accrescerà la consapevolezza dell’importanza di questo luogo tra coloro che già lo conoscono e soprattutto genererà un nuovo, e qualificato, turismo. A trarne benefici saranno la popolazione locale e, in particolare, i pescatori di Santa Maria La Scala, giacché la visita dei luoghi, essendo le falesie, per le loro morfologie, difficilmente accessibili da terra, si presta ad essere effettuata via mare e quindi con l’inevitabile coinvolgimento dei pescatori stessi.

La difesa dei basalti colonnari di Grotta delle Colombe è servita, infine, a evidenziare, anche grazie al ripetuto intervento dei mezzi di informazione, l’elevata importanza di queste formazioni geologiche, che in Sicilia sono state, invece, a torto, ritenute finora di scarso interesse ai fini della conservazione.

È paradossale, infatti, che in questa regione, nella quale si registra la più elevata presenza di basalti colonnari del Mediterraneo, non si sia ritenuto di prevedere adeguate forme di protezione per la maggior parte di essi, omettendo persino di inserirli all’interno di aree protette anche quando le stesse si trovino a breve distanza dai siti (come nel caso dei basalti colonnari del fiume Simeto, il più grande della Sicilia, di contrada Barrili, privi di qualunque forma di protezione e pertanto non inseriti né nella vicina riserva naturale “Forre laviche del Simeto”, né nel contiguo Sito di Interesse Comunitario ITA070026 “Forre laviche del Simeto”). C’è dunque la speranza che quanto avvenuto per Grotta delle Colombe inneschi in Sicilia un processo che conduca finalmente alla tutela delle più importanti aree in cui affiorano questi particolari prodotti vulcanici.

Il capolavoro del nuovo regolamento urbanistico sta nell'aver accontentato tutti i portatori 'interesse (speculativo) spogliando al tempo stesso la pianificazione d'ogni senso pianificatorio. La città invisibile, 4 marzo 2015

L’approvazione del regolamento urbanistico di Firenze si approssima. Lo zelo con cui è stato redatto è strumentale – ma non ci meravigliamo – ad appetiti minori distribuiti qua e là sul territorio comunale. Il capolavoro consiste però nell’averlo spogliato di senso pianificatorio.

Da una parte, il sindaco arrampicatore aveva fatto partire nel 2011, in variante con piroetta, le grandi aree industriali dismesse sulle quali avrebbe dovuto concentrarsi il disegno condiviso della città futura (Manifattura tabacchi etc.). Dall’altra, i nodi cruciali del piano vengono semplicemente elusi: nessuna vincolante destinazione d’uso, nessun disegno organico per i grandi contenitori, tutti, o quasi, in vendita. Anzi, il sindaco in sedicesimo si arrabatta per trovare acquirenti dal potere taumaturgico. Ma, è bene ricordarlo, per ora solo la Cassa Depositi e Prestiti, società per azioni private con soldi pubblici – sai che bravura – ha comprato al banco della Renzi-Nardella, con puntualità svizzera a trarre in salvo i bilanci comunali.

Che poi il regolamento sia a indici edificatori zero sulle aree rurali (le poche rimaste…) è merito della legge urbanistica regionale di nuovo varo, la 65/2014 che impedisce ogni ulteriore impegno di suolo fuori dalle aree urbanizzate. Dentro alle aree urbanizzate invece gli indici salgono: una coriandolata di concessioni, di edifici che volano e atterrano (i posteri potranno giudicare che risultati darà poi questa norma cervellotica), di premialità fino al 30% sul volume, di parcheggi interrati e a raso, di impianti sportivi.

Avremmo voluto vedere invece un piano a indici edificatori negativi, che annullava vecchie concessioni (area Castello) o nuove inutili edificazioni in luogo di volumi dismessi: chi mai ha sancito che una volumetria concessa a fini produttivo-sociali (fabbriche, opifici etc.) debba trasformarsi automaticamente in appartamenti o in supermercati? Dove sta scritto che, nell’interesse comune, il Panificio militare ad esempio debba mutarsi in centro commerciale anziché in giardino pubblico?

Ma l’interesse comune viene dopo quello particolare: è questo il senso precipuo dell’approvando regolamento, utile forse alla sola normale amministrazione. Per i grossi appetiti le regole evidentemente stanno altrove.

Ilaria Agostini, urbanista, è attivista del laboratorio politico perUnaltracittà

- See more at: http://www.perunaltracitta.org/2015/03/04/firenze-il-regolamento-urbanistico-elusivo/#sthash.cfxe488q.dpuf

«Un'altra città. Nella Capitale vanno valorizzate tutte quelle realtà che lottano per i beni comuni. E creare con esse una nuova cultura del cambiamento». Il manifesto, 5 marzo 2015

I con­te­nuti dell’articolo di San­dro Medici sul pro­gres­sivo degrado cul­tu­rale della città (Il Sin­daco Marino e l’obitorio cul­tu­rale della Capi­tale, il mani­fe­sto del 28 feb­braio) tro­vano ogget­ti­va­mente riscon­tro nell’osservazione quo­ti­diana di tanti cit­ta­dini, gior­na­li­sti, turi­sti che pro­vano la sen­sa­zione che i noti pro­blemi che già cono­sciamo e viviamo anzi­ché risol­versi spro­fon­dano sem­pre più in una con­di­zione di cro­nica e «tran­quilla normalità».

Roma, a parte la sua bel­lezza, è città invi­vi­bile; per il traf­fico, per lo stato delle sue strade, per la spor­ci­zia, l’incuria del suo patri­mo­nio, l’abbandono delle sue peri­fe­rie, l’assenza di una poli­tica orga­niz­zata dell’accoglienza. E’ quanto si sente dire da amici e cono­scenti: «vor­rei andare a vivere in un’altra città». Restano, a far invi­dia a que­ste altre città, il clima mite, il bel cielo azzurro e la bel­lezza (que­sta un po’ deca­duta per la verità), ovvero tutti que­gli ele­menti che abbiamo ere­di­tato o dalla natura o dalla gran­dezza della sto­ria. Per il resto nes­suna ammi­ni­stra­zione rie­sce più nem­meno a man­te­nere in salute que­sti beni pre­ziosi; di valo­riz­zarli nem­meno se ne parla. Manca un pro­getto com­ples­sivo della città (quello dei Fori non può essere l’unico), una visione siste­mica dei pro­blemi, una pas­sione dei gover­nanti che sap­pia saper fare un salto di qua­lità a que­sta son­no­lenta e pigra (e spesso inef­fi­ciente) gestione del quo­ti­diano; serve ria­prire la porta del futuro rispetto al quale cana­liz­zare le risorse, gli sforzi e le spe­ranze deluse dei cit­ta­dini che hanno giu­sta­mente scom­messo sulla nuova amministrazione.

Una Capi­tale non può limi­tarsi a soprav­vi­vere sulla ren­dita dei gio­ielli della nonna: Roma vive in una con­di­zione di perenne sovrae­spo­si­zione delle pro­prie con­di­zioni (Roma è una bugia è il titolo di un bel libro di Filippo La Porta), come quel tale pieno di debiti e di toppe che gira su una lus­suosa auto tanta da farlo rite­nere ad una vista non rav­vi­ci­nata, un ricco signore bene­stante. Essa deve rin­no­varsi a par­tire, certo, dalla pro­pria tra­di­zione ma per incon­trare un futuro pos­si­bile che non siano le vec­chie rispo­ste come quella di una città car­to­lina, di una grande sce­no­gra­fia da aggiun­gersi ad altre nelle guide del tou­ring. Per­ché suc­cede sem­pre che ogni Sin­daco che si alterna alla guida di que­sta città mette nel pro­prio pro­gramma elet­to­rale una qual­che grande opera che dovrebbe inver­tire il suo deca­dente destino. Opera e opere che poi si vanno ad aggiun­gere a quelle (pro­messe) dal suo pre­de­ces­sore fino a for­mare quel cimi­tero incom­piuto, fatto con lo sta­dio del nuoto a Tor Ver­gata, le torri all’Eur, l’interminabile nuvola di Fuk­sas, l’improbabile nuova sta­zione Tibur­tina, il fan­ta­sma della metro C che si nota solo per i cra­teri a cielo aperto che emer­gono sulle strade della capi­tale, for­mando alla fine quasi una seconda città di rovine. Vie sem­plici ed indo­lori per il cam­bia­mento non esi­stono, ma le dif­fi­coltà si pos­sono affron­tare a par­tire da quello che già c’è senza farsi ten­tare da sen­sa­zio­na­li­smi o da mira­co­lose ricette di mar­ke­ting (Rome& you ci ha declas­sato al ruolo di Las Vegas). E quello che già c’è è abba­stanza a Roma per avviare una cul­tura forte del cambiamento.

Ci sono cen­ti­naia di espe­rienze in corso di gruppi, asso­cia­zioni libere di cit­ta­dini, orga­niz­za­zioni di quar­tiere, ini­zia­tive cul­tu­rali, di nuove eco­no­mie, di recu­pero di orti urbani, di spe­ri­men­ta­zioni di forme di auto­con­sumo e di pro­getti (tra cui quello dei Fori), come non se ne vedono facil­mente in altre città d’Italia e del mondo. Baste­rebbe allora, anzi­ché vani­fi­carle, per indo­lenza, pigri­zia o negli­genza — o addi­rit­tura repri­merle -, valo­riz­zarle, inse­rirle in un pro­getto cul­tu­rale e poli­tico che ne mol­ti­pli­chi la vir­tuo­sità; inco­rag­giarle allar­gando il loro campo di azione e di con­senso e pro­du­cendo via via comu­nità attive ed ope­rose di cit­ta­dini come rispo­sta anche alla cre­scente fram­men­ta­zione sociale e alla man­canza di risorse eco­no­mi­che, oltre­ché alla tie­pida par­te­ci­pa­zione alla cosa pub­blica. Si può fare? Si può avviare una cul­tura e una pra­tica del cam­bia­mento? Per farlo è neces­sa­rio abban­do­nare le vec­chie rispo­ste della moder­niz­za­zione a tutti i costi, dell’innovazione con­ti­nua, della pra­tica sciocca dell’imitazione, della facile pro­pa­ganda, del pun­tare a un’opera sal­vi­fica, per cer­care invece rispo­ste nuove a par­tire da quella della cre­scente disu­gua­glianza urbana che vede i cit­ta­dini clas­si­fi­cati in gironi, gli uni con­trap­po­sti agli altri, gli uni nemici degli altri, come fos­simo in una guerra con­ti­nua a difen­dere invi­si­bili trin­cee den­tro la stessa città. Così come va inter­rotta quella nar­ra­zione che ci parla di una città disin­can­tata e indif­fe­rente; nar­ra­zione che in realtà costi­tui­sce il sup­porto ideo­lo­gico per legit­ti­mare pra­ti­che e poli­ti­che deci­sio­ni­ste e autoritarie.

Per bat­tere la fran­tu­ma­zione degli inte­ressi diver­genti che com­pon­gono la ragna­tela dei con­flitti urbani a bassa inten­sità (si pensi ai recenti epi­sodi di Tor Sapienza, ai Rom, ai senza casa) e quella delle cate­go­rie sociali oppresse da una soli­tu­dine che si fa sem­pre più indi­vi­duale, serve un pro­getto cul­tu­rale forte che costrui­sca una nuova “coa­li­zione sociale” fatta di tutte quelle figure e sog­get­ti­vità disperse e fran­tu­mate che vanno dai pre­cari a vario titolo, ai disoc­cu­pati, alle asso­cia­zioni che lot­tano per il diritto alla città e per i beni comuni, alle asso­cia­zioni sin­da­cali, agli stu­denti e a chi il lavoro nem­meno più lo cerca. Un pro­getto che resti­tui­sca lo sta­tus di cit­ta­dini legit­timi a chi, nei fatti, non lo è già più. Un pro­getto di nuovo wel­fare urbano basato sulla soli­da­rietà e la reci­pro­cità tra chi gode ancora delle con­qui­ste del vec­chio wel­fare e chi, nei fatti, ne rimane ormai escluso. Non è facile, tan­to­meno auto­ma­tico fare que­sto, ma è quanto ci si aspetta dal Sin­daco Marino e la sua Giunta: molti romani già lo fanno spon­ta­nea­mente e aspet­tano, per ora ancora fidu­ciosi, segnali di incoraggiamento.

Rifondazione comunista al compromesso che Enrico Rossi sta tentando trovare tra il PD toscano, fervido alleato dei proprietari delle miniere passate, presenti e potenziali delle Alpi apuane e i difensori della tutela dei beni comuni e delle prospettive d'un futuro migliore per tutti. Comunicato stampa del 3 marzo 2015

Firenze, 3 marzo. Gli emendamenti presentati da Pd e FI, e a quanto ci pare di capire ripresi sostanzialmente nel cosiddetto Lodo Rossi, stravolgono il piano del paesaggio toscano, lo svuotano nei punti qualificanti e aprono di fatto a una liberalizzazione delle attività estrattive sulle Alpi Apuane.

Oggi più che in millenni di storia si aprono prospettive funeste per tutte le Apuane e il paesaggio toscano. Il nostro impegno principale sarà dunque quello provare ad di azzerare gli emendamenti e con lo stesso spirito parteciperemo convintamente al presidio organizzato sabato prossimo a Firenze a difesa del piano paesaggistico e del paesaggio toscano.

Così Monica Sgherri – esponente di Rifondazione Comunista e capogruppo in Consiglio Regionale. Il divieto – prosegue Sgherri - di nuove estrazioni al di sopra dei 1200 metri di fatto non sarà altro che un mero paravento, una foglia di fico con cui farsi belli a livello nazionale senza però intaccare gli interessi locali che stanno dietro alle attività estrattive.

Infatti il combinato disposto che salva tutte le cave esistenti e quelle dismesse (cancellando il limite temporale -"da non oltre 20 anni"-) liberalizza di fatto l'attività estrattiva sopra i 1200 metri. E sia chiaro non è certo in nome della salvaguardia dei posti di lavoro perché le cave dismesse non occupano un lavoratore!

E' una rendita di posizione inventata e offerta su un piatto d'argento ai proprietari delle cave in nome del "profitto", e aggiungo del profitto “parassitario”. Una rendita di posizione che fa diventare oro una cava dismessa da decenni proprio perché è sopra i 1200 metri.

A questo inoltre si aggiungerà - per baypassare la norma che dal 2020 impone di vincolare il 50% del marmo estratto alla sua lavorazione in loco (unica norma che tutela la risorsa e il lavoro qualificato) -, la possibilità di aumentare del 30% l’attività estrattiva rispetto a quella autorizzata.

Gli emendamenti posti in essere allentano anche le prescrizioni per le cave situate nei parchi e le riserve nazionali e regionali, anche se riguardano vette e crinali. Per concludere, un ultimo appunto sulla filosofia degli emendamenti presentati.

Non contenti della differenza tra prescrizioni e direttive, tra obiettivi generali, di qualità o specifici, si vorrebbe ridurre a niente il valore conoscitivo delle schede di ambito al fine dei raggiungimento degli obiettivi e per questo un emendamento proporrebbe un piccolo comma aggiuntivo che recita “le criticità contenute nelle schede di ambito costituiscono valutazioni scientifiche non vincolanti a cui gli enti territoriali non sono tenuti a fare riferimento nell’elaborazione degli strumenti di pianificazione territorio e urbanistica”.

Questo comma è esemplificativo della filosofia a cui si ispirano gli emendamenti presentati, potremmo dire che si tratta di una farsa ma in effetti è più propriamente una tragedia, perché si mira a ridurre e vanificare il piano del paesaggio.

dei distruttori della città, in Laguna ci sono già abbastanza guai. La Repubblica online, blog "Articolo 9", 5 marzo 2015

La gigantesca migrazione incrociata dei soprintendenti italiani, che è in corso in queste ore, assomiglia più ad un massacro delle competenze che non ad un vero rinnovamento. La Uil parla di «palesi scorrettezze e arbitri»: e se forse è presto per dare un giudizio complessivo, colpiscono (negativamente) scelte come quella di rimuovere da Napoli Giorgio Cozzolino (colpevole forse di essersi opposto alla commercializzazione delle piazze di Napoli), e più in generale di gettare al vento comprovate esperienze virtuose.

Ma la scelta più incomprensibile appare quella di affidare la Soprintendenza più importante d'Italia – quella di Roma – a Renata Codello, fino a ieri soprintendente ai monumenti di Venezia.

Con questa decisione il Ministero sembra aver voluto «onorare e riconoscere ai livelli più alti» – come ha subito notato, elegantemente, l'interessata – il lavoro veneziano della Codello.

Un lavoro, in questi anni, al centro di pesantissime e fondatissime critiche da parte dell'opinione pubblica veneziana, delle associazioni di tutela, del migliore giornalismo italiano: che hanno rimproverato alla Codello nientemeno che i «silenzi sul raddoppio dell’hotel Santa Chiara (vetro, cemento e acciaio: sul Canal Grande) e sulle immense navi da crociera che sfilano davanti a San Marco». Italia Nostra ha messo in file le prove della Soprintendente Codello: la «distruttiva lottizzazione di Ca’ Roman», lo «scandaloso progetto di “restauro” del Fontego dei Tedeschi», il raddoppio del Santa Chiara, «i progetti al Lido che hanno ridotto l’isola a spettro di se stessa».

Per tutta risposta, la Codello ha querelato Italia Nostra e Gian Antonio Stella. Scelta che non certifica esattamente un attitudine ad un aperto e franco confronto con i cittadini.

Ma non basta, e qua lascio la parola allo stesso Stella: «Per dar battaglia in tribunale la Codello ha scelto l’avv. Adriano Vanzetti di Milano. Cioè il legale del Consorzio Venezia Nuova nella causa (persa) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di aver criticato il costosissimo progetto del Mose, sempre contestato dagli ambientalisti. ... Ora, fermo restando il diritto di ciascuno di scegliersi l’avvocato che vuole, è opportuno che chi è delegato a tutelare Venezia scelga contro Italia Nostra proprio un legale di fiducia di quel Consorzio tanto contestato dagli ambientalisti? Lecito è lecito, ovvio. Ma opportuno? Di più: sapete chi firmò nel 2012 il ricorso di «Terminal Passeggeri» contro il decreto («penalizzante») del ministro dell’Ambiente sui rifiuti dei traghetti e delle navi da crociera? L’avvocato Francesco Curato. Marito della soprintendente che rivendica il diritto di non esprimersi su quelle navi perché, alla romana, 'nun je spetta'».

Insomma, proprio ciò di cui ha bisogno la già provatissima Capitale. E uno si chiede: ma il ministro Dario Franceschini, il Segretario Generale del Ministero e il Direttore delle Belle arti lo leggono il «Corriere della sera»? La scelta di premiare la Codello con la Soprintendenza di Roma sembra così incredibilmente inopportuna da far quasi pensare che lo leggano eccome, e che l'abbiano fatto apposta. Il Presidente del Consiglio ha scritto - come è noto - che «sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia». Si sa, Matteo Renzi non ama che i fatti lo contraddicano: ed eccolo accontentato.

La capitale globale della finanza e della speculazione immobiliare che le è tanto organica, dovrebbe suonare un campanello d'allarme, sul crescere di una certa idea di città, ma l'informazione forse non lo coglie. La Repubblica, 5 marzo 2015, postilla (f.b.)

Date un’occhiata all’orizzonte, la prossima volta che vi trovate sul Tamigi: vedrete una foresta di alberi meccanici. Non è un’illusione ottica: la riva meridionale del fiume somiglia a un gigantesco cantiere. Sono già stati approvati piani per costruirci, nei prossimi dieci anni, duecentocinquanta grattacieli o perlomeno edifici di oltre venti piani l’uno. Un’esagerazione, dirà chi ama la Londra di casette vittoriane; ma intanto l’industria edilizia festeggia e ci sono all’opera più gru qui che in tutto il Regno Unito. Un’altra esagerazione. Ma è questa, ormai, la misura standard della capitale britannica. Sotto qualunque aspetto la si esamini, la città all’ombra (si fa per dire) del Big Ben sommerge il resto della nazione che le sta intorno. E pure, a spingere lo sguardo più in là, il resto d’Europa. E forse, a ben rifletterci, il resto del mondo. Nemmeno New York, scrive questa settimana il Financial Times, rappresenta la globalizzazione quanto Londra. In America, comunque, esistono altre grandi città: Los Angeles, Chicago. Il gigantismo di Londra divora e fa scomparire tutti.

Nei giorni scorsi ha raggiunto il suo record storico di popolazione: 8 milioni e 615 mila abitanti. Quarant’anni fa erano 6 milioni e mezzo. Tra dieci anni si stima che saranno ancora di più: 10 milioni (e sono già 12 milioni adesso, in effetti, contando gli sterminati sobborghi). Ancora più significativa del totale, tuttavia, è la composizione della popolazione: il 40 per cento degli abitanti sono nati all’estero, percentuale destinata a diventare maggioranza entro un decennio. Nelle sue strade si parlano 300 lingue. Ci sono almeno 50 comunità etniche di 50 mila o più persone: come dire 50 piccole città straniere racchiuse in una sola. L’etnia più numerosa? I polacchi. Noi italiani siamo al sesto posto.

Lo strapotere di Londra ha ucciso le altre città del regno. La seconda maggiore è Birmingham, 1 milione di abitanti: alzi la mano chi l’ha visitata. Manchester e Liverpool non decollano. Edimburgo vive del festival estivo e comunque ambisce a diventare capitale di uno stato indipendente – la Scozia. A proposito: il valore di tutti gli immobili di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, le tre regioni autonome del Regno Unito, è pari ai dieci quartieri più posh di Londra (che di quartieri, in tutto, ne ha 88). Il valore medio di una casa, nel resto del paese, è 220 mila sterline (270 mila euro). A Londra è più del doppio, mezzo milione di sterline. Nelle zone più chic come Chelsea e South Kensington è due milioni. Il boom del mattone è finanziato dai ricchi: tutti quelli della terra vogliono un pied-a-terre da queste parti e proprio ieri l’Independent ha rivelato un giro di paradisi fiscali e riciclaggio di denaro dietro gli investimenti immobiliari. Ma a Londra circolano più soldi anche per gli altri. Il reddito medio britannico è 25 mila sterline, quello di Londra 50 mila. Se Londra fosse una nazione, negli ultimi quattro anni il suo pil sarebbe cresciuto del 12 per cento, più del doppio di quello britannico.

E’ anche una città di forti diseguaglianze, con sacche di profonda miseria e costi proibitivi: in questi giorni una campagna di poster denuncia il caro- vita con lo slogan «sono costretto ad andarmene». E’ pure più violenta dell’immagine che se ne fanno i turisti a spasso per il centro: nel 2014 ci sono stati 93 omicidi (ma nel 2001 erano 200), le gang giovanili fanno stragi di adolescenti, l’ultimo un 15enne ucciso da una coltellata a Islington, quartiere alla moda dove un tempo viveva Tony Blair, per rubargli la bici. Eppure frotte di immigrati ci sbarcano da tutto il mondo, attirati come da una calamita che offre di più: più opportunità, più cultura, più tutto. Un columnist propone che diventi una città-nazione, suggerendo come confine l’M25, la circonvallazione che le gira intorno: lunga 275 chilometri, per avere un’idea delle dimensioni. Londra potrebbe perfino avere il proprio campionato di calcio e sarebbe di ottimo livello: ha 6 squadre di Premier League e altrettante in B. Due sono agli ottavi di Champions: più di quante ne ha l’Italia.

postilla
Come ci racconta localmente, ad esempio, il blog del cronista Dave Hill sul
Guardian, presumibilmente ignorato dal corrispondente italiano, questi due mondi delle scintillanti torri di Central London e delle diseguaglianze sociali e urbane, non sono solo due facce di una medaglia, ma hanno un vero e proprio rapporto di causa ed effetto: da un lato la consegna nelle mani delle finanziarie internazionali di quella enorme fetta di metropoli in via di trasformazione e speculazione, dall'altro la conseguente espulsione (a volte ai limiti della violenza) di tutto ciò che le è incompatibile, vale a dire le fasce di reddito basse, medie, a volte anche medio-alte. Così l'emergenza casa, nella mente un po' perversa dei Conservatori più liberisti, si traduce anche in emergenza all'italiana, da sfruttare a proprio piacimento per allentare i vincoli ambientali della greenbelt. Ovvero allarghiamo l'area metropolitana in quanto area costruita (più o meno come succede a Milano con le Tangenziali esterne del centrodestra) per dare nuove case agli espulsi dal centro. Mentre il sindaco Boris Johnson, grande sponsor di queste forme di investimento finanziario colonizzatore e micidiale, si fa bello per la sua idea di “mobilità sostenibile”, con un po' di biciclette e le piste sospese che piacciono tanto a certi disattenti ambientalisti di maniera. Con la devolution delle maggiori autonomie, richiesta per questa specie di città-stato moderna, il ciclo si chiuderebbe: speriamo in un rivolgimento delle maggioranze politiche, locali e nazionali (f.b.)

Molti misteri, ma soprattutto molti affari immobiliari e infinito cemento dietro la verniciatura green del giovane archistar. Altreconomia.info, febbraio 2015

Sono alte 80 e 112 metri le torri che compongono il "Bosco verticale" di Milano, e che due classi di un asilo sono venute ad ammirare in gita in via de Castilla, nel quartiere Isola, a due passi dalla stazione Fs Garibaldi. Dopo le fotografie, i bambini ascoltano la spiegazione dell’insegnante: “Noi il bosco lo abbiamo così” dice lei muovendo il braccio in orizzontale, “loro invece ce l’hanno così” aggiunge, e con la mano traccia una linea su fino all’ultimo piano del grattacielo più alto. Il “Bosco” è un marchio, rafforzato dal riconoscimento di “grattacielo più innovativo del mondo” -l’International Highrise Award- ricevuto nel novembre 2014 e promosso dalla città di Francoforte, dal Museo d’architettura tedesco (DAM) e dalla branca immobiliare della compagnia d’investimento DekaBank. Alla notizia del premio anche l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, volle unirsi alle celebrazioni del “Bosco” -progettato dallo studio di architettura di Stefano Boeri e sviluppato dalla succursale italiana del colosso immobiliare texano Hines, proprietario dell’intero complesso di residenze e uffici chiamato “Porta Nuova”, come la zona in cui ricade- esprimendo in una nota il suo “vivo compiacimento”.

All’epoca, però, nessuno ha evidenziato il nesso (del tutto legittimo) che legava il finanziatore del titolo -DekaBank- all’operatore immobiliare insignito -Hines, nella persona del suo amministratore delegato Manfredi Catella- e che prende il nome di Coima Srl. Fondata nel 1974 dalla famiglia Catella e presieduta dallo stesso Manfredi, Coima -oltre ad essersi occupata dell’arredo interno degli appartamenti del “Bosco”- è da sempre “specializzata nelle attività di gestione di patrimoni istituzionali e di co-investimento in operazioni immobiliari nel settore terziario e residenziale” per oltre 4 milioni di metri quadrati.

Compresi -come riporta la società sul proprio sito (www.coima.it)- quelli del “cliente” Deka Immobilien Investment (del gruppo DekaBank). Né Hines né Catella hanno voluto rispondere alle domande di Altreconomia, né hanno accettato di mostrare il piano economico e finanziario dell’operazione -irraggiungibile anche attraverso il Comune di Milano- e dei dati di vendita dello stock di uffici (217mila metri quadrati di superficie), residenze (68mila) e spazi commerciali (20mila) distribuiti tra l’area Garibaldi e quelle delle ex Varesine e dell’Isola. Dall’ufficio stampa si limitano a dar conto di un mero dato cumulativo sulle sole torri del “Bosco”, “vendute per oltre il 60%”.

Sono solo alcuni dettagli della rinnovata rincorsa urbana (e mediatica) al “modello verticale”, anche nel nostro Paese. Salvatore Settis, nel libro “Se Venezia muore” (Einaudi, 2014), l’ha misurata nel paragrafo intitolato “La retorica dei grattacieli”: sono 28 gli edifici di grande altezza ultimati tra il 2000 e il 2014 in Italia, poco meno dei 30 realizzati tra il 1932 (il primo è il Torrione Ina del Piacentini a Brescia, 57 metri) e l’inizio del nuovo millennio. “La tendenza a crescere in altezza è datata -ragiona Antonello Boatti, che insegna Urbanistica al Politecnico di Milano-. Poteva ritenersi un’avanguardia ai tempi di Chicago, nei primi del 1900, per tecnologia e tecnica costruttiva. Ma oggi non è che una contorsione estetica di un modello vecchio”.

Chi, ogni anno, conta i grattacieli è il “Council on Tall Buildings and Urban Habitat” di Chicago (www.ctbuh.org). Il 2014 ha battuto ogni record, con 97 edifici oltre i 200 metri d’altezza ultimati, il 60% dei quali solo in Cina (58), seguita dalle Filippine (4) e dal Qatar (4). L’Europa si è “fermata” a 3. Ed è questa nuova geografia dell’altezza a contraddistinguere quella che Settis definisce una pretesa “modernità d’accatto”. “È molto interessante notare come la rinascita e il rilancio del grattacielo non avvenga negli Stati Uniti, dove la forma è nata più di cento anni fa, -spiega Settis- ma in Cina e negli Emirati del Golfo Persico. Cioè in Paesi senza democrazia”.

Stefano Boeri, che abbiamo intervistato al 22esimo piano della torre più alta del “Bosco” affacciato sul “Parco di Porta Nuova” tutt’ora in costruzione e sul palazzo Unicredit di Cesar Pelli (217 metri), è convinto del contrario. Per lui, costruire in altezza è una sfida ineludibile: “Nei prossimi anni noi non ‘potremo’, ‘dovremo’ pensare a città che crescono in altezza, anche perché il tasso di consumo di suolo ha raggiunto livelli insopportabili”. L’appartamento (ancora vuoto) in cui stiamo videoregistrando, però, è sul mercato per un valore di 14mila euro al metro quadrato. Il prezzo medio dei locali in vendita nelle due torri è di 9mila euro. In una città che, stando alla ricerca “L’offerta e il fabbisogno di abitazioni al 2018 nella regione Lombardia” curata nel 2013 dal Dipartimento di architettura e pianificazione (Diap) del Politecnico di Milano, sarà chiamata tra tre anni ad affrontare un fabbisogno abitativo di sola edilizia pubblica residenziale “pura” (non convenzionata) pari a 238mila alloggi (vedi Ae 150). Servono case popolari, insomma, ma la “risposta” del modello verticale milanese ha assunto la forma di 10 alloggi di edilizia “convenzionata” compresi nel programma integrato d’intervento di via Confalonieri, dietro al “Bosco”. Una soluzione che non è accessibile a tutti: “In data 17 dicembre 2013 -si legge infatti nel bando redatto da Hines- il Comune di Milano [...] ha approvato il piano finanziario finale fissando in 3.123,48 euro per metro quadrato il prezzo definitivo medio di prima cessione”.

L’equazione “grattacielo-tutela del suolo” lascia perplesso Paolo Pileri, professore di Pianificazione territoriale ambientale del Politecnico di Milano: “In questo momento le proposte di densificazione non sono ancora in grado di ‘spegnere’ i consumi di suolo che avvengono sui margini dei contesti urbani. Come Dipartimento -prosegue Pileri- ci siamo occupati di 15 Comuni della Brianza, e di parte dell’area metropoliana, accorgendoci che le aree edificabili previste nei piani di governo del territorio, che dipendono dalle previsioni insediative, sono completamente assorbibili già dalle cubature, dai volumi e dalle case che oggi sono sul mercato. La questione centrale quindi è la rigenerazione della città esistente, senza alcuna previsione di nuova volumetria, che andrebbe altrimenti a bloccare quel capitale già immobilizzato”.

Come fosse un derby dell’altezza, allo sviluppo milanese ha risposto anche Torino. Il 20 gennaio 2015 è stato infatti inaugurato il grattacielo di proprietà di Intesa Sanpaolo -che così ha risposto iconicamente a Unicredit-, progettato da Renzo Piano, costato 500 milioni di euro, sorto su un’area che fu delle Ferrovie dello Stato e alto 167,3 metri, poco meno della Mole Antonelliana. Chiamato, in teoria, ad accogliere gli uffici direzionali dell’istituto, l’edificio di Piano “ha interrotto il rapporto visuale e simbolico tra la città e le montagne -è l’opinione di Guido Montanari, che insegna Storia dell’architettura al Politecnico di Torino ed è stato tra le anime del comitato civico No Grat che dal 2005 ha contestato l’operazione immobiliare-. Il grattacielo non è un’innovazione tecnologica, specie se confrontato con la Mole, che è la più alta costruzione in laterizio mai fatta al mondo, sulla quale è andato a incidere”. Convinta del contrario, Intesa Sanpaolo ha deciso di “condividere” il patrimonio scientifico messo da parte in materia di edifici alti, finanziando per l’anno accademico 2013-2014 un master di secondo livello in “Progettazione e costruzione di edifici di grande altezza” del Politecnico di Torino. Il noto architetto Vittorio Gregotti, che nel 1995 disegnò il piano regolatore di Torino, sorride all’ipotesi di un conflitto d’interessi: “Intesa, avendolo commesso, ha interesse a far sì che il ‘peccato’ non diventi più tale ma una condizione condivisa”. Nel comitato scientifico del corso, oltre al “padre” del grattacielo Renzo Piano, sedeva anche il professor Andrea Rolando, del Dipartimento di architettura e studi urbani del Politecnico di Milano, che difende l’iniziativa didattica di Intesa: “La banca attraverso il master ha sicuramente raggiunto un obiettivo in termini di creazione di consenso -riconosce Rolando-, ma l’ha fatto perché fosse un’occasione per alcuni giovani per capire come questo edificio era realizzato e per far sì che venisse disseminata questa conoscenza, divenendo patrimonio di un’istituzione come il Politecnico”. Al centro direzionale di Intesa si affiancherà il nuovo palazzo della Regione Piemonte, ben più alto della Mole (209 metri) e progettato dall’architetto Massimiliano Fuksas.

A Venezia sembra del tutto tramontata l’ipotesi del grattacielo dello stilista Pierre Cardin (Palais Lumiére), che avrebbe dovuto puntare i piedi del suo robusto corpo alto 250 metri nell’area ex industriale di Marghera.

Il viaggio del “modello verticale” riporta a Milano, nello studio dell’architetto Jacopo Muzio, nei pressi dell’Arco della pace. Da una finestra si intravvede la Torre di proprietà di Allianz (207 metri), bandiera dell’operazione immobiliare “City-Life”, a Nord-ovest della città. Dovrebbe chiamarsi “il dritto” ma qui è amichevolmente detta il “materasso”.

“Il modello economico del grattacielo - ragiona Muzio - è quello del maggior sfruttamento possibile dell’area a disposizione, e cioè la massimizzazione del profitto. I prezzi al metro quadro, inoltre, creano il cosidettto fenomeno di ‘gentrificazione’, che avviene quando, mettendo sul mercato appartamenti che hanno una soglia accessibile solamente dal 5% della popolazione cittadina, si fa in modo che tutti gli altri siano portati a cercare casa altrove”. Il contrario del modello di città “come spazio di dialogo e non come fulcro gerarchizzato” che ha in mente Salvatore Settis.

Accanto a uno dei computer nello studio di Muzio c’è una fotografia incorniciata. Ritrae la “resistente” casa verde di via Bellani, rimasta alla base del nuovo palazzo della Regione Lombardia (161,3 metri), sorto su un vero bosco, posto accanto a via Melchiorre Gioia. I raggi del sole riflessi dalle vetrate a doppia pelle del grattacielo voluto fortemente dall’ex governatore Roberto Formigoni ne surriscaldavano le pareti, portando a fusione le tapparelle. Era arrivata la modernità.

Gli emendamenti contro il Piano Paesaggistico della Toscana rappresentano un attacco gravissimo a danno di uno strumento di pianificazione urbanistica regionale che non ha precedenti negli ultimi 20 anni. Le associazioni di tutela ambientale - CAI, FAI, Italia Nostra, Legambiente, LIPU, Mountain Wilderness, ProNatura, Rete dei Comitati per la Difesa del Territorio, Slow Food Toscana, WWF – riunite oggi a Firenze, tutte concordi difendono il testo originario del piano dai continui emendamenti che, per come concepiti, appaiono chiaramente suggeriti da alcune lobby e che mirano a distruggerlo. Le associazioni vigileranno con molto scrupolo l’iter in corso per evitare che ciò accada. Il Piano che, per la prima volta, prende in esame il territorio nel suo insieme di natura, storia, società civile, è frutto di una straordinaria concertazione e co-pianificazione con il MiBACT che ora la politica, con un atto di arroganza, intende calpestare annientando quattro anni di lavoro di quanti, a questo strumento, hanno sapientemente lavorato con capacità, professionalità e rigore.

Gli emendamenti presentati in consiglio regionale dalla stessa maggioranza che lo scorso anno approvò il Piano, puntano, dunque, a stravolgere e demolire quella rete di protezione disegnata con
intelligenza e responsabilità. Il contenimento al consumo di suolo, di coste, di spiagge, le limitazioni all’estrazione del marmo, alla distruzione dei monti, la regolamentazione dell’agricoltura, così come posti nel testo originario, esprimono una gestione intelligente del territorio il cui sviluppo è possibile e sostenibile solo andando oltre lo sfruttamento di risorse ambientali. Un disegno che può diventare motore di sviluppo e dare ulteriore valore alla Toscana, con una visione strategica che non risponde più solo ad interessi e aspettative di breve respiro. “Se il piano dovesse passare snaturato rispetto alla sua origine, chiederemo al MiBACT di non approvarlo” dichiarano le associazioni.

“Con la nostra azione compatta abbiamo già ottenuto un primo importante risultato: il ritiro del maxi-emendamento del PD” afferma Fausto Ferruzza, Presidente Legambiente Toscana. “Chiediamo all’assessore Marson che non si dimetta e che combatta fino in fondo - sostiene il presidente di Italia Nostra -. Renzi difenda il piano della sua Regione e intervenga sul suo partito in Toscana perché lo conservi così come licenziato dalla giunta Rossi, in ragione della co- pianificazione avvenuta proprio fra Regione e MiBACT. Non immaginiamo che possa accettare un piano dannoso per il paesaggio, per l’agricoltura e per i beni culturali della Toscana e, quindi, per la sua immagine”.
Il FAI ha sottolineato l’importanza della difesa delle coste. “Vigileremo sull’iter di approvazione affinché non venga stravolto” ha detto Mountain Wilderness ribadiscono “l’assoluta necessità di difendere la tutela delle montagne e delle acque”. Mauro Chessa, presidente della Rete dei Comitati per la difesa del territorio ha ricordato Daniela Burrini, Lipu Toscana. CAI, ProNatura e come, “a fronte di tanta distruzione, la realtà è che il 50% delle cave è detenuto dalla famiglia di Bin Laden che controlla anche il 70% della produzione totale del marmo”. “A quanti ci accusano di mettere a rischio tanti posti di lavoro – afferma Antonio Dalle Mura, presidente Italia Nostra Toscana – si deve dire che i moderni metodi di lavoro, con l’uso di lame diamantate e alta tecnologia dei macchinari, permettono di velocizzare i processi di lavoro aumentando le quantità estratte ed escludendo di fatto molta manodopera. A questo si aggiunga che la maggior parte del marmo non viene lavorato in loco, ma trasportato all’estero con un danno economico sia per la comunità locale che per il fisco”.
Dichiara Marcello Demi, delegato WWF Toscana:“Il WWF ribadisce che ulteriori modifiche al piano, peraltro già fin troppo smussato nella fase delle osservazioni, ne inficerebbero i contenuti innovativi. Ricordiamo che oltre al paesaggio toccano il piano tutela ambienti unici come le Apuane e la biodiversità regionale nel suo complesso, capitale naturale sul quale si dovrebbe fondare l’economia di una Toscana sostenibile. E’ compito delle associazioni ambientaliste dare voce a chi voce non ha, ed è compito della politica ascoltarla e considerarla alla pari delle altre. Non verremo mai meno al nostro dovere, che la politica faccia altrettanto”. “Sosteniamo questo piano – dichiara Stefano Beltramini di Slow Food Toscana– a maggior ragione dopo aver manifestato già a Natale quando il Consiglio dei ministri ha impugnato la legge regionale toscana 65/14 dichiarando che alcune norme di indirizzo sui centri commerciali medio grandi contravverrebbero ai principi della libera concorrenza, in pratica sostenendo che la media e grande distribuzione sarebbe stata minacciata dalla tutela paesaggistica e ambientale della stessa legge”. Il Piano paesaggistico della Toscana coinvolge città storiche e periferie, pianure e rilievi con un assetto del territorio in cui la storia si connette al lavoro, alla cultura e alla natura. Le ragioni della tutela si affiancano alle istanze del lavoro e della sicurezza, l’agricoltura incide sull’economia e quindi sulla società e la cultura è volano del turismo. E sì che le scelte di Piano avevano trovato il loro fondamento e la loro legittimazione in un quadro conoscitivo ben impostato, dettagliato e approfondito, articolato in 20 “ambiti di paesaggio”.

6 febbraio 2015

Se gli emendamenti proposti in Commissione Ambiente dal PD al Piano Paesaggistico della Regione Toscana fossero approvati nella loro maggiore qualificata parte dal Consiglio Regionale ci troveremmo di fronte ad un altro Piano Paesaggistico rispetto a quello predisposto dall’Assessore all’ambiente Marson.

Un Piano Paesaggistico notevolmente diverso, anzi, addirittura ad una norma non cogente per le rispettive amministrazioni comunali e non condiviso con il Ministero dei Beni Culturali, con tutte le possibile conseguenze del caso. Impressiona l’emendamento che permetterebbe di non ritenere vincolanti le osservazioni tecnico-scientifiche da parte delle amministrazioni locali, in spregio al ruolo ed al valore delle competenze specialistiche ed al coinvolgimento dell’intellettualità.

Si perderebbe altresì ogni ruolo di indirizzo e controllo dell’Ente Regione, proprio quel ruolo alto della politica che si vorrebbe recuperare a fronte dei particolarismi territoriali e degli interessi spesso scarsamente preveggenti di gran parte degli imprenditori privati, soprattutto di quanti godono di rendite di varia natura.
Come CGIL Toscana abbiamo espresso in tutte le sedi di confronto - Tavolo regionale di concertazione ed Audizioni della Commissione regionale – il nostro parere positivo e favorevole al Piano proposto dall’Assessore Marson, punto avanzato di sintesi tra esigenze del lavoro, dell’ambiente e di un concetto alto di paesaggio e di beni culturali, frutto di un impegno di anni che ha coinvolto le migliori intelligenze e passioni sul tema.

Siamo di fronte al fondato rischio che gli interessi corporativi di potentati economici locali rompano tale equilibrio, non a favore del lavoro a fronte dell’ambiente sia chiaro: ai lavoratori ed alle lavoratrici da tali emendamenti nulla verrà, né dal punto di vista delle condizioni di lavoro e salario, né come cittadini che vivono e animano i luoghi soggetti alle minor tutele.
La norma che imporrebbe infatti che una quota significativa del marmo estratto venga lavorato in loco verrebbe infatti differita in un lontano ed imprevedibile futuro.
Non gli interessi generali, ma gli interessi particolari di proprietari di pubbliche concessioni come quelle delle cave e dei bagni.
Come CGIL Toscana riteniamo che l’attuale Piano Paesaggistico sia il punto più avanzato di sintesi tra lavoro ed ambiente e che gli emendamenti in questione ne stravolgano, ove accolti, il senso ed il valore. Il valore di uno sviluppo basato sul rispetto e la valorizzazione del nostro straordinario territorio, che sia lungimirante e non predatorio, che redistribuisca la ricchezza prodotta ai lavoratori ed alle lavoratrici, ai territori direttamente interessati, che non distrugga irreparabilmente l’ambiente ed i beni culturali.

Che indichi una via alta dello sviluppo, basata sul riconoscimento dei diritti dei lavoratori e del diritto a tutti i cittadini del godimento di beni comuni come ambiente e beni culturali.
Una via diversa da quella indicata dal Governo Nazionale con l’approvazione del Jobs Act e dei decreti attuativi, diversa ma possibile. Diversa, migliore ed auspicabile.

Maurizio Brotini, Segretario CGIL Toscana
Roberto Bardi, Dipartimanto Ambiente e territorio CGIL Toscana


«Ad oggi le aree di Bagnoli sotto sequestro della magistratura si estendono per 120 ettari, e riguardano la colmata, i siti del Parco dello Sport e del Turtle Point (entrambi ultimati con risorse pubbliche e mai inaugurati)». Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2015

Napoli. L’atteso accordo di programma per far ripartire la bonifica di Bagnoli prende forma: il custode giudiziario dell’area industriale dismessa, Maurizio Pernice, ha definito un testo che ha inviato al Comune di Napoli.

L’accordo in realtà si attiene - come spiega Pernice che è anche dg dell’Ambiente - alle indicazioni della Procura della Repubblica in seguito al sequestro delle aree per irregolarità della bonifica finora eseguita. In pratica, si vuole rendere più efficiente la messa in sicurezza della barriera e della falda acquifera nell’area della colmata. A questo scopo sarà commissionato a Sogesid un progetto per mettere successivamente a gara gli interventi previsti. In secondo luogo, si dà il via alla caratterizzazione dei terreni: il piano verrebbe affidato a Ispra e la caratterizzazione a Sogesid. Per tutte queste attività, che sono di preparazione alla bonifica vera e propria, verrà utilizzata una parte (si spera piccola) dei 48 milioni, unica dote di Bagnoli da tempo nei cassetti e non ancora spesa.

Ad oggi le aree di Bagnoli sotto sequestro della magistratura si estendono per 120 ettari, e riguardano la colmata (su cui vi è una dura vertenza tra Comune e Fintecna oggi al Consiglio di Stato dopo il ricorso del Comune), i siti del Parco dello Sport e del Turtle Point (entrambi ultimati con risorse pubbliche e mai inaugurati). Mentre sono stati dissequestrati circa 60 ettari. Interessa un’area di 20 ettari il recente decreto per risanare i siti inquinati da amianto che ha destinato a Bagnoli un finanziamento di 20 milioni, affidati al Comune.

Intanto, si anima la discussione “commissario sì, commissario no”. Il governo Renzi, nello Sblocca Italia che si occupa anche di Bagnoli, ha di fatto esautorato il Comune, a seguito peraltro del fallimento della Stu Bagnolifutura e ha previsto la nomina di un commissario ad acta e di un soggetto attuatore. Ma dalla data dell’annuncio, ad agosto, ad oggi nessuna nomina è andata in porto. Nel frattempo il Comune non perde occasione per chiedere di rinunziare alla nomina del commissario.

Nomina che ieri invece è stata sollecitata da un esponente dello stesso governo Renzi, il sottosegretario Umberto Del Basso De Caro: «I tempi sono più che maturi - ha detto - all’approvazione dello Sblocca Italia a novembre e alle polemiche del sindaco di Napoli, penso sia giusto far seguire il nome di un commissario».

Riferimenti
Su eddyburg ampia rassegna su Bagnoli. Si veda, tra gli altri, di Vezio De Lucia Bagnoli negata e la raccolta Bagnoli: i molti veleni della colmata, di Giovanni Losavio, Bagnoli. Due profili d'illeggitimità

L'Unità online, blog "Città e città", 20 febbraio 2015

Cosa vuol dire “cambia verso”, il fortunato slogan del premier Renzi? Pian piano cominciamo a capirlo.

Vuol dire annunciare una cosa e fare l’esatto contrario. Il lavoro a tutele crescenti sarebbe un bel progresso, soprattutto se di parla di lavoro giovanile. Peccato che nel jobs act le tutele siano calanti, e che la licenziabilità sia a discrezione totale del datore di lavoro almeno per tre anni. E uno.

Il decreto legge “Misure urgenti per l’emergenza abitativa” invece di occuparsi di dare casa a chi non ce l’ha, come pure annuncia, prevede la vendita del grande patrimonio pubblico di case popolari, e per chi occupa c’è il divieto di allacciamento di acqua e luce, o di avere un certificato di residenza. Né documenti né condizioni di vita decenti, come stare sotto i ponti. E due.

Il decreto “Sblocca Italia” consegna alla finanza la gestione della realizzazione delle grandi oopere, con i project bond, più sconti fidcali, più allargamenti della platea dei beneficiari, i cartelli dei grandi costruttori. E tre.

Il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi ha presentato una proposta di legge per contrastare la diminuzione del valore degli immobili, prodotto dalla crisi mondiale ma anche dall’enorme stock di costruito e invenduto in tutte le città italiane. E la ricetta sarebbe l’abolizione degli standard: la quantità di verde, scuole, servizi sanitari e amministrativi decente perché un quartiere sia vivibile. Per dare valore alle case degli italiani – d’accordo una bella fetta di Pd – basterebbe abolire gli spazi a verde e servizi e incrementare ancora il costruito, complimenti. Quartieri senza servizi che valgono di più: in quale mercato? E quattro.

La quinta storia è semplicemente incredibile. Avviene che nella civile regione toscana un assessore, Anna Marson, abbia presentato – unico esempio in Italia, le altre regioni sono inadempienti – il piano paesaggistico della Toscana. Un piano rigoroso, anche se contemperato con le esigenze delle escavazioni sulle Alpi Apuane, e con quelle di agricoltori e allevatori. Grande dibattito, tante discussioni e incontri con i cittadini. Alla vigilia dell’approvazione definitiva in consiglio regionale ecco una raffica di emendamenti che lo demoliscono, articolo per articolo. E non è solo l’opposizione a farlo, come è comprensibile. Il lavoro sporco lo fa il Pd, nella persona del consigliere Ardelio Pellegrinotti ma a nome di tutto il partito. Un partito che non si è neppure degnato di accettare la riunione chiesta con insistenza dall’assessore che sembra pronta a dimettersi se passeranno quegli emendamenti demolitori. In sostanza, resterebbero inviolabili solo le vette oltre i 1.200 a patto che non siano già state intaccate dalle cave. Per il resto, dall’ampliamento alle discariche di cava, via libera all’escavazione: che serve un piano paesistico se non incrementa la demolizione delle montagne?

Il paesaggio è cosa delicata, coinvolge la vita e la sua qualità. Sarà forse per questo che è così complesso varare un piano paesistico. Quello della Regione Toscana è d’avanguardia, e per i contenuti oltre che per i tempi. Certo, se si cancella dal testo anche l’obbligo di salvaguardia della «qualità percettiva dei luoghi» e l’obbligo di evitare «l’impermeabilizzazione permanente del suolo», consentendo di adeguare e ampliare ogni struttura turistica esistente, forse quel piano diventa inutile. Inutile anche un assessorato all’ambiente, in una regione che pure su ambiente e cultura basa la sua fortuna. E una discreta rendita economica.

La Repubblica, ed. Firenze 22 febbraio 2015

NELLA reprimenda che Enrico Rossi ha riservato al migliore dei suoi assessori, Anna Marson, si legge che il presidente toscano si adopererà «per trovare le soluzioni più avanzate per conciliare ambiente e lavoro». Rossi ce l'ha già in mano quella soluzione: è l’avanzatissimo Piano Paesaggistico, che il suo partito sembra deciso a inabissare.

Perché è importante chiarire un punto. Non siamo di fronte a uno scontro tra ambientalisti radicali e uomini di governo, o tra tecnici e politici. Siamo di fronte allo scontro tra una politica che crede in uno sviluppo sostenibile, e una politica che vuole perpetuare in eterno l'insostenibile stato delle cose. Come ha scritto lo stesso Enrico Rossi (nel suo Viaggio in Toscana), «il Piano offre una cornice di regole certe, finalizzate a mantenere il valore del paesaggio anche nelle trasformazioni di cui esso è continuamente oggetto». È verissimo: il Piano non avrebbe l'effetto di imbalsamare il paesaggio toscano, ma darebbe finalmente gli strumenti per governarne la trasformazione in modo responsabile. La sua approvazione sarebbe la vittoria di chi crede che il paesaggio non si salva con i vincoli, cioè con le (pur necessarie) proibizioni delle soprintendenze, ma con la capacità di immaginare un futuro condiviso. Sarebbe il successo di una democrazia matura: il Ministero per i Beni culturali ha accettato di rinunciare a una serie di vincoli perché convinto della qualità del Piano.

Ma ora tutto questo rischia di saltare, perché il pacchetto di emendamenti presentato dal Pd svuota il Piano al punto tale da renderlo inerte. Basterebbe questo comma: «Le criticità contenute nelle schede di ambito costituiscono valutazioni scientifiche non vincolanti a cui gli enti territoriali non sono tenuti a fare riferimento nell’elaborazione degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica». Se il Piano non è vincolante, se i Comuni non sono tenuti ad osservarlo: ebbene, quello non è più un piano, ma un auspicio. E il Mibact non lo firmerebbe. Insomma, il Piano morirebbe prima di nascere.

La cosa inquietante è che negli emendamenti di Forza Italia troviamo non solo la stessa volontà, ma le stesse identiche parole presentate dal Pd: «Le criticità contenute nelle schede di ambito costituiscono valutazioni scientifiche non vincolanti a cui gli enti territoriali non sono tenuti a fare riferimento nell’elaborazione degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica ». Siete capaci di trovare una sola virgola diversa dal testo del Pd?

E non è la sola convergenza letterale. Quando si parla dell'enorme problema della distruzione delle Apuane, Pd e Forza Italia piantano gli stessi paletti, con le stesse parole: «Salvaguardando, comunque, le cave esistenti e il loro futuro sviluppo». E si potrebbe continuare a lungo, purtroppo. Siamo evidentemente di fronte al tentativo di imporre a Rossi uno Sblocca Toscana, perfettamente allineato a quell'asse Renzi-Lupi che ha partorito lo Sblocca Italia, che è un triplo salto mortale nel passato, con il ritorno ad un consumo di suolo senza freni, e ad un totale asservimento dell'interesse pubblico agli interessi privati di lobbies industriali, edili ed estrattive.

Se i toscani fossero chiamati a un referendum, il Piano Marson passerebbe con l'80% dei voti. Mentre rischia di cadere in un Consiglio regionale in cui il peggio di vecchie stagioni, locali e nazionali, e il peggio del renzismo sono ormai indistinguibili. Se giovedì prossimo il Piano cadesse davvero, il finale di queste interminabili 'cinquanta sfumature di Rossi' sarebbe un monocolore senza sfumature. Grigio: come il cemento.

I fatti.

Nel corso della discussione in commissione regionale del piano paesaggistico regionale i consiglieri del PD preannunciavano la presentazione di una proposta di modifica la cui approvazione lo avrebbe radicalmente trasformato in un ennesimo libro dei sogni.

In alcuni articoli pubblicati o ripresi in eddyburg il 1, il 15 e il 20 febbraio (vedi i riferimenti in calce), avevamo denunciato la minaccia del PD toscano al piano paesaggistico, individuandone due principali componenti: (1) la pesante riduzione della tutela delle Alpi apuane, cedendo alle pretese delle imprese cavatrici con l’assicurare ulteriori possibilità di escavazione anche in aree a forte valenza paesaggistica e rischio geologico; (2) la trasformazione di tutte le “direttive” rivolte agli enti locali in “indirizzi”. Abbiamo osservato che quest’ultima proposta coincide con la delega piena di cospicui interessi pubblici all’imperio delle convenienze private; in definitiva, ridurre i “comandi” che la Regione trasmette ai comuni in semplici suggerimenti significherebbe annullare del tutto l’efficacia del piano.

Pochi giorni fa i consiglieri del PD presentavano l’insieme delle loro proposte Queste venivano illustrate in un ampio servizio del Corriere della sera del 21 febbraio. Nel servizio, oltre a descrivere i numerosi elementi delle modifiche proposte (una vera e propria riscrittura del piano), si dava conto ampiamente delle critiche del presidente del FAI, Andrea Carandini, e raccoglieva alcune valutazioni di Anna Marson, assessore all’urbanistica e promotrice del piano.

Marson affermava di trovare «sorprendente che il più grande partito di maggioranza si comporti come quello di opposizione, nella forma e nella sostanza. Evidentemente - proseguiva - le elezioni regionali vicine hanno scatenato comportamenti anomali e trasversali e mi sembra di vedere un partito del mattone e della pietra che cerca di affermarsi».

Dopo aver riportato il parere fortemente critico di Salvatore Settis l’articolo del Corriere cosí concludeva: «L'assessore Marson non esclude di lasciare l'incarico se il suo piano dovesse essere stravolto. “Prima dirò che cosa penso in Consiglio dice lei poi ci penserà qualcun altro a dimissionarmi” ».

Stranamente repentina la reazione di Enrico Rossi alle dichiarazione del suo assessore. Le denunce della manovra dei consiglieri del PD l’avevano visto silenzioso. Alle parole di Marson rispondeva poche ore dopo averle lette.

«Anna Marson è un grande tecnico che ha dato un contributo fondamentale sulla svolta attuata in Toscana nelle politiche per il governo del territorio. Ma quando esprime giudizi politici compie scivoloni pericolosi. Respingo quindi con fermezza le sue dichiarazioni sul ruolo del Pd dipinto in un intervista al Corriere della Sera in modo grottesco, come un partito antiambientalista, asservito ad interessi particolari».

«Occorre chiudere la legislatura con il lavoro straordinario che è stato fatto sul piano del paesaggio e con la nuova legge sulle cave. Esasperare i toni e le polemiche è il miglior regalo che può essere fatto a coloro che vogliono far fallire questi obiettivi» prosegue il Presidente. E cosí conclude: «Invito quindi a lavorare seriamente in commissione confrontandosi con posizioni anche diverse ma legittime e ricercando soluzioni avanzate per conciliare ambiente e lavoro».

Il commento

La vicenda è ancora aperta. Il voto del Consiglio regionale è previsto per il 10 marzo prossimo. Quel giorno si vedrà se l’intervento del presidente Rossi nel contrasto tra l’assessore Marson (un assessore non è solo un “tecnico”, presidente!) e i consiglieri del PD sia solo un buffetto dato a Marson per placare i falchi del PD, oppure se corrisponda a un deciso cambiamento di rotta rispetto al Rossi che avevamo conosciuto.

Se cosí fosse, sarebbe una profonda delusione per quanti, come noi, l’avevano considerato un personaggio anomalo nel mondo dei politici-politiciens di oggi: una persona capace di valutare il merito delle scelte, di decidere privilegiando l’interesse collettivo e di ispirare le sue azioni a una visione di lungo periodo.

Ma sarebbe anche una sconfitta per quell’ Enrico Rossi che abbiamo conosciuto. Quello che ha seguito con attenzione, e comprensione anche “tecnica”, gli sforzi per restituire alla Toscana il primato del saggio governo delle trasformazioni del territorio e del paesaggio, minacciato sempre più pesantemente dall’erosione del suolo e dalla devastazione del paesaggio, dalla sovra-infrastrutturazione d’ogni costa e d’ogni fondo valle e dallo svillettamento a go go. Quell’Enrico Rossi da cui abbiamo sentito pronunciare l’appassionato intervento a difesa della nuova legge urbanistica regionale, matrice del piano paesaggistico oggi minacciato dal partito di Renzi. È quell’Enrico Rossi che sarebbe tradito, e sconfitto, da un cedimento sui contenuti e sull’efficacia del piano paesaggistico.

Arrivederci al 10 marzo.

Riferimenti

Si vedano su eddyburg i seguenti articoli: Paolo Baldeschi, Dario Parrini: doctor Jeckill e Mr Hyde, Edoardo Salzano, Da che parte sta il PD toscano Mauro Bonciani (Corriere della Sera), La spallata del PD a Marson. Il piano del paesaggio azzerato

Corriere di Firenze, 20 febbraio 2015, con postilla

A due settimane dal voto in Consiglio regionale, fissata per il 10 marzo, il Pd riscrive il piano del paesaggio. E lo fa con un maxi-emendamento presentato in commissione che ammorbidisce vincoli e prescrizioni, riduce le criticità ad elementi conoscitivi e non facenti parte della programmazione urbanistica e territoriale, rivede quasi completamente la disciplina delle cave della Apuane. Il testo coordinato dal gruppo Pd insomma riscrive la riscrittura del Pit del paesaggio fatta dall’assessore all’urbanistica Anna Marson e dall’assessore all’agricoltura Gianni Salvadori a dicembre ed ha fatto arrabbiare Marson, che praticamente dall’inizio della legislatura subisce stilettate e attacchi dem. E che si trova davanti ad un documento che non considera più suo proprio a due passi dal traguardo della legge più rilevante di tutta la legislatura-Rossi.

Il governatore ad inizio della scorsa settimana è stato informato dal Pd della volontà di presentare l’emendamento diretto in particolare alle cave e che sosta l’equilibrio di nuovo verso i Comuni rispetto alla pianificazione regionale, e se è vero che c’è tempo fino a lunedì per depositare gli emendamenti (e quindi limare anche quello predisposto dal gruppo) e che gli emendamenti possono essere ritoccati o ritirati anche in aula, sarà decisiva la riunione della maggioranza fissata giovedì 26 e la parola dello stesso Rossi per capire se si arriverà alla rottura con Marson. Il governatore ha sempre difeso l’assessore da lui scelta in quota Idv, definendo il piano del paesaggio, assieme alla riforma delle Asl, l’atto più importante da portare a casa prima della fine del suo primo mandato. Rossi dovrà fare i conti con il gruppo Pd, espressione anche dei sindaci e delle associazioni che hanno chiesto la modifica del Pit, – «senza i nostri voti il piano non si approva», dice un consigliere dem nei corridori di Palazzo Panciatichi – con Marson che se non sarà convinta del testo finale dell’emendamento lo farà presente a tutti, e con gli alleati: e trovare una sintesi non semplice.
il nostro commento,
Intanto il maxi emendamento è stato presentato nella commissione ambiente presieduta da Gianfranco Venturi. spiegato il consigliere Giovanni Ardelio Pellegrinotti. «Il Piano è un atto complesso e condizionerà la vita dei cittadini toscani per i prossimi vent’anni. Non ci possiamo permettere di sorvolare su alcun punto. La nostra preoccupazione – spiega Ardelio Pellegrinotti, Pd, che ha coordinato il testo e che ha escluso altri emendamenti– è che il piano del paesaggio non ingessi troppo l’attività e lo sviluppo della Toscana anche attraverso indicazioni, prescrizioni e direttive che possono più o meno incidere e condizionare a seconda di come vengono declinati i singoli termini». «Prendo atto che il Piano non c’è più – è i commento di Monica Sgherri, Prc – I crinali delle Apuane, ad esempio, in forza del documento avanzato oggi, potranno essere modificati». Nicola Nascosti (Fi) ha annunciato la presentazione di 200 emendamenti: «Le criticità vanno cancellate, non si può ingessare tutto – spiega – e va riscritta tutta la parte delle cave, ma anche rivista quella del settore agricolo e balneare».

postilla
L'avevamo temuto, e raccontato, si veda l'"opinione" di Paolo Baldeschi, Dario Parrini: dottor Jeckill e mr Hide , il nostro articolo Da che parte sta il PD toscano nel conflitto tra tutela e distruzione del paesaggio. Adesso è almeno stracciato il velo dell'ipocrisia

condividere è un errore. Più avviene su beni comuni ( il patrimonio culturale, la convivenza ecc.) più devastanti gli effetti. La Repubblica, 19 febbraio 2015

Giotto, Simone Martini, Pietro Lorenzetti: gli affreschi trecenteschi della Basilica di San Francesco ad Assisi, forse i testi più sacri della storia dell'arte italiana, sono in pericolo. A minacciarli non è un terremoto o una guerra, ma ­ – come avviene sempre più spesso – un restauro troppo sicuro di sé.

La Direzione Generale per le Belle Arti del Ministero per i Beni Culturali – ora guidata dall'architetto Francesco Scoppola, già direttore proprio dell'Umbria – è «allarmatissima», ed ha disposto un sopralluogo i cui esiti non sono stati affatto rassicuranti. L'attenzione si è concentrata sulla manutenzione degli affreschi di Lorenzetti, attualmente in corso nel transetto sinistro della Basilica inferiore, e sulla pulitura del paramento di pietra del Subasio. Le parti di quest'ultimo già restituite alla vista sono scioccanti: un effetto 'pizzeria' che contrasta violentemente con le zone sulle quali non si è ancora intervenuti.

Ma a preoccupare è soprattutto ciò che si vede dall'altra parte del transetto, e nella cappella di San Nicola. Qui il restauro si è già concluso, ed è possibile valutarne gli effetti. Che ­ – per chiunque conoscesse bene questi affreschi – sono impressionanti: non siamo più di fronte alle stesse opere. Qui è attiva la bottega di Giotto, intorno al 1315: e almeno nella Crocifissione è possibile ravvisare un suo stesso intervento. Ebbene, proprio il celebre gruppo della Madonna che sviene ai piedi della Croce ha ora una scalatura cromatica e un chiaroscuro completamente diversi da quelli noti. Accanto, le sublimi mezze figure di Santi affrescate poco dopo (1317-19) da Simone Martini sono ancor più cambiate: appiattite, e prive di alcuni dettagli della decorazione. E la Madonna al centro del trittico nella Cappella di San Nicola ha completamente (e irreversibilmente) perso il suo manto.

Cos'è dunque successo? Il restauratore – Sergio Fusetti, che tutti ricordano nelle drammatiche immagini del 1997, quando si salvò per miracolo dal crollo della vela di Cimabue nella Basilica superiore – è un professionista preparato e stimato. Tuttavia, questi restauri sono stati circondati da una singolare aura 'mediatica'. Nel luglio del 2012 fece scalpore l'invito a Patti Smith a 'restaurare' una minuscola porzione degli affreschi giotteschi: cosa che la cantante prontamente fece, a favore di fotocamere. E poco dopo si sostenne di aver trovato nientemeno che la 'firma' «GB»: cioè «Giotto Bondone», come fossero le iniziali su una camicia.

Bruno Zanardi – che ha restaurato, tra l'altro, gli affreschi della Basilica Superiore, e ora insegna Storia del restauro all'Università di Urbino ­– appare turbato: «Avevo visto il cantiere nel 2011, e l’impressione era stata d’un buon lavoro, eseguito da un restauratore che sapevo bravo e esperto. Invece quando sono tornato un paio di mesi fa in Basilica con i miei allievi ho avuto una sensazione molto diversa. Ho visto un diverso e innaturale emergere dei chiari di visi, manti, fasce decorative, unito a un forte compattamento dei cieli. Quasi l’intervento fosse stato un restauro, quindi una pulitura, un lavaggio, seguito da una reintegrazione con acquarelli. Non una semplice manutenzione, cioè una spolveratura con pennelli di martora. Ricordavo gli incarnati dei santi angioini affrescati da Simone Martini, come fusi nel vetro per la meravigliosa assenza di ogni sforzo tecnico nella loro esecuzione. Mentre oggi sono “solo rosa”».

I dubbi sugli esiti del restauro si sommano a quelli sul modo in cui esso è stato gestito. Si può dire che nella Basilica di Assisi sia stato tenuto a battesimo il moderno restauro italiano: qui iniziò ad operare, nel 1942, il neonato Istituto Centrale del Restauro, che vi ha poi lavorato fino al 2006. Negli ultimi anni, invece, il legame tra Basilica e Istituto si è spezzato, anche a causa del definanziamento col quale gli ultimi ministri per i Beni culturali hanno progressivamente ucciso questa istituzione cruciale per la sopravvivenza del nostro patrimonio artistico. Una delle conseguenze è che i Frati hanno deciso di 'fare da soli', passando da uno dei collegi di ricercatori e restauratori più affidabili al mondo, alla ditta privata di un singolo restauratore. La direzione è stata assunta direttamente dal soprintendente dell'Umbria (che per un periodo sosteneva anche un interim in Calabria!), senza creare un comitato scientifico 'terzo' rispetto a chi conduceva il restauro: un passo doveroso, nel caso di opere tanto importanti (recentemente lo ha fatto, per esempio, l'ambasciatore francese in Italia, prima di far toccare la Galleria di Annibale Carracci in Palazzo Farnese).

Perché questo è il punto: il restauratore può benissimo sostenere di aver eliminato ridipinture, o reintegrazioni più tarde. Ma questa discussione andava fatta prima, e non dopo. Quel che non doveva succedere è che il restauratore fosse solo a decidere se, e quanto, intervenire: perché indietro non si torna, e quegli affreschi sono un inestimabile bene comune. Se i filologi avessero il potere di cambiare per sempre il dettato di un verso di Dante in tutte le copie della Commedia, sarebbe pensabile che a farlo fosse solo uno di loro? Bisognerebbe prima parlarne a lungo, per poi magari decidere che è meglio rischiare di tenersi un'integrazione tarda, che perdere un pezzo di originale.

Ormai otto anni fa, proprio sulle pagine di «Repubblica», Salvatore Settis e Carlo Ginzburg proposero inutilmente che una pausa di riflessione fermasse i restauri che incessantemente reintervengono sui testi fondamentali della nostra tradizione: «Togliere una velatura da una tavola, un ritocco a secco da un affresco, un elemento che fa parte della stratificazione storica dell'opera, equivale a bruciare la pagina di un testo che ci è arrivato in un unico manoscritto ... È giusto che una generazione si arroghi il diritto di intervenire drasticamente, trasformandola in maniera irreversibile, su una parte così cospicua, qualitativamente e quantitativamente, della tradizione artistica italiana?».

Prima che i ponteggi passino alle Vele di Giotto, alla cappella di San Martino e poi magari alla Basilica Superiore e alle grandi storie di Francesco con le quali Giotto fondò l'arte italiana, è forse il caso che il lavoro si fermi, che il Mibact intervenga, che si apra una vera discussione.

Huffington Post, 17 febbraio 2015

Quattro gioielli architettonici del razionalismo italiano messi in vendita per completare la Nuvola, il nuovo centro congressi progettato da Massimiliano Fuksas. Eur Spa ha confermato che metterà sul mercato quattro strutture: l'Archivio di Stato, il Museo Pigorini, Il Museo delle Arti e tradizioni popolari, il Museo dell'Alto Medioevo. Alla gara potranno partecipare soggetti pubblici e privati, nazionali e internazionali. Salvo per il momento il "Colosseo Quadrato", affittato al gruppo Fendi.

Il concorso internazionale del Comune di Roma risale al giugno 1998. Il vincitore, Massimiliano Fuksas, fu proclamato a febbraio del 2000. Nel 2001 fu indetto il bando di gara per la progettazione, costruzione e gestione del centro congressi, gara vinta nel 2002 dalla Centro Congressi Italia Spa che firmò un concessione trentennale l'anno successivo. Il contratto tra la società concessionaria e l'Eur Spa fu risolto successivamente nel 2005, dopo che la concessionaria aveva previsto un aumento dei costi da 200 milioni di euro a 250 milioni. Il progetto esecutivo, redatto da Fuksas, fu quindi approvato nel marzo 2007. La posa della prima pietra avvenne l'11 dicembre 2007. I lavori iniziarono nel mese di febbraio 2008. Il costo inizialmente previsto era di 275 milioni di euro, ma nel corso degli anni ha superato i 413 milioni di euro. Nel dicembre 2013 il Governo è intervenuto con la Legge di Stabilità per evitare lo stop ai lavori, con un prestito trentennale di 100 milioni che andasse a soccorrere il Comune di Roma, in difficoltà di bilancio. L'obiettivo era inaugurare la Nuvola in tempo per Expo 2015, ma anche questo obiettivo non è stato rispettato.

Complessivamente, dalla vendita dei palazzi storici, Eur Spa confida di incassare "circa 300 milioni", spiega il presidente Pierluigi Borghini al Corriere della Sera. Questi soldi serviranno per "completare i lavori in corso della Nuvola (50 milioni), coprire i debiti bancari (180 milioni) e quelli della società (70 milioni)". In questo modo "la Nuvola potrà essere consegnata entro metà del 2016".

Breve storia del rapporto di amore-odio fra una città e i suoi canali, nati in un contesto che era diventato irriconoscibile con la crescita e le trasformazioni. Ma è impossibile davvero tornare indietro. Corriere della Sera Milano, 15 febbraio 2015, postilla (f.b.)

Amati (da Stendhal) e odiati (dal Manzoni). Chiusi per salute pubblica con la «tombinatura» ordinata da Mussolini che innescò reazioni di giubilo (ma anche di critica) in città. Quei Navigli «pericolo sociale per l’attrazione esercitata sui deboli e sui vinti di una grande metropoli, i suicidi», quei Navigli «pericolo pubblico nelle notti invernali, nebbiose, per uomini e vecchi che vi possono precipitare».

Far rivivere il Naviglio di Milano, ovvero scoperchiare quel lungo tratto di «fossa interna» che dal Ponte delle Gabelle e da via San Marco, attraverso via Fatebenefratelli, raggiunge piazza Cavour e via Senato, e poi lungo la circonvallazione interna, arriva in via De Amicis e fino alla Darsena, per ricongiungersi con i grandi canali. Sarebbe come dar corpo a un sogno, anche ai sogni della letteratura, che ha cantato i Navigli attraverso le pagine di Stendhal e di Bacchelli o anche li ha detestati, come il più milanese (e il più italiano) di tutti gli scrittori moderni, Alessandro Manzoni, che in un epigramma antologizzato in un volume a cura di Franco Brevini si era così lamentato di quelle «fogne a cielo aperto»: «Del sole il puro raggio / rotto dall’onda impura / sulle vetuste mura / gibigianando va». In epoca di espansione (e speculazione) edilizia quel romantico canale che soprattutto nei periodi di secca e di caldo portava olezzi e sporcizia non piaceva più alla parte più illuminata della città. Tanto che un altro grande spirito milanese, il riformista socialista Filippo Turati, cantava ironicamente sempre in versi il tombone, anzi il Tumbùn, di San Marco: «Sul gorgo viscido / chiazzato e putrido / sghignazza un cinico raggio di sol… carmami squallidi di vecchi, macabre / parvenze, ruderi / d’umanità». Turati alludeva ai troppi suicidi che la cronaca registrava proprio in quel cantone, all’angolo con il complesso industriale del Corriere della sera di via Solferino.

Fu così che i giornali del 1929 (certo all’epoca non c’era grande libertà di critica) accolsero con articoli di giubilo la decisione del Comune di chiudere la «fossa interna»: «Il Naviglio è un pericolo sociale per l’attrazione esercitata sui deboli e sui vinti di una grande metropoli, i suicidi. È un pericolo pubblico nelle notti invernali, nebbiose, per uomini e vecchi che vi possono precipitare. Del resto nella nuova vita italiana voluta dal fascismo le ragioni di affermazione e miglioramento della razza debbono avere il sopravvento su ogni altra considerazione…». Per un paradosso la chiusura del Naviglio interno mise d’accordo un positivista come Turati, che fu costretto dal regime a fuggire in Francia, con l’irregimentato clinico Baldo Rossi che sul Popolo d’Italia , giornale di Benito Mussolini, plaudì in latino all’impresa: «Salus publica, suprema lex».

Non mancavano comunque voci di dissenso: la protesta del sovrintendente alle belle arti Ettore Modigliani, anche a nome degli «Amici del Naviglio» durò il tempo della breve udienza concessa dal podestà Giuseppe Capitani d’Arzago. Un diktat del ministero mise tutto a tacere. Così in lunghi articoli, per esempio sul Corriere del 19 agosto 1929, si potevano leggere elogi della «città che si rinnova»: «i vecchi milanesi possono testimoniare quanto opportuna sia stata l’opera del piccone»… «c’è una poesia dei ricordi ma ce n’è anche un’altra a saperla intendere, quella del lavoro che si afferma, del vecchio che non sempre scompare, perché spesso si tramuta migliorandosi. E sopra tutto c’è quella della nuova luce, della maggiore aria dell’accresciuta difesa igienica, che le esigenze di una grande città impongono a un certo momento della loro vita, inderogabilmente».

Per esprimere il proprio dissenso l’architetto Luca Beltrami, autore del restauro del Castello Sforzesco, nonché padre della sede del Corriere , dovette chiedere l’ospitalità del fiorentino «Marzocco». La copertura della «fossa interna» costò 27 milioni di lire, oltre ai 20 milioni necessari per realizzare un nuovo canale di scolo. La copertura del Naviglio non resse a lungo all’usura del tempo se già negli anni 60 cominciarono a comparire delle pericolose crepe. Così il Corriere sulle pagine milanesi del 16 settembre poteva annunciare: «La fossa dei navigli sarà riempita di terra con una spesa di 800 milioni». E in una foto pubblicata il 10 febbraio 1968 si vedevano il sindaco Aldo Aniasi e l’ingegnere capo del Comune Antonio Columbo in visita al cantiere sotterraneo. Intanto sempre per motivazioni igieniche e per incompatibilità con la nuova vita di Milano, nel 1963 era stato deciso di chiudere la Darsena («non fa respirare per 40 giorni»), considerata per tonnellaggio delle merci il «sesto porto d’Italia», scriveva l’edizione milanese dell’ Avanti! del 25 luglio.

Le esigenze del traffico erano diventate più urgenti di quelle igieniche, così il 16 ottobre 1970 il Corriere annunciò la scomparsa del Ponte delle Gabelle per collegare con una sopraelevata via Melchiorre Gioia. Addio alle chiuse progettate da Leonardo da Vinci, non restavano che i ricordi letterari come quello spiritoso di Giuseppe Marotta che in «A Milano non fa freddo» si chiedeva: «Batto col piede sull’asfalto di via Francesco Sforza e dico: vecchio Naviglio, ma ci sei davvero qui sotto?». O le rievocazioni di giornalisti cultori della memoria come Leonardo Vergani e Gaetano Afeltra, che in splendidi articoli (da antologia) ricordavano l’ultimo barcone che il 15 marzo 1929 scaricò i rotoli di carta per la stampa del Corriere al Tombone di San Marco e poi «svoltò definitivamente dalla cerchia verso la conca di Viarenna».

postilla

In una breve rassegna degli atteggiamenti cittadini nei confronti dei Navigli ovviamente non poteva starci tutto, ma forse oggi ha più senso citare l'avversione di un conservazionista come Luca Beltrami (l'inventore del Castello Sforzesco “falso antico filologico” che conosciamo oggi) per la tombatura dei canali, e tralasciare invece tutta la serie di progetti ingegneristici accumulata in era industriale, e che in buona sostanza anticipavano l'intervento di trasformazione degli anni '30. Per capire meglio quella copertura, forse per un urbanista sarebbe utile soffermarsi ad esempio sulle pagine di “Ciò Per Amor”, il piano vincitore del concorso 1926-27, firmato da Piero Portaluppi e Marco Semenza, che anticipa di fatto l'idea di città integrata dalle strade e dai veicoli privati dei decenni successivi. Non c'è spazio, in quello schema o nei successivi, per una barriera come quell'anello, scavalcato solo nelle strozzature dei ponti, e che cinge la zona storica dai valori immobiliari più elevati, quella su cui si concentrano gli appetiti anche dei progettisti, e basta farsi una passeggiata per contare gli interventi degli architetti famosi uno accanto all'altro, su una sponda o l'altra dell'ex Cerchia dei Navigli. E tutte queste trasformazioni trovano senso esattamente nel contesto a cui si riferisce quella tombatura, e che dipende dalle medesime evoluzioni recepite dai piani regolatori. Esattamente come nel XIX secolo si pensava di sostituire alle acque un tunnel o un percorso tranviario in trincea, proprio nell'epoca in cui la città si costruiva sulle linee di forza dei binari di mobilità locale o regionale. Insomma, se si volesse davvero scoperchiare la fossa dei Navigli tutto attorno al centro storico, forse invece di guardarsi indietro sospirando, e sognando sciocchi revival antistorici (che lasciamo volentieri alle cartoline o alle rubriche di qualche pubblicazione da anticamera) si dovrebbe prima riflettere sull'idea di città, mobilità, relazioni. Perché agire per comparti non avvantaggia nessuno, e infatti non è mai accaduto, un motivo ci sarà pure (f.b.)

La Repubblica, 13 febbraio 2015 (m.p.g.)

La presenza dell'Annunciazione di Leonardo all'Expo sta diventando un affare di Stato. Il sindaco di Milano ha polemizzato con gli Uffizi per averne negato il prestito, e ha chiesto un intervento del ministro Franceschini: il quale non si è fatto pregare, e ha pubblicamente chiesto spiegazioni alla direzione del museo. Obbligata e amara la resa del direttore, Antonio Natali: «Decide il Ministero».È la terza puntata dell'imbarazzante telenovela dei 'capolavori assoluti' invano pretesi dall'Expo: dopo i Bronzi di Riace e la Venere di Botticelli, ora tocca (ovviamente) a Leonardo. E poi sarà la volta di Giotto, Caravaggio e chissà chi altri.

È deprimente che ogni kermesse italiana si risolva nell'esposizione della top ten dei grandi maestri del passato. Nessun investimento permanente sul patrimonio diffuso, nessuna attenzione agli artisti viventi: solo la pigra e rituale esibizione dei gioielli di famiglia. E pazienza se col tema del cibo non c'entrano nulla. Una coazione così superficiale ed esteriore che il sito ufficiale dell'Expo ha annunciato che il simbolo del Padiglione Italia sarà il David di Michelangelo (l'avreste mai detto?), accompagnandone la fotografia con una didascalia che lo attribuiva a... Donatello!Pare davvero insensato togliere agli Uffizi (che si trovano a meno di due ore dall'Expo) l'unico Leonardo attualmente esposto: un'opera che figura tra quelle dichiarate inamovibili.

Ma il punto davvero importante è un altro. In tutti i paesi civili la sovranità del direttore di museo è sacra. E nessuna autorità politica ha il diritto di insidiarla o condizionarla. In Inghilterra o in Francia sarebbe semplicemente impensabile una conferenza stampa polemica di un sindaco, o un'ingerenza del governo. Qui invece si ventila addirittura un intervento del Presidente del Consiglio: speriamo che non sia vero, perché per trovare un precedente bisognerebbe risalire a Mussolini.

Il paradosso è che in questo momento un bando internazionale si propone di affidare venti grandi musei italiani (gli Uffizi inclusi) a direttori di grande levatura e prestigio: una mossa vanificata dalla reazione di Franceschini, che tratta il direttore degli Uffizi come un cameriere, esautorandolo dalle decisioni più cruciali per la vita del suo museo. E uno si chiede perché mai un direttore tedesco o americano dovrebbe correre a prendere ordini dalla sgangherata classe politica italiana.

Un bilancio preventivo del Grande Evento Expo che, senza strafare, molto probabilmente e saldamente ancorato a un approccio empirico, ci azzecca. La Repubblica Milano, 11 febbraio 2105

C’è stato il messaggio del Papa, quello di Lula, si elaborerà la Carta di Milano per il cibo sostenibile e per tutti, nutrire il pianeta: Viva Expo. Si sono cementificati ettari ed ettari agricoli per costruire nuove autostrade inutili. E per fare un enorme villaggio espositivo su terreni privati non urbanizzati mentre si poteva fare su terreni pubblici già urbanizzati: Abbasso Expo. Mai si è parlato e si parlerà così tanto di spreco di cibo e di come produrlo e distribuirlo in modo sostenibile: Viva Expo. Nulla è ancora cambiato nei cicli del cibo, neanche nell’area milanese nei mesi precedenti l’Esposizione: il tema dell’Expo è solo un pretesto. Non è vero, abbi fede, intanto Milano Ristorazione ha distribuito sacchetti salva-cibo nelle scuole milanesi, così i bambini portano a casa pane e frutta.

Expo è un traino. Sì, ma le multinazionali che lo sponsorizzano sono quelle degli Ogm o della privatizzazione dell’acqua e dei semi. Era ed è molto meglio Terra Madre. E qua i contadini dove sono (chiede Petrini)? Abbasso l’Expo, fiera alimentare, scatola vuota. E delle aree comprate a caro prezzo che ne faremo? Finiranno abbandonate con padiglioni cadenti come a Siviglia. No, ci potrebbe andare l’Università, un meraviglioso campus, ci faranno anche gli orti. E così via, potremmo continuare col botta e risposta.

Le ragioni dei No Expo, se sommiamo quelle critiche a priori nei confronti di questo tipo di grandi eventi internazionali con le ragioni contrarie alla impostazione impressa soprattutto dal Formigonismo al concreto svolgersi di Expo 2015, sembrano robuste. Se poi consideriamo i cosiddetti scandali, tangenti e turbative d’asta, e l’assurda opera fine a se stessa del canale Vie d’acqua potremmo addirittura vedere l’impopolarità circondare Expo. Eppure, eppure... Il richiamo commerciale turistico su cui ha sempre fatto conto il progetto Expo sta crescendo grazie alla pubblicità e alla copertura mediatica. E forse anche a qualcosa di più, al bisogno che ogni tanto emerge di avere qualcosa di unificante e facile a cui aggrapparsi per risollevarsi dalla crisi. Vorrei fare una previsione, poi se sbaglio pazienza.

È probabile che crescerà un misto di curiosità misto a tifo, per cui nonostante alcuni ritardi nei lavori, Expo andrà «bene». Un clima di festa nazionale accompagnerà l’inaugurazione, mettendo un po’ in un angolo le contestazioni. La dialettica critica sull’incoerenza di Expo con la sua dichiarata missione continuerà ma contribuendo, volente o nolente, ad aumentare l’attenzione, quindi anche un po’ il successo di Expo. Ogni tanto qualcosa andrà in tilt, ma anche questo sarà segno di tante presenze. Chi scommettesse la sua «ragione sociale» su una bandiera No Expo rischia di avere poche soddisfazioni. Perlomeno quest’anno. Poi non si sa. Sull’eredità materiale (i padiglioni e le aree) e etico-culturale — nuove politiche del cibo — invece è più difficile fare previsioni. Una cosa è certa: chi vuole nuove frontiere di sostenibilità nel cibo, o attraverso il cibo, farà meglio a concentrarsi sul pezzo, più che dividersi tra expottimisti, exposcettici e No Expo.

Inizia a ricomporsi in uno schema più articolato la discussione attorno alla proposta di nuovo stadio per l'area di riqualificazione del Portello, con certo altrettanto discutibili progetti. Corriere della Sera Milano, 10 febbraio 2015 (f.b.)

Il Magnete, pieno di tecnologia e musica. Il Village, grande «oratorio laico» dove incontrarsi e praticare sport d’ogni sorta. Oppure il chilometro verde della «Milano alta», con l’annessa offerta di benessere e ristoranti. Altro che stadio. Ci sono buone probabilità che nel futuro del Portello ci sia una di queste proposte. Perché sebbene il progetto presentato dal Milan e Arup abbia innescato suggestioni urbanistiche, sogni di grandeur rossonera e apprensioni dei residenti, chi ha più dimestichezza con planimetrie, cantieri, business plan , regolamenti comunali e compatibilità ambientali è pronto a scommettere che, alla fine, il bando per la riqualificazione degli ex padiglioni 1 e 2 della Fiera se lo aggiudicherà uno degli «altri» tre progetti. Perché uno stadio è comunque una presenza ingombrante, in una zona dove già gli abitanti delle nuove case devono fare i conti, per esempio, con l’assenza quasi totale di negozi, e anche perché l’operazione pensata dal Milan comporterebbe l’abbattimento totale delle strutture esistenti, con costi e disagi notevoli. In quegli spazi, quindi, è più facile che trovi casa uno degli altri progetti in gara, diversi tra loro, ma che hanno in comune hotel, ristoranti e spazi per la salute o il benessere. Il verdetto del Comitato esecutivo di Fondazione Fiera è atteso per la fine di marzo.

La proposta presentata dal Gruppo Prelios si chiama Magnete, ed è (faticosamente) riassumibile nell’immagine di un parco tecnologico e musicale, con una sorta di museo digitale, negozi con articoli ad alta tecnologia (dalla robotica ai droni): «L’idea è quella di creare in quello spazio un luogo per fare attività — spiega Luca Turco, che si occupa dei nuovi progetti di Prelios —. Non sarà un’offerta non profit ma neanche una specie di Mirabilandia della tecnologia». Cioè, per intendersi, si paga ma non per una semplice passeggiata tra effetti speciali. Il

progetto prevede anche un hotel da 250 camere (pensato in sinergia con il vicino centro congressi Mico), una struttura medica per prestazioni ambulatoriali e in day hospital, un negozio di alto livello dedicato alla bicicletta che vorrebbe proporsi come «polo della cultura delle due ruote» e, anche, una serie di spazi per la musica, con il coinvolgimento delle scuole musicali di tutta Milano». Il tutto alimentato e illuminato dal sole.

C’è un albergo (140 camere low cost) anche nel progetto del consorzio creato appositamente da Cile, Arcotecnica e Pkf. Secondo la dittatura anglofona, si chiamerebbe Community hub, «ma a me piace pensare a una specie di grande oratorio laico — dice Paolo Viola di Arcotecnica —, cioè a uno snodo di incontro di interessi diversi, soprattutto dei giovani tra 15 e 30 anni, in un’area ben collegata alla città ma anche ben accessibile per chi arriva da fuori». Un biglietto d’ingresso consente di accedere a una vasta area riservata allo sport indoor: free climbing, skateboard, vasche con onde artificiali per il surf e altri sport d’acqua, simulatore di Formula Uno curato direttamente alla Ferrari. Lungo le balconate, negozi dedicati alle stesse attività sportive, bar e ristoranti. Al piano superiore, invece, un’area dedicata «per il benessere del corpo e dello spirito», con area termale, Spa, fitness center, un centro di medicina sportiva, spazi per lo studio, il gioco, la musica e corsi.

Il tratto che caratterizza il progetto depositato da Vitali Spa è una linea verde che scorre longitudinalmente accanto alla struttura del Portello. Per ora si chiama Green street, ma è destinata a essere ribattezzata «Milano alta», e rappresenta un chilometro di percorso ciclopedonale sopraelevato

(a 7 metri di altezza) lungo viale Scarampo, che scavalcando viale Teodorico e via Colleoni collega l’area di CityLife e del MiCo con il Portello, cioè piazza Gino Valle. All’interno, anche in questo caso, il progetto prevede un albergo (da 350 camere), ristorazione, attività per il tempo libero e uno spazio per l’insediamento di start up ad alto contenuto di innovazione. «Per realizzare tutto questo ci sono pronti 100 milioni di euro — spiega l’amministratore delegato Cristian Vitali — noi e il nostro partner Stam, cioè un grande investitore internazionale, ci crediamo molto. Il business plan è dettagliato e considerando che manteniamo quasi intatte le strutture architettoniche esistenti, contiamo di riuscire a realizzare tutto in meno di due anni».

Non sono solo i residenti a non volere lo stravolgimento del piano urbanistico: anche la decenza e la legalità Possibile chr gli interessi dell'immobiliarista Ente Fiera prevalgano su tutti gli altri?. La Repubblica, ed. Milano, 5 febbraio 2018

La direttrice di nord-ovest dell'area milanese, alla cui estrema propaggine è sita l'area dove oggi è in corso l'edificazione delle attrezzature espositive di expo 2015, ha rappresentato lungamente un tema strategico irrisolto dell'assetto urbano e metropolitano milanese che ha provocato inconvenienti via via più gravi sia dal punto di vista viabilistico sia da quello di un corretto assetto insediativo e di immagine progettuale e, quindi, è stato nel tempo al centro di molte riflessioni e proposte da parte della miglior intelligenza urbanistica milanese (Corso Sempione nell’800, progetti di Nuova Fiera e Milano Verde negli anni ’30 e progetti di riassetto dell'area della vecchia Fiera negli anni ’40-50 del Novecento), che ha costantemente indicato l'opportunità di un decentramento delle funzioni direzionali troppo fittamente addensate nel reticolo storico originario. Riflessioni e proposte per lo più rimaste allo stato di progetti inattuati, data la persistente indisponibilità di Fiera di Milano ad essere ricollocata altrove, sino a metà degli anni '90, quando la permanenza di Fiera di Milano sull'area dell'ex Piazza d'Armi, dove si era insediata nel 1922, venne infine giudicata non ulteriormente tollerabile sia per i disagi viabilistici sempre più gravi tanto per i visitatori quanto per gli abitanti del quartiere circostante sia per la necessità di rinnovo e ampliamento delle proprie strutture edilizie e si maturò la decisione di realizzare un nuovo polo extraurbano verso nord-ovest al confine tra i Comuni di Rho, Pero e Milano, lasciando come pesante eredità il lungo edificio di viale Scarampo e l'abnorme edificazione in densità ed altezza di Citylife.

Le spinte delle aspettative immobiliaristiche delle proprietà fondiarie (soprattutto Fondazione Fiera, che dopo aver realizzato un enorme surplus immobiliare con Citylife e averlo reinvestito nelle aree di Arexpo, preme oggi per un altrettanto lucroso guadagno con la trasformazione a stadio calcistico privato della parte più a nord dell'edifico di viale Scarampo e con la vendita ai privati delle aree del dopo Expo 2015) devono invece essere governate ed indirizzate da uno schema insediativo che preveda la destinazione ad usi non edificatori (verde, tempo libero, ) delle aree poste lungo la direttrice tra il vecchio recinto in dismissione e le nuove polarità metropolitano-regionali, concentrando là le funzioni di ricerca, direzionalità innovativa e spettacoli sportivi e musicali di massa, che usufruirebbero degli adeguamenti infrastrutturali posti in atto per i nuovi insediamenti esterni di Fiera e di Expo 2015.

La Presidente del Milan, Barbara Berlusconi, recentemente ha manifestato il proposito di realizzare un nuovo stadio privato con capienza per 40.000 persone, proprio accanto alla sede sociale della squadra, nel bel mezzo del quartiere ex Fiera, già tormentato dalla realizzazione del progetto Citylife, con un milione di metri cubi accatastati nelle tre mega torri (da 180 230 metri di altezza) di Isozaki, Hadid e Libeskind.
Il sindaco Pisapia e la vice-sindaco e assessore all'urbanistica De Cesaris sembrano interessati a valutare la proposta, che vede coinvolti Fondazione Fiera, che metterebbe così a frutto l'area, demolendo parte dello "Steccone" di Mario Bellini improvvidamente realizzato a fine anni '80 e in disuso, Emirates Airlines che metterebbe i soldi come sponsorizzazione, e il Milan che metterebbe in scena le attrazioni calcistiche.

Federico Oliva, ex presidente dell'INU, si è dichiarato favorevole alla realizzazione dello stadio del Milan, perché costituirebbe "un elemento di centralizzazione in senso moderno con una
parte di negozi e spazi aperti al pubblico dove la gente può andare a trascorrere la giornata".

I comitati cittadini chiedono invece che il Comune si pronunci affinché il nuovo stadio venga realizzato sulle ampie aree del dopo Expo e che l'edificio di Fondazione Fiera in demolizione lasci spazio libero al quartiere per riequilibrare la sovrassaturazione causata da Citylife.
Senza uno strumento di indirizzo progettuale unitario oggi si rischia nuovamente di disperdere in una serie di localizzazioni a caso le potenzialità offerte dal nuovo polo fieristico, dal riuso dell'insediamento di Expo 2015 e dai connessi adeguamenti infrastrutturali in atto, che invece potrebbero concorrere alla costituzione di un vero e proprio nuovo Centro Direzionale metropolitano-regionale, a lungo invocato proprio lungo la direttrice di nord-ovest dai più consapevoli ragionamenti delle cultura urbanistica milanese (dal Piano AR del 1947 al Documento Direttore del PGT 2000 di Luigi Mazza).

Corriere fiorentino, 8 febbraio 2015

«Approvare il Piano Paesaggistico in tempi brevi». È il messaggio che Ilaria Borletti Buitoni (ex Scelta Civica, oggi Pd), sottosegretario del ministero dei Beni culturali e del turismo, con delega al paesaggio, lancia al Consiglio regionale chiamato, nelle prossime settimane, a licenziare il Pit. E avverte: «Nel caso vi sia una terza riscrittura il ministero potrebbe rispedirlo indietro senza approvazione».

Onorevole Borletti Buitoni, la giunta regionale ha inviato alle commissioni competenti un piano paesaggistico con meno vincoli. Che ne pensa? «Il Piano Paesaggistico della Toscana — che deve essere approvato con sollecitudine perché rappresenta uno strumento fondamentale per la gestione del territorio — è il frutto di compromessi che, comunque, garantiscono un certo principio di tutela al quale noi eravamo attaccati. La versione precedente ci era piaciuta di più, ma trattandosi di interessi conflittuali bisognava trovare un punto di sintesi. E, a nostro parere, l’attuale Pit lo ha trovato. Ma non sono compatibili le ulteriori richieste arrivate dalle categorie dei cavatori perché renderebbero la tutela di un’area importantissima, dal punto di vista paesaggistico, turistico e faunistico, assolutamente in pericolo».

Dunque, se il Consiglio regionale dovesse accogliere le nuove istanze dei cavatori il ministero potrebbe respingere l’approvazione del Piano?
«Sì, il rischio c’è. Il percorso fatto fino ad ora con la Regione Toscana è stato eccellente, di confronto, anche secco ma costruttivo, però in riferimento alle Apuane non siamo disposti a concedere altro: il Mibact non tollererà ulteriori allentamenti a un principio di tutela».

Qual è il giusto equilibrio tra tutela e sviluppo?
«L’equilibrio è difficile, ma posso sintetizzarlo con una partola: regole. Non si può lasciare campo libero all’iniziativa selvaggia. Quando parlo di regole, non mi riferisco a vincoli assurdi o a un appesantimento burocratico, ma a norme che definiscono con chiarezza i limiti, secondo principi di tutela che il nostro ministero deve far rispettare. Tutelare il paesaggio non è un interesse di parte ma collettivo».

Il Pit «atto secondo» raccomanda, per la Val d’Orcia, la tutela dei borghi, e definisce una «criticità» l’intensa diffusione dei vigneti. È d’accordo?
«Ci sono delle aree, mi riferisco alla Val d’Orcia, patrimonio dell’umanità come lo è il Colosseo. Quindi il danno che si può arrecare con una pianificazione non corretta rappresenta un danno di immagine per tutto il Paese. Sui vigneti, invece, credo si sia trovato un accordo accettabile sia dal punto di vista paesaggistico che per i produttori di vino».

Il governatore Enrico Rossi ha garantito che entro la fine della sua legislatura il Pit sarà approvato. Quale messaggio vuole lanciare?
«La Toscana è stata capace, più di altre regioni, di valorizzare il suo patrimonio artistico, storico e ora paesaggistico, cerchiamo di fare in fretta, non perdiamo ulteriore tempo. E sarete un esempio per tutti, come lo siete stati per la tutela dei beni culturali».

A proposito di beni culturali, a breve il ministero procederà alla nomina dei nuovi soprintendenti e dei manager che dovranno gestire i 20 «musei autonomi» italiani. Quali sono le novità?
«Le nomine dei dirigenti di prima e seconda fascia le stiamo affrontando in questo momento, e non sarebbe corretto anticipare notizia. La riforma del ministero completerà tutto il suo ciclo entro l’estate. Credo che nei prossimi 15 giorni arriveranno le nomine che riguardano le soprintendenze e le segreterie regionali. Per i 20 siti importanti, il quadro sarà completo per la fine di maggio».

«Chiunque potrà sapere cosa è pubblico e cosa non lo è, valutare come è utilizzato, a chi è affidato, come viene tenuto, con quale pubblico interesse (quanto vale) il patrimonio di Stato, Regione, Comune e altri enti pubblici sul territorio di Roma Capitale». Carteinregola, 5 febbraio 2015

E’ on line la “Carta della città pubblica”, le tavole in cui sono inserite tutte le aree e gli edifici pubblici sul territorio di Roma Capitale. Un obiettivo inserito dal Sindaco Marino nelle linee programmatiche per il mandato 2013-2018 «…avvieremo un censimento insieme ai Municipi di tutti gli immobili pubblici che possono contribuire alla rigenerazione urbana e su cui impegnare gli uffici nelle verifiche di fattibilità» più volte rilanciato dall’Assessore alla rigenerazione urbana Caudo. Adesso i risultati, presentati ufficialmente nel luglio scorso, vengono messi a disposizione di tutta la cittadinanza, segnando una pietra miliare non solo per la trasparenza, ma anche per la conoscenza dei cittadini del proprio territorio e delle scelte delle amministrazioni. Perchè la prima positiva conseguenza è che chiunque potrà sapere* cosa è pubblico e cosa non lo è, e fare una valutazione di come è utilizzato, a chi è affidato, come viene tenuto, con quale pubblico interesse (e anche quanto vale) il patrimonio dello Stato, della Regione, del Comune e di altri enti pubblici sul territorio di Roma Capitale. Una rivoluzione che Carteinregola intende valorizzare al massimo, per moltiplicarne le potenziali ricadute positive, invitando tutte le realtà territoriali ad accedere e a utilizzare i dati delle tavole. Dati che nessuno finora aveva avuto il coraggio di raccogliere e divulgare, per il solito “non disturbare il manovratore”, i cui deleteri effetti leggiamo quotidianamente sui giornali. Perchè lo diciamo ancora una volta: la trasparenza e l’informazione sono i primi anticorpi contro la corruzione e la mala amministrazione.

Per la prima volta Roma Capitale dispone di un censimento completo degli immobili e delle aree pubbliche, individuati e visualizzati su una mappa che comprende tutte le proprietà del Demanio, di Roma Capitale, della Regione Lazio, della Provincia e di tutti gli altri enti e soggetti pubblici titolari di immobili, che siano terreni o edifici.

La prima cosa che colpisce della Carta della Città Pubblica, è che tale patrimonio, calcolandolo sul totale del territorio comunale, corrisponde al 23,9% , di cui il 10,9% è proprietà di Roma Capitale: 14.090 ettari, a cui si sommano i 16 mila ettari degli altri soggetti pubblici, quasi un quarto del territorio comunale. La seconda è che i beni demaniali del Ministero della Difesa sono 110, con 1.800 ettari pari al 1,4% dell’intero territorio capitolino e una corrispondenza volumetrica di mc. 11mil.

Nel testo di presentazione della Carta, si legge che su questo patrimonio «sarà possibile programmare interventi di rigenerazione della città senza espropri o acquisti» e che «uno degli obiettivi del censimento, è utilizzare parte delle aree pubbliche dismesse o sottoutilizzate per creare occasioni di lavoro nel settore dell’agricoltura e per sviluppare nuove forme di gestione delle aree verdi». Noi finalmente avremo le informazioni che ci servono per completare alcuni progetti a cui da tempo lavoriamo: una mappa di “Villa Ada pubblica” (II Municipio) e il progetto di Zero Waste “Eco-parco a Roma”, per la realizzazione di 100 Centri di Raccolta di Quartiere con Centri di Riuso e decine di attività produttive. Ma il potenziale di utilizzo di uno strumento come questo è ampissimo: ad esempio potrebbe essere il punto di partenza per individuare in ogni quartiere spazi per realizzare le “Case dei Municipi”, anch’esse promesse dal programma del Sindaco, e a oggi non ancora messe in cantiere. Oltre, naturalmente, a individuare strutture per far fronte all’emergenza abitativa e per la creazione di start up.

* In attesa dell’aumento dei server necessari per la gestione dell’enorme mole di informazioni, la consultazione interattiva, con l’approfondimento dei dati dei singoli immobili/terreni, è possibile solo al terminale della Casa della Città, in via della Moletta 85 e – presso le sedi di alcuni ordini professionali.

Riferimenti
Qui il testo integrale del servizio di Carteinregola, corredato da documenti, note e immagini

Speriamo di vederlo presto ai fatti. La Repubblica online, blog "articolo 9", 4 febbraio 2015

Nel suo messaggio di insediamento, il presidente Mattarella ha solennemente abbracciato i principi su cui la Costituzione ha fondato la Repubblica. Il passaggio in cui questo abbraccio è stato più originale, direi personale, è stato proprio quello riservato all'articolo 9. Perché, arrivato a quel punto, Mattarella ha detto che «garantire la Costituzione significa» anche «amare i nostri tesori artistici e ambientali».

L'uso della parola «tesoro» potrebbe far pensare che anche il nuovo Capo dello Stato si allinei alla sciagurata dottrina del petrolio d'Italia, abbracciata dal suo immediato predecessore, che il 25 marzo del 2012 disse che «bisogna saper valorizzare, sfruttare fino in fondo la risorsa della cultura e del patrimonio storico-artistico».

Ma la scelta del verbo («amare»: per nulla ovvio e per nulla grigio) fa capire che il registro non è quello di Napolitano, ed è semmai profondamente assonante a quello di Carlo Azeglio Ciampi, che nel 2003 aveva invece detto che «la cultura e il patrimonio artistico devono essere gestiti bene perché siano effettivamente a disposizione di tutti, oggi e domani per tutte le generazioni. La doverosa economicità della gestione dei beni culturali, la sua efficienza, non sono l'obiettivo della promozione della cultura, ma un mezzo utile per la loro conservazione e diffusione. Lo ha detto chiaramente la Corte Costituzionale in una sentenza del 1986, quando ha indicato la "primarietà del valore estetico-culturale che non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici"».

Ora Mattarella torna a Ciampi, e con quell'«amare» scardina il discorso pubblico sul patrimonio culturale, inchiodato ad un registro puramente economicistico. Che presiedeva l'unico riferimento alla cultura di un altro recente discorso di insediamento, quello pronunciato al Senato della Repubblica il 24 febbraio 2014 dal presidente del Consiglio Matteo Renzi: «Quando dico che si mangia con la cultura dico che, allora, bisogna anche avere il coraggio di aprirsi agli investimenti privati nella cultura».

Ecco, Mattarella parla un'altra lingua, perché il sottotesto del suo «amare i nostri tesori artistici e ambientali» non è il basso continuo del denaro, ma è nientemeno che il Vangelo: «Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Matteo, 6, 21). È la stessa altezza della Costituzione, che dice che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio della Nazione» non per aumentare il Pil, ma per favorire «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3). Amare, conoscere, difendere: non sfruttare, mettere a reddito, noleggiare. Non si amano le cose morte: e l'ambiente e l'arte italiani sono vivissimi. Finché non siamo noi ad ucciderli.

C'è da sperare che, quando gli porteranno il prossimo Sblocca Italia da firmare, il presidente Mattarella sia fedele a questo altissimo passaggio del suo primo messaggio al Paese.

© 2025 Eddyburg