«I Giochi del 1960 furono una strepitosa occasione per gli interessi fondiari. Ancora stiamo pagando il lascito di quell’evento "sportivo". La prima cosa da fare è spezzare le connessioni tra l’amministrazione e quelli che chiamiamo poteri forti. In romanesco, i palazzinari». Il manifesto, 11 settembre 2016
Vezio De Lucia non è solo uno dei più grandi urbanisti italiani ma è anche la memoria storica di Roma, del suo territorio, della sua trasformazione sotto gli appetiti dei potenti, della sua anima.
Cosa pensa dell’attuale giunta capitolina, crede che Virginia Raggi sia nel posto giusto?
Intanto se c’è, è meglio che resista. Credo sia presto per dare un giudizio definitivo, mi pare che la stampa si stia scatenando contro al di là del dovuto. Certo però, dato che uno degli elementi che lo caratterizzavano era l’impegno prioritario alla trasparenza, ci si sarebbe aspettati dal M5S, soprattutto a Roma, l’adesione al precetto evangelico «Sì sì, no no, il resto viene dal maligno». E invece non è così purtroppo: non vediamo prese di posizione nette e coerenti rispetto agli impegni presi prima. Questa incertezza, questa ambiguità e reticenza legittimano chi osserva che il movimento sta andando verso l’equiparazione con gli altri partiti.
Sulle Olimpiadi invece sono stati coerenti.
E me ne compiaccio, aspettiamo però di vedere gli atti formali.
Ha dei dubbi sul No a Roma 2024 da parte della sindaca?
Nessun dubbio, ma credo che siano sottoposti a pressioni inaudite. Tutta la stampa italiana, tranne poche eccezioni, continua a ritenere che ci sia spazio per un cambiamento del progetto per la candidatura, ed è una posizione sostenuta anche da sinistra. Perfino dal mio amico Paolo Berdini.
D’altronde per il no alle Olimpiadi Stefano Fassina, candidato sindaco di Sinistra Italiana, si è avvalso della sua consulenza durante la campagna elettorale. Paolo Berdini sostiene però soprattutto che si possa tentare di sfruttare l’occasione per far finanziare le opere di cui la Capitale ha bisogno. Se è così è bene, afferma l’assessore all’Urbanistica, altrimenti niente Olimpiadi. Lei non crede che in questo senso potrebbero essere trasformate in un’opportunità?
No, forse è la prima volta da decenni che non sono d’accordo con Paolo. Per esempio quando il governo Monti rifiutò la candidatura di Roma 2020, lo fece per una serie di ragioni tuttora valide. A cominciare dall’onere troppo gravoso per lo Stato, perché financo Londra ha visto raddoppiare le spese preventivate. Eppure allora la scelta di Monti fu accettata pacificamente, senza contestazioni. Vorrei che il mio amico Berdini riflettesse su questo: allora le condizioni erano molto meno gravi di oggi e Roma era una città in cui ancora non si era scoperchiato il verminaio di Mafia capitale. Da allora il livello di corruzione è peggiorato, ed è un’illusione, date le condizioni penose in cui versa l’apparato amministrativo, pensare di poter ripristinare la normalità in poco tempo, senza prima recuperare una dimensione pubblica del governo. E con le Olimpiadi c’è il rischio che il livello di corruzione aumenti.
Non basta che il progetto preveda il controllo dell’Anac e della Corte dei conti?
No, non basta perché non abbiamo il controllo pieno della struttura amministrativa, è una struttura che dopo decenni di malapolitica, soprattutto nell’urbanistica, non si può considerare disponibile per un cambio di rotta radicale.
«Un enorme no che farà tremare i Palazzi», aveva annunciato Di Battista. Ma basta questo per creare un danno ai “poteri forti” che il M5S dice di voler combattere?
No, evidentemente. Ma prendiamo le Olimpiadi del 1960, presentate oggi con una retorica infinita come un evento di riferimento. Bene, quella fu proprio una strepitosa occasione per gli interessi fondiari. Per esempio, la via Olimpica, pensata per unire il Foro italico con i nuovi impianti dell’Eur, fu una sapientissima scelta per costruire una strada che valorizzava le enormi aree di proprietà della Chiesa e degli enti religiosi. E che finì per spostare nella parte opposta della città il baricentro di espansione previsto invece ad est, secondo il piano regolatore che si stava mettendo a punto proprio in quegli anni e che venne poi adottato nel 1962.
Veltroni sostiene invece che, tra tante magagne, quell’Olimpiade ha lasciato un lascito importante alla città.
Sì, la conferma dello strapotere della rendita fondiaria: questo mi sembra il lascito più importante. E che stiamo pagando ancora.
Quali opere considera prioritarie per Roma?
Non dico una cosa nuova: Roma ha un maledetto bisogno di cose ordinarie, lo straordinario è una scorciatoia. Ridare legittimità, funzionalità e trasparenza alla pubblica amministrazione è la prima e più grande opera da compiere. E poi i trasporti, che restano un nodo drammatico sul quale dopo Walter Tocci nessuno ha più lavorato. Per quanto mi riguarda le ragioni della linea C restano tutte in piedi. Se poi cerchiamo elementi di carattere simbolico, non posso che ricordare il progetto di Petroselli – sindaco citato da Raggi nel suo discorso di insediamento – che non è la «pedonalizzazione dei Fori» ma un modello culturale che cambia il rapporto tra centro e periferia, si riappropria della memoria storica di Roma, ed è un’opera che va dal Campidoglio fino all’Appia antica e ai Castelli romani.
Alcuni di questi progetti potevano essere finanziati dai Giochi?
A parte il fatto che questo progetto ancora non c’è, e i tempi sono ristrettissimi, rifiuto la concezione delle Olimpiadi come bancomat. Credo sia assolutamente illusorio e sbagliato rifugiarsi nell’ipotesi, a mio avviso del tutto infondata, che attraverso un’occasione straordinaria, funzionale a tutt’altri obiettivi, si possano risolvere le carenze accumulate in decenni. E non solo a Roma.
Dunque secondo lei nessuna città italiana sarebbe candidabile?
Rebus sic stantibus, no.
Non è l’ammissione di fallimento di un’intera nazione?
Siamo abbastanza vicini a una condizione di fallimento. Ovviamente mi riferisco alle grandi città, quelle che potrebbero accogliere i Giochi.
Lei è fortemente contrario anche alla realizzazione del nuovo stadio, perché?
È bene ricordare che non si tratta solo dello stadio ma di un nuovo centro direzionale. Sono contrario perché è un esempio clamoroso di urbanistica contrattata, cioè quella decisa da un privato e subita dal potere pubblico. Paolo Berdini è da sempre uno dei massimi esperti di questa piaga. Ecco, la prima cosa da fare è cominciare a spezzare le connessioni implicite o esplicite, legali o illegali, tra il potere amministrativo e quelli che chiamiamo «poteri forti». In modo più romanesco, i «palazzinari».
Poveri spazi pubblici di eccezionale bellezza: nelle mani dei barbari o dei Bulgari: forse se nelle case intorno ci fossero ancora abitanti, e non uffici, negozi e alberghi, e magari anche qualche sistema di vigilanza...La Repubblica, ed. Roma, 9 settembre 2016
«SONO molto preoccupato, abbiamo speso tanti soldi per riportarla al suo splendore e se non si mettono regole ben precise, Trinità dei Monti tornerà il bivacco di sempre. Tempo pochi mesi e sarà di nuovo in mano ai “barbari”. Paolo Bulgari, presidente della maison di gioielli famosa in tutto il mondo che ha finanziato i restauri di quei 135 gradini, ha le idee chiare. La Scalinata verrà inaugurata il 21 settembre, con tanto di concerto dell’orchestra di Santa Cecilia diretta da Antonio Pappano. Ma intanto è polemica su come proteggere quel capolavoro settecentesco progettato dell’architetto De Sanctis che è costato quasi un milione e mezzo di euro. C’è chi vorrebbe recintarlo e chi come il consigliere del I municipio Matteo Costantini chiede maggior sorveglianza con tanto di “ausiliari del decoro”. E chi come il sovrintendente dei Beni culturali, Claudio Parisi Presicce trova «improponibile chiudere la Scalinata. È piuttosto utile educare le persone al rispetto dei monumenti ». Paolo Bulgari è per la prima ipotesi: «Bisognerebbe trovare il modo di preservarla durante la notte. Perché sulla Scalinata è giusto camminare, è nata per questo e la passeggiata che si fa scendendo giù dal Pincio è meravigliosa, ma non si devono permettere i bivacchi - spiega - Non è un luogo per sedersi».
Figuriamoci per bere o per mangiare. Eppure nella fase di ripulitura, sul travertino si è trovato di tutto. «Le restauratrici che sono state bravissime continua - il presidente della casa di gioielli - hanno dovuto fare un lavoro immane. Sui gradini c’era spalmato di tutto. Dalle gomme da masticare alle macchie di caffè, vino e non voglio dilungarmi oltre sulle tante schifezze che hanno imbrattato il monumento ».
Ma il punto è un altro. «Vogliamo un turismo di qualità o di quantità?», si domanda Bulgari. «Perché se si punta al numero, vedo un futuro complicato per un Paese dove i monumenti sono preziosissimi e fragili. Certo, a Roma non si può immaginare l’ingresso a numero chiuso, come invece potrebbe fare con una certa semplicità Venezia. Ma mettere un cancello o una barriera in plaxiglass non mi sembra un’impresa impossibile. Anzi. E questo non vuol dire “ingabbiare la cul- tura”, bensì tutelarla.
D’accordo con il patron del marchio del lusso, anche alcuni commercianti della zona. Gianni Battistoni, dell’omonimo negozio in via Condotti, in primis. «La Scalinata è patrimonio dell’umanità, una barriera non invasiva, dopo una certa ora, sarebbe una buona soluzione», dice «non si può lasciarla in balia di gente che bivacca. Oramai da tempo è diventata il luogo d’incontro per i giovani stranieri. Non è un caso che i tifosi dell’Olanda, che un anno fa ridussero la Barcaccia di piazza di Spagna una discarica, si diedero appuntamento proprio li».
Assolutamente contrario alle barriere anche l’assessore ai Beni Culturali Luca Bergamo. «Non abbiamo intewnzione di porre nessuna cancellata - fa sapere - Sicuramente però aumenteremo i controlli e la sorveglianza per preservare il restauro appena terminato».
Finalmente la Sindaca di Roma rispetta la promessa e dice no alle Olimpiadi. Gli atleti troveranno altrove lo spazio per le loro performances: le Olimpiadi non sono forse "mondiali". Ma che cosa aspetta per cancellare anche la macchia di Tor di Valle? La Repubblica, 9 settembre 2016
I destini, il futuro e l’unità del Movimento 5 Stelle, nella bufera dopo gli inciampi di Virginia Raggi, passano tutti per un no secco alle Olimpiadi. Ieri, nel mezzo dell’ennesima giornata febbrile, dal Campidoglio è stata fatta filtrare alle agenzie di stampa la notizia che l’annuncio ufficiale, il ritiro della candidatura di Roma ai Giochi del 2024, arriverà nei prossimi giorni.
Non prima del 18 settembre, data in cui finiranno le Paralimpiadi in corso a Rio de Janeiro. Il gran rifiuto (secondo consecutivo, dopo che Mario Monti disse no alla candidatura di Roma per il 2020) dovrebbe arrivare in una conferenza stampa. Sarebbe la prima da quando la Raggi ha vinto trionfalmente le elezioni lo scorso 19 giugno. La location sarà un impianto sportivo non ultimato o un altro dei simboli delle emergenze quotidiane di una città, questa la tesi dei 5 Stelle, che ha bisogno subito di ordinaria amministrazione e non di grandi eventi.
Una “narrazione” che ricompatta il Movimento oggi in una fase di profonda lacerazione. Due giorni fa, dal palco di Nettuno, era stato Luigi Di Maio (l’esponente 5 Stelle definito «più dialogante » nei confronti dei Giochi) a chiudere definitivamente la porta: «Chi vuole le colate del cemento se ne deve andare. Ed è per questo che non accetteremo la logica delle Olimpiadi. Perché è una logica compensativa».
Per questo motivo ieri, dal Campidoglio, appena prima che scoppiasse il caso De Dominicis, è rimbalzata la notizia del “no”. «La giunta non cambia idea», è la linea che blocca così anche i rumors di una timida apertura ai Giochi da parte della sindaca e del suo vice, Daniele Frongia, assessore allo Sport che in questi mesi ha tenuto i contatti con il Coni. L’unico a parlare esplicitamente a favore della candidatura, dieci giorni fa, era stato l’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini, tecnico dalle solide radici nella sinistra, ormai sempre più in sofferenza in questi giorni di caos. «Se le Olimpiadi servono per realizzare le quattro linee di trasporto pubblico che inventeremo oppure la messa in sicurezza degli impianti sportivi che stanno andando a pezzi a Roma dico di sì», aveva detto. Berdini in queste ore si è chiuso in un silenzio più assoluto che lascia presagire, però, una presa di posizione forte. Le sue dimissioni sarebbero a un passo.
Il Coni, da parte sua, ritiene «impossibile» che il ritiro di Roma dalla corsa ai Giochi del 2024 arrivi prima di un incontro formale con i vertici del Comitato olimpico. Giovanni Malagò, numero uno dello sport in Italia non vuole perdere l’occasione per sottoporre alla sindaca il dossier che, in teoria, dovrebbe essere spedito al Cio entro il 7 ottobre, pena la decadenza della candidatura della capitale italiana. «La notizia è paradossale», dicono ancora dal Coni, convinti che la “tregua” durante le Paralimpiadi avrebbe retto. «Sarebbe un affronto agli atleti che stanno gareggiando a Rio». Quelli che invece hanno vinto una medaglia ai Giochi di agosto scrivono alla sindaca: «Dia impulso ai nostri sogni e sostenga la candidatura di Roma: gareggiamo insieme per conquistare una speranza». E mentre Malagò aspetta che il Campidoglio gli comunichi la data dell’incontro («già formalmente richiesto», dicono dal Coni), martedì 13 settembre, la Raggi è convocata in Senato, davanti alla Commissione sport per un’audizione. «Spero che la giunta della Capitale valuti bene la propria determinante posizione», dice il suo presidente, il Dem Andrea Marcucci. Ma la scelta in Campidoglio è stata fatta: tenere unito il Movimento e dire addio al sogno olimpico.
Riferimenti

Il documentario di Santoro mostra senza filtri una parte di città che nasce con il destino segnato. Ed è un problema non solo napoletano se vale ancora l'art. 3 della Costituzione. La Repubblica, 8 settembre 2016 (m.p.r.)
Robinù di Michele Santoro è il racconto di Napoli. Riduttivo chiamarlo documentario. È una prova. La prova che tutto quello che abbiamo detto in questi anni in molti non erano menzogne, apocalittiche esagerazioni. Non ci avete creduto? Ecco, prendetevi del tempo e guardate
Robinù. È stato presentato ieri sera alla mostra del Cinema di Venezia. Vedrete quella parte di Napoli di cui non si può parlare. Quella parte di Napoli che se la mostri stai diffamando, speculando, stai esagerando, mentendo.
Robinù è il racconto di Napoli attraverso voci che in genere non ci arrivano così, nitide, chiare, pulite, senza rumori di fondo. Senza quelle piene di empatia di chi aiuta, senza il cinismo e la precisione della cronaca, senza la severa irremovibilità delle forze dell’ordine, senza l’inadeguatezza e la connivenza della politica. Non sentiamo le domande in
Robinù e, quando smettiamo anche di immaginarle, tutto diventa un flusso di coscienza, uno sfogo limpido, comprensibile.
Sembra di entrare nella testa di chi a vent’anni ha già vissuto tutte le vite possibili, quelle accessibili per nascita e status. Sì perché una cosa dobbiamo metterla in chiaro, subito: la Napoli che ci mostra Michele Santoro non potrà mai essere diversa da se stessa, non potrà mai cambiare. I figli di quella Napoli hanno il destino già deciso, segnato. Le varianti sono naturalmente contemplate, ma resta lo specchio di un luogo in cui non esiste mobilità sociale, se vuoi diventare qualcosa di diverso devi andar via, emigrare, lontano più che puoi.
Se resti qui sei marchiato a vita, dal tuo nome e dal quartiere in cui sei nato. Tu non sei solo tu, tu sei la tua famiglia. Inutile girarci troppo intorno: se sei figlio del popolo resti popolo. Se vuoi soldi e potere, se vuoi una vita diversa dagli stenti e dai sacrifici dei tuoi genitori o impari a sparare, a farti notare per entrare nella paranza del tuo quartiere, o non hai speranza. Tu sei il tuo quartiere e lo devi difendere, proteggere, a tutti i costi.
Ma cosa significa esattamente difendere il quartiere? Significa difendere l’unica possibilità di lavoro, l’unica possibilità di fare soldi, significa pensare al proprio futuro. E se vi diranno: «Falso: con la buona volontà possono farcela», rispondete che non si tratta di buona o cattiva volontà, che non si tratta di riuscire o meno a superare un esame all’università, ma si tratta di non poter nemmeno contemplare l’università nel proprio orizzonte di vita.
Facciamo attenzione alle attitudini pietistiche e borghesi, o peggio inconsapevolmente aristocratiche di chi in fondo continua a campare ai piani alti dei palazzi nobiliari del centro storico non vedendo chi vive nei bassi. Possono farcela, possono migliorare le loro vite, basta che studino, basta che lo vogliano. Tutto molto bello, ma per desiderare e volere una cosa bisogna conoscerla. Sembra cinismo eppure è realismo: a Napoli, nei quartieri più difficili, non ci sono alternative alla strada. Nessuno offre alternative alla strada.
Emanuele Sibillo è diventato un’icona a Forcella: i protagonisti di Robinù parlano di lui come di un padrino amorevole che di tutti si prendeva cura. Portano il suo stesso taglio di capelli per omaggiarlo e la stessa barba lunga. Trattano la sua memoria come quella di un prete passato a miglior vita, in odore di santità. Parlano di lui come 40 anni fa parlavano di Padre Pio nel Beneventano: tutti giuravano di averlo conosciuto, di essere stati anche solo per una volta e anche solo per un momento oggetto della sua attenzione.
Con Emanuele Sibillo a Forcella accade esattamente la stessa cosa. Curriculum criminale eccellente: i Sibillo sono alleati dei Giuliano jr, la terza generazione dei capi di Forcella, con i Brunetti e con il gruppo Amirante. Nemici dei Mazzarella cui contendono il predominio sul centro storico: Tribunali, Forcella e la Maddalena. Emanuele Sibillo è stato ucciso a 19 anni. La morte lo ha reso eterno, non solo, ha ricompattato un quartiere che solo nominalmente è nella seconda municipalità di Napoli e che solo nominalmente riconosce come autorità cittadina quella del sindaco, ma che in realtà aveva un solo padrone, un solo mentore, una sola guida, nella cui memoria continua a vivere e a sognare un destino di emancipazione: Emanuele, appunto. Sì, ma di quale emancipazione si tratta?
Uscire dal ghetto non se ne parla proprio, renderlo piuttosto meno angusto, estenderne i confini. Avere la possibilità di spendere soldi, di spenderne di più. Controllare droga, estorsioni, prostituzione. Ed ecco dunque, se siete alla ricerca di una sostanziale differenza tra la vecchia e la nuova camorra, tra i consorzi criminali che conosciamo e le nuove paranze di ragazzini, la leggete proprio nel rapporto con il denaro. Non sono più spietati oggi. Non uccidono con più sangue freddo. Sono più folli, ma questo dipende dalla giovane età e da quella ferinità, dalla mancanza di limiti e di paura tipica dell’adolescenza.
Hanno invece un rapporto con il denaro che è adolescenziale: possederne per spenderlo, per ostentare. Non esistono progetti imprenditoriali, non esiste nulla che non sia il qui e ora. E questo rende le nuove paranze disordinate, evanescenti, fungine. Proprio come i pesci di paranza cadono nelle reti a decine e come i funghi a decine di nuovo sbucano. Invadono le vie della città, quelle centrali e quelle periferiche, imbracciano armi, sparano, spaventano, feriscono, uccidono. Sono per questo temuti e amati. Non hanno paura di niente e chi supera il limite, comanda. Se esagera viene fatto fuori.
E poi c’è lui: Michele Mazio. Lui che la prima rapina la fa a 13 anni («Più per scherzare»), lui che scrive una lettera nella quale dice di voler comandare solo lui, di volersi fare una paranza tutta sua. Lui che la chiamata dalla paranza l’aveva avuta, era stato accettato, era all’altezza, poteva entrare e invece l’ha rifiutata. Cane sciolto voleva restare. Lui che è bello e carismatico, lui che è folle e violento, lui che spara contro i poliziotti, bacia la pistola e poi va a festeggiare in un bar a cornetti e champagne. Lui che in carcere riceve lettere d’amore, da sconosciute.
E poi c’è Mariano, il primo volto che appare: «Oggigiorno comanda chi fa più reati. Più macelli fai, più la gente tiene paura di te». Mariano che dal carcere minorile di Airola, racconta come se tutto fosse necessario, la sua scelta criminale, la sua passione per il kalash (il kalashnikov). E proprio dal carcere di Airola, lunedì scorso è arrivato un segnale fortissimo dai clan: una rivolta iniziata per futili motivi è diventata l’occasione per mostrare chi comanda, di cosa si è capaci. Del limite che si deve e si può superare ogni volta. Si tratta di detenuti maggiorenni che hanno coinvolto i più giovani. Detenuti che potevano finire di scontare la propria pena ad Airola e che invece si sono voluti guadagnare il carcere “dei grandi”.
Il racconto di Michele Santoro è il racconto dei Robinù di Napoli, di chi pur agendo contro la legge, è protetto dal suo quartiere, dalla comunità in cui vive e su cui comanda; una comunità che solo in quel percorso si riconosce. Le paranze rubano per dare a loro. I miserabili solo loro che diventano piccola borghesia violenta in una terra (Napoli, Italia, Europa...) dove per guadagnare davvero devi sparare e giocarti la vita. Guadagnare al prezzo di crepare.
Il flusso di coscienza che ha letteralmente assorbito i protagonisti racconta un mondo che vede solo se stesso e per il quale solo incidentalmente noi esistiamo. Un mondo che non può non essere raccontato, ma che quando la si racconta piovono le accuse: Napoli diffamata, Napoli maltrattata, Napoli denigrata. Napoli raccontata a tinte fosche quando invece è sempre piena di sole. Napoli dove ci vive gente per bene e anche le loro vite vanno raccontate. Come far capire che le vite di chi si alza, fa colazione, accompagna i figli a scuola e va al lavoro, di chi fa la spesa, paga le bollette, porta i figli a calcetto, va in palestra, fa magari volontariato, non può essere materia di questo racconto? Come è possibile non capire che si raccontano le ferite e le malattie, non la salute e la prosperità?
Le voci delle donne raccontate da Santoro le ho lette nelle ordinanze di custodia cautelare, nelle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e ambientali:sono loro. Per conoscere Napoli non basta poter raccontare di aver sentito chiaramente lo sparo che ha ammazzato l’ultima vittima di Forcella o di essere passato un attimo dopo il raid davanti al bar dove c’è stata la sparatoria. Per raccontare Napoli bisogna trovare ogni volta una ferita, infilarci l’occhio, indagarla, slabbrarla, farla sanguinare. Per raccontare Napoli non servono le voci degli affiliati e poi, subito dopo, quelle delle forze dell’ordine che ci diano versioni uguali e contrarie che con il bene neutralizzino il male.
Per raccontare Napoli bisogna ascoltare il racconto della ragazza madre agli arresti domiciliari diventata spacciatrice per necessità. Per 35 euro al giorno. «Spacciatrici si nasce», dice e lei non è nata spacciatrice, lei lo fa per mantenere suo figlio. Questo racconto diffama Napoli? Esporta di Napoli e dell’Italia un’immagine che corrisponde solo in parte a verità? Vero, e allora cosa suggerite? Il silenzio? Il velo pietoso?
Il racconto di Santoro è il racconto della fine ed è una testimonianza che aderisce perfettamente alla realtà. È un racconto che aiuta a prendere coscienza. Vediamo Robinù, e poi quando ci diranno che il problema di Napoli è che ha la periferia, con tutte le sue criticità e contraddizioni, nel centro storico - intendendo dire che il centro storico a causa della presenza criminale non può essere il salotto buono della città - risponderemo che non ci interessano i salotti buoni, che non ci interessa il decoro urbano come prova di tufo e piperno del buon funzionamento di una città in cui non funziona niente. Diremo che a noi interessa la verità, che continueremo a cercarla, a raccontarla, ad ascoltarla.

«Interessi pubblici e poteri forti. Le Olimpiadi e lo stadio grandi occasioni? Non ci sono ancora le condizioni per piegare questi eventi a favore della città». il manifesto, 6 settembre 2016
Partiamo da un dato incontestabile: Roma è una città (pressoché) ingovernabile. Una governabilità apparente è possibile solo venendo a patti con i poteri forti: immobiliaristi, faccendieri, lobbies di vario tipo; ed è quello che ha sempre fatto il Pd, da Rutelli a Veltroni.
Questa apparente governabilità ha però un prezzo esoso: è costata un debito enorme, una espansione delle periferie ben oltre il raccordo anulare, un deficit accumulato dalle partecipate (Atac, Ama, ecc.). In una parola: una inefficienza della macchina urbana a livello di trasporti, raccolta dei rifiuti, asili nido, assistenza sanitaria, eccetera.
Chi invece, al governo della città, decidesse di rompere l’accordo con i poteri forti, o anche semplicemente stabilisse che quell’accordo dovrebbe volgere al beneficio pubblico e non a quello privato, si troverebbe ben presto in una situazione di totale isolamento politico ed economico; dunque in una situazione di ingovernabilità. Prima ce ne rendiamo conto, meglio è.
Stessa musica vale per le Olimpiadi e per il nuovo stadio della Roma. I sostenitori di questi eventi affermano che sarebbero due grandi occasioni per la città. Che consentirebbero di realizzare opere che migliorerebbero le condizioni di degrado in cui versa la città. In teoria potrebbe essere vero se però l’amministrazione, quale che sia, avesse la forza di imporre le sue condizioni ai poteri forti i quali, come si sa, sono disponibili a qualsiasi accordo (farebbero anche le olimpiadi verdi o low cost, come affermato da Cacciari) e con qualsiasi amministrazione. Dunque il vero dilemma è lo scontro tra interessi pubblici e interessi privati, scontro che si è sempre risolto, a Roma (salvo rare eccezioni), a favore dei secondi con enormi vantaggi a favore dei poteri forti ed effimeri benefici per la città.
Si dice ancora che ai tempi d’oggi e con il patto di stabilità, senza l’intervento dei privati non si va da nessuna parte. Ma si tace sugli effetti nefasti che, ogni volta, l’intervento dei privati ha prodotto. Lo abbiamo visto col terremoto di Amatrice: pazienza (per modo di dire) se sono venute giù case private che non rispondevano affatto alle normative antisismiche, ma che dire delle chiese, degli ospedali, delle scuole la cui progettazione e realizzazione è stata affidata ai privati, costruttori e immobiliaristi?
Costoro non si sono limitati ai “giusti” profitti: hanno compromesso territori e paesi speculando su cemento, ferro, suolo e quant’altro. Allora dire che questa volta le Olimpiadi saranno a beneficio della città significa non dire nulla di nuovo, vacuo slogan, propaganda; anzi significa imbrogliare le persone se l’amministrazione di turno non è capace di imporre le proprie condizioni a favore del pubblico. E opporsi a tali opere significa cadere nella trappola della ingovernabilità, avendo contro tutti i poteri forti.
Tertium non datur? No, finché non ci sarà una strategia politica che guardi lontano, ben oltre i conflitti condominiali dentro i partiti o i movimenti che siano. No, finché si produrranno dirigenti politici legati a correnti interne, fazioni, e non provenienti dal territorio, eletti in rappresentanza del territorio. E in questo senso il Pd di Renzi ha da tempo interrotto il rapporto con i territori che costituiva il punto di forza del vecchio Pci. E’ un partito della cooptazione che ruota intorno all’immagine del Capo.
Il Movimento dei 5S, dal canto suo, un legame coi territori ce l’ha, ma ha sopravvalutato se stesso e sottovalutato l’enorme potenza di fuoco dei poteri forti; ovvero, non mostra di avere una strategia politica che gli consenta di perseguire obiettivi a lungo termine e incapperà continuamente contro le insidie e le trappole predisposte dai poteri forti. A meno di non venire a patto con essi, il che, però, significherebbe depotenziare totalmente la propria originaria carica antagonista (antipolitica o meno che sia).
La verifica non si farà attendere: la questione romana è questione nazionale. Se il M5S deciderà per le Olimpiadi e per lo stadio della Roma (pur incensandolo di coloriture ecologiche o quant’altro), allora sarà stabilito definitivamente che a Roma governano i poteri forti e prevalgono gli interessi privati, senza se e senza ma. Rimandare la candidatura di Roma oltre il 2024, questa volta non significherebbe dare ragione al partito del No; significherebbe più semplicemente che allo stato attuale non ci sono ancora le condizioni per piegare questi eventi a favore dell’interesse pubblico. E chiunque affermi il contrario o pecca di ingenuità o nasconde interessi che poco hanno a che vedere col bene pubblico e con le stesse competizioni sportive.
Le due più importanti questioni urbanistiche all’attenzione della giunta capitolina riguardano le Olimpiadi del 2024 e il nuovo stadio della Roma a Tor di Valle. Su entrambe non è chiara ... (segue)
Le due più importanti questioni urbanistiche all’attenzione della giunta capitolina riguardano le Olimpiadi del 2024 e il nuovo stadio della Roma a Tor di Valle. Su entrambe non è chiara la posizione di Virginia Raggi e della sua giunta. Il problema delle Olimpiadi è noto ai lettori di eddyburg, basta rileggere i recenti articoli di Salvatore Settis e Tomaso Montanari e di Giovanni Caudo con postilla del direttore. Meno nota è la vicenda dello stadio, un clamoroso esempio di urbanistica contrattata, cioè di una trasformazione dell’assetto urbano, di rilevante impatto e in contrasto con il piano regolatore, proposta da un privato e accettata (o subita) dall’amministrazione comunale.
All’origine c’è la cosiddetta legge sugli stadi, che però non è una legge ma sono tre commi della legge di stabilità del 2014 (147/2013, cc 303, 304 e 305) inseriti all’ultimo momento, dopo un percorso lungo e controverso, grazie al tradizionale maxiemendamento governativo (governo Letta) e quindi approvata con voto di fiducia. Il comma 303 tratta di questioni finanziarie, il 304 prevede che il soggetto interessato, d’intesa con una o più società sportive, presenti un progetto preliminare che “non può prevedere altri tipi d’intervento, salvo quelli funzionali alla fruibilità dell’impianto e al raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell’iniziativa e concorrenti alla valorizzazione del territorio in termini sociali, occupazionali ed economici e comunque con esclusione della realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale”. Il Comune, se d’accordo, dichiara “il pubblico interesse della proposta”. L’approvazione definitiva spetta alla Regione Lazio a seguito di un’apposita conferenza dei servizi. Il comma 305 auspica che gli interventi siano realizzati mediante recupero di impianti esistenti o in aree già edificate.
Nel marzo 2014, tre mesi dopo l’approvazione della legge di stabilità, il presidente della Roma James Pallotta presenta il progetto del nuovo stadio a Tor di Valle, un’ansa del Tevere a Ovest dell’Eur, al posto dell’ippodromo costruito nel 1959 e dismesso nel 2013 proprio per la costruzione dello stadio. L’intervento dovrebbe essere realizzato dalla società Eurnova di proprietà dell’imprenditore Luca Parnasi proprietario anche dell’ex ippodromo. Su circa 90 ettari, che il piano regolatore destina a verde sportivo attrezzato (con un’edificabilità di circa 350 mila metri cubi), il progetto prevede due complessi immobiliari: quello destinato allo stadio (fino a 60 mila posti), impianti sportivi, spazi pubblici e attrezzature per il tempo libero; e quello formato da tre grattacieli alti fino a più di 200 metri e altri edifici destinati ad attività direzionali, ricettive e commerciali (non residenze, che la legge non permette).
Nell’insieme, circa un milione di metri cubi, pari a dieci hilton, l’unità di misura della speculazione edilizia inventata sessant’anni fa da Antonio Cederna quando denunciava lo scandalo dei 100 mila metri cubi del famigerato hotel Hilton realizzato a Monte Mario dalla Società generale immobiliare. Del milione di mc, quelli destinati allo stadio e ad attività connesse ammontano a circa il 20 per cento, il resto corrisponde agli interventi – privi di rapporto funzionale con lo stadio – previsti dal comma 304 per compensare il costo delle opere infrastrutturali necessarie per la fruibilità dell’impianto sportivo (che è comunque un’opera privata). Insomma, che vi piaccia o non vi piaccia, con il pretesto dello stadio si aggiunge alla capitale un nuovo centro direzionale, non lontano dall’Eur, per iniziativa di un privato costruttore. Tra l’altro, senza che nessuno abbia spiegato che fine fanno lo stadio Olimpico e il vecchio stadio Flaminio ormai abbandonato. Per non dire della difficoltà a negare lo stesso trattamento a un eventuale richiesta di altri costruttori apparentati alla squadra della Lazio o ad altre società sportive.
Riguardo all’accessibilità, accanto a interventi di riorganizzazione e potenziamento della rete stradale e a vaste superfici a parcheggio, il progetto prevede una diramazione della metro B dalla stazione Eur Magliana alla nuova stazione di Tor di Valle. Una soluzione improvvisata, non giustificata da un’adeguata pianificazione e con difficoltà tecniche che ne rendono improbabile la realizzazione. Previsto anche il potenziamento della ferrovia Roma Lido, di competenza regionale, che già dispone di una fermata a Tor di Valle.
Il 22 dicembre 2014 l’assemblea capitolina, con il voto favorevole della maggioranza che sostiene il sindaco Marino, delibera l’interesse pubblico dell’intervento - subordinatamente al rispetto di un certo numero di condizioni - fra le proteste del M5S, del comitato Salviamo Tor di Valle dal cemento e di altri. I mesi successivi sono quelli della crisi dell’amministrazione Marino brutalmente troncata dal Pd nel novembre 2015.
La campagna elettorale per l’elezione del sindaco nel giugno 2016 vede a favore del nuovo stadio il candidato sindaco Pd Roberto Giachetti e Alfio Marchini (Forza Italia). La candidata di Fratelli d’Italia e Nuovo centro destra Giorgia Meloni si rimette alle decisioni della Regione mentre sono contrari Stefano Fassina (Sinistra per Roma) e Virginia Raggi (M5S) che pensa di ritirare la delibera sul pubblico interesse dello stadio a Tor di Valle.
Ed eccoci ai giorni nostri. Nel giugno scorso Pallotta consegna a Comune e Regione il progetto definitivo. Ma la sindaca Raggi, invece di revocare come ci si aspettava la deliberazione di pubblico interesse, concorda con la Regione l’avvio della conferenza dei servizi, rischiando di restare intrappolata in un percorso imprevedibile. Chi scrive queste righe sperava che il conclamato impegno per la trasparenza del M5S somigliasse al precetto evangelico “il vostro parlare sia sì sì no no, il di più viene dal maligno”, e fosse così per le Olimpiadi, il nuovo stadio della Roma, gli avvisi di garanzia. Ma non è così.
». La Repubblica, 5 settembre 2016 (c.m.c.)
La forbice è ampia. Va dai 23 milioni 633 mila euro per la Scala ai 5 euro per il Real Albergo dei Poveri a Napoli. Sono le punte estreme del mecenatismo italiano, stando a uno degli indicatori, l’Art bonus voluto dal ministro Dario Franceschini, con i quali si misura la generosità peninsulare verso il patrimonio storico- artistico e le attività culturali.
È un mondo variegato, si presume vasto e polverizzato, ma ancora poco conosciuto, sebbene tutti lo diano in crescita, con cifre frammentarie, dove compaiono fondazioni bancarie, gruppi industriali e finanziari e poi professionisti, nobildonne e nobiluomini, fino a giungere al napoletano che, letta la richiesta del Comune di recuperare 3 milioni e mezzo per restaurare il capolavoro settecentesco di Ferdinando Fuga, ha scucito i 5 euro restando, a tutt’oggi, l’unico sottoscrittore della raccolta fondi.
Raccolta fondi che con l’Art bonus (deduzione fiscale fino al 65 per cento) ha cumulato 115 milioni versati da 3180 donatori. Il 45 per cento dei soldi è destinato a fondazioni lirico-sinfoniche, il 20 ai Comuni, il resto al patrimonio gestito dal Mibact o da concessionari. In assoluto un risultato accolto con favore: prima dell’entrata in vigore della nuova norma due anni fa, le donazioni si attestavano poco sopra i 20 milioni (diversamente regolate sono le sponsorizzazioni, che prevedono un contratto e un ritorno pubblicitario). «Il 60 per cento dei donatori sono persone fisiche », osserva Carolina Botti, direttore centrale di Ales, società del ministero per i Beni culturali che coordina l’Art bonus, «il resto sono imprese e fondazioni bancarie. A richiedere finanziamenti privati sono in prevalenza i Comuni».
Il mecenatismo diffuso non è una novità, ma caratterizza questi anni di penuria. Ne è afflitta l’Italia, ma non solo. «Il Metropolitan di New York ha licenziato il 5 per cento dei curator», ricorda Patrizia Asproni, presidente della fondazione Torino Musei e di Confculture, «in Gran Bretagna hanno chiuso 44 musei e 28 biblioteche ». In controtendenza vanno diversi privati, che prediligono un lussuoso fai-da-te. «In quattro anni hanno dato vita in Europa e negli Stati uniti a 100 musei», segnala Guido Guerzoni, professore alla Bocconi, «e anche in Italia grandi marchi come Prada o Trussardi s’impegnano sull’arte contemporanea».
Al primo posto fra chi riceve con l’Art bonus c’è la Scala, che ha chiesto 250 milioni ottenendone 23, seguita dal Museo Egizio di Torino, che ha programmato una spesa di 15 milioni coperta integralmente dalle donazioni. L’Art Bonus funziona così: un Comune o un ente di gestione pubblica sul sito un progetto di restauro o anche un piano di gestione e si mette in attesa. Molti sono però i progetti che attendono invano. Il Palazzo Te di Mantova dall’ottobre del 2015 aspetta qualche contributo a fronte di 800mila euro chiesti per il restauro di una facciata. Al momento non si è fatto avanti nessuno.
Il Museo Nazionale Archeologico di Ruvo di Puglia invoca invano donazioni per coprire una spesa di 17 mila euro, e il Comune di Napoli (di nuovo) spera di trovare chi lo aiuti a restaurare la guglia dell’Immacolata davanti a Santa Chiara, costo 1 milione e mezzo, ma finora deve accontentarsi di 50 euro. L’Art bonus, senza portarne responsabilità, fotografa il divario fra centro-nord e sud. La Lombardia propone 55 progetti e riceve contributi per 33 di essi. Il Molise ha due proposte e zero contributi, la Campania 29 richieste, 9 delle quali con scarse offerte. Così Basilicata (1 e 0), Calabria (7 e 1) e Sicilia (10 e 3).
Le stesse, vistose differenze caratterizzano la fonte più cospicua del mecenatismo italiano, quella delle fondazioni bancarie. Sono stati 280 nel 2015 i milioni provenienti da esse per musei, scavi archeologici e poi mostre e festival letterari, il 30 per cento degli oltre 900 milioni elargiti in totale (ma erano 531 nel 2008 su complessivi 1 miliardo 670 milioni). Ebbene questa pioggia di soldi benefica il Nord per il 70 per cento, il centro per il 22, il sud per il 6. Ma d’altronde imprese, banche e fondazioni risiedono in maggior numero sopra il Garigliano, a dispetto di un patrimonio distribuito su tutto il territorio nazionale. Un’altra realtà è quella degli Amici dei Musei, dagli Uffizi a Brera, passando per Capodimonte.
Sono associazioni no profit. Raccolgono contributi per restauri o acquisizioni. Ma più che finanziario, il loro mecenatismo è stato definito adozionale in un’indagine dell’università Federico II di Napoli e del centro studi Silvia Santagata-Ebla. Le 1.200 associazioni censite in Italia (su oltre 4.500 musei) promuovono visite, attività didattiche, supportano pubblicazioni e mostre. Cercano di stringere solidi legami fra un museo e il territorio che lo ospita. Le loro attività sono volontarie, sopperiscono ai pochi fondi pubblici in un settore che però fa uso massiccio e spesso mortificante di lavoro precario.
Il sistema è molto sviluppato in altri paesi. Gli Amici del Louvre sono nati a fine Ottocento e oggi contano 60mila iscritti . Grazie a loro sono state acquistate oltre 700 opere che hanno arricchito la collezione. Più recente (1968) è la nascita dei British Museum Friends, che coinvolgono 50mila persone. In Italia queste associazioni sono in gran parte, di nuovo, al centro-nord e in esse militano pochi giovani (appena l’11 per cento è sotto i 35 anni), mentre negli ultimi tempi è in questa fascia che crescono i visitatori dei musei. Maria Vittoria Colonna Rimbotti presiede gli Amici degli Uffizi.
Molte sono le acquisizioni dovute al loro contributo o anche i restauri, compreso quello dell’Adorazione dei magi di Leonardo. Finora le erogazioni raccolte si aggirano sui 5 milioni, serviti per riallestire sale o per rinnovare tendaggi. «Ci siamo sempre attenuti alle esigenze del museo, senza protagonismi», dice. L’Art bonus, che consente finanziamenti diretti ai musei, mette però in secondo piano la raccolta fondi. «Il provvedimento è utile, ma soprattutto interessante per i grandi gruppi industriali e ancora non va incontro ai donatori di più modeste possibilità», insiste Colonna Rimbotti.
D’accordo con lei è Asproni: «Non è stato un successo: per una donazione dovrebbe bastare un sms». E le stesse critiche avanza da Napoli Errico Di Lorenzo, presidente degli Amici di Capodimonte: «Qui i donatori sono pochissimi, occorrerebbe defiscalizzare le elargizioni verso associazioni come le nostre».
Le ragioni che sollecitano un gruppo di intellettuali a invitare la sindaca Raggi a ritirare il SI alla decisione, promossa da un consistente gruppo d'interessi economici, di organizzare a Roma le Olimpiadi . Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2016
È guardandosi intorno, percorrendo le strade della Capitale dal centro all’estrema periferia che si comprende come Roma non sia in grado di ospitare nessun grande evento, portando ancora le cicatrici delle precedenti manifestazioni e le ferite stratificate di decenni di inadeguata amministrazione ordinaria. Una città che non funziona per i suoi cittadini non funziona neanche per quelli che ci vengono per turismo, per lavoro, per studio, per investire. E neanche per gli atleti, per gli staff, per i giornalisti.
In una città economicamente fallita – con un debito storico che si aggira ora sui 14 miliardi, blindato nel 2008 e spalmato fino alle prossime generazioni – con una scia di opere incompiute – basti citare la Città dello sport a Tor Vergata, con due relitti che dovevano essere finiti per i Mondiali di nuoto del 2009–o che si sono dilatate oltre ogni pessimistico pronostico di tempi e di costi – come la Metro C, che da Pantano doveva arrivare a Piazzale Clodio nel 2016 e che ancora non arriva alle mura del centro storico – è difficile avere fiducia nei cronoprogrammi e nei piani economici delle grandi opere. E soprattutto è difficile non vedere le migliaia di interventi che dovrebbero essere messi in agenda per restituire ai romani una qualità della vita degna delle altre capitali europee. Ai quali si aggiungono, dopo il tragico campanello d’allarme dei giorni scorsi, tutti gli interventi necessari per garantire la sicurezza in una città a rischio sismico.
Perché Roma è una città con uno straordinario patrimonio storico e archeologico lasciato andare in rovina perché non ci sono (o non si trovano) i fondi necessari per curarlo; è una città in cui il verde pubblico è in totale abbandono, in cui non si sfalciano più le aiuole neanche in centro, neanche in prossimità di fiori all’occhiello come il MAXXI di Zaha Hadid e l’Auditorium di Renzo Piano; è una città in cui le strade e le piazze sono cosparse di immondizie, in cui i tavolini di bar e ristoranti occupano abusivamente e impunemente lo spazio pubblico, dove le strade sono piene di buche e i marciapiedi non sono sicuri per chi ci cammina. Roma è una città con tanti quartieri in cui neanche esistono i marciapiedi. Periferie nate dalla speculazione o dall’abusivismodoveladistanzafisicadalcentrocorrispondeaun’incolmabile distanza sociale. Centinaia di migliaia di persone che bruciano una parte consistente della loro vita bloccate nel traffico o aspettando mezzi pubblici scarsi, lenti e malfunzionanti; una città con alcuni quartieri che sembrano usciti dal dopoguerra, dove non ci sono macerie ma mancano strade, fognature, elettricità.
E Mafia Capitale, l’intreccio di corruzione svelato dalle indagini giudiziarie dalla fine del 2014, non è finita. I suoi echi rimbalzano ogni giorno sulle pagine dei giornali e nelle aule giudiziarie. Le regole continuano ad essere aggirate e infrante da tanti pezzi della pubblica amministrazione, della politica, del mondo imprenditoriale, da tanti cittadini. Il degrado che si è impadronito fisicamente delle strade e di ogni spazio pubblico ha intaccato anche le comunità, la solidarietà, la dignità individuale e collettiva. L’unica risposta che ha saputo dare questa città stremata è stata il voto compatto a un soggetto politico che non ha passato e cheha promesso cambiamento. Un cambiamento anche rispetto alle Olimpiadi, dicendo chiaramente che Roma ha altre priorità da affrontare, prima di imbarcarsi in avventure dall’esito e dai vantaggi incerti.
ROMA. È una città con ferite e cicatrici profonde, che non guariranno in otto anni. Non guariranno mai, se non saranno affrontate con la serietà e la responsabilità di chi mette al primo posto le persone e l’interesse collettivo. È perfino offensivo offrire ai cittadini di Roma quello che dovrebbero avere di diritto nella forma di un modesto vantaggio collaterale da ritagliare a margine di una manifestazione sportiva.
Qualunque decisore che abbia a cuore il futuro di Roma dovrebbe sentire il dovere di portare la Capitale d’Italia a quegli standard di legalità, rispetto delle regole, vivibilità, tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale che ormai sono stati raggiunti da città con storie ben più difficili della nostra.
Propagandare le Olimpiadi del 2024 come un’occasione di riscatto per la città ricorda le tristi scenografie di cartapesta con cui a Roma, in tempi poi non così lontani, si nascondevano le miserie dei quartieri più poveri.
Hannofirmato anche: Maria Pia Guermandi, Edoardo Salzano, Paolo Maddalena, AnnaMaria Bianchi, Enzo Scandurra, Alberto Magnaghi, Giorgio Nebbia, FrancescoIndovina, Piero Bevilacqua, Carlo Cellamare, Pancho Pardi, Maria Rosano, PaoloCacciari, Giuseppe Boatti, Maria Teresa Filieri, Alfredo Antonaros, GianGiacomo Migone, Jadranka Bentini, Michela Barzi, Giovanni Losavio, PaolaBonora, Mario Baccianini.

L'ex assessore all'urbanistica della giunta Marino precisa le condizioni alle quali darebbe oggi (come diede allora) il suo assenso alla proposta di giocare il megashow delle Olimpiadi 2024 a Roma. Il manifesto, 2 settembre 2016, con postilla
Roma è candidata alle Olimpiadi del 2024 dal 15 settembre del 2015 quando Ignazio Marino ha firmato la lettera di candidatura. la sindaca Virginia Raggi può dire no; farlo è semplice, deve inviare una lettera al CIO motivando il ritiro, l'ha fatto Amburgo, lo può fare Roma. Altre candidature non possono esserci. Il sindaco di Milano si è subito sottratto alle interessate strumentalizzazioni, altri, meno seri, no. Il gioco è spingere (costringere) la sindaca a dire pubblicamente sì. Al CIO conoscono le posizioni elettorali e una dichiarazione pubblica a favore è indispensabile per non indebolire la candidatura. Sarebbe bene sottrarre la città a questi "giochi": è una priorità.
La prima questione è il ruolo del Comune che dovrebbe essere centrale. Sul sito di Roma 2024 è invece relegato al ruolo di main partner, come l'Enel, l'Alitalia, l'Unicoop. Nel Comitato promotore di Paris 2024 la città figura tra i sod fondatori e il sindaco Anne Hidalgo ne è il volto. Il 7 ottobre è in calendario la terza consegna del Dossier, la seconda è stata lo scorso febbraio e la prima fu la lettera di candidatura. Scadenze note da tempo, routine di ogni città candidata. Il progetto per le Olimpiadi comincia dal sapere che uso si farà di tutto dò che si realizza subilo dopo che si è spenta la fiaccola olimpica. E' la legacy, il criterio chiave usato dal CIO per valutare i dossier. Nel luglio del 2015 al CIO di Losanna (presenti il sindaco e il sottosegretario De Vincenti) illustrammo un documento: «Roma Prossima, come sarà la città nei prossimi dieci anni». Il Dossier era inserito in un Progetto di città, «Roma 2025»; l'orizzonte programmatico per le scelte urbanistiche del sindaco Marino, il 2025, che comprende oltre al Giubileo la ricorrenza dei 150 anni di Roma Capitale d'Italia, nel 2021. Programmare, in modo che ogni "evento" fosse a sostegno del progetto di città e non la città a servizio degli eventi.
Il Dossier di Roma 2024 lo costruimmo su una doppia eredità, quella delle Olimpiadi del 1960 (da rimettere in gioco e per questo molto apprezzato dal CIO e quella del 2024, da programmare. Per quest'ultima le scelte poggiavano su due criteri: il lascito non devono essere "residenze" (tanto meno se in aggiunta a quelle previste dal piano regolatore) e, il secondo, un'opportunità per affrontare e risolvere questioni strategiche. La scelta, in modo quasi naturale, cadde sulla direttrice del Tevere, a nord della via Olimpica, quella compresa tra la via Flaminia e la via Salaria, suoli pubblici per realizzare il Parco Olimpico che dopo diventava un Parco Fluviale per tuta i romani di oltre 100 ettari, e consentiva di alleggerire il peso delle funzioni direzionali che affollano i quartieri Prati-Mazzini. La prevista chiusura dell'anello ferroviario (a Tor di Quinto) portava l'acceso diretto all'alta velocità. La trasformazione in metropolitana della linea Roma-Viterbo (oggi indecente) assicurava i collegamenti con il centro, a piazzale Flaminio, e con la linea A.
Il disegno urbanistico del Dossier era a sostegno dello sviluppo economico della città (e non il contrario). A nord il Parco Olimpico e gli uffici giudiziari, a est il comprensorio direzionale di Pietralata (Istat, la Sapienza...) direttamente accessibile dalla metro e dalla stazione dell'alta velocità di Tiburtina, (con la sede di Bnp Paribas), poi lungo la Colombo l'area attorno alla sede della Regione Lazio, l'Eur con il recupero delle Torri, e ancora il centro direzionale di Tor di Valle e da qui verso l'aeroporto. Solo funzioni direzionali che a Roma paradossalmente mancano, e senza consumare suolo.
Per gli impianti sportivi il Dossier era improntato alla stessa logica: recupero dell'esistente (Foro Italico e Flaminio), a Tor Vergata si completava la seconda vela per il Palasport mentre quella esistente diventava la Facoltà di Scienze di Tor Vergata. E poi l'Eur, il Palasport, la Fiera e soprattutto o l'incanto dell'area centrale, il Circo Massimo, il palazzo di via dei Cerchi (per il media center) e poi restituito all'uso museale, il Colosseo, le Terme di Caracalla. Un disegno urbano che coinvolgeva tutta la città. A un anno dalla riunione dell'11 settembre 2015 che ha sancito la fine di tutto, quella in cui Malagò e Montezemolo s'impuntarono sul villaggio degli atleti: «si può fare solo a Tor Vergata», «il lascito sono alloggi per studenti e per ospitare i parenti dei malati del policlinico», siamo ancora allo stesso punto, garantirsi che siano Olimpiadi per la città e non la città usata per le Olimpiadi di pochi. Dire sì non significa necessariamente cedere, se si recupera la centralità di Roma nel Progetto Olimpico e nel Dossier si può fare. Diversamente si dica no, non è difficile, basta una lettera.
postilla
Anche l'ex assessore Caudo condivide l'opinione del suo successore Berdini che i Grandi Eventi possano essere utili alla città: in particolare, a una città come Roma. Ribadiamo il nostro dissenso da questa opinione, per le stesse ragioni per cui abbiamo sempre criticato l'ideologia delle Grandi Opere. Tutto lascia credere che comunque, se si faranno le Olimpiadi a Roma, il disegno strategico sarà quello del potente comitato promotore, il quale non convinse il sindaco Marino a dare il suo si per beneficenza, ma in nome di corposi interessi immobiliari. Sulla strategia urbanistica alternativa a quella vigente, illustrata da Giovanni Caudo, e su alcune sue anticipazioni (come la vicenda di Tor di Valle), riprenderemo il discorso quando il turbine delle dichiarazioni sulle Olimpiadi e sulla posizione della sindaca Raggi si sarà placata.

Il Fatto Quotidiano, 2 settembre 2016 (p.d.)
Si è tuffato nell’estate del 2015 a Milano – non una gran piscina, in realtà, ma c’era l’Expo – e da allora chi l’ha più rivisto: di lui, a Paestum, è rimasto solo il disegnino sul logo del Parco archeologico. La Tomba del Tuffatore, attrazione principale del museo prospiciente i bellissimi templi greci, è assente da oltre un anno e non tornerà a “casa” almeno fino a ottobre: ingaggiato come guest star della mostra “Mito e Natura. Dalla Magna Grecia a Pompei”, il Tuffatore è stato esposto a Palazzo Reale di Milano fino a gennaio 2016, per poi essere trasferito, con il resto delle opere dell’allestimento, all’Archeologico di Napoli, dove rimarrà fino al 30 settembre.
A voler essere maligni e sbrigativi, il Tuffatore è passato direttamente dal supercommissario renziano di Expo, Beppe Sala, al superdirettore renziano del museo partenopeo, Paolo Giulierini, tra i venti nominati nell’agosto 2015 dal Mibact di Dario Franceschini: la sua fu una delle nomine più discusse poiché l’etruscologo fu celermente promosso dal piccolo Museo dell’Accademia Etrusca di Cortona all’immenso ginepraio dell’Archeologico.
Intanto a Paestum, col cerino in mano, è rimasto Gabriel Zuchtriegel, archeologo tedesco, il più giovane dei venti succitati direttori museali, in carica da un anno. Tuttavia, quando fu deciso e avviato il primo prestito (direzione Milano), nella primavera 2015, il sito cilentano era diretto da Marina Cipriani, che allora assicurò al Corriere del Mezzogiorno: “Il Museo non verrà “spogliato” della Tomba in quanto nei locali devono svolgersi quanto prima alcuni lavori di ristrutturazione e quindi comunque almeno per due-tre mesi il Tuffatore non sarebbe stato visitabile. Traslocarlo a Milano significa richiamare sull’opera tutta l’attenzione che merita”.
Orbene, la sala “Mario Napoli” (dal nome dell’archeologo che scoprì la tomba nel 1968, a due chilometri a sud di Paestum), che ospitava l’opera, è ancora in restauro: i lavori sono stati affidati il 19 maggio e partiti il 23, con consegna prevista entro 60 giorni, ma a oggi la stanza è ancora inagibile e lo sarà fino al ritorno del Tuffatore. I tempi si sono, insomma, raddoppiati, e la beffa è che è sotto gli occhi di tutti, a differenza di altri cartelli informativi illeggibili e di schermi interattivi guasti, posti a mo’ di didascalia accanto a opere e monumenti: fuori dalla sala Napoli, viceversa, un orrendo tendaggio bianco spiega ai turisti modi, tempi e dettagli del restauro, ovviamente disattesi. Ma per fortuna i visitatori sono soprattutto stranieri e il cartello è in italiano.
Dal museo, intanto, fanno sapere che “i lavori saranno ultimati e la sala pronta per il rientro del Tuffatore a Paestum”, quindi tra un mese, si spera. Dacché è stata scoperta quasi 50 anni fa, la Tomba è stata spostata solo un’altra volta, nel 1996, a Palazzo Grassi a Venezia per una mostra su “I Greci in Occidente”: allora il trasloco durò solo qualche mese, da marzo a dicembre, e il ministero si spese per non lasciare a bocca asciutta Paestum e altri musei privati temporaneamente delle proprie opere, organizzando, in contemporanea ai prestiti, “esposizioni su temi complementari nei siti originari della Magna Grecia”.
Col tempo, evidentemente, anche i soggiorni fuoriporta delle opere si sono allungati: ad esempio, la statua marmorea di Hera, rinvenuta nell’
Heraion (Santuario di Hera, “attualmente chiuso, ci scusiamo per il disagio”, dal sito online del Parco), è volata in Cina qualche mese fa e lì rimarrà fino a novembre 2017. E pensare che il museo era nato nel 1952 proprio per esporre metope e materiali provenienti dagli scavi dell’
Heraion, materiali ancora oggi in mostra, spesso al buio.
Della capitale importanza dell’antica Poseidonia e dei suoi reperti si accorse subito l’archeologo Napoli, che definì la Tomba del Tuffatore “il più sconvolgente rinvenimento archeologico da moltissimi anni a questa parte... Sollevata la lastra di copertura, ecco apparire la tomba completamente affrescata, non solo nelle pareti interne delle quattro lastre formanti la cassa, ma anche, e questa è una strana novità, all’interno della copertura”. Il Tuffatore, che dà il nome all’intera tomba, è raffigurato proprio su quella lastra di copertura e circondato da scene di simposi e amoreggiamenti vari, classico esempio di “ironia tragica” degli antichi. Quanto all’“ironia tragica” dei moderni, basta recarsi al Museo Archeologico partenopeo: il mare non bagna Napoli, ma il Tuffatore ci si è buttato lo stesso.

«Paralisi 5 Stelle. Movimento diviso sul da farsi nella Capitale. Mezzo sì anche sul nuovo stadio della Roma. E la Regione chiede chiarimenti. Mentre la sindaca Raggi tace». Il manifesto, 31 agosto 2016, con postilla
«Ora i 5 Stelle devono decidere cosa vogliono fare da grandi», sospira uno dei tecnici indipendenti che segue da mesi il doppio dossier Olimpiadi e nuovo stadio della Roma.
Perché su entrambi i fronti i nodi stanno arrivando al pettine e sotto la superficie del movimento più di qualcosa si sta muovendo. Lo testimoniano le chiari aperture dell’assessore all’urbanistica di Roma capitale Paolo Berdini ieri in tv ad Agorà: «Se le Olimpiadi servono per fare quattro linee della metro o la messa in sicurezza degli impianti sportivi che stanno andando a pezzi a Roma dico di sì, entro dieci giorni decideremo».
Anche sul mega stadio americano della squadra di Pallotta il comune ieri ha inviato sul filo di lana le carte alla Regione Lazio (un atto dovuto) ma lo ha fatto in modo incompleto, senza il parere di conformità che avrebbe invece sciolto definitivamente la matassa. La giunta, infatti, prende tempo, come ha ammesso la sindaca Virginia Raggi alla festa del Fatto domenica scorsa.
Perché il nodo è politico, tutto interno al movimento e tra il movimento e il Pd, ma investe soprattutto il futuro della Capitale e di milioni di abitanti.
«Forse la partita si è riaperta», sussurrano al Coni con un tasso di ottimismo per ora non suffragato da nessun atto concreto della giunta pentastellata.
La verità è che sulle Olimpiadi, soprattutto, si consuma la partita tra Di Maio e Di Battista per la guida del movimento. I 5 Stelle, come detto in campagna elettorale, sono contrari. E Di Battista non perde occasione a livello locale per tenere fede a questo impegno.
Ma Di Maio, che è lo sfidante in pectore di Renzi, non può bocciare le Olimpiadi senza una buona ragione, una causa inoppugnabile e comprensibile anche a chi non fa parte dei meetup grillini e potrebbe votarlo a Palazzo Chigi.
Il problema è che per ora questo motivo non è chiaro, anzi, Malagò e Montezemolo hanno offerto alla nuova giunta campo libero: anticorruzione, scelta delle aree, letteralmente di tutto purché Raggi firmi il progetto definitivo da consegnare al Cio entro il prossimo 7 ottobre. Al Coni giurano che nei prossimi giorni questa carta già bianca diventerà bianchissima. Non a caso Berdini, prudentemente, aspettando le decisioni della sindaca, prova ad andare a vedere le carte nella conferenza dei servizi.
Perché la realtà è semplice: il comune di Roma, con Marino, ha già detto sì sia alle Olimpiadi che allo stadio della Roma. Perciò Raggi o revoca quelle scelte andando in consiglio (ma in questo modo attaccherebbe a Di Maio l’etichetta del signornò), come ha fatto la città di Amburgo limpidamente, o lavora duro sui dossier e dà i pareri necessari.
Dal punto di vista tecnico, infatti, le questioni da risolvere non mancano, se solo si volesse affrontarle.
Per le Olimpiadi gli ambientalisti hanno individuato 3 punti critici: il bacino remiero (un parco fluviale da 2 km da scavare sul Tevere), il centro media a Saxa Rubra e, soprattutto, la questione Tor Vergata, una zona vasta in cui vivono 500mila persone, che si può tradurre anche come «questione Caltagirone» (che è anche editore del Messaggero).
In quest’area, secondo il Coni e il comune targato Marino, dovrebbe stare il villaggio olimpico, che dopo il 2024 potrebbe diventare il campus universitario della capitale.
Il problema è che nel lontano 1987 tutti quei terreni erano di Caltagirone, che li trasferì all’università di Tor Vergata a condizione che la sua Vianini Costruzioni avesse gli appalti edili e di manutenzione nel futuro. Sono ancora validi quegli accordi? Se è così, significherebbe affidare i lavori delle Olimpiadi chiavi in mano a Caltagirone, ed è contro le norme europee. Se non è così allora di chi sono quelle aree? E’ pane per i denti di un’amministrazione comunale, che ancora oggi (ma neanche con Marino) ha detto una volta per tutte di chi e che cosa sono veramente quelle aree strategiche.
Idem sullo stadio romanista. Con Marino, il comune condizionò l’ok alla cura del ferro: o prolungamento della metro B o più treni sulla Roma-Lido. È una scelta che spetta al comune. E che la regione, guidata dal pd Zingaretti, sicuramente pretende oggi prima di dare il proprio via libera. Per i 5 stelle rovesciare il tavolo e dire di no a entrambi i progetti sembra arduo, anche per il rischio contenzioso con la stessa As Roma e il rischio finanziamenti dal governo in vista del primo bilancio della città a novembre.
postilla
Governare significa scegliere. Compito abbastanza facile quando la decisione riguarda progetti e risorse propri, più difficile quando i progetti e le risorse vengono da fuori, come nel caso delle olimpiadi romane. E nella logica delle politiche tradizionali (quelle caratterizzate dalla visuale corta e dell'attenzioni spasmodicamente rivolta al prossimo risultato elettorale) è molto più facile dire si (a Roma si direbbe "abbozzare") che dire no, anche quando si sa che la saggezza imporrebbe di dire un sonoro NO.
Non meravigliano quindi le esitazioni e i passetti da balletto di Raggi e di Berdini. Testimoniano quanto sia difficile cambiare rispetto al vecchio modo di fare politica: accorciano la distanza tra il modo in cui si poteva pensare che governasse il M5S e quello in cui governa il PD di Renzi.
Ciò che invece stupisce è che ancora vi sia chi crede, o mostra di credere, che i grandi eventi spettacolari costituiscano una occasione e una risorsa. E' un errore identico a quello che compie chi affida le sorti alle Grandi opere. Le Grandi opere e i grandi eventi potrebbero, forse, avere utilità laddove vi fosse un'elevata capacità, maturità, autorevolezza della rappresentanza politica e, soprattutto, una macchina amministrativa (la cosiddetta "burocrazia") competente, interamente volta al rispetto delle regole e all'interesse generale, rodate da una lunga esperienza e tale da aver meritato la fiducia degli amministrati). A Roma, e forse in tutt'Italia, siamo ben lontani dall'aver raggiunto queste condizioni: da almeno un quarto di secolo si sta lavorando nella direzione opposta.
». La Repubblica, 28 agosto 2016 (c.m.c.)
«Qui tutte le chiese sono piene di sordide, maledette e menzognere immagini, ma tutti le venerano. Perciò le sto distruggendo una per una da solo, con le mie mani, per combattere la superstizione e l’eresia». La scena è Torino, e chi parla non è un estremista islamico ma Claudio, irriducibile campione di un’iconoclastia militante, che di Torino fu vescovo per dodici anni (dall’816 all’828).
Secondo il suo contemporaneo Giona di Orléans, Claudio, «acceso da zelo sconfinato e senza freni, devastò e abbatté in tutte le chiese della diocesi non solo i dipinti di storia sacra, ma perfino tutte le croci», deridendo gli avversari: «Cristo fu sulla croce per sei ore, e dobbiamo venerare tutte le croci? Non dovremmo allora venerare anche le mangiatoie, dato che fu in una mangiatoia, le barche perché in barca fu spesso, gli asini perché su un asino entrò a Gerusalemme, i rovi perché di rovo era la corona di spine, le lance perché una lancia gli fu confitta nel costato?»
Troppo spesso consideriamo l’iconoclastia un corpo estraneo rispetto alla cultura “occidentale”, attribuendola in esclusiva all’Islam, o semmai a una fase della storia religiosa di Bisanzio. Ma non meno spietata, e più vicina a noi, fu l’iconoclastia protestante, lanciata a Zurigo nel 1523 e poi diffusa in tutti i Paesi a nord delle Alpi. Al British Iconoclasm la Tate Gallery dedicò nel 2013 una mostra importante, e con egual forza il fanatismo di Claudio di Torino ci obbliga a guardare anche l’iconoclasta che è in noi. Eppure, da Bamiyan a Timbuctu, l’iconoclastia vista dall’Europa sembra dover portare un solo marchio di fabbrica, quello dell’Islam.
Gli stessi autori di queste devastazioni fanno di tutto per accreditare la radice teologico- religiosa della loro furia demolitrice, presentata come ossequio ai precetti del Corano. Se accettiamo questa versione dei fatti, la conseguenza è uno scontro di civiltà, in cui chiunque contrasti le distruzioni — anche se rigorosamente ateo — viene bollato come “crociato”.
Il solo antidoto a questo veleno è riconoscere e denunciare la natura strettamente politica dell’iconoclastia del nostro tempo. Ma anche la radice, egualmente politica, della tutela della memoria culturale. Ricordiamo: la distruzione dei giganteschi Buddha gemelli di Bamiyan (12 marzo 2001) anticipò di nove mesi esatti l’abbattimento delle Torri gemelle di New York (11 settembre), come se il secondo evento, con le sue vittime umane e la sua spettacolarità ineguagliata, fosse già in gestazione nel primo.
In ambo i casi, centro generatore dell’azione devastatrice non fu una statua o un grattacielo, ma la scena, o meglio lo spettacolo, della distruzione. Le Twin Towers furono abbattute nella certezza che l’evento sarebbe stato ripreso sull’istante dalle televisioni, e che il mondo si sarebbe fermato a guardare. A Bamiyan, a Mosul, a Palmira sono stati gli stessi distruttori a documentare se stessi, in un’orgia di selfie fotografici e cinematografici, da diffondersi poi in tutto il mondo.
Adepti più o meno consapevoli della “società dello spettacolo” profetizzata da Guy Debord (1967), questi nemici delle immagini le annientano sì, ma allo scopo di produrre nuove immagini, quelle della loro distruzione. Creano e diffondono accanitamente una neo-idolatria, una iconizzazione di sé che richiede l’intenso uso dei media: 45mila accounts Twitter di militanti Is secondo Stern e Berger ( ISIS: the State of Terror, 2015). Il loro è calcolo politico, esattamente come quando si abbatterono le statue di Mussolini o di Stalin: chi atterra le immagini vuol farsi vedere mentre lo fa perché mostra i muscoli, trasmette un messaggio di intransigenza e di forza ostinate, spedito al mondo da un palcoscenico creato
ad hoc. Eppure, fra chi elogiò i primi tentativi di distruggere i Buddha di Bamiyan nel Settecento si conta Goethe: l’insofferenza protestante per le immagini di culto s’incontrava in lui con l’iconofobia ricorrente nella cultura islamica.
Ma c’è oggi un’altra iconoclastia, che non ha religione né confini. Non ostenta se stessa, ma nemmeno si nasconde, perché conta su una naturale complicità “globale”. Alla Mecca vige il divieto di ingresso ai non mussulmani, ma negli ultimi anni la città si è trasformata in una vera e propria Las Vegas saudita (lo scrive Ziauddin Sardar, Mecca. The Sacred City, 2015). Il re porta il titolo di “Custode delle Sacre Moschee”, ma lo interpreta promuovendo la distruzione sistematica di preziosi edifici storici in favore di centri commerciali. Per citare solo qualche esempio fra tanti, è stata abbattuta la moschea di Bilal, del tempo di Maometto; la gigantesca fortezza ottomana di Aiyad (sec. XVIII) è stata rasa al suolo nel 2002 e sostituita dal Mecca Royal Clock Tower, un complesso alberghiero di lusso con al centro un grattacielo alto 601 metri, copia ingigantita del Big Ben, che ormai sovrasta i luoghi più sacri dell’Islam.
Cambiamo scenario: a Mosca si è combattuto duramente fra chi voleva salvaguardare Dom Stroyburo, edificio- simbolo del costruttivismo russo, opera di Arkady Langman (1928), e chi voleva distruggerlo per una speculazione edilizia. Nonostante fosse sottoposto a tutela architettonica, l’edificio è stato abbattuto illegalmente di notte nel marzo 2015, a quel che pare da membri della mafia locale, che durante la demolizione urlavano derisoriamente “Allah è grande!”. L’invocazione religiosa degli estremisti islamici diventava così un blasfemo sberleffo di criminali comuni, in una capitale europea.
Una stessa iconoclastia, in nome del mercato, è all’opera alla Mecca e a Mosca, ma anche intorno a noi. È il degrado che colpisce il patrimonio culturale, l’invasione dei paesaggi svenduti alla speculazione edilizia, l’inquinamento dell’ambiente, l’abbandono di chiese e monumenti storici, l’installarsi di malsane discariche anche nelle più preziose aree agricole, la colpevole retorica di uno “sviluppo” che calpesta la storia in nome dell’economia, la monocultura del turismo che svuota le città, l’esilio della cultura ai margini della società.
La nostra sensibilità collettiva si accende di indignazione davanti ad efferate distruzioni di beni monumentali, ma non quando devastazioni di eguale violenza vengono compiute da noi stessi, contro la dignità e la vita stessa dei cittadini. Questo non si chiama “terrorismo”, ma produce effetti non meno devastanti. Perciò è importante ricordare a noi stessi che la tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio culturale ha una radice squisitamente politica. Si collega (lo dice la Costituzione) all’orizzonte dei nostri diritti. È il sale della democrazia. Anche davanti a distruzioni severe e incontrollabili (una guerra, un terremoto) è dalla capacità di salvare e ricostruire il patrimonio monumentale che si misura la forza, o la debolezza, di un Paese. Le promesse fatte dal governo in questi giorni vanno nella direzione giusta: speriamo di poterne confermare il giudizio da qui a un anno.

New York Times” indaga successi e fallimenti dei responsabili venuti dall’estero alle prese con il sistema Italia». La Repubblica, 18 agosto 2016 (c.m.c.)
Compie un anno quel pezzo di riforma dei Beni culturali che ha portato l’autonomia e nuovi direttori in venti fra musei e siti archeologici italiani. In realtà i direttori si sono insediati fra l’autunno e la fine del 2015, ma è stato nella calura dell’agosto scorso che essi sono stati designati dopo una selezione pubblica. Venti nuovi direttori, sette dei quali stranieri. Un anno di piccole e grandi rivoluzioni, ma anche di critiche serrate e di polemiche. L’anniversario rimbalza negli Stati Uniti, dove il New York Times dedica un lungo reportage alla vicenda. Che mette in evidenza luci e ombre, cambiamenti e resistenze e che si chiude con il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, il quale, sorridendo, esclama: «Mi hanno messo a fare un lavoro sporco (dirty work), sarebbe meglio che non mi abbandonassero proprio ora».
C’è alle viste il pericolo di lasciare a se stessi storici dell’arte, curatori e archeologi venuti dall’estero per occuparsi di parti pregiate del nostro patrimonio? E ciò andando incontro a uno smacco internazionale di proporzioni poco immaginabili? Ancora è presto per affermarlo. Inoltre i segnali che arrivano dai diversi direttori non lasciano intravedere nubi. Ma le difficoltà che essi incontrano sono quelle che da tempo vengono denunciate: organici carenti, personale molto anziano (oltre il 50 per cento ha più di sessant’anni e fra non molto andrà in pensione), strutture al collasso, leggi farraginose, pastoie burocratiche.
I venti nuovi direttori sono solo la parte più appariscente della riforma voluta dal ministro Dario Franceschini (e tanto più lo sono i direttori stranieri, fra i quali, oltre a Schmidt, figurano James Bradburne a Brera, Sylvain Bellenger a Capodimonte o Gabriel Zuchtriegel a Paestum). L’obiettivo principale è l’autonomia gestionale e finanziaria dei musei, prima agganciati alle soprintendenze, dalle quali provenivano i direttori.
La scelta è stata netta e su di essa si sono concentrate le accuse: si è voluto smantellare un sistema durato per tutto il Novecento, fondato su un legame stretto fra tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Bilanci di quanto questa frattura abbia prodotto in positivo o in negativo è ancora difficile poterli tracciare. C’è chi sottolinea una spiccata agilità nel prendere decisioni, nell’avviare innovazioni. Chi invece lamenta il rischio di conflitti: la tutela dei beni esposti nei musei resta, ed è naturale, di competenza dei soprintendenti. C’è chi rileva il dinamismo dei nuovi direttori (dove più dove meno), chi segnala che le questioni strutturali restano inevase. C’è chi plaude ai cambiamenti, chi lamenta che negli anni i tanti cambiamenti imposti a una struttura fragilissima sono come un perenne sciame sismico.
Il New York Times mette in evidenza lo scarto fra le iniziative dei direttori e il contesto. L’episodio dal quale parte l’autrice, Rachel Donadio, è noto: la multa affibbiata nel maggio scorso dai vigili urbani di Firenze a Schmidt pescato perché da un altoparlante invitava i visitatori in fila davanti agli Uffizi a fare attenzione a borseggiatori e bagarini. Non aveva l’autorizzazione: 422 euro di sanzione, pagati da Schmidt di tasca propria. Il giornale americano enumera gli sforzi dello storico dell’arte tedesco – l’abbattimento delle file di visitatori, l’ampliamento della galleria, la riorganizzazione dell’amministrazione e dei servizi di custodia, l’apertura del Corridoio Vasariano – e li mette alla prova di resistenze burocratiche, di norme contraddittorie. «È come giocare una partita multipla di scacchi», commenta il direttore.
La riforma, intanto, procede. Ai musei vengono attribuiti fondi speciali per realizzare progetti da tempo in cantiere. E si sono appena chiusi i bandi per selezionare i direttori di altri nove fra musei e siti archeologici o monumentali, mentre il 15 settembre terminerà quello per il Museo Nazionale Romano, che prima era stato destinato all’autonomia, poi era tornato fra le strutture dirette da personale della soprintendenza, quindi di nuovo reso autonomo: una giravolta non inedita dalle parti del Mibact. Fra gli altri siti, per i quali sono arrivate circa 400 domande, figurano Ercolano, la Pilotta a Parma, il Castello di Miramare a Trieste, Villa Adriana e Villa d’Este a Tivoli. A Roma sono compresi i musei dell’Eur e il museo etrusco di Villa Giulia e gli scavi archeologici di Ostia Antica.
Ecco infine due “parchi archeologici”, tutti da inventare: quello dei Campi Flegrei, a nord di Napoli, e soprattutto l’Appia Antica, che non è un’area a pagamento, essendo un pezzo di città che si spinge verso i Castelli romani, in larghissima parte in mano a privati. L’Appia Antica è stata retta per vent’anni da Rita Paris, con energia e dedizione universalmente riconosciute. Ha avuto sempre a disposizione mezzi scarsi e con questi ha compiuto salti mortali. Chissà se con strutture e strumenti adeguati la condizione dell’Appia sarebbe migliorata. Ma al ministero si è deciso di cambiare tutto.
La Repubblica, ed. Firenze, 17 agosto 2016
UN ‘effetto Torino’: quello per cui Piero Fassino ha perso le elezioni pur essendo convinto (in parte non a torto) di aver ‘governato bene’. È quello che rischia Enrico Rossi: almeno a giudicare dalle sue reazioni alla sentenza del Tar toscano sull’ampliamento dell’aeroporto di Firenze.
Proverò a dar conto del sentimento che queste reazioni suscitano in un cittadino che non abbia una posizione definita sulla materia del contendere. Un cittadino, dunque, diverso da me: sono sempre stato contrario a quell’ampliamento, convinto che l’unica scelta sensata sarebbe stata fare del Galilei di Pisa l’aeroporto (anche) di Firenze, con una navetta su monorotaia che lo collegasse in trenta minuti a Santa Maria Novella.
Ma non è di questo che ora si parla. La sentenza del Tar non riguarda, ovviamente, la decisione politica, ma il modo in cui essa si attua. In particolare, essa investe la correttezza delle procedure che dovrebbero accertare la compatibilità di quel progetto con la tutela dell’ambiente, e cioè con la salute di chi vive nella Piana.
Su questo nodo si fronteggiano da tempo due schieramenti: da una parte i governi della Regione e del Comune di Firenze, e ora la Società Toscana Aeroporti presieduta da Marco Carrai, dall’altra un foltissimo gruppo di comitati, singoli cittadini, tecnici, altre amministrazioni e istituzioni (tra le quali anche l’università di Firenze).
Un ‘effetto Torino’: quello per cui Piero Fassino ha perso le elezioni pur essendo convinto (in parte non a torto) di aver ‘governato bene’. È quello che rischia Enrico Rossi: almeno a giudicare dalle sue reazioni alla sentenza del Tar toscano sull’ampliamento dell’aeroporto di Firenze.
Proverò a dar conto del sentimento che queste reazioni suscitano in un cittadino che non abbia una posizione definita sulla materia del contendere. Un cittadino, dunque, diverso da me: sono sempre stato contrario a quell’ampliamento, convinto che l’unica scelta sensata sarebbe stata fare del Galilei di Pisa l’aeroporto (anche) di Firenze, con una navetta su monorotaia che lo collegasse in trenta minuti a Santa Maria Novella.
Ma non è di questo che ora si parla. La sentenza del Tar non riguarda, ovviamente, la decisione politica, ma il modo in cui essa si attua. In particolare, essa investe la correttezza delle procedure che dovrebbero accertare la compatibilità di quel progetto con la tutela dell’ambiente, e cioè con la salute di chi vive nella Piana.
Su questo nodo si fronteggiano da tempo due schieramenti: da una parte i governi della Regione e del Comune di Firenze, e ora la Società Toscana Aeroporti presieduta da Marco Carrai, dall’altra un foltissimo gruppo di comitati, singoli cittadini, tecnici, altre amministrazioni e istituzioni (tra le quali anche l’università di Firenze).
Il discorso mediatico mainstream racconta questa contrapposizione in termini stereotipati: da una parte le ragioni dello sviluppo, dall’altra le ubbìe ambientaliste di una minoranza di fanatici.
Per un osservatore terzo l’unico modo per capire chi ha ragione è potersi fidare delle procedure seguite dal potere pubblico per attuare le sue decisioni. Questa correttezza si basa sull’autonomia intangibile degli organi tecnici: perché la nostra legislazione riconosce che - quando si parla di tutela dell’ambiente e della salute umana non tutto è nella disponibilità della maggioranza politica del momento.
Ebbene, la fiducia di quell’ipotetico (ma concretissimo) osservatore era già stata messa a dura prova: si deve infatti rammentare che la Valutazione strategica della variante al Piano di Indirizzo Territoriale era stata approvata nonostante il parere negativo dell’organo tecnico della Regione (il nucleo di valutazione). E che la conseguente Valutazione di impatto ambientale si è conclusa positivamente nonostante che l’apposito nucleo di valutazione abbia dichiarato di non potersi esprimere perché non aveva ricevuto tutti i documenti necessari. Infatti la società privata che propone l’ampliamento non ha presentato un progetto definitivo, ma solo un masterplan: e cioè un progetto preliminare di massima. Tre irregolarità piuttosto pesanti.
Ma niente in confronto a ciò che ora stabilisce la sentenza del Tar: che dice a chiare lettere che le procedure seguite non garantiscono affatto la tutela dell’ambiente (e dunque della salute dei cittadini).
A questo punto, quel famoso osservatore terzo cosa si aspetterebbe dalle pubbliche autorità? Una dettagliata confutazione delle conclusioni del Tar. Che, invece, non c’è stata. Sia Enrico Rossi che il sindaco di Firenze Dario Nardella hanno preferito parlare di tattica processuale. Non hanno detto che questa sentenza è ingiusta, o incompetente: hanno invece detto che sapranno renderla ininfluente.
E qua i destini si separano. Perché se nemmeno il più neutrale degli osservatori può aspettarsi da Nardella la benché minima autonomia da una società presieduta dall’intimo amico di Matteo Renzi, ben diversa è la posizione di Rossi: che si candida a disputare a Renzi la segreteria del Pd da posizioni che egli stesso definisce «socialiste».
Quel cittadino legge la sentenza del Tar (o almeno l’ampio sunto presente sui giornali). E pensa che se anche solo un decimo delle cose che essa afferma fossero vere, sarebbe evidente che siamo in mano ad una classe dirigente che realizza grandi opere senza curarsi del loro impatto. E poco importa che lo faccia a servizio di alcune lobbies, o perché incapace di affrancarsi dall’idea che lo sviluppo debba prevalere sulla tutela di ambiente e salute.
Quel cittadino si aspetta da Rossi una chiara argomentazione sul merito di ognuno dei punti che la sentenza solleva. Più in generale, l’opinione pubblica si aspetta che la classe politica renda conto delle proprie scelte con umiltà, competenza e trasparenza. Se questo non succede, prima o poi il rapporto di fiducia si rompe, come è successo a Torino: Fassino ha pagato nel modo più pesante l’arroganza di una oligarchia che non credeva di dover perdere tempo a rendere conto delle proprie decisioni.
Le possibilità di conoscenza offerte dalla rete, e la felice saldatura tra saperi tecnici e opinione pubblica che essa consente, mettono la classe politica di fronte ad una responsabilità nuova: spiegare in modo convincente le proprie decisioni in fatto di ambiente. È così che un tema fino a poco tempo fa secondario sta invece ora diventando decisivo: chi non lo capisce rischia di essere travolto. E le reazioni alla sentenza del Tar dimostrano che la Toscana non è affatto immune dall’‘effetto Torino’.
il 21 gennaio del 2011 è stato firmato un protocollo d’intesa tra il Commissario per l’area archeologica della Capitale, la Soprintendenza e la Tod’s di Diego Della Valle per il restauro del colosseo. La Repubblica, 9 agosto 2016 (c.m.c.)
Prendendo spunto dal caso del Colosseo, la Corte dei Conti indica una strada virtuosa in materia di sponsorizzazioni per la tutela del patrimonio culturale. È la stessa strada che indicherebbe il buon senso: stabilire con attenzione le contropartite da concedere allo sponsor, e vegliare sul fatto che quest’ultimo faccia davvero tutto ciò che si è impegnato a fare.
Già, perché — nonostante la confusione che continua ad imperare nel discorso pubblico — lo sponsor non è un mecenate. Quest’ultimo (in Italia davvero rarissimo) dà i suoi soldi in cambio di nulla (di nulla di materiale: e cioè in cambio di legittimazione sociale, gratitudine, appagamento personale…), mentre lo sponsor imposta un’operazione commerciale grazie alla quale conta di ricavare assai più di quanto doni allo Stato.
Mentre in Francia si è preferito investire sul mecenatismo, e in particolare su quello diffuso (tanto da riuscire a raccogliere ogni anno un miliardo di euro: cifra che fa impallidire il nostro pur volentoroso Art Bonus), in Italia si è fatto largo agli sponsor.
Questa differenza si deve alla stessa ragione per cui ora la Corte dei Conti tira le orecchie al ministero per i Beni culturali: e cioè che da noi lo Stato è debole, anzi in perpetua ritirata. Ed è questo il punto: perché il rapporto Stato-privati in campo culturale (e non solo) funzioni bene, bisogna che lo Stato sia forte, e cioè che non si presenti col cappello in mano, pronto ad accettare qualunque condizione contrattuale. Perché altrimenti il rischio è la mercificazione di un inestimabile bene comune.
La Corte dei Conti invita infatti il MiBact a darsi una normativa chiara e univoca: perché finché si procederà caso per caso lo Stato continuerà ad arretrare di fronte a privati ben decisi a mettere il proprio marchio sui monumenti di tutti. Ma il governo ha appena fatto la scelta opposta: con il nuovo Codice degli appalti il privato fa la sua proposta di sponsorizzazione, che viene resa nota attraverso la Rete. Se entro 30 giorni nessun “concorrente” si fa vivo, lo Stato accetta. Tutto il contrario di una programmazione, cioè di un progetto forte e omogeneo.
D’altra parte, la cena vip offerta da Della Valle per celebrare il restauro ha imposto una chiusura di parti del Colosseo ben più lunga di quella dovuta alla famosa assemblea sindacale di un anno fa. Questa volta nessuno ha fiatato: segno che i rapporti di forza sono proprio quelli ora impietosamente fotografati dalla Corte dei Conti.
Riferimenti
Informazioni sul "regalo" dello sponsor Della Valle sono disponibili qui
Dopo 23 anni il PD romano (e per esso Roberto Giachetti) riscopre la pianificazione urbanistica. L'erede di quell'epoca nefasta attacca il nuovo assessore (Paolo Berdini), il quale replica da par suo. Il manifesto, 6 agosto 2006
SUL TEMA DEL PIANO URBANISTICO
NESSUNA CONCRETA INDICAZIONE
di Roberto Giachetti
Le linee programmatiche sono il documento che mostra alla città quali sono le scelte e gli interventi che dovranno essere messi in atto e qual è la visione che li guida. Il testo presentato dalla sindaca Raggi è in realtà un testo vuoto, perché manca proprio di quelle “azioni e progetti” che, sul piano della concretezza, devono dare indirizzo e corpo alle delibere della Giunta.
L’unica cosa che, invece, permea tutto il documento è l’apertura di “Tavoli” per qualsiasi cosa. Non c’è mai, però, un impegno preciso o una scadenza. In un momento storico in cui le città europee sono ferite da fatti gravissimi, non affronta nessuno dei “grandi temi” come, ad esempio, le migrazioni di milioni di persone, i cambiamenti climatici, la sicurezza, la tecnologia, il disagio nelle periferie, la mancanza di lavoro.
Prendiamo, per esempio, l’urbanistica che è, secondo me, la politica principe per dare attuazione alla visione che si ha della città, perché ha il compito di tramutare in trasformazioni urbane le idee che guidano il governo della città. Di tutto questo non c’è nulla nelle linee programmatiche, se non molta retorica e conclusioni generiche.
La sindaca Raggi dovrebbe spiegare alla città perché «ripristinare trasparenza e legalità» passi necessariamente dalla cancellazione di «tutti gli istituti di deroga discrezionali, quali le compensazioni urbanistiche e gli accordi di programma in variante urbanistica». Anche su questo serve chiarezza: se riscontra problemi di legalità, vada in Procura e denunci, se ci sono problemi di trasparenza imponga procedure chiare, se invece pensa che l’attuale Piano Regolatore Generale debba essere modificato, lo dica e lo faccia. Non può sostenere, infatti, che «verrà avviata una rigorosa verifica del Prg al fine di realizzare l’obiettivo di una concreta fine dell’espansione urbana», perché gli ambiti edificabili sono definiti dal Prg vigente e, quindi, è già un dato noto dove finisca la città.
Quello di cui c’è bisogno sono procedure chiare e snelle; a tal scopo, è necessario semplificare le norme tecniche d’attuazione del Prg e, al contempo, dotare i Municipi di procedure urbanistiche ed edilizie uniformi e online. Il controllo pubblico ovviamente non deve mancare, ma va anche pretesa qualità negli interventi architettonici imponendo elevati standard qualitativi, elevando lo strumento del concorso internazionale a procedura ordinaria per la selezione dei progetti e istituendo uffici di controllo che monitorino tutto l’iter.
L’urbanistica deve essere anche capace di ridisegnare la città e ricucire tutti gli strappi che una crescita non pianificata ha portato, ed è qui che è determinante quale idea questa amministrazione abbia delle periferie. Di nuovo, va registrata l’assoluta inadeguatezza delle linee programmatiche nelle quali si parla esclusivamente e genericamente di una «gigantesca opera di rigenerazione urbana» ma non si spiega come attuarla. Bisogna entrare nello specifico, nei singoli quartieri perché Roma ha tante “periferie” e bisogna conoscerle. Su questo tema in particolare, stupisce come con tanta superficialità si siano trattati i piani di zona (L.167/62) – per non parlare di toponimi e delle “zone O” – che, pur toccando centinaia di migliaia di cittadini, non sono neanche citati. Così come, sempre nell’ottica della rigenerazione urbana, non c’è una riga sulle centinaia di opere incompiute disseminate nella città, il cui completamento contribuirebbe in modo significativo a riconnettere e riqualificare il tessuto cittadino.
Anche sul trasporto pubblico locale, zero elementi di concretezza. Sull’ambiente non ci sono neppure 10 righe: su parchi, riserve, piani di assetto neppure una parola. Sull’agricoltura non c’è nulla! Su green economy una sola citazione del termine in un contesto estraneo. La sindaca Raggi vuole istituire un energy manager, che già esiste, ma non fa cenno a nessun progetto concreto per il risparmio energetico. Sul Tevere, neppure una parola, come se a Roma non esistesse il fiume. Sul Regolamento del Verde che Roma non ha, niente.
Manca un piano strategico ed economico per la città. Le grandi città del mondo si pensano nel futuro. Anticipano le trasformazioni ed elaborano le strategie per perseguire i loro obiettivi nella dimensione globale. Anche qui dalla sindaca quasi niente oltre piccole misure generiche. Le linee programmatiche chiamano in causa l’idea del “benessere” delle persone, ma non spiegano come verranno fotografati i bisogni sociali della città, né tantomeno si capisce quali saranno gli strumenti di valutazione della qualità e dell’appropriatezza degli interventi. O dove si collocano i due grandi assenti di queste linee programmatiche, ovvero la sanità e l’assistenza sociale.
Sulle aree metropolitane, serve un piano strategico che metta a sistema i settori industriali e produttivi della città con quelli dei comuni limitrofi, che sviluppi politiche della mobilità che non si limitino a guardare “dentro al raccordo” ma che tengano conto, ad esempio, dei flussi di lavoratori e turisti che quotidianamente si muovono nell’area metropolitana. Contemporaneamente, urge un processo di trasferimento di funzioni e risorse ai Municipi, con l’obiettivo di trasformarli in Comuni urbani. Serve quindi una vera rivoluzione amministrativa che nel programma del sindaco Raggi non c’è.
La nostra sarà un’opposizione dura, che andrà nel merito dei problemi e che, punto per punto, delibera per delibera, provvedimento per provvedimento, non si limiterà solo ad analizzare e criticare, se necessario, ma porterà sul tavolo della discussione e davanti ai cittadini soluzioni e alternative. Non ci saranno sconti da qui in avanti, quello che ci auguriamo è che, sin da subito, ai tanti interrogativi sottoposti oggi in questa sede, inizino ad arrivare chiarimenti e spiegazioni convincenti. Solo se le idee di ciascuno sono in campo e c’è trasparenza nel proprio operare allora si possono realizzare le basi per una dialettica che sia costruttiva e che produca risultati utili per la nostra città.
LA PRIORITÀ È UNA E DECISIVA,
USCIRE DALLA GIUNGLA DELLE DEROGHE
di Paolo Berdini
Comprendo che la polemica politica abbia la capacità di accentuare fino alla caricatura le posizioni altrui e giustifico dunque l’impostazione del ragionamento scelta dall’onorevole Roberto Giachetti . Ma se si passa al merito la musica cambia e si deve dissentire con forza ad iniziare da una questione che considero centrale e che invece occupa il primo degli argomenti di critica che egli utilizza per contestarne l’impianto.
Giachetti chiede retoricamente quale sia l’importanza del ripristino della legalità che ho posto al primo punto del programma urbanistico e che la sindaca Raggi ha pienamente condiviso anche perché si è battuta contro la mala urbanistica nei tre anni della sua esperienza di opposizione consiliare.
Non so cos’altro avrebbe dovuto succedere a Roma per convincerci tutti a chiudere per sempre la fase delle varianti urbanistiche approvate senza un quadro d’insieme ma soltanto per favorire questa o quella cordata di finanzieri e imprenditori. Con tutti gli istituti della deroga urbanistica che il Parlamento di cui Giachetti è autorevole membro sforna a ripetizione si può costruire dappertutto qualsiasi insediamento residenziale o produttivo con la conseguenza che gli interessi pubblici sono stati subordinati sempre alla più completa libertà del privato.
Negli anni, nei lunghi anni, del centrosinistra romano, e cioè a partire dal lontano 1993 sono state approvate tali e tante deroghe urbanistiche alla nostra città che è oggi difficile recuperarne perfino l’elenco. Roma è stata insomma il battistrada della cultura nazionale della deroga urbanistica. Interi quartieri nati in aree che non lo consentivano; enormi e onnivori centri commerciali nati al posto di indispensabili servizi pubblici; aree agricole vaste e preziose sacrificate per consentire la costruzione di sempre nuove, grandi, desolate, anonime periferie. Si è addirittura consentito di aprire fast food in aree verdi di proprietà comunale.
La gravità di questo uso disinvolto dell’urbanistica ha portato principalmente a due gravi conseguenze. Dal punto di vista della vivibilità urbana è evidente – e Giachetti stesso lo sottolinea nel suo discorso – che abbiamo lasciato che si realizzassero brandelli di periferia senza quel minimo di struttura pubblica che sola definisce la città. Ma c’è un secondo aspetto che mi interessa ancora di più. L’inchiesta Mafia capitale ha finora scoperchiato il vaso di Pandora dell’accaparramento di finanziamenti pubblici attraverso procedure discrezionali: in questo modo sono prosperate come noto cooperative e imprese di servizi legate alla mala politica. Ma rendere edificabile un terreno agricolo o a basso valore economico, questo è il punto, comporta un arricchimento ancora più elevato di un appalto o di un finanziamento per gestire un servizio pubblico.
Si è in altri termini consentito di privilegiare alcuni proprietari fondiari e sono convinto che i riflettori della Procura della Repubblica si apriranno anche su questo settore. Anzi, dovrebbe essere noto a Giachetti che esistono già numerosissimi fascicoli di indagine in corso. Attraverso deroghe e mancanza di rigore non sono state infatti rispettate le convenzioni urbanistiche che prevedevano la realizzazione di opere pubbliche mentre le parti private sono state da tempo concluse. Nei piani di edilizia economica è mancata la vigilanza e si è consentito a imprese e cooperative di guadagnare sulle spalle di famiglie che cercavano soltanto di realizzare il sogno di una casa. E così via, gli esempi sono innumerevoli, ma la sostanza di questo malgoverno è sempre la stessa.
E arrivo così al punto decisivo. Afferma Giachetti che se c’è il sospetto della mancanza di legalità bisogna andare in Procura. Non mancheremo di farlo come lo abbiamo fatto negli scorsi anni in altri ruoli. Ma il problema fondamentale è che magistratura e forze di polizia sono indispensabili e sono messe in grado di operare al meglio se ci sono regole chiare. Ma non sarà così fino a che le regole urbanistiche possono essere contraddette dalle deroghe, e dunque non riusciremo nel compito di costruire città umane e vivibili. E qui mi sembra che possa aprirsi uno spazio di dialogo fecondo: è la questione delle periferie a rappresentare infatti il nodo centrale da affrontare.
Una città che si presenta con un centro antico meraviglioso ed ha la periferia più estesa disordinata e priva di servizi d’Europa non può competere con le altre città e non può rivendicare il ruolo di capitale che pure è scritto nel suo logo. Questo tema, ammetterà Giachetti, è presente eccome nel programma urbanistico del sindaco Raggi anche se non abbiamo seguito la liturgia di elencare a casaccio tutti i luoghi del degrado. Ed allora quando a settembre ci sarà lo spazio per iniziare a ragionare come fare uscire Roma dal tunnel in cui l’ha cacciata la cultura della deroga e della trasgressione, ci saranno tutti gli spazi culturali e disciplinari per avviare la gigantesca opera di recupero della periferia, come la definisce Papa Francesco, esistenziale e fisica.
«Meraviglioso: le sale inaugurate ieri da Renzi, richiuderanno dunque subito per mancanza di personale ». La Repubblica online, blog "Articolo 9", 30 luglio 2016 (c.m.c.)
A Matteo Renzi piace tagliare nastri. Meglio ancora se tagliandoli può oscurare un pò l'autoreggente Dario Franceschini, che trama nella Manica Lunga per farlo stare sereno prima possibile.
Così ieri Renzi era a Taranto, ad inaugurare il Museo Archeologico Nazionale: uno dei venti supermusei che Franceschini sostiene di aver miracolato imponendo loro le mani dell'autonomia.
«Museo archeologico, risanamento Ilva, le scuole del quartiere Tamburi, Arsenale, il porto, le bonifiche. Impegni concreti e scadenze rispettate. A Taranto i problemi non mancano ma il Governo c'è. E fa terribilmente sul serio», ha twittato il Presidente del Consiglio. E ancora: «Taranto. Dopo anni di promesse non rispettate, #finalmente ci siamo».
Peccato che le cose non stiano proprio così. Chissà se Franceschini ha detto a Renzi che il Marta è uno scatolone vuoto. Appena dieci giorni fa, una supplichevole circolare della Direzione generale del Mibact per l'Organizzazione faceva sapere a tutti che «con nota del 5 luglio il direttore del Museo Archeologico Nazionale di Taranto ha rappresentato la grave carenza di personale», chiedendo se ci fossero volontari disposti a «prestare servizio temporaneamente a Taranto». Cioè a tappare i buchi del Museo: aprendone di identici nelle loro sedi, tutte afflitte da una disastrosa mancanza di personale (esattamente come quando erano ministri Bondi o Ornaghi, anche se ora non lo dice più quasi nessuno).
Per far capire cosa manca a Taranto, veniva allegata alla circolare la nota della direttrice scelta dalla mitica commissione voluta da Franceschini. E la lettura è impressionante. La carenza di personale è «grave», ed è stata inutilmente fatta presente in «numerose note». La dotazione di personale – a cui il Mibact di Franceschini risponde solo con un risibile appello ai volontari– è «estremamente urgente».
Tra le figure che mancano ci sono ben 6 funzionari archeologi: «assoluta necessità di tale professionalità per la creazione dell'inventario digitale delle collezioni, totalmente assente, per la creazione di un team di curatori, per la creazione del servizio educazione e ricerca totalmente assente, per la creazione di un team addetto alla politica editoriale della struttura museale». Ma allora, uno ci chiede, cosa diavolo ha inaugurato Renzi, a Taranto?
A leggere questa desolante confessione si capisce perché Piero Guzzo si sia dimesso dal Consiglio scientifico del Museo.
Ma la ciliegina sulla torta arriva dall'ultima riga della direttrice: mancano anche «8 unità di personale di accoglienza, fruizione e vigilanza poiché il personale ora in dotazione è del tutto insufficiente a garantire l'apertura al pubblico del percorso espositico del II piano del museo di prossima inaugurazione, che si terrà nel mese di luglio alla presenza del ministro onorevole Dario Franceschini e probabilmente del presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi». Meraviglioso: le sale inaugurate ieri da Renzi, richiuderanno dunque subito per mancanza di personale.
«Taranto. Dopo anni di promesse non rispettate, #finalmente ci siamo». Non è vero: è una menzogna, una balla spaziale. Grottesca propaganda. Ma non importa: # l'Italia riparte. Per un'altra inaugurazione.
«La dicotomia centro/periferia appare oggi subordinata alla scala sovracomunale, un quadro che amplia il tema in una più attuale e sistemica visione di rete policentrica.Una agenda al futuro mettendo a sistema strumenti esistenti», Arcipelagomilano online, 27 luglio 2016 (c.m.c.)
L’intervento di Michele Monte Periferie e rigenerazione urbana, nell’illustrare le priorità di programma della nuova giunta su degrado urbano – come criticità sociale ed economica oltre che insediativa – e rigenerazione, stimola ad approfondire le dotazioni disponibili per agire qui e ora, sollecitando considerazioni che, per quanto sparpagliate e poco sistematiche, mi auguro possano corroborare la discussione in senso operante.
Che il neosindaco Sala abbia fatto leva sull’opinione pubblica attraverso la categoria – piuttosto genericista e un tanticchio desueta, ma tanto retoricamente di sinistra – di ‘degrado periferie’ buon pro ha fatto in termini di risultato elettorale, anche se l’analisi del voto locale auspicata da Monte potrebbe dare chiavi di lettura affatto scontate e utili alla politica riformista in continua trasformazione.
Nel merito delle azioni e degli strumenti, Monte sintetizza i limiti – tra inerzia amministrativa settoriale e mancato corto circuito tra apparati di analisi e strumenti conoscitivi necessario a fornire dati utili a qualificare i fenomeni e conseguentemente orientarne lo sviluppo – e propone quattro mosse per la costruzione degli strumenti operanti: Analisi e raccolta dati; Feedback con la cittadinanza e suo coinvolgimento; Integrazione tra enti e operatori, tra pubblico e privato; Laboratorio permanente di elaborazione.
In sintesi cercherò di evidenziare come la dicotomia centro/periferia appare oggi subordinata alla scala sovracomunale, un quadro che amplia il tema in una più attuale e sistemica visione di rete policentrica, ovvero di città metropolitana, in cui i margini reciproci tra comuni contermini, se rimossi per un attimo i confini amministrativi, possono diventare risorsa.
Inoltre parlerei di azioni di rigenerazione nel senso di uso rinnovato, piuttosto che di degrado. Riferendomi a un approccio interculturale, in cui l’aspetto sociale, economico e insediativo sono tra loro inscindibili, che nel nostro mestiere significa sintesi di progetto. Ma che passa attraverso una strumentazione fatta di norme e orientamenti specifici dettati dal Piano, che forse a Milano è il momento più adatto per essere messo in discussione.
1. Città metropolitana. È a questa scala che Milano può dare gambe e futuro alle idee che il sindaco-manager già sta ‘vendendo’ al parterre internazionale. È alla scala di città metropolitana che si deve discutere di post Expo, di città della salute, di logistica infrastrutture e trasporti. È in questo quadro, ripeto, che ha senso creare le sinergie tra innovazione e inclusione, tra pubblico e privato. Così come per la questione degli Scali ferroviari, che da mera risorsa immobiliare da sdoganare sotto forma di convenzione di standard, si inquadrerebbe in un più adeguato disegno di strategia urbana intercomunale. Che significa, di ritorno, con una sensibilità progettuale maggiore a scala di vicinato, cioè tra Comune e Comune.
2. La Babele dei linguaggi. Da pochi mesi si è reso operativo uno strumento di lettura sintetica dei 135 PGTonline di Città Metropolitana (sistema dinamico presentato anche su queste pagine) grazie a un accordo trasversale tra Ordine degli Architetti, centro studi PIM e Ance Assimpredil – un buon esempio di integrazione operativa tra enti per altri versi distanti tra loro, così come tra pubblico privato auspicato da Monte. La mosaicatura delle diverse tavole tematiche che compongono i singoli Piani comunali, ben rappresenta io credo la Babele di linguaggi e obbiettivi nel confronto tra Comuni, che necessiterebbe di un grado 0 di unificazione anche solo del suo codice di rappresentazione: chissà se nella revisione in corso della Legge Regionale 12/2005 si riuscirà a tener presente?
O bisogna dar ragione a chi vede nella debolezza della Legge Regionale 32/2015 istitutiva di Città metropolitana di Milano espressione dell’interesse autocentrico del capoluogo a discapito del sistema policentrico, “allo scopo di mantenere un controllo saldo ed esclusivo sulle proprie competenze” (Si veda M.C. Gibelli in Eddyburg 20.05.2016).
3.PGT. All’interno del Piano di Governo del Territorio di Milano nel 2012 veniva introdotta una mappa che identificava 88 zone omogenee denominate Nuclei di Identità Locale (Nil). Ad essa era accompagnata una analisi piuttosto capillare a supporto del Piano dei servizi, con tanto di matrici esplicative, che tuttavia in questi anni non hanno avuto occasione di uso e aggiornamento. Senza necessariamente partire da zero forse potrebbero essere una base di partenza per quanto Monte propone riguardo ad analisi e raccolta dati, capillari e trasversali, attivando le necessarie deleghe ai Municipi per il loro aggiornamento. A scala metropolitana questo tipo di analisi è cruciale per mettere in relazione efficace le diverse dimensioni di Milano e dei Comuni contermini.
E forse più in generale è il momento di pensare, dopo la soluzione ‘rimediale’ della giunta Pisapia di emendamento al Piano Masseroli/Moratti, di affrontare in modo sistematico una nuova stesura del PGT, anche sulla base di quanto in questi quattro anni testato.
4. Laboratorio permanente. È cruciale creare sinergia tra diverse iniziative da tempo in rete, come per esempio Innovare per includere, recentemente presentato a Base dall’assessore Cristina Tajani con gli altri suoi colleghi di giunta, attraverso la creazione di un tavolo metropolitano permanente di lavoro, e magari come l’assessore Pierfrancesco Maran ha recentemente affermato in occasione dell’incontro organizzato da Emilio Battisti dedicato proprio agli Scali Ferroviari, facendo capo all’Urban Center come luogo dell’incontro cittadino. Una azione di partecipazione non improvvisata ma sotto forma di laboratorio con obbiettivi e competenze condivise. Una reale iniziativa dal basso che agisce con l’amministrazione per rendere quanto prima operante l’azione di rigenerazione, e non solo a carattere territoriale.

Un bene pubblico da dismettere (si legga da svendere), trasformato da attivisti in "spazio di uso civico e collettivo", e adesso fagocitato dall'industria del fare. Il manifesto, 27 luglio 2016 (p.d.)
Villa Medusa era il centro anziani del quartiere Bagnoli, a Napoli. Un privato l’aveva donata al comune proprio per questo scopo. Falegnameria, pittura, balli di gruppo, oltre 500 iscritti all’associazione, l’esperienza si interrompe nel 2007: alcuni locali vengono dichiarati inagibili, l’amministrazione non li mette a norma e chiude il centro. Nel 2012 finisce nei beni da dismettere ma nel 2013 gli attivisti di Bagnoli lo occupano dandogli nuova vita, con la manutenzione tornano le attività per anziani e nuove iniziative come la biblioteca, lo sportello per i disoccupati, la palestra, corsi di italiano per migranti, feste per bambini. Villa Medusa è tra i siti riconosciuti dal comune a giugno come «spazi divenuti di uso civico e collettivo». E’ anche uno dei luoghi dove gli abitanti si riuniscono per discutere della bonifica della zona, l’ex area industriale Italsider, contrari al commissariamento imposto dal governo e ai piani urbanistici sottratti alle sedi istituzionali e affidati, con lo Sblocca Italia, all’agenzia del governo Invitalia.
Lunedì pomeriggio una volante è arrivata all’ingresso della struttura e ha fermato due ragazzi. Avevano partecipato a un’assemblea e stavano andando a lavorare in una ditta di spedizioni: costretti a spogliarsi, vengono perquisiti. I compagni chiedono spiegazioni ma dalla volante parte una chiamata e in un attimo arrivano sette auto in appoggio. In sette vengono portati via e tenuti per quattro ore nella caserma Raniero, la stessa dove vennero fermati gli attivisti del Global Forum nel 2001. Sono stati rilasciati alle nove di sera con un verbale di fermo e una denuncia per violenza privata e minacce. I ragazzi descrivono l’accaduto come «una provocazione in un generale clima di intimidazione».
Da settimane si susseguono all’esterno di Villa Medusa posti di blocco con fermo e controllo dei documenti. Il 20 luglio gli attivisti, riuniti nella sigla Bagnoli libera, si sono presentati al convegno di Invitalia. Doveva essere, nelle dichiarazioni degli organizzatori, un appuntamento aperto alla cittadinanza ma si accedeva a inviti. La relazione introduttiva l’ha fatta Pietro Spirito, scelto da Invitalia come program manager del piano di rigenerazione urbana di Bagnoli-Coroglio, già manager di Atac Roma ai tempi di Alemanno, passato per la direzione dell’Interporto di Bologna e per incarichi alla Consob e alla Montedison. «Abbiamo contestato le ricostruzioni di Spirito sulle attività della cabina di regia del commissariamento – spiegano – . In particolare il piano finanziario per la bonifica, redatto prima di aver avuto i risultati della caratterizzazione dei suoli, e le gare d’appalto già svolte per la messa in sicurezza degli arenili nord (700mila euro). La stessa operazione di sostituzione della sabbia c’è già stata nel 2007 ed è stata vanificata dall’azione del mare, è servita solo ai gestori delle concessioni balneari per continuare la loro attività commerciale».
Renzi ha imposto il commissariamento e ha fatto di Bagnoli una delle sue bandiere in stile Expo, ma la cittadinanza si oppone da due anni ai piani del governo. «Abbiamo subito perquisizioni a casa – raccontano gli attivisti -, veniamo fermati per strada per controlli continui. Le volanti stazionano quasi sempre fuori Villa Medusa, un centro frequentato dai movimenti ma anche da anziani e bambini. Sperano di innervosire il quartiere e isolarci». Dalla scorsa settimana sono arrivate anche le intimidazioni: «Alcuni personaggi armati di sfollagente ci hanno minacciato. E’ evidente che la trasformazione di Bagnoli risveglia molti interessi».

Il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2016 (p.d.)
Per elettrificare Favignana la Sea, la società che vende energia elettrica, vuole costruire una centrale con tre ciminiere alte 15 metri che emettono fumi prodotti da sette generatori a gasolio a 350 metri dal mare di Cala Azzurra e a 500 da quello del Bue Marino.
Ma prima che il progetto, già ritirato una prima volta, venga ripresentato 400 commercianti, residenti e villeggianti dell’isola hanno dichiarato guerra all’ecomostro proponendo, in alternativa, la realizzazione di un cavodotto di soli 7 km che collegherebbe Favignana a Trapani. Sono i firmatari dell’adesione a Greenegadi, che si preoccupa di proteggere una delle zone più belle dell’isola, tutelata dal Piano paesaggistico e dell’Area marina protetta delle Egadi.
Con gli obblighi europei che impongono lo smantellamento di tutte le centrali a combustibili fossili nel 2050, nell’isola i cittadini dicono no ai capannoni in cemento, ai silos, alla sala macchina con sette generatori attivi 24 ore al giorno per produrre 25 megawatt di energia. “È la prima volta – dice l’architetto Monica Modica, del comitato promotore – che a Favignana una comunità intera si trova coesa nel tutelare la propria terra”. Oltre all’energia elettrica, il cavodotto, su cui viaggia la fibra ottica, porterebbe anche Internet. “La connessione in media tensione (20KV) – spiega l’architetto – comporterebbe un investimento di 10 milioni di euro circa che genererebbe un risparmio annuale di circa 8 milioni di euro. Questa è la cifra che la Csea (Cassa Servizi Energetici e Ambientali) spende ogni anno per rimborsare il gasolio alle imprese elettriche minori di Favignana e Levanzo.
Il Fatto Quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 26 luglio 2016
Quale sentimento proverebbe chi, passeggiando nel parco nazionale delle incisioni rupestri nella lombarda Val Camonica, s’imbattesse in un tipico nuraghe sardo? Oppure chi visitando Villa Adriana, a Tivoli, si trovasse di fronte a una piramide egizia? Non è difficile pensare che la vista di quei due monumenti provocherebbe stupore. Giustificata meraviglia. Il motivo? Entrambi apparirebbero subito fuori contesto. Di più. Presenze tanto incredibili da essere irragionevoli.
Accade lo stesso proprio al centro dell’area archeologica centrale più celebre al mondo. Al Foro romano, a Roma. Dove, tra la Basilica Aemilia, la Sacra via e il Tribunale, è stato montato un grande palco, con tanto di spazio per gli orchestrali e di parterre per gli spettatori. Una gigantesca struttura, corredata da “torri per le luci”, del tipo utilizzato per eventi musicali. “Martedì 26 luglio 2016 alle 20.30 una serata musicale eccezionale per la prima volta nel sito archeologico del Foro romano”, si legge nel sito dell’Opera romana pellegrinaggi che, insieme al Teatro dell’Opera di Roma, ha promosso l’evento intitolato ‘Music for mercy‘, inteso a celebrare il Giubileo della Misericordia.
Il programma, suggestivo. “Brani classici, pagine di bel canto, voci e suoni provenienti da tutto il mondo, a partire da Andrea Bocelli”, assicurano i promotori. Non solo. “Anche un nuovo brano composto daRomano Musumarra sulle parole di Grant Black – ‘A time for mercy’ – ispirate dalle parole del libro di Papa Francesco “Il nome di Dio è misericordia”, anche questo un pezzo interpretato da Carly Paoli”. Insomma una celebrazione vera e propria. Per certi versi ispirata dalla musica “alta”. E non è tutto. Il concerto, prodotto da Abiah Music Production, ha avuto il patrocinio del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo e della Commissione nazionale italiana per l’Unesco. Vincoli reali e resistenze virtuali per una volta superati in nome “dell’eccezionalità dell’evento”. Sia ben chiaro, assicurano dal ministero, nessuna deroga alla tutela del sito archeologico.
Quindi tutto straordinariamente meraviglioso? Un evento di cui farsi vanto a ragion veduta? La realtà, come troppo spesso avviene, è molto diversa dal racconto che se ne fa. Già, perché quel grandioso apprestamento scenico è come il nuraghe immaginato nel parco archeologico delle incisioni rupestri e la piramide a Villa Adriana. Un non senso. Un obbrobrio, temporaneo, è vero, ma pur sempre un obbrobrio. Colpevolmente proposto e ancor più colpevolmente autorizzato. E’, forse, comprensibile il desiderio di chi abbia pensato di organizzare la serata in un luogo di così “grande fascino”. Ma è senza giustificazioni chi l’abbia permessa. Il Mibact, naturalmente, quindi la Commissione nazionale italiana per l’Unesco, senza dimenticare Roma Capitale che ha offerto il suo sostegno.
n dubbio non c’è la possibilità che i resti antichi, la cui importanza non è superfluo ricordare, abbiano a che soffrire dall’impianto delle diverse strutture. D’altra parte è mai possibile che Mibact eSoprintendenza possano aver deciso la rovina, seppur parziale, di un luogo tanto importante? Qualsiasi risposta che non fosse negativa suonerebbe come una condanna eterna verso chi dovrebbe occuparsi se non altro della tutela di quella testimonianza della storia dell’umanità. Piuttosto, a preoccupare, è la scelta di aprire i cancelli. Come se ‘Music for mercy’ fosse o potesse essere una sorta di cavallo di Troia. Tra le molte scelte sbagliate del ministero retto dal democratico Dario Franceschini, questa di certo non sarebbe la meno perniciosa. Abbandonata la speranza che ad accorgersi dell’errore possa essere ilministro-scrittore non rimane che appellarsi al nuovo sindaco Cinque stelle Virginia Raggi. Anch’essa attesa tra gli spettatori dell’evento.

Intervista di Monica Pepe a Paolo Berdini. Le idee del nuovo assessore sui problemi della città e gli obiettivi da raggiungere. La direzione di marcia è giusta, sebbene non siano ancora definiti gli strumenti. E su Roma incombe l'ombra cupa del disastro Olimpiadi. Micromega, 25 luglio 2016
Già al centro del ciclone per la sua opposizione alle Olimpiadi, parla il neoassessore all’Urbanistica della giunta Raggi: “Negli ultimi 20 anni la sinistra ha smesso di fare la sinistra accettando le dottrine liberiste”. E sul suo rapporto con il movimento di Grillo dice: “Il M5S ha saputo dare battaglia sul tema della precarietà giovanile e su quello del ripristino della legalità in un sistema che sta affondando negli scandali. Sono oggettivamente due bandiere antiche della sinistra”.
“Perseguire le Olimpiadi e lasciare, ad esempio, che si viaggi ancora su carrozze vecchie e malandate sulla linea Roma Ostia è una contraddizione così stridente che non necessita di essere argomentata con troppe parole”. Paolo Berdini è il nuovo assessore all’Urbanistica del governo Raggi, a Roma. Profilo di sinistra, vicino ai movimenti sociali, si trova ora nel delicato ruolo di riqualificare le periferie capitoline e contrastare lo strapotere di palazzinari e lobbies del mattone: “Venti anni di abbandono delle periferie hanno generato un nuovo pensiero che chiede riscatto sociale in un quadro di ripristino della legalità e fine di ogni favoritismo. La città si deve preparare a costruire, con il coinvolgimento pieno degli abitanti, un progetto di recupero sociale e fisico delle periferie”.
Berdini, i cittadini romani hanno eletto Virginia Raggi come sindaco. A cosa si deve preparare la città?
La vittoria di Virginia Raggi al ballottaggio è stata superiore ad ogni previsione. Il dato che più balza agli occhi è l'enorme consenso che il movimento 5stelle ha ottenuto nelle periferie più lontane, da Ostia a Tor Bella Monaca. Segno evidente che in quei luoghi insieme ad un severo giudizio su coloro che avevano guidato il Campidoglio, c’è stata anche una grande apertura di credito verso una forza che fino a tre anni fa non era neppure presente in consiglio comunale. E’ un dato che deve far riflettere.
Da dove arriva il modello 5 Stelle? E' paragonabile ad altre esperienze europee?
Tutte le nazioni europee sono investite da una evidente sfiducia verso i partiti espressione delle culture tradizionali che hanno garantito quattro decenni di progresso economico e sociale. Questa fiducia è incrinata perché dagli anni ’80 la sinistra ha accettato acriticamente tutte le dottrine neoliberiste in campo economico e sociale. Sono stati intaccati i diritti dei lavoratori e le conquiste del welfare strappate con decenni di mobilitazioni sono state sacrificate sull’altare delle politiche di bilancio.
La società è diventata più ingiusta e una larga parte del ceto medio vive in condizioni peggiori che negli anni passati. Se a questo si aggiunge che le giovani generazioni vivono una cupa fase di precarietà senza prospettive e che la crisi economica sembra non aver mai fine, si comprendono i motivi dei profondi mutamenti politici in atto. In ogni Paese, dalla Spagna alla Grecia, si è palesata questa profonda esigenza di cambiamento. E in Italia la richiesta di cambiamento si è incarnata nel Movimento 5stelle.
Che rapporto c'è tra i 5 Stelle e la cultura di sinistra? Cosa hanno mutuato e dove le differenze sono irriducibili?
Riflettere sulla cultura del M5S fa comprendere quale cesura sia avvenuta nelle idee della sinistra europea nei tre decenni del trionfo del neoliberismo. Rispondere alla sua domanda, infatti, obbliga a dover definire cosa sia la sinistra e francamente non sono convinto che le politiche poste in essere dal governo Renzi appartengano a tale cultura: precarietà giovanile, cancellazione del welfare e diminuzione dei diritti dei lavoratori sono i tre pilastri su cui si è concentrato quel governo e rappresentano una evidente cesura con il pensiero storico della sinistra. Il M5S ha saputo dare battaglia sul tema della precarietà giovanile e su quello del ripristino della legalità in un sistema che sta affondando negli scandali. Sono oggettivamente due bandiere antiche della sinistra.
Il voto delle periferie a Roma ha avuto un grande peso, la rabbia ha prevalso sulla rassegnazione lì dove è più evidente il valore della dignità di una città. Cosa è oggi periferia e cosa rivoluzionare nelle periferie?
Il voto delle periferie è stato sicuramente provocato dalla rabbia contro l’abbandono. Insieme a questo c’è però la speranza di vedere concretizzate tutte le battaglie su cui la società civile si è impegnata in questi anni. Nei tre anni dell’amministrazione Marino le battaglie contro le più scandalose cementificazioni sono state condotte dai comitati di cittadini che hanno però avuto come interlocutori istituzionali i consiglieri capitolini e municipali dei 5 stelle. Sta in questa oggettiva convergenza il motivo profondo del successo nelle periferie.
Ora si arriva alla fase propositiva e si dovrà affrontare il tema della “riunificazione” della città. Oggi il centro storico meraviglioso ma sottoposto ad una pressione turistica insostenibile si contrappone ad una periferia immensa senza qualità e servizi degni della capitale d’Italia. Bisogna mettere fine a questo divario e portare qualità urbane, cultura, trasporti su ferro (penso alle tramvie) così da ridurre la distanza fisica e culturale che divide le due città.
Roma ha circa 10 miliardi di debito pubblico. E' una partita che il nuovo Sindaco potrà giocare alla pari con le banche?
Certo, e questa opzione è chiaramente emersa nelle posizioni espresse dal sindaco Raggi durante la campagna elettorale. C’è poi da avviare - e anche questo è ormai patrimonio del movimento - la fase di inversione delle logiche urbanistiche che hanno portato alla formazione di quel debito insostenibile. Roma è alla bancarotta perché non ha governato il territorio ed ha accettato ogni proposta di edificazione in zone agricole sempre più lontane dal centro.
Quelle zone devono essere dotate di servizi, dai trasporti alla raccolta dei rifiuti, e questo spiega perché Atac e Ama - ruberie a parte - sono sull’orlo del fallimento. Insomma, più espandiamo la città e più aumentiamo il debito. Si tratta dunque di fare tesoro di questo fenomeno perverso e di concludere per sempre la fase della crescita urbana dissennata e senza regole.
Il problema degli sfratti a Roma è drammatico. Di cosa ha bisogno la città in termini di urbanistica e di edilizia pubblica?
La città ha bisogno di case per le famiglie che non hanno il reddito sufficiente ad accedere al “mercato”. Ha bisogno di case per i giovani che per le loro condizioni precarie non possono accedere al mutuo come le generazioni precedenti. Ha bisogno di case integrate con servizi alla persona per i tanti anziani che vivono condizioni di solitudine e di marginalità. Ha bisogno di case per gli immigrati. La città ha insomma bisogno di un intelligente progetto pubblico che ponga al primo posto le fasce sociali più deboli, analogamente a quanto fece agli inizi del secolo scorso il pensiero liberale istituendo gli istituti per le case popolari. Certo oggi quella nobile ricetta va aggiornata. Non dobbiamo costruire nuove case ma recuperare l’immenso patrimonio pubblico abbandonato da anni, penso alle caserme militari e non solo. Solo così riusciremo a inverare la prospettiva di un cambiamento profondo che sa tener conto dei ceti sociali sfavoriti che in questi anni di idolatria del mercato sono stati sacrificati.
Le Olimpiadi di Roma hanno tenuto banco durante la campagna elettorale ben più del taglio verticale dei servizi sociali. Lati positivi e negativi di un grande evento come le Olimpiadi in questa fase?
L’idea delle Olimpiadi è stata presa in un circolo ristretto di persone le quali non hanno a cuore i destini complessivi della città, del dolore che esiste nelle periferie lontane. Nelle prossime settimane si dovrà decidere se continuare a perseguire il progetto avulso dalle condizioni reali della città o se è ancora possibile riportarlo ad evento ordinario in cui la città intera si riappropria del proprio destino e cerca di utilizzare le potenzialità di quell’evento per sanare le ferite più profonde che offendono la dignità delle persone. La periferia fisica e esistenziale, come afferma spesso papa Francesco, posta al centro delle Olimpiadi sarebbe invece una straordinaria inversione culturale che favorirebbe l’inclusione sociale e la ricostruzione di un clima di fiducia.
(25 luglio 2016)
«Deliberazione innovativa. Il nodo da sciogliere era lo strumento della cessione per assegnazione... Il meccanismo si può interrompere se i beni sono amministrati in forma diretta da comunità di riferimento, in assenza di lucro, per il soddisfacimento di diritti fondamentali».Il manifesto
, 23 luglio 2016 (c.m.c.)
«Comunità che discutono le forme di autonormazione civica degli spazi che quotidianamente fanno vivere, questo per noi è neomunicipalismo»: Giuseppe Micciarelli è avvocato, partecipa ai tavoli di Massa Critica e altre realtà di movimento di Napoli che studiano percorsi giuridici per la definizione e l’utilizzo dei beni comuni.
Un lavoro in parte condiviso con l’amministrazione che ha portato, il primo giugno, all’approvazione della delibera di giunta 446, con cui si riconoscono sette edifici in città come «spazi per loro stessa vocazione divenuti di uso civico e collettivo». Lunedì scorso Mara Carfagna, eletta in consiglio comunale con Forza Italia, ha contestato la delibera nel suo primo discorso tra gli scranni dell’opposizione. Stessa musica dal Pd con Valeria Valente, anche lei eletta in consiglio comunale, che ha dichiarato: «Ancora una mossa maldestra. Non sarebbe giunta l’ora di avviare la vendita e messa a reddito del patrimonio immobiliare comunale annunciato dal sindaco già cinque anni fa?».
Nel 2011 la prima amministrazione de Magistris (nella foto) ereditò un comune con i conti disastrati con conseguente adesione al predissesto. La ricetta proposta da tutti i governi per risanare le casse dei comuni è la vendita del patrimonio pubblico.
A Napoli si sta provando a restituirne una parte alle comunità. I sette edifici a cui fa riferimento la delibera 446 sono pezzi di storia: a Bagnoli ci sono Villa Medusa, frequentatissima dagli anziani del quartiere, e lo storico Lido Pola; a Materdei l’ex Convento delle Teresiane convertito dagli occupanti in Giardino Liberato e l’ex Monastero di Sant’Eframo trasformato a fine Ottocento in un Opg e adesso restituito al quartiere con la sigla Je so’ pazzo; tra Materdei e il Vomero c’è l’ex scuola media Schipa occupata da precari e famiglie in emergenza abitativa; al centro storico l’ex Conservatorio di Santa Maria della Fede tornato alle attività artistiche come Santa Fede Liberata e l’ex Convento delle Cappuccinelle trasformato poi nel carcere Filangieri (uno dei due minorili, insieme a Nisida, per cui si battè Eduardo De Filippo quando divenne senatore a vita) abbandonato per anni e trasformato adesso in Scugnizzo liberato.
«Nel 2012 una comunità di artisti e tecnici occupò l’Asilo Filangieri – spiega Micciarelli -, a Roma c’era un percorso simile al Teatro Valle. Noi però rifiutammo di imboccare la strada della fondazione. Giuristi, filosofi, tecnici e attivisti hanno lavorato sul concetto di autogoverno attraverso un regolamento d’uso».
A maggio 2012 ci fu la prima delibera di giunta che riconosceva l’esperienza dell’Asilo mentre la proprietà, con i relativi oneri ordinari e straordinari, rimaneva al comune. Da allora si sono susseguite altre delibere sull’Asilo e sulla regolamentazione dei beni comuni nel 2013, 2014 e 2015 in un percorso di continuo sviluppo della giurisprudenza in materia.
«Il nodo da sciogliere era lo strumento della cessione per assegnazione – continua Micciarelli -. Il pubblico cede un pezzo di patrimonio, l’assegnatario per sostenerne i costi finisce per metterlo a reddito sottraendolo così alla collettività per un interesse privato. Il meccanismo si interrompe se i beni sono amministrati in forma diretta da comunità di riferimento, in assenza di lucro, per il soddisfacimento di diritti fondamentali. L’uso civico e collettivo urbano non è uso esclusivo, è aperto a chi ne condivide il regolamento». Al pubblico restano la proprietà e gli oneri di gestione ma le comunità si impegnano con il loro lavoro a tenere gli spazi vivi e aperti, li attrezzano e svolgono attività documentate (artistiche ma anche per i minori, sportelli per precari e lavoratori, ambulatori popolari…).
«Il primo provvedimento in materia è del 2011 e modifica lo statuto comunale con l’introduzione della categoria di bene comune – spiega l’assessore alle Politiche urbane, Carmine Piscopo -. Con la delibera di giugno i beni del patrimonio storico artistico, che hanno conservato il carattere monumentale, vengono preservati perché costituiscono reddito sociale per le prossime generazioni. Attiveremo un processo di ascolto e monitoraggio del territorio per sviluppare gli usi collettivi in forma aperta».

Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2016 (p.d.)
E' noto che il cosiddetto project financing è una delle tecniche più efficaci per rapinare le casse dello Stato. In genere la politica – quando non è mandante o complice – se ne accorge sempre dopo. Il caso della Pedemontana Veneta è dunque inedito. Il governo ha scoperto (forse) in tempo che la nuova arteria da 95 chilometri che dovrebbe collegare le province di Vicenza e Treviso “senza oneri per lo Stato” potrebbe costare ai contribuenti 20 miliardi. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti ha attivato nei giorni scorsi una girandola di frenetiche riunioni per salvare il salvabile. Palazzo Chigi è dovuto intervenire a seguito del totale imbambolamento del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio e di quello dell’Economia Pier Carlo Padoan, per tacere del governatore del Veneto Luca Zaia.
La storia della Pedemontana Veneta sembra un copione per cabarettisti. L’operazione parte nel 2003 con i consueti ingredienti dell’epoca: Legge Obiettivo e project financing. La prima garantisce – secondo l’ideatore Ercole Incalza, il dottor Stranamore dell’appalto – l’esecuzione delle opere con tempi e costi certi. Il secondo è apparentemente geniale: il costruttore finanzia e costruisce l’autostrada e se la ripaga con i proventi del traffico, così lo Stato non ci mette una lira. Storie note.
Ma con la Pedemontana Veneta si batte ogni record. Nel 2009 Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso decidono che tra Treviso e Vicenza c’è una vera e propria emergenza traffico, tale da imporre un decreto che svincola la Pedemontana dalle già lasche procedure della Legge Obiettivo. Non solo: viene istituito un commissario onnipotente nella persona di Silvano Vernizzi – braccio destro dell’allora governatore Giancarlo Galan per i cantieri – che diventa nientemeno che “autorità concedente” (nota per i comuni mortali: normalmente l’autorità concedente è il ministero Infrastrutture o l’Anas, minimo una Regione). Vernizzi firma di tutto e di più con il consorzio Sis, vincitore della gara del 2003, formato dal costruttore piemontese Matterino Dogliani e dal gruppo spagnolo Sacyr. I governatori veneti – Galan prima, Luca Zaia poi – approvano tutto. Forse senza rendersi conto di alcuni dettagli. Il primo è quasi normale, cioè il costo dell’opera che dagli 895 milioni iniziali triplica a 2,7 miliardi. Il secondo è la bomba: Vernizzi impegna la Regione Veneto a risarcire il concessionario se per caso il traffico, e quindi i pedaggi, risultassero inferiori alle previsioni. Naturalmente, come tradizione del project financing, le previsioni di traffico alla base dell’operazione sono stellari, per dimostrare la bontà dell’affare: 44 mila veicoli al giorno nel 2023.
Due giorni fa, a Palazzo Chigi, De Vincenti è sbiancato quando due dirigenti di Bei (Banca Europea per gli investimenti) e Cdp (Cassa Depositi e Prestiti) gli hanno detto che, secondo un loro studio, le previsioni di traffico messe nel piano sono tre volte la realtà. Calcolatrice alla mano, la Regione Veneto dovrebbe rimborsare al consorzio Sis 366 milioni ogni anno per la durata della concessione, 39 anni: 14 miliardi in tutto che diventano 20 calcolando interessi e quisquilie varie.
Perché De Vincenti ha dovuto aprire questo teso tavolo di consultazione? Perché all’inizio di luglio il commissario Vernizzi, il concedente, ha scritto una perentoria lettera al premier Matteo Renzi per battere cassa. Il ragionamento di Vernizzi è semplice. Il consorzio Sis ha iniziato i lavori in un modo curioso, anziché costruire la strada un po’alla volta ha sbancato tutto il percorso, scavando una profonda trincea di 95 chilometri lungo la campagna veneta, ma non ha più soldi. Ha speso finora poco meno di 400 milioni di contributo statale senza metterci un euro di suo. Il contributo pubblico in conto capitale era all’inizio di 150 milioni, poi è diventato di 614 grazie a un miracoloso “atto aggiuntivo” firmato nel 2013 da Vernizzi e assentito da Zaia. Ora il commissario chiede a Renzi gli ultimi 200 e passa milioni per non chiudere i cantieri: pare che il concessionario che doveva fare “tutto con soldi privati” abbia titolo giuridico per pretendere di incassare tutto il contributo anche se non ha messo giù un euro suo.
E qui inizia il capitolo più grottesco. Ovviamente il privato per costruire l’opera deve finanziarsi sul mercato, in questo caso per circa 1,5 miliardi. Ma nessuna banca finora si è arrischiata a prestare soldi al costruttore Matterino Dogliani. La garanzia sottostante è, in sostanza, della regione Veneto che però, se dovesse fare fronte ai 366 milioni all’anno andrebbe in default. In pratica per una banca comprare le obbligazioni Sis sarebbe come investire in titoli di Stato italiani nel novembre del 2011.
Spunta a questo punto l’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, oggi capo dell’investment banking europeo di Jp Morgan. La banca americana ha pronto il piano per l’emissione delle obbligazioni con cedola dell’8 per cento, un lauto interesse che alla fine sarebbe pagato da Zaia. Grilli tiene molto all’affare che porterebbe nelle casse di Jp Morgan una cifra stimata tra i 40 e gli 80 milioni di euro per la prestazione di arranger. Siccome nessuna banca vuole comprare il Pedemontana Bond, Grilli sta facendo pressioni sulla Bei e sulla Cdp perché si mettano una mano sulla coscienza e partecipino all’operazione: sarebbe un segnale forte per il mercato e garantirebbe il successo dell’operazione.
Per questa ragione i tecnici di Bei e Cdp hanno messo a punto lo studio sulle previsioni di traffico che giovedì hanno illustrato a De Vincenti. E le conclusioni sono infauste: solo un pazzo investirebbe su un’operazione così strampalata, ed essendo Bei e Cdp banche pubbliche i loro manager non possono fare follie. A complicare il quadro c’è però un manifesto interesse del presidente di Cdp, Claudio Costamagna, per l’operazione. Da mesi Grilli sta premendo su di lui in modo insistente facendo leva sull’ottimo rapporto tra i due banchieri, cementato dalla mossa realizzata da Grilli nello scorso gennaio: ha assunto in Jp Morgan la moglie di Costamagna, Alberica Brivio Sforza, assegnandole il ruolo di “senior private banker per la clientela Ultra High Net Worth”. A occhio dev’essere un mestiere molto difficile.
Adesso tocca a De Vincenti trovare una soluzione. Non sarà facile. Il complesso sistema di clausole firmate da Vernizzi rende quasi impossibile risolvere il pasticcio senza pagare sontuose penali al consorzio Sis. Purtroppo il Codice Appalti appena riformato dal governo non contiene l’unica norma che avrebbe salvato il Paese da flagelli del genere: vietare per legge il project financing.