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Sul futuro urbanistico di Milano e della sua area metropolitana si addensano nubi nere; ma il temporale era già annunciato dalle scelte della Giunta Pisapia. Recentemente ho avuto l’occasione di analizzare e commentare i dati sull’andamento demografico e occupazionale di Milano e Provincia negli ultimi due decenni 1991-2001 e 2001-2011 (in un saggio che ho intitolato Milano: da metropoli fordista a Mecca del real estate)[1]. I risultati della mia analisi sono preoccupanti: evidenziano l’emergere, nell’ultimo decennio considerato, di una tendenza a un dualismo produttivo-residenziale che divide il centro dall'hinterland metropolitano, generando crescenti movimenti pendolari. Tutto lo sviluppo demografico si è localizzato nell'hinterland, mentre tutto lo sviluppo occupazionale si è localizzato esclusivamente nel comune di Milano: indice quest'ultimo (+9,17% e +0,17% rispettivamente nel comune centrale e nell'hinterland) di una cesura gravissima nell'integrazione produttiva che aveva caratterizzato la regione urbana in tutto il periodo dal boom economico alla fine del secolo.
Il titolo, che può apparire enfatico, vuole dunque sottolineare una specificità drammaticamente negativa del capoluogo lombardo: lo strapotere esercitato da almeno 20 anni dalla finanza immobiliare; una specificità che non sembra destare alcuna preoccupazione nei due candidati maggiori alle prossime elezioni comunali: né, ovviamente, in quello del centro-destra (Stefano Parisi), né, e questo è molto più preoccupante, in quello del centro-sinistra (Giuseppe Sala). E infatti, nel merito i loro programmi sono purtroppo molto simili. Entrambi hanno già affermato che l’Accordo di Programma sugli Scali Ferroviari verrà onorato, malgrado l’incidente di percorso che ha visto finalmente emergere un dissenso all’interno della maggioranza uscente. Entrambi, da manager quali sono, hanno lodato l’urbanistica milanese, quella della deregulation, quella del PGT rimediale e meramente quantitativo, come un modello da perseguire e irrobustire. Entrambi perseverano nell’elogio sperticato dei grandi progetti realizzati a Milano e nel sottolineare il formidabile successo di EXPO2015 (e il conseguente brillante posizionamento competitivo di Milano nel mondo, assolutamente indimostrato e indimostrabile).
Effettivamente a Milano si è costruito molto.
I dati sugli addetti al settore delle costruzioni lo confermano. Se nel passato, e anche nel decennio 1991-2001, lo sviluppo dell'occupazione aveva evidenziato una crescita dell'attività edilizia esclusivamente nell'hinterland e una caduta nel centro urbano, del tutto in linea con le tendenze demografiche, nell'ultimo decennio si è verificato invece un vero e proprio ribaltamento. I dati evidenziano infatti una sorta di boom edilizio nel centro metropolitano, con una crescita degli addetti pari a oltre il 16%: circa il doppio del tasso di crescita registrato nell'hinterland e cinque volte superiore al tasso di crescita medio nazionale. Un simile indicatore di crescita quantitativa, una crescita peraltro ben visibile nella città, confligge tuttavia con le tendenze rilevate sul fronte demografico che segnalano una ulteriore perdita di popolazione a Milano (-4,26%) e una crescita robusta dell’hinterland (+8,99%).
Per quale tipo di popolazione si è costruito recentemente? All'evidenza, non si è manifestata quella tendenza al ritorno di popolazione verso il centro metropolitano, superficialmente attesa da tanti sostenitori dello sviluppo edilizio quantitativo concesso dai Piani di Governo del Territorio delle amministrazioni di centro-destra (ma anche, sia pure in misura inferiore, dal governo di sinistra), né (fortunatamente) il temibile obiettivo di riportare Milano agli ‘splendori’ degli 1,8 milioni di abitanti della fine degli anni ‘60, sbandierati dall’assessore all’urbanistica della giunta Moratti. Evidentemente, il differenziale di prezzo milanese rispetto alle cinture esterne non ha controbilanciato il limitato, e in alcuni casi anche nullo, differenziale di qualità urbana offerto dal polo centrale alle classi medie e medio basse.
Si è costruito nel cuore metropolitano per una domanda internazionale a carattere prevalentemente finanziario, che certamente fin qui si è manifestata ma le cui aspettative potrebbero facilmente cambiare non appena si avvedesse dei limiti dell'offerta immobiliare milanese. Si tratta di limiti che riguardano la qualità, sia edilizia che urbanistica, e il rapporto qualità/prezzo - come si dice senza giri di parole nel settore, il value for money. Una domanda internazionale che comunque non è sufficiente per colmare un'offerta, oggi largamente sovradimensionata, che si risolve in una montagna di appartamenti costosissimi in vendita o sfitti, mentre il disagio abitativo si fa sempre più drammatico.
In assenza di una visione condivisa e di precisi impegni per una sua coerente realizzazione, si sono negli ultimi 20 anni inventate effimere grandi funzioni urbane per legittimare, anche attraverso i concorsi internazionali di architettura, una trasformazione delle aree più centrali o accessibili dettata da pure logiche di mercato. Né le varie amministrazioni che si sono alternate alla guida del Comune si sono sentite obbligate a renderne conto alla città, in quanto l’accountability è stata considerata con continuità un inutile orpello.
Nel prossimo futuro Milano rischia di sprecare anche l’ultima cruciale occasione per realizzare un autentico policentrismo: quella relativa al riuso degli scali ferroviari dismessi. Anziché utilizzare, trattandosi di aree ad alta accessibilità pubblica, rigorosi criteri di localizzazione di nuove funzioni di irraggiamento metropolitano, una Bozza di Accordo di Programma fra Comune e Ferrovie dello Stato ha proposto nel 2015 di spalmare in maniera pressoché indifferenziata 670.000 mq di superficie di pavimento, prevalentemente a destinazione residenziale[2].
Da questo modello di urbanistica Milano ha guadagnato davvero in attrattività, così come sbandierato quotidianamente dai candidati sindaci, dai loro partiti di riferimento, nonché da Renzi e compagni?
Può essere utile, anche se certamente non entusiasmante, scorrere per intero l’ultimo rapporto sugli investimenti immobiliari esteri in Europa nel 2015 “Emerging Trends in Real Estate”. Il rapporto ha suscitato qualche campanilistico entusiasmo nelle pagine locali dei quotidiani milanesi, poiché ha segnalato la presenza del capoluogo lombardo, unica città italiana, fra le 10 maggiori “piazze” europee, con 4 miliardi di euro di investimenti nel 2014-2015. Ma uno sguardo ai commenti più puntuali relativi alle città inserite nella classifica appare molto più interessante di quelli relativi ai miliardi investiti. Berlino, la più attrattiva in prospettiva, viene giudicata tale per il suo potenziale di sviluppo nelle tecnologie avanzate, per il capitale cognitivo, per una forte immigrazione di giovani con formazione di alto livello, per la abbondanza di offerta abitativa in affitto a basso prezzo (e quindi, con ampi margini di aumento (sic!)). Anche per tutte le altre città predilette dagli investimenti immobiliari vengono evidenziati alcuni elementi di qualità urbana e di progettualità pubblica. Per Milano invece non una parola sui vantaggi localizzativi offerti dalla città, ma soltanto la citazione degli acquisti immobiliari recenti di due grandi investitori internazionali, nonché una estrapolazione sul futuro di questi acquisti che pare, come ho già sottolineato, azzardata[3].
Che ne è dell’hinterland, nel modello neoliberista trionfante in area milanese? È il grande sacrificato poiché, in assenza di un disegno strategico metropolitano, continueranno a prevalere i localismi competitivi fra comuni e i processi imitativi delle pratiche milanesi, inevitabilmente ‘al ribasso’: infatti Milano ha fatto scuola anche per gran parte dei comuni dell’area metropolitana[4]. Né questo protratta, e “mostruosa” direbbe Mario De Gaspari, alleanza fra amministrazione locale e interessi della finanza immobiliare sembra poter trovare nel governo metropolitano un autorevole attore, capace di rimettere in discussione le regole del gioco: ad esempio attraverso un piano strategico davvero di scala e ambizione metropolitana; e, soprattutto, attraverso una profonda revisione dei criteri che presiedono al negoziato pubblico/privato.
La Città Metropolitana di Milano appare infatti evanescente come un ectoplasma; così come totalmente evanescente appare il Piano Strategico recentemente presentato con il solito stucchevole trionfalismo. Sorge il sospetto che i Comuni, in primis Milano, abbiano assecondato, se non addirittura gradito, un’istituzione metropolitana così debole come è quella scaturita dalla legge regionale n. 92/2015[5] (si veda Grand Lyon Métropole e Città Metropolitana Milanese: un confronto impari), allo scopo di mantenere un controllo saldo ed esclusivo sulle proprie competenze.
La Giunta Pisapia ha perso l’occasione di promuovere una svolta davvero radicale in materia di politiche urbanistiche: ha adottato, nella revisione del PGT, una strategia “rimediale” meramente quantitativa; ha lasciato i rapporti di forza pubblico/privato immutati; ci ha regalato come grande innovazione del PGT il concetto di indifferenza funzionale che autorizza il “mix funzionale libero” (un vero e proprio ossimoro urbanistico con cui si è consentita al privato piena libertà di intervento su tutto il tessuto consolidato della città: esemplare per la sua indesiderabilità, ma simile a molti altri, il progetto per lo stadio del Milan al Portello, in pieno centro, saltato soltanto per il mancato accordo fra l’ente Fiera e il Milan); ha trascurato il tema, cruciale in un contesto decisionale ampiamente deregolato, della trasparenza. Nelle buone pratiche internazionali, i risultati degli accordi negoziali per quanto concerne il vantaggio pubblico e il vantaggio privato sono accessibili in Internet; dove c’è opacità si apre la strada a scelte sub-ottimali, quando non a progetti inaccettabili o a fenomeni corruttivi.
In estrema sintesi, a Milano si è rinunciato a qualsivoglia regia pubblica nelle politiche urbanistiche.
E le prossime elezioni del sindaco di Milano non sembrano riservare sorprese liete: anzi, un futuro ancora peggiore… se è possibile.
note
[1] In via di publicazione sul prossimo numero di Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali.
[2] Si tratta di 7 scali ferroviari con una superficie in dismissione di ben 1.100.000 mq. La bozza di Accordo di Programma, a cui si lavorava dal 2005 nelle segrete stanze del potere, è decaduta nel dicembre 2015 per l’ostruzionismo non solo dell’opposizione, ma anche di parte della maggioranza, evidenziando, nella fase conclusiva del mandato del sindaco Pisapia, una dialettica politica inattesa, ma destinata probabilmente a costituire un’eccezione date le prospettive elettorali. Si vedano G. Goggi, “Solo un frammento del problema urbanistico: gli scali ferroviari”, in arcipelagomilano.org, 16 dicembre 2015; M. Monte, “Scali ferroviari: oltre l’approccio immobiliare”, in arcipelagomilano.org, 26 aprile 2016.
[3] A proposito di Milano si scrive soltanto: «Overseas investors are pouring capital into the city: Qatar Holding consolidated its interest in Milan’s new Porta Nuova project, while China's Fosun group spent €345 million on its first Italian purchase, UniCredit’s former headquarters, the historic Palazzo Broggi, and Partners Group acquired two prime office properties in the centre of Milan for €233 millionı (PricewaterhouseCoopers(PwC), Urban Land Institute: Emerging Trends in Real Estate® Beyond the capital Europe 2016: 39).
[4] Nei PGT dei comuni dell’hinterland, le rilevanti previsioni edificatorie segnalano una inesauribile, e insostenibile, propensione per un’espansione residenziale destinata a produrre ulteriori consumi di suolo agricolo; nel riuso di grandi aree dismesse, domina invece incontrastato lo shopping mall con il corredo di multisale, residenze, alberghi, nuove infrastrutture stradali o ampliamento di quelle esistenti: un vero affare per la lobby del cemento e del movimento terra. I più importanti, recenti, e contrastati dalla popolazione e dai piccoli commercianti: l'Arese Shopping Center, da poco inaugurato, sull’area ex Alfa Romeo a Nord Ovest del capoluogo lombardo (120.000 mq. di pavimento sui quali si insedieranno anche i giganti dell’abbigliamento low-cost) e lo “Westfield Milan”, di futura realizzazione sull’area, prossima all’aeroporto di Linate, dell’ex dogana di Segrate di proprietà delle Ferrovie italiane (pubblicizzato come lo “shopping mall di lusso più grande d’Italia”: 235.000 mq e l’arrivo, annunciato trionfalmente, delle Galeries Lafayette).
[5] La Regione Lombardia ha ulteriormente ridimensionato le già deboli competenze delegate dalla legge Delrio alle Città Metropolitane, riaccentrando tutte le funzioni precedentemente esercitate dalla Provincia di Milano. Si tratta di competenze che dovrebbero costituire ambiti fondamentali per la sostenibilità economica, ambientale e sociale del territorio metropolitano: l’agricoltura, la cultura, l’ambiente e l’energia.