loader
menu
© 2025 Eddyburg

La sovrintendente Liliana Pittarello stoppa il grattacielo di Piano progettato per Intesa-San Paolo nella zona di Porta Susa. La direttrice regionale del Ministero dei Beni culturali e responsabile della tutela paesaggistica in Piemonte chiede una pausa di riflessione e un tavolo istituzionale per affrontare le questione tecniche. Al famoso architetto la Pittarello non risparmia poi una frecciata: "Per i progetti non bastano i grandi nomi".

Se non proprio uno stop, una battuta d’arresto e una pausa di riflessione. Per mettersi intorno a un tavolo con Comune e Regione e affrontare "da tecnici" questioni per le quali è in gioco la percezione della città nei prossimi secoli. E’ quanto ha chiesto il direttore regionale dei beni culturali Liliana Pittarello durante l’affollata audizione ieri a Palazzo Civico in merito alle due torri di Porta Susa, nell’ambito della II e VI commissione presiedute da Piera Levi Montalcini e Vincenzo Cugusi. Un discorso lungo e articolato il suo, che è partito da lontano, chiamando in causa una tradizione torinese di tutela paesaggistica che affonda le radici negli anni ‘50 e non si vede perché dovrebbe arrestarsi proprio adesso. E non c’è grande architetto che tenga, non basta il nome di Renzo Piano, che ovviamente difende la sua creatura. E il suo invito "a non avere paura". Agli amministratori occorrono maggiori garanzie, a chi si occupa di tutela, maggiori informazioni. "Scriverò una lettera alle istituzioni coinvolte, in cui richiederò che ai nostri uffici siano dati elementi di conoscenza precisi" ha detto in chiusura. Un intervento insomma che potrebbe fare saltare il previsto passaggio la settimana prossima in commissione Urbanistica della modifica alla variante 164, quella che dovrebbe consentire un’altezza superiore ai 150 metri già approvati per il grattacielo Intesa San Paolo.

«Sono stata chiamata in corso di istruttoria, il che non mi piace mai molto. Ma credo che le questioni istituzionali vadano discusse in sede istituzionale» ha esordito Pittarello. Per spiegare poi che a Torino gli uffici della Soprintendenza hanno deciso di occuparsi della questione grattacieli "perché questa è una città ‘disegnata’ da un potere che così ha voluto, con vincoli apposti sin dagli anni ‘50, sulla collina prima, sui corsi poi. La nostra è una città con un patrimonio culturale, paesaggistico e urbano particolare, importante per la vita delle persone, che in esso si identificano, di cui sono orgogliose, come hanno dimostrato recenti sondaggi. Quindi, quando si parla di queste cose, bisogna essere cauti".

Poi il riferimento a Renzo Piano: «Mi stupisce che una persona della sua levatura, di cui ho la massima stima, abbia chiesto coraggio e invitato a non avere paura. Qui non è questione di coraggio o paura, c’è un progetto che richiede studio e scelte da compiere. Piano mi ha chiamato più volte, ci sentivamo spesso anche quando ero a Genova. Certo, lui parla di un grattacielo leggero, trasparente, ma le qualità del progetto devono essere verificate dall’amministrazione pubblica, non ci si può affidare ai progettisti, anche se di gran nome». Pittarello non è morbida nemmeno con il grattacielo di Fuksas per la Regione nell’area ex Avio: «Non sono contro i grattacieli, il mio non è un partito preso. Ma abbiamo valutato anche la torre di Fuksas, che coinvolge non solo l’edificio del Lingotto, ma l’intero quartiere. Ai nostri uffici l’architetto ha detto che sarebbe stata alta 190 metri, poi sui giornali abbiamo letto che arriverà a 220». Infine un invito: «Chiedo che non ci si fermi ai vincoli già apposti in passato, ma che la tutela del paesaggio riguardi l’intera città».

Dopo il suo intervento, la replica dell’assessore all’Urbanistica Mario Viano: «Sono d’accordo a trovarci intorno a un tavolo e a lavorare. Teniamo conto però che ci sono le aspettative e le esigenze di un’azienda che ha un peso specifico nell’economia della città». La soddisfazione era evidente nella sinistra radicale: «In queste audizioni – scrivono in un comunicato Monica Cerutti, Luca Cassano e Domenico Gallo, capigruppo di Sinistra Democratica, Rifondazione Comunista e Comunisti italiani – è emerso come le nostre perplessità siano del tutto fondate».

L'icona che illustra la presentazione di questo articolo, e che adornerà tutti i pezzi dedicati ad analoghe perversioni, è disegnata per eddyburg da Elena Tognoni e illustra una felice espressione coniata in un articolo di Giuseppe Pullara.

Enrico Bettini

Replica a De Lucia

Carissimo Vezio, mi permetto una breve replica premettendo che farò/faremo di tutto per “..non perderci di vista”.

Io sono a che Renzo Piano costruisca lì -dove il PRG lo prevede- una torre alta quanto il PRG prevede. Ho cercato –e tu hai ben inteso- di elencare tutti i miei dubbi sul piano dell’organizzazione funzionale e quindi sociale di tale inserimento . Se, a verifiche un po’ più attente di quanto si fa di solito, la pubblica amministrazione decidesse di rinunciare a quanto il PRG prevede perché si rende conto delle smisurate problematiche che tali concentrazioni comportano, meglio. Altrimenti, non resta che imporre all’amministrazione medesima il rispetto del PRG come per tutti i normali terrestri. Non possiamo brandire il PRG contro ogni variante lamentando la disinvoltura con cui esso viene così spesso buttato al macero e poi chiedere che quanto previsto dallo stesso PRG in quella zona non sia attuato. Ripeto: il disegno urbano con tanto di grattacieli –novella ‘porta’ cittadina sul nuovo asse centrale a tutta la città allargata alla soglia del 2000 (la famosa ‘Spina’)- esiste perché adottato e poi approvato dall’ente pubblico, piaccia o non piaccia.

Personalmente non sono affatto convinto che in quel punto della città sia saggio inserire un grattacielo anche solo di 100 metri (figuriamoci due) ma questo è il PRG (se non ricordo male la prima intenzione era per gli 80 metri, poco al di sopra dei palazzi esistenti in quella zona come ho già precedentemente ricordato). Se sconfessiamo noi il PRG, non facciamo altro che avallare e riprodurre –pur con motivazioni opposte- lo stesso comportamento del Comune. Al contrario, proprio la peculiarità e risonanza dell’intervento va utilizzata per dire basta allo stravolgimento continuo del Piano Regolatore. O, al limite, per richiedere che si metta mano ad nuovo Piano regolatore. Altre strade sinceramente non ne vedo.

Sullo ‘skyline’ mi permetto di essere meno determinista di te e più severo con coloro che in passato non hanno avuto la stessa sensibilità che dobbiamo avere noi oggi. La dovevano avere, eccome, e senza aspettare la meritoria analisi di A.cederna. La storia dell’arte e dell’architettura è –per fortuna- ricca di esempi di tale sensibilità e non sarò certo io a ricordarlo a te. Antonelli –per restare a Torino- aveva esempi molto vicini a lui in Juvara ma soprattutto nei Castellamonte.

La ‘porta’ pensata da Cagnardi non è così a ridosso del centro storico come tu credi (lo è quello, già quarantenne, della RAI, alto 70 metri) al punto da contaminarlo e rischiare di non “..rispettare le testimonianze della storia” e di non “..fare cioè quanto non è stato possibile in passato”. In realtà, quella porta, avrà di fronte la modernissima e più importante stazione ferroviaria di Torino; alle spalle il nuovissimo viale della ‘Spina’e la futura, ‘fantasmagorica’ biblioteca di Bellini; ai lati i nuovi palazzi della giustizia e della nuova sede della Provincia –in uno- e i moderni palazzi con uffici regionali di corso Bolzano –nell’altro.

Se ci si limitasse al rispetto del PRG non si porrebbe la competizione ed il superamento del primato e dell’immagine legata alla Mole Antonelliana. Personalmente, non ho mai considerato quel disegno urbano in grado di attentare all’immagine di Torino al punto da “..obliterare quella che abbiamo ereditato dal passato”.

Pertanto, la cosa più corretta per tutti e coerente con il nostro impegno (nostro e tuo) a che l’ente pubblico abbia il fondamentale ruolo di indirizzo nella pianificazione e controllo dello sviluppo urbani è innanzitutto quella di far recedere l’amministrazione dalla decisione di aumentare di una volta e mezza le altezze previste dal PRG e -da questo punto fermo- affrontare i problemi legati al rischio del collasso funzionale che possono ragionevolmente consigliare il ridimensionamento nell’applicazione –comunque- delle norme a suo tempo deliberate con l’approvazione del Piano Regolatore.

Carissimo Vezio, mai e poi mai potrei pensare che tu sia precipitoso. Mi riferivo a quanti poco o nulla si preoccupano di un’attenta analisi della Storia; nulla dell’energia spesa da nuovi insediamenti dai 10.500 a 14.000 (Spina3); poco o nulla della sparizione della memoria della Torino industriale a cominciare dalla Fiat Lingotto; e via di questo passo… Mi riferivo a quanti fanno circolare, colpevolmente, false simulazioni paesaggistiche che nulla hanno a che fare con la tua onestà intellettuale, a differenza di loro. (01.12.07)

Pier Giorgio Lucco Borlera, Raffaele Radicioni

Alcune meditate e documentate ragioni del NO

La discussione in corso, riguardante l’eventuale costruzione di grattacieli a Torino, sembra svolgersi in termini più seri e meditati di quanto non rivelino le dichiarazioni sbrigative del Sindaco Chiamparino (“C’è chi vorrebbe vedere in città ancora pascolare le pecore” La Stampa 29 ottobre u.s.) e della Presidente della Regione Piemonte Bresso (“Chi è contrario pensa ancora ai dinosauri” La Stampa30 ottobre u.s.) Quegli slogan rivelano il fastidio e l’arroganza di chi si sente chiamato a discutere di scelte, fino ad ora ritenute di competenza solo degli addetti ai lavori: i vertici delle amministrazioni pubbliche, le controparti private, gli architetti di fama internazionale e pochi altri.

Malgrado le intemperanze, nella discussione emergono questioni oltre che di forma (l’incidenza dei grattacieli sullo sky line di Torino), anche di sostanza:

il consumo energetico, intrinsecamente legato alla costruzione di edifici di grande elevazione, che sconsiglierebbe oggi di adottare in tutte le città del mondo edifici del tipo, vale a dire di 100, 200 e più metri di altezza;

le scelte di assetto della città.

Lasciando a chi di competenza la trattazione della prima delle questioni, si richiamano qui alcune considerazioni, attinenti la seconda.

Come mai da alcuni anni si sente l’esigenza di costruire grattacieli a Torino? Per ora si parla di sei grattacieli in termini non sempre chiarissimi: quello di Intesa - San Paolo a Porta Susa (180, 190 metri di altezza?); il suo gemello, dirimpettaio, rispetto al boulevard (di altezza analoga?); quello previsto in Borgo San Paolo (Spina 1); i due di là da venire, per ora privi di forma e di firma, presso l’istituenda stazione Rebaudengo (Spina 4) ed infine quello destinato agli uffici regionali sull’area ex Avio, presso il Lingotto, rivendicato dalla Presidente Bresso, non ancora in piano regolatore.

A Torino la costruzione di edifici di grande altezza ha riguardato casi sporadici: a parte la Mole Antonelliana, che, all’indomani della sua costruzione, mutando la destinazione originaria, è assurta a simbolo della città, il primo grattacielo (la torre Littoria di Piazza Castello) è stato costruito a celebrazione dell’ammodernamento di Via Roma (anni ’30 del secolo scorso), dopo la demolizione delle architetture barocche preesistenti e con la corposa speculazione di assicurazioni, banche, etc, operata già in nome della modernità e della sicurezza (via prostitute e delinquenti dal centro cittadino!), in barba agli eventuali passatisti dell’epoca. Il tema grattacieli riemerse nel dopoguerra: l’edificio di Via Santa Teresa, il “Reposi” di Via XX Settembre, il grattacielo di Piazza Solferino. Questi rimasero per lungo tempo privi di legittimità, costruiti cioè senza licenza edilizia, a testimonianza del fatto che all’epoca (certo solo all’epoca) le decisioni quanto a forme, luoghi, quantità si rivelarono di competenza esclusiva degli operatori privati.

La voglia “modernista“ di grattacielo si manifestò sporadicamente nel corso degli anni ‘50 e ’60. La città in quel tempo, impegnata a fronteggiare le ondate migratorie, che tutti conoscono, difficilmente si permetteva operazioni celebrative di virtù, che non fossero direttamente legate alla produzione manifatturiera: di lì il grattacielo Lancia in Borgo San Paolo, quello RAI a Porta Susa; bello e ingombrante, nato per ragioni di visibilità aziendale, meno forti di quelle economiche, rimase a lungo disabitato.

La realizzazione di grattacieli ha rivelato nel tempo l’aspetto episodico, contingente, a ben vedere contrastante, con i connotati, che da sempre hanno caratterizzato la “forma urbis” di Torino.

Vista di Torino dell’inizio degli anni ’60 dell’800, pubblicata da “l’illustration, journal universel”, nella quale, in rapporto con il profilo ondulato di montagne e colline, si percepisce l’immagine distesa della città, composta in isolati conclusi, ad elevata densità, scarsamente connotati da episodi emergenti. Quell’immagine proprio in ragione delle caratteristiche ambientali, per altro tuttora percepibili, fu oggetto di particolare apprezzamento da parte di Le Corbousier, personaggio notoriamente attento nei confronti delle forme delle città, in visita a Torino nel 1934.

Il tentativo più coerente di realizzare una concentrazione di volumi edificati, destinati al terziario, molti dei quali in forma di grattacielo, è rappresentato da quanto emerso dal concorso per il Centro Direzionale, bandito dal Comune all’inizio degli anni ’60. Il concorso doveva attuare le indicazioni (vaghe per la verità) del piano regolatore del 1959, riguardanti un settore urbano, circa 700 mila metri quadrati, a cavallo di Corso Vittorio Emanuele II, compreso fra i Corsi Ferrucci e Inghilterra, le vie Braccini e Cavalli. Le indicazioni, emerse dal Concorso, non trovarono attuazione, soprattutto per il mutamento di linea, in ordine all’assetto da assegnare alla città, manifestatosi da parte di un ampio schieramento di forze politiche e culturali, a partire dalla seconda metà degli anni ’60. Il ripensamento riguardava, fra altre questioni, proprio l’opportunità di realizzare, in un settore a ridosso del Centro Storico, una forte concentrazione di attività di comando, che avrebbe incrementato il ruolo dominante, già esercitato dal centro cittadino, dando luogo ad effetti conseguenti, allora non condivisi, quali: l’impoverimento proprio di attività direzionali sia in altri settori della città, sia nell’intero territorio torinese; l’esigenza di sorreggere gli interventi di concentrazione delle funzioni rare in luoghi centrali della città, attraverso infrastrutture, che avrebbero incrementato la congestione.

La linea politica, che così si esprimeva, si collegava con quanto allora si andava elaborando in tema di pianificazione e di programmazione sia regionale che di area vasta: la redistribuzione della popolazione ed in particolare delle funzioni rare (in una parola dell’effetto città) nell’area torinese, nella provincia, etc.

“Il grande balzo all’indietro”, verificatosi nei terribili anni ’80, ebbe effetti devastanti anche nelle politiche di Torino, della Provincia, della Regione. Il piano regolatore, che Torino portò a compimento nel 1995, in seguito a fatti (le trasformazioni interne ai processi produttivi, la rivalutazione della rendita urbana), che nel frattempo avevano annientato scelte e valori, affermati negli anni ’60 e ’70, ripropose la logica del Centro Direzionale di antica memoria, ma a scala assolutamente ingigantita, ribadendo in tal modo la centralità del centro storico, integrato ed ampliato con l’incremento delle funzioni di comando, distribuite in un insieme di aree denominate “Spina Centrale”.

Andamento della popolazione residente nel quartiere centro in rapporto alla popolazione della città.


Quart. 1 Centro Totale Città (pop. Quart. 1) / (pop. Tot.) %
Cens. '51 109.871 719.300 15,27
Cens. '61 92.860 1.025.822 9,05
Cens. '71 72.467 1.167.968 6,20
Cens. '81 57.129 1.117.154 5,11
Cens. '91 45.797 979.839 4,67
Cens. '01 40.842 899.806 4,54
31.03.07 39.259 902.612 4,35

Gran parte delle aree industriali torinesi, per una estensione di 9 milioni di metri quadrati furono destinate dal piano a sedi per residenze ed attività direzionali. Al loro interno le aree di più antico insediamento, in posizione centrale, a ridosso del tracciato ferroviario, di circa 3 milioni di metri quadrati, denominate “Spina Centrale”, furono destinate ad accogliere 23 mila abitanti e 32 mila addetti circa. Il piano ha così scelto che quel lungo corridoio della città (la Spina appunto) fosse il luogo delle attività rare, dominante nei confronti dell’area torinese, in competizione con altri centri del Piemonte, dell’intero paese e, perché no, anche d’oltr’alpe. E’ in questa logica che le scelte, assegnate alla Spina, concernenti destinazioni e densità abnormi, prescindono totalmente dalle quantità e dalle qualità degli insediamenti, propri dei settori urbani, posti a ridosso della Spina stessa. In quei settori (in quei quartieri, con riferimento alla suddivisione di Torino in 23 parti) nel 1991 risiedevano 300 mila abitanti (289.726 al marzo 2007) e 7,3 milioni di metri quadrati edificati risultavano a disposizione di attività, fra cui prevaleva il terziario commerciale, direzionale, ricettivo.

La realizzazione dei nuovi grattacieli a Torino, con la rincorsa alla maggiore altezza (“La sfida dei grattacieli” La Stampa 8 luglio 2007; “Sempre più in alto” La Stampa 30 ottobre u.s.), si inscrive dunque nel contesto, determinato dalle scelte del piano regolatore. E’ di lì che occorre muovere per valutare dell’opportunità o meno di realizzare le forme, proposte da Intesa - San Paolo e dalla Regione Piemonte oggi, dal gruppo Ligresti domani, da qualche nuovo operatore dopodomani e così via. In altre parole è il piano regolatore, che produce i grattacieli, coerentemente con le scelte di cui è portatore, e non il contrario. Chi tratta della questione grattacieli, prescindendo dalle scelte politiche e culturali, di cui il piano è la matrice, discute degli effetti, non delle cause, bada al dito (e che dito!), non alla luna.

Due torracchioni firmati Piano e Fuksas, una città da «grandi firme» e piccole idee, un gruppo di oppositori trattati come cavernicoli. L'ex capitale dell'industria italiana guarda molto in alto per non vedere ciò che succede in basso

Dinosauri e cavernicoli, retrogradi, antimoderni(sti). Anche, secondo il maestro Fuksas, fregnacciari e frustrati. Che stile, perbacco, i difensori e fautori dei grattacieli subalpini, nella polemica sollevata dal comitato «non grattate il cielo di Torino» contro l'elegante creatura di Renzo Piano, il parallelepipedo di vetro, acciaio e cemento, destinato agli uffici direzionali della superbanca Intesa-San Paolo.

Dovrebbe alzarsi per poco meno di 200 metri (ma Piano ha detto che la statura, 30 metri più, 30 metri meno, è trattabile) all'angolo di corso Vittorio con corso Inghilterra, davanti alle ex carceri Nuove e a fianco di un altro torracchione previsto per la Sai Fondiaria da Ligresti, ma con trattative ancora in alto mare: meno male vista la fama del costruttore.

E' invece pronto, come quello di Piano, il progetto del grattacielo di Massimiliano Fuksas per la nuova sede della Regione al Lingotto: 220 metri che l'architetto, così garbato con chi obietta, non si sogna di toccare. Ha spiegato che come non si discutono i guru della medicina anche quelli dell'architettura meritano assoluta fiducia. Ha potuto, d'altra parte, liquidare facilmente chi sosteneva che la sua torre, pur lontana 800 metri, avrebbe «oscurato» il Lingotto, figuriamoci, cioè quel mezzo chilometro di stabilimenti che grazie a una totale ristrutturazione interna - resa accettabile, va detto, soltanto dal genio di Piano - ha potuto ritrovare nuova vita mantenendo l'imponenza esemplare di quant'era schiacciante e soffocante la fabbrica fordista.

La diatriba, in effetti, è nata male, addirittura viziata da un errore da parte del comitato «non grattiamo» che ha diffuso una cartolina in difesa dello skyline torinese e del suo simbolo più noto, la Mole, collocando un cupo e oscuro monolite, alto e spesso il doppio della trasparente opera di Piano, vicinissimo alla guglia antonelliana, in modo da incombere minaccioso sul centro cittadino e cancellare le Alpi sullo sfondo.

Posto, invece, alla giusta distanza e adeguatamente smagrito, l'edificio può avere effetti persino dinamici su uno skyline fin troppo industrial-bucolico, e può far valere gli atout che lo abbelliscono, i materiali che lo alleggeriscono, la verzura che s'insinua tra un piano e l'altro e il parco (insomma, un giardino) che lo circonderà, gli spazi pubblici - auditorium al pianterreno, sala per esposizioni, ristorante e terrazza panoramica all'ultimo piano - che daranno valenza sociale all'impresa economica auspicata a suo tempo, d'altronde, come garanzia di trattenere a Torino 3.000 dipendenti e il cervello del colosso bancario.

Piano è venuto in municipio a spiegare d'aver pensato al grattacielo come a un laboratorio di sviluppo sostenibile, illustrando sistemi di ventilazione e riscaldamento, dicendosi persino pronto ad abbassare l'altezza, 177 metri, dieci più della Mole, per non far ombra all'Antonelli. Fuksas ha presentato alla Regione e in Comune, oltre alla sua torre senza se e senza ma, il master plan di un intero quartiere che la circonderà, un "villaggio" di oltre 300mila metri quadri. Secondo lui, per il Lingotto sarà una manna.

I costi dei grattacieli, circa 250 milioni l'uno, toccheranno ai privati per quello di Piano e, per quello di Fuksas, «non graveranno sui contribuenti», promette la Regione che conta di risparmiare milioni di affitti annui e vendere uffici e abitazioni del futuro villaggio. Quali argomenti e piagnistei possono ancora far valere i cavernicoli che vengono volentieri identificati con la cosa rossa e la sinistra radicale, e insistono, quasi un secolo dopo, a non identificarsi immediatamente e un po' provincialmente con le meraviglie futuriste della «città che sale»?

Innanzitutto come sale e perché, appunto. Se il lodatissimo piano regolatore di Gregotti e Cagnardi del 1995 prevedeva altezze massime di 100 metri, dopo averli portati a 150 aumentarli ancora rischia di scatenare gare e speculazioni ingovernabili. E non è affatto rassicurante la variante 164, il trucco da Clochemerle di togliere dal calcolo i locali tecnici, i solai e le intercapedini per rimanere virtualmente nel limite.

Il problema, tuttavia, non sta tanto nell'altezza, quanto nella necessità, o priorità, come si dice, dei grattacieli. E' di utilizzo delle risorse: non pensando solo all'energia e all'acqua che più salgono e più costano, ma proprio agli investimenti per rendere più vivibile che «visibile» una città.

La stessa mostra sul grattacielo di Piano a Palazzo Madama tende, in effetti, a presentarlo come un evento, una specie di poesia di cristallo tra la futura Grande Biblioteca e la nuova stazione di Porta Susa. Ora la biblioteca chissà quando troverà i fondi, e la stazione aspetta e spera di riscattarsi dall'abominio a tre binari dove approdano schifezze di interregionali che tra Milano e Torino impiegano due ore (la carissima «alta» velocità viaggia sui 126 km. orari).

L'evento, comunque, l'avremo perché Piano è garanzia di efficienza, puntualità e adattabilità e ha tenuto persino conto di come ristorante, mostre e auditorium possano evitare la raggelante visione notturna di teche analoghe, a Vienna o a Rotterdam, svuotate da impiegati e attività.

Ma discuterne la validità, per chiedere, invece, un progetto complessivo della città che affronti magari il disastro dell'edilizia pubblica, l'abbandono o il sottoutilizzo delle aree industriali dismesse, la situazione degli spazi culturali - c'è, per esempio, un festival europeo di teatro senza una sala degna del nome - le città della salute e della memoria, non mi pare argomento da frustrati. Semmai da congresso mondiale degli architetti, l'anno prossimo.

Enrico Bettini

Torino e la ‘corsa verso il cielo’

(contributo alla chiarezza)

Lo ‘skyline’

Lo skyline di Torino è mutato molte volte dall’epoca della sua fondazione. Per secoli è stato quello determinato dal castrum romano in cui a ‘svettare’ erano le torri a 16 lati alle estremità del cardo e del decumano. Poi, soprattutto a partire dal 15° sec. d.C, la città si espanse con palazzi, chiese e cappelle ( si pensi a quella della S.Sindone) che ne elevarono il profilo ad una quota ben maggiore di quella delle antiche porte di accesso alla città .

All’inizio del ‘900, dopo ulteriori e maggiori espansioni soprattutto in epoca industriale, avvenne l’ultimazione della Mole di Antonelli destinata a diventare il simbolo di Torino. Per competere con il diffondersi dei grattacieli di Chicago (sulla volontà di competere –a qualunque costo- da parte di Antonelli nessuno storico nutre dubbi) e per rispondere a quel suo rovello che era “..lo stupore che egli voleva suscitare, non solo presso le persone competenti, ma anche presso gli osservatori comuni. E poi ancora il senso della competizione: quella in altezza rimaneva in lui, fra tutte, la più ostinatamente perseguita…. quasi fosse travolto dall’ansia di passare ai posteri per qualcosa di moderno..” (R. Gabetti), progettò e realizzò una costruzione che andò oltre ogni limite allora immaginabile.

Dunque, solo una sfida nell’abilità di costruire in altezza, di realizzare in muratura ciò che in altra parte del mondo si rifiutava preferendo l’acciaio; una sfida anche culturale per affermare che la nuova via tracciata dalle certezze di calcolo acquisite dall’ingegneria e dall’evoluzione tecnologica dovesse per forza orientarsi a modi e a modelli alternativi nelle costruzioni, anche le più ardite. Un modo per dichiarare che- intravista al possibilità di legare il suo nome ad un primato di portata storica- non si è curato dell’inserimento ambientale cioè del rapporto con il tessuto degli isolati e del quartiere circostanti e tantomeno del sicuro sconvolgimento dell’immagine di Torino (che ora si accetta come immodificabile).

Alla Mole seguirono esempi di verticalismo –seppure non altrettanto spinto- con la torre littoria di Piazza Castello, con quella di Piazza Statuto e poi con la sede in acciaio e vetro di Porta Susa, con il ‘Palazzo Nuovo’ dell’Università, con le torri di fronte all’autostrada per Milano, con il palazzo della Telecom che sarà sede della Provincia, ecc.

Si può concludere che lo ‘skyline’ di Torino,in epoca moderna, è stato -anche in senso verticale, non solo orizzontale- in continua variazione ed evoluzione. Certo, le ‘case alte’che sono seguite alla Mole non sono state altrettanto dirompenti nel loro rapporto con l’intera città e nel modo di essere accolte dalla cittadinanza ma –a giudicare dalle reazioni fatte registrare dal grattacielo di Piano a distanza di un secolo e mezzo dall’irruzione della Mole nel panorama di Torino- quasi certamente lo sarebbero state se la Mole già non esistesse.

Il simbolo

Questa abitudine dei torinesi alla sua presenza, questa sua continuità ad esistere vincendo i dubbi e il precario destino iniziali hanno fatto sì che il monumento si riscattasse e si tramutasse in valore, in tradizione fino a diventare simbolo della città intera. C’è da chiedersi, semmai, perché ciò è successo per la Mole e non per le architetture di Juvarra o di Guarini o di Alfieri ..che sono ben più degne nel rappresentare la nostra città. Ciò vale non solo per Torino. Altro caso emblematico in proposito è quello di Parigi dove, quasi coeva alla Mole, per l’expo universale del 1889 sorgeva la Tour Eiffel, criticata e contestata da tutti –cittadini e intellettuali- (“..un’impalcatura sbagliata intorno al nulla ..’ , “ un brutto lampadario che prima o poi andrà smontato..”, ecc) progettata ed eseguita (18 mila travi di ferro assemblate con 2.5 milioni di bulloni) per essere smontata al termine dell’esposizione proprio a dimostrazione dei vantaggi di quella tecnica per cui Eiffel era già famoso nel mondo. Ma, come la Mole di Antonelli che la comunità israelitica si era convinta di non innalzare più, anche la Tour diventò inamovibile ed anch’essa diventò il simbolo della sua città a scapito, anche qui, di altre architetture ( Louvre, Notre Dame, ecc.) senz’altro di ben più alto significato storico e valore.

La spiegazione dell’affermarsi di tali simboli nonostante la loro “..sublime inutilità..” (C. Mollino) è da ricercarsi non solo nel loro gigantismo ma proprio nel loro elevarsi imperioso dalla massa urbana di tutti gli altri edifici. Decisiva, pertanto, è proprio l’altezza, il contrasto netto della loro eccezionale verticalità su quella ‘normale’ del resto della città di allora. Non solo questo.

La modernità (‘modernismo’ lo interpreto in modo dispregiativo)

Il procedere in altezza prima con cupole e guglie, poi con scheletri d’acciaio dalla possibilità di moltiplicazione all’infinito anche dell’altezza è il risultato della scienza e della tecnica senz’altro moderne. Il passaggio dalle case alte, alle torri, ai grattacieli è il percorso di un tipo ed un modello resi possibili dallo sviluppo di modelli matematici di calcolo e simulazione che fanno parte della storia recente e che sono in grado di spingere le costruzioni ben al di sopra dei 167 metri di Antonelli ed anche dei 324 (il doppio) di Eiffel.

Dunque il simbolo si arricchisce senz’altro di quest’aura di modernità, vuole significare anche il lasciarsi alle spalle i limiti imposti da una tradizione secolare nel costruire case e chiese. I 146 metri della piramide di Cheope sono raddoppiati, triplicati, ecc. senza dover ricorrere a centinaia di metri della base d’appoggio, alla sua colossale massa ma, al contrario, possono ergersi con sempre maggior leggerezza a quote sempre più alte nel cielo.

Negare che quando si progetta un grattacielo non lo si faccia con questo intrinseco significato è un po’ negare la storia della società moderna dall’Illuminismo in poi.

L’identità torinese nel grattacieli

E’ stato chiesto all’architetto Piano che cos’ha il suo grattacielo di Torino. L’architetto, molto disponibile e accondiscendente verso ogni argomento si è un po’ arrampicato sugli specchi ( “..l’atmosfericità e trasparenza del volume, l’articolazione della pianta, la proiezione contro l’arco alpino,..”). Ci siamo mai chiesti in che cosa la Mole Antonelliana rivela la sua identità torinese? (analogamente i parigini dovrebbero chiedersi che cos’ha la Tour Eiffel della loro città). Ce lo siamo chiesti per le torri che recentemente sono sorte su aree delle Spine? Che cos’hanno di torinese quelle torri?

Possiamo dire che Antonelli si sia posto il problema? Proprio da un carattere orgoglioso ed autarchico come il suo, geniale nell’intuizione strutturale, ma insofferente ad ogni associazione del suo lavoro a modelli e stili precedenti e ad ogni condizionamento (da quello funzionale –la sinagoga è sempre stata per lui un pretesto- a quello finanziario, a quello delle scadenze temporali, ecc.) è difficile crederlo. Se davvero avesse sentito come vincolante l’impegno a qualificare la propria opera con precisi legami all’architettura torinese forse non avrebbe scelto di costruire cento metri sopra la Torino che lui conosceva; se il suo progetto fin dall’inizio si fosse curato di interpretare l’identità del luogo non avrebbe scardinato più e più volte il progetto stesso solo per realizzare un’altezza sempre più spettacolare. E’ più credibile che egli abbia voluto piegare sia quello che oggi chiamiamo skyline sia l’identità della città alla sua identità, al suo carattere forte e determinato.

Come può un grattacielo di 200 metri (o 150) farsi riconoscere nella sua appartenenza a Torino? Perché ad ogni piano ci sarà lo stemma dei Savoia? Perché sarà verniciato di giallo e di blu? O perché avrà la forma della Mole, un po’ stirata in alto di 50 metri? Quante volte siamo abituati ad osservare –giustamente- che quando si cambiano le proporzioni oltre certi limiti, la cosa cambia di senso. Ed è così anche in architettura. Se Versaille o la Reggia di Venaria fossero grandi come i nostri giardini Cavour, non sarebbero solo più piccole ma tutt’altra cosa. Una costruzione alta centinaia di metri appartiene ad un’altro modello di città, comunque. Per cui è inutile e fuorviante tentare imparentamenti e ricercare o pretendere riscontri con quella sostanzialmente orizzontale precedente. Più volte, correttamente, è stato fatto l’esempio della Défense di Parigi.

Le torri del PRG

Il Piano Regolatore di Torino in vigore dal 1995 prevede alcune torri da erigere in aree libere e/o dismesse di cui 2 di 100 metri all’interno della ‘Spina 2’ cioè in una zona fuori dal centro storico ma interna a quella napoleonica detta ‘dei grandi viali’. Dunque il PRG, in vuoti urbani, già prevedeva l’inserimento di grattacieli. Si tratta di stabilire la correttezza di tale impostazione iniziale dalla quale deriva la legittimità della proposta del grattacielo di Renzo Piano. Dal punto di vista del disegno urbano la ritengo una impostazione corretta perché si tratta di alcuni inserimenti limitati(3), circoscritti ad aree molto caratterizzate, in particolare quelle gemelle nei pressi di Porta Susa. I rilievi e le riserve devono essere, come dirò più avanti, di altro genere per altri problemi.

La collocazione delle tre torri previste, sempre dal punto di vista del disegno urbano, della forma della città, del progetto del suo rinnovamento così come nelle previsioni –appunto- del PRG, ha un senso se relazionata all’asse della Spina Centrale, al suo sviluppo dalla Spina1 alla Spina2, prefigurando in quella zona una sorta di centro direzionale cittadino avente i suoi capisaldi nelle suddette torri. Soprattutto le due a cavallo di Corso Inghilterra, individuano il ‘focus’ della mobilità torinese nella stazione di Porta Susa che sarà quella centrale di Torino. Non si tratta pertanto di una cittadella di grattacieli da spargere in tutta quella zona ma dei tre previsti. Quello che personalmente osteggerei –considerata l’opportunità dell’abbandono del suo uso da parte della Regione- è quello destinato, appunto, a sede degli uffici regionali da convertire senz’altro a zona verde con apice nella fontana di Mertz.

Dire che la città verrebbe deturpata anche da un solo grattacielo perchè totalmente incompatibile con la fisionomia sobria ed elegante di Torino è una reazione istintuale, di timore primordiale, che si colloca fuori dalla storia evolutiva che anche la nostra città ha avuto e che si ferma a Piazza Castello ed ai suoi dintorni.

Ma il disegno urbano ,conseguente e allegato al PRG, era relativo a torri di 100 metri e non 150 e tantomeno di 200. Oltre ai problemi di cui accennerò in seguito, ritorna immancabilmente quello del senso e utilità di un PRG sempre superato e più spesso smentito da una costante procedura di variante. Un PRG che ha subito una gestazione di 10 anni, non uno di meno. Il senso così si capovolge ed è quello non solo della deroga al PRG ma del suo annullamento di fatto, dell’annullamento del rispetto delle regole che lo sostanziano. Il senso vero è quello che ci si vuole lasciare alle spalle lo strumento di pianificazione preventiva per sostituirla con una sorta di pianificazione libera (libertaria) fatta di interventi caso per caso. Gli esempi che avvalorano questa che non è più una tendenza ma una prassi, non mancano.

Ciò per dire che la discussione sul grattacielo di Piano trascina con sé la questione delle regole e del modo con cui sono manipolate, del fastidio con cui ogni volta ci si sente in obbligo di inventarne di nuove; si trascina con sé l’evidente disparità nell’osservanza dei doveri tra chi vuol solo alzare di un piano la propria casetta -e le regole non glielo consentono- ed i potentati finanziari che alzano il loro grattacielo -che è già di 100 metri – di altri 100 e glielo si permette.

La concentrazione delle funzioni

Un altro dei veri problemi che si pone è quello dell’opportunità di collocare le torri (di 100, 150 0 200 metri) ai bordi della città storica. Un’allocazione più centrale alla città rende certamente maggior prestigio soprattutto ad attività che vivono molto della loro immagine. Stabilire, in ambito terziario, la propria sede di maggior rappresentanza nella zona aulica della città o, comunque, non lontana da essa, è comprensibile e ambìto da tutti ma in prevedibile contraddizione con gli standard funzionali e relazionali del tessuto urbano esistente circostante. Questo è un giusto approfondimento che può risultare decisivo.

Il problema principale, a mio avviso, è la congestione delle funzioni in quella zona. Nella Spina2 si sovrapporranno Il raddoppio del Politecnico, il nuovo collegio studentesco all’inizio di Via Boggio, la nuova biblioteca di Bellini, il futuro museo delle carceri Nuove e le OGR ristrutturate sulla stessa via; la cittadella giudiziaria già in funzione, la nuova sede della Provincia di prossima apertura ed il grattacielo più o meno gemello delle FFSS e quello di IntesaSanpaolo. Tutte queste funzioni devono essere supportate da una rete infrastrutturale e dei servizi di un tale livello da far sorgere più di un dubbio sull’opportunità di aumentare la concentrazione di attività e residenze con due grattacieli di centinaia di metri di altezza.

Non basta, io credo, la vicinanza della stazione intermodale di Porta Susa a garantire i bisogni di mobilità derivanti da un simile impianto urbano. Non basta certo l’attuale linea di metropolitana e non bastano i servizi sociali oggi presenti nella zona e che sono destinati a veder decuplicata la loro domanda. Non saranno sufficienti –credo- nemmeno le aree verdi presenti (il giardino pensile del Palagiustizia e quello di risulta nell’area del grattacielo di Piano)se si sommano ai residenti e dipendenti attuali (Palagiustizia, Telecom, ecc.) gli almeno 6.000 nuovi dipendenti della banca, della Provincia, delle FFSS ecc. oltre alla massa preventivabile di visitatori che vorranno andare sulle terrazze dei grattacieli aperte al pubblico e tanto declamate come cosa pubblica.

Ciò che preoccupa è il ripetersi di una pessima abitudine: quella di anteporre gli insediamenti alla realizzazione delle infrastrutture e dei servizi necessari a quell’insediamento. E’ esattamente quel che è successo ancora recentemente con gli insediamenti nelle ‘Spine’ (vedi il convegno di ‘Cittàbella’ sulla Spina3). Ciò che va richiesta è proprio la previsione sull’intensità e organizzazione dei flussi della mobilità, della loro connessione e soddisfazione con passante, metro e tranvie (ad es. eventuali, ulteriori arterie sotterranee); sull’organizzazione della sosta e dell’accoglienza in zona (il riequilibrio con vuoti urbani che non vuol dire parcheggi); sull’organizzazione della pedonalizzazione e delle ciclopiste (indispensabile a tali livelli di concentrazione) il più possibile in alternativa con i parcheggi per le auto private; sull’organizzazione dei sistemi per la sicurezza (non solo quella interna) ; sulla probabile redistribuzione della rete del commercio, degli asili, delle scuole di primo grado, dei presidi sanitari, ecc. ecc.

Sono state fatte queste previsioni? Se sì ,occorre renderle pubbliche. Se no, occorre porvi mano immediatamente perché assolutamente condizionanti l’inserimento o meno di torri con tali carichi antropologici e delle relative attività.

La sostenibilità

Tutti coloro che operano nel settore dell’edilizia sanno che proprio per la scala dei problemi che le grandi torri devono affrontare esse sono all’avanguardia nella ricerca non solo nel campo della stabilità strutturale (il vento), in quello della mobilità interna (ascensori ad alta velocità), ma anche in quello della sicurezza interna (evacuazioni antincendio), in quello dei materiali in cui (la protezione dell’acciaio e l’evoluzione della tecnologia dei prodotti vetrari sono il risultato della sollecitazione proveniente dalle condizioni estreme proprie dei grattacieli).

Anche nel campo del consumo energetico da tempo proprio Foster e Piano hanno dato contributi che –testati su costruzioni colossali- sono applicabili e generalizzabili all’architettura meno ‘verticale’ ed estrema della loro. Le soluzioni per la ventilazione naturale sia notturna che diurna con appositi corridoi ad effetto camino; l’introduzione ed il ruolo assegnato alla vegetazione dei giardini interni; le facciate cosiddette ‘a doppia pelle’ con il proposito dichiarato di risparmiare il 25% di energia; l’attenzione posta al ruolo anche dei solai in funzione sia di limitazione dell’irraggiamento solare estivo sia di incanalamento delle correnti d’aria per il loro raffrescamento interno; il ricorso a grandi superfici di pannelli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica. Insomma, non siamo più alle ‘case dello specchio’ cioè ai grattacieli che a New York che non si curavano per nulla della dispersione e quindi dell’enorme dispendio di energia. Sono soprattutto gli architetti europei che hanno sensibilizzato tutti gli architetti alla sostenibilità energetica e proprio anche per questa sensibilità e serietà professionale Piano è apprezzato in tutto il mondo.

A proposito di quartieri che auto- producono la corrente (Friburgo) viene da chiedersi perché le stesse preoccupazioni non sono state avanzate per la realizzazione dei nostri nuovi quartieri in questi anni. Perché il rigore nel rispetto della sostenibilità deve valere solo per i grattacieli e non per interi agglomerati urbani nuovi di zecca. Come ad esempio le Spine 3 e 4. Riconosciamo allora che abbiamo perso delle colossali, queste sì, occasioni. O bisogna risparmiare solo se si è ‘alti’?

Conclusioni

Oltre al rispetto –per tutti- delle regole, il vero nodo, a mio parere, è quello della compatibilità funzionale, infrastrutturale e dei servizi per decidere di intervenire all’interno di un tessuto urbano esistente . E quello della destinazione d’uso della torre, semmai (opportunità di una enorme sede bancaria, rapporto tra pubblico e privato, tra terziario e non, ecc.). Non quello della ‘sobrietà’ o meno che le torri a Torino devono avere (quanto ad eleganza non c’è miglior interprete di Renzo Piano). E per quanto riguarda l’impegno alla sostenibilità forse era il caso di leggere le relazioni del progettista allegate alla esposizione dei suoi plastici a Palazzo Madama. O attendere le sue spiegazioni in Consiglio Comunale.

C’è stata precipitazione e quindi non poca confusione nelle critiche alla presentazione della torre di Piano. Come dice N.Foster “… nessun’altra struttura ha tanta capacità di trasformarsi in icona”. Forse è proprio così. Ci si è fermati all’icona e si è tralasciato il suo contenuto.

Vezio De Lucia

Non concordo con le conclusioni

Caro Enrico, condivido e apprezzo molti degli argomenti oggetto della tua nota, argomenti che dovrebbero indurti a un giudizio non favorevole al grattacielo progettato da Renzo Piano. Mi pare che invece, alla fine, tu sia d’accordo. Provo a convincerti dell’errore. Comincio dal piano regolatore che, se non ho capito male, fissa per i tre previsti grattacieli un’altezza massima di 100 metri. Quello di cui si discute è alto il doppio, o quasi. Non è un’inezia e, come correttamente osservi, “la discussione sul grattacielo di Piano trascina con sé la questione delle regole e del modo con cui sono manipolate, del fastidio con cui ogni volta ci si sente in obbligo di inventarne di nuove; si trascina con sé l’evidente disparità nell’osservanza dei doveri tra chi vuol solo alzare di un piano la propria casetta – e le regole non glielo consentono – ed i potentati finanziari che alzano il loro grattacielo – che è già di 100 metri – di altri 100 e glielo si permette”. Già questo basterebbe per mettere in discussione la decisione comunale. Certamente ti ricordi che, nel convegno di Cittàbella del maggio scorso, avevamo apprezzato la situazione di Torino dove, al contrario di quanto succede a Milano, il piano regolatore è vigente e il potere pubblico lo fa rispettare. Scopriamo adesso che non è così e che Torino subisce il fascino del rito ambrosiano.

Ancora più importante è il problema che tu definisci della concentrazione di funzioni e, quindi, degli spazi pubblici mancanti che, secondo Diego Novelli, ammonterebbero almeno a otto ettari. Questo spazio non c’è, e allora? Torniamo alla questione del piano regolatore disatteso.

Ma, secondo me, l’argomento decisivo che impone di rifiutare il progetto di Renzo Piano, è quello che tu affronti sotto la voce skyline. Merito indiscusso della cultura italiana della seconda metà del secolo scorso (a partire dalla carta di Gubbio del 1960 a tutta le successive esperienze di recupero urbano) è l’acquisizione del carattere unitario dei centri storici, da proteggere perciò nella loro unitarietà, superando la precedente concezione che li individuava come luoghi di particolare concentrazione di monumenti (da tutelare) immersi in tessuto anodino (disponibile per ogni trasformazione, anche lo sventramento, purché accuratamente “ambientato”). Quell’acquisizione non può essere impunemente accantonata. Mi pare stantio e inutile il tentativo di attualizzare l’opera dell’ ingegner Antonelli al quale non si può attribuire la nostra sensibilità e non si capisce perchè avrebbe dovuto curarsi, come tu scrivi, “dell’inserimento ambientale cioè del rapporto con il tessuto degli isolati e del quartiere circostanti e tantomeno del sicuro sconvolgimento dell’immagine di Torino (che ora si accetta come immodificabile)”.

Ha scritto lucidamente Antonio Cederna, nelle mirabile premessa a I vandali in casa, che le discipline che in un tempo relativamente recente abbiamo inventato, gli studi storici, le scienze dell’antichità, l’archeologia, la storia dell’arte, l’estetica ci impongono, “se vogliamo veramente essere moderni e civili, di rispettare le testimonianze della Storia, di fare cioè quanto non è stato possibile in passato”. Questo è il punto, questa è la ragione per la quale bisogna opporsi al grattacielo previsto a ridosso del centro storico. La Mole antonelliana, piaccia o non piaccia, fa parte della storia di Torino, e il suo rapporto con lo sfondo delle Alpi e con la città non possiamo “superarli” con una nuova immagine che oblitera quella che abbiamo ereditato. Non è nella nostra disponibilità di uomini moderni: altro che sostenitori delle pecore in piazza San Carlo, come ha dichiarato il vostro sindaco. I grattacieli, se si vogliono fare, li si faccia nelle remote periferie dove potrebbero, forse, contribuire anche alla riqualificazione urbana. Ma penso che lì non ci sia alcuna convenienza – né di immagine, né di rendita immobiliare.

Ho cercato molto in sintesi di riepilogare le ragioni che hanno guidato la stesura del nostro appello, che perciò non è stato precipitoso, come tu giudichi, ma ancorato a profondi convincimenti. Che spero anche tu finisca con il condividere.

In bilico sul grattacielo. O meglio, sulla variante al Piano regolatore che consentirà a Intesa-Sanpaolo di costruire la torre più alta d’Italia proprio a due passi dalla stazione Porta Susa. Non è bello ritrovarsi a passeggiare sul cornicione del segno architettonico firmato Renzo Piano. Un’opera che farà ombra alla Mole (e al Pirellone), ma che per ora mette le vertigini solo alla maggioranza Chiamparino.

E’ di ieri infatti l’annuncio - da parte della cosiddetta «sinistra radicale» («Rifondazione Comunista», «Sinistra democratica» e «Comunisti Italiani») - che, allo stato attuale delle cose, proprio come i Verdi - questi gruppi non voteranno la variante al Prg. E così, se proprio il sindaco Chiamparino vorrà condurre in porto il progetto, dovrà ricorrere ai voti dell’opposizione. Un favore che, «trattandosi del grattacielo - ironizza Michele Coppola di Forza Italia - gli faremo cadere dall’alto, in cambio di precise garanzie, per esempio, sulle ricadute occupazionali». Ma le perplessità non restano circoscritte a quei gruppi che per tradizione danno filo da torcere all’assessore all’Urbanistica Mario Viano. E’ noto infatti che la sinistra radicale non gradisca un piano regolatore sottoposto a un balletto di modifiche (120 per la precisione). Ma non basta: ci sono perplessità anche nello stesso gruppo dell’Ulivo. Piera Levi Montalcini, per esempio, fa notare che «questo continuo gioco al rialzo dell’altezza della torre è inaccettabile: avevamo fissato 100 metri e 100 devono rimanere».

La replica del sindaco

Gli ambientalisti che tanto osteggiano l’arrivo della torre, dunque, Paolo Hutter in testa, possono prendersi un po’ di fiato: la discussione per dare il via libera al grattacielo si preannuncia lunga e laboriosa. «E’ giusto che si discuta e si discuta nei dettagli - replica il sindaco Chiamparino - basta però che ragioni senza far ricorso a pregiudizi ideologici». Contro-replica di Rifondazione comunista: «Nessun pregiudizio, ma così com’è il grattacielo non ci va bene e non lo voteremo» spiega il capogruppo Luca Cassano. Pretende di vederci più chiaro anche Monica Cerutti di «Sinistra Democratica»: «Tutti danno per scontato l’arrivo del grattacielo, al punto da organizzare su quel progetto una mostra - fa notare polemica -. Ma lo sa, la gente, che per realizzarlo dobbiamo approvare una variante al prg?».

Il referendum di Viale

La proposta del presidente dell’Associazione Adelaide Aglietta è solo una: «Questa novità urbanistica ha una portata troppo grossa per essere liquidata in Consiglio comunale - attacca Viale - c on i suoi 200 metri la torre del Sanpaolo sarà l’edificio più alto d’Italia, è quindi materia per un referendum popolare: il sindaco dovrebbe attivarsi per promuoverlo, si tratta di una decisione cruciale che cambia radicalmente l’aspetto della città».

Il «sì» del centrodestra

Come spesso accade quando un provvedimento fa storcere il naso alla sinistra, raccoglie il consenso pressocchè unanime del centrodestra. Che gongola all’idea di vedere il sindaco Chiamparino costretto a chiedere i voti-soccorso dell’opposizione. «La variante per il grattacielo deve rappresentare l'occasione per riaffermare la centralità di Torino nel progetto industriale della nuova banca - spiegano Daniele Cantore e Michele Coppola di Forza Italia - abbiamo sentito tanti impegni verbali ma nei fatti tutti sanno che Intesa-Sanpaolo si è spostata a Milano». Incalzano: «Noi voteremo sì a patto che i vertici di "San Intesa" dimostrino un nuovo e maggiore impegno verso le istituzioni ma soprattutto verso i torinesi».

«Sì» incondizionato «ma i voti ce li deve chiedere Chiamparino in persona» da parte di Alleanza nazionale, come spiega il capogruppo Agostino Ghiglia: «Noi vogliamo una città piena di grattacieli, perché sono l’espressione di una metropoli moderna, prosperosa, piena di lavoro e progetti: ma faremo pesare l’importanza del nostro voto». D’accordo con l’idea di fare nascere su Spina 2 la torre del Sanpaolo anche Dario Troiano del gruppo Libertà (seguace della Brambilla), mentre l’Udc, voce fuori dal coro, - come spiega Federica Scanderebech - risponde con un netto «no, senza se e senza ma». Come finirà? Forse l’idea di Viale è l’unica in grado di sbrogliare la matassa.

Nota: in allegato, per maggiore informazione, la motivata posizione di Legambiente sul progetto per il grattacielo (f.b.)

Che fare? Ci si sente deboli di fronte alle continue violenze verso le città e il paesaggio. Era già rovinata al novanta per cento la povera Italia; ora, nel XXI secolo, si stanno accumulando dappertutto vessazioni di nuovo tipo, grattacieli a più non posso, dovunque, città, coste, centri e periferie. Noi milanesi memori della città abitabile e affabile siamo stati sconfitti sulla linea di resistenza verso le politiche urbanistiche ed edilizie del sindaco Gabriele Albertini e del nuovo sindaco Letizia Moratti, queste ben più intense e decisive per distruggere, anche mediante l’opera degli architetti internazionalisti “di nome”, il senso stesso di architettura urbana, il sentimento dei contesti di città e società sopravvissuti. Oggi sentiamo pena per la vicenda di Torino, la capitale piemontese che conosciamo bene, che sentiamo custode di tanta bellezza e giustezza proprio come architettura urbana, come insieme di città, come aria di luoghi ancora oppositivi rispetto ai nonluoghi che anche grattacieli irragionevoli contribuiscono a creare. Non più belle piazze, non più belle strade, non più percezione del valore estetico e talvolta ancora sociale dello spazio abitato, circoscritto, libero dal traffico privato. Invece, mostri sopradimensionati incapaci di costituire spazi umani, aria di città, e destinati a sconvolgerne l’eredità più preziosa, il suo volto ben riconosciuto dai cittadini: condizione essenziale per eternare il legame patrimoniale e morale fra le generazioni. Non è architettura egoistica, arrogante, dice Renzo Piano: ma è vero il contrario, di sicuro: quel grattacielo di duecento metri tracotante e insolente nei confronti di Porta Susa, di quel tramite fra la “porta” e il cuore della città e le diverse arterie rappresentato all’avvio da via Cernaia e via Pietro Micca mirabilmente porticate e unitarie, poi i grandi viali alberati, di nuovo le altre strade porticate e, perché no, le strade corridoio: tutto tenuto insieme da architetture singole coerenti, di altezza media, tutto a testimoniare che l’architettura designa la bellezza e l’armonia della città quando è la stessa cosa che, se così posso dire, l’urbanistica. Siamo spaventati, Torino. Come finirai sotto le mazzate di questo e degli altri tre grattacieli già pensati, dei loro metri cubi illegali, del traffico automobilistico che provocheranno? E ne seguiranno altri, e altri ancora, come a Milano ognuno vorrà il suo o i suoi, gli speculatori, gli amministratori pubblici, gli architetti di nome o senza nome, poca dignità e molta sicumera. Combattete ugualmente, torinesi, contro i moloch (a meno che, come altrove è successo, non vogliate sopravvivere alla loro ombra).

Un appello per evitare che Torino diventi la città dei grattacieli, che lo skyline venga definitivamente deturpato, che il cemento diventi l'unico padrone della città. In calce l'appello. Inviate le adesioni a
cieloditorino@libero.it

E’ in arrivo a Palazzo Civico di Torino la controversa votazione di una cosiddetta “Variante Parziale per l’ambito di Porta Susa” che sfonda anche la soglia di 150 metri di altezza a cui si era arrivati l’anno scorso e che scomputa i vani scala ed ascensori dal computo della slp (superficie lorda di pavimento). L’ulteriore sopraelevazione della progettata torre non è dovuto alla fusione con Banca Intesa, e neanche dalla volontà di surclassare in altezza la Mole (questa è una conseguenza) . Dicono che è per fare atri veramente alti al pianterreno e per realizzare solai e giardini d’inverno in cima.

In pratica, per venire incontro alle esigenze immobiliari del San Paolo da un lato si aumenta in altezza il volume, dall’altro si fa una specie di sconto contabile per evitare che la Banca paghi alla città tutto quello che dovrebbe, in termini di oneri di urbanizzazione di cessione di aree a standard. Qui viene subito fuori la problematicità di un edificio tanto alto. La stessa delibera di variante parziale dichiara nel testo che “Il numero di scale e di ascensori da realizzarsi per esigenze di sicurezza incide, inoltre, notevolmente sullo sviluppo della superficie effettivamente utilizzabile…..

Tali situazioni determinano un’incidenza dei sistemi connettivi orizzontali e verticali che può raggiungere valori che vanno dal 25% al 30% della superficie coperta di ciascun piano.” Argomenti che non hanno convinto i consigli di circoscrizione adiacenti, determinando una prima grana politica. La zona 3 ha votato contro, dichiarando che non sono previsti parcheggi sufficienti e non si vede dove potrebbero farli. Nel consiglio di circoscrizione del Centro Storico il parere favorevole che la giunta aveva dato è stato affondato dalla convergenza dei no della opposizione di centro destra e quelli di quasi metà del centro sinistra, compresi – oltre all’ ala sinistra – tre esponenti del nascente Pd e uno dell’ Italia dei Valori. Si sono dichiarati perplessi, han detto – e in particolare lo ha detto il verde Cossa - che di fronte al vantaggio evidente per il San Paolo, non si vede quale sia i vantaggio per la città.

Il parere più motivato contro il progetto è venuto dalla circoscrizione 4 San Donato. Il consigliere Ferdinando Cartella ha anche scritto che “Ciò avviene senza tenere conto che la Torre in progetto all’incrocio con corso Vittorio si pone sul cono visivo diretto verso la collina, salvaguardato da vincolo ambientale ex lege 1497/1939 , e al limite del centro “aulico” (per non dimenticare il dialogo con la Mole) dimenticando che la variabilità della sua altezza non sarà indifferente . Ciò avviene dopo che si è rinviata a fase successiva l’ “Analisi di compatibilità ambientale” prevista espressamente dall’art 20 della legge regionale 40/1988 : non si può negare che questi interventi in oggetto non siano “sostanziali per l’assetto urbanistico della Città”.

I pareri delle circoscrizioni non sono vincolanti , ma indicano che non c’è proprio unanimità attorno a questo progetto, destinato a cambiare il volto di Torino ancora più del controverso parcheggio di Piazza San Carlo. In consiglio comunale i gruppi di sinistra sono molto perplessi. Se venisse fuori malcontento in città di fronte all’idea di avere ,- a due passi dal centro storico - un edificio ben più alto e massiccio della Mole, i consiglieri Sd, Verdi, Pdci e Rifondazione potrebbero far mancare i loro decisivi voti al grattacielo. Ma la polemica potrebbe travalicare i confini cittadini. Legambiente e Italia nostra sposano l’appello promosso da una ventina di professori e personalità torinesi (già apparso su questo giornale ) che chiede di rivedere tutta l’operazione, che potrebbe risultare più invasiva che decorativa del profilo della città, e an che negativa sul piano energetico. Ma persino l’architetto Cagnardi, padre del piano regolatore torinese. è scandalizzato dell’idea di mettere due mega torri a casaccio (San paolo e suo eventuale vicino) nel delicato profilo della città, dietro alla Mole e davanti alle Alpi. Ha scritto il giovane architetto Filippo Ferrarsi a nuovasocieta.it, che per i nuovi uffici del san Paolo sarebbe molto meglio utilizzare e recuperare un edificio già esistente e inutilizzato o più edifici , magari a Italia 61, o al Lingotto o nelle aree dismesse.

Il diritto al paesaggio urbano

Comunicato stampa di Italia Nostra

Compare nel panorama torinese un quarto grattacielo! due a Porta Susa, uno a Spina 1, uno al Lingotto ... sarà finita?

È una rincorsa di progetti di “voluminoso” impatto che coinvolgono lo “spazio visuale” svilendo ambiti storico-culturali e prospettive urbane-paesaggistiche.

È architettura - quella dei grattacieli - che non nasce da un “bisogno”, ma piuttosto pare rispondere ad un narcisismo di interventi improvvisi.

È architettura globalizzata, indifferente, che non stabilisce un rapporto con la città, ma anzi si impone su di essa, frammentando la preesistenza di quartieri consolidati e vivibili, portando a somigliare sempre più a territori di periferia.

È espressione di una cultura di rapida trasformazione metropolitana e di consumo urbano, ben diversa dalla nostra cultura di uno storico sviluppo urbano organico, prodotto di una successione di adeguamenti.

Investono l’immagine, il carattere, il paesaggio della città.

Ma il paesaggio non è semplice res nullius, è res omnium: è un bene diffuso che pretende, di converso, il diritto ad esso.

Al pari della tutela di tanti altri interessi, pubblici e privati, occorre altrettanta dignità per il diritto al paesaggio urbano e la tutela da un inquinamento visivo all’interno dei nostri ordinamenti legislativi e normativi, assicurando procedure autorizzative nel rispetto del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio e l’introduzione di una Valutazione d’Impatto Ambientale-urbano.

Torino, 3 ottobre 2007

Paolo Griseri

Torino cancella un pezzo di periferia

TORINO - Betty ha tre figli, fa la casalinga a Verona ed è tornata l´altro ieri nel grande quartiere all´ombra di Mirafiori. Ci è tornata dopo 18 anni di assenza a celebrare la fine di un simbolo, il crepuscolo delle periferie cresciute intorno allo stabilimento Fiat. «I simboli si rincorrono anche quando scompaiono», commenta amaro l´ex sindaco Diego Novelli che queste vie aveva battuto da cronista e militante del Pci all´inizio degli anni ?70. I grandi palazzi di via Artom, via fratelli Garrone, via Millelire, sono stati per quarant´anni il simbolo di una crescita tumultuosa e socialmente devastante, le strade dove arrivavano prima le case e solo con ritardo le fognature e i mezzi pubblici. I luoghi dei «meridionali» richiamati in massa dall´ampliamento della Fiat a produrre e trasformare un´ex capitale in metropoli industriale. Oggi alle 14,30 uno di quei palazzi, il numero 73 di via Fratelli Garrone, salterà in aria come un mostro di cemento qualsiasi, tra i tanti che deturpano il paesaggio italiano. Questa volta però la dinamite si porterà via un pezzo di storia sociale italiana.

Di quella storia Betty è stata protagonista. Era lei la «Ragazza di via Millelire», la capobanda nel film di Gianni Serra che per primo aveva raccontato, tra le polemiche dei torinesi doc, la vita delle periferie Fiat. Avevano girato nell´estate dell´80, mentre ai cancelli di Mirafiori si preparava lo scontro finale tra sindacati e azienda che sarebbe culminato nei 35 giorni di presidio dei cancelli e nella marcia dei 40 mila capi per le strade del centro. Betty ricorda «un quartiere dove i ragazzi non avevano orario: stavano in mezzo alla strada dal mattino alla sera e avevano tanto bisogno di raccontare le loro storie». Storie uguali alle molte che si rincorrevano, tra realtà e leggenda, nei quartieri intorno alla fabbrica. Storie di bande di cortile e di famiglie troppo numerose, dove le figlie nascondevano alle madri la pillola nella minestra. Storie di famiglie del Sud che ricordano da vicino quelle dei maghrebini di oggi: «Arrivavano a Torino - ricorda Novelli - e finivano ad occupare abusivamente le caserme abbandonate del centro storico, in via Verdi. O si costruivano baracche di fortuna». Una Torino in cui le case nuove venivano prese d´assalto prima ancora che gli operai lasciassero il cantiere perché è dura lavorare senza avere un tetto e un letto per la famiglia.

Ci sono voluti oltre vent´anni per ricucire lo strappo sociale, per far diventare città anche i casermoni della periferia, quelli costruiti a tempo di record con il piano Fanfani. «Li avevano fatti in fretta ma resistenti, guardate che fatica c´è voluta per abbattere le pareti interne», racconta con una punta d´orgoglio un altro ex sindaco, Giovanni Porcellana, già democristiano. Non è facile, con gli occhi di oggi, vantarsi per la realizzazione di questi alveari. Ma anche l´orgoglio di Porcellana ha una spiegazione, quella dell´amministratore di radice cattolica che con quegli alveari aveva provato a risolvere il problema di migliaia di famiglie baraccate. Oggi entra anche lui nel video realizzato per celebrare la grande esplosione.

E siccome i simboli si rincorrono, a decidere di piazzare i candelotti è stato un giovane assessore di origine pugliese, Roberto Tricarico, l´unico uomo del Sud tra i 14 membri della giunta cittadina di centrosinistra guidata da Sergio Chiamparino. Una rivincita? «Rivincita è un´espressione eccessiva - protesta Tricarico - ma certo l´orgoglio di essere riuscito ad avviare il recupero di una parte importante della periferia». Suo padre era arrivato a Torino nel ?66, nello stesso anno in cui venivano terminati i casermoni di via Millelire: «Essere nato in una famiglia del Sud mi è servito soprattutto a intendermi con le famiglie, a organizzare il loro trasloco in altri alloggi popolari. Non è stato un lavoro facile».

Che ne sarà di via Artom, che cosa sorgerà al posto del cratere? Servizi pubblici e centri di incontro, promettono i progettisti del comune. La speranza è che un giorno anche questa parte di Torino diventi un quartiere normale, come tanti altri. «Quel che colpisce - dice Novelli - è la contemporaneità degli avvenimenti: cadono i palazzi di via Artom mentre si discute che farne di Mirafiori». Il grande stabilimento è ormai attivo solo per metà e l´amministrazione sta discutendo come occupare gli spazi vuoti. Tutti sanno che non tornerà più la fabbrica con 60 mila operai dell´inizio degli anni ?70. Perché c´è un destino che unisce i simboli: si rincorrono anche nella caduta.

É di questi giorni la notizia che in Italia il numero di abitazioni ha superato quota 30 milioni. Rispetto ai dati di dieci anni fa, si registra una crescita del 9 per cento: nel 2001, infatti, le case erano 27 milioni. La Lombardia, con l'11,9 per cento del totale degli edifici, è seconda solo alla Sicilia, 12,2 del totale, nella pattuglia delle regioni più costruite d'Italia. Un quinto delle abitazioni sparse sul territorio nazionale non risulta occupato e, tuttavia, in questo "Bel Paese", dalle Alpi all'Etna negli ultimi anni è stato tutto un fervore di cementificazioni. La malattia del mattone che sta trasformando l'intero Paese, è ormai visibile anche in una provincia come quella di Pavia che, pure, continua ad avere un addensamento della popolazione tra i più bassi in Lombardia.

Ogni Comune si fa puntiglio di estendere le zone urbanizzate, di consentire voraci lottizzazioni, di far nascere nel tempo più breve interi quartieri: il risultato è che vi sono settori cittadini, a Pavia, e paesi, nei dintorni del capoluogo, che nel giro del prossimo quinquiennio aspirano ad avere il trenta, cinquanta per cento di popolazione in più. Con tutti i conseguenti squilibri che ne deriveranno nell'assetto di comunità investite da impatti massicci, troppo veloci perché siano gestiti con armonia e razionalità.

Pensiamo solo alle conseguenze che questi nuovi flussi avranno sull'erogazione di servizi fondamentali: da quelli scolastici a quelli sanitari, dalla nettezza urbana alla rete idrica.

Ma, come si è già detto, le amministrazioni comunali contano sugli oneri di urbanizzazione per far quadrare sull'immediato i bilanci. E' una visione dai tempi corti, ma la lungimiranza di molti sindaci e assessori sembra spingersi, al massimo, sino alla conclusione del loro mandato. Poi il cerino acceso passerà ai loro successori e, ovviamente, sarà quel che sarà.

A rendere ancora più grave la situazione, in una parte significativa della Lombardia, finora tutelata dalla speculazione edilizia grazie alle normative di tutela dei parchi, ritorna adesso la proposta di modifica dell'art. 13 della legge urbanistica regionale (legge 12/05). Qualcuno vuol farla passare per una questione tecnica, da addetti ai lavori, ma non è affatto così perché le conseguenze ci coinvolgeranno tutti. E penalizzeranno non poco la nostra Provincia.

Come si ricorderà, la Commissione Territorio della Regione Lombardia a dicembre - dopo non poche proteste e prese di posizione, non solo degli ambientalisti - aveva deciso di congelare una proposta di emendamento all'art. 13. Ora, in base a chissà quali nuovi equilibri politici, la maggioranza che regge la Lombardia ritorna sui propri passi.

Nonostante in questa settimana siano state raccolte in provincia di Pavia, da diverse organizzazioni locali di difesa del territorio, più di duemila firme che chiedono di rinunciare alla modifica, in Regione si punta a emendare l'art. 13. Così, di fatto, si vareranno norme che faciliteranno un ulteriore, devastante consumo di territorio nei Comuni inseriti nei Parchi. Comuni che, in nome di interessi immobiliari sempre più arroganti, avranno, ognuno per quanto è di sua competenza, mano libera nel consentire di costruire anche in aree finora protette.

Le conseguenze - se all'ultimo momento questo emendamento non sarà eliminato - saranno pesanti anche per la nostra Provincia: investiranno infatti aree quali il Parco del Ticino e, soprattutto, il Parco Agricolo sud Milano. Con l'emendamento cadrebbe infatti l'ultimo baluardo che si frappone a una cementificazione ulteriore in quella zona. La situazione che ne deriverà sarà ancora più devastante di quanto è stato prodotto, nell'ultimo ventennio, sull'asse Binasco-Melegnano. E da lì dilagherà ancora di più in buona parte del territorio del Pavese.

Ora tutto dipende da quello che mercoledì si deciderà in Commissione Territorio e, in qualche misura, dalla capacità dei nostri concittadini, delle istituzioni che li rappresentano, di farsi sentire. Possibilmente prima che i signori del mattone impongano le loro scelte.

Perché poi sarà tardi, visto che, come dice il proverbio, con le ragioni del dopo si lastricano le strade dell'inferno. Anzi, visti i tempi, le si cementifica.

Nota: in quanti altri modi si può declinare localmente (in Lombardia, ma in futuro chissà dove coi tempi che corrono) questo articolo? L'invito per tutti coloro che non l'hanno ancora fatto è di continuare a aderire all'Appello sul sito http://www.piccolaterra.it Non è un problema locale (f.b.)

Il piano regolatore di Roma è stato approvato in via definitiva martedì scorso. Negli stessi giorni è stata avanzata la candidatura a sindaco di Francesco Rutelli. Potrebbe dunque essere proprio colui che ha ispirato l'intera urbanistica romana a dover gestire il nuovo piano. O meglio, la parte non ancora attuata: è noto infatti che attraverso il disinvolto uso dell'accordo di programma il piano è già stato attuato al 50% delle sue previsioni pur essendo approvato da soli quattro giorni. E' il cosiddetto «modello romano».

Modello che in urbanistica si basa su un impianto teorico inaccettabile. Con il Piano delle certezze del 1997 si affermò che non si poteva tagliare nessuna previsione urbanistica. Nacquero i «diritti edificatori» che dovevano essere obbligatoriamente «compensati». Con questi due sciagurati istituti si è inaugurato un devastante meccanismo incrementale della crescita urbana. Il caso del comprensorio di Tormarancia è esemplare. Erano previsti 1 milione e ottocentomila metri cubi: alla fine delle compensazioni sono diventati 5,2 milioni!

Che farà dunque il Rutelli redivivo? Continuerà lungo la china rovinosa che ha portato al più violento sacco urbanistico mai subito dalla città o aprirà un percorso critico che ribalti la concezione liberista dell'urbanistica romana? Molta parte di questa scelta dipende dalla capacità politica della sinistra. E' urgente ricominciare a ragionare sul futuro della città. Dal 1991 ad oggi circa 300.000 abitanti sono andati a vivere fuori dalla cintura metropolitana di Roma mentre i luoghi di lavoro si concentrano nel centro storico, nei quartieri della prima periferia e all'Eur. Ogni giorno 800 mila persone sono costrette a un estenuante pendolarismo. Inoltre, al posto di chi è andato via vivono a Roma oltre 400 mila stranieri, in balia del «mercato» e costretti a finanziare un imponente fenomeno di affitti sommersi: non si trova un posto letto a meno di 400 euro al mese. Una stanza vale oltre 600 euro. E intanto le case popolari non si costruiscono più. Tutto ciò è accettabile dalla sinistra?

Passiamo alle «perle» del piano regolatore. Il piano, ci viene detto, «tutela 88 mila ettari di territorio di Roma, due terzi dei 129 mila ettari complessivi». Bello, no? Ma non è vero. E' lo stesso comune di Roma ad aver certificato che già nel 2004 il cemento e l'asfalto coprivano 46 mila ettari. Dunque già prima che il piano fosse approvato la tutela riguardava meno dei due terzi del territorio. Il piano poi prevede la costruzione di 70 milioni di metri cubi di cemento. Una stima prudente dice che verranno consumati almeno 15mila ettari di agro. La metà del territorio di Roma sarà dunque coperta di cemento e si continua senza pudore a dire che i due terzi sono tutelati. Ancora. Per giustificare il diluvio di cemento (70 milioni di metri cubi per una città che non cresce da vent'anni) si dice che il vecchio piano prevedeva ben 120 milioni di metri cubi e che pertanto ne sono stati tagliati 50. Non è vero. Il calcolo è stato effettuato sommando tutte le cubature lì previste, quelle private e quelle pubbliche. In un piano «pubblicistico» come quello del 1965 erano previsti ben 9.000 ettari di servizi pubblici: 180 milioni di metri cubi. Et voilà i 120 milioni di residuo: scuole e ospedali sono stati considerati come abitazioni private!

Ci viene ancora detto che con le «centralità» si porterà finalmente nelle periferie la qualità che manca. La prima vera occasione è di pochi anni fa. I proprietari delle aree di Bufalotta sottoscrivono un contratto con il comune di Roma in cui si impegnano a realizzare una delle mitiche centralità. Tre milioni di metri cubi equamente suddivisi in commerciale, residenziale e terziario. Nei due anni trascorsi sono stati realizzati i primi due segmenti del nuovo quartiere. Era arrivata l'ora degli uffici e della qualità. Ma il «mercato» non tira e i proprietari chiedono al comune di trasformare le previsioni di uffici in abitazioni. Le regole non si cambiano durante la partita. Eppure nel novembre 2007 la giunta comunale di Roma ha deciso di accettare quella proposta indecente. E così facendo ha gettato a mare l'intero impianto del piano regolatore! Alle tante menzogne che sono state accreditate in questi anni, anche l'autore del piano, Giuseppe Campos Venuti, ha aggiunto un'ultima vergogna affermando (all'Unità) che anche Antonio Cederna aveva tessuto le lodi del piano. Ma i primi elaborati del nuovo piano sono stati resi pubblici nel 1998. Cederna ci aveva lasciato da due anni. Uno spudorato falso, dunque, per strumentalizzare la memoria di un galantuomo che ha speso la vita a difendere Roma dagli assalti della speculazione.

Se la sinistra arcobaleno pensa di stringere un patto elettorale con Rutelli, sarà bene chiarire che occorre una radicale inversione di marcia: la fine del sacco urbanistico di Roma.

Renato Soru è nella bufera, ma non si dà per vinto. Al fuoco incrociato del centrodestra («giustizia è fatta: che se ne vada, ora») che dopo lo schiaffo della Consulta alle tasse sul lusso gli chiede di dimettersi, il governatore risponde subito con una battuta: «Mi sembra una richiesta un po’ esagerata». Poi, alla luce delle tante domande di risarcimento che stanno arrivando alla Regione da parte di chi ha già pagato l’imposta e dell’invito di Egidio Pedrini (Idv), segretario della Commissione Trasporti della Camera, che gli intima di «restituire i soldi ai cittadini», il governatore prende di petto l’argomento e ribadisce la validità del concetto di autonomia impositiva della Regione Sardegna, secondo quanto prevede il suo Statuto speciale. «Attendo le motivazioni della sentenza - commenta - e in ogni caso dovremo fare qualcosa perché non ci sia un reddito prodotto in Sardegna che sfugga alla compartecipazione regionale». Per ora, Renato Soru non rivela quale tipo di tributo intenda applicare in futuro, dopo la bocciatura della Corte Costituzionale alle parti fondamentali della legge varata nel maggio 2006. «Dovremo verificare - aggiunge il presidente della Regione - se sulle seconde case e sulle plusvalenze derivanti dalla compravendita di immobili l’illegittimità sia stata decisa per il mancato riconoscimento del nostro diritto a imporre tributi oppure solo perché esiste una discriminazione tra residenti e non residenti in Sardegna». Citando l’esempio di Milano, che fa pagare un ticket per le auto che attraversano il centro della città, Soru ha anche ricordato che l’istituzione della tassa sul lusso era stata decisa per risanare il bilancio regionale. «Ora - conclude il governatore - bisognerà modificare subito la Finanziaria per sopperire alle minori entrate causate dalla sentenza: ridurremo le spese nel campo degli investimenti sulla sanità».

A proposito di conti, ieri l’assessore regionale al Bilancio, Eliseo Secci, ha rivelato che la perdita causata dalla sentenza «per i comuni dell’isola dovrebbe essere di cento milioni di euro». La cifra era stata inserita nella finanziaria 2007 e nella manovra 2008 in discussione in questi giorni in consiglio regionale.

Sempre ieri l’ex presidente della Regione, e attuale deputato di Forza Italia, Mauro Pili, ha dato il via alla «class action». Il centrodestra promuoverà un’azione risarcitoria nei confronti della Regione «per i danni causati dalle tasse sul turismo e sull’arrivo dei rifiuti in Sardegna. Soru - argomenta Pili - ha messo in ginocchio la Sardegna e ora bisogna che qualcuno paghi per questo gravissimo danno d’immagine».

Lo sgretolamento delle nostre polverizzate realtà locali ha concorso a diffondere l’idea che le norme, le regole e perfino le sentenze possano essere modificate – come durante una rivoluzione - dalla cosiddetta “volontà popolare” aizzata e infiammata da un Masaniello che guida la “rivolta”.

Ora, avviene ad Orosei – un territorio bellissimo e ambìto dagli speculatori – che il tribunale abbia emesso un’ordinanza di demolizione. Insomma alcune costruzioni e parti di costruzioni abusive, devono essere abbattute dalle ruspe. Così, contro il sindaco di quel paese è stata esplosa una bomba. Una specie di ordalia nostrana per il sindaco che supera la prova.

Un ex sindaco (sindaco del paese per dieci anni e vicesindaco per altri cinque) ha acrobaticamente proclamato che il legittimo abbattimento di costruzioni illegittime, provocherà conseguenze nefaste. Ci ha perfino spiegato, l’ex sindaco, che la faccenda delle demolizioni “ non è affrontabile con il solo metro giuridico” e che la questione rappresenta “un problema politico di giustizia sostanziale”. Come se quella dei giudici del tribunale di Nuoro non fosse una giustizia sostanziale. Come dire che la Giustizia si deve adeguare all’idea di “giusto sostanziale” dell’ex sindaco. L’ex primo cittadino, conscio o no della gravità del proclama, ingrossa il corteo di chi istiga contro la sentenza di un tribunale cavalcando senza sella il “giudizio popolare”. Infine minaccia un atto estremo: le dimissioni da consigliere se le demolizioni andranno avanti e se il suo distinguo tra giustizia formale e giustizia sostanziale non verrà recepito. Noi ci auguriamo che la legge faccia il suo corso e che il consigliere mantenga la promessa.

Ma la questione dell’abbattimento di poche case, poggioli e balconcini ne nasconde un’altra più sostanziosa e complessa.

Il territorio di Orosei ha trovato, in questa amministrazione, chi ha compreso l’elementare verità che un territorio è una ricchezza soltanto se lo si conserva integro, se si evitano orrori ( e a Orosei ne sono avvenuti ) e che l’urlo di guerra di tanti sindaci vista mare, “valorizziamo, valorizziamo”, ha un effetto distruttivo perché la cosiddetta “valorizzazione” è consistita nel togliere il sangue al territorio sino a renderlo esausto e privo di ogni valore. Orosei ha ancora molte meraviglie da salvare e può diventare un esempio di diffusione della ricchezza ( per tutti e non per affaristi e loro servitori ) proprio attraverso la conservazione del bello naturale. Sostenere la linea della legalità, del rispetto delle norme che regolano l’uso dei suoli significa battere l’unica via possibile perché Orosei si conservi. Le novecento irregolarità rilevate nel suo territorio sono un segno di cattiva gestione nei quindici anni durante i quali anche l’ex sindaco amministrava e lottava contro l’abusivismo. Cosa è successo al tesoro di famiglia di Orosei negli anni novanta, sino a qualche anno fa, è sotto gli occhi di tutti. E non ha scusanti.

Il paese della Baronia è oggi una metafora dell’intera Isola assediata da speculatori che raccontano la balla luccicante di come ci arricchiremmo moltiplicando metri cubi, attracchi, porti, aeroporti e strade sino alla scomparsa del nostro paesaggio, spremuto, frantumato e violentato da un’impossibile idea di sviluppo infinito e progressivo.

Schierarsi, come ha fatto l’ex sindaco di Orosei, contro la sentenza di un tribunale è legittimo anche se inopportuno. Ma dichiarare che esiste un’altra giustizia, parallela e “sostanziale”, beh, significa spararla grossa, significa propagandare l’idea avvelenata che di giustizie ne esistano tante.

"Cosa succede in città". Così si intitola il convegno che si terrà sabato mattina a Roma, all'ex Mattatoio, nella Città dell'Altra Economia (Largo Dino Frisullo). Ne parlo con Adriano Labbucci, Presidente del Consiglio della Provincia di Roma. «Il convegno di sabato - mi dice - al quale, oltre agli esperti , sono state invitate tutte le associazioni ambientaliste , e i comitati dei cittadini che hanno a cuore il destino della città, é organizzato dal Movimento Sinistra Arcobaleno, ma non ha obiettivi elettoralistici. Nasce infatti da una lunga riflessione sul malessere della città. Perché la febbre edilizia che sta divorando Roma produce un modello urbano dissennato». Ed elenca: si continuano a costruire quartieri residenziali, ma non per chi ha bisogno di una casa e non può permettersela, si moltiplicano i centri commerciali, anche questi lungo il Raccordo, (28 negli ultimi dieci anni), e si mettono quindi le basi per un disastroso aumento del traffico automobilistico. Labbucci cita un altro dato inquietante:«Con questo ritmo ci mangeremo in pochi anni, lo ha affermato la Soprintendenza Archeologica, altri 15.000 ettari di Agro Romano. In Italia consumiamo 244.000 ettari di territorio "vergine" ogni anno. In Inghilterra solo il 30% delle nuove costruzioni può installarsi su un terreno mai edificato. In Germania il consumo annuale del suolo è limitato a 10.000 ettari all'anno».

Ma perché l'Italia, e Roma in particolare, va in controtendenza rispetto ai maggiori Paesi dell'UE? Secondo Labbucci, l'abuso di territorio che, sottolinea, non riguarda soltanto Roma, è stato incentivato da una legge voluta nel 2001 dal governo Berlusconi e mai abrogata: la norma consente ai Comuni di utilizzare gli oneri di urbanizzazione non soltanto per gli investimenti ma anche per le spese correnti.« i Comuni si rifanno dei tagli dello Stato promuovendo l'edilizia».

«È lo stesso ragionamento- dico- che stamattina alla conferenza-stampa di Italia Nostra e del Comitato "Salviamo il Pincio-VivaValadier", faceva l'ingegnere Antonio Tamburrino, a proposito del parcheggio del Pincio…». «A cui anche io sono contrario…» .«Infatti. Tamburrino afferma che il parcheggio è un ottimo affare dal punto di vista finanziario, perché, calcolando un investimento di 10/15.000 euro a posto auto, l'Atac, che è una s.p.a partecipata del Campidoglio,e l'impresa Cerasi, che ha avuto l'appalto, si spartiranno una torta di 100/200 milioni di Euro»

«Ammettiamo - ragiona Labbucci - che gli introiti che toccheranno all'Atac consentano un arricchimento del parco autobus del servizio pubblico, di assumere altri autisti ..Ma quanti chilometri all'ora fanno i bus nel centro storico, se ci sono altre 700 automobili private che vanno e vengono dal parcheggio sotterraneo del Pincio? Senza contare la distruzione della scenografia urbana del verde e di Piazza del Popolo disegnata da Valadier »

Qui il documento preparatorio del convegno

Con tutto il rispetto per la sua lunga storia, devo dire che le considerazioni che Campos Venuti affida a l'Unità sul piano regolatore di Roma, sono propaganda di scarsa qualità e di cattivo gusto". Lo afferma in una nota il senatore Salvatore Bonadonna, Sinistra Arcobaleno, commentando le dichiarazioni di Campos Venuti pubblicate oggi da l’Unità. Parlare di 40 milioni di metri cubi cancellati quando si approva un piano che ne contiene 70 milioni è come raccontare una barzelletta. Ed è evidente che da molto tempo non gira per la città e quindi parla di una circolazione su ferro e di una vivibilità delle periferie che sta nel suo immaginario. Dire che le varianti sono inevitabili per le rigidità imposte dai massimalisti è semplicemente falso perchè– precisa Bonadonna - queste derivano da successive compravendite delle aree e accordi intercorsi tra i proprietari delle aree e l'amministrazione capitolina che pure aveva deliberato i precedenti piani; così come è falso che la legge urbanistica regionale imponeva un piano rigido, immutabile, su più di mille chilometri quadrati. Mi auguro che queste non siano sue parole altrimenti oltre a mettere in discussione l’onestà intellettuale, sarei costretto a chiamare in causa la sua competenza professionale perchè un professore sa che una legge è cosa diversa da un piano. Campos Venuti si vanta di aver affermato il concetto riformista di un piano che non costringe ad espropriare e, per non perdere l'abitudine, rivolge un attacco gratuito e infondato alla Legge urbanistica regionale che porta il mio nome, e fu approvata dalla giunta Badaloni. Afferma il falso quando dice "Noi volevamo sospendere quei diritti edificatori in attesa da 45 anni" come se la legge lo impedisse. In realtà ha fatto il contrario: ha riconosciuto diritti edificatori inesistenti e li ha ricompensati in maniera sorprendentemente eccessiva con le compensazioni e la perequazione. Può essere soddisfatto il riformista Campos Venuti perchè il suo piano passa grazie al "patto riformista" che ha visto il Comune di Veltroni e la Regione di Storace cancellare parti importanti della Legge sulla tutela ambientale, grazie allo svuotamento della legge urbanistica regionale che ha riportato la Regione Lazio tra quelle più arretrate nel governo del territorio e grazie alla cortese eliminazione di 977 vincoli o tutele su altrettante aree dell'agro romano. Se poi ci mettiamo che su 70 milioni di metri cubi, di cui una parte consistente realizzata in deroga, vediamo che mancano le case popolari e circa 30 mila famiglie sono in condizioni di emergenza abitativa, Campos Venuti può essere gratificato nel suo spirito riformista e minimal-progressista.

Caro eddyburg, ti chiediamo di contribuire a diffondere, attraverso un sito che noi consideriamo punto di riferimento insostituibile per le battaglie in difesa delle nostre città, il nostro messaggio.

Rivolgiamo un appello affinché il progetto di destinare il complesso monumentale di S.Paolo Maggiore a “Cittadella degli Studi”, con residenza per studenti e docenti, trovi la ferma opposizione della Quarta Municipalità. Tale progetto è portato avanti dal Master di Studi Superiori di Architettura, coordinato dal Preside di Architettura della Federico II e da altri illustri professori.

La chiesa di S.Paolo, con chiostri e giardini, siano recuperati ad uso pubblico e aperti soprattutto per donne, bambini e anziani, oltre che al turismo colto. Napoli deve conservare integro e fruibile ai cittadini il suo Centro Storico, unico, ricco di suggestioni e mistero, di storia e di arte.

Partire da questo, significherebbe affrontare sicuramente meglio le tante questioni storicamente irrisolte di Napoli. Le politiche sociali non vanno rivolte specificamente verso l’Università, ma devono riguardare l’intera area metropolitana della città.

Politiche sociali che richiederebbero una classe politica che non navigasse nei rifiuti!

Ricordiamo che il vigente P.R.G. di Napoli prevede il trasferimento delle strutture universitarie della vecchia Facoltà di Medicina con la demolizione delle Cliniche nel cuore del Centro Storico.

Al posto del Policlinico universitario sorgerebbe un Parco Archeologico che potrebbe estendersi anche in aree selezionate attorno agli antichi decumani di quella che era Neapolis: dall’Acropoli alla zona dei teatri, dall’Agorà alle Terme di via Carminiello ai Mannesi, fino al tempio di Augusto, scavato sotto piazza Nicola Amore durante i lavori in corso della Metropolitana.

La Facoltà di Medicina verrà trasferita fuori dal Centro Storico; come è stato negli anni ‘60 per Ingegneria a Fuorigrotta e, più recentemente, per molte altre facoltà a Monte S.Angelo.

Il Centro Storico è già saturo di foresterie con il proliferare di bed and breakfast. E’ assai diffuso, poi, il grave fenomeno di alvearizzazioni e microristrutturazioni edilizie che deturpano edifici storici per ospitare i numerosi studenti fuorisede che pagano costosi affitti non dichiarati dai proprietari. Contestualmente alla tutela e al restauro degli innumerevoli monumenti religiosi e laici stratificatisi dal Mondo Antico fino all’Età Moderna, deve attuarsi una politica della casa che consenta la permanenza dei ceti popolari, essenza del Centro Storico di Napoli. La riqualificazione del Centro storico di Napoli parte dalla pulizia, dall’igiene edilizia e dal disinquinamento di ogni suo vicolo! Fondamentale è pure la ricostituzione dell’ identità e della memoria collettiva perduta con la disgregazione sociale cresciuta negli ultimi decenni. Si ricostituisca la maglia di quelle produzioni sostenibili e di bassissimo impatto ambientale non solo fondate sulla tradizione, ma anche dovute alla formazione dei giovani sulle nuove tecnologie: non solo maestri tessitori, ebanisti, muratori che recuperino antica sapienza, ma anche tecnici formati ad installare impianti e componenti per il risparmio energetico e la riduzione di emissioni nocive. Gli studenti del Master di Studi Superiori hanno mai sentito parlare della delinquenza giovanile, organizzata e non, che serpeggia per interi quartieri di Napoli al centro e in periferia? Delle sue cause?

Da cittadini democratici, chiediamo la costruzione di città universitarie nelle aree dimesse della periferie occidentale e orientale di Napoli che diano impulso alla loro riqualificazione; di promuovere una grande gara di progettazione sostenibile costruendo case dello studente, aule, laboratori, biblioteche e attrezzature per sport, svago e tempo libero, dotati di standard congruenti; di consentire il diritto allo studio con affitti e tasse pagati in base ai redditi delle famiglie.

In Europa le città universitarie sono elemento di modernità e qualità urbana di molte grandi città.

Il Centro Storico di Napoli va tutelato come patrimonio collettivo (lo è già dell’Umanità per l’UNESCO) recuperandone significati simbolici e valenze di qualità urbana: giardini pubblici, musei, biblioteche, servizi sociali per adulti e bambini, fruibili nel presente da tutti i cittadini e da un turismo più maturo, meno massificato, organizzato per piccoli gruppi e singoli visitatori.

Il Centro Storico di Napoli rimanga patrimonio collettivo abitato dal popolo napoletano!

Napoli, gennaio 2008.

Al di là del problema urbanistico che, comunque, è già stato compiutamente definito dall’attuale, recente P.R.G. di Napoli che l’appello giustamente richiama, assolutamente urgenti appaiono progetti per quella che si potrebbe definire “riqualificazione sociale” dell’area del centro storico partenopeo. Le soluzioni possono essere molte e non necessariamente escludentesi: è importante che se ne discuta e che, anche in tempi così difficili, riemerga la volontà dei cittadini di occuparsi del destino della propria città. (m.p.g.)

Provo anch’io a intervenire nell’importante discussione che Eddyburg sta ospitando a proposito di Calstelfalfi. Qui si è verificata la prima applicazione di un metodo – il “dibattito pubblico” sui grandi interventi – che è stato poi esplicitamente previsto dalla legge toscana sulla partecipazione, approvata un mese fa. Ciò significa, che dopo questa esperienza pionieristica, ce ne saranno altre, probabilmente molte altre. E’ quindi importante capire che cosa possiamo aspettarci da un approccio di questo genere. Se pensiamo di poterlo migliorare, correggendo alcuni dei limiti che sono stati denunciati. O se è meglio buttarlo via e impegnarci a lavorare su altri fronti.

I critici del dibattito pubblico di Castelfafi dovrebbero riconoscere (e qualcuno di loro, a dire il vero, lo ha fatto) che si tratta di un’innovazione per lo meno inconsueta nel modo di procedere delle amministrazioni pubbliche italiane. Di solito, in casi simili, i progetti vengono tenuti segreti, la negoziazione tra amministrazione e l’impresa promotrice si svolge dietro le quinte. Si cerca di mettere l’opinione pubblica di fronte al fatto compiuto. Poi magari qualche intellettuale (con o senza villa) se ne accorge, denuncia il fatto sui giornali e chiede a gran voce un intervento dall’alto, che qualche volta arriva e spesso no. La polemica si svolge in alte sfere, molto distanti dal contesto locale.

A Montaione si è proceduto in tutt’altro modo. Le carte sono state messe a disposizione dei cittadini. Si è aperto uno spazio pubblico strutturato in cui è stato possibile affrontare tutti gli aspetti fondamentali della questione. I promotori immobiliari sono usciti dall’ombra in cui solitamente si rifugiano e sono stati costretti a interloquire con i partecipanti. L’equilibrio dell’informazione e la parità nell’accesso sono state garantite da un soggetto super partes. Gli incontri sono stati straordinariamente ricchi e affollati. Per capire la portata della svolta basterebbe leggere attentamente – ho l’impressione che non tutti i critici l’abbiano fatto – il documento conclusivo del garante. E’ raro che un confronto pubblico venga registrato con tale completezza, trasparenza e chiarezza. Anche sul piano linguistico, il rapporto non si nasconde dietro il gergo burocratico-ufficiale che affatica i documenti istituzionali e purtroppo spesso anche quelli degli oppositori. E’ un modo – prezioso e inusuale – di restituire con onestà (e anche con un pizzico di passione) i variegati termini della questione così come sono emersi dai partecipanti con un profondo rispetto per le loro posizioni e senza quella supponenza intellettuale che spesso appesantisce i nostri scritti.

Quello che i critici obiettano è, però, che il dibattito di Castelfafi ha finito per avallare lo “sfregio”, ossia l’intervento della Tui sull’antico borgo, limitandosi a porre qualche paletto. E, se l’esito è stato deludente, ci deve essere qualcosa che non va nel metodo. Mi pare che le critiche fondamentali siano tre. Innanzi tutto, Sandro Roggio nota che l’avvio del dibattito non è stato equilibrato: nella prima assemblea si è dato tutto lo spazio ai promotori e nessuno ai loro critici. Se questo è accaduto, si tratta di un difetto rimediabile. I débats publics francesi, a cui l’esperienza di Castelfafi si è ispirata, sono preceduti da un accurata individuazione di tutti i possibili stakeholders (associazioni, comitati, istituzioni, singoli cittadini ecc.) a cui viene chiesto di esprimere il proprio punto di vista che viene diffuso dagli organizzatori, con la medesima veste tipografica, in appositi cahiers d’acteurs. Tanto per fare un esempio, nel dibattito sulla linea del TGV Marsiglia-Nizza ne sono stati pubblicati una trentina, che affrontavano il problema sotto le più diverse angolature. E, ovviamente, gli stessi attori sono stati anche i protagonisti (non gli unici) della successiva discussione. A Castelfafi questo non è stato fatto, ma si potrebbe fare nei prossimi dibattiti. Chiedo a Roggio: lo considererebbe un passo avanti?

La seconda critica, più radicale, è quella di Alberto Magnaghi. Egli obietta che il dibattito di Castelfafi si è limitato a riflettere il livello di coscienza attuale degli abitanti di Montaione. Ma – egli osserva - le popolazioni locali sono formate da “individui la cui cittadinanza implode nella loro figura di consumatori”. Sono “bombardati dalle pubblicità televisive”. Coltivano “immaginari eterodiretti”. E si chiede pertanto: “sono questi [immaginari] che dobbiamo ‘ascoltare’ o abbiamo la responsabilità di fornire agli abitanti di un luogo strumenti che li aiutino a cambiare la loro posizione di sudditanza culturale e alienazione?” Probabilmente anche l’amministratore delegato della Tui pensa, specularmene, la stessa cosa degli abitanti di Montatone e si chiede: “ma perché questi cittadini invece di badare ai loro concreti interessi immediati, si lasciano trascinare da immaginari utopici e ci mettono i bastoni fra le ruote?”. Quali sono i veri interessi degli abitanti di Montatone? quelli di lungo periodo e comunitari che immagina Magnaghi o quelli di breve periodo ed economici che immagina la Tui? O quelli – diciamo così intermedi – che molti abitanti in carne ed ossa cercano faticosamente di definire a partire dalle loro culture, delle loro esperienze e delle loro sensibilità? Questo è l’oggetto del contendere. E mi pare che l’apertura di uno spazio pubblico trasparente sia la cornice migliore perché la contesa possa svolgersi alla luce del sole e ad armi pari (o per lo meno non troppo dispari). In un quadro siffatto chi ha più filo, tesserà (di solito invece tesse chi ha più relazioni occulte e più potere). Non capisco insomma perché Magnaghi, nella sua veste di advocacy planner, non consideri questo contesto come il più favorevole alla sua battaglia pedagogica. Preferirebbe forse affrontare i cittadini senza contraddittorio? E, comunque, non si troverebbe anche lui di fronte a persone che hanno idee, speranze, visioni e immaginari diversi da quelli da lui auspicati?

La terza critica, sollevata da Edoardo Salzano e ripresa da Paolo Baldeschi, obietta che il paesaggio di Montaione non appartiene soltanto agli abitanti di Montaione e che sarebbe pertanto necessario un approccio che essi chiamano “interscalare”, ossia che tenga simultaneamente conto dei punti di vista che emergono da livelli territoriali di scala più ampia. Si tratta di un’esigenza giustissima, ma non è chiaro come possa essere realizzata. Salzano stesso riconosce che la Regione è, da questo punto di vista, un interlocutore inaffidabile. Ma allora chi sono gli interlocutori giusti su scala vasta? Ho l’impressione che Salzano (come del resto accade spesso ai protezionisti) si affidi troppo alla forza delle leggi: “bisognerebbe – egli scrive - che le scelte della Regione Toscana fossero fedeli alla lettera e allo spirito del Codice del paesaggio”. Bisognerebbe, certo, ma se non lo è? Non credo del resto che i vincoli dall’alto imposti su popolazioni riottose siano la risposta migliore. Ha quindi un senso che il dibattito – com’è stato a fatto a Castelfafi – sia centrato sul contesto locale. Esso dovrebbe essere però aperto anche a soggetti sovralocali. A questo servono i cahiers d’acteurs del dibattito pubblico francese. E per lo stesso motivo a Castelfafi sono stati invitati anche i rappresentanti di associazioni come Legambiente e Italia nostra. Alcuni hanno partecipato altri no. Si potevano estendere gli inviti anche ad altri soggetti (che forse sarebbero venuti e forse no). Insomma questa non mi pare un’obiezione al metodo, che in parte ha già funzionato e che potrebbe facilmente essere migliorato. Il dibattito pubblico è un’arena aperta. Tutto dipende se i giocatori hanno voglia e interesse a giocare. Nulla è precluso a priori.

In realtà la tutela e la valorizzazione del paesaggio, così come la intendono Salzano, Magnaghi e gli altri critici, è un’impresa decisamente ardua. E’ una battaglia in cui è facile perdere. In questo quadro, la vicenda di Castelfafi non mi pare delle più miserevoli. Certamente l’apertura di un dibattito pubblico non è la panacea (mi sembra che in questo campo ce ne siano ben poche). E’ un’opportunità, nuova e inconsueta. E’ un’arena che offre possibilità inedite per tutti. E, nel caso di Castelfafi, il risultato non è proprio da buttare via. E’ probabile che il dibattito abbia aumentato il potere contrattuale dell’amministrazione comunale nei confronti della Tui; ed abbia rafforzato i legami tra i cittadini. Se questo vi pare poco, diteci per favore come si farebbe ad avere di più.

Postilla

In una democrazia malata il conflitto tra partecipazione e tutela (tra i diritti dei presenti e del "locale" e i diritti dei futuri e dell'"universale") è parte della nostra riflessione quotidiana. Solo una discussione serena, quale quella alla quale Bobbio fornisce un interessante contributo, può aiutare a convertire il conflitto in dialettica e a cercare la sintesi.

Dopo una breve pausa per le feste natalizie, il centrodestra lombardo ripropone con pochissime modifiche i cambiamenti alla legge urbanistica in particolare per quanto riguarda i residui spazi verdi regionali. Verrà ripresentato l’emendamento che consente, quando i sindaci decidano così, di ritagliare un pezzo di parco con procedura abbreviata, anche contro il volere dell’Ente parco. Si tratta di un intervento che va contro qualunque logica dell’ambiente naturale inteso come sistema. Un sistema che respira ampio, e non finisce col cartello che segna i confini comunali.

Oltre quel cartello, forse non si vota più per il medesimo sindaco, ma al cambio di circoscrizione purtroppo non corrisponde automaticamente e per decreto l’interruzione delle reti naturali, dei percorsi e sistemi di riproduzione della poca flora e fauna residua.

Naturalmente, anche la conservazione e tutela delle reti e dei sistemi diversi da quelli asfaltati, non è un oggetto sacro e inviolabile. Affatto. Esistono da decenni, e si evolvono continuamente, ampie ed elasticissime procedure per cercare di adattare la crescita delle attività umane (anche quelle metropolitane, industriali, le grandi infrastrutture …) alla natura. Si chiama, tutto questo, pianificazione territoriale: una cosa che da sempre piace assai poco ai sostenitori dello “sviluppo del territorio”.

Ha una storia moderna lunga almeno un secolo e mezzo, e per quanto riguarda le aree verdi urbano-metropolitane inizia a metà del XIX secolo col grande rettangolo del Central Park di New York, a interrompere l’edificato compatto e mastodontico di Manhattan, e continua di qua e di là dall’oceano, fino ai nostri giorni e alla ancora un po’ verde padania (quella con la p minuscola), ad esempio nelle fasce naturali della valle del Ticino, o nel vasto arco di verde agricolo del Parco Sud Milano. Quanto più sono grandi, tanto più la pianificazione territoriale dei parchi diventa complessa, e si allontana dall’idea del progetto di un giardino o di un’oasi naturale, per quanto ampia. Bisogna equilibrare sia le esigenze delle grandi reti della vegetazione, delle acque, che quelle delle attività umane, e delle amministrazioni che gestiscono quei territori per abitare, lavorare, far spesa, spostarsi. A questo serve il piano territoriale: a evitare che un solo interesse, o pochi interessi (che siano quello delle mucche, o delle autostrade, o dei boy scout) prevalgano indebitamente su quello generale.

Aggirare questa dimensione, come di fatto si vorrebbe fare istituendo un filo diretto (questo in sostanza prevede l’emendamento proposto alla legge urbanistica) tra la discrezionalità della Regione e le esigenze puntuali di singoli Comuni, significa avere un’idea quantomeno singolare dell’interesse collettivo: pura somma aritmetica, al massimo, di quelli particolari. Insomma l’esatto contrario di quanto prevedono i complessi meccanismi delle responsabilità e partecipazione caratteristici della pianificazione territoriale.

Contro questo tentativo, del resto coerente con altri programmi della medesima parte politica, in autunno si sono mobilitati migliaia di cittadini, molto consapevoli sia del valore ambientale dei grandi parchi, sia di quello sociale e partecipativo che si affianca alla delega del voto nel costruire una vera democrazia, in queste così come in altre questioni.

Evidentemente, chi rappresenta le istituzioni in questo momento non condivide in alcun modo questi valori, e preferisce appunto farsi arbitro e punto di equilibrio di interessi particolari, che dovrebbero (è l’unica ipotesi ragionevole) in teoria trovare composizione nella sterminata personalità degli amministratori regionali. Se c’è un’altra risposta, siamo qui ad aspettarla. Ma temiamo sia quella sbagliata. É già successo, e succederà di nuovo.

Per concludere (si fa per dire), un breve recentissimo estratto dal blog dell’assessore lombardo al territorio Davide Boni, che dovrebbe chiarirne ulteriormente il punto di vista:

“ho preparato una modifica di legge che riguarda la competenza dei comuni rispetto ai parchi.E qui apriti cielo,hanno iniziato a dirmi che voglio cementificare i parchi…so che parlare del mio lavoro di assessore non è simpatico,come nel penultimo post,ma almeno vorrei confrontarmi con voi rispetto alle politiche del territorio.

Vi faccio un paio di domande:sapete che i 20 parchi lombardi sono gestiti da consorzi che costano un sacco di soldi,nel senso che ogni parco ha un consiglio di amministrazione che el custa un sacc de danee…scusate i termini milanesi,ma andava detto. Questo c.d.a. non deve fare altro che far rispettare le leggi di tutela e vincoli imposti dalla regione e parlare con i Sindaci,se questi hanno intenzione di variare i loro piani regolatori,…quindi dico perchè tenere in pieni questo ambaradam se potremmo usare un persona (leggi direttore),che segue pedissequamente le norme impartite dalla Regione?

Last but not Least,avete visto con me sono spesso conciati i parchi?Non intendo quelli cittadini,quelli ne parleremo un’altra volta,ma quelli magari di cintura?

Insomma, pare che nella migliore tradizione di raffinatezza pianificatoria e culturale, si voglia far piazza pulita di un “ambaradam” (ci-ci-co-co?) che comprende tutto quanto al mondo non va a genio, tipo la democrazia, che quando non si tratta degli emolumenti degli assessori “la custa un sacc de danee”.

Firmiamo. Che quello non ci costa niente. E faremo felice anche Davide Boni. Lui non se ne accorgerà, ma sarà più felice.

Al sito www.piccolaterra.itdella Associazione “La Rondine”: troverete l’ avviso pulsante “ cliccate qui per aderire alla raccolta firme

Il braccio di ferro su Tuvixeddu non è finito: la Regione ha deciso di ricorrere al Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar che ha bocciato i vincoli imposti per notevole interesse pubblico sui colli cagliaritani. Dopo le dichiarazioni a caldo di Renato Soru ieri la giunta ha deliberato di affidare agli stessi legali che hanno patrocinato l’amministrazione in primo grado - Paolo Carrozza e Vincenzo Cerulli Irelli - il ricorso ai massimi giudici amministrativi: chiederanno la sospensiva degli effetti della sentenza e una nuova decisione sul merito per ottenerne l’annullamento. E’ un compito difficile quello che attende i due legali. Perchè l’illegittimità della nomina dei quattro membri esterni della commissione per il paesaggio, quella chiamata a proporre i vincoli in base al Codice Urbani, è un problema che appare insuperabile: per il Tar serviva una legge regionale, ai membri di diritto sono stati invece affiancati tecnici scelti dalla giunta fra i consulenti già impegnati in altre attività di studio per l’amministrazione. Il ricorso (per Giorgio La Spisa si tratta di «ottusa ostinazione») comunque partirà. Nel frattempo - con la Corte dei Conti che ha chiesto informazioni - l’Iniziative Coimpresa potrà riaprire il cantiere e riprendere i lavori, mentre il comune di Cagliari avrà via libera per completare i lavori di realizzazione del parco pubblico. Soru, che aveva già annunciato la decisione di proseguire il confronto legale con il comune di Cagliari e con i costruttori, ieri è stato invitato dal consigliere regionale Pietro Pittalis (Udeur) a «riferire urgentemente in aula sulla sentenza Tar per Tuvixeddu, della quale alcuni passaggi sono gravissimi». Alla richiesta si è associato Roberto Capelli (Udc). Il riferimento è per i sospetti espressi dai giudici del Tar sulla reale volontà dell’amministrazione Soru di tutelare l’area storica dei colli: secondo i magistrati amministrativi la Regione avrebbe cercato semplicemente di aprire la strada a un progetto alternativo, quello del paesaggista francese Gilles Clément, presentato il 29 giugno scorso alla Manifattura Tabacchi all’interno del Festarch. Seguendo una procedura che in uno dei due esposti presentati alla Procura da Iniziative Coimpresa viene definita «misteriosa»: il progetto sarebbe stato affidato senza alcuna selezione pubblica e mentre era in pieno corso la controversia legale su Tuvixeddu. E’ stato lo stesso Soru a comunicarlo al pubblico, subito dopo la presentazione del progetto: «Sulla destinazione dell’area - aveva detto il governatore - esiste ancora una discussione e un contenzioso aperto». Per poi auspicare che «i privati possano facilitare la realizzazione dell’opera facendo un regalo a tutta la Sardegna». In quell’occasione l’assessore comunale all’urbanistica Gianni Campus rispose che il Comune avrebbe «parlato nelle sedi istituzionali» e che il progetto «non era stato presentato ufficialmente all’amministrazione». Infatti nessuno sapeva nulla di quel lavoro già abbastanza definito, così come nessuno sapeva che Clement fosse impegnato da tempo in uno studio su Tuvixeddu finanziato con 150 mila euro dalla Regione e dal Banco di Sardegna. Clement - ingegnere agronomo, botanico ed entomologo - viene definito «creatore dell’improgettabile» mentre lui preferisce qualificarsi come «un semplice giardiniere». Per l’area sulla quale Coimpresa intende costruire un quartiere residenziale il tecnico francese prevedeva tre ampi teatri all’aperto destinati ai grandi eventi con capienza tra i 2000 e i 5000 posti, un teatro sospeso, un cinema sotterraneo, un centro culturale, un museo della Cagliari sotterranea e un intervento sul canyon, da trasformare in un «fiume di papaveri». La gestione del ‘Parco Karalis’ sarebbe stata autosufficiente «grazie a una pergola solare e al riutilizzo dell’acqua piovana e delle acque grigie delle zone residenziali vicine». Molti interventi quindi, ma non le ville e le palazzine residenziali progettate dagli architetti di Iniziative Coimpresa, che dovrebbero portare attorno al parco archeologico punico-romano di Tuvixeddu migliaia di abitanti.

Prg di Roma: il tempo delle regole

di Vittorio Emiliani – l’Unità, 12 febbraio 2008

Un pomeriggio stavo guardando la telecronaca del Giro d’Italia. L’elicottero, seguendo la carovana, andava inquadrando un territorio verdeggiante, quasi pettinato, molto ben gestito, fra cittadine, villaggi e aperta campagna. Non feci però in tempo a compiacermi che ci fosse un’Italia così ben tenuta. Capii infatti che il Giro era sconfinato in Austria dove l’urbanistica è una cosa seria sin dai tempi dell’Imperial Regio Governo.

Da noi i piani regolatori generali sono stati caricati, in passato, di attese straordinarie che la realtà dell’attuazione ha poi finito quasi sempre per deludere, facendo posto ad un sempre più palese disordine territoriale, all’imbruttimento di uno dei più bei paesaggi del mondo, accelerato dai disastrosi condoni berlusconiani, edilizio e ambientale. Sovente si è sbagliato ad assegnare ai “PRG” (piani regolatori generali) la valenza di “motore” essenziale, quasi, dello stesso sviluppo socio-economico, anziché (e sarebbe già molto) di regolazione urbanistica e paesaggistica dei processi di trasformazione. Roma moderna, ad esempio, è nata come una capitale senza industrie (in teoria), senza quella “soverchie agglomerazioni di operai”, senza “i grandi impeti popolari” che, secondo il vero regista della Terza Roma, il piemontese Quintino Sella, avrebbero turbato la serenità dei lavori parlamentari. Nella realtà Roma ha poi sempre avuto una sua industria, non pesante certo, e ce l’ha soprattutto oggi, con sviluppi, fra l’altro, più dinamici dello stesso Nord, avendo saltato la prima rivoluzione industriale. Come dire che il mercato e le imprese vanno poi per conto loro. Entro le regole dei piani, nei Paesi civili e preveggenti. Molto al di fuori in Italia dove o si crivellano i PRG di deroghe e di varianti subito dopo averli approvati, oppure li si travolge con un abusivismo diffuso, in specie residenziale, in attesa del prossimo condono.

Roma è al suo quinto Piano Regolatore Generale a partire dal 1870, e, dai tempi di Ernesto Nathan (1907-1912), questo sarebbe il primo a venire approvato nell’Aula Giulio Cesare. Quello fascista del 1931 fu ovviamente vistato dal Governatore di Roma, essendo stata soppressa all’epoca ogni forma di democrazia rappresentativa, mentre un commissario firmò quello del 1962 che pure aveva suscitato attese, dibattiti e tensioni memorabili. Un caso classico di piano intensamente discusso dai tecnici, fondato su di una idea forte - e cioè l’asse attrezzato, il Sistema Direzionale Orientale (SDO) destinato a decongestionare un centro storico sin troppo gravato di funzioni, l’opposizione all’idea mussoliniana di espansione verso Ostia e verso il mare - e però contraddetto nella attuazione, sia dall’indecisionismo (e peggio) politico-amministrativo, sia da un tumultuoso procedere delle spinte illegali e abusive. Per cui la capitale ha continuato a crescere a macchia d’olio come una metropoli senza ossa, o con strutture portanti risalenti (siamo sempre lì) alla Giunta di Ernesto Nathan del primo Novecento. Grandissimo sindaco osteggiato e non riconfermato però, per non molti voti, nel secondo mandato proprio sulle questioni urbanistiche, fondiarie, edilizie. Guarda caso.

Il Piano Regolatore Generale di Roma giunto ora alla stretta finale è partito tredici anni or sono, né la sua ossatura è granché mutata. Semmai è migliorata in un punto strategico: quel diritto di compensazione destinato altrimenti a scardinare ogni seria pianificazione, a seconda dell’opzione dei singoli detentori di aree (e di vecchi diritti edificatori). Che le opposizioni protestino sostenendo che il dibattito viene in questi pochi giorni strozzato nell’aula consigliare rientra nel normale gioco politico (il muro contro muro all’italiana), tanto più in vista di un election-day che avrà, il 13 aprile, Roma fra i suoi massimi simboli mediatici. Ma che lo facciano altri, convince poco. Nonostante che la nuova legge comunale con la elezione diretta dei sindaci abbia sottratto molti, troppi poteri alle assemblee elettive barattandola con la stabilità, questo PRG è stato dibattuto ampiamente.

Personalmente credo che questo Piano Regolatore debba essere approvato e lo debba essere nell’aula consigliare senza ritardi né rinvii. Sarebbe grave delegare l’incombenza, ancora una volta, quarantasei anni dopo, a un commissario. Le linee di fondo e le cifre di cui si sostanzia il PRG elaborato dalle amministrazioni Rutelli e Veltroni sono note: la tutela prevista per la città storica (un tempo entro le Mura Aureliane) che viene estesa alla città di Nathan, alla città del Novecento, cioè da 1.500 a7.000 ettari; una salvaguardia per il verde attrezzato e il verde agricolo che investe 87.700 dei 129.000 ettari di superficie comunale; un sistema della mobilità che punta prevalentemente sul ferro, sulla rotaia, in superficie e in sotterranea, chiudendo finalmente l’anello ferroviario e integrando il sistema in 72 punti di scambio metropolitano; un modello urbano policentrico che sposta nelle periferie anche funzioni di pregio (e non soltanto il disagio sociale), e altro ancora sul quale non mi dilungo essendoci già una cronaca dettagliata in corso.

Un PRG vero, discusso a lungo, strutturato. Anche in questo Roma compie scelte lontane da quelle di Milano dove la pianificazione urbanistica, e con essa la tutela dell’interesse generale, è stata annegata e sostituita dal rapporto negoziale diretto fra l’ente pubblico di governo e i privati, o meglio i più forti detentori di aree immobiliari.

Un modello che si vuole far diventare generale in una Lombardia dove ora si minaccia di intaccare con cemento & asfalto gli stessi parchi regionali. Un PRG vero, dunque, che ha bisogno però di un metodo rigoroso di attuazione, convalidato com’è anche dai piani paesaggistici regionali (nei quali, in passato il Lazio era stata retroguardia, o quasi) e con la prospettiva di un più vasto quadro metropolitano visto che migliaia di giovani coppie, di famiglie di ceti deboli, di immigrati hanno lasciato Roma e si sono insediate oltre la prima cintura metropolitana, accrescendo così il già considerevole, insostenibile consumo di suolo nella regione e i movimenti pendolari a medio raggio. I quali hanno assolutamente bisogno di un sistema su ferro qui invece notevolmente gracile, da sempre, e quasi pre-moderno. Sistema su ferro che esige investimenti di mole rilevantissima, col quale tuttavia appare incoerente il “laissez faire” usato verso la proliferazione degli ipermercati, dei centri commerciali, delle città del consumo. Le quali, invece, impongono l’uso dell’auto privata, anche nei giorni del week-end. E che erodono enormi quantità di suolo.

Allora, assieme ad un sì al voto sul PRG, sento di dover dire, con altrettanta chiarezza, la mia opinione contraria alle deroghe, in generale, e a quelle contestualmente previste per grandi aree e non meno grandi cubature alla Bufalotta e alla Magliana. Perché esse contraddicono immediatamente un metodo di governo del territorio, perché ne divengono anzi il grimaldello. Non a caso il quotidiano in mano al più grande costruttore e immobiliarista romano ha attaccato con durezza quelle stesse deroghe, non tanto per amore (come accadeva anni fa) della buona urbanistica quanto, credo, perché riguardano altri potentati romani del mattone e del cemento. Il gioco è chiaro, la corsa a spuntare tutti di più prima che il PRG diventi legge è più che palese. Pertanto non mi pare che sia utile all’interesse generale inoltrarsi su queste strade: troppi piani regolatori abbiamo visto rimanere allo stato di belle carte colorate, di buone e magari generose intenzioni. Il consumo di suolo a Roma è già altissimo.

La popolazione del Comune non aumenta in modo marcato e ha semmai bisogno di edilizia economica, di affitti abbordabili, meglio se in stabili recuperati e risanati. Mentre la febbre edilizia di questi anni ha prodotto case molto mediocri e a prezzi di speculazione. Voltare pagina si può e si deve. Le regole sono regole. E sarebbe bello se Walter Veltroni, nel suo pur sintetico programma di governo, inserisse le norme contro il consumo di suolo libero o agricolo già varate da Tony Blair nel Regno Unito (il 70 per cento delle nuove costruzioni deve insistere su aree già edificate o dismesse) oppure quelle volute da Angela Merkel, quale ministro dell’Ambiente della Germania, negli anni 90. In Paesi che consumavano suolo a ritmi già molto più bassi dell’Italia dove, ormai, in certe regioni non c’è più campagna fra centro abitato e centro abitato, fra case, fabbriche e capannoni, con una terrificante colata unica di asfalto e cemento. Nell’ex Giardino d’Europa.

Prg, un lavoro fatto con tutta la città

di Mariagrazia Gerina - l’Unità, ed. Roma, 12 febbraio 2008

«Scriviamo questa pagina, è l'ultimo atto della grande trasformazione urbana avviata in questi anni», invoca Roberto Morassut, che, accompagnato da un applauso irrituale, consegna all'aula, dopo rinvii e polemiche, il piano regolatore generale per la ratifica finale. Attesa per questo pomeriggio, nonostante l’ostruzionismo e i rinvii. È l’ultimo traguardo che Veltroni - «sindaco del cambiamento urbanistico» lo omaggia Morassut - e la sua maggioranza vogliono tagliare prima dell’addio del sindaco al Campidoglio, previsto per domani.

«È l'unica riforma strutturale varata in questi anni nel paese», rivendica l'assessore che dal 2001 ha seguito la vicenda urbanistica di Roma. «Una materia ostile che invece è stata al centro del dibattito cittadino», scandisce ancora Morassut, che ricorda le tappe del prg e polemizza con chi proprio ora che si tratta di ratificare decisioni già discusse vorrebbe veder fallire la «missione» a un passo del traguardo: «Forse hanno nostalgia per i tempi in cui bastava riunire pochi poteri per decidere ciò che ricadeva sulla vita di tutti i cittadini».

A chi si aspettava una relazione celebrativa e basta, Morassut ha servito un discorso pieno di affondi e spunti critici per il futuro. Al Messaggero che ha attaccato insieme alle varianti già in cantiere (che il consiglio potrebbe ancora approvare nell’ultima coda di consiliatura) anche l’idea cardine di portare funzioni pregiate nella periferia, riserva una replica impicita: «Secondo strane riflessioni, dietro agli uffici si nasconderebbero future varianti. Non consento questa cultura del sospetto: la nostra è una grande scommessa, ma forse qualcuno vuole in periferia solo abitazioni», rilancia Morassut, che ripercorre a volo d’uccello i cantieri già aperti. A Tor Vergata la Città dello Sport di Calatrava, ai Mercati Generali la Città dei giovani di Koolhas. E poi l’università Pietralata, il campus ad Acilia, ecc. «Dove l’iniziativa è in mano al pubblico funziona, ma i privati sono al palo: si decidano a costruire, facciano marketing internazionale, stiano al patto di portare grandi funzioni in periferia». Il piano - ricorda Morassut - è quella «sfida di unire tutela e sviluppo, aprendo le porte all’accoglienza». Ed è la riforma che fa i conti con la principale leva dell’economia romana, l’edilizia: «Motore della crescita economica, ma con le sue contraddizioni», lavoro nero, sicurezza, necessità di consolidare l’impresa. Un mondo a cui l’amministrazione Veltroni con il prg ricorda che «l’economia non vive di solo cemento, ma anche di grandi opportunità turistiche». E quindi, «gli 88mila ettari di verde sono una grande leva di sviluppo».

Altra sfida, la cura del ferro, ovvero la metro C ma anche le ferrovie urbane: «in questo le Ferrovie dello Stato sono state un partner lento», dice Morassut. E poi, l’emergenza abitativa. «Una norma concordata con i costruttori riserva all’affitto concordato o solidale il 15% dell’edilizia». Ma non basta: «Nel piano ci sono 20mila alloggi da realizzare entro il 2011, 10mila per chi è iscritto nelle graduatorie, gli altri per il ceto medio non più in grado di accedere al mercato». A lungo termine, non bastano nemmeno quelli: «Occorrono riforme nazionali per consentire ai Comuni di reperire aree a basso costo», spiega Morassut, che prospetta una nuova stagione di edilizia popolare, basata non sull’esproprio ma su un moderno patto con i privati.

Queste le sfide contenute nel prg. Tutto sta ora a vedere se la città saprà raccoglierle. I costruttori, per primi. E il parlamento, poi, dove si dovrà costruire quell’«alleanza tra Stato e la sua Capitale», abbandonando «gli imbarazzi culturali di chi fin qui ha considerato Roma una capitale-non capitale e considerando che ogni soldo speso per Roma aiuta la pubblica amministrazione a funzionare meglio».

«La cosa più importante che ho realizzato»

intervista a Giuseppe Campos Venuti di Jolanda Bufalini

l’Unità, ed. Roma, 12 febbraio 2008

Giuseppe Campos Venuti, Bubi per tutti, 82 anni, ex partigiano, non ha perso, in quasi cinquant’anni, l’accento romanesco degli intellettuali della capitale, quello che era tipico di Maurizio Ferrara, di Alberto Moravia, di Antonello Trombadori. È bolognese di adozione, da quando, nel 1960, Mario Alicata lo spedì per il PCI nella città rossa. E dove fu assessore all’urbanistica per due consigliature, con Dozza: «Si facevano solo case, nelle periferie». «Ma ai figli degli operai glie volete da’ le scuole e i giardini per giocare?».

Erano i primi semi, in quei tempi eroici, dell’urbanistica ispirata alle grandi esperienze socialdemocratiche del Nord Europa che, scendendo per li rami, è arrivata fino al piano regolatore generale di Roma giunto alla sua tappa finale nell’Aula Giulio Cesare. Solo in parte, però, perché, alla fine, Campos ritirò la firma, nel marzo 2003. E però ora dice «È la cosa più importante che ho fatto. Mi piace vederlo approvare». E sul sindaco Walter Veltroni aggiunge «è un capo politico dotato di realismo e ha portato a casa il Piano».

La cosa più importante, perché?

«Perché ha delle strategie innovative strepitose. Intanto quella delle centralità: quei quartieri con più di 100mila abitanti che non sono più i dormitori della città ministeriale ma quelli in cui si è insediato il terziario produttivo. Roma è una incredibile eccezione nella stagnazione indotta da quindici anni di Berlusconi, con un prodotto interno lordo in controtendenza del 6,7 per cento contro l’1,4 nella media nazionale. Quei quartieri sono le città nella città: umane e produttive che devono avere il loro centro.

E poi è stata abbandonata quella concezione «vecchia come il cucco del trasporto su gomma. Né Berlino, né Parigi, nessuna grande città è cresciuta così. La cura del ferro a Roma ha già portato all’utilizzo delle ferrovie extra-urbane. Ora si

può andare in treno da Termini all’aeroporto di Fiumicino. Chi abita in centro non se ne accorge, ma sono migliaia le persone che viaggiano e arrivano a Roma su quei vagoni che Rutelli ha voluto bianco-celesti».

E poi c’è l’ambientalismo

«Questo Prg piaceva a Antonio Cederna. Ora non si fregino del suo nome gli amici della rendita fondiaria, Cederna scriveva su Repubblica nel 1995, “siamo finalmente ad una svolta” rispetto agli sfasci di un secolo. E si riferiva alla cura del ferro, ai 40 milioni di metri cubi cancellati, il che significa 18mila ettari destinati a verde pubblico e agricolo, senza contare i parchi».

Si sente odore di polemica a sinistra

«Sfido che Veltroni ora va da solo. Ci fu impedito allora, dal massimalismo-conservatore di Bonadonna (allora assessore regionale all’urbanistica, ndr) di applicare il concetto riformista di un piano di programmazione, che non costringe ad espropriare. E invece la legge regionale ci imponeva un piano rigido, immutabile, su più di mille chilometri quadrati. Noi volevamo sospendere quei diritti edificatori in attesa da 45 anni. In cambio ci sarebbero state scadenze esecutive a breve termine. Niente: 5 milioni e 700mila euro per il vecchio esproprio. In periferia gli imprenditori danno volentieri le aree gratis per verde e servizi, perché valorizzano il loro costruito. Ma quei soldi per la città consolidata non ci sono. E se ci fossero, sarebbe meglio utilizzarli per le metropolitane».

In consiglio comunale c’è ostruzionismo, per ragioni politiche ma anche a causa delle varianti, attaccate dal Messaggero

«Non mi sorprende l’ostruzionismo dei fascisti (per me tali restano). Quanto alle varianti, sono inevitabili con le rigidità di cui dicevo».

Nel 2003 lei ritirò la firma

«In quella notte del voto in consiglio ebbi una telefonata con Veltroni che mi disse “che fai, rovini la festa?” ma poi aggiunse “ti do subito il reincarico per lavorare alle contro-deduzioni”. Io ho continuato a lavorare con Roberto Morassut, a cui mi lega affetto nato quando, prima di essere assessore all’urbanistica, era segretario della federazione romana dei Ds. E Morassut ha difeso strenuamente i principi del piano, ha grandi meriti in questa operazione. Ha un nome di origini friulane ma Roma gli deve molto».

Con i soldi dell’Expo non solo opere faraoniche e colate di cemento, ma tutela dell’ambiente, del paesaggio, dell’agricoltura, delle acque, dei borghi e delle ville milanesi. Il sindaco Moratti le aveva invitate a far parte della consulta ambientale per Expo 2015, ma tre associazioni ambientaliste hanno risposto no. Niente adesioni a scatola chiusa. Fai, Wwf e Italia Nostra hanno preferito non entrare, per ora, a fianco del Comune nel gruppo che dovrà valutare e mitigare l’impatto ambientale che le opere per l’esposizione internazionale, se Milano vincerà la gara con Smirne, inevitabilmente avranno sul territorio milanese. «L’invito sembrava più un’operazione di immagine che non un coinvolgimento vero e proprio» dice Enzo Venini, presidente nazionale del Wwf. E dal Fai Costanza Pratesi, responsabile dell’Ufficio studi, aggiunge: «Vorremmo essere ascoltati e portatori di idee, non solo certificatori di idee altrui, e vedere per l’Expo un progetto ambientale forte sul nostro territorio, che ancora non c’è». Così hanno preferito fare un loro osservatorio esterno, e presentare al sindaco, dopo aver spulciato il progetto di candidatura di Milano, 900 pagine, una serie di punti che ritengono «imprescindibili e vincolanti». Vorrebbero, prima di tutto, la gestione responsabile del suolo, limitando il consumo alle aree ex industriali o già urbanizzate, introducendo forme di compensazione ecologica (solo la cittadella per l’Expo conta 1 milione e 700 mila metri quadrati di insediamento). Poi vedere «un chiaro segnale di volontà di tutela della fascia agricola periurbana». Altra questione importante, la riqualificazione delle vie d’acqua che già ci sono, abbandonando l’idea di costruire un nuovo naviglio, «impresa costosissima, inutile e di pura funzione estetica». E, ancora, cogliere l’opportunità Expo per lanciare un progetto di recupero del patrimonio monumentale del nord Milano, come villa Arconati, villa Litta di Lainate, villa Reale a Monza - «unica grande reggia europea scandalosamente dimenticata» - , i borghi (Figino, Trenno, Chiaravalle, Ronchetto delle Rane), le cascine, i beni minori. Non ultimo si chiede anche il coinvolgimento delle sovrintendenze al tavolo delle decisioni. «Noi avevamo l’intenzione di discutere questi punti perché pensiamo che il piano Expo deve rifiutare aspetti non consoni alla valorizzazione e tutela dell’ambiente e dei beni culturali - spiega ancora Venini - . Il sindaco ci ha risposto che era importante adoperarsi per ottenere l’assegnazione, il problema lo avremmo affrontato dopo. Il nostro osservatorio nasce con spirito di collaborazione, ma vorremmo che la sostenibilità ambientale diventasse concretezza anche sul nostro territorio. La preoccupazione vera è che con l’Expo si vada, invece, a distruggere il patrimonio verde attorno a Milano».

Nota: una preocupazione più che fondata, se è vero come è vero che fra le "eccellenze" della Milano futura c'è ad esempio il discutibilissimo Cerba

Una febbre edilizia sta divorando Roma producendo un modello urbano dissennato e devastante.

Il meccanismo e gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: si costruiscono residenze e grandi centri commerciali a ritmo forsennato lungo il Raccordo consumando quel che resta dell’Agro Romano; a questi insediamenti si può accedere solo con l’auto privata, provocando così per l’oggi e ancor più per il domani un aumento del traffico; con un ultimo paradosso, aumentano le case e aumenta l’emergenza abitativa per il semplice fatto che si costruisce non per chi ha bisogno (giovani coppie, anziani, migranti) ma perché qualcuno ha la forza di imporlo alle proprie condizioni.

Un bene pubblico, il paesaggio, viene così lasciato alla mercè degli interessi speculativi privati. Con questo ritmo e seguendo la previsione del Piano Regolatore ci mangeremo, come ha affermato la Sovrintendenza Archeologica di Roma, 15.000 ettari di Agro Romano. Una follia. Tutto il contrario di quanto sta facendo l’Europa: in Germania dal ’98 si è limitato il consumo di suolo a 10.000 ettari l’anno, in Italia ne consumiamo 244.000 l’anno; in Inghilterra si è deciso che solo il 30% delle nuove edificazioni può sorgere in aree libere e il 70% in aree già costruite, e il Sindaco di Londra Ken Livingstone ha deciso di concentrare il 100% delle nuove costruzioni nelle aree già edificate non toccando la campagna londinese. A tutto ciò si aggiunga che nell’ultimo anno sono stati approvati in deroga al Piano Regolatore oltre 30 progetti privati: con una mano si scrivono le regole con l’altra si cancellano.

E’ positivo che negli ultimi anni importanti architetti siano impegnati nella nostra città, ma come diceva Antonio Cederna la buona architettura non sana la cattiva urbanistica.

Se passiamo dal consumo del suolo alla mobilità il discorso non cambia.

Roma è prigioniera delle auto: 89 auto ogni 100 abitanti, compresi i bambini e minorenni. Solo il 18% usa il mezzo pubblico, a Parigi il 67%, a Madrid 66%, a Londra 55%.

Una buona politica è quella capace di invertire questa tendenza: promuovere e incentivare il mezzo pubblico (soprattutto su ferro) e limitare l’uso del mezzo privato. Al contrario l’attuale espansione edilizia, disseminata a macchia d’olio lungo la campagna, provocherà un uso ancora più massiccio dell’auto privata moltiplicando traffico, congestionamento, inquinamento, (siamo la capitale europea dello smog insieme ad Atene).

Basti pensare che in 10 anni a Roma sono stati aperti 28 grandi centri commerciali, quasi tutti a ridosso del GRA, con parcheggi per migliaia di posti auto. E che ogni anno se ne aprono in media altri quattro. Non esiste una situazione analoga in nessun’altra capitale europea. Il risultato è che non essendoci infrastrutture adeguate il traffico è perennemente paralizzato e il Comune dovrà intervenire con soldi pubblici e consumare altro suolo agricolo. Un tipico esempio di ricchezza privata e povertà pubblica.

La stessa subalternità all’auto porta ad altre scelte devastanti: nei centri storici delle capitali europee da decenni non si realizzano più parcheggi perché è dimostrato che attraggono auto, a Roma si è dato il via libera tra l’altro ad un parcheggio di oltre 700 auto sotto il Pincio, uno scempio di uno dei luoghi più belli e conosciuti al mondo, nonostante a poche centinaia di metri vi sia il Parcheggio del Galoppatoio. Tutelare il centro storico è interesse pubblico, far costruire un parcheggio sotto il Pincio no.

Ogni mese leggiamo i dati sull’aumento del turismo nella nostra città, con il puntuale seguito di dichiarazioni entusiaste. Ma in assenza di un governo dei fenomeni l’altra faccia della medaglia è lo stravolgimento, come mai era avvenuto, del centro storico di Roma: prosegue l’espulsione degli abitanti; Stato e Comune stanno dilapidando il proprio patrimonio edilizio storico; dilagano alberghi e bed and breakfast e la città politica e i ministeri hanno via via allargato la loro presenza contrariamente a quanto da anni si era ipotizzato; solo nel 2007 sono stati aperti oltre 40 tra pub, ristoranti, bar; le vie, le piazze, le strade sono state privatizzate e invase da tavoli, sedie, fioriere e quant’altro. Passeggiare tra i famosi vicoli di Roma è oggi diventato impossibile. Il centro si è trasformato in un luogo di transito per turisti, adibito al consumo mordi e fuggi senza più alcuna identità. Un esito inglorioso per un luogo unico al mondo per le sue bellezze artistiche, archeologiche, monumentali.

Infine, da anni si parla di “emergenza casa”. Dopo la felice stagione che portò all’approvazione della Delibera 110 del 2005, si sta tornando indietro. Invece di puntare, come prevede la Delibera, alla partecipazione ancora una volta ci si muove in una logica di contrattazione: ultimo il protocollo d’intesa sottoscritto dal Comune con Acer e Lega delle Cooperative per la realizzazione di alloggi con la pratica consolidata e devastante della deroga al Piano Regolatore cancellando le aree destinate a verde e servizi.

Scompare ancora una volta il governo pubblico delle politiche abitative e di parte della locazione privata; così come una politica di utilizzo del patrimonio sfitto o non occupato che a Roma è enorme, si stima in oltre 200.000 abitazioni, lasciando al loro destino non meno di 700.000 cittadini a cui non si offrono né risposte né prospettive.

Questo modello non riguarda più solo Roma ma coinvolge il territorio provinciale. Infatti queste “emergenze”, dal consumo del suolo a quella abitativa e della mobilità, dallo smaltimento dei rifiuti alla produzione di energie vengono sempre più scaricate al di fuori della città per evitare di mettere in discussione un modello sempre più insostenibile. Il contrario di quanto serve: una programmazione di area metropolitana in grado di superare squilibri e disfunzioni e mettere in relazione progetti e risorse.

PERCHE’?

Da questa rapida panoramica la domanda è semplice: perché? Perché si procede in questa direzione dello sviluppo urbano che non solo non risolve i problemi della città ma li aggrava, moltiplicandone i fattori negativi?

C’è innanzitutto un motivo di carattere generale che non riguarda solo Roma. L’abuso di territorio infatti coinvolge l’intero paese a causa di una norma, voluta nel 2001 dall’allora governo Berlusconi, che permette ai Comuni di utilizzare gli introiti degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente e non più solo per investimenti. Così i Comuni, a cui vengono tagliati i finanziamenti dallo Stato, hanno trovato nell’edilizia un modo per fare cassa e rastrellare soldi. Il tutto a spese del paesaggio, dell’ambiente, della qualità della vita. Il centrosinistra non ha modificato questa norma sciagurata.

C’è poi il peso enorme che a Roma ha sempre avuto la rendita fondiaria, i “palazzinari”. Nel passato le forze della sinistra seppero opporsi e ottenere anche risultati significativi in nome di un’altra idea di città. Oggi non è più così, negli ultimi anni anche la politica e la cultura di sinistra hanno finito in larga misura per aderire al pensiero dominante che la proprietà immobiliare debba essere protagonista delle scelte urbanistiche. E’ anche per questo che oggi in chi governa ciò che più colpisce è l’assenza di un’idea di città, mancando la quale diventa poi inevitabile accodarsi alle richieste e ai desiderata di chi ha potere e soldi per proporre soluzioni. Una politica debole, con scarsa autonomia culturale, in crisi di radicamento e rappresentanza cerca nel potere forte del mattone e della rendita risorse e sostegno. Al pubblico non resta che fare o da passacarte oppure cercare ruolo e spazio contrattando e garantendo determinati interessi in funzione gregaria e subalterna.

D’altronde non è un mistero che a Roma opera da tempo un cartello di costruttori che agiscono di fatto in condizioni di monopolio in un rapporto diretto con l’amministrazione pubblica; che questi costruttori sono anche proprietari di banche, assicurazioni e giornali; e al tempo stesso siedono in fondazioni, enti, istituzioni comunali. Un circuito pervasivo in cui si confonde interesse pubblico e interesse privato; una commistione che di sicuro non fa bene alla trasparenza e all’autorevolezza e credibilità della politica.

A questo dato strutturale si aggiunge poi la scarsa considerazione cha da noi c’è sempre stata per il paesaggio, per i beni pubblici. Secondo la ben nota teoria e pratica che se una cosa è pubblica non è di nessuno e quindi ognuno può fare come gli pare.

Da qui il deperimento e sempre più l’assenza di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte. Mentre in tante città europee (Stoccolma, Monaco di Baviera) prima di prendere decisioni l’amministrazione comunale è tenuta ad un processo democratico in cui vagliare con gli abitanti i progetti di trasformazione urbana, qui da noi nulla di tutto questo, se va bene si promuovono incontri in cui viene illustrato ciò che si è già deciso. Non ci si può lamentare poi delle contestazioni o delle proteste se manca una pratica di partecipazione su scelte che riguardano la vita dei cittadini.

La Corte dei Conti nel 2006 ha scritto “la scarsità di informazioni corrette ed esaustive alle comunità locali, che garantisce sulla imparzialità, autorevolezza e incisività delle scelte effettuate, ha accentuato la conflittualità generale…..solo nella condivisione e nel processo partecipativo di tutti i soggetti interessati possono derivare soluzioni stabili, efficienti, efficaci ed eque”. Serve più trasparenza e più capacità di ascolto, più democrazia partecipata se si vuole una città più consapevole e più capace di educare alla responsabilità.

CHE FARE

Per fare cose diverse bisogna pensare diversamente. C’è bisogno quindi di una coraggiosa riflessione critica anche a sinistra sul passato più recente riconoscendo errori, limiti, una perdita di autonomia culturale e politica. La sinistra del XXI secolo o è quella dei diritti fondamentali della persona, della democrazia partecipata, dei beni comuni o non è. Una sinistra capace di rimettere in discussione gli idoli della quantità e del denaro per affermare un’idea di ben - essere e di equilibrio con gli altri e con l’ambiente. Le scelte di cui Roma ha bisogno per realizzare un nuovo modello urbano che incorpori diritti e beni pubblici sono sotto gli occhi di tutti. Ne indichiamo sette in grado di rappresentare un volano per un’idea nuova di città.

1. Una moratoria immediata di tutte le deroghe al Piano Regolatore. Sostituire al consumo dissennato di territorio che aggrava i mali di Roma il recupero e la riqualificazione urbana: caserme, aree ferroviarie e dell’ATAC, demani di aziende pubbliche, impianti tecnologici obsoleti e immobili uso ufficio abbandonati, aree vuote ex SDO. E’ in questa direzione che bisogna muoversi con l’obiettivo di riportare le residenze nelle zone semicentrali, riqualificare i vuoti interni alla città. I privati guadagneranno di meno ma sarà la città a guadagnarci di più. A questo serve il potere pubblico.

2. Una legge regionale che, come la legge ponte del 1967 che salvò i centri storici dall’abbandono e dalla speculazione, perimetri le aree agricole e quelle ancora non urbanizzate intorno alla città così da bloccare cambi di destinazione d’uso. In questo modo gli stessi costruttori saranno indirizzati e incentivati ad impegnarsi verso la riqualificazione delle periferie e della città invece che in nuove lottizzazioni nell’agro romano. Serve solo la volontà politica e la cultura di ritenere il paesaggio un bene pubblico da salvaguardare e tutelare per le generazioni future.

3. Dare finalmente avvio al progetto Fori di Antonio Cederna e Luigi Petroselli. La più importante e innovativa idea urbanistica di Roma capace di unire storia e modernità, di riformare la città mettendo al centro la qualità, di risaldare il centro con la periferia e l’hinterland. Iniziando con la chiusura al traffico di Via dei Fori Imperiali perché come diceva il Sindaco di Roma Argan i monumenti e le macchine sono incompatibili.

4. Riduzione del traffico privato su gomma, rafforzando e modernizzando la rete su ferro; itinerari protetti per autobus e tram raddoppiando la lunghezza attuale; dare impulso, come avviene in tante capitali europee, ai taxi collettivi, car sharing, linee a chiamata; istituire una cabina di regia tra Comune, Provincia e Regione per affrontare in una visione d’insieme di area metropolitana la mobilità. Realizzazione in ogni quartiere di isole pedonali.

5. Una Conferenza Cittadina sul tema della Casa con l’obiettivo di un “Patto di solidarietà” che definisca un piano di interventi e una legge comunale sull’utilizzo sociale del patrimonio residenziale sfitto, abbandonato o sottoutilizzato, anche attraverso la leva fiscale per incentivare la proprietà, da riconvertire ad ERP, ad alloggi a canone concordato solidale, all’housing sociale. Nell’immediato va affrontata la questione degli sfratti e degli sgomberi delle occupazioni e va attivata l’Agenzia Comunale per l’affitto con uffici decentrati nei Municipi.

6. Ridare dignità e bellezza al centro storico abbandonando la pratica della cartolarizzazione e la privatizzazione del patrimonio edilizio pubblico; sospendendo il rilascio di nuove licenze per la ristorazione; limitando sensibilmente l’occupazione di suolo pubblico da parte degli esercizi commerciali; riducendo drasticamente il traffico privato automobilistico.

7. Serve, come in Toscana, una legge regionale sulla partecipazione che preveda istituti e forme di democrazia partecipata, estenda i diritti delle persone che vivono sul territorio così da tutelare identità territoriali, beni storico-culturali, l’ambiente e il paesaggio.

Non ci rassegniamo ad un modello urbano sempre più americano in cui la città si spappola nella campagna e la macchina è la padrona incontrastata, ad una città vetrina per il turismo in cui la speculazione immobiliare impone le sue regole e troppi sono costretti ad abbandonarla.

Roma non merita questo futuro.

Ci battiamo per una città capace di promuovere e garantire i diritti delle persone, i beni comuni, la partecipazione e di salvaguardare la sua straordinaria bellezza per trasmetterla alle generazioni future, perché la bellezza è un fattore di coesione sociale.

Diritti e bellezza hanno bisogno della politica, di un governo della cosa pubblica in pubblico.

Per questo serve la sinistra. Una sinistra unita.

Movimento romano per la Sinistra Arcobaleno

Niente vincoli sul colle di Tuvixeddu e Tuvumannu: il Tar della Sardegna ha bocciato la delibera che un anno fa ha imposto l’alt ai lavori per il nuovo parco e il quartiere residenziale di via Is Maglias. I giudici del tribunale amministrativo hanno dato ragione al Comune e ai costruttori, che avevano promosso un ricorso all’indomani del provvedimento varato dalla giunta con il quale venivano imposti i nuovi divieti intorno all’area della necropoli punico-romana di rilevantissimo interesse archeologico. Il governatore Soru ha già annunciato un ricorso al Consiglio di Stato. Gli imprenditori, invece, sostengono che finalmente sono stati riconosciuti i loro diritti e affermano che ora solleciteranno un sostanzioso risarcimento danni che però non è stato ancora quantificato.

Cadono i vincoli

su Tuvixeddu e Tuvumannu

di Mauro Lissia

CAGLIARI. Più che una sentenza è un uppercut, che manda l’amministrazione Soru al tappeto con scarse possibilità di rialzarsi. I vincoli su Tuvixeddu-Tuvumannu cadono tutti, il comune di Cagliari ha ragione su tutta la linea. Con un dato giuridico che prevale su qualsiasi altro aspetto di questa decisione-macigno: dagli accordi di programma come quello del 15 settembre 2000, che aveva dato il via libera a Immobiliare Coimpresa, non si può uscire «con recesso unilaterale, a meno che non sia espressamente previsto». Il che mette una pietra tombale sull’intera vicenda.

Basterebbe questo: se l’accordo, per il quale «deve applicarsi la normativa civilistica in materia di obbligazioni e contratti» non può essere sciolto resta in piedi anche di fronte a un sistema di norme di emanazione statale come il Codice Urbani, cui la Regione ha fatto riferimento per fermare il progetto dei colli cagliaritani. Ma il collegio del Tar - presidente Lucia Tosti, consiglieri Rosa Panunzio e Francesco Scano - non si è limitato a piantare un paletto giuridico sul cammino dell’architetto Gilles Clement, che su incarico della giunta Soru («incarico affidato in modo occulto» scrivono i giudici) lavora da tempo al parco Karalis, un nuovo progetto per l’area archeologico-naturalistica. Nelle ottanta pagine che compongono la sentenza i giudici documentano una sequela di errori e di «trattamento maldestro» della vicenda che sarebbero comici se a commetterli non fosse stato l’apparato burocratico-legale dell’amministrazione regionale, che da questa vicenda esce con le ossa rotte. A cominciare dalla commissione chiamata a deliberare sull’applicazione dei vincoli sul notevole interesse pubblico dell’area: costituita d’urgenza con esperti di cui non si conoscono i titoli («non sono stati allegati i curricula»), in realtà - certificano i giudici - doveva essere nominata in base a una legge, come lo stesso Codice Urbani stabilisce chiaramente. Qui invece è stata la giunta a nominare i componenti e il Tar osserva come a farne parte viene chiamata Maria Antonietta Mongiu che poi andrà a ratificarne le scelte in esecutivo, nel ruolo di assessore alla Cultura.

Difficile capire come un’amministrazione dotata di consulenti legali autorevoli sia incorsa in un errore così grossolano. Nella sentenza, i giudici lo spiegano con una tesi inquietante: «Già l’esistenza - sostengono - di un altro progetto sostitutivo del precedente fa sorgere il legittimo sospetto che l’idea originaria fosse quella di rendere impossibile il completamento delle opere avviate. Il fine perseguito quindi - insistono i giudici amministrativi - non sembra essere stato tanto quello di tutelare e di salvaguardare un’area pregevole, quanto di mutare la tipologia di intervento essendo cambiata nel frattempo più che la sensibilità verso il paesaggio l’orientamento della giunta regionale e del suo presidente nei confronti di tale area cittadina».

A conferma di questo sospetto i giudici elencano dettagliatamente la sequenza ininterrotta di provvedimenti per sospendere i lavori in corso a Tuvixeddu «emanati dalla Regione prima che la commissione venisse costituita e comunque prima che la stessa formulasse la proposta di vincolo, che dimostrano l’uso strumentale di provvedimenti amministrativi palesemente illegittimi destinati a perseguire finalità dagli stessi non consentite». Definita «fulminea» la costituzione della commissione regionale destinata a proporre i vincoli, il Tar sostiene che costituirla non era neppure necessario: il Codice Urbani stabilisce infatti che in attesa delle nomine - basate su criteri precisi che la Regione neanche indica - poteva operare benissimo quella provinciale. Che forse avrebbe evitato alla giunta Soru almeno la figuraccia di indicare, dopo un sopralluogo sui colli, vincoli riferiti a siti naturali e storici delicati che non esistono da un secolo, come il Monte della Pace: oggi è un quartiere popolare che coincide con parte di Is Mirrionis.

Inutile spiegare che l’amministrazione comunale di Emilio Floris - patrocinata dagli avvocati Marcello Vignolo, Massimo Massa, Ovidio Marras e Federico Melis - esce trionfante da una controversia legale in cui la Regione - gli avvocati sono Paolo Carrozza, Gian Piero Contu e Vincenzo Cerulli Irelli - aveva poche carte valide da giocare. L’irruenza dell’esecutivo politico, cui i giudici del Tar fanno riferimento in più passaggi della decisione, ha travolto qualsiasi riparo giuridico lasciando agli avversari, compreso il costruttore Gualtiero Cualbu, campo aperto per un ricorso articolatissimo risultato - per i giudici - fondatissimo in ogni punto. Partendo da un dato che finisce per prevalere su qualsiasi altro e che dovrebbe disssuadere l’amministrazione regionale da un ricorso al secondo grado di giudizio: l’accordo di programma è insuperabile, perché alla decisione e alle scelte tecniche sul progetto Coimpresa - così spiegano i giudici - partecipano anche i privati cui «in sede di contrattazione è riconosciuto un ruolo tendenzialmente paritario, che non si esaurisce nella semplice partecipazione al procedimento». Ecco perché «tali accordi - è scritto - sono ben diversi dagli accordi di natura pubblicistica dai quali l’amministrazione può sempre recedere per sopravvenuti motivi di interesse pubblico». Peraltro il Tar ha sottolineato come sulla destinazione del colle di Tuvixeddu non esistesse solo un accordo di programma quadro per la realizzazione di un museo e di un parco archeologico, con la strada di collegamento tra via Cadello e via San Paolo, ma che a quest’intesa era stata già data attuazione «ed erano in corso lavori imponenti». Eppure bloccando i cantieri «la Regione ha agito - scrivono i giudici amministrativi - come se l’area non fosse stata affatto coinvolta dai lavori previsti nell’accordo, pertanto come se tale strumento non esistesse e non avesse avuto alcuna concreta attuazione». Infine, nel carteggio che ha preceduto e seguito l’imposizione dei vincoli a Tuvixeddu e Tuvumannu, non c’è traccia documentale dei nuovi ritrovamenti cui la Regione fa riferimento per motivare il blocco ai lavori. Ed è lo stesso Vincenzo Santoni, sovrintendente ai beni archeologici, che si oppone strenuamente all’allargamento dell’area vincolata proprio perché dai vecchi sopralluoghi compiuti dalla commissione provinciale ad oggi non è cambiato nulla. La conferma è nel sopralluogo compiuto dai giudici del Tar: la descrizione dei luoghi proposta dalla commissione non corrisponde alla realtà.

Infine il Comune, che nel ricorso lamenta di essere stato escluso da qualsiasi decisione: il Tar gli dà ragione, in base al principio di ‘leale collaborazione’ stabilito dal Codice Urbani avrebbe dovuto partecipare ad ogni scelta. Invece la Regione l’ha ignorato, sino al punto da indurre il sindaco a ricorrere al Tar e quindi perdere fragorosamente la partita sul fronte della giustizia amministrativa.

Soru: ricorso al Consiglio di Stato

«La giunta ha ancora il dovere di difendere il colle dal cemento»

di Roberto Paracchini

CAGLIARI. Prudente è il presidente della Regione Renato Soru: «Intanto approfondiremo questa sentenza - afferma - poi ricorreremo al Consiglio di Stato, perché penso che lo Stato, quello centrale, e la Regione hanno il dovere e il diritto di difendere il colle di Tuvixeddu da una colata di cemento».

Anche il presidente Soru ammette che «c’è stata una sentenza importante del Tar: io rispetto i tribunali». Tuttavia, «come sappiamo ci sono due gradi di giudizio e, come sempre accade, ci si rivolge poi al secondo». Inoltre, ricorda in una nota il governatore dell’isola, «la settimana scorsa il Consiglio di Stato ha dato ragione alla Sardegna su un altro tema importante, sul quale invece avevamo perso nel primo giudizio».

La sentenza, precisa il responsabile dell’esecutivo, «dice due cose importanti: una è che la commissione regionale per il Paesaggio e i beni culturali non è stata istituita in maniera formalmente corretta: non doveva essere decisa con una delibera della Giunta ma con un atto legislativo. Forse sì, forse no: noi l’abbiamo fatto con la delibera della Giunta, comportandoci nello stesso modo in cui hanno agito altre Regioni italiane che hanno istituito queste commissioni. Se per caso abbiamo sbagliato il procedimento costitutivo, vorrà dire che lo faremo meglio. E lo stesso atto verrà riproposto». Non solo: «Quando è stato posto questo vincolo (l’allargamento a tutto il colle di Tuvixeddu, ora bocciato dal Tar - ndr) su istanza della giunta regionale, negli stessi giorno lo stava proponendo anche il ministero dell’Ambiente. Quindi abbiamo fatto una cosa che stava per attivare, direttamente, anche lo Stato centrale».

L’estensione del vincolo è stato deliberato sulla base della relazione della commissione al Paesaggio. «Quindi crediamo che la commissione - continua - sia ben costituita e la difenderemo, se per caso non lo fosse sarà realizzata meglio e il vincolo verrà riproposto: magari con un’iniziativa anche diversa che potrà essere dello Stato».

Il presidente Soru, quindi, è deciso a continuare sulla sua strada: «Quello che è certo è che lo Stato ha il diritto, e non solo il dovere, di difendere Tuvixeddu, che è la testimonianza più importante della storia di Cagliari, ancora viva, ancora presente, ed è un’area attorno alla quale costruire il futuro di Cagliari».

L’assessore regionale Carlo Mannoni (Lavori pubblici e, a suo tempo, reggente della Cultura dopo le dimissioni di Elisabetta Pilia e prima della nomina di Maria Antonietta Mongiu) alle contestazioni del Tar sulla nomina della commissione al Paesaggio, risponde che «anche in Puglia e in Campania queste sono state costituite con una delibera di Giunta». E l’assessore Mongiu ribadisce che «noi ci siamo fondati sul Codice Urbani, che dal punto di vista delle considerazioni paesaggistiche e paesistiche, è molto avanzato».

La storia della vicenda

Necropoli di rilievo mondiale

CAGLIARI. Sulla base di un accordo di programma firmato da enti pubblici e Iniziative Coimpresa il 15 settembre 2000 sui colli di Tuvixeddu e Tuvumannu, dove si trova una necropoli punica di interesse mondiale, si dovrebbe realizzare un grande quartiere residenziale attorno all’area archeologica da trasformare in parco pubblico. L’amministrazione Soru, affidato lo studio di un nuovo progetto (il parco Karalis) al celebre architetto francese Gilles Clement, ha bloccato i lavori in corso con un primo decreto assessoriale datato 9 agosto 2006 e poi con una serie ininterrotta di provvedimenti di sospensione culminata con la dichiarazione di interesse pubblico dell’area, allargata ad altri siti e vincolata in linea con il Codice Urbani. Contro i provvedimenti della Regione si è opposto con ricorsi al Tar il comune di Cagliari, che dopo una prima pronuncia interlocutoria ha ottenuto una vittoria su tutta la linea. I giudici hanno stabilito che l’accordo di programma deve essere rispettato. Non solo: la commissione che ha imposto i vincoli non è stata nominata legittimamente e pertanto le sue decisioni non sono valide.

L’imprenditore Gualtiero Cualbu: ora chiederemo un risarcimento

CAGLIARI. L’allargamento del vincolo aveva bloccato la lottizzazione integrata della Coimpresa (parco da un lato, edificazioni dall’altro) sul colle di Tuvixeddu. Il Tar ora ripristina la situazione precedente. «La sentenza - precisa Gualtiero Cualbu, a cui fa capo la Coimpresa - non fa che confermare tutti gli atti compiuti a suo tempo dalla stessa Regione (con l’accordo di programma firmato nel 2000 - ndr): erano tutti legittimi. Inoltre accoglie integralmente le nostre tesi».

Adesso la Coimpresa, spiega Giuseppe Cualbu, amministratore della società, «dovrà riprendere i lavori. Prima di arrivare a regime, però, dovrà passare del tempo, ma saranno attivate subito le necessarie attività di supporto». In precedenza la società aveva annunciato atti per «il risarcimento dei danni». «Sì e lo faremo - continua - direi che siamo obbligati a farlo: siamo stati costretti a far ricorso alle banche». Quale sarà la richiesta? «Andrà quantificata con precisione: certamente diversi milioni di euro. Per il momento posso dire che la sentenza del Tar ha mostrato l’irregolarità recente della Regione in tutti i singoli provvedimenti». (r.p.)

Postilla

Un primo commento a caldo. Un patrimonio culturale di eccezionale importanza può essere distrutto da una lottizzazione e privatizzato, nonostante il codice del paesaggio, il piano paesaggistico, l’evidenza della qualità incomparabile del luogo.Un “accordo di programma” ha il potere di fare tutto ciò: va rispattato usque ad mortem .

La gigantesca necropoli punico-fenicia avrà la stessa sorte che avrebbe avuto un sito di analogo valore, l’Appia Antica, se un ministro coraggioso, Giacomo Mancini, non avesse d’autorità modificato il PRG di Roma del 1962? Ci auguriamo che chiunque abbia il potere istituzionale per intervenire lo faccia tempestivamente: in Italia, la tutela del patrimonio storico è indubbiamente un impegno straordinariamente rilevante di ordinaria amministrazione.

La Lombardia è ricca, ma è anche fra le aree più inquinate al Mondo. Lo dicono delle che rilevano la qualità dell’aria, lo dicono le foto che riceviamo dai satelliti. La ricchezza della sua economia è importante, ma non deve intaccare i pilastri della vita.

La pianura lombarda è governata da un modello di sviluppo che divora a ritmi crescenti suoli agricoli, un patrimonio sottratto alle future generazioni, risorsa fondamentale per un Paese - l’Italia - che di risorse naturali è assai povero.

La Lombardia ha il bisogno stringente di tutelare al meglio il suo potenziale bio produttivo (suoli agricoli, foreste, aree naturali…). Ce lo dice la scienza, basata sui numeri, e i numeri non ammettono discussioni.

A fronte di questa necessità, in molti avevate aderito all’appello delle Associazioni per scongiurare il tentativo di fare a pezzi i Parchi della Lombardia che la Giunta Regionale aveva tentato di mettere in atto con un emendamento alla legge urbanistica regionale (legge 12/05) presentato prima di Natale. L’emendamento avrebbe favorito l’urbanizzazione dei suoli compresi in territorio di Parco.

Molti di Voi avevano sottoscritto messaggi di protesta per scongiurare il tentativo di fare a pezzi il territorio e l’appello aveva avuto effetto: emendamento ritirato.

Passato il Natale, speravano che ci fossimo dimenticati di tutto. Ecco allora la ripresentazione dello stesso emendamento nei giorni scorsi, un testo quasi uguale a quello presentato in precedenza. Poche parole in più, che non cambiano la sostanza. Vogliono approvarlo la prossima settimana, il famigerato emendamento: noi non vogliamo e non possiamo permetterglielo.

Vogliono fare fuori il Parco agricolo sud Milano, il baluardo alla delirante cementificazione della Lombardia, vogliono fare fuori i vincoli, cementificare anche i suoli dei Parchi contro la logica e le leggi della natura.

Vi chiediamo di non rassegnarvi, di essere presenti, di farvi sentire. Preparatevi a mobilitarvi e a mobilitare tutti coloro che conoscete. Dobbiamo essere in tanti. Vi faremo sapere al piu’ presto.

Dobbiamo nuovamente farci sentire con le nostre e mail per dire che non siamo d’accordo: la societa’ civile, unita, per tutelare l’interesse piu’ alto, quello di tutti: di coloro che sono, di coloro che saranno.

Associazione per il Parco sud Milano, Amici di Beppe Grillo Pavia, Associazione “La Rondine”, Comitati contro la Broni Mortara, Italia Nostra Pavia, Legambiente provinciale Pavia, WWF Oltrepo Pavese

Collegatevi al sito www.piccolaterra.it della Associazione “La Rondine”: troverete l’ avviso pulsante “cliccate qui per aderire alla raccolta firme”.

Qui il racconto del primo tentativo e della sua sconfitta

© 2025 Eddyburg