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Il modello che sottende decenni di strategie di sviluppo mostra tutti i suoi limiti, in ogni senso, ma a una intera classe dirigente manca il coraggio, o la coscienza e capacità, di ammetterlo

Ci stiamo abituando a fare i conti con i disastri ambientali e con le difficoltà ad accertare le responsabilità di tanta devastazione. I sintomi nelle aree di crisi evidenziano guasti profondi. Oggi l'attenzione è su Porto Torres (dopo il proscioglimento gli imputati di inquinamento per intervenuta prescrizione); ieri su Olbia, ma l'elenco è lungo come sappiamo: tanti casi diversi ma non sfugge il denominatore comune. Quel disegno afferra-afferra a cui guardano inchieste della Magistratura, che ci dirà – se non vi saranno altre assoluzioni decise dalla politica. Che dovrebbe interrogarsi a fondo su quest' ultimo mezzo secolo di sviluppo evanescente che ha lasciato povertà e drammi sociali. E reso l'isola brutta e insicura in molte parti, sfortunatamente per sempre. Per questo ci aspettiamo un nuovo corso senza titubanze.

Sull'ambiente – terra, acqua, aria– i governi locali hanno competenze importanti. Più di quanto non ne abbiano per altre questioni dipendenti da centri decisionali lontanissimi.

Non ci dovrebbero essere esitazioni se si mettesse nello sfondo la storia. Basterebbero una trentina di immagini per documentare la spoliazione dell'isola avvenuta in tempi tutto sommato brevi. Un quadro attutito per la grande estensione del territorio, dove tutto sfuma, e l'opinione pubblica non si accorge o fa finta. “E gli orrori arrivano solo fino a dove i nostri occhi hanno il coraggio di guardare” – è la sintesi di Alessandro De Roma nel racconto pubblicato da Einaudi (nel libro «Sei per la Sardegna», bel regalo alle popolazioni colpite dalla recente alluvione).

Il coraggio di guardare e di ammetterlo: siamo stati defraudati a lungo, e chi ha potuto prendere dalla Sardegna senza restituire nulla, ha contato su troppe complicità locali. E così tre quarti del patrimonio boschivo sono andati in fumo nell'Ottocento per produrre energia oltre il mare; così nell'ultimo mezzo secolo terre preziose sono state concesse per esercitazioni militari deleterie per la salute, o regalate a industriali sovvenzionati per inquinare liberamente. Così circa 450mila (!) ettari di territorio sono compromessi da forme di inquinamento pericolose e comunque sottratti all'uso. Il ciclo edilizio è stato spesso senza regole, e in assenza di strumenti urbanistici adeguati sono cresciuti insediamenti in grado di mettere in pericolo le comunità residenti, basta che piova un po' più forte.

La Sardegna “innocente” è quinta nelle classifica dell'abusivismo edilizio, dopo Campania e Sicilia che hanno quattro volte gli abitanti dell'isola, e quindi è prima. Uno scenario preoccupante e che impone di provvedere, e subito, almeno per limitare i rischi per le comunità più esposte.

Ma è vietato illudere e illudersi sulla palingenesi di bonifiche che – si sa – non ci restituiranno la Sardegna com'era, perché è impossibile. A sicut erat non torrat mai. Figurarsi in casi di terre maltrattate e avvelenate in quelle misure come a Porto Torres, o a Portoscuso dove da ieri agli agricoltori è vietato vendere i loro prodotti. Ci toccherà pagare, insomma (e attenzione a chi s'immagina i tornaconti del risanamento ambientale nella successione inquinamento-disinquinamento forever). E il danno, come per il debito pubblico, ricadrà comunque sulle generazioni future, e in modo inedito.

Perché è prevedibile che le agenzie di rating che oggi certificano la solidità economica degli Stati, prenderanno in esame la condizione del patrimonio territoriale per conto di investitori attenti in modo crescente a questi aspetti. E che i valori immobiliari dipendano sempre di più dalla qualità dei luoghi non è un mistero. Gli economisti più avveduti lo dicono da un po'.

Per questo occorre cogliere i segnali interessanti. I programmi per eolico, termodinamico, chimica verde – in quel solco distruttivo dove sta anche la speculazione edilizia – sono finalmente avversati dalle popolazioni che ne temono la presenza. Questa nuova “coscienza di luogo” ci potrebbe aiutare a progettare un futuro diverso.

Roars.it, 16 marzo 2014 (m.p.g.)

Negli anni in cui Matteo Renzi è stato sindaco di Firenze l’amministrazione non ha brillato per capacità di innovazione, al contrario. L’esposizione del teschio incrostato di diamanti di Damien Hirst a Palazzo Vecchio ha mostrato al mondo come si possa essere al tempo stesso pretenziosi e subalterni. Si è offerto l’edificio-simbolo della storia repubblicana di Firenze alla celebrazione di un oggetto assurdamente dispendioso, concepito come vessillo di disuguaglianza e trappola per la vanità degli oligarchi.

In programma questa primavera, la mostra dedicata a Michelangelo e Pollock prefigura un astorico confronto tra due artisti fumettisticamente presentati come “furiosi”. Il risibile match, che nelle intenzioni di Renzi dovrebbe costituire il dono d’addio alla città, conferma la predilezione per esposizioni-blockbuster di nessuna consistenza scientifica. L’ostinazione con cui si è infruttuosamente cercata la (perduta) Battaglia di Anghiari leonardesca in Palazzo Vecchio è sembrata un’avventata commistione tra dilettantismo storico-artistico, maldestro culto delle nuove tecnologie e fiction rinascimentale in chiave Dan Brown. Certo, esistevano i finanziamenti di National Geographic: ma perché emarginare la comunità scientifica italiana e internazionale? La proposta di “terminare” la basilica di San Lorenzo costruendo la facciata secondo l’”originario” progetto michelangiolesco, lanciata da Renzi a suo tempo in consiglio comunale, si è rivelata episodica e strumentale. Nel frattempo si è disinvestito da istituzioni che non avevano il sostegno dell’industria alberghiera (ma potevano rivelarsi importanti per la comunità dei residenti) e si sono patrocinate iniziative ambiguamente oscillanti tra scoutismo culturale e rapacità commerciale. Non si è infine esitato a impedire senza preavviso ai cittadini il passaggio dal Ponte Vecchio pur di assicurare maggiore privacy agli ospiti di un’esclusiva cena di gala di Luca Cordero di Montezemolo.

La prima cosa da dire è che l’attuale presidente del Consiglio sconta il limite sociologico della città da cui proviene. Firenze è una città di piccole o medie imprese attive in settori ipermaturi e a bassa tecnologia, a conduzione familiare. Alberghi, servizi, editoria finanziata o aggregata a poli museali. Salvo rare eccezioni l’orientamento non è alla competizione ma al controllo proprietario e, qualora possibile, alla rendita confortevole. Le più sbrigative “valorizzazioni” del patrimonio storico-artistico sono remunerative, relativamente anticicliche e non comportano rischio imprenditoriale: perché dunque darsi pena di finanziare progetti a medio e lungo termine, di cui beneficerebbero i cittadini, invece che “eventi” graditi ai visitatori, in primo luogo ai più abbienti? La produzione stereotipa di guide, foulard stampati con motivi botticelliani e cartoline con giglio non impone scelte strategiche né presenta le difficoltà di un’industria high-tech. “La cultura dovrebbe essere il baluardo di una sfida identitaria”, vaticina Renzi in Stil novo[1]. Non è chiaro tuttavia se intenda porre giusta enfasi sull’importanza dell’istruzione o semplicemente accompagnare le dichiarazioni dell’amico Farinetti sull’appeal di torroni e prosciutti doc. “Se è morta non è bellezza. Al massimo può essere storia dell’arte. Ma non suscita emozione”[2]. Ma che vuol dire?

Se per politica della cultura intendiamo una serie coerente di iniziative o provvedimenti volti a promuovere sollecitudine civile, discussione informata e ampiezza di confronti (quanto potremmo sinteticamente definire “apertura della mente”) dobbiamo riconoscere che tale politica non esiste per Matteo Renzi: esistono invece commercio e turismo. A mio parere l’adozione di un punto di vista aggressivamente consumistico costituisce un’incongruità per ciò che Renzi stesso rappresenta come segretario del Partito democratico. Provo a spiegare perché. Le nostre preferenze culturali sono modellate da differenti tipi di marketing. Se desideriamo che il “pubblico” (di una mostra, di un concerto) sia qualcosa di più e diverso da una folla plaudente che sorseggia cocktail e rende omaggio alla munificenza di mecenati pubblici o privati dovremmo porci il problema dell’inclusione. I “mercati culturali” non sono efficienti: esistono alti costi di accesso e pronunciate asimmetrie informative[3].

Personalmente ritengo che l’arte non debba trasformarsi in una sorta di testimonial della disuguaglianza né corteggiare in maniera esclusiva i mondi della ricchezza: almeno non se ci poniamo dal punto di vista dell’amministratore pubblico. Eppure questa è la tendenza dominante. Né credo sia lecita la riconduzione del patrimonio storico-artistico alla sola dimensione del profitto: obbliga la cultura a competere sul breve termine con industrie ben più remunerative. La Costituzione prevede l’investimento pubblico in cultura perché riconosce la specifica complessità del processo di partecipazione[4]. Al pari dell’indigenza, i deficit educativi creano “ostacoli” formidabili alla piena esplicazione sociale e professionale della persona. E’ tuttavia interesse generale, quantomeno in uno stato di diritto, che vi sia (e continui ad esservi attraverso le generazioni) un’opinione pubblica informata e indipendente. Sospinto da un pregiudizio “popolare” (o più semplicemente populista) e dallo spiccato amore per l’acclamazione, il più giovane presidente del consiglio della storia italiana ha sinora mostrato di ignorare le responsabilità di una seria politica culturale. Ha sottostimato i benefici economici e civili della ricerca. Si è circondato di collaboratori fugaci e modesti e ha privilegiato opache reti amicali. Non ha fatto ottimi studi né ha ragione di nasconderlo. In futuro farà tuttavia meglio a evitare dispersive polemiche con i “professori” per valutare senza pregiudizio punti di vista meditati[5]. Perché, malgrado accattivanti appelli all’”uguaglianza”, tanta disattenzione ai temi della cittadinanza? Suppongo che l’organicità di Renzi a cerchie economiche e d’opinione dominanti possa essere la risposta che cerchiamo.

[1] Matteo Renzi, Stil novo, Rizzoli, Milano 2012, p. 50.
[2] ibid., p. 55.
[3] Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura, Einaudi, Torino 2014, p. 44: “le tante conoscenze particolari restano scomposte come tessere di mosaico che non compongono figure… Qualunque avventuriero della conoscenza [può] infilarsi, senza incontrare ostacoli, di fronte a un pubblico ignorante e inconsapevole. Il ‘pubblico’ è già vittima della capacità specialista e dell’ignoranza generalista”. Uno stato di diritto può trascurare il compito di un’educazione permanente dei suoi cittadini?
[4] Sul tema cfr. Salvatore Settis, Paesaggio costituzione cemento, Einaudi, Torino 2010, p. 122 e ss.
[5] Con un ampio e polemico intervento apparso su Repubblica, Giovanni Valentini si è recentemente posto in scia a Renzi attaccando le soprintendenze con argomenti che sono sembrati in larga parte pretestuosi, soprattutto per la mancata distinzione, quanto alle modalità di partnership pubblico|privato, tra filantropia culturale o no profit da un lato, sbrigative forme di “valorizzazione” commerciale dall’altro (I no delle soprintendenze che rovinano i tesori d’Italia, in: la Repubblica, 9.3.2014, pp. 1, 20). A mio avviso la differenza non passa tra capitale pubblico e capitale privato: ma tra “capitale paziente” (per usare la felice definizione di Mariana Mazzucato) e capitale speculativo o rendita. Checché se ne dica la piccola o media impresa attiva oggi in Italia nell’ambito dei servizi al patrimonio non è in grado di (né motivata a) produrre innovazione: sottocapitalizzata, trae la propria sopravvivenza da relazioni politiche e vive di progetti a breve termine (Paolo Sylos Labini, La crisi italiana, Laterza, Bari 1995, p. 9 e ss.). L’attività di agenzie pubbliche in grado di selezionare competenza, procurare strategia e finanziare trasformazione – qualcosa che il MiBACT di oggi, inutile dirlo, è del tutto incapace di fare – potrebbe risultare di grande vantaggio. L’editoriale di Valentini ha sorpreso quanti, sulla prima pagina del quotidiano romano, erano soliti trovare qualificate difese del patrimonio e dell’ambiente intesi come “bene comune”. Sulle retoriche della “sussidiarietà” e le loro implicazioni ideologiche (“neoguelfe” o meglio neocesaristiche) nel contesto della discussione italiana sulle politiche della tutela cfr. Michele Dantini, Inchiesta su “patrimonio” e “sussidiarietà”. Retoriche, politiche, usi pubblicitari, in: ROARS, 9.11.2012, qui. Per una ricostruzione dell’”industria delle concessioni” cfr. Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, minimum fax, Roma 2013, p. 21 e ss. Cfr. anche, di Valentini, l’elusiva controreplica dal titolo Quelli che difendono le soprintendenze, in: la Repubblica, 12.3.2014, p. 56.

Nel nostro paese «Un capitale produttivo composto da più case ed uffici, ma meno macchinari e mezzi di trasporto, è apparso poco capace nel creare nuova ricchezza». Corriere Economia, 10 marzo 2014

Dopo oltre due anni, il segno più è nuovamente nelle statistiche dell’economia italiana. Uscito dalla recessione, il Paese torna, con fatica, a percorrere un sentiero di sviluppo. Messa da parte la contabilità della crisi, è, però, naturale chiedersi quanto tempo impiegheremo per recuperare il terreno perso. Dare una risposta a questa domanda non è semplice. Per provare ad immaginare, può essere utile ripercorrere brevemente quanto accaduto negli ultimi anni.

Viviamo una preoccupante caduta della propensione ad investire. Prima della crisi, il nostro Paese destinava alla realizzazione di nuovi investimenti oltre un quinto della ricchezza prodotta ogni anno. Nel 2013, siamo scesi al 17%, un calo di oltre 4 punti percentuali, che equivalgono a più di 60 miliardi di euro di ricchezza in meno destinati agli investimenti.

Non è, però, corretto attribuire alla crisi tutte le colpe. Il capitale investito nell’economia rappresentato dai macchinari e dai mezzi di trasporto utilizzati dalle imprese per produrre, ma anche dai capannoni, dagli uffici e dalle abitazioni, ha un valore stimato in circa 10.400 miliardi di euro. Nel corso degli anni ne è cambiata la composizione: si è ridotto il peso dei macchinari, mentre è cresciuto quello delle costruzioni, che sono arrivate a rappresentare quasi l’80% del totale. Un capitale produttivo composto da più case ed uffici, ma meno macchinari e mezzi di trasporto, è apparso poco capace nel creare nuova ricchezza.

Nel 2001, per produrre un euro di Pil erano necessari 5,1 euro di capitale investito. Già nel 2007, quando l’Italia ancora non conosceva la recessione, si era saliti a 5,6. La crisi ci ha portato a superare i 6,5 euro. In dodici anni, la capacità del nostro sistema produttivo di creare ricchezza è diminuita di quasi un terzo.

Appare, dunque, comprensibile immaginare per l’Italia tassi di crescita solo moderati, lontani da quelli che le altre economie hanno già raggiunto. Sia il Fondo monetario internazionale sia la Commissione europea prevedono un aumento del Pil reale dello 0,6% quest’anno, per poi accelerare, ma solo leggermente, nel prossimo. Alla fine del 2015, avremmo recuperato una piccola parte di quanto perso durante la crisi. Il nostro prodotto rimarrebbe, infatti, circa 7 punti percentuali al di sotto dei livelli raggiunti nel 2007. La strada da percorrere risulterebbe ancora lunga.

Per tornare a crescere in maniera sostenuta, è necessario riprendere ad investire nel capitale produttivo. Il sistema paese, però, non aiuta. L’inefficienza delle amministrazioni pubbliche, che si manifesta con i 1.200 giorni necessari per chiudere un procedimento in sede civile, o con le oltre 250 ore che ogni anno un imprenditore deve destinare all’adempimento degli obblighi fiscali, frena le imprese dal realizzare nuovi investimenti e limita l’afflusso di capitali dall’estero. Una visione d’insieme, ci dice, però, che il problema della perdita di capitale produttivo nella nostra economia ha un carattere più ampio, che va oltre la seppur importante inefficienza del sistema paese. Ma questa è un’altra storia, che dovrà, prima o poi, essere affrontata.

Una interessante esperienza integrata di gestione del territorio e della propria esistenza, da osservare e considerare in una prospettiva più ampia. La Repubblica, 9 marzo 2014, postilla (f.b.)

BOLOGNA - Mani che battevano la tastiera di un computer o segnavano in blu o rosso i compiti degli allievi. Stringevano un bisturi in sala operatoria ma anche la cazzuola per alzare un muro di mattoni: adesso si dedicano alla semina, alla crescita e al raccolto di cavoli, fragole, pomodori, zucchine, pere, mele. I cittadini diventano contadini, con centina ia di braccia rubate dall’agricoltura, e non viceversa. «Semplicemente, abbiamo riscoperto l’agricoltore che è in noi. Investiamo denaro e lavoro e ogni settimana ci portiamo a casa una cassetta con il nostro raccolto. Non ci basta il piccolo orto, al massimo dieci metri per dieci, che è un bella invenzione per i pensionati. Noi cittadini — contadini, e per giunta biologici, siamo imprenditori agricoli. Non l’un contro l’altro armati ma uniti in una cooperativa».

È arrivata in Italia — Borgo Panigale, periferia di Bologna, sette chilometri da piazza Maggiore — la prima Csa, “Community supported agriculture”, agricoltura sostenuta dalla comunità. In Germania, Francia e Inghilterra ci sono Csa attive da quarant’anni. Tre ettari di terra in affitto, per ora. Ma la cooperativa Arvaia (pisello, in dialetto bolognese) vuole affittare altri trenta ettari, così gli attuali 180 soci potranno diventare almeno 500 e oltre a frutta e verdura potranno portare a casa tutto ciò che si serve in tavola: dalla carne al formaggio, dal latte al pollo.

Qualche giorno fa Arvaia («Abbiamo scelto questo nome perché ci mettiamo uno a fianco dell’altro, come i piselli nel baccello») ha compiuto il primo anno di vita. «Siamo partiti in sette e fra pochi giorni saremo duecento. C’è davvero una gran voglia di tornare alla terra. In fondo, la nostra è una piccola rivoluzione: l’insalata che ti metti in tavola non ha più un prezzo ma un valore. Sai che è stata coltivata in modo sano e questa è una garanzia per noi ma anche per i nostri figli: la terra che lasceremo non sarà rovinata dai veleni». Il “salotto” della cooperativa è una piccola serra di nylon, sotto il colle di San Luca. C’è un fornello a gas per il caffè. «Io sono l’unico socio fondatore — racconta il presidente, Alberto Veronesi — con esperienza diretta nei campi. Sono agronomo, ho lavorato come consulente per le coltivazioni biologiche. Poi ho deciso: voglio fare il contadino assieme ad altri abitanti di città, come me. E voglio farlo condividendo la passione ed anche i rischi d’impresa».

Una quota di 100 euro, una tantum, per diventare soci. E questo è il capitale d’impresa. Poi, all’inizio dell’anno, il socio anticipa il costo delle cassette di verdura e frutta settimanali — circa 42, con la sosta invernale — che saranno ritirate alla coop o consegnate a casa. Per una cassetta di 3-4 chili si anticipano 400 euro, per quella di 6-7 chili si versano 800 euro. «E con questi soldi noi possiamo pagare la preparazione del terreno, le semine, la cura, il raccolto. E pagare noi soci lavoratori, che per ora siamo quattro ma che — se otterremo i trenta ettari — potremo diventare più di dieci. I rischi? Se ti arriva l’insetto che ti mangia i pomodori o ti spazza via la lattuga, non potrai riempire le cassette. La garanzia? Tutto viene fatto senza chimica. Un esempio: abbiamo già seminato veccie, favino e orzo che saranno già alti, ma non maturi, prima dell’estate. Allora faremo il sovescio, o concimazione verde. Con l’aratro, seppelliremo queste colture e poi semineremo i cavoli e altre piante invernali. Il sovescio sarà il concime naturale: noi non nutriamo la pianta ma il terreno».

Con una certa ironia, Arvaia ha inventato l’agrifitness. «Al sabato — ma chi può anche negli altri giorni — i soci lavorano nei campi. Così si mantengono in forma». C’è chi lavora non per fare ginnastica ma per guadagnarsi la cassetta senza togliersi gli euro di tasca. Si tratta di esodati, disoccupati e cassintegrati che così riescono a portare a casa almeno la verdura. Arvaia è anche un laboratorio. C’è chi viene a imparare il mestiere per poi magari affittare qualche ettaro e mettersi in proprio. «Per noi la cooperativa — raccontano Cecilia Guadagni (pedagogista), Stefano Peloso (artigiano) e Paola Zappaterra (storica) — è una scelta di vita. C’è chi ha perso il lavoro e chi lo ha lasciato volontariamente. Nella nostra memoria c’è il racconto dei nonni per i quali l’agricoltura era una condanna. Si spaccavano la schiena e se arrivava la grandine mangiavano riso e fagioli tutto l’inverno. Lavorare qui — Cecilia e Stefano sono a tempo pieno — è invece una scelta: è un mestiere vero e completo per il quale spendi tutto il tuo tempo, coltivando patate, piselli e relazioni umane».

Un altro caffè poi la raccolta del cavolo nero. Si deve riparare una rete che tiene lontani caprioli e lepri, divoratori delle prime insalate. «Il Comune di Bologna, che presto farà il bando per i trenta ettari, ha molte terre oggi abbandonate. Potrebbero essere date in comodato d’uso ad altre cooperative o gruppi di giovani. La terra può accogliere chi è stato mandato via dalla fabbrica. Non siamo una manica di idealisti, il bilancio è tenuto da Nunzia Liseno, laureata in Economia. Ce la possiamo fare, “produzione e partecipazione” debbono essere carte vincenti». Le nuvole se ne vanno, riappare il sole. «Fra pochi giorni fioriranno i meli».

postilla

Nel racconto dell'esperienza di agricoltura sociale bolognese emergono alcuni aspetti davvero interessanti, del resto piuttosto noti nelle esperienze internazionali simili, e che riguardano il ruolo emergente degli spazi aperti urbani sia sul versante socio-ambientale, che sanitario e dei servizi alla persona, ma soprattutto (e questo è forse più difficile da intuire immediatamente) in prospettiva i diversi equilibri fra città e campagna di questo nostro terzo millennio dell'urbanizzazione globale. Perché se è vero che soggettivamente questi spazi valorizzati grazie alla partecipazione diretta dei cittadini si pongono come una specie di istituzione parallela autogestita (il riferimento è per esempio al bell'articolo di Daniela Poli su un caso toscano pubblicato su questo sito) è anche vero che difficilmente la dimensione locale e di quartiere può cogliere l'entità del problema a scala vasta. La chiave di lettura pare ancora, come in tanti altri casi, quella dell'ente sovracomunale di coordinamento, vuoi strettamente istituzionale, vuoi in forme inedite miste, a gestire la cosiddetta infrastruttura verde territoriale, che raccorda una città sempre più densa (perché così si sta evolvendo, non dimentichiamolo) a spazi naturali e di agricoltura non-urbana. Altrimenti, al di là delle ottime intenzioni di gruppi o comitati o teorici del ritorno alle radici di qualcosa, non si andrà oltre una generica dichiarazione di principio (f.b.)

«Nel cuore dell’Appennino, nonostante tutti gli sfregi che ha subito è un posto comodo, al centro della Campania. Dove si può anche trovare il silenzio e la luce dell’Irpinia d’Oriente. Ma sembra fatta apposta per dimostrare come il Sud possa sprecare le sue bellezze e le sue opportunità». Il manifesto, 6 marzo 2014

Arrivo ad Avel­lino verso le nove. Per arri­varci da casa mia ci vuole un’ora di auto­strada che somi­glia assai poco a un’autostrada. Attra­verso una pro­vin­cia ancora bel­lis­sima, a dispetto del val­zer delle beto­niere seguito al ter­re­moto dell’ottanta.

Avel­lino è più viva di tante cit­ta­dine euro­pee. C’è una rin­no­vata viva­cità, i buoni ci sono ancora, anche se sono attori non pro­ta­go­ni­sti. Nono­stante tutti gli sfregi che ha subito è un posto comodo, al cen­tro della Cam­pa­nia. In meno di un’ora si pos­sono rag­giun­gere posti famosi come Pae­stum e la costiera amal­fi­tana, ma si può anche tro­vare il silen­zio e la luce dell’Irpinia d’Oriente. Avel­lino è in mezzo all’Appennino. Il suo futuro non è la deca­denza, per­ché non sarà la deca­denza il futuro dell’Appennino.

Intanto il suo pre­sente è molto simile a una via cru­cis, una città che sem­bra fatta appo­sta per dimo­strare come il Sud possa spre­care le sue bel­lezze e le sue opportunità.

Prima sta­zione

Entro in città dalla la zona del nuovo ospe­dale. Lo chia­mano città ospe­da­liera. Non so chi ha costruito la strut­tura, non deve essere un bravo archi­tetto. Ma il pro­blema più grande è fuori. Arri­vare al pronto soc­corso è come fare una cac­cia al tesoro. E poi si sono dimen­ti­cati di fare i par­cheggi davanti alla strut­tura. I lavori per porre rime­dio ovvia­mente vanno a rilento. E così chi entra ad Avel­lino da que­sto lato subito può farsi l’idea di una città slow, ma il rife­ri­mento è ai can­tieri, non al cibo.

Seconda sta­zione

Sono davanti al tea­tro Gesualdo. Anche qui l’opera ha una dise­gno archi­tet­to­nico molto discu­ti­bile, anche qui il disa­stro è fuori. Prima hanno cer­cato di recu­pe­rare dei ruderi micro­sco­pici di un castello col risul­tato che adesso non si notano i ruderi, ma una scala di metallo. Ora forse si vor­rebbe siste­mare lo spa­zio intorno al tea­tro, ma i lavori pro­ce­dono per avan­za­menti mil­li­me­trici. Lo spiazzo che vor­reb­bero rica­varne è una sorta di Aspet­tando Godot dell’urbanistica. Dun­que il tea­tro si fa den­tro e anche fuori, dove vanno in scena infi­nite repli­che del tea­tro dell’assurdo.

Terza sta­zione

Piazza Macello. Qui ci sono gigan­te­sche palaz­zine anni ses­santa, qui c’è sem­pre stato e c’è ancora il punto da cui par­tono e arri­vano i pull­man. Si parla da decenni di far tra­slo­care l’autostazione, ma non suc­cede nulla. I lavori sono stati fatti, i soldi sono stati spesi. Que­sto conta, per il resto i pull­man pos­sono restare dove sono. Per spen­dere altri soldi hanno pro­vato a fare una piazza. Non è venuta bene, forse gli unici a goderne sono i cani che pos­sono fare indi­stur­bati i loro bisogni.

Quarta sta­zione

Vado verso il cen­tro della città. Qui c’è il can­tiere totem, la meta­fora di tutti i fal­li­menti della poli­tica avel­li­nese. Dif­fi­cile cre­dere che potesse essere utile un tun­nel in una città che ha meno di ses­san­ta­mila abi­tanti. Il pro­getto ori­gi­na­rio è stato stra­volto e la pos­si­bile uti­lità è ancor più dimi­nuita. I lavori al momento sono are­nati e il tun­nel è solo una buca dove sono stati but­tati un sacco di soldi pubblici.
Quinta sta­zione

Sono arri­vato al corso. Que­sto è il cen­tro della città, la spada dritta, la gruc­cia a cui è appeso tutto il resto. Qui i lavori per farne un’isola pedo­nale sono stati por­tati al ter­mine. Un luogo molto bello, nono­stante ci siano ancora molti palazzi che atten­dono di essere rico­struiti. L’effetto è strano. Non si vedono bici­clette, gli avel­li­nesi senza mac­china sem­brano crea­ture a disa­gio, a parte i lumi­nari dello stru­scio che par­lano di sport e di poli­tica. Avel­lino è una città che parla molto di sport e di poli­tica. Le due cose hanno destini con­giunti. L’ascesa della squa­dra di cal­cio alla serie A e la sua lunga per­ma­nenza nell’olimpo del cal­cio coin­cise con il ful­gore dei poli­tici irpini. Il più noto è De Mita, poi ci sono Man­cino e Bianco, Gar­gani, De Vito. Su que­ste figure si è scritto molto, non è il caso di aggiun­gere altro, se non che sono tutti ancora in atti­vità, a parte De Vito, sin­daco del mio paese, morto senza il calore del popolo al suo capez­zale. Non so quale sarà il destino degli altri, auguro a tutti lunga vita, ma ho la sen­sa­zione che il volere a tutti i costi man­te­nere un ruolo stia offu­scando la loro opera anche agli occhi dei loro sodali.

Sesta sta­zione

Vado verso il cen­tro sto­rico e la sen­sa­zione molto netta è che non esi­ste. A fianco al Duomo c’è un can­tiere allo stato fos­sile, sem­bra pro­ve­nire da un’altra era geo­lo­gica. Non ci sono negozi, non si vedono per­sone. Hanno rico­struito le case, ma sem­bra un luogo senza futuro. In tante città del Sud i cen­tri sto­rici hanno ripreso un bel vigore, basti pen­sare a Bari o a Lecce. Qui c’è solo la pes­sima edi­li­zia del post-terremoto e qual­che can­tiere. Gli avel­li­nesi, a parte raris­sime ecce­zioni, sem­bra pro­prio che non ce l’hanno in testa il cuore della loro città. Una volta qui aveva sede il cen­tro Dorso. C’è ancora, ma da quando è morto Elio Sel­lino, l’editore che lo diri­geva, non ci ho più messo piede. Sel­lino aveva una grande pas­sione per l’Irpinia, ha fatto molte cose per valo­riz­zarne la sto­ria pas­sata e per rav­vi­vare la vita intel­let­tuale: non si può dire che le sue imprese abbiano avuto par­ti­co­lari riconoscimenti.

Set­tima stazione

Avel­lino ha come pro­pag­gine due paesi che si sono sal­dati alla città, cumu­lando le loro brut­tezze a quelle cit­ta­dine: al Sud i paesi di mag­giore dina­mi­smo eco­no­mico quasi sem­pre sono i più incu­ranti della bel­lezza. La strada che va verso Mer­co­gliano è peren­ne­mente inta­sata di traf­fico. Ogni volta che mi trovo in que­sto ingorgo sento che non ha nes­suna logica, come se ser­visse solo a dare l’idea di stare in città.

Ottava sta­zione

Sono col mio amico Livio Bor­riello. Dei tanti scrit­tori della città è quello a cui sono più legato. Avel­lino non è un posto privo di talenti. Un altro mio amico è il bra­vis­simo videoar­ti­sta Anto­nello Mata­razzo. In que­sto caso il rife­ri­mento alle sta­zioni della via cru­cis si giu­sti­fica col fatto che una città piena di ener­gie intel­let­tuali non è mai riu­scita a costruire un evento cul­tu­rale dura­turo e capace di uscire dai con­fini cit­ta­dini. Arti­sti, scrit­tori, tea­tranti avel­li­nesi hanno sicu­ra­mente meno atten­zioni di quelle che meri­tano; e meri­te­reb­bero, per comin­ciare, che l’ex cinema Eli­seo, ristrut­tu­rato da tempo, non restasse chiuso come ber­sa­glio per i van­dali; e che l’ex palazzo della Dogana tro­vasse la via per essere sot­tratto alla ragna­tela dei pro­po­siti mai realizzati.

Nona sta­zione

Sono davanti a una costru­zione vasta e pre­ten­ziosa. A vederla da lon­tano pare la sede di una grande mul­ti­na­zio­nale. Ti avvi­cini e sco­pri che si tratta della sede di una pic­cola banca. Una volta si chia­mava Banca Popo­lare dell’Irpinia. Ha cam­biato nome già una volta e sta per cam­biarlo di nuovo. Non ci sono più i soldi del post– ter­re­moto. Insomma, sono davanti a una gran­deur che adesso sem­bra deci­sa­mente fuori posto. L’Irpinia non è diven­tata quello che imma­gi­na­vano negli anni ottanta i nota­bili democristiani.

Decima sta­zione

Nel mio giro­va­gare in cerca di una città che non c’è da nes­suna parte, ora sono davanti alla cli­nica Mal­zoni. Anche qui un senso di deca­denza. La sanità pub­blica, tenuta per anni volu­ta­mente in con­di­zioni pie­tose, ha fatto qual­che passo avanti, e que­sta cli­nica che godeva di un pre­sti­gio immo­ti­vato, sta facendo molti passi indietro.

Undi­ce­sima stazione

Di nuovo nel cen­tro della città. Qui una volta c’era il car­cere bor­bo­nico. Ora è uno spa­zio assai bello che può acco­gliere atti­vità cul­tu­rali. Il cruc­cio in que­sto caso è che anche quando si fa qual­cosa di inte­res­sante non sem­bra godere dell’interesse dei cit­ta­dini. L’estate scorsa ci provò un corag­gioso edi­tore ad alle­stire un nutrito pro­gramma che si chia­mava la Bella estate. Rispo­sta tie­pida, come tutte le cose che si fanno fuori dai recinti dello sport e della politica.

Dodi­ce­sima stazione

Iper­coop. Qui trovo molta gente. Vago tra li scaf­fali stra­colmi di merce, non trovo tracce di pro­dotti irpini. Una terra che ha ancora tanti con­ta­dini non trova il modo di con­su­mare i suoi pro­dotti. Anche da que­sto punto di vista la città ha le sue colpe. Invece di essere quello che è: una città in mezzo a mon­ta­gne bel­lis­sime, un capo­luogo che guarda ai suoi paesi, Avel­lino sem­bra pro­ten­dersi inu­til­mente verso occi­dente, verso Napoli e Salerno, col risul­tato di pren­derne i difetti e non i pregi.

Tre­di­ce­sima stazione

Col mio amico Livio mi fac­cio un giro per i quar­tieri peri­fe­rici. Rispetto ad altre città del Sud, non sem­bra esserci una grande dif­fe­renza col cen­tro. Il motivo è che in que­sto caso non è la peri­fe­ria a far sfi­gu­rare il cen­tro, ma il cen­tro che tende a imi­tare la peri­fe­ria. Maz­zini, Valle, San Tom­maso, cam­biano i quar­tieri, ma i palazzi più o meno sono sem­pre gli stessi e pure le mac­chine par­cheg­giate e pure le facce della gente. Forse la nota più dolente viene dal quar­tiere Fer­ro­via dove c’è un sito di inte­resse nazio­nale da boni­fi­care: l’ex sta­bi­li­mento dell’Isochimica dove si scoi­ben­tava amianto. Amianto sot­ter­rato dap­per­tutto in quel quar­tiere, anche sotto i binari della fer­ro­via. Pic­cola con­so­la­zione: nella chiesa del quar­tiere c’è Il murale della pace, una pre­ge­vole opera di arte contemporanea.

Avel­lino è par­ti­co­lar­mente omo­ge­nea nel suo gri­giore. Più giriamo e più mi sem­bra di fare il giro della mosca nella bot­ti­glia. È una sen­sa­zione che mi danno molte città, come se la gran­dezza e il senso dell’infinito ormai si fos­sero andati a nascon­dere nei luo­ghi più pic­coli e sperduti.

Quat­tor­di­ce­sima stazione

Pas­siamo davanti al mer­ca­tone. Doveva essere un con­te­ni­tore di bot­te­ghe arti­giane. Aperto per alcuni mesi, si è rive­lato inge­sti­bile. Archi­tet­tura pes­sima per forma e dimen­sioni, costo di riqua­li­fi­ca­zione altis­simo. Si aspetta solo che il tempo la tra­sformi in rovina.

Mi sono stan­cato, ho voglia di tor­nare verso l’altura. Lascio la parola al mio amico Livio Bor­riello e alla sua per­ce­zione del gri­giore cit­ta­dino: Dire Avel­lino non è dire il nome di una città, ma quello di un posto, di una variante di luogo. Il nome Avel­lino non evoca nes­sun mondo, nes­suna dimen­sione psi­chica, come accade per le vere città che hanno delle vere carat­te­ri­sti­che. Pro­prio que­sto però è il suo aspetto inte­res­sante, essere una città neu­tra, una città inco­lore e trasparente.

Tre palazzi storici dell’università in cambio di un edificio anonimo del 1957. Il decano, 116 docenti e gli studenti firmano una lettera di protesta. I governi lesinano i soldi alle università e i Rettori, invece di scendere in piazza , vendono al miglior offerente i beni collettivi? Il Fatto Quotidiano”, 6 marzo. 2014

Vendereste tre gioielli per una collanina d’argento? Per 116 docenti e gli studenti dell’Università di Venezia la risposta è scontata, ma non lo è per il rettore Carlo Carraro. La storica Ca’ Foscari si articola in diverse sedi. Troppe per Carraro. I tempi son quelli che sono, i fondi non aumentano e bisogna comprimere i costi. Poco importa che l’ateneo non versi affatto in cattive acque, e che tra di loro si contino gioielli architettonici come Ca’ Cappello, affacciata sul Canal grande, costruita in epoca gotica e sede storica degli studi di area orientalistica a Venezia. Come riportato anche da l’Espresso, verrà ceduta, insieme a Ca’ Bembo, nel sestriere di Dorsoduro e palazzo Cosulich, affacciato sul Canale della Giudecca alle Zattere, di fronte al Mulino Stucky. La parola d’ordine è razionalizzare, e così, in cambio di tre pezzi pregiati, l’Università se ne prende uno che dovrebbe avere la stessa metratura: Ca’ Sagredo, costruito nel 1957, anonima ex sede Enel. Così, ha spiegato il rettore, si risolverà il problema della dislocazione “costosa e problematica” in troppe sedi dei due dipartimenti della facoltà di Lingue.

Studenti e docenti accusano di averlo appreso solo a novembre. Il 15, dopo la notizia, la riunione del Cda, a porte chiuse, è stata interrotta dagli studenti che hanno occupato il rettorato. Uno di loro sarebbe stato afferrato per il collo dal rettore, il quale a sua volta denuncia di essere stato aggredito. Dopo l’episodio, 116 docenti, tra cui il Decano, Guglielmo Cinque, hanno scritto una lettera per protestare contro il comportamento di Carraro, e quella che in città viene chiamata “la permuta del secolo”.

La trattativa è infatti una vendita attraverso permuta (è questa l’ultima definizione in ordine di tempo): tre palazzi per uno grande uguale. “Senza pesare sulla spesa pubblica ma anzi con recupero di efficienza e di denaro”, si è giustificato Carraro. Ma c’è un “però”. Pochi giorni dopo, la Soprintendenza fa sapere che “Ca’ Foscari ha chiesto un’autorizzazione per la vendita, ma non per la loro permuta”. Questa è possibile solo se per il venditore c’è “un incremento del patrimonio culturale nazionale”. Tradotto: tre edifici di pregio possono essere scambiati solo con uno di pregio maggiore. Altrimenti vanno venduti. La valutazione, però, è blindata, visto che l’Agenzia delle entrate ha certificato la sostanziale equivalenza del valore: 33,6 milioni per Ca’ Sagredo e 35,2 per i tre edifici dell'università. Non importa il valore storico, né che Ca’ Sagredo non possa neanche essere chiamata così, visto che è del 1900: un metro quadro in centro vale sempre lo stesso (5000 euro). La differenza di 1,5 milioni di euro, Ca’ Foscari la chiederà alla controparte. Ma dovrà aggiungere circa 8 milioni di euro per ristrutturare l’edificio ex Enel e per traslocare parte dei due dipartimenti che vantano una biblioteca gigantesca. Forte delle valutazioni dell’Agenzia, Carraro è andato avanti e ha secretato la trattativa per motivi di privacy. Il verbale con la delega non compare sul sito.

Con chi sta trattando la Ca’ Foscari? Non si sa bene. La nuova sede è di proprietà del “Risparmio immobiliare uno energia”, un fondo immobiliare chiuso e quotato in borsa. Poco o nulla si sa dei sottoscrittori. La gestione del fondo è in mano alla PlensPlan Invest (che ha istituito il fondo ma vi partecipa solo con l’1,77 per cento), controllata a maggioranza dalla Regione Trentino Alto Adige, il resto da banche locali. Il fondo è gravato da 101 milioni di debiti, soprattutto verso Unicredit e Cassa di risparmio di Bolzano, cui ha chiesto prestiti per comprare la maggior parte dei 10 immobili in gestione, quasi tutti ex Enel. In passato il fondo è stato coinvolto come punto di arrivo per una discussa vicenda di passaggi di proprietà finalizzati all’accrescimento artificioso del valore degli immobili (tra cui il palazzetto ex Enel). Non è risultata alcuna truffa, ma in sede giudiziaria si accertarono “guadagni da capogiro”. La società ha spiegato di aver eseguito una politica di acquisti “consona al valore di mercato”. Secondo Marta Locatelli, consigliere comunale del Pdl, il valore di Ca’ Sagredo si aggira intorno ai 15 milioni. Con una mozione approvata all’unanimità il consiglio ha chiesto al sindaco di vigilare per evitare che i palazzi venduti possano diventare alberghi, come accusano studenti e professori contrari, che hanno scritto preoccupati al ministro Giannini. Sostegno è arrivato anche da docenti stranieri. Il timore è che per ripianare i debiti, il fondo venda i tre edifici agli albergatori. Prima che sparisse, nel verbale del cda si sottolineava come i tre palazzi avessero “un’ampia previsione di destinazioni d’uso ammesse (direzionale, residenziale e ricettiva)”. Anche i Comitati privati per la salvaguardia dei beni artistici e architettonici sono sul piede di guerra. La trattativa però va avanti e si concluderà presumibilmente a fine aprile.

Grifone (Siracusa), XXIII, 1 29 febbraio 2014

«Sei mai stato ad Augusta, tu, Corbera?... E in quel golfettino interno, più in su di punta Izzo, dietro la collina che sovrasta le saline?… È il più bel posto della Sicilia… la costa è selvaggia, ...completamente deserta, non si vede neppure una casa; il mare è del colore dei pavoni; e proprio di fronte, al di là di queste onde cangianti, sale l’Etna; da nessun altro posto è bello come da lì, calmo, possente, davvero divino» (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, I Racconti)

Vietato rilassarsi, i cementificatori sono sempre in agguato: ritornano a galla progetti vecchi, dannosi, pensati solo per mungere risorse pubbliche e mantenere mastodontici apparati politico-burocratici, progetti – alcuni dei quali parzialmente attuati – che speravamo ormai di esserci lasciati alle spalle assieme all’eredità dei non pochi guasti che hanno già causato. La stagione della devastazione dell’ambiente pare non finire mai e trova sempre novelli avvocati che perorano la causa del cemento inutile e manager pubblici di nomina politica che, con i soldi della collettività, sono pronti a fare i coraggiosi imprenditori, in nome del progresso e dello sviluppo.
È di nuovo la martoriata area di Augusta – il cui gravissimo stato di compromissione ambientale era ormai acclarato agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso ma trovava ufficiale riconoscimento solo nel 1990 con la dichiarazione di Area ad Elevato Rischio di Crisi Ambientale – quella nella quale, riesumando il Piano Regolatore Portuale concepito nel 1963 e finora non aggiornato né sottoposto a VAS, si vorrebbero realizzare nuovi piazzali per ulteriori 330.000 mq e nuove e più lunghe banchine containers per ormeggiare quelle meganavi che non si sono finora viste e che, a detta degli esperti, sono ormai fantasmi anche nei porti commerciali più grandi e affermati del mondo.

L’area oggetto dell’intervento secondo il proponente, l’Autorità Portuale di Augusta, sarebbe un “relitto inutilizzabile e priva di connotati naturali né antropici” o ancora in passaggi successivi “…terreni incolti e in stato di abbandono…, caratterizzato da una depressione colma di acqua stagnante che non trova sbocco sul mare”. In realtà si tratta di un'area umida salmastra che ricade nell' “Oasi di protezione e rifugio della fauna selvatica” in agro di Augusta e Melilli (D.A 17 giugno 1999, G.U.R.S. 10 set.1999, n. 43). Questo decreto è stato poi sospeso, non annullato, con D.A. 29 dicembre 1999 che ha eseguito un'ordinanza del T.A.R. Sicilia, sezione di Catania (G.U.R.S. Parte I – n.3 del 2000).

La salina, che si estende per circa 12 ettari (art. 1 D.A. 17 giugno cit.), si colloca tra un'area industriale-commerciale e un’area storico-archeologica che comprende l'hangar per dirigibili di Augusta e la zona archeologica di “Cozzo del Monaco”, e si caratterizza per la presenza di habitat d'interesse comunitario e di un habitat prioritario (habitat 1150 Lagune salmastre, Dir. 92/43/CEE); di specie vegetali di interesse conservazionistico di cui una, l'Althenia filiformis, inserita nella lista rossa nazionale, e di numerose specie ornitiche che rientrano nell'allegato I della direttiva Uccelli 2009/147/CE (ex 79/409/CEE) come l’Airone rosso Ardea purpurea; il Mignattaio Plegadis falcinellus; la Spatola Platalea leucorodia; il Falco pescatore Pandion haliaetus; il Gabbiano roseo Larus genei; il Gabbiano corso Larus audouinii; il Fraticello Sterna albifrons; il Fratino Charadrius alexandrinus e altre ancora.

Si tratta quindi di un sito le cui valenze naturalistiche sono da ritenersi pari a quelle del pSIC/ZPS “Saline di Augusta” (ITA090014), sebbene per ragioni inspiegate non ne faccia parte. Allo stesso tempo l'ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, riporta nel proprio elenco delle zone umide italiane per il censimento invernale degli uccelli acquatici le Saline di Punta Cugno, altra denominazione delle S. del Mulinello (codice sito SR0304).

Il Formulario Standard Natura 2000 relativo alle Saline di Augusta, sin dalla sua prima stesura nel 1995 a cura dell'Università di Catania, ha proposto a SIC l'intero sistema delle Saline megaresi – le cosiddette S. Regina, S. Migneco-Lavaggi e S. del Mulinello – nessuna esclusa. Tuttavia la perimetrazione del pSIC, ed anche della ZPS, in fase di approvazione ha incluso solo le prime due saline ed escluso le terze, al primo passaggio e così pure a tutti i successivi passaggi, lasciando il sito, sotto questo profilo, privo della meritata tutela. Ed è in assenza di tale vincolo sull'area che il progetto riesce comunque a procedere.

L'ampliamento viene così descritto dal proponente nello Studio Preliminare Ambientale: “L’opera in esame non costituisce una modifica sostanziale al progetto del nuovo terminal container/molo container approvato con decreto di compatibilità ambientale del 2007, anzi ne è parte integrante e necessaria, sia ai fini della completa funzionalità dello scalo sia ai fini della regimazione idraulica delle acque dell’area retrostante”. Esso viene quindi giustificato come il già previsto e programmato sviluppo ed ampliamento della cosiddetta banchina containers per la quale fu rilasciato parere VIA positivo con decreto DSA-DEC-2007-0000224 del 27 mar. 2007 e, infatti, al SIA presentato nel 2004 fa più volte riferimento il proponente richiamando, per quello attualmente all’esame, gli studi ed i monitoraggi allora effettuati e sottoposti. La procedura VIA non può però essere frazionata e tutte le opere dell’intero progetto devono essere valutate nel loro insieme e contemporaneamente. Si può citare la nota sentenza della Corte di Giustizia Europea del 21 settembre1999 (Causa 392/96 Commissione delle Comunità europee contro Irlanda) con la quale viene stabilito che il frazionamento costituisce un rischio di elusione della VIA ed induce ad un errato giudizio di compatibilità che, invece, per essere corretto, deve formarsi ed esprimersi sull’intero progetto. Pertanto, pena la violazione dei più elementari principi, il progetto va rigettato ed il proponente richiesto di ripresentare una richiesta di VIA che comprenda sia la banchina containers che i piazzali.

Il citato parere VIA positivo per la banchina containers fu rilasciato in data 27/03/2007, ormai quasi sette anni fa, e l’opera – ad oggi – non è stata neppure iniziata. È infatti solo di recente, febbraio 2014, che i lavori sono stati affidati alla ditta vincitrice. Pertanto, essendo trascorsi oltre 5 anni, si ricorda la “Tempistica per la realizzazione del progetto: i progetti approvati devono essere realizzati entro cinque anni dalla pubblicazione del provvedimento ovvero entro un periodo più lungo, qualora espressamente previsto nel provvedimento di VIA. Se non interviene una formale richiesta di proroga da parte del proponente prima della scadenza prevista per legge e l'accettazione da parte del Ministero dell'Ambiente, trascorso il period o di cinque anni la procedura di VIA deve essere reiterata” (fonte Mattm)

Al momento è concreto il pericolo di una trasformazione irreversibile di quest'area – benché essa sia inserita nel Piano di Gestione delle Saline della Sicilia Orientale – con conseguente perdita di preziosi habitat naturali e perturbazione di specie. E ciò a dispetto di una ricca normativa di tutela ambientale sottoscritta dallo Stato italiano: la Convezione di Ramsar (1971), la Convenzione di Bonn e la Convenzione di Berna (1979), la Direttiva Uccelli 2009/147/CE (ex 79/409/CEE), la Direttiva Habitat 92/43/CE e la legge n.66 del 6 febbraio 2006 (Adesione della Repubblica Italiana all'Accordo sulla Conservazione degli Uccelli acquatici migratori dell'Africa-Eurasia, AEWA, G.U. 4 marzo 2006), e non ultimi i basilari principi di precauzione e prevenzione.

Si cancellerebbe una significativa porzione delle antiche Saline del Mulinello, le uniche che riuscirono a continuare la produzione del sale fino ai primissimi anni Ottanta ed in cui ancora oggi sono presenti le vestigia di alcune “casi ‘i salina” e gli ultimi preziosissimi resti di mulini a vento in legno, irripetibili testimonianze di un processo produttivo che nel passato ha caratterizzato fortemente l’economia di Augusta, per far posto ad una superficie pavimentata.

È amaro constatare come, agendo in tal modo, non ci si preoccupi affatto di precludere ogni auspicabile futuro di tutela e valorizzazione naturalistica del territorio; non sono infatti contemplate opzioni alternative al progetto concepito, e ci si basa su un’idea di porto commerciale risalente a 50 anni fa, rimaneggiata più volte, che si sta oggi dimostrando palesemente sbagliata e priva dei fondamentali requisiti di sostenibilità economica ed ambientale. Il Piano Regolatore Portuale (PRP) – quella parte in variante che contiene il progetto di porto commerciale – risale al 1982, approvato nel 1986 e reso esecutivo nel 1987, mai aggiornato nonostante la legge che istituiva le Autorità Portuali lo prescrivesse e mai sottoposto a Valutazione d’Impatto Ambientale. Solo di recente, luglio 2013, si palesa il bando di gara per la redazione della Valutazione Ambientale Strategica a corredo di un nuovo faraonico PRP che prevede la realizzazione di un’altra banchina containers lunga più di tre chilometri!

Inoltre l’opera è chiaramente incoerente con le necessità passate, presenti e future del traffico mercantile. La banchina e l’ampliamento vengono giustificati con il “trend” di crescita del traffico containers che dovrebbe portare a regime la loro movimentazione nel porto commerciale di Augusta a 500.000 teu (twenty equivalent unit – containers da 20 piedi). Questa stima, già fatta nel 2004 e che avrebbe dovuto essere raggiunta nel 2013 (Studio Preliminare Ambientale, p. 48), si è dimostrata del tutto inattendibile. Anche le stime, risalenti al 2006 e che prevedevano un incremento giornaliero di approdi per 2-3 navi (ivi, p. 54) si sono rivelate fallaci.

Alla luce di tutto ciò, le Associazioni del territorio hanno espresso la loro contrarietà al progetto e presentato una serie di osservazioni a tutti gli enti competenti, dal Comune alla Regione al Ministero dell'Ambiente: le principali ragioni dell'opposizione sono costituite dalla violazione delle norme comunitarie e nazionali di tutela degli ambienti naturali, dall'inosservanza delle prescritte procedure di Valutazione di Impatto Ambientale, dalla mancanza del Piano Regolatore Portuale aggiornato, dalla sottovalutazione dei rischi e degli impatti delle opere sui beni naturali e monumentali, dallo stravolgimento paesaggistico e – non ultimo – dalla ormai comprovata inattendibilità delle stime dei bisogni trasportistici e di traffico marittimo per i prossimi decenni. In conclusione, hanno chiesto al Ministero dell’Ambiente di rigettare il progetto e di dichiarare nullo il provvedimento VIA rilasciato nel 2007 per la banchina.

Il parere della Commissione Tecnica di Verifica dell'Impatto Ambientale VIA-VAS rilasciato il 27 set. 2013, inopinatamente esclude l'opera dalla procedura di Valutazione d'Impatto Ambientale e non tiene nel dovuto conto tutte le osservazioni negative e contrarie al progetto. Sebbene non se ne siano potuto ignorare alcune – tanto da non poter evitare di porre numerose prescrizioni e di dover rimandare ad altri Enti il compito di ulteriori verifiche – la decisione della Commissione non difende adeguatamente un sito che per il suo valore naturalistico, storico e culturale merita di essere tutelato.

Il Ministro per l’Ambiente dovrebbe ormai prendere atto che la Commissione VIA abbisogna di un profondo rinnovamento.

Da qualche mese si è aperta la corsa a chi dovrà ricoprire (o tornare a ricoprire) la carica di presidente dell’Autorità Portuale di Augusta scaduta nell’ottobre 2013. Anche il Ministro dei Trasporti ha l’occasione di rinnovare persone, prassi e obiettivi. Lo faranno?
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www.left.it, 28 febbraio 2014

Nel rumore di fondo dell’eterno pettegolezzo intorno ai nuovi potenti si è più volte ripetuto che quando Matteo Renzi è a Roma, dorme all’Hotel Bernini Bristol, dell’amico Bernabò Bocca, senatore di Forza Italia e genero di Geronzi. Quel Bocca che, intervistato da Vittorio Zincone nel settembre scorso, si scagliava contro i «divieti» dei soprintendenti, auspicava la realizzazione di due campi da golf a Capalbio e invocava il messianico intervento dei privati. Bocca è nel consiglio di amministrazione di Civita, il più grande concessionario del patrimonio culturale, dunque sapeva cosa diceva. E uno si chiede: ma quando, la sera, Renzi e Bocca si trovano a fare due chiacchere in albergo, se parlano di politica culturale, sono d’accordo o no?

Tutto indica che la «profonda sintonia» che Renzi ha dichiarato di avere con la destra di Berlusconi in tema di riforma della Costituzione (sic!), vige anche in tema di beni culturali. Il nuovo presidente del Consiglio ha detto più volte di voler abolire le soprintendenze («Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?», così nel suo libro Stil novo, a p. 23), e, nella manciata di parole che ha dedicato alla cultura in chiusura del comizio di paese con cui ha chiesto la fiducia al Senato il 24 febbraio, è riuscito a dire solo che «se è vero che con la cultura si mangia, allora dobbiamo aprire i Beni culturali agli investimenti privati».

Anche da questo punto di vista, il governo Renzi-Alfano si pone in perfetta continuità con quello Letta-Alfano. Alla vigilia della sanguinosa staffetta che lo ha cancellato, Enrico Letta aveva presentato Impegno Italia, sedicente manifesto di una svolta possibile. L’unico punto dedicato alla «cultura» (il 41esimo, su 50) prevedeva di «rafforzare la gestione economica dei beni artistici e culturali. Incentivare lo sviluppo dei servizi aggiuntivi da dare in concessione ai privati». Se si ricorda che il presidente di Civita si chiama Gianni Letta, si comprenderà forse perché il governo Enrico Letta avvertisse questa urgenza. Ma il problema va ben oltre il contingente conflitto di interessi. Infatti, il documento di Letta è stato fatto proprio dalla direzione Pd che lo ha defenestrato, ed è proprio quella l’unica cosa detta da Renzi al Senato.

Una vera telepatia unisce dunque Renzi a quel Dario Franceschini che solo pochi anni fa definiva «il vicedisastro» e «una delusione continua», e che ora ha messo alla guida del ministero per i Beni culturali, pardon al ministero del Petrolio.

Intervistato dal Sole 24 Ore all’indomani della nomina, Franceschini non ha infatti trovato di meglio che riesumare l’ormai inascoltabile luogo comune del patrimonio culturale come petrolio d’Italia: «Penso che il ministero della cultura sia in Italia come quello del petrolio in un paese arabo». E ancora: «La cultura è il nostro petrolio». Insomma, il ministro è riuscito ad avverare in un batter d’occhio il profetico anagramma sfornato poche ore prima da Stefano Bartezzaghi: «Dario Franceschini = Dir frasi canoniche». Il copyright della canonicissima metafora del petrolio spetta al deputato democristiano Mario Pedini (1918-2003), noto soprattutto per essere uscito nelle liste della P2. Ma a renderla celebre fu Gianni De Michelis, che nel 1985 proclamò che: «Le risorse necessarie alla conservazione non ci saranno finché non ne viene evidenziata la valorizzazione economica». Partiva allora il tormentone dei “giacimenti culturali”, al cui prodotto finale ben si attaglia questa analisi di Joseph Stiglitz: «I Paesi che abbondano di risorse naturali sono tristemente famosi per le attività di ricerca della rendita. In tali Paesi è molto più facile diventare ricchi ottenendo un accesso privilegiato alle risorse che generando ricchezza. Questo è spesso un gioco a somma negativa».

La politica culturale, ancora una volta, non cambia verso.

La partita che si gioca a Roma è un episodio del lavorio dei neoliberisti per strozzare progressivamente i possessori dei patrimoni collettivi per privatizzarli e ridurli a strumenti del capitale finanziario. Attivissimi in questa impresa gli esponenti della politica delle "larghe intese", annidati nelle istituzioni e nel nuovo parastato. Il manifesto, 28 febbraio 2014

Strano esor­dio quello del pre­mier Renzi, che, dal pate­tico inse­dia­mento a Pre­si­dente del Con­si­glio, non perde occa­sione per rimar­care il legame che vuole man­te­nere con i ter­ri­tori, riven­di­cando il modello del «sin­daco d’Italia». Strano esor­dio per­ché il primo atto signi­fi­ca­tivo del suo governo è stato il ritiro del decreto «Salva Roma», met­tendo così a rischio l’approvazione del bilan­cio di Roma Capi­tale e facen­dola peri­co­lo­sa­mente avvi­ci­nare al totale default.

Attri­buire tutto que­sto alle forze di oppo­si­zione, che, in quanto tali, non hanno i numeri per far sal­tare alcun­ché, appare deci­sa­mente poco cre­di­bile; e forse le ragioni di quanto sta suc­ce­dendo andreb­bero ricer­cate nel rias­setto degli equi­li­bri interni alle diverse elite politico-finanziarie, che, a diversi livelli, hanno con­tri­buito al rag­giun­gi­mento della pol­trona più ambita (per ora) da parte del ragazzo che non ha l’età.

In realtà, la par­tita che si sta gio­cando sui destini di Roma Capi­tale costi­tui­sce un inte­res­san­tis­simo labora­to­rio del con­flitto che, nei pros­simi mesi, vedrà gli enti locali al cen­tro dello scontro.

Sapien­te­mente spo­gliati nell’arco degli ultimi quin­dici anni da un com­bi­nato dispo­sto di misure for­mato dal patto di sta­bi­lità interno, dalla dra­stica ridu­zione dei tra­sfe­ri­menti era­riali, da vec­chi tagli e più moderne spen­ding review, fino alla costi­tu­zio­na­liz­za­zione del pareg­gio d bilan­cio, gli enti locali sono ora cotti a pun­tino per dive­nire i più effi­cienti ese­cu­tori delle poli­ti­che libe­ri­ste, rese «ine­vi­ta­bili» dalla trap­pola del debito pub­blico e dall’aver assunto come prio­rità indi­scu­ti­bili i vin­coli mone­ta­ri­sti impo­sti dall’Unione Europea.

Gli enti locali sono al cen­tro del con­flitto, in quanto ancora deten­tori di una quan­tità di beni – ter­ri­to­rio, patri­mo­nio immo­bi­liare e ser­vizi pub­blici– valu­ta­bili attorno ai 570 miliardi (stime Deu­tsche Bank del 2011) ed entrati da tempo nel mirino dei grandi capi­tali finan­ziari, alla dispe­rata ricerca di asset sui quali inve­stire l’enorme massa di ric­chezza pri­vata pro­dotta dalle spe­cu­la­zioni finan­zia­rie dell’ultimo decennio.

Non è certo un caso la tra­sfor­ma­zione, in atto negli ultimi anni, di Cassa Depo­siti e Pre­stiti da ente per il soste­gno a tassi age­vo­lati degli inve­sti­menti degli enti locali a SpA mista pubblico-privata che si pone come part­ner finan­zia­rio per il soste­gno alle grandi opere, per la «valo­riz­za­zione» del patri­mo­nio degli enti locali, per l’aggregazione in grandi mul­tiu­ti­lity della gestione dei ser­vizi pub­blici locali.

Se que­sta è la par­tita, appare a dir poco insuf­fi­ciente l’indignazione del sin­daco Marino con rela­tive minacce di dimis­sioni. Ciò che sta per essere pro­gres­si­va­mente dismessa è la fun­zione pub­blica e sociale dell’ente locale in quanto tale, per tra­sfor­marne il ruolo da ero­ga­tore e garante dei ser­vizi per la col­let­ti­vità a faci­li­ta­tore dell’espansione degli inte­ressi finan­ziari e spe­cu­la­tivi su ogni set­tore delle comu­nità territoriali.

Una solu­zione imme­diata per evi­tare oggi il default di Roma Capi­tale verrà sicu­ra­mente tro­vata e avrà, in piena sin­to­nia con il decreto «Salva Roma» appena riti­rato, le mede­sime carat­te­ri­sti­che di dare un po’ di respiro nel breve per ren­dere più strin­gente la catena del ricatto nel medio periodo.

L’idea del sin­daco e della giunta capi­to­lina di poter gover­nare la città non met­tendo in discus­sione alcuno dei vin­coli strut­tu­rali che ne impri­gio­nano la pos­si­bi­lità di azione è desti­nata in breve tempo a rive­larsi per quello che è: nient’altro che una pura illu­sione oggi, desti­nata a dive­nire com­pli­cità domani.

Per que­sto, una solu­zione vera al con­flitto in corso fra Governo e Roma Capi­tale non può venire dalle dina­mi­che isti­tu­zio­nali, bensì solo ed uni­ca­mente da una mobi­li­ta­zione sociale ampia con­tro la trap­pola del debito e per un’indagine popo­lare e indi­pen­dente sullo stesso, con­tro il patto di sta­bi­lità e per la fuo­riu­scita imme­diata dallo stesso di ogni inve­sti­mento rela­tivo alla riap­pro­pria­zione dei beni comuni e alla rea­liz­za­zione del wel­fare locale, con­tro le pri­va­tiz­za­zioni e per una gestione par­te­ci­pa­tiva dei ser­vizi pub­blici locali, con­tro gli inte­ressi finan­ziari e per una nuova finanza pub­blica e sociale.

Si tratta sem­pli­ce­mente di riap­pro­priarsi della democrazia

Giochetti edilizi strapaesani e truffaldini attorno a uno dei tanti gioielli sparsi e misconosciuti del nostro patrimonio culturale. Corriere della Sera, 28 febbraio 2014

Scommettiamo che se ripassasse oggi, Albrecht Dürer, non si fermerebbe più a dipingere incantato il fascinoso castello di Arco, sul lago di Garda. I ruderi del maniero, sia chiaro, hanno conservato il loro charme. Ai suoi piedi, però, dove ai tempi del grande pittore tedesco c’erano solo ulivi e un secolo fa sorgeva un delizioso albergo ottocentesco, è venuto su un ecomostro. Una gigantesca spalmata di cemento armato dalle curiose caratteristiche: i «sotterranei» emergono da terra come un muraglione. Direte: ma un sotterraneo non si chiama sotterraneo perché sta sotto la terra? Miracolo urbanistico: qui no.

La storia va raccontata dall’inizio. Cioè da quando, agli sgoccioli dell’Ottocento, il caffettiere Giuseppe Lenninger, gestore del «Caffè Restaurant Villa Emilie» rivolge una richiesta al comune: «È intenzione dell’umile sottoscritto di fare erigere nel suo podere coltivato a ulivi, posto sopra la villa arciducale (…) un piccolo casino alla Svizzera come da disegno che qui si unisce e supplica perché esso sia approvato in linea estetica. Questo piccolo fabbricato consistente in due soli locali uno sopra l’altro…».

Ma si sa, l’appetito vien mangiando. E così, dopo aver avuto il via libera per il delizioso «piccolo casino» in quel punto panoramico che spaziava sul lago, il caffettiere, avendo intuito come Arco sarebbe diventato un centro turistico amatissimo dai tedeschi, decise di ingrandirsi. E meno di un anno dopo chiedeva di dichiarare abitabile l’edificio, nel frattempo diventato tutta un’altra cosa: un elegante albergo battezzato «Villa Olivenheim», casa degli ulivi. Era il 1888.

Da allora lo stabile, del quale resta una bella cartolina, ha avuto vita travagliata. Abbandonato dopo la Grande Guerra dagli affezionati villeggianti austriaci, germanici e ungheresi a causa del nuovo confine, fu infine comprato dall’Opera nazionale invalidi per farci un sanatorio per i «ricoverati tubercolotici di guerra» con i soldi forniti in buona parte, per spirito di fratellanza, con le rimesse degli emigrati in Argentina. E quello fu l’ultimo nome che prese: «Casa Argentina». Destinata via via ad esser abbandonata al degrado finché una ventina di anni fa fu ceduta dalla Provincia a nuovi proprietari. Il tempo di mettere a punto un progetto e questi chiedono di ricostruire l’edificio. No, risponde il Comune. E accusa il progetto di aver giocato in contrasto con la legge sul «volume esistente calcolato comprendendo volumi interrati e seminterrati». La proprietà fa ricorso al Tar. Respinto.

Nel 2000 il piano regolatore cambia. Ma prevede comunque per l’ex «Argentina», dato «l’alto valore paesaggistico derivante dalla posizione strategica e panoramica dell’area» dei limiti molto rigidi, una pianta d’alto fusto ogni 50 metri quadri, una «impronta architettonica qualitativamente elevata tale da richiamare lo stile tardo ottocentesco», un’altezza massima di 10 metri e mezzo… A farla corta: il rifacimento, visto il posto, deve essere garbato. Rispettoso.

Nel 2003, nuova variante. Assai più permissiva. Anche questa, tuttavia, specifica vari punti: «le volumetrie del progetto dovranno tendere a contenere al massimo l’impatto paesaggistico e l’intrusione nelle vedute panoramiche del castello» e seguire «il più possibile le curve di livello del terreno naturale» e «l’altezza dei fabbricati sarà quella che meglio concilia le esigenze di mitigare l’impatto visivo» e insomma il tutto «dovrà essere oggetto di analisi filologica e tendere al recupero, nel possibile, della sua immagine originaria, ripristinando i fronti principali e gli apparati decorativi dell’epoca». Quali? Lo dicono le foto conservate dagli ambientalisti che combattono la pesante ristrutturazione cementizia: le colonnine, l’abbaino, le finestre ad arco, i pinnacoli…

Fatto sta che due giorni dopo il Natale del 2004, mentre la gente smaltisce distratta i postumi dei cenoni ed è avviata la cosiddetta «fase informale», l’assessore all’urbanistica Sergio Dellanna consiglia alla proprietà come motivare «la richiesta di demolire il fabbricato storico» e cioè sottolineando il degrado e lo «sfiguramento» dell’edificio, i problemi di ripristino dell’originale, l’indisponibilità di parcheggi… Poco dopo il Comune, per bocca di altri assessori, dice d’essersi convinto dell’«impossibile ipotesi di convivenza tra il recupero filologico del manufatto e la necessità di mitigare l’impatto prodotto dagli spazi destinati a parcheggio mediante il loro interramento». Arrivano le ruspe. Tutto giù.

Cosa sia adesso quello che un tempo era l’elegante «Hotel Pensione Olivenheim» lo potete vedere dalle fotografie. Quella satellitare dell’area «prima» e «dopo» mostra un incremento delle cubature originali (a proposito: nessuno ha mai ben capito a quanto ammontassero) molto ma molto vistoso. Quelle della facciata ostentano una colossale parete di cemento armato, una specie di imponente zoccolo, in cima alla quale è adagiata la struttura residenziale vera e propria con le finestre che, lassù in alto, hanno finalmente la vista sul lago che altrimenti, senza l’innalzamento di quell’«interrato», sarebbe stato invisibile.

Cosa dicono le norme comunali? Dicono che può essere definita interrata una «costruzione collocata totalmente sotto il livello del terreno o sotto il terreno di riporto preventivamente autorizzato che non presenta più di una faccia scoperta». Ma possono essere considerati «interrati» quei parcheggi scavati nella montagna dietro quel muraglione che nel punto più alto svetta sulla strada per 10 metri? E che fine ha fatto il «recupero filologico» se là dove c’era il vecchio albergo poi sanatorio c’è oggi uno spropositato complesso di vari palazzi squadrati, anonimi e biancastri di cemento?

E non è finita. Accanto alla «Residenza Olivenheim» che all’albergo originale ha rubato anche quel nome che suona così romantico e bell’époque e che sarà venduto appartamento per appartamento (auguri: centinaia di case nella zona sono invendute) dovrebbe essere «recuperato» allo stesso modo anche un altro edificio bello ma malandato dove dovrebbe sorgere un hotel. E pazienza se quella strada si chiama Via del Calvario. Un tempo, quando quella collina era davvero bellissima, col castello che si stagliava così vicino che pareva di poterlo toccare, saliva tra gli ulivi silenziosi una struggente «via crucis». C’era un capitello, lì, all’inizio. Da tempo immemorabile. Dava fastidio. L’hanno tolto.

Trent'anni di storia napoletana. Dal Rinascimento del primo Bassolino, via via fino alla decadenza e al degrado dei nostri anni. Il manifesto, 27 febbraio 2014. Alcuni riferimenti in calce

Giu­sto vent’anni fa, quando Anto­nio Bas­so­lino divenne sin­daco vin­cendo il duello con Ales­san­dra Mus­so­lini, per l’urbanistica napo­le­tana comin­ciò un’indimenticabile età dell’oro. Quando fu restau­rata e pedo­na­liz­zata la piazza del Ple­bi­scito, Donata Righetti, su La Voce diretta da Indro Mon­ta­nelli scrisse: «Napoli la deforme, Napoli l’incurabile, la dispe­rata, il recinto ribol­lente, ama­ris­simo del degrado. E adesso, di colpo, Napoli la rinata, Napoli la sfol­go­rante. La sue ster­mi­nate dif­fi­coltà soprav­vi­vono, tutte. Ma da qual­che set­ti­mana que­sto luogo di fastose mera­vi­glie ritro­vate sem­bra somi­gliare pochis­simo alla patria dei De Lorenzo e dei Pomi­cino. Si intui­scono le emo­zioni di un riscatto non solo di super­fi­cie ma di coscienze».

Furono rag­giunti in effetti risul­tati straor­di­nari: la migliore tutela del cen­tro sto­rico; la sal­va­guar­dia e la valo­riz­za­zione di ogni resi­duo spa­zio verde; la defi­ni­zione del pro­getto Bagnoli, dove era stata chiusa l’acciaieria dell’Italsider; il mas­simo poten­zia­mento della rete metro­po­li­tana; la for­ma­zione di un uffi­cio per la pia­ni­fi­ca­zione urba­ni­stica di eccel­lente qua­lità che curò la for­ma­zione del nuovo piano regolatore.

Ma non durò molto. Già all’inizio del secondo man­dato comin­ciò lo sban­da­mento. In Napoli non è Ber­lino, Isaia Sales ha cer­cato di deci­frare l’enigma Bas­so­lino. Era stato il sin­daco ita­liano più cele­bre nel mondo, can­di­dato cari­sma­tico alla pre­si­denza del Con­si­glio, ma per ingra­ziarsi gli ambienti che con­tano a un certo punto comin­ciò a cedere a un medio­cre oppor­tu­ni­smo, e finì tra­volto dalla ver­go­gna dei rifiuti. Ben oltre le sue respon­sa­bi­lità, fu addi­tato come “emblema del mal­go­verno” e coin­volto in un giu­di­zio cata­stro­fico sulla città. Lo stesso giu­di­zio esteso a Rosa Russo Ier­vo­lino, dopo di lui dal 2001 sin­daco per dieci anni.

Poi è stata la volta Luigi De Magi­stris. Alle ele­zioni ammi­ni­stra­tive del 2011, il can­di­dato del cen­tro­de­stra Gianni Let­tieri indicò fra i primi obiet­tivi del suo pro­gramma l’eliminazione del piano rego­la­tore, che per De Magi­stris invece non andava toc­cato. E sor­pren­den­te­mente vinse De Magi­stris, con più del 65 per cento dei con­sensi. Ne fui felice, pen­sai che a Napoli tor­nas­sero le belle gior­nate. Il nuovo sin­daco partì con l’idea di “scas­sare”, cioè di libe­rare la città dal con­so­cia­ti­vi­smo e dalla sta­gna­zione degli anni tar­gati Bassolino-Iervolino.

Ma è stata una breve illu­sione, sono comin­ciati subito i passi falsi e in due anni è stato sper­pe­rato un impor­tante patri­mo­nio di dispo­ni­bi­lità alla par­te­ci­pa­zione e al cam­bia­mento. Le cro­na­che gior­na­li­sti­che hanno dif­fu­sa­mente rac­con­tato: a) l’irrisolta crisi dei rifiuti inviati agli ince­ne­ri­tori del Nord Europa o alle disca­ri­che di altre regioni, in cro­nica carenza di impianti, con la rac­colta dif­fe­ren­ziata che a dispetto dei pro­clami non rie­sce a decol­lare; b) lo scan­dalo del pro­getto Bagnoli, dove è con­ti­nuata una gestione sepa­rata e incon­clu­dente, e un’interminata boni­fica, fino a quando la magi­stra­tura ha seque­strato le aree dell’ex Ital­si­der, ipo­tiz­zando il reato di disa­stro ambien­tale; c) il lun­go­mare fret­to­lo­sa­mente pedo­na­liz­zato, non soste­nuto da un’idea di com­ples­siva rior­ga­niz­za­zione della Riviera di Chiaia; d) la man­cata dismis­sione delle società par­te­ci­pate che con­ti­nuano impro­dut­ti­va­mente a dre­nare risorse.

A tutto ciò vanno aggiunte la dis­so­lu­zione degli uffici urba­ni­stici e, a un certo momento, addi­rit­tura la dispo­ni­bi­lità a pri­va­tiz­zare un brano del cen­tro storico.

Per quanto possa valere, ma qual­cosa vale, la pro­gres­siva degra­da­zione di Napoli è stata cer­ti­fi­cata dall’indagine del dicem­bre 2013 de Il Sole 24 Ore sulla qua­lità della vita. La pro­vin­cia di Napoli sta all’ultimo posto, il cen­to­set­te­simo, l’anno scorso era penul­tima. Le pro­vince delle altre grandi città sono clas­si­fi­cate come segue: Bolo­gna terza, Firenze set­tima, Milano decima, Roma ven­te­sima, Genova ven­ti­quat­tre­sima, Torino cin­quan­ta­due­sima, Bari novan­te­set­te­sima, Palermo cen­to­seie­sima. All’inizio degli anni 2000, quando ancora rilu­ce­vano gli effetti del primo Bas­so­lino, Napoli stava a metà clas­si­fica. Da allora è comin­ciata la discesa verso l’abisso.

Alla più recente rovina di Napoli ha cer­ta­mente con­tri­buito la cre­scita pato­lo­gica della conur­ba­zione che si estende a tutta la pro­vin­cia e a parti delle con­fi­nanti pro­vince di Caserta e Salerno. Era la corona di spine descritta da Fran­ce­sco Save­rio Nitti nel 1903, che dopo un secolo ha assunto con­no­tati spa­ven­tosi. Più di cento comuni con den­sità inse­dia­tiva senza con­fronti, una fram­men­ta­zione ammi­ni­stra­tiva che ha favo­rito situa­zioni di inso­ste­ni­bile spreco di ter­ri­to­rio (basti pen­sare alla dis­sen­nata sovrab­bon­danza di aree per atti­vità pro­dut­tive) unite al per­ma­nere di insod­di­sfatti biso­gni di alloggi, di attrez­za­ture e ser­vizi. Qui si è con­su­mata la tra­ge­dia della terra dei fuo­chi che negli ultimi tempi ha assunto valenza nazionale.

Su la Repub­blica di Napoli, Anto­nio di Gen­naro ha descritto «l’improvvisa, dolo­rosa con­sa­pe­vo­lezza del sac­cheg­gio ter­ri­to­riale, dei cri­mini che sono stati com­messi con­tro l’ecosistema e il pae­sag­gio, la non tol­le­ra­bile incer­tezza circa gli effetti sulla salute delle per­sone; tutto que­sto ha finito per fun­zio­nare come cro­giuolo di nuove espe­rienze sociali e poli­ti­che». Ma anche come fomite di risen­ti­mento e di rivolta pro­prio di chi si sente tra­dito dalla città (la città come il Palazzo del potere e del privilegio).

Forse è que­sto l’aspetto più grave della crisi che tra­volge Napoli: l’essere negata come capi­tale. I comuni della cin­tura non sono più in sud­di­tanza ma ten­dono ad assi­mi­lare il capo­luogo in uno sce­na­rio di ille­ga­lità e di bar­ba­rie. Men­tre non c’è trac­cia di una cul­tura pub­blica, napo­le­tana o nazio­nale, capace di far fronte alla rovina.

Qual­cuno si illude che una solu­zione possa tro­varsi nella Città metro­po­li­tana, rife­ren­dosi alla pro­po­sta del governo appro­vata a fine dicem­bre per l’istituzione del nuovo ente, che dovrebbe sosti­tuire le pro­vince di Torino, Milano, Vene­zia, Genova, Bolo­gna, Firenze, Bari, Napoli e Reg­gio Cala­bria. A parte il caso di Roma Capi­tale. Nell’insieme, circa un terzo della popo­la­zione ita­liana. Ma quella in discus­sione non è una riforma. La Città metro­po­li­tana non può nascere come una Fenice dalle ceneri delle pro­vince con­dan­nate a morte con giu­di­zio som­ma­rio, fra cori di giu­bilo insen­sato. Non è una riforma, è un guaz­za­bu­glio deter­mi­nato dall’unico obiet­tivo del con­te­ni­mento della spesa pub­blica, e del tutto indif­fe­rente all’efficienza dei poteri locali nell’erogazione dei ser­vizi o alla qua­lità della rap­pre­sen­tanza delle comu­nità interessate.

La pro­po­sta gover­na­tiva pre­vede che a capo della Città metro­po­li­tana sia il sin­daco del comune capo­luogo, e un con­si­glio metro­po­li­tano for­mato dai sin­daci dei comuni della pro­vin­cia. Tutti a titolo gra­tuito. Un espe­diente inu­tile (anche dal punto di vista del rispar­mio), anzi dan­noso, che soprat­tutto a Napoli agi­rebbe come acce­le­ra­tore della disgre­ga­zione. Ben diversa la filo­so­fia ispi­ra­trice della legge di riforma degli enti locali del 1990, una riforma auten­tica, bloc­cata dalla man­canza di coraggio.

Si pre­ve­deva una città metro­po­li­tana gene­rata dalla scom­po­si­zione del comune capo­luogo e dalla for­ma­zione di un una nuova figura isti­tu­zio­nale – con nume­ro­sis­sime com­pe­tenze, dalla pia­ni­fi­ca­zione del ter­ri­to­rio ai tra­sporti, dalla tutela dell’ambiente alla difesa del suolo, dalla valo­riz­za­zione delle risorse idri­che alla distri­bu­zione com­mer­ciale – e con poten­zia­lità di riforma non solo ammi­ni­stra­tiva ma poli­tica e sociale. Le sole con­di­zioni che a Napoli potreb­bero con­sen­tire il recu­pero di una decente normalità.

Con­cludo con Gior­gio Bocca: «Napoli muore: ma sic­come muore da troppi anni, nes­suno ci fa più caso»

Riferimenti
Molte informazioni e documenti sulla città nella cartella "Napoli" su eddyburg. Qui, anche su eddyburg, i recenti articoli pubblicati da il manifesto su Milano, Sassari, Venezia.

Ogni tanto accade qualcosa di buono. L'Unità, 25 febbraio 2014

Il vento politico può cambiare in senso favorevole alle riforme. Lo dimostra, per esempio, la vittoria nelle non facili elezioni sarde del Pd e del suo candidato Francesco Pigliaru, un economista, non un candidato “spettacolare”, già assessore della Giunta Soru. Lo sconfitto governatore in carica del centrodestra, Ugo Cappellacci, aveva in pratica rovesciato la strategia del centrosinistra che, fra non poche difficoltà, aveva varato con successo una pianificazione territoriale incisiva, prima col decreto salvacoste, poi coi piani paesaggistici coordinati da Edoardo Salzano, puntando a salvaguardare in modo attento un patrimonio naturalistico, ambientale, paesaggistico che è la ricchezza fondamentale della grande isola.

“Abbiamo costruito villaggi fantasma e reso fantasmi i nostri paesi”, commentò allora il governatore Renato Soru lanciando una sorta di “manifesto” programmatico per la sua isola fondato su una precedenza assoluta per la salvaguardia delle coste e per il restauro, recupero, riqualificazione dell’edilizia esistente. Gli fece eco un fine intellettuale, Giorgio Todde: “C’è qualcosa che lascia inebetiti nella vita sintetica del villaggio vacanze dove si mangia, si dorme, si balla, si nuota in piscine irreali, poi si mangia di nuovo, si dorme di nuovo in un ciclo rotondo e animale di cibo, deiezione e sonno”. Dal quale la Sardegna vera è esclusa, là, fuori dal recinto.

Purtroppo la giunta Cappellacci ha ripreso quel modello sbagliato, incoraggiato da Silvio Berlusconi la cui famiglia ha interessi cospicui su centinaia di ettari di quella che dovrebbe diventare la Costa Turchese. Coi sardi sempre fuori dai cancelli. Le zone ancora integre non sono poche, persino vicino a Cagliari, oppure nell’area di Bosa, e ancora nell’Iglesiente con la Costa Verde detta anche il Sahara d’Italia per l’ampiezza inusitata degli arenili e delle dune che li proteggono. Anche 3.000 ettari ininterrotti. Soltanto in Sardegna vi sono ancora migliaia di ettari di dune, altrove distrutte e cementificate.

Per questo i piani paesaggistici devono tornare al centro di un’azione congiunta Stato-Regione per risollevare l’economia sarda depressa dalla caduta degli ormai lontani sogni industriali, messa a terra dall’abusivismo all’origine del recente disastro ambientale. Bisogna puntare di più, con intelligente senso del reale, sull’economia agro-silvo-pastorale, sui suoi vini e formaggi oggi qualificati, sul manifatturiero, sul turismo naturalistico (potrà mai decollare il Parco Nazionale del Gennargentu?) oltre che su quello balneare. Offrendo però ai collegamenti marittimi col Continente quelle tariffe convenienti che la concorrenza fra più società doveva assicurare e che invece il solito “cartello” all’italiana ha negato, a danno delle attività sarde e dei sardi.

Vento favorevole alle riforme pure in Toscana dove la Giunta di Enrico Rossi ha portato con coraggio in Consiglio sia il piano paesaggistico redatto d’intesa con Ministero per i Beni Culturali sia la nuova legge urbanistica regionale. Esempio da imitare nelle regioni dove cemento e asfalto spesso hanno impazzato intaccando a fondo la risorsa millenaria del paesaggio tuttora basilare per una migliore difesa del suolo, per una vita sociale più serena, per un’economia più equilibrata e durevole, per un turismo qualificato. La Regione Toscana ha ascoltato la voce dei comitati di cittadini provocando, di fatto, il ritiro di un progetto di golf con club house e villette a schiera al Lago Aquato, presso Capalbio, in una Maremma intatta, delicatissima, ad alta vocazione agro-silvo-pastorale. Con vini lanciati anche sul mercato Usa dove ai produttori si chiedono le immagini dei bei paesaggi da cui vengono quelle bottiglie di pregio, e più son belli e più i vini valgono. Vogliamo capirlo finalmente?

Il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2014 (m.p.g.)

Come una perversa macchina del tempo, il discorso pubblico sul patrimonio culturale ci ha riportati di peso nei plumbei anni Ottanta. Intervistato dal Sole 24 Ore, il neoministro per i Beni culturali Dario Franceschini non ha trovato di meglio che riesumare l’ormai inascoltabile luogo comune del patrimonio culturale come petrolio d’Italia: “Penso che il ministero della Cultura sia in Italia come quello del petrolio in un paese arabo”. E ancora: “La cultura è il nostro petrolio”. Insomma, il ministro è riuscito ad avverare in un batter d'occhio il profetico anagramma sfornato poche ore prima da Stefano Bartezzaghi: “Dario Franceschini = Dir frasi canoniche”.

Il copyright della canonicissima metafora del petrolio spetta al deputato democristiano Mario Pedini (1918-2003), noto soprattutto per essere uscito nelle liste della P2. Ma a renderla celebre fu Gianni De Michelis, che nel 1985 proclamò che: “Le risorse necessarie alla conservazione non ci saranno finché non ne viene evidenziata la valorizzazione economica”. Partiva allora il tormentone dei giacimenti culturali, al cui prodotto finale ben si attaglia questa analisi di Joseph Stiglitz: “I paesi che abbondano di risorse naturali sono tristemente famosi per le attività di ricerca della rendita. In tali paesi è molto più facile diventare ricchi ottenendo un accesso privilegiato alle risorse che generando ricchezza. Questo è spesso un gioco a somma negativa”. Parole che evocano la privatizzazione dei cosiddetti “servizi aggiuntivi” avviata da Alberto Ronchey su quell'onda, nei primi anni Novanta: un processo che doveva riguardare solo caffetterie e bookshop, e che ha invece finito per fagocitare l'intera vita del sistema museale italiano, inclusa la didattica e la progettazione delle mostre. Per intendersi è come se una scuola pubblica avesse dato in gestione al Cepu non la mensa, ma l’insegnamento stesso. Un’economia di rendita che ha prodotto un oligopolio di concessionari con importanti connessioni politiche (i primi due sono Civita, presieduta da un certo Gianni Letta, ed Electa, di proprietà Berlusconi...), creando pochi posti di lavoro stabili, una produzione culturale di infima qualità (la cosiddetta “valorizzazione”) e non di rado danni materiali al patrimonio: la peggiore delle economie petrolifere.

Ma degli anni Ottanta non abbiamo solo i nostalgici: ne abbiamo ancora i protagonisti. Giuliano Amato ha dichiarato ieri al Corriere che “i beni culturali hanno uno spaventoso bisogno di manager dei Beni culturali, non necessariamente chi ha gestito un McDonald’s riesce a esserlo, ma difficilmente può esserlo un bravo archeologo”. Chissà se il giudice costituzionale Amato sa che le sue parole (oltre a cozzare col fatto che il direttore-presidente del più grande museo del mondo, il Louvre, è proprio un archeologo) cozzano con la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, imperniata sul principio che nel governo del patrimonio la “primarietà del valore estetico-culturale non può essere subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici” (così una sentenza del 1986).

Ma il più anni Ottanta di tutti è Matteo Renzi, il quale, nel suo comizietto al Senato, ha biascicato che “se è vero che con la cultura si mangia, allora dobbiamo aprire i Beni culturali agli investimenti privati”. Una vera telepatia lo unisce a quel Dario Franceschini che solo pochi anni fa definiva “il vicedisastro” e “una delusione continua”: ecco perché lo ha messo a far la guardia al barile del petrolio. Speriamo che ora non gli passi anche un cerino.

Denuncia di Legambiente. «Men­tre l’Italia sta fra­nando, il par­la­mento cerca di con­do­nare gli abusi edi­lizi, sem­pre riman­dando l’abbattimento degli immo­bili costruiti ille­gal­mente». Realacci promette opposizione dura. Vedremo. Il manifesto, 20 febbraio 2014Legambiente. L'associazione ambientalista lancia una campagna contro gli abusi edilizi denunciando una pratica tollerata da tutti i governi che solo nel 2013 ha favorito la costruzione di 26 mila edifici fuori legge. "Il parlamento deve approvare al più presto la legge sulle demolizioni", spiega il presidente Vittorio Cogliati Dezza

Men­tre l’Italia sta fra­nando, il par­la­mento cerca di con­do­nare gli abusi edi­lizi, sem­pre riman­dando l’abbattimento degli immo­bili costruiti ille­gal­mente. Come se già non fos­sero sto­ri­ca­mente docu­men­tati gli scempi cau­sati dagli ultimi tre con­doni edi­lizi (nel 1985, nel 1994 e nel 2003). Il feno­meno è così dif­fuso che è quasi impos­si­bile da cen­sire (manca ancora una map­pa­tura nazio­nale del feno­meno), ma basta un dato anche par­ziale per spie­gare come mai la peni­sola si stia sgre­to­lando sotto le frane e tra le piene dei fiumi: solo nel 2013 sareb­bero stati costruiti 26 mila immo­bili illegali.

Nasce da qui l’urgenza della cam­pa­gna “Abbatti l’Abuso” cui hanno già ade­rito il Con­si­glio nazio­nale dei geo­logi, quello degli archi­tetti, Libera, Avviso Pub­blico e Legam­biente, che ieri ha pre­sen­tato il dos­sier “Abu­si­vi­smo edi­li­zio: l’Italia frana, il Par­la­mento con­dona”, un atto d’accusa che chiama in causa il governo e foto­grafa un ter­ri­to­rio mor­ti­fi­cato dall’incuria e dalla sto­rica inca­pa­cità di ripri­sti­nare la lega­lità, soprat­tutto quando si tratta di sal­va­guar­dare il bene pubblico.

Si può ben dire che il feno­meno dell’abusivismo edi­li­zio sia l’unico set­tore del “made in Italy” che non cono­sce crisi — nono­stante la per­dita di quasi 700 mila posti di lavoro in pochi anni denun­ciata dall’associazione nazio­nale dei costrut­tori edili. Le beto­niere ille­gali nei can­tieri improv­vi­sati, infatti, con­ti­nuano indi­stur­bate ad impa­stare cemento al ritmo di almeno 26 mila immo­bili all’anno (tra amplia­menti e nuove costru­zioni). Più o meno il 13% del totale delle nuove costru­zioni: una nuova casa su dieci è fuori legge.

Non è una novità ma è il sin­tomo di una meta­stasi le cui radici si per­dono nei decenni: solo nell’ultimo, tra il 2003 e il 2011, sono state con­teg­giate circa 258 mila case abu­sive per un giro d’affari ille­gale che Legam­biente stima attorno ai 18,3 miliardi di euro. E’ più com­pli­cato azzar­dare altre stime andando ancora più indie­tro nel tempo, fino agli anni del cosid­detto boom, ma in que­sto caso basta un sem­plice sguardo nelle zone più fra­gili del pae­sag­gio, spesso nel sud, quasi sem­pre sul lito­rale, per ritro­vare la foto­gra­fia più nitida di un disa­stro ormai quasi impos­si­bile da can­cel­lare. Sono le più brutte car­to­line della Sici­lia e della Cam­pa­nia, rispet­ti­va­mente prima e seconda tra le regioni dove ha impe­rato l’abusivismo edi­li­zio anche nel 2013 (nell’isola sono stati regi­strati 476 ille­citi, 725 per­sone denun­ciate e 286 seque­stri, men­tre in Cam­pa­nia c’è stato il più alto numero di seque­stri). La Sar­de­gna nel 2013 si è peri­co­lo­sa­mente avvi­ci­nata alla vetta e si segnala per il mag­gior numero di per­sone denun­ciate (988). Puglia e Cala­bria si sono piaz­zate rispet­ti­va­mente quarta e quinta nella clas­si­fica dell’abuso edilizio.

“L’abusivismo edi­li­zio — spiega Ros­sella Muroni, diret­tore gene­rale di Legam­biente – rap­pre­senta un’autentica piaga nazio­nale, pro­spera indi­stur­bato da decenni e non cono­sce crisi, nutren­dosi di alibi e giu­sti­fi­ca­zioni. Ad essere occu­pate sono state le coste, i letti dei fiumi, i pen­dii delle mon­ta­gne, senza pen­sare al danno pae­sag­gi­stico ma nem­meno al peri­colo di rea­liz­zare case, ter­razze, alber­ghi, scuole e uffici in aree dove non si dovrebbe pian­tare nem­meno una tenda da campeggio”.

Il 2013, ammette l’associazione ambien­ta­li­sta, è stato anche un anno piut­to­sto ricco di demo­li­zioni anche impor­tanti. Gli “sche­le­tri” di Lido Ros­sello e di Scala dei Tur­chi sulla costa agri­gen­tina, per esem­pio, final­mente abbat­tuti dopo venti anni di bat­ta­glia legali. Però non basta e non basterà mai, se è vero che lo scorso anno “è stato denso di ten­ta­tivi per appro­vare in par­la­mento un nuovo con­dono masche­rato sotto le forme più diverse”. Almeno cin­que, sostiene Legam­biente, tutti bloc­cati tranne uno, il ddl Falanga che un mese fa è pas­sato al senato con 189 sì, 61 no e 7 astenuti.

Legam­biente rico­no­sce la neces­sità di affron­tare il pro­blema “seris­simo” del biso­gno abi­ta­tivo, ma non ci sta quando per fer­mare le ruspe e sal­vare le case fuo­ri­legge si invoca un pre­sunto abu­si­vi­smo di neces­sità. Se que­sto abu­si­vi­smo della “povera gente” esi­ste, ribatte Ros­sella Moroni, “i Comuni hanno l’obbligo di prov­ve­dere all’assegnazione in via prio­ri­ta­ria di un allog­gio sociale”. Altri­menti viene facile pen­sar male, “a meno che non si ammetta che die­tro a que­sto alibi si celano anche le ville di notai, farma­ci­sti, avvo­cati e imprenditori”.

Di fatto però l’azione di demo­li­zione e rico­stru­zione è quasi sco­no­sciuta in Ita­lia: su 1.354 comuni interpel­lati dalla ricerca Eco­si­stema Rischio 2013, solo 55 negli ultimi due anni hanno detto di aver avviato delo­ca­liz­za­zioni. E dire che abbat­tere un immo­bile abu­sivo non è una facoltà di que­sta o quella ammi­ni­stra­zione ma un obbligo di legge.
A que­sto pro­po­sito, Vit­to­rio Cogliati Dezza, pre­si­dente di Legam­biente, si augura che il par­la­mento approvi al più pre­sto la pro­po­sta di legge Rea­lacci sulle demo­li­zioni già pre­sen­tata sia alla camera che al senato: “Il par­la­mento darebbe un segno con­creto di vici­nanza a quanti, sin­daci, magi­strati, pre­fetti fanno ogni giorno con onore il pro­prio mestiere, spesso iso­lati, osteg­giati e minac­ciati”. Anche per­ché nel 2013 gli inter­venti di demo­li­zione cen­siti sono stati 12. Uno scan­dalo nello scandalo

Un articolo descrittivo dei progettoni ciclabili (di qualche utilità?) tanto di moda in Italia, e soprattutto un fulminante commento di Paolo Rumiz che ne svela il senso reale. La Repubblica, 20 febbraio 2013

Le autostrade delle biciclette, ecco l’ultimo sogno verde pedalare da Torino a Palermo
di Cristiana Salvagni

ROMA — Da Torino fino a Palermo e da Trieste giù dritti a Santa Maria di Leuca. Tutto in bicicletta. Sono due delle rotte ciclabili ipotizzate in una proposta di legge messa a punto da 80 parlamentari bipartisan per realizzare, in pochi anni, una rete nazionale da percorrere a pedalate, lunga fino a 20mila chilometri. Utile per eliminare l’uso dell’auto sui tragitti più brevi, e che passando per i capoluoghi e i parchi naturali strizzi anche l’occhio al turismo sostenibile, tanto amato dagli stranieri.

«Il 60 per cento degli spostamenti in macchina copre una distanza inferiore ai 5 chilometri, il 15 per cento addirittura inferiore a un chilometro: sono distanze facilmente percorribili in bicicletta, se si hanno a disposizione percorsi sicuri» spiega Antonio Decaro, deputato del Pd che per primo ha firmato la proposta. «Così abbiamo creato una legge nazionale sulla mobilità ciclistica che include, oltre alla rete, un piano per accorpare le regolamentazioni che regioni, province e comuni saranno obbligati a fare». Per esempio «in tutte le stazioni ferroviarie e dei bus extraurbani gli enti locali dovranno costruire una velostazione per lasciare e riparare le bici — continua Decaro — e i comuni dovranno inserire, in caso di concessione edilizia, la clausola di prevedere anche spazi di sosta per le bici, così come ora avviene per le auto».

Questa futuristica autostrada ecologica, povera di asfalto e ricca di argini fluviali e antiche strade romane, si comporrà di 18 grandi itinerari, già tracciati in una mappa curata dalla Federazione italiana amici della bicicletta. «Da Bolzano si potrà pedalare fino a Catanzaro, dalla foce del Po fino a Venezia e da Milano si scenderà fino a Bari» racconta Antonio Dalla Venezia, responsabile Fiab del cicloturismo e della mobilità extraurbana. «C’è la ciclopista del Sole, lunga tremila chilometri, ma anche la ciclovia dei Pellegrini, di duemila, che ricalca la viaFrancigena: parte da Chiasso e attraversa Siena, Roma e Benevento fino all’antica meta di Brindisi, dove i fedeli si imbarcavano per raggiungere Gerusalemme. Un itinerario del genere potrebbe diventare un cammino internazionale come quello di Santiago de Compostela » prosegue Dalla Venezia. «In un momento in cui il turismo tradizionale è in crisi potremmo puntare su quello sostenibile praticato soprattutto da tedeschi, olandesi, francesi, visto che nel nostro Paese la stagione è molto lunga». Un tipo di vacanza che ogni anno muove in Europa dieci milioni di viaggiatori.

Se dai 4mila chilometri di piste esistenti ai 20mila in progetto la pedalata non sembra breve, in realtà le strade per trasformare il sogno in realtà sono molteplici. «Si possono riadattare i 5mila chilometri di lineeferroviarie dismesse, in particolare sulla dorsale adriatica — insiste Claudio Pedroni della Fiab — mettere in sicurezza le vie a basso traffico e poi recuperare gli argini dei fiumi e le piste di servizio degli acquedotti. E ancora le consolari storiche come la vecchia Salaria, che sfiora i Monti Sibillini e Campo Imperatore, o la Flaminia, puntellata dalle parti di Fano di manufatti romani». A pagare dovrebbe essere il ministero dei Trasporti. «Chiediamo — chiarisce Decaro — che il piano della mobilità ciclistica sia inserito nel piano nazionale dei trasporti: questo significa che ogni volta che viene finanziata la mobilità ferroviaria o automobilistica una piccola percentuale delle risorse, pari al 2 per cento, deve essere destinata alle biciclette». E i tempi? «Contiamo di depositare la proposta di legge entro una decina di giorni. E, una volta approvata, speriamo che per realizzarla bastino quattro o cinque anni».

Ma all'Italia non servono percorsi ghetto
di Paolo Rumiz

FOSSE per me, renderei ciclabile tutta l’Italia, quindi ben venga un ribaltone della viabilità. Sono stanco di rischiare la vita ogni giorno che mi muovo su due ruote per fare la spesa o andare al lavoro. Quella che temo è l’Italia, la sua cultura, che è tutta contro il velocipede. L’italiano medio disprezza chi lo usa, lo odia come un intralcio. «Ma quando sparirete», mi hanno gridato un giorno.

Per questo temo il trucco. Temo che ci si butti su piste “ghettizzate” già superate in tutta Europa, utili solo a togliere la bici dalle scatole degli automobilisti. Ho anche paura che ci si faccia scudo del mezzo ecologico per buttare soldi in inutili mega-progetti, o peggio che si faccia quella scelta solo per fare, senza crederci, qualcosa di sinistra.

Ho alcune convinzioni di ferro. La vera rivoluzione non è creare riserve indiane per turisti, ma rendere possibile l’uso della bicicletta nel quotidiano. Sogno pendolari sul sellino, mamme che vanno in bici a prendere i figli all’asilo, manager con gli incartamenti nelle sacche del mezzo gommato. Non so se avete mai visto la sera, ad Amsterdam o Zurigo, il rientro dal lavoro. C’è una città intera che fruscia. Bici col rimorchioper bambini, bici a tre ruote per originali, tandem per le coppie. Giorni fa a Vienna ho visto un ministro senza scorta parcheggiare il mezzo nel cortile della cancelleria. Il Reichstag, a Berlino, ha un parcheggio per soli quaranta posti macchina. I parlamentari affluiscono col metrò, a piedi o su due ruote.

Ne saremo mai capaci? Il fatto è che in Germania chi progetta piste ciclabili va in bicicletta, in Italia no. È questo che la fa differenza. E così accade che a Nord già si sperimentino piste ciclabili ad alta velocità, competitive con l’automobile, per connettere centri e periferie. L’obiettivo, oltre le corsie preferenziali, è la condivisione della strada e la moderazione del traffico in alcune aree con velocità ridotta per i motorizzati. Quella sarebbe davvero Europa.

Secondo la soprintendente di Venezia Renata Codello, funzionaria Mibac, nella Repubblica delle cui istituzioni lei è esponente, la critica è vietata. Per punire chi si permette di criticarla usa i legali dei poteri forti che dominano sulla città. Pensare che la volevano Sindaco. Corriere della Sera 19 febbraio 2014

La soprintendente di Venezia Renata Codello ha chiesto 200.000 euro di danni a chi scrive, a Italia Nostra e alla Lipu per le critiche ai suoi silenzi sul raddoppio dell’hotel Santa Chiara (vetro, cemento e acciaio: sul Canal Grande) e sulle immense navi da crociera che sfilano davanti a San Marco.
Sulle faccende nostre non entriamo: deciderà il giudice. Sulla causa a Italia Nostra, però, a costo di infastidire la signora, è impossibile tacere. L’associazione è accusata infatti d’avere chiesto l’esonero della sovrintendente in una lettera resa pubblica, scrivono i difensori, «con l’effetto di gettare enorme discredito» sulla loro cliente. Diceva l’Ansa: «La sezione di Venezia di Italia Nostra ha scritto al ministro dei Beni culturali Massimo Bray per chiedere (...) una ispezione urgente, ritenendo la soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici Renata Codello “non all’altezza dell’incarico”». Seguiva una lista di denunce sulla «distruttiva lottizzazione di Ca’ Roman», lo «scandaloso progetto di “restauro” del Fontego dei Tedeschi», il raddoppio del Santa Chiara, «i progetti al Lido che hanno ridotto l’isola a spettro di se stessa»... Tutte cose che la funzionaria, secondo Italia Nostra, non aveva colpevolmente bloccato. Vero? Falso? Non importa: era un atto d’accusa «così violento e sproporzionato», scrivono i legali, «da risultare illecito quand’anche riportasse affermazioni veritiere». Sic. E dunque parte di «un’ingiustificata aggressione» basata soprattutto su un video di YouTube dove la soprintendente, nel 2008, parlava «incidentalmente» delle Grandi Navi in laguna con toni niente affatto preoccupati.

Tema: un’associazione che da mezzo secolo si batte per il patrimonio italiano può o non può dire la sua su una persona che non ritiene all’altezza di Venezia? Ma non è tutto. Per dar battaglia in tribunale la Codello ha scelto l’avv. Adriano Vanzetti di Milano. Cioè il legale del Consorzio Venezia Nuova nella causa (persa) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di aver criticato il costosissimo progetto del Mose, sempre contestato dagli ambientalisti. «Si trattava, da parte del Consorzio, di una iniziativa dall’evidente sapore intimidatorio», ricorda l’avvocato ed ex deputato Massimo Donadi. Al punto che l’allora sindaco Massimo Cacciari saltò su: «Voglio esprimere tutta la mia solidarietà all’ingegnere Di Tella. Fargli causa è stata una scelta insensata. Lui non ha mai offeso nessuno ma esposto con grande competenza le sue tesi alternative al Mose, che il Comune peraltro condivide».
Ora, fermo restando il diritto di ciascuno di scegliersi l’avvocato che vuole, è opportuno che chi è delegato a tutelare Venezia scelga contro Italia Nostra proprio un legale di fiducia di quel Consorzio tanto contestato dagli ambientalisti? Lecito è lecito, ovvio. Ma opportuno? Di più: sapete chi firmò nel 2012 il ricorso di «Terminal Passeggeri» contro il decreto («penalizzante») del ministro dell’Ambiente sui rifiuti dei traghetti e delle navi da crociera? L’avvocato Francesco Curato. Marito della soprintendente che rivendica il diritto di non esprimersi su quelle navi perché, alla romana, «nun je spetta». Tutto lecito, ovvio. Ma opportuno?

La città dei flussi e del movimento nel suo processo storico e critico divergente da quella degli spazi della società e dell'identità: considerazioni e riflessioni che coinvolgono sia le prospettive urbanistiche, che quelle di percezione collettiva. La Repubblica, 18 febbraio 2014

Nelle moderne forme urbane, in modo forse meno evidente, è assente quell’esperienza che Guy Debord definisce “non rappresentabile”, cioè quella mescolanza di popoli e di attività che possono far percepire l’ambiente come sconosciuto, uno spazio problematico che porta una persona a interrogarsi sul suo habitat. La città, al contrario, è diventata una mappa sempre più chiara di funzioni distinte in spazi segregati. Dal momento che queste divisioni, che sono burocratiche, non producono stimoli, la nostra epoca si configura come quella in cui la forma urbana non favorisce la vivacità dell’esperienza dei sensi.

In realtà, questa deprivazione sensoriale dovrebbe sorprenderci, visto che il corpo è diventato un’icona della cultura moderna altamente consapevole di sé. (...) Il corpo, oggi, è costantemente esplorato come chiave per comprendere se stessi: le persone parlano di accettazione del proprio corpo come passo per il raggiungimento della libertà personale. Eppure, il nostro modo di costruire non contribuisce alla cultura della consapevolezza corporea di sé.

Visto come stanno le cose, potremmo essere tentati di mettere sotto accusa quelli che appaiono solo come costruttori di strutture asessuate e di spazi pubblici neutri. Gli scrittori che pensano in termini di “corpo politico” dovrebbero piuttosto trattare l’esistenza di spazi morti in una cultura ossessionata dalla sensazione corporea come l’indizio di una più generale dimensione culturale; forse l’ossessione somatica non è esattamente quello che sembra. (...) Dare la colpa ai progettisti professionisti per aver realizzato spazi morti è un po’ come sparare sul messaggero che porta cattive notizie. In realtà, la cattiva notizia che ci arriva dai portavoce dell’architettura è un’altra: e cioè che un pubblico così avido di corpi fatti a pezzi, e di letture di argomento sessuale – in cui si descrivono atti fino al più piccolo dettaglio anatomico – possa sentirsi appagato da un corpo politico in cui impera la passività.

Uno dei modi possibili di definire la passività dei sensi nella vita di ogni giorno è “fastidio nel contatto”. A questo proposito, un paio di incisioni realizzate da William Hogarth nel 1751 possono risultare illuminanti per l’osservatore moderno.
In Beer Street e in Gin Lane, Hogarth cercava di rappresentare l’ordine e il disordine nella Londra del suo tempo. Beer Street mostra un gruppo di persone sedute insieme a bere boccali di birra in tutta tranquillità. Gli uomini si appoggiano a vicenda le braccia sulle spalle e in alcuni casi compiono lo stesso gesto anche con le donne. L’atto del toccare, in questa incisione, mostra una condizione del vivere nella società: rappresenta l’ordine sociale.

Gin Lane raffigura invece una scena in cui non c’è contatto fisico tra i corpi, dove ogni persona è catatonicamente ritirata in se stessa e ubriaca di gin, dove la gente non ha consapevolezza fisica né delle altre persone, né delle scale, né delle panchine o degli edifici presenti nella strada. Questa mancanza di connessione fisica trasmette l’idea hogarthiana di disordine nello spazio urbano. Se oggi uno sconosciuto con una bottiglia di birra in mano vi si avvicinasse per la strada e provasse a toccarvi l’avambraccio, probabilmente fareste un balzo indietro per la paura — e così del resto farei anche io. Il toccare è percepito più come una violazione che non come un atto generatore di ordine. Questa paura del contatto fisico trova espressioni diverse nell’ambiente costruito che ci circonda. Nel decidere il percorso delle strade, per esempio, gli urbanisti cercano di incanalare il traffico in modo da isolare la comunità residenziale dal quartiere degli affari, oppure, se il traffico attraversa zone residenziali, fanno in modo da separare le aree ricche da quelle povere o etnicamente diverse.

Nello sviluppo della comunità, i progettisti prevedranno la costruzione di scuole o di edifici residenziali nel cuore della comunità stessa, piuttosto che ai margini dove le persone possono entrare in contatto fisico con gli estranei. Sempre di più, le comunità recintate e sorvegliate 24 ore su 24 sono presentate agli ipotetici acquirenti come modello di vita ideale. Dal punto di vista urbanistico, la paura del contatto si traduce in paura del contatto fisico con gli estranei. È facile sentir parlare di quanta capacità di sopportazione sia necessaria per gestire il contatto con esseri umani “esterni”. Un modo più mirato per comprendere questa paura è quello di risalire alle sue origini, rintracciabili nell’evoluzione di un’altra esperienza corporea nello spazio: il movimento.

Un importante punto di partenza per questa storia congiunta del contatto e del movimento è stata l’apparizione, nel 1628, del De motu cordis del fisico William Harvey, un lavoro che analizza il cuore presentandolo come una gigantesca macchina che pompa sangue in tutto il corpo. Secondo Harvey, il meccanismo della circolazione è ciò che permette al corpo di crescere e di rimanere sano fino alle sue estremità inferiori – una visione che ha sfidato sia le vecchie credenze mediche sul calore innato del sangue che quelle religiose sul cuore come sede dell’anima. Questa nuova comprensione del corpo si è rivelata rivoluzionaria, modificando non solo le pratiche dei medici ma anche quelle di altre figure professionali.

Prima fra queste, la progettazione urbanistica. Gli urbanisti hanno infatti adottato le scoperte di Harvey sulle virtù del movimento, ritenendo che la circolazione desse vita al corpo politico urbano così come al corpo umano. Tali convinzioni si sono quindi espresse nei piani delle villes circulatoires del XVIII secolo, come Karlsruhe in Germania e, in particolare, nel piano L’Enfant per Washington DC, elaborato da Ellicott. Per descrivere le strade, i progettisti parlavano di vene e arterie. La scoperta di Harvey che la circolazione del sangue unifica il corpo in un sistema totale è stata adattata a una visione di coerenza sistematica della città: l’insediamento più lontano lungo il perimetro deve essere collegato al centro città attraverso ciò che l’urbanista Manuel Castells chiama “lo spazio di flussi”. (...) Queste credenze sul movimento sistematico nell’ambiente costruito hanno determinato una rottura significativa con le vecchie credenze barocche sulle virtù del movimento. Quando Papa Sisto V pianifica la Roma barocca, immagina il movimento lungo le strade della città come se si trattasse di percorsi verso destinazioni precise: le strade diventano vie di pellegrinaggio in direzione dei sette luoghi sacri della Roma cristiana.

Il Piano L’Enfant per Washington, al contrario, non è pensato solo in termini di pellegrinaggio verso i luoghi del potere. Non tutte le strade principali sfociano infatti in edifici monumentali. Si tratta invece di una visione più democratica, in cui le persone sono libere di muoversi nell’intera città e non sono costrette a dirigersi ineluttabilmente verso i luoghi e i santuari del potere. È stato durante l’esplosione urbanistica del XIX secolo che i progettisti hanno elaborato la discontinuità tra il movimento e lo spazio e hanno continuato a usare il vecchio immaginario harveyiano delle strade come arterie e vene. A poco a poco, però, il movimento ha assunto una forma più direzionale: l’allontanamento dal centro è diventato più importante del movimento verso il “cuore” della città. La direzionalità è apparsa, ad esempio, nel grande piano stradale del barone Haussmann, elaborato tra il 1850 e il 1860 per la città di Parigi. Quando Robert Moses concentrava la sua pianificazione stradale sul modo in cui lasciarsi alle spalle New York City con tutti i suoi problemi, faceva leva sull’impulso tipico della grande espansione urbanistica avvenuta all’epoca del grande capitalismo: quello di fuggire dai centri di diversità della città, densi e incontrollati.

Velocità significava che la gente “perdeva il contatto” con il luogo: questa non è solo una metafora. Perché in effetti le tecnologie della velocità hanno de-sensibilizzato e placato il corpo in movimento. Alla guida di un’automobile, il piede compie micro-movimenti, gli occhi si spostano solo a tratti dalla strada che si ha davanti allo specchietto retrovisore. La stessa velocità diminuisce la stimolazione sensoriale dei luoghi che si vedono passare. Guidare è come guardare la televisione, perché le rappresentazioni scorrono rapide davanti a un corpo immobile, o in una posizione fissa per ore e ore come davanti allo schermo del computer. In questa condizione, il contatto con gli altri, in particolare il contatto con l’ignoto, il non programmato, si affievolisce, e viene sostituito dalla mera visualizzazione dello schermo. Il moderno corpo politico è segnato dalla perdita delle capacità sensoriali causata dalla circolazione sempre più rapida di beni, di servizi e di informazioni.

Traduzione di Francesca Anzelmo © Traduzione italiana © Lettera Internazionale



Mentre auspichiamo che il piano paesaggistico possa entrare in vigore al più presto, sfuggendo alle forche caudine della cattiva politica, per dare una risposta certa e concreta al consumo di suolo, portiamo all’attenzione la contraddizione di una Regione che favorisce da decenni una devastazione senza precedenti in un Parco Regionale, da due anni promosso GeoParco Unesco, cioè il Parco Regionale delle Alpi Apuane. Il Parco è nato con le cave al suo interno, è nato ostaggio della politica e di pochi industriali.

Qui in un’area di grande bellezza, all’interno di una vasta ZPS e di ben 10 SIC continuano a lavorare indisturbate, in totale violazione di tutti i commi dell’art. 142 del Codice, delle leggi europee di tutela della acque superficiali e carsiche, del principio di precauzione, una cinquantina di cave: miniere a cielo aperto e cave in galleria.

Cave adiacenti a geositi, cave sopra i 1.200 metri, all’interno di boschi, di circhi glaciali, cave di cresta, cave in prossimità di ingressi carsici, inghiottitoi e abissi tra i profondi d’Italia (ad esempio il Roversi: m.1.350 m di dislivello), o tra i più estesi d’Italia (l’Antro del Corchia : 54 km di gallerie sotterranee), cave in diretta corrispondenza con le sorgenti con il risultato che, dopo le piogge, i fiumi invasi dalla marmettola sono bianchi come il latte.
Estrazione significa devastazione, dal momento che una leggeregione consente che solo il 25% del marmo estratto sia costituito da blocchi; il 75% sono perciò informi, scaglie, che vengono utilizzati nelle industrie farmaceutiche, alimentari, nella colla per piastrelle, nelle creme, nei dentifrici: l’alta percentuale di carbonato di calcio le rende un ottimo sbiancante e anche lo schermante ideale per materiale radioattivo (e qui si potrebbe aprire una parentesi sulle navi dei veleni partite dal porto di Marina di Carrara e autoaffondate davanti alle coste calabresi, ma attendiamo il materiale de-secretate recentemente dall’on. Boldrini). Dalla pesa pubblica della sola città di Carrara sono passati tra 2001 e 2010 50 milioni di tonnellate di marmo, un datocertamente inferiore alla realtà, che offre la misura della immanedistruzione di queste montagne, teoricamente tutelate per legge, essendo in gran parte all’interno di un Parco.
Non siamo di fronte soltanto a violazioni della normativa italiana ed europea di tutela dell’ambiente, del paesaggio, del principio di precauzione, ma delle più elementari regole di pianificazione, nel momento in cui una normativa regionale consente di fare approvare in tempi diversi un piano del Parco (in cui non vi è menzione di cave!!!) ed un piano delle attività estrattive (già formulato quest’ultimo nel 2002, ma non varato fino ad oggi per l’ostilità dei concessionari che hanno trovato una sponda nei sindaci).
A gennaio sono scadute le osservazioni alla VAS limitatamente a quel piano del Parco silente sulle cave, che era stato controdedottonel 2012: un’assurdità la VAS inserita a fine percorso; così come privo di sostanza e di logica pianificatoria appare un piano del Parco che ignori la presenza delle 50 cave attive ed altrettanto assurdo si profila oggi l’avvio del piano per le attività estrattive.
In questo contesto si inserisce il Piano Paesaggistico approvatorecentemente dalla Giunta , che relativamente alle cave nel Parcoafferma di voler promuovere la “progressiva riduzione delle attività estrattive a favore di funzioni coerenti con i valori e le potenzialità del sistema territoriale interessato” e “il recupero paesaggistico delle cave dismesse” , “escludendo l’apertura di nuovi siti estrattivi e ampliamenti di quelli esistenti nelle aree ove le attività di coltivazione e quelle ad esse collegate possono compromettere la conservazione e la percezione dei siti”. Nelle norme di salvaguardia , che vietano ampliamenti nelle aree contigue intercluse del Parco, si specifica anche checontinueranno le attività autorizzate svolte in conformità ai piani di coltivazione ed entro i termini indicati nei provvedimenti autorizzativi, conformi alla legge regionale 78/98: dunque continueremo a vedere vette tagliate, montagne demolite sopra i 1.200, sorgenti imbiancate fino alla scadenza delle concessioni, edassisteremo impotenti alla distruzione del paesaggio in attesa della nuova legge regionale sulle cave che contemplerà –si spera-un diverso rapporto marmo in blocchi /marmo in scaglie.
Ebbene, di fronte ad un piano paesaggistico che prevede in un futuro indeterminato la chiusura di cave che per la loro natura sono illegittime in un Parco, di cave che inquinano le acque di superficie e le cavità carsiche, di cave che violano l’art. 142 del Codice in tutti i suoi commi, fuori luogo e impropria, per la carica che riveste, appare l’esternazione dell’attuale presidente del Parco, pubblicata nei quotidiani locali, nel Corriere fiorentino…. unPresidente del Parco, scelto dalla politica, che , sotto il pretesto di posti di lavoro, ignora la devastazione ambientale per difendere la lobby dei concessionari.
Certamente l’economia degli abitanti del Parco e delle aree contigue non può trovare beneficio nell’attività distruttiva delle cave: pochi sono gli addetti, sostituiti dalle macchine, e la filiera corta è scomparsa perché i concessionari trovano più remunerativo lavorare altrove i marmi. Sarebbe doveroso che la Regione cominciasse a promuovere il territorio, applicando e facendo applicare la disattesa sentenza della Corte Costituzionale (488/1995): le concessioni a Massa e a Carrara devono diventaretemporanee ed onerose, le rendite parassitarie devono sparire, e “i canoni annui di beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni” devono essere determinati secondo un valore “non inferiore a quello di mercato”. Non lo dicono gli ambientalisti, lo dice la legge, lo impone la sentenza della Corte Costituzionale ignorata fino ad oggi dalle amministrazioni locali, con il consenso di una inattiva Regione.
Oggi a Massa le cave si lasciano in eredità, si vendono , si subappaltano; il Comune riscuote un canone annuo sulla base del reddito agrario e preleva da ogni tonnellata di marmo in blocchi (indipendentemente dalla qualità del marmo, il cui valore oscillada 300 a 4.000 euro a tonnellata) euro 8,30.
Il futuro di questa zona può e deve trovare un volano in un piano paesaggistico che riconosca al Parco l’essenza di area protetta ein una legge sulle cave che restituisca il giusto valore ad una risorsa non rinnovabile, e che renda applicabile , dopo venti anni, la sentenza della Corte Costituzionale.
L'autrice è Consigliere nazionale di Italia Nostra

Per combattere il consumo di suolo è indispensabile eliminare gli equivoci sull’edificabilità e ribadire legislativamente, come suggerì la Corte costituzionale, che lo jus aedificandi non è tra i contenuti della proprietà privata dei suoli, come invece vorrebbe la proposta di legge Realacci

1. – Il consumo di suolo e le lacune legislative.

La cementificazione, l’impermeabilizzazione e l’edificazione hanno stravolto il nostro territorio, esponendolo a frane, smottamenti e distruzioni di ogni tipo. Di fronte ad un simile disastro da più parti si sono levate voci allarmate e sono piovute in Parlamento numerose proposte di legge, che promettono di “limitare” il consumo dei suoli agricoli, ammettendolo soltanto se non sia possibile trovare soluzioni all’interno di aree urbanizzate.

Si parla, ovviamente, di “suolo”, cioè di quella parte della superficie terrestre che è a diretto contatto con l’atmosfera e che, attraverso l’azione combinata di acqua, minerali e batteri, condiziona la vita dell’intero pianeta. Sennonché, dal punto di vista giuridico, non è possibile parlare di “suolo” senza parlare anche di “sottosuolo” e di “soprassuolo”. Infatti, queste tre entità sono tra loro strettamente connesse e costituiscono nel loro insieme una entità complessa, molto spesso presa in considerazione dal diritto, che si chiama “territorio”. Si vuol dire, in altri termini, che “suolo” e “territorio” sono tra loro entità inscindibili, per cui un discorso sul suolo non può prescindere da un discorso sul territorio.

E, a questo proposito, non si può fare a meno di ricordare che il “territorio” è oggi attaccato da tre temibilissimi nemici: la crisi finanziaria, che produce la sua “svendita”, e quindi, anche la svendita dei suoli; la “privatizzazione”, che trasforma la proprietà collettiva del territorio e dei suoli, in proprietà privata, sottraendo risorse a tutti, a vantaggio di pochi; ed infine, la “cementificazione e impermeabilizzazione dei suoli” con gli evidentissimi e gravissimi danni che produce.

Comunque, concentrando l’attenzione sulla tutela di quella parte del territorio definita “suolo”, è da avvertire che effettivamente il discorso deve concentrarsi sulle “cementificazioni e sulle impermeabilizzazioni”, che sono la causa prima del suo “consumo”.

Al riguardo, si deve, tuttavia, rilevare che le proposte che sono state depositate in Parlamento, ed in primis quella dell’on.le Realacci, non tengono presente un dato di fondamentale importanza: il fatto cioè che ormai il costruito prevale sul non costruito e sono stati ampiamente superati, e di molto, tutti i limiti per assicurare la “sostenibilità” ambientale di nuove costruzioni.[1]

Ne consegue che oggi non è più possibile interpretare il problema in termini di “limitazione”, ma è diventato ineluttabile parlare della cosiddetta “opzione zero nel consumo di suolo”. Lo impone, a tacer d’altro, il fatto che è stato turbato in modo gravissimo l’equilibrio idrogeologico del nostro Paese, sicché è assurdo continuare a ragionare come se fossimo agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso, e non oggi, quando si è già distrutto inesorabilmente tutto il territorio. Si è costruito sui terreni agricoli, sulle aree golenali, sugli argini dei fiumi, sulle pendici dei vulcani, sulle spiagge, ecc. E, di fronte a tale immane disastro non è più immaginabile parlare di consumi ulteriori di terreni agricoli, forestali, o addirittura di orti urbani, ricorrendo al subdolo concetto di “compensazione ambientale”, che non serve ad altro se non a spostare il consumo di suolo da un luogo ad un altro. In parole povere un “artificio” per mettere a tacere, ingannandole, le coscienze dei più attenti ai problemi ambientali. Ma v’è ancora di più. Vi sono proposte, come quella già indicata, che parlano della elargizione, da parte dell’amministrazione pubblica, del ius aedificandi, su terreni agricoli, quasi fosse moneta sonante, per coloro che si impegnano a risanare zone urbanizzate. Siamo arrivati ad uno stato confusionario generale.

Occorre, dunque, rimeditare ab imis il problema e scoprire quali siano, sia pur limitando il discorso all’aspetto puramente giuridico, le cause di questo immane disastro.

Ponendosi in questa prospettiva, salta immediatamente agli occhi che causa principale del disastro è il convincimento, diffusissimo nell’immaginario collettivo, secondo il quale il “terreno” serve soprattutto per edificarvi sopra. In altri termini, nel “contenuto” del diritto di proprietà privata sarebbe incluso il ius aedificandi, il cui esercizio ha bisogno soltanto di un “permesso” dell’autorità comunale, quello che una volta si chiamava “licenza”, ed oggi “permesso di costruire”, e che solo per breve tempo, grazie alla legge n. 10 del 1977, fu chiamata “concessione edilizia”.

In realtà questo presunto “diritto di costruire”, inteso come insito nel diritto di proprietà fondiaria, non è previsto da nessuna norma del codice civile. Un tentativo per dare un riconoscimento legislativo al ius aedificandi fu fatto dall’On.le Maurizio Lupi, il quale, a nome del partito “Forza Italia”, presentò nel 2003 una proposta di riforma del governo del territorio, che, benché approvata dal Senato, fu poi bocciata dalla Camera dei deputati[2].

Né è possibile attribuire il valore di una disposizione di legge alla sentenza della Corte costituzionale n. 5 del 1980, che ha concepito il diritto ad edificare come “insito” nel diritto di proprietà, facendo sì che il DPR 6 giugno 2001, n. 380, introducesse poi la dizione “permesso di costruire”. Infatti, la Corte costituzionale ha il potere di “annullare” le leggi e non quello di “sostituirsi” al legislatore. E’ pertanto estremamente importante che le recenti proposte di legge sul consumo dei suoli facciano chiarezza su questo punto, ponendo in rilievo che il ius aedificandi non rientra tra i contenuti del diritto di proprietà privata.

Ed è da sottolineare che i Comuni di rado hanno agito nell’interesse effettivo delle collettività amministrate, ed a ciò sono stati indotti da riprovevoli leggi statali, che hanno favorito gli interessi dei singoli, spingendo i Comuni a concedere il massimo possibile di “permessi di costruire”. Si tratta, innanzitutto, come puntualmente nota Salvatore Settis[3], del Testo unico per l’edilizia, approvato con DPR 6 giugno 2001, n. 380, il quale, all’art. 136, comma 2, lett. c), ha abrogato il sano principio della legge Bucalossi (art. 12, della legge n. 10 del 1977), secondo cui “i proventi da oneri di urbanizzazione dovevano essere obbligatoriamente utilizzati dai Comuni per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, il risanamento dei complessi edilizi compresi nei centri storici, le spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale”. Di conseguenza, a seguito di tale disposizione legislativa, i Comuni si sono sentiti liberi di impiegare i cosiddetti oneri di urbanizzazione anche per le spese correnti e, essendo queste ultime sempre crescenti, hanno cominciato ad ”allentare la guardia sulle autorizzazioni a costruire, o peggio a stimolare l’invasione del territorio modificando piani regolatori, concedendo eccezioni e deroghe, chiudendo un occhio e più spesso entrambi” , ed il fatto peggiore è stato che, essendo diventati gli oneri di urbanizzazione un introito del quale si aveva bisogno anno per anno, i Comuni hanno “accresciuto il numero delle costruzioni, allentando i controlli, cannibalizzando il territorio”[4].

Né è da dimenticare l’effetto perverso provocato in proposito dall’art. 3, comma 3, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148, secondo il quale “sono soppresse le disposizioni normative statali incompatibili con il principio per il quale l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge ”. Si tratta di una legge palesemente incostituzionale, poiché fonda il suo disposto solo sulle prime cinque parole dell’art. 41 della Costituzione, dimenticando che questo articolo, dopo aver affermato che « l’iniziativa economica privata è libera », prosegue dicendo che essa: «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana ». Dunque una disposizione di legge assurda, che, tuttavia, ha dato maggior forza agli speculatori edilizi nel chiedere alle amministrazioni comunali di far presto a concedere loro i richiesti permessi di costruire.

2. – Il capovolgimento di una diffusa ed erronea convinzione.

E’ da porre in evidenza, a questo punto, che costruire, come sopra si accennava, significa “modificare il territorio” e che, di conseguenza, questo può esser fatto soltanto da chi è il “proprietario” del “territorio” medesimo, considerato, peraltro, nella sua interezza, tenendo conto, cioè, anche del paesaggio, dei beni artistici e storici e degli altri beni costruiti dall’uomo. Si deve cioè affermare con forza che il cosiddetto ius aedificandi appartiene al popolo, che è proprietario del territorio a titolo originario di sovranità e non al singolo cittadino proprietario di un appezzamento di terreno. E si deve subito avvertire che l’interesse del popolo deve esser fatto valore dal Comune, come ente esponenziale dalla comunità comunale, ma anche dai singoli cittadini, come vedremo in seguito, con l’esperimento dell’azione popolare.

Si oppone a questa indiscutibile verità, come poco sopra si osservava, la cultura borghese e quella ben più invasiva del neoliberismo economico, le quali hanno diffuso l’errato convincimento “dell’assolutezza e della illimitatezza” della proprietà privata, che perciò avrebbe come contenuto anche il diritto di costruire, nonché una prevalenza della “proprietà privata” del singolo, sulla “proprietà collettiva” di tutti sul territorio, con la conseguenza che la “tutela dell’interesse generale” viene vista come una “limitazione” della proprietà privata. E tutto questo a prescindere dalle chiarissime disposizioni della Costituzione, che vengono del tutto ignorate, come se fosse possibile leggere le disposizioni del codice civile indipendentemente dalle norme costituzionali.

E’ indispensabile “capovolgere” questa prospettiva, mettendo a confronto i due citati istituti, confronto che porrà in evidenza la “precedenza storica” della proprietà collettiva del territorio sulla proprietà privata, ed una “prevalenza giuridica” del primo diritto sul secondo.

3. – La precedenza storica della proprietà collettiva su quella privata.

Il punto di partenza di tutto il discorso è che il territorio, alle origini, è sempre appartenuto al popolo a titolo di sovranità. E’ sufficiente pensare come nasce la “Comunità politica”, per rendersene conto. Tra i vari esempi, il più pertinente sembra quello relativo alla nascita della Civitas Quiritium. Quando Romolo, o chi per lui, tracciò il solco dell’Urbs (che non ancora si chiamava Roma, poiché questo nome, dall’etrusco rumen, fu dato per l’appunto dai re etruschi), distinse il terreno su cui doveva nascere la Città dai terreni circostanti e dette luogo a tre fenomeni giuridici concomitanti: la nascita del Populus (nel senso che l’aggregato umano che si stanziava nella Città, diveniva una unità giuridica complessa, nella quale si distingueva il “civis”, il singolo cittadino, come “parte costitutiva” del tutto, ed il Populus, cioè l’intera cittadinanza); la nascita del “territorium” (da terrae torus, letto di terra), sul quale si stanziava il popolo, e infine, la “sovranità”, il potere sommo, riconosciuto al popolo stesso, di porre confini, non solo ai terreni, ma anche ai singoli cittadini, in modo che le loro libertà venissero limitate al fine di assicurare la convivenza civile.

In sostanza vennero in evidenza due concetti chiave: quello di “confine” e quello “della parte e del tutto”, nel senso che la “confinazione” dei terreni e delle libertà individuali fu essenziale per la nascita della Comunità politica, mentre lo stesso concetto di popolo, non si risolse nella concezione individualistica di una sola entità giuridica, ma implicò la rilevanza giuridica, sia del tutto, sia dei singoli cittadini, in quanto parti strutturali dell’insieme costituito dal popolo. Insomma una concezione “collettivistica” e non, come si è a lungo ritenuto, una concezione “individualistica”[5].

In sostanza, quello che è necessario porre in evidenza è che la nascita di una Comunità politica implica che, originariamente, il territorio appartiene al popolo a titolo di sovranità, nel senso che tra i poteri sovrani del popolo rientra anche la “proprietà collettiva” del territorio.

Lo dimostra a tacer d’altro, che per “cedere” a singoli soggetti parti del territorio è stata sempre ritenuta necessaria un atto solenne la divisio, preceduta da una manifestazione di volontà del titolare della sovranità. La prima “divisio” fu operata, secondo le testimonianze letterarie, dallo stesso Romolo, ma il Niebhur ha ritenuto che si trattasse di Numa Pompilio, il quale, evidentemente dopo una deliberazione dei Patres familiarum, divise il territorio dell’Urbe tra una parte assegnata ai singoli Patres, due iugeri a testa, cioè mezzo ettaro (quanto è appena sufficiente per soddisfare le elementari necessità familiari), ed una parte riservata all’uso comune della cittadinanza, il cosiddetto “ager compascuus”. Da notare che non si trattò affatto della cessione in proprietà privata, poiché sulla parte divisa i singoli assegnatari ebbero un potere indefinito, detto “mancipium”, e non un diritto reale come il diritto di proprietà privata. Ed è ancora da notare che anche le successive assegnazioni ai veterani delle terre conquistate avvenne mediante la solenne cerimonia, di origine etrusca, detta “divisio et adsignatio agrorum”, sempre preceduta da una lex centuraiata o da un plebiscitum, cioè da una manifestazione di volontà del popolo sovrano. D’altro canto, anche in questa seconda ipotesi, trattandosi di res nec mancipi, veniva trasferita soltanto la possessio (da potis sedeo, siedo da signore), cioè una res facti e non un vero e proprio diritto. Per parlare di un vero e proprio diritto reale, corrispondente più o meno alla nostra proprietà privata, fu necessario attendere l’inizio del I secolo a. C., quando, dopo una tormentata evoluzione giurisprudenziale, si cominciò a parlare di ”dominium ex iure Quiritium”, che comunque, fu oggetto di controllo pubblico, e comportò soltanto il ius utendi et fruendi, ma non il ius abutendi, del quale si parlò solo durante il medio evo.

Nel medio evo, peraltro, lo schema rimase lo stesso. Infatti, se si pensa che la sovranità, dal popolo era passata all’Imperatore, si capisce pienamente perché si parlò di un dominium eminens dell’Imperatore e di un dominium utile di chi lavorava la terra. Il territorio, insomma, apparteneva a chi era titolare della sovranità. L’appartenenza del territorio, in altri termini, rientrava nella somma dei poteri sovrani e questa appartenenza continuava ad esistere (Carl Schmitt parla di “superproprietà”) anche se in concreto la proprietà risultava assegnata ad un singolo cittadino.

La rottura dello schema romanistico si è avuta con la restaurazione napoleonica, la quale è stata realizzata in base al principio “Il potere al Governo, la proprietà ai privati”. Si è staccato così il diritto dall’economia e si sono poste le premesse per l’affermarsi delle teorie neoliberiste, che si disinteressano della persona umana e mirano soltanto al “massimo profitto”, dando origine al dannosissimo fenomeno della “finanziarizzazione dei mercati”, alla “svendita del territorio” ed alle perniciose “privatizzazioni”, che tolgono a tutti per dare a pochi.

4. – La prevalenza giuridica della proprietà collettiva su quella privata.

La salvezza sta nell’applicazione della vigente Costituzione repubblicana, la quale ha accolto in pieno l’insegnamento dei giureconsulti romani. La Costituzione, infatti, non solo ha sostituito lo Stato persona di stampo borghese con lo Stato comunità, qual era la Respublica Romanorum, ma ha riportato in primo piano la “proprietà collettiva” del territorio, ponendo in luce che la “proprietà privata” è semplicemente “ceduta” ai singoli con un atto di volontà del popolo sovrano, e cioè mediante legge. Alla “precedenza storica” della proprietà collettiva su quella privata si accompagna oggi la “prevalenza giuridica” della prima sulla seconda.

Lo chiarisce l’art. 42 della Costituzione, secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta dalla legge….allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, sancendo cioè che tale diritto è giuridicamente tutelato soltanto se ed in quanto “assicura” “lo scopo” della “funzione sociale”, rende cioè tutti partecipi dei benefici che provengono dalle attività produttive.

Il principio della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato è ribadito, inoltre, dall’art. 41 della Costituzione, riguardante “l’iniziativa economica privata” e cioè l’attività negoziale che il proprietario pone in essere per disporre della proprietà privata, e cioè per acquisire o vendere la proprietà dei beni economici.

Si legge in detto articolo che “L’iniziativa economica privata è libera”. “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Come si nota, alla “funzione sociale” dell’art. 42 Cost., fa riscontro “l’utilità sociale”, di cui al precedente art. 41 Cost.

Ma non è tutto. Questa “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, va coniugata con la “distinzione” tra “proprietà pubblica” e “proprietà privata”, di cui al primo alinea del citato art. 42 Cost., secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata”.

In sostanza, dal combinato disposto delle citate disposizioni emerge con estrema chiarezza che la nostra Costituzione, non prevede affatto un solo tipo di proprietà, ma due tipi: quella pubblica e quella privata, sancendo, nello stesso tempo, la “prevalenza della prima sulla seconda”. Insomma, i “limiti” alla proprietà di cui pure parla l’art. 42 della Costituzione, affermando che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti”, riguardano soltanto la proprietà privata, come è espressamente detto, e non la proprietà pubblica, la quale, in questo contesto, si identifica con la “proprietà collettiva demaniale”, che spetta al popolo a titolo di sovranità, come da tempo affermato da Massimo Severo Giannini[6].

Questa distinzione, inoltre, è stata chiarita da tempo dal Regolamento di contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 4 maggio 1885, n. 3074, il quale affermava testualmente: “I beni dello Stato si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a titolo di sovranità, e formano il patrimonio quelli che allo Stato appartengono a titolo di proprietà privata” [7].

Insomma, la “dinamica giuridica” che segue la Costituzione ripete puntualmente la stessa dinamica che si è svolta storicamente. All’inizio, l’intero territorio appartiene al popolo a titolo di “sovranità”. In seguito, parte del territorio viene, con “legge”, “riservato” all’uso diretto della popolazione, restando “proprietà collettiva demaniale” come res extra commercium, e cioè come beni “inalienabili, inusucapibili ed in espropriabili”, e parte viene “ceduta” a privati, diventando oggetto di “proprietà privata”.

E questa parte “ceduta” in proprietà privata, sia ben chiaro, deve comunque perseguire una “funzione sociale”, poiché ciò che conta, prima della tutela individuale, è l’”utilità sociale”, di cui parla l’art. 41 della Costituzione.

Insomma, sia la storia degli istituti giuridici, sia, direttamente, la nostra Costituzione confermano quanto sopra si diceva: si deve parlare di un “capovolgimento” delle tradizionali concezioni borghesi, rinverdite e rafforzate dalle teorie neocapitalistiche, e ritenere che non è il pubblico che “limita” il privato del suo uso del bene comune, ma è il privato che sottrae alla collettività la possibilità di utilizzarlo per il bene comune.

5. – Il ius aedificandi.

Se si tiene presente, come sopra si è tentato di dimostrare, che la “proprietà privata” deriva da una “cessione” di parti del territorio a singoli individui da parte del popolo, il quale, non solo ha la “proprietà collettiva” dell’intero territorio, ma conserva, come ricorda Carl Schmitt,[8] anche una “superproprietà” o, se si preferisce un dominium eminens sulle parti “cedute”, diventa davvero inconcepibile ritenere che, oltre al diritto di appartenenza di un appezzamento di terreno, sia stato “ceduto” anche il diritto di “modificare il territorio” nella sua interezza, potere che è ovviamente rimasto nei “poteri sovrani del popolo”.

Quando ci lamentiamo degli scempi paesaggistici, della cementificazione, delle distruzioni della natura non possiamo limitarci alla “denuncia”: è un nostro “diritto di proprietà collettiva” che è stato leso, e questo diritto è ben più grande e più tutelato del diritto di proprietà privata. E, comunque, come si è detto, il ius aedificandi non ha nulla a che vedere con il diritto di proprietà privata. Non c’è nessuna disposizione del codice civile che lo preveda, mentre, come è noto, lo stesso codice ha cura di precisare che questo diritto deve fare i conti con i “limiti posti dall’ordinamento giuridico”. Nel caso poi della costituzione a favore di un terzo da parte del proprietario privato del diritto di costruire e mantenere su suolo proprio una costruzione (art. 952 del codice civile), è evidente che tale costituzione di un diritto reale limitato è condizionata al riconoscimento da parte dell’Autorità competente, di quel particolare terreno come rientrante in una zona urbanizzata. Si vuol dire che è “l’urbanizzazione” del territorio, è in ultima analisi la “cessione” ai singoli di questo potere rientrante nella proprietà collettiva del territorio stesso, a far nascere in capo ai singoli proprietari di terreni il diritto di costruire. Fuori di questa “cessione”, il proprietario privato non può assolutamente vantare un ius aedificandi come insito nel suo diritto di proprietà.

Ed è per questo che è corretto parlare di “concessione” del diritto di costruire, come prevedeva la legge Bucalosi, n. 10 del 1977, ed è fortemente in contrasto con tutti i principi del nostro ordinamento parlare di “licenza di costruzione”, com’era una volta, o di “permesso di costruire”, com’è oggi.

Come si è sopra chiarito, tutto ciò dipende dal fatto che la cultura borghese e neoliberista si è tenacemente opposta all’idea stessa della “proprietà collettiva del territorio”, che è invece viva e presente nel nostro ordinamento costituzionale e contiene anche questo supposto “diritto di costruire”, che, per sua natura non può appartenere a singoli soggetti, ma a tutti i consociati.

6. – La dinamica costituzionale per lo sviluppo economico. La partecipazione dei cittadini.

Il problema dell’attuazione del ius aedificandi, rende necessario qualche cenno sulle linee direttrici che la nostra Costituzione pone a proposito dello sviluppo economico.

Come è noto, la nostra Costituzione parte dall’idea di comune esperienza secondo cui la ricchezza proviene da “due fattori”: “le risorse della terra” ed “il lavoro dell’uomo”. Infatti “due sono gli obiettivi” che la stessa si propone di raggiungere: a) “tutelare il territorio”; b) “proteggere il lavoro”. Ed è molto significativo, in proposito, il fatto che il Titolo III, Parte prima, della Costituzione, dedicato ai “Rapporti economici”, è in pratica dedicato, sia alla tutela del territorio, sia alla tutela del lavoro.

In particolare parlano del territorio l’art. 42, primo comma, secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti e a privati”, nonché l’art. 44, primo alinea, secondo il quale occorre “conseguire il razionale sfruttamento del suolo”. Parlano invece di lavoro, l’art. 35, secondo il quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, l’art. 36, secondo il quale “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente a assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, nonché l’art. 38, importante per l’affermazione di principio secondo cui tutti devono lavorare, ed è esentato da questo dovere soltanto “il cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, per il quale è previsto il “diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale”.

Il quadro costituzionale, relativo ai due essenziali fattori della produzione, tuttavia, non si ferma qui. Basti pensare, quanto alla difesa del territorio, al riferimento dell’art. 9 alla tutela del paesaggio e dei beni artistici e storici[9], nonché alla disposizione dell’art. 52 Cost., secondo il quale “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. E, per quanto riguarda il fattore lavoro[10], al primo alinea dell’art. 1 della Costituzione, secondo il quale “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, nonché all’art. 4, primo comma Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.

Tutela del territorio, e cioè delle risorse della terra[11], e tutela del lavoro, e cioè della piena occupazione, sono, dunque, obiettivi fondamentali della nostra Carta costituzionale.

Come perseguire questi due obiettivi è specificato nel citato Titolo III, della Parte prima, Cost.

In questo titolo si prevede, innanzitutto, all’art. 43 Cost., un intervento pubblico nell’economia principalmente in relazione alle “imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, precisandosi che “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese categorie di imprese”.

Insomma, il principio è che le imprese strategiche debbono essere in mano pubblica e che non è accettabile rimettere alla speculazione privata la produzione di beni e servizi primari per la vita del Paese. Questo punto essenziale è stato travolto dalle numerose e dannosissime “privatizzazioni”, che hanno privato l’Italia, in breve periodo, del 50 per cento delle imprese, sospingendola verso una irrimediabile miseria, propedeutica ad un finale ed irreparabile disastro economico e sociale.

Altro punto strategico proprio della nostra “dinamica costituzionale” consiste nell’aver “separato” la piccola e media proprietà, come la proprietà coltivatrice diretta e la proprietà della prima casa (artt. 44 e 47 Cost.), dalla proprietà la cui produzione eccede le strette esigenze di vita e sono in grado di far crescere la “produzione nazionale”.

Per questo tipo di proprietà, come si è già accennato, la stessa tutela giuridica è condizionata all’assolvimento della “funzione sociale”, cioè all’obbligo di dar spazio all’ “occupazione” ed alla “produzione” di beni che possano soddisfare i bisogni di tutti.

Quest’obbligo è sancito in modo espresso e con piena “precettività” dal citato art. 42 Cost., in base al quale, si ripete, “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge… allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. E’ una norma universalmente riconosciuta in dottrina come “norma precettiva di ordine pubblico economico”, la quale, tuttavia, anche a causa di talune discutibili sentenze della Corte costituzionale, è rimasta del tutto “inapplicata”. Lo dimostrano il continuo e dannosissimo ricorso alle “chiusure e delocalizzazioni” di “imprese” desiderose solo di maggiori profitti, nonché la massa enorme di “immobili” e soprattutto di “terreni” “abbandonati” dai loro proprietari.

Al riguardo, è la stessa Costituzione che ci offre il rimedio. Se è vero, come è vero, che la “tutela giuridica” della proprietà privata è condizionala alla “funzione sociale”, il venir meno di quest’ultima, fa venir meno anche la tutela giuridica e, di conseguenza, vien meno il “diritto di proprietà privata” ed anche, e necessariamente, qualsiasi diritto di “indennizzo”, visto che non esiste più il diritto da indennizzare.

Si verifica, insomma, un “effetto automatico”, per il quale, il bene originariamente appartenente a tutti, e da tutti “ceduto”, mediante legge, ad un singolo individuo, torna con tutta evidenza nella proprietà collettiva di tutti.

Dunque, nel caso dell’abbandono, di terreni ed immobili, che ha un suo precedente storico “nell’ager desertus” della tarda Roma imperiale, implica il dovere, meglio si direbbe il “munus”, dell’autorità pubblica di iscrivere formalmente nella proprietà pubblica e collettiva dalla stessa amministrata il bene di cui si discute, a ciò provvedendo, dopo la necessaria “diffida” ad adempiere al proprietario. Si tratta, in sostanza, di rileggere attraverso una “interpretazione costituzionalmente orientata”, quanto è già scritto nell’art. 838 del codice civile in relazione ai terreni abbandonati, tenendo conto, come poco sopra si accennava, che il “meccanismo giuridico” previsto dalle sopra ricordate “disposizioni costituzionali” di ordine pubblico economico” implica il venir meno, insieme con il diritto di proprietà, anche del conseguente diritto all’indennizzo.

C’è poi un ultimo punto molto importante da tener presente nell’analisi di questa “dinamica costituzionale”: è la “partecipazione” del cittadino alla “funzione legislativa”, alla “funzione amministrativa”, ed alla “funzione giudiziaria”. Ed è da sottolineare che, la partecipazione alla funzione legislativa e a quella giudiziaria riguarda soltanto un potere di iniziativa o di abrogazione, mentre quella concernente la funzione amministrativa implica un effettivo esercizio della funzione stessa. Infatti, come è noto, la funzione legislativa è riservata al Parlamento e quella giudiziaria è riservata all’Autorità giudiziaria, ed invece la funzione amministrativa è condivisa da questa, con enti e con soggetti privati.

E’ noto che la partecipazione alla funzione legislativa si concreta nel referendum abrogativo (art. 75 Cost.) e nella proposta di leggi di iniziativa popolare (art. 71, comma secondo Cost.).

Più complesse sono le disposizioni costituzionali che riguardano l’effettivo esercizio della funzione amministrativa da parte dei cittadini. La disposizione principe in proposito è quella dell’art. 3, comma secondo, Cost., secondo il quale è compito della Repubblica assicurare “l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E “partecipare” alla ”organizzazione”, in termini giuridici, vuol dire proprio partecipare all’azione amministrativa dei pubblici poteri. E parlare di “lavoratori” vuol dire parlare di tutti i cittadini, poiché, come si è visto, per la Costituzione non esistono i “fannulloni”: o si ha la capacità di lavorare e si “deve” lavorare, o si è “inabili al lavoro” ed allora si ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.

Accanto a questo principio a carattere generale, la Costituzione fa ricorso alla “partecipazione” anche nel citato art. 43, nel quale, come si è detto, si affida la gestione di imprese o di categorie di imprese “di preminente interesse generale” anche a “comunità di lavoratori o di utenti”, e cioè ad entità giuridiche diverse dalla pubblica amministrazione.

Di “partecipazione” infine parla diffusamente e con precisione l’ultimo comma dell’art. 118 del rinnovato Titolo V della Costituzione, nel quale si legge che ”Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e “comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Qui addirittura si afferma che l’iniziativa dei cittadini in tema di funzioni amministrative dovrebbe precedere, in casi di estrema vicinanza agli interessi del popolo, l’azione dei pubblici poteri: questo e non altro significa il ricorso al concetto di “sussidiarietà”.

Quanto alla partecipazione alla funzione giudiziaria, occorre ricordare che, in base alla costruzione che abbiamo descritto della “Comunità politica”, il “cittadino è parte costitutiva” del popolo, e come tale può e deve agire, con un’azione popolare, nell’interesse proprio e di tutti i consociati. Si tratta di un potere di iniziativa che è insito nel sistema costituzionale, con la conseguenza che una previsione di legge ordinaria in proposito avrebbe valore puramente dichiarativo.

Questo principio sembra sia stato accolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione[12] e dalla Corte costituzionale[13] nel noto caso dell’azione promossa da un semplice cittadino per ottenere la cancellazione della legge elettorale, cosiddetta “porcellum”. In detta sentenza si legge, infatti, che la “questione” sottoposta all’esame della Corte costituzionale, “ha ad oggetto un diritto fondamentale tutelato dalla Costituzione, il diritto di voto, che ha come connotato essenziale il collegamento ad un interesse del corpo sociale nel suo insieme”. Pare proprio che la Corte costituzionale abbia utilizzato il concetto, poco sopra esposto, del rapporto tutto-parte, considerando il cittadino come “parte strutturale” della collettività, per cui la sua azione giudiziaria concerne il proprio interesse individuale e, nel contempo, quello di tutti gli altri consociati. E se è così, si può agevolmente affermare che oggi, ad opera della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza costituzione, l’azione popolare, è diventata una sicura realtà[14].

8. – Cosa fare?

Il discorso fin qui condotto ha spianato la strada per combattere, sul piano giuridico, contro il principale responsabile della cementificazione e della impermeabilizzazione del suolo, il cosiddetto ius edificandi. Dovrebbe esser chiaro, infatti, che non è affatto configurabile un diritto di costruire “insito” nel diritto di proprietà privata, mentre si deve necessariamente affermare che questo potere di trasformazione del territorio costituisce una “potestà” insita nella proprietà collettiva che spetta al popolo sul suo territorio a titolo di sovranità.

Vengono in evidenza, a questo punto, due concetti importanti: la tutela del territorio e la fruizione dello stesso. In sostanza, emerge la necessità di “norme di tutela” e di “norme del governo” del territorio.

Le prime, che sono di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma secondo, lett. s), Cost., pongono i “limiti invalicabili” di tutela[15], oltre i quali, superate le soglie della sostenibilità ambientale, si provocano seri danni ambientali; le seconde, che rientrano nella competenza concorrente delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, comma terzo, Cost., pongono la “normativa d’uso” del territorio, sanciscono, cioè, in quali zone del territorio e con quali modalità, è possibile costruire. In questo secondo caso, è bene sottolinearlo, lo Stato ha l’obbligo di stabilire, con una legge quadro, i “principi fondamentali” aventi la funzione di indirizzare o porre dei limiti alle manifestazioni legislative[16] della Regione. E non può sfuggire che l’attuale legge quadro per l’edilizia appovata con DPR n. 380 del 2001 è tutta da rifare.

E’ di questa nuova legge quadro che oggi c’è urgente, indilazionabile bisogno. Infatti, è solo in una legge di tal genere, infatti, è possibile stabilire, Nella visone di un quadro generale del problema, , norme fondamentali applicabili in tutto il territorio nazionale, concernenti il consumo di suolo agricolo e di verde urbano.

Ed a questo proposito, considerato che il punto dolente è quello del cosiddetto ius aedificandi, causa efficiente di notevolissimi danni al territorio, si potrebbe prevedere che la concessione edilizia possa essere rilasciata solo su terreni esistenti in zona urbanizzata e preventivamente acquisiti al patrimonio comunale, o perché si tratta di terreni o immobili abbandonati, che, come si è visto, sono automaticamente rientrati nel patrimonio della Comunità comunale, o perché, per eccezionali esigenze pubbliche, tali terreni o immobili siano stati preventivamente espropriati prima dell’urbanizzazione ed al costo previsto per i terreni agricoli.

Detta concessione dovrebbe inoltre consistere, non in un’autorizzazione a costruire, ma nella costituzione di un diritto di superficie da concedere a seguito dell’esperimento di una gara ad evidenza pubblica e dietro pagamento di un equo canone annuo rivalutabile secondo le stime di mercato. Si eviterebbe così la piaga delle dannosissime “rendite fondiarie”, causate dalle cosiddette “urbanizzazioni di favore”, che arricchiscono indebitamente pochi speculatori, a danno di tutti, nonché delle frequenti collusioni tra costruttori e amministratori pubblici. D’altro lato si assicurerebbe alle casse comunali un altro introito sicuro, dovendosi, peraltro, anche prevedere che gli oneri di urbanizzazione siano effettivamente destinati alle opere di urbanizzazione, evitando che detti introiti siano utilizzati per le spese correnti, come prevede la citata legge destinati alle spese correnti, come oggi avviene, seguendo le disposizioni del citato art. 136, comma secondo, lett. c) del vigente T.U per l’edilizia, approvato con DPR 6 giugno 2001, n. 380.

E’ poi tra questi principi fondamentali che andrebbe previsto anche la necessità di istituire una cintura verde intorno alla zona cittadina urbanizzata, nonché la previsione di notevoli Parchi urbani. Indispensabile sarebbe poi prevedere delle norme penali che considerano delitto punibile con la reclusione da uno a cinque anni, il fatto di chi leda detti principi ed arrechi, comunque, danni ambientali.

La legge quadro di cui si discute dovrebbe ancora prevedere una attenta manutenzione[17] del territorio comunale e, nell’immediato, una grande opera pubblica statale di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico d’Italia.

Non è chi non veda come un’opera pubblica di tal genere possa simultaneamente perseguire due finalità: la ricostituzione del territorio e contribuire efficacemente all’uscita dalla presente cosiddetta crisi economico finanziaria, poiché la distribuzione di risorse finanziarie ad un considerevole numero di lavoratori agirebbe da volano dell’economia e permetterebbe anche di diminuire notevolmente il debito pubblico. E’ da considerare d’altro canto che gli stessi costruttori, se invogliati a concorrere agli appalti per l’esecuzione di una grandiosa opera pubblica di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico, certamente non avrebbero nessuna difficoltà a lavorare per un fine diverso da quello sin qui seguito. Ora la parola passa al Governo, il quale ha l’obbligo inderogabile di convincere l’Europa che è inutile accantonare contabilmente 50 miliardi all’anno per 20 anni, come ci impone il fiscal compact e che sarebbe molto più ragionevole investire dette somme in un’opera che ristabilisca gli equilibri ambientali, senza produrre merci da collocare sul mercato.



[1] Sull’argomento vedi: S.Settis, Paesaggio Costituzione Cemento, Torino, 2010.
[2] Sulla ricostruzione delfatti al riguardo, vedi E. Salzano, Memorie di un urbanista, Venezia, 2012., p.196 ss.
[3] S. Settis, PesaggioCostituzione Cemento cit., p.17 s.
[4] S. Settis, o. c. , l. c.
[5] P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino,1974.
[6] M.S. Giannini, I benipubblici, Roma, 1963, rist. 1981, p. 47.
[7] Sul collegamento tra“proprietà collettiva “ e “sovranità”, vedi il mio scritto “I beni comuni nelcodice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione dellaRepubblica italiana”, in Giurisprudenza costituzionale, 2011, p.2613 ss.,rinvenibile su www.federalismi. It. Temaripreso, con dovizia di particolari, S. Settis, in Azione popolare, Torino,2012, p.79.
[8] C. Schmitt, Il nomos dellaterra, Milano, 1991, p. 17 ss.
[9] Quanto alla tutela delpaesaggio, sono fondamentali i volumi di Salvatore Settis: PaesaggioCostituzione Cemento, Torino, 2010 e Azione popolare, Torino, 2012; nonché ilcompletissimo articolo di G. Severini, La tutela costituzionale del paesaggio,in www.giustizia-amministrativa.it,2005.
[10] Da ultimo, G.Zagrebelsky, Fondata sul lavoro, Torino, 2013.
[11] Quanto alla tutela dellerisorse della terra, vedi: G. Di Marzo, Anatomia di una rivoluzione, Roma,2012; C. Iannello, Il diritto all’acqua, Napoli, La scuola di Pitagoraeditrice, 2012..
[12] A proposito dellesentenze del 2011, relative alle Valli di pesca della laguna veneta.
[13] Corte costituzionale,sentenza n. 1 del 2014.
[14] Fondamentale, al riguardoil citato volume di S. Settis, Azione popolare.
[15] Vedi sentenze della Cortecostituzionale a partire dalle sentenze n. 367 e 378 del 2007 in poi.
[16] C. Mortati, Istituzionidi diritto pubblico, Padova, 1976, Tomo II, p. 925 s.
[17] E’ da ricordare che 45senatori e deputati, utilizzando il lavoro degli Uffici tecnici statali, hannopresentato una importante proposta di legge, contenente norme tecniche per unareale manutenzione del suolo.

Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2014
Cosa c’è di male a far sfilare alcuni Masai agli Uffizi in occasione di una sfilata di moda, si chiede Caterina Soffici. C’è di male che il tema di quella sfilata era il “neocolonialismo”, e che ai ricchi bianchi fasciati da lini chiari seguivano i selvaggi in costumi tradizionali, portati a Firenze come bestie da serraglio. Alla faccia della diversity! Qualunque direttore di museo americano ci avrebbe rimesso il posto.

I musei, in Italia, hanno a che fare con la conoscenza e l’educazione (lo dice l’articolo 9 della Costituzione), e con il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). Nell’età del totalitarismo ideologico neoliberista per cui tutto è merce, e nell’Italia di Matteo Renzi, Oscar Farinetti e Marco Goldin sembrerà strano: ma è per questo che i musei sono mantenuti (anche se a stento) con il denaro delle tasse di tutti, e non quello di chi ci fa le serate cafonal. Ma – si obietta – in America e in Inghilterra nei musei si banchetta eccome. Il Victoria and Albert di Londra – scrive Soffici – la sera si trasforma in “un circo Barnum”

Prima risposta: non lo fa per sopravvivere, lo fa per libera scelta e con regole precise; da noi ci sia arrangia svendendo i gioielli di famiglia a prezzi da ribasso, e in condizioni rischiose. Seconda risposta: i musei italiani sono diversi, perché non nascono quasi mai come tali, ma sono in luoghi storici delicatissimi, inadatti a simili carnevalate. Terza risposta: non è un caso che abbiamo l’articolo 9, da noi l’arte è per tradizione inclusiva e non esclusiva; quello che conta è il tessuto diffuso e la sua funzione civile, difficilmente compatibile con l’esclusività del lusso.

Quarta risposta: anche là esiste un dibattito assai acceso. Lo scrittore americano Jonathan Franzen ha scritto: “Un autentico spazio pubblico è un luogo dove ogni cittadino è il benvenuto, e dove la sfera puramente privata è esclusa o limitata. Il motivo per cui negli ultimi anni i musei d’arte hanno registrato un forte aumento di visitatori è che i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico. Com’è piacevole l’obbligo del decoro e del silenzio, la mancanza di consumismo sfacciato”.

E Michael J. Sandel, venerato professore di Filosofia politica ad Harvard: “Perché preoccuparsi del fatto che stiamo andando verso una società in cui tutto è in vendita? Per due ragioni, una riguarda la disuguaglianza; l’altra la corruzione (...) Assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle. Se trasformate in merci, alcune delle cose buone della vita vengono corrotte e degradate. Dunque, per stabilire dove va collocato il mercato e a che distanza andrebbe tenuto, dobbiamo decidere come valutare i beni in questione: la salute, l’istruzione, la sfera familiare, la natura, l’arte, i doveri civici, e così via”. Non per tutti, in inglese, “museo” è sinonimo di “circo Barnum”.

Quale alibi migliore della Scienza per derogare un piano urbanistico a privatizzare un pezzo di litorale? Ecco un ulteriore colpo di piccone volto distruggere un progetto urbanistico odiato dal “blocco edilizio”, dai fanatici dello sviluppismo e tenacemente difeso degli ambientalisti e, soprattutto, dei comitati cittadini. L’ennesimo episodio di malgoverno urbanistico di una giunta molto discussa. Riferimenti in calce

Il 30 gennaio il sindaco di Napoli ha firmato presso il Ministero della coesione territoriale un accordo preliminare con la fondazione Idis-Città della Scienza, che consentirà a quest’ultima di ricostruire in loco i fabbricati del museo scientifico bruciati l’anno scorso. Un blocco di oltre 100mila metri cubi di fronte al mare, arretrato di qualche metro per consentire la realizzazione della spiaggia pubblica. Ma quello che per De Magistris costituisce un buon compromesso viene invece denunciata come una scelta sciagurata da molte realtà di base napoletane ed associazioni ambientaliste, tra cui Italia Nostra. Quest’ultima ha preannunciato un ricorso al TAR contro la firma dell’Accordo di programma quadro, fissato per il 4 marzo, primo anniversario dell’incendio. L’Accordo si rende necessario per modificare gli strumenti urbanistici comunali: infatti la Variante al PRG per la zona occidentale, approvata nel 1998, ed il Piano urbanistico attuativo per Bagnoli-Coroglio, ratificato nel 2005, prevedono il trasferimento di tutti i volumi edilizi esistenti sul litorale (inclusa una parte di Città della scienza) per fare posto ad una spiaggia pubblica di quasi due chilometri.

Città della Scienza, che occupa un’ex area industriale di 6,5 ettari sita ‘a cavallo’ della strada litoranea, è stata infatti realizzata con un Accordo di programma del 1997 che andava in deroga alla variante, adottata l’anno prima dal consiglio comunale ed all’epoca in via di approvazione: l’accordo stabilì che il trasferimento dei volumi ricadenti nell’area destinata a spiaggia sarebbe avvenuto una volta ammortizzato il finanziamento pubblico erogato per ristrutturare a science center i fatiscenti capannoni della ex Federconsorzi. Questo espediente, voluto dall’allora sindaco Bassolino, ha aperto un pericoloso vulnus nella realizzazione del piano, di cui si sono avvantaggiati anche altri soggetti: basti ricordare che, al momento di approvare il Piano attuativo, si stabilì di posporre parimenti il trasferimento dell’adiacente borgo di Coroglio (una misura tacitamente estesa de facto anche al vicino circolo ILVA). Di fatto, rinviando indefinitamente la liberazione del lungomare, si è permesso il progressivo coagulo di numerosi interessi privati intorno al suo utilizzo ‘provvisorio’: nello stesso anno, il 2005, un consorzio di concessionari balneari ha privatizzato con l’avallo di Comune ed Autorità portuale gran parte degli arenili esistenti, ancorchè non fosse avvenuta alcuna bonifica del mare e della spiaggia.

Avverso le disposizioni urbanistiche, nonché in contrasto con la legge 582/1996 (che all’articolo 1, comma 4, prevede “il ripristino della morfologia naturale della costa”) ed il vincolo paesaggistico posto nel 1999 sulla piana di Bagnoli-Coroglio (che aveva esplicitamente escluso una richiesta di vincolo per archeologia industriale avanzato dalla locale soprintendenza su sollecitazione dell’Idis per i propri capannoni), intorno alla struttura di Vittorio Silvestrini è cresciuto negli anni un fronte del rifiuto che considera inattuabile la riqualificazione urbanistica ed ambientale disposta dalla Variante e ne propugna la modifica per garantire la valorizzazione degli interessi privati esistenti. Queste forze, agevolate dalle vecchie amministrazioni di centrosinistra, non sono state contrastate nemmeno dalla nuova giunta arancione che, malgrado le forti aspettative iniziali, si è posta in sostanziale continuità con il loro operato. Il ‘braccio di forza’ ingaggiato con l’Idis all’indomani del rogo per assicurare il rispetto del piano con la ricostruzione in altra sede dei volumi distrutti (essendo tragicamente venuta meno ogni esigenza di ammortamento) si è infine risolto a favore di quest’ultima; non è forse un caso che l’assessore all’urbanistica De Falco, sostenitore delle posizioni di Italia Nostra, sia stato dimissionato nel bel mezzo della trattativa.

Eppure non mancano le ragioni e i mezzi per contrastare le pretese di Città della Scienza, oltre quelle già esposte; qualcuna De Magistris ha tentato di giocarla, senza però andare fino in fondo. Con un’ordinanza sindacale emessa lo scorso 3 dicembre, ha imposto (vanamente) all’Idis di presentare il certificato definitivo di bonifica delle proprie aree: nel corso della trattativa è infatti emerso che per quindici anni Città della Scienza ha ospitato milioni di visitatori (in gran parte bambini) senza avere il necessario attestato di sicurezza ambientale. E’ poi legittimo sostenere l’opportunità, prima di ogni decisione, di aspettare che l’indagine giudiziaria in corso faccia luce sugli autori e le ragioni che si celano dietro l’incendio della struttura: benchè i dirigenti di Città della Scienza sostengano che il rogo sia collegabile a non meglio precisate mire speculative della camorra, i giornali hanno più volte riferito l’esistenza di un ‘pista interna’, che ha portato la magistratura a sequestrare i registri contabili della fondazione. Last but not least, va fatta valere l’esistenza di una delibera d’iniziativa popolare, sottoscritta da 13mila cittadini ed approvata il 25 settembre 2012 dal consiglio comunale, che dispone la destinazione ad uso balneare gratuito e la gestione comunale di tutto il litorale da Coroglio a Bagnoli.

E’ comunque evidente come l’indisponibilità dell’Idis ad abbandonare la spiaggia non sia determinato dalle pur spesso addotte ragioni funzionali bensì dal valore economico dell’area, come candidamente esplicitato sulla stampa locale dal consigliere delegato della fondazione, Vincenzo Lipardi. Non va poi dimenticato che il progetto di Città della Scienza redatto dall’architetto Pica Ciamarra prevede la realizzazione di un attracco per le Vie del Mare sul vecchio pontile della ex Federconsorzi: una scelta attualmente sospesa ma su cui l’Idis punta ancora, e che, se realizzata, incrementerebbe notevolmente i visitatori della struttura ma al prezzo di compromettere la balneabilità di gran parte del litorale vicino Nisida.

In conclusione, la questione non ruota intorno a qualche metro quadro di spiaggia in più o in meno, come piace credere al sindaco De Magistris, bensì sulla legittimità e credibilità delle norme urbanistiche per Bagnoli. Cedere (e stavolta definitivamente) su Città della Scienza significa aprire la strada ad una revisione peggiorativa della Variante e del Piano attuativo, con lo spostamento dei volumi edificabili sul lungomare ed il ridimensionamento di indispensabili attrezzature pubbliche, come il parco urbano e la spiaggia. La vicenda si inserisce infatti in un contesto estremamente critico sia per Bagnoli che per la città: la bonifica è in stallo, le aree sono sequestrate ed è appena iniziato il processo per truffa e disastro ambientale. Il 13 febbraio è stata messa in liquidazione Bagnoli-Futura, la società di trasformazione urbana del Comune incaricata della riqualificazione, indebitata per centinaia di milioni di euro con le banche e con Fintecna, ex proprietaria dei suoli industriali di Bagnoli; quest’ultima, reagendo all’ordinanza sindacale che le imponeva di rimuovere la colmata a mare realizzata nel 1962 sul litorale dall’ex Italsider, aveva già chiesto al Tribunale il fallimento di BagnoliFutura per recuperare 60 mln di indennità mai corrisposti. La possibilità che i suoli e le opere pubbliche finora realizzate finiscano per pochi soldi in mani private, che un’amministrazione comunale politicamente debole e sottoposta al rischio del dissesto finanziario ceda al ricatto e modifichi gli strumenti urbanistici secondo le convenienze degli speculatori, è quindi più che un’ipotesi. Infatti pochi giorni fa il Sindaco, per coinvolgere la Cassa depositi e prestiti (proprietaria di Fintecna) e gli investitori privati, ha comunicato l’avvio di una revisione ad hoc del piano urbanistico, preannunciando modifiche inquietanti, come la realizzazione di un porto turistico nella riserva naturale marina di Nisida.

Lungi dal costituire il faro della riqualificazione di Bagnoli, Città della Scienza (che ha già usufruito di due Accordi di Programma in deroga alle norme urbanistiche, nel 1997 e nel 2003) sta contribuendo attivamente al suo affossamento, con la complicità di quegli intellettuali e mass media che l’hanno avvolta in un’aura di incriticabilità. Solo una decisa mobilitazione dei cittadini potrà porre con forza i decisori pubblici coinvolti (Ministero dell’Ambiente, Soprintendenza, Sindaco e Consiglio Comunale) di fronte alla loro precisa responsabilità di difendere l’interesse collettivo. E’ quello che le realtà territoriali di base napoletane si stanno impegnando a fare tra mille difficoltà, e per cui chiedono il sostegno attivo del mondo urbanistico ed ambientale nazionale. Al di là dei giochi di parole, per Bagnoli e Napoli si tratta davvero dell’ultima spiaggia.

Riferimenti

Vedi su eddyburg Città della scienza: da simbolo del Rinascimento a Feudo dei partiti, La città che teme la spiaggia , La cabina di regia riunita a Roma ha optato per la nuova destinazione. Museo ricostruito nel parco di Bagnoli . Sulla questione dell’area ex Italsider di Bagnoli e sui pesanti errori di politica urbanistica del sindaco De Magistris vedi anche, nell’archivio del vecchio eddyburg, gli articoli raccolti nella cartella Napoli. Vedi inoltre il sito del comitato “Una spiaggia per tutti”

comitato

Il manifesto, 15 febbraio 2014

Domani in Sar­de­gna si vota per l’elezione del pre­si­dente della Regione. Seggi aperti per tutta la gior­nata di dome­nica. I risul­tati si cono­sce­ranno lunedì. La con­sul­ta­zione arriva in un momento del tutto par­ti­co­lare. Per Mat­teo Renzi sarà infatti il primo impe­gna­tivo test elet­to­rale. Natu­rale quindi che su Cagliari si siano accesi in que­sti giorni tutti i riflet­tori nazio­nali. E che l’esito sia molto atteso. I prin­ci­pali can­di­dati in corsa sono Ugo Cap­pel­lacci per il cen­tro­de­stra, Fran­ce­sco Pigliaru per il cen­tro­si­ni­stra, Michela Mur­gia per la coa­li­zione Sar­de­gna pos­si­bile. C’è grande incer­tezza. Cap­pel­lacci e Pigliaru sareb­bero testa a testa, ma Michela Mur­gia potrebbe rimon­tare gra­zie al voto degli inde­cisi, un’area che, a sole ven­ti­quat­tro ore dal voto, è ancora molto vasta. Mur­gia punta anche sul con­senso dei gril­lini, che alle ultime poli­ti­che hanno preso in Sar­de­gna il 29,68 per cento dei voti e che alle regio­nali non sono riu­sciti a pre­sen­tare una lista a causa delle lace­ranti divi­sioni interne al movimento.

Nell’isola il clima è teso. Ieri, nella gior­nata di chiu­sura dei comizi, con un blitz la giunta di cen­tro­de­stra pre­sie­duta da Cap­pel­lacci ha adot­tato in via defi­ni­tiva il nuovo Piano pae­sag­gi­stico della Sar­de­gna (Pps), man­dando in sof­fitta il Piano pae­sag­gi­stico regio­nale (Ppr) varato nel 2006 da Renato Soru. La deli­bera è stata appro­vata nono­stante la man­canza della «valu­ta­zione ambien­tale stra­te­gica» (Vas) obbli­ga­to­ria per legge, ed è quindi priva di effetti validi sul piano giu­ri­dico. Va anche ricor­dato che la revi­sione del Ppr tar­gata Cap­pel­lacci è stata impu­gnata dal governo davanti alla Corte costi­tu­zio­nale su sol­le­ci­ta­zione del mini­stero per i beni culturali.

Nell’antivigilia dell’apertura delle urne, con Ber­lu­sconi impe­gnato a soste­nere Cap­pel­lacci in una con­ven­tion del cen­tro­de­stra ad Arbo­rea e Fran­ce­sco Pigliaru che ha bat­tuto in auto­bus il nord Sar­de­gna da Porto Tor­res a Olbia, la noti­zia dell’approvazione del Ppr è arri­vata come una bomba. La prima rea­zione è stata di Pigliaru: «L’adozione del Pps da parte della giunta Cap­pel­lacci — ha detto il lea­der del cen­tro­si­ni­stra — è un’approvazione di car­tone, fatta sol­tanto per fini elet­to­rali. Rimango a bocca aperta: il cen­tro­de­stra ha avuto cin­que anni per fare le cose nel modo cor­retto, con­fron­tan­dosi con il governo secondo le regole. Invece, a con­ferma dell’incapacità di que­sta giunta, Cap­pel­lacci ha voluto for­zare, mostrando un incre­di­bile disprezzo per le regole».

Bor­date a Cap­pel­lacci anche dal segre­ta­rio di Rifon­da­zione Paolo Fer­rero, ieri a Cagliari per un tour elet­to­rale. «Il voto serve a evi­tare che Cap­pel­lacci ritorni a essere il pre­si­dente della Sar­de­gna: non solo non ha man­te­nuto le pro­messe, ma è evi­dente che non ha fatto nulla per il lavoro e per il ter­ri­to­rio». «Lo dico anche — ha aggiunto Fer­rero — a chi non è entu­sia­sta dei can­di­dati del cen­tro­si­ni­stra: il voto a Michela Mur­gia non aiuta a man­dare via Cap­pel­lacci». Anche Rifon­da­zione fa parte della coa­li­zione gui­data da Pigliaru. Per Fer­rero è il lavoro che deve stare al cen­tro dei pro­grammi, a Cagliari come a Roma. «Ma per­ché que­sto avvenga — ha aggiunto il segre­ta­rio del Prc — con il voto biso­gna raf­for­zare la sini­stra». E in effetti il tema del lavoro è in Sar­de­gna dram­ma­tico. Gio­vedì a Cagliari è ripar­tita la mobi­li­ta­zione dei lavo­ra­tori in cassa inte­gra­zione della Alcoa, con un cor­teo davanti alla sede della Regione. Gli ope­rai chie­dono rispo­ste sullo stato della ver­tenza, al momento in una fase di stallo, con la fab­brica chiusa, e la con­vo­ca­zione di un incon­tro al mini­stero per lo svi­luppo eco­no­mico. Durante il cor­teo i lavo­ra­tori hanno lan­ciato uova sui mani­fe­sti elet­to­rali e hanno annun­ciato l’intenzione di resti­tuire le schede elettorali.

Chi sem­bra asso­lu­ta­mente con­vinto della vit­to­ria di Cap­pel­lacci è Ber­lu­sconi. «Non c’è biso­gno — ha detto ad Arbo­rea di fronte a migliaia di per­sone — di con­vin­cere i sardi: sanno già chi votare. Ugo, pos­siamo fare così: tu canti, io rac­conto sto­rielle. E fac­ciamo uno show patriot­tico». Poi l’attacco a Michela Mur­gia: «Ho saputo che la signora Mur­gia ha già pre­sen­tato la sua giunta, e si è tenuta lei l’assessorato dei tra­sporti: forse da pic­cola gio­cava con i tre­nini. Ma lei è una che ha inse­gnato l’odio». Due accenni alla situa­zione nazio­nale: «Sono l’ultimo pre­mier eletto dal popolo», con rife­ri­mento alla staf­fetta Letta-Renzi: «Nel 2009 avevo il con­senso del 75% degli ita­liani. Ecco per­ché la magi­stra­tura ha deciso di farmi fuori. E nel 2001 con­tro di me c’è stato un golpe. Sono sceso in campo con­tro il comu­ni­smo, che ha fatto 120 milioni di morti». Ber­lu­sconi par­lava ad Arbo­rea, che quando fu fon­data, nel 1928, si chia­mava Mussolinia

Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2014
Cosa c’è di male a far sfilare alcuni Masai agli Uffizi in occasione di una sfilata di moda, si chiede Caterina Soffici. C’è di male che il tema di quella sfilata era il “neocolonialismo”, e che ai ricchi bianchi fasciati da lini chiari seguivano i selvaggi in costumi tradizionali, portati a Firenze come bestie da serraglio. Alla faccia della diversity! Qualunque direttore di museo americano ci avrebbe rimesso il posto.

I musei, in Italia, hanno a che fare con la conoscenza e l’educazione (lo dice l’articolo 9 della Costituzione), e con il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). Nell’età del totalitarismo ideologico neoliberista per cui tutto è merce, e nell’Italia di Matteo Renzi, Oscar Farinetti e Marco Goldin sembrerà strano: ma è per questo che i musei sono mantenuti (anche se a stento) con il denaro delle tasse di tutti, e non quello di chi ci fa le serate cafonal.

Ma – si obietta – in America e in Inghilterra nei musei si banchetta eccome. Il Victoria and Albert di Londra – scrive Soffici – la sera si trasforma in “un circo Barnum”.

Prima risposta: non lo fa per sopravvivere, lo fa per libera scelta e con regole precise; da noi ci sia arrangia svendendo i gioielli di famiglia a prezzi da ribasso, e in condizioni rischiose. Seconda risposta: i musei italiani sono diversi, perché non nascono quasi mai come tali, ma sono in luoghi storici delicatissimi, inadatti a simili carnevalate. Terza risposta: non è un caso che abbiamo l’articolo 9, da noi l’arte è per tradizione inclusiva e non esclusiva; quello che conta è il tessuto diffuso e la sua funzione civile, difficilmente compatibile con l’esclusività del lusso.

Quarta risposta: anche là esiste un dibattito assai acceso.

Lo scrittore americano Jonathan Franzen ha scritto: “Un autentico spazio pubblico è un luogo dove ogni cittadino è il benvenuto, e dove la sfera puramente privata è esclusa o limitata. Il motivo per cui negli ultimi anni i musei d’arte hanno registrato un forte aumento di visitatori è che i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico. Com’è piacevole l’obbligo del decoro e del silenzio, la mancanza di consumismo sfacciato”.
E Michael J. Sandel, venerato professore di Filosofia politica ad Harvard: “Perché preoccuparsi del fatto che stiamo andando verso una società in cui tutto è in vendita? Per due ragioni, una riguarda la disuguaglianza; l’altra la corruzione (...) Assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle. Se trasformate in merci, alcune delle cose buone della vita vengono corrotte e degradate. Dunque, per stabilire dove va collocato il mercato e a che distanza andrebbe tenuto, dobbiamo decidere come valutare i beni in questione: la salute, l’istruzione, la sfera familiare, la natura, l’arte, i doveri civici, e così via”. Non per tutti, in inglese, “museo” è sinonimo di “circo Barnum”.

SAVI Tecnicamente lo strumento di pianificazione è stato approvato in via definitiva malgrado mancasse il parere motivato «obbligatorio e vincolante» dell’ufficio Savi, responsabile della Vas, la valutazione ambientale strategica. Non solo: gli assessori regionali hanno dato il via libera senza che la maggior parte delle osservazioni fondamentali depositate da comuni, associazioni ecologiste e culturali sia stata ammessa a integrare o modificare il testo considerato finale del Pps, intervenendo almeno sulle parti in cui vengono cancellati con un colpo di spugna molti beni paesaggistici per lasciare spazio al cemento.

Osservazioni. Quelle osservazioni potevano anche essere respinte, ma a decidere doveva essere il Savi. Comunque sia norme, mappe, elenchi di beni paesaggistici, ambientali e identitari sono piovuti in sala giunta senza che l’ufficio deputato a valutarne la compatibilità ambientale abbia potuto esprimersi formalmente, come stabilisce la legge. Cappellacci ha spiegato la fretta di chiudere la partita con la necessità di stabilire «regole certe, che consentano di evitare le sabbie mobili della burocrazia». Ma è facile prevedere che su quelle regole si aprirà una battaglia giudiziaria senza esclusione di colpi.

Vas. Per sapere se si tratta di un bluff elettorale basterà attendere il dopo voto, quando il candidato vincente potrà revocare l’atto di approvazione con il ricorso all’autotutela, riaprendo la procedura interrotta. Perché secondo la valutazione generale la delibera sarebbe illegittima: quindi dovrebbe bastare un ricorso ai giudici amministrativi perché venga annullata. Per adesso, ha spiegato il capo di gabinetto dell’Urbanistica Massimiliano Tavolacci, il documento non sarà pubblicato sul bollettino ufficiale della Regione. Quando comparirà, verrà integrato col parere del Savi. Così - ha spiegato il dirigente - il Pps non dovrà ripassare in giunta.

Però le norme, che derivano da una direttiva comunitaria del 2001 recepita dall’Italia quattro anni dopo, indicano un scansione diversa: la Vas deve precedere l’approvazione dell’atto di pianificazione e il suo contenuto, tutte le modifiche e le prescrizioni, deve entrare nel testo da portare in giunta. In altre parole il giudizio di compatibilità ambientale firmato dal Savi deve prevalere sull’indirizzo politico, adeguando ogni previsione alle regole. Cappellacci ha imposto una sorta di inversione della procedura: prima si approva quanto proposto dalla giunta e poi si valuta. Una giurisprudenza sterminata, che riguarda altre regioni, getta più d’un ombra sulla legittimità di questa scelta. La delibera firmata ieri mattina potrebbe non avere alcun valore giuridico e di conseguenza alcuna efficacia. Due mesi. Impossibile prevedere se il Savi andrà avanti nell’esame delle osservazioni e della compatibilità ambientale e paesaggistica del Pps: legge alla mano l’ufficio avrebbe ancora due mesi abbondanti per concludere il lavoro, che in base alla legge è indispensabile e dovrebbe svolgersi in perfetta autonomia dalla politica. Ma in mancanza di precedenti, nessuno sa che cosa fare. La giunta Cappellacci ha avuto cinque anni di tempo per realizzare la revisione del Ppr di Renato Soru, come annunciato nella campagna elettorale del 2009. A due giorni dal voto il governatore ha tagliato corto, con una lettura molto soggettiva delle norme europee e statali. Cappellacci peraltro era già passato leggero sull’obbligo di co-pianificazione: per questo pende già un ricorso dello Stato alla Corte Costituzionale.

La Vas decisiva
per qualsiasi
pianificazione

Qualsiasi strumento pubblico di pianificazione dev’essere sottoposto per legge alla Vas, la valutazione d’impatto strategica. L’obbiettivo stabilito dalla direttiva comunitaria 2001/42 che ne regola la procedura è di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente. In base alla legge statale che ha recepito nel 2005 il dettato comunitario la Vas dev’essere effettuata durante la fase preparatoria del piano e comunque prima della sua approvazione. La procedura è pubblica, di conseguenza aperta alla partecipazione di enti, associazioni e cittadini attraverso le osservazioni ed è seguita da una fase di monitoraggio destinata a correggere errori nel caso di effetti negativi per l’ambiente. Il servizio regionale che cura la Vas è il Savi - Servizio sostenibilità ambientale e valutazione impatti - che a partire dalla prima adozione del piano (in questo caso il Ppr) da parte della giunta regionale e del successivo deposito delle osservazioni ha complessivamente 90 giorni di tempo per valutare la compatibilità ambientale dello strumento proposto e decidere in perfetta autonomia quali modifiche e integrazioni apportarvi a tutela dell’ambiente. Concluso il lavoro, il piano modificato in base alla Vas passa all’ufficio dell’urbanistica, che deve applicare obbligatoriamente modifiche e prescrizioni motivate dal Savi. Il passaggio successivo - in questo caso - è l’approvazione definitiva da parte della giunta regionale, che può intervenire ancora sul piano soltanto ripartendo da zero, quindi ripetendo la procedura di elaborazione e la procedura di Vas. (m.l)

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