Il modello che sottende decenni di strategie di sviluppo mostra tutti i suoi limiti, in ogni senso, ma a una intera classe dirigente manca il coraggio, o la coscienza e capacità, di ammetterlo
Ci stiamo abituando a fare i conti con i disastri ambientali e con le difficoltà ad accertare le responsabilità di tanta devastazione. I sintomi nelle aree di crisi evidenziano guasti profondi. Oggi l'attenzione è su Porto Torres (dopo il proscioglimento gli imputati di inquinamento per intervenuta prescrizione); ieri su Olbia, ma l'elenco è lungo come sappiamo: tanti casi diversi ma non sfugge il denominatore comune. Quel disegno afferra-afferra a cui guardano inchieste della Magistratura, che ci dirà – se non vi saranno altre assoluzioni decise dalla politica. Che dovrebbe interrogarsi a fondo su quest' ultimo mezzo secolo di sviluppo evanescente che ha lasciato povertà e drammi sociali. E reso l'isola brutta e insicura in molte parti, sfortunatamente per sempre. Per questo ci aspettiamo un nuovo corso senza titubanze.
Sull'ambiente – terra, acqua, aria– i governi locali hanno competenze importanti. Più di quanto non ne abbiano per altre questioni dipendenti da centri decisionali lontanissimi.
Non ci dovrebbero essere esitazioni se si mettesse nello sfondo la storia. Basterebbero una trentina di immagini per documentare la spoliazione dell'isola avvenuta in tempi tutto sommato brevi. Un quadro attutito per la grande estensione del territorio, dove tutto sfuma, e l'opinione pubblica non si accorge o fa finta. “E gli orrori arrivano solo fino a dove i nostri occhi hanno il coraggio di guardare” – è la sintesi di Alessandro De Roma nel racconto pubblicato da Einaudi (nel libro «Sei per la Sardegna», bel regalo alle popolazioni colpite dalla recente alluvione).
Il coraggio di guardare e di ammetterlo: siamo stati defraudati a lungo, e chi ha potuto prendere dalla Sardegna senza restituire nulla, ha contato su troppe complicità locali. E così tre quarti del patrimonio boschivo sono andati in fumo nell'Ottocento per produrre energia oltre il mare; così nell'ultimo mezzo secolo terre preziose sono state concesse per esercitazioni militari deleterie per la salute, o regalate a industriali sovvenzionati per inquinare liberamente. Così circa 450mila (!) ettari di territorio sono compromessi da forme di inquinamento pericolose e comunque sottratti all'uso. Il ciclo edilizio è stato spesso senza regole, e in assenza di strumenti urbanistici adeguati sono cresciuti insediamenti in grado di mettere in pericolo le comunità residenti, basta che piova un po' più forte.
La Sardegna “innocente” è quinta nelle classifica dell'abusivismo edilizio, dopo Campania e Sicilia che hanno quattro volte gli abitanti dell'isola, e quindi è prima. Uno scenario preoccupante e che impone di provvedere, e subito, almeno per limitare i rischi per le comunità più esposte.
Ma è vietato illudere e illudersi sulla palingenesi di bonifiche che – si sa – non ci restituiranno la Sardegna com'era, perché è impossibile. A sicut erat non torrat mai. Figurarsi in casi di terre maltrattate e avvelenate in quelle misure come a Porto Torres, o a Portoscuso dove da ieri agli agricoltori è vietato vendere i loro prodotti. Ci toccherà pagare, insomma (e attenzione a chi s'immagina i tornaconti del risanamento ambientale nella successione inquinamento-disinquinamento forever). E il danno, come per il debito pubblico, ricadrà comunque sulle generazioni future, e in modo inedito.
Perché è prevedibile che le agenzie di rating che oggi certificano la solidità economica degli Stati, prenderanno in esame la condizione del patrimonio territoriale per conto di investitori attenti in modo crescente a questi aspetti. E che i valori immobiliari dipendano sempre di più dalla qualità dei luoghi non è un mistero. Gli economisti più avveduti lo dicono da un po'.
Per questo occorre cogliere i segnali interessanti. I programmi per eolico, termodinamico, chimica verde – in quel solco distruttivo dove sta anche la speculazione edilizia – sono finalmente avversati dalle popolazioni che ne temono la presenza. Questa nuova “coscienza di luogo” ci potrebbe aiutare a progettare un futuro diverso.
Negli anni in cui Matteo Renzi è stato sindaco di Firenze l’amministrazione non ha brillato per capacità di innovazione, al contrario. L’esposizione del teschio incrostato di diamanti di Damien Hirst a Palazzo Vecchio ha mostrato al mondo come si possa essere al tempo stesso pretenziosi e subalterni. Si è offerto l’edificio-simbolo della storia repubblicana di Firenze alla celebrazione di un oggetto assurdamente dispendioso, concepito come vessillo di disuguaglianza e trappola per la vanità degli oligarchi.
In programma questa primavera, la mostra dedicata a Michelangelo e Pollock prefigura un astorico confronto tra due artisti fumettisticamente presentati come “furiosi”. Il risibile match, che nelle intenzioni di Renzi dovrebbe costituire il dono d’addio alla città, conferma la predilezione per esposizioni-blockbuster di nessuna consistenza scientifica. L’ostinazione con cui si è infruttuosamente cercata la (perduta) Battaglia di Anghiari leonardesca in Palazzo Vecchio è sembrata un’avventata commistione tra dilettantismo storico-artistico, maldestro culto delle nuove tecnologie e fiction rinascimentale in chiave Dan Brown. Certo, esistevano i finanziamenti di National Geographic: ma perché emarginare la comunità scientifica italiana e internazionale? La proposta di “terminare” la basilica di San Lorenzo costruendo la facciata secondo l’”originario” progetto michelangiolesco, lanciata da Renzi a suo tempo in consiglio comunale, si è rivelata episodica e strumentale. Nel frattempo si è disinvestito da istituzioni che non avevano il sostegno dell’industria alberghiera (ma potevano rivelarsi importanti per la comunità dei residenti) e si sono patrocinate iniziative ambiguamente oscillanti tra scoutismo culturale e rapacità commerciale. Non si è infine esitato a impedire senza preavviso ai cittadini il passaggio dal Ponte Vecchio pur di assicurare maggiore privacy agli ospiti di un’esclusiva cena di gala di Luca Cordero di Montezemolo.
La prima cosa da dire è che l’attuale presidente del Consiglio sconta il limite sociologico della città da cui proviene. Firenze è una città di piccole o medie imprese attive in settori ipermaturi e a bassa tecnologia, a conduzione familiare. Alberghi, servizi, editoria finanziata o aggregata a poli museali. Salvo rare eccezioni l’orientamento non è alla competizione ma al controllo proprietario e, qualora possibile, alla rendita confortevole. Le più sbrigative “valorizzazioni” del patrimonio storico-artistico sono remunerative, relativamente anticicliche e non comportano rischio imprenditoriale: perché dunque darsi pena di finanziare progetti a medio e lungo termine, di cui beneficerebbero i cittadini, invece che “eventi” graditi ai visitatori, in primo luogo ai più abbienti? La produzione stereotipa di guide, foulard stampati con motivi botticelliani e cartoline con giglio non impone scelte strategiche né presenta le difficoltà di un’industria high-tech. “La cultura dovrebbe essere il baluardo di una sfida identitaria”, vaticina Renzi in Stil novo[1]. Non è chiaro tuttavia se intenda porre giusta enfasi sull’importanza dell’istruzione o semplicemente accompagnare le dichiarazioni dell’amico Farinetti sull’appeal di torroni e prosciutti doc. “Se è morta non è bellezza. Al massimo può essere storia dell’arte. Ma non suscita emozione”[2]. Ma che vuol dire?
Se per politica della cultura intendiamo una serie coerente di iniziative o provvedimenti volti a promuovere sollecitudine civile, discussione informata e ampiezza di confronti (quanto potremmo sinteticamente definire “apertura della mente”) dobbiamo riconoscere che tale politica non esiste per Matteo Renzi: esistono invece commercio e turismo. A mio parere l’adozione di un punto di vista aggressivamente consumistico costituisce un’incongruità per ciò che Renzi stesso rappresenta come segretario del Partito democratico. Provo a spiegare perché. Le nostre preferenze culturali sono modellate da differenti tipi di marketing. Se desideriamo che il “pubblico” (di una mostra, di un concerto) sia qualcosa di più e diverso da una folla plaudente che sorseggia cocktail e rende omaggio alla munificenza di mecenati pubblici o privati dovremmo porci il problema dell’inclusione. I “mercati culturali” non sono efficienti: esistono alti costi di accesso e pronunciate asimmetrie informative[3].
Personalmente ritengo che l’arte non debba trasformarsi in una sorta di testimonial della disuguaglianza né corteggiare in maniera esclusiva i mondi della ricchezza: almeno non se ci poniamo dal punto di vista dell’amministratore pubblico. Eppure questa è la tendenza dominante. Né credo sia lecita la riconduzione del patrimonio storico-artistico alla sola dimensione del profitto: obbliga la cultura a competere sul breve termine con industrie ben più remunerative. La Costituzione prevede l’investimento pubblico in cultura perché riconosce la specifica complessità del processo di partecipazione[4]. Al pari dell’indigenza, i deficit educativi creano “ostacoli” formidabili alla piena esplicazione sociale e professionale della persona. E’ tuttavia interesse generale, quantomeno in uno stato di diritto, che vi sia (e continui ad esservi attraverso le generazioni) un’opinione pubblica informata e indipendente. Sospinto da un pregiudizio “popolare” (o più semplicemente populista) e dallo spiccato amore per l’acclamazione, il più giovane presidente del consiglio della storia italiana ha sinora mostrato di ignorare le responsabilità di una seria politica culturale. Ha sottostimato i benefici economici e civili della ricerca. Si è circondato di collaboratori fugaci e modesti e ha privilegiato opache reti amicali. Non ha fatto ottimi studi né ha ragione di nasconderlo. In futuro farà tuttavia meglio a evitare dispersive polemiche con i “professori” per valutare senza pregiudizio punti di vista meditati[5]. Perché, malgrado accattivanti appelli all’”uguaglianza”, tanta disattenzione ai temi della cittadinanza? Suppongo che l’organicità di Renzi a cerchie economiche e d’opinione dominanti possa essere la risposta che cerchiamo.
[1] Matteo Renzi, Stil novo, Rizzoli, Milano 2012, p. 50.
[2] ibid., p. 55.
[3] Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura, Einaudi, Torino 2014, p. 44: “le tante conoscenze particolari restano scomposte come tessere di mosaico che non compongono figure… Qualunque avventuriero della conoscenza [può] infilarsi, senza incontrare ostacoli, di fronte a un pubblico ignorante e inconsapevole. Il ‘pubblico’ è già vittima della capacità specialista e dell’ignoranza generalista”. Uno stato di diritto può trascurare il compito di un’educazione permanente dei suoi cittadini?
[4] Sul tema cfr. Salvatore Settis, Paesaggio costituzione cemento, Einaudi, Torino 2010, p. 122 e ss.
[5] Con un ampio e polemico intervento apparso su Repubblica, Giovanni Valentini si è recentemente posto in scia a Renzi attaccando le soprintendenze con argomenti che sono sembrati in larga parte pretestuosi, soprattutto per la mancata distinzione, quanto alle modalità di partnership pubblico|privato, tra filantropia culturale o no profit da un lato, sbrigative forme di “valorizzazione” commerciale dall’altro (I no delle soprintendenze che rovinano i tesori d’Italia, in: la Repubblica, 9.3.2014, pp. 1, 20). A mio avviso la differenza non passa tra capitale pubblico e capitale privato: ma tra “capitale paziente” (per usare la felice definizione di Mariana Mazzucato) e capitale speculativo o rendita. Checché se ne dica la piccola o media impresa attiva oggi in Italia nell’ambito dei servizi al patrimonio non è in grado di (né motivata a) produrre innovazione: sottocapitalizzata, trae la propria sopravvivenza da relazioni politiche e vive di progetti a breve termine (Paolo Sylos Labini, La crisi italiana, Laterza, Bari 1995, p. 9 e ss.). L’attività di agenzie pubbliche in grado di selezionare competenza, procurare strategia e finanziare trasformazione – qualcosa che il MiBACT di oggi, inutile dirlo, è del tutto incapace di fare – potrebbe risultare di grande vantaggio. L’editoriale di Valentini ha sorpreso quanti, sulla prima pagina del quotidiano romano, erano soliti trovare qualificate difese del patrimonio e dell’ambiente intesi come “bene comune”. Sulle retoriche della “sussidiarietà” e le loro implicazioni ideologiche (“neoguelfe” o meglio neocesaristiche) nel contesto della discussione italiana sulle politiche della tutela cfr. Michele Dantini, Inchiesta su “patrimonio” e “sussidiarietà”. Retoriche, politiche, usi pubblicitari, in: ROARS, 9.11.2012, qui. Per una ricostruzione dell’”industria delle concessioni” cfr. Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, minimum fax, Roma 2013, p. 21 e ss. Cfr. anche, di Valentini, l’elusiva controreplica dal titolo Quelli che difendono le soprintendenze, in: la Repubblica, 12.3.2014, p. 56.
Nel nostro paese «Un capitale produttivo composto da più case ed uffici, ma meno macchinari e mezzi di trasporto, è apparso poco capace nel creare nuova ricchezza». Corriere Economia, 10 marzo 2014
Dopo oltre due anni, il segno più è nuovamente nelle statistiche dell’economia italiana. Uscito dalla recessione, il Paese torna, con fatica, a percorrere un sentiero di sviluppo. Messa da parte la contabilità della crisi, è, però, naturale chiedersi quanto tempo impiegheremo per recuperare il terreno perso. Dare una risposta a questa domanda non è semplice. Per provare ad immaginare, può essere utile ripercorrere brevemente quanto accaduto negli ultimi anni.
Viviamo una preoccupante caduta della propensione ad investire. Prima della crisi, il nostro Paese destinava alla realizzazione di nuovi investimenti oltre un quinto della ricchezza prodotta ogni anno. Nel 2013, siamo scesi al 17%, un calo di oltre 4 punti percentuali, che equivalgono a più di 60 miliardi di euro di ricchezza in meno destinati agli investimenti.
Non è, però, corretto attribuire alla crisi tutte le colpe. Il capitale investito nell’economia rappresentato dai macchinari e dai mezzi di trasporto utilizzati dalle imprese per produrre, ma anche dai capannoni, dagli uffici e dalle abitazioni, ha un valore stimato in circa 10.400 miliardi di euro. Nel corso degli anni ne è cambiata la composizione: si è ridotto il peso dei macchinari, mentre è cresciuto quello delle costruzioni, che sono arrivate a rappresentare quasi l’80% del totale. Un capitale produttivo composto da più case ed uffici, ma meno macchinari e mezzi di trasporto, è apparso poco capace nel creare nuova ricchezza.
Nel 2001, per produrre un euro di Pil erano necessari 5,1 euro di capitale investito. Già nel 2007, quando l’Italia ancora non conosceva la recessione, si era saliti a 5,6. La crisi ci ha portato a superare i 6,5 euro. In dodici anni, la capacità del nostro sistema produttivo di creare ricchezza è diminuita di quasi un terzo.
Appare, dunque, comprensibile immaginare per l’Italia tassi di crescita solo moderati, lontani da quelli che le altre economie hanno già raggiunto. Sia il Fondo monetario internazionale sia la Commissione europea prevedono un aumento del Pil reale dello 0,6% quest’anno, per poi accelerare, ma solo leggermente, nel prossimo. Alla fine del 2015, avremmo recuperato una piccola parte di quanto perso durante la crisi. Il nostro prodotto rimarrebbe, infatti, circa 7 punti percentuali al di sotto dei livelli raggiunti nel 2007. La strada da percorrere risulterebbe ancora lunga.
Per tornare a crescere in maniera sostenuta, è necessario riprendere ad investire nel capitale produttivo. Il sistema paese, però, non aiuta. L’inefficienza delle amministrazioni pubbliche, che si manifesta con i 1.200 giorni necessari per chiudere un procedimento in sede civile, o con le oltre 250 ore che ogni anno un imprenditore deve destinare all’adempimento degli obblighi fiscali, frena le imprese dal realizzare nuovi investimenti e limita l’afflusso di capitali dall’estero. Una visione d’insieme, ci dice, però, che il problema della perdita di capitale produttivo nella nostra economia ha un carattere più ampio, che va oltre la seppur importante inefficienza del sistema paese. Ma questa è un’altra storia, che dovrà, prima o poi, essere affrontata.
Una interessante esperienza integrata di gestione del territorio e della propria esistenza, da osservare e considerare in una prospettiva più ampia. La Repubblica, 9 marzo 2014, postilla (f.b.)
BOLOGNA - Mani che battevano la tastiera di un computer o segnavano in blu o rosso i compiti degli allievi. Stringevano un bisturi in sala operatoria ma anche la cazzuola per alzare un muro di mattoni: adesso si dedicano alla semina, alla crescita e al raccolto di cavoli, fragole, pomodori, zucchine, pere, mele. I cittadini diventano contadini, con centina ia di braccia rubate dall’agricoltura, e non viceversa. «Semplicemente, abbiamo riscoperto l’agricoltore che è in noi. Investiamo denaro e lavoro e ogni settimana ci portiamo a casa una cassetta con il nostro raccolto. Non ci basta il piccolo orto, al massimo dieci metri per dieci, che è un bella invenzione per i pensionati. Noi cittadini — contadini, e per giunta biologici, siamo imprenditori agricoli. Non l’un contro l’altro armati ma uniti in una cooperativa».
È arrivata in Italia — Borgo Panigale, periferia di Bologna, sette chilometri da piazza Maggiore — la prima Csa, “Community supported agriculture”, agricoltura sostenuta dalla comunità. In Germania, Francia e Inghilterra ci sono Csa attive da quarant’anni. Tre ettari di terra in affitto, per ora. Ma la cooperativa Arvaia (pisello, in dialetto bolognese) vuole affittare altri trenta ettari, così gli attuali 180 soci potranno diventare almeno 500 e oltre a frutta e verdura potranno portare a casa tutto ciò che si serve in tavola: dalla carne al formaggio, dal latte al pollo.
Qualche giorno fa Arvaia («Abbiamo scelto questo nome perché ci mettiamo uno a fianco dell’altro, come i piselli nel baccello») ha compiuto il primo anno di vita. «Siamo partiti in sette e fra pochi giorni saremo duecento. C’è davvero una gran voglia di tornare alla terra. In fondo, la nostra è una piccola rivoluzione: l’insalata che ti metti in tavola non ha più un prezzo ma un valore. Sai che è stata coltivata in modo sano e questa è una garanzia per noi ma anche per i nostri figli: la terra che lasceremo non sarà rovinata dai veleni». Il “salotto” della cooperativa è una piccola serra di nylon, sotto il colle di San Luca. C’è un fornello a gas per il caffè. «Io sono l’unico socio fondatore — racconta il presidente, Alberto Veronesi — con esperienza diretta nei campi. Sono agronomo, ho lavorato come consulente per le coltivazioni biologiche. Poi ho deciso: voglio fare il contadino assieme ad altri abitanti di città, come me. E voglio farlo condividendo la passione ed anche i rischi d’impresa».
Una quota di 100 euro, una tantum, per diventare soci. E questo è il capitale d’impresa. Poi, all’inizio dell’anno, il socio anticipa il costo delle cassette di verdura e frutta settimanali — circa 42, con la sosta invernale — che saranno ritirate alla coop o consegnate a casa. Per una cassetta di 3-4 chili si anticipano 400 euro, per quella di 6-7 chili si versano 800 euro. «E con questi soldi noi possiamo pagare la preparazione del terreno, le semine, la cura, il raccolto. E pagare noi soci lavoratori, che per ora siamo quattro ma che — se otterremo i trenta ettari — potremo diventare più di dieci. I rischi? Se ti arriva l’insetto che ti mangia i pomodori o ti spazza via la lattuga, non potrai riempire le cassette. La garanzia? Tutto viene fatto senza chimica. Un esempio: abbiamo già seminato veccie, favino e orzo che saranno già alti, ma non maturi, prima dell’estate. Allora faremo il sovescio, o concimazione verde. Con l’aratro, seppelliremo queste colture e poi semineremo i cavoli e altre piante invernali. Il sovescio sarà il concime naturale: noi non nutriamo la pianta ma il terreno».
Con una certa ironia, Arvaia ha inventato l’agrifitness. «Al sabato — ma chi può anche negli altri giorni — i soci lavorano nei campi. Così si mantengono in forma». C’è chi lavora non per fare ginnastica ma per guadagnarsi la cassetta senza togliersi gli euro di tasca. Si tratta di esodati, disoccupati e cassintegrati che così riescono a portare a casa almeno la verdura. Arvaia è anche un laboratorio. C’è chi viene a imparare il mestiere per poi magari affittare qualche ettaro e mettersi in proprio. «Per noi la cooperativa — raccontano Cecilia Guadagni (pedagogista), Stefano Peloso (artigiano) e Paola Zappaterra (storica) — è una scelta di vita. C’è chi ha perso il lavoro e chi lo ha lasciato volontariamente. Nella nostra memoria c’è il racconto dei nonni per i quali l’agricoltura era una condanna. Si spaccavano la schiena e se arrivava la grandine mangiavano riso e fagioli tutto l’inverno. Lavorare qui — Cecilia e Stefano sono a tempo pieno — è invece una scelta: è un mestiere vero e completo per il quale spendi tutto il tuo tempo, coltivando patate, piselli e relazioni umane».
Un altro caffè poi la raccolta del cavolo nero. Si deve riparare una rete che tiene lontani caprioli e lepri, divoratori delle prime insalate. «Il Comune di Bologna, che presto farà il bando per i trenta ettari, ha molte terre oggi abbandonate. Potrebbero essere date in comodato d’uso ad altre cooperative o gruppi di giovani. La terra può accogliere chi è stato mandato via dalla fabbrica. Non siamo una manica di idealisti, il bilancio è tenuto da Nunzia Liseno, laureata in Economia. Ce la possiamo fare, “produzione e partecipazione” debbono essere carte vincenti». Le nuvole se ne vanno, riappare il sole. «Fra pochi giorni fioriranno i meli».
postilla
Nel racconto dell'esperienza di agricoltura sociale bolognese emergono alcuni aspetti davvero interessanti, del resto piuttosto noti nelle esperienze internazionali simili, e che riguardano il ruolo emergente degli spazi aperti urbani sia sul versante socio-ambientale, che sanitario e dei servizi alla persona, ma soprattutto (e questo è forse più difficile da intuire immediatamente) in prospettiva i diversi equilibri fra città e campagna di questo nostro terzo millennio dell'urbanizzazione globale. Perché se è vero che soggettivamente questi spazi valorizzati grazie alla partecipazione diretta dei cittadini si pongono come una specie di istituzione parallela autogestita (il riferimento è per esempio al bell'articolo di Daniela Poli su un caso toscano pubblicato su questo sito) è anche vero che difficilmente la dimensione locale e di quartiere può cogliere l'entità del problema a scala vasta. La chiave di lettura pare ancora, come in tanti altri casi, quella dell'ente sovracomunale di coordinamento, vuoi strettamente istituzionale, vuoi in forme inedite miste, a gestire la cosiddetta infrastruttura verde territoriale, che raccorda una città sempre più densa (perché così si sta evolvendo, non dimentichiamolo) a spazi naturali e di agricoltura non-urbana. Altrimenti, al di là delle ottime intenzioni di gruppi o comitati o teorici del ritorno alle radici di qualcosa, non si andrà oltre una generica dichiarazione di principio (f.b.)
«Nel cuore dell’Appennino, nonostante tutti gli sfregi che ha subito è un posto comodo, al centro della Campania. Dove si può anche trovare il silenzio e la luce dell’Irpinia d’Oriente. Ma sembra fatta apposta per dimostrare come il Sud possa sprecare le sue bellezze e le sue opportunità». Il manifesto, 6 marzo 2014
Arrivo ad Avellino verso le nove. Per arrivarci da casa mia ci vuole un’ora di autostrada che somiglia assai poco a un’autostrada. Attraverso una provincia ancora bellissima, a dispetto del valzer delle betoniere seguito al terremoto dell’ottanta.
Avellino è più viva di tante cittadine europee. C’è una rinnovata vivacità, i buoni ci sono ancora, anche se sono attori non protagonisti. Nonostante tutti gli sfregi che ha subito è un posto comodo, al centro della Campania. In meno di un’ora si possono raggiungere posti famosi come Paestum e la costiera amalfitana, ma si può anche trovare il silenzio e la luce dell’Irpinia d’Oriente. Avellino è in mezzo all’Appennino. Il suo futuro non è la decadenza, perché non sarà la decadenza il futuro dell’Appennino.
Intanto il suo presente è molto simile a una via crucis, una città che sembra fatta apposta per dimostrare come il Sud possa sprecare le sue bellezze e le sue opportunità.
Prima stazione
Entro in città dalla la zona del nuovo ospedale. Lo chiamano città ospedaliera. Non so chi ha costruito la struttura, non deve essere un bravo architetto. Ma il problema più grande è fuori. Arrivare al pronto soccorso è come fare una caccia al tesoro. E poi si sono dimenticati di fare i parcheggi davanti alla struttura. I lavori per porre rimedio ovviamente vanno a rilento. E così chi entra ad Avellino da questo lato subito può farsi l’idea di una città slow, ma il riferimento è ai cantieri, non al cibo.
Seconda stazione
Sono davanti al teatro Gesualdo. Anche qui l’opera ha una disegno architettonico molto discutibile, anche qui il disastro è fuori. Prima hanno cercato di recuperare dei ruderi microscopici di un castello col risultato che adesso non si notano i ruderi, ma una scala di metallo. Ora forse si vorrebbe sistemare lo spazio intorno al teatro, ma i lavori procedono per avanzamenti millimetrici. Lo spiazzo che vorrebbero ricavarne è una sorta di Aspettando Godot dell’urbanistica. Dunque il teatro si fa dentro e anche fuori, dove vanno in scena infinite repliche del teatro dell’assurdo.
Terza stazione
Piazza Macello. Qui ci sono gigantesche palazzine anni sessanta, qui c’è sempre stato e c’è ancora il punto da cui partono e arrivano i pullman. Si parla da decenni di far traslocare l’autostazione, ma non succede nulla. I lavori sono stati fatti, i soldi sono stati spesi. Questo conta, per il resto i pullman possono restare dove sono. Per spendere altri soldi hanno provato a fare una piazza. Non è venuta bene, forse gli unici a goderne sono i cani che possono fare indisturbati i loro bisogni.
Quarta stazione
Vado verso il centro della città. Qui c’è il cantiere totem, la metafora di tutti i fallimenti della politica avellinese. Difficile credere che potesse essere utile un tunnel in una città che ha meno di sessantamila abitanti. Il progetto originario è stato stravolto e la possibile utilità è ancor più diminuita. I lavori al momento sono arenati e il tunnel è solo una buca dove sono stati buttati un sacco di soldi pubblici.
Quinta stazione
Sono arrivato al corso. Questo è il centro della città, la spada dritta, la gruccia a cui è appeso tutto il resto. Qui i lavori per farne un’isola pedonale sono stati portati al termine. Un luogo molto bello, nonostante ci siano ancora molti palazzi che attendono di essere ricostruiti. L’effetto è strano. Non si vedono biciclette, gli avellinesi senza macchina sembrano creature a disagio, a parte i luminari dello struscio che parlano di sport e di politica. Avellino è una città che parla molto di sport e di politica. Le due cose hanno destini congiunti. L’ascesa della squadra di calcio alla serie A e la sua lunga permanenza nell’olimpo del calcio coincise con il fulgore dei politici irpini. Il più noto è De Mita, poi ci sono Mancino e Bianco, Gargani, De Vito. Su queste figure si è scritto molto, non è il caso di aggiungere altro, se non che sono tutti ancora in attività, a parte De Vito, sindaco del mio paese, morto senza il calore del popolo al suo capezzale. Non so quale sarà il destino degli altri, auguro a tutti lunga vita, ma ho la sensazione che il volere a tutti i costi mantenere un ruolo stia offuscando la loro opera anche agli occhi dei loro sodali.
Sesta stazione
Vado verso il centro storico e la sensazione molto netta è che non esiste. A fianco al Duomo c’è un cantiere allo stato fossile, sembra provenire da un’altra era geologica. Non ci sono negozi, non si vedono persone. Hanno ricostruito le case, ma sembra un luogo senza futuro. In tante città del Sud i centri storici hanno ripreso un bel vigore, basti pensare a Bari o a Lecce. Qui c’è solo la pessima edilizia del post-terremoto e qualche cantiere. Gli avellinesi, a parte rarissime eccezioni, sembra proprio che non ce l’hanno in testa il cuore della loro città. Una volta qui aveva sede il centro Dorso. C’è ancora, ma da quando è morto Elio Sellino, l’editore che lo dirigeva, non ci ho più messo piede. Sellino aveva una grande passione per l’Irpinia, ha fatto molte cose per valorizzarne la storia passata e per ravvivare la vita intellettuale: non si può dire che le sue imprese abbiano avuto particolari riconoscimenti.
Settima stazione
Avellino ha come propaggine due paesi che si sono saldati alla città, cumulando le loro bruttezze a quelle cittadine: al Sud i paesi di maggiore dinamismo economico quasi sempre sono i più incuranti della bellezza. La strada che va verso Mercogliano è perennemente intasata di traffico. Ogni volta che mi trovo in questo ingorgo sento che non ha nessuna logica, come se servisse solo a dare l’idea di stare in città.
Ottava stazione
Sono col mio amico Livio Borriello. Dei tanti scrittori della città è quello a cui sono più legato. Avellino non è un posto privo di talenti. Un altro mio amico è il bravissimo videoartista Antonello Matarazzo. In questo caso il riferimento alle stazioni della via crucis si giustifica col fatto che una città piena di energie intellettuali non è mai riuscita a costruire un evento culturale duraturo e capace di uscire dai confini cittadini. Artisti, scrittori, teatranti avellinesi hanno sicuramente meno attenzioni di quelle che meritano; e meriterebbero, per cominciare, che l’ex cinema Eliseo, ristrutturato da tempo, non restasse chiuso come bersaglio per i vandali; e che l’ex palazzo della Dogana trovasse la via per essere sottratto alla ragnatela dei propositi mai realizzati.
Nona stazione
Sono davanti a una costruzione vasta e pretenziosa. A vederla da lontano pare la sede di una grande multinazionale. Ti avvicini e scopri che si tratta della sede di una piccola banca. Una volta si chiamava Banca Popolare dell’Irpinia. Ha cambiato nome già una volta e sta per cambiarlo di nuovo. Non ci sono più i soldi del post– terremoto. Insomma, sono davanti a una grandeur che adesso sembra decisamente fuori posto. L’Irpinia non è diventata quello che immaginavano negli anni ottanta i notabili democristiani.
Decima stazione
Nel mio girovagare in cerca di una città che non c’è da nessuna parte, ora sono davanti alla clinica Malzoni. Anche qui un senso di decadenza. La sanità pubblica, tenuta per anni volutamente in condizioni pietose, ha fatto qualche passo avanti, e questa clinica che godeva di un prestigio immotivato, sta facendo molti passi indietro.
Undicesima stazione
Di nuovo nel centro della città. Qui una volta c’era il carcere borbonico. Ora è uno spazio assai bello che può accogliere attività culturali. Il cruccio in questo caso è che anche quando si fa qualcosa di interessante non sembra godere dell’interesse dei cittadini. L’estate scorsa ci provò un coraggioso editore ad allestire un nutrito programma che si chiamava la Bella estate. Risposta tiepida, come tutte le cose che si fanno fuori dai recinti dello sport e della politica.
Dodicesima stazione
Ipercoop. Qui trovo molta gente. Vago tra li scaffali stracolmi di merce, non trovo tracce di prodotti irpini. Una terra che ha ancora tanti contadini non trova il modo di consumare i suoi prodotti. Anche da questo punto di vista la città ha le sue colpe. Invece di essere quello che è: una città in mezzo a montagne bellissime, un capoluogo che guarda ai suoi paesi, Avellino sembra protendersi inutilmente verso occidente, verso Napoli e Salerno, col risultato di prenderne i difetti e non i pregi.
Tredicesima stazione
Col mio amico Livio mi faccio un giro per i quartieri periferici. Rispetto ad altre città del Sud, non sembra esserci una grande differenza col centro. Il motivo è che in questo caso non è la periferia a far sfigurare il centro, ma il centro che tende a imitare la periferia. Mazzini, Valle, San Tommaso, cambiano i quartieri, ma i palazzi più o meno sono sempre gli stessi e pure le macchine parcheggiate e pure le facce della gente. Forse la nota più dolente viene dal quartiere Ferrovia dove c’è un sito di interesse nazionale da bonificare: l’ex stabilimento dell’Isochimica dove si scoibentava amianto. Amianto sotterrato dappertutto in quel quartiere, anche sotto i binari della ferrovia. Piccola consolazione: nella chiesa del quartiere c’è Il murale della pace, una pregevole opera di arte contemporanea.
Avellino è particolarmente omogenea nel suo grigiore. Più giriamo e più mi sembra di fare il giro della mosca nella bottiglia. È una sensazione che mi danno molte città, come se la grandezza e il senso dell’infinito ormai si fossero andati a nascondere nei luoghi più piccoli e sperduti.
Quattordicesima stazione
Passiamo davanti al mercatone. Doveva essere un contenitore di botteghe artigiane. Aperto per alcuni mesi, si è rivelato ingestibile. Architettura pessima per forma e dimensioni, costo di riqualificazione altissimo. Si aspetta solo che il tempo la trasformi in rovina.
Mi sono stancato, ho voglia di tornare verso l’altura. Lascio la parola al mio amico Livio Borriello e alla sua percezione del grigiore cittadino: Dire Avellino non è dire il nome di una città, ma quello di un posto, di una variante di luogo. Il nome Avellino non evoca nessun mondo, nessuna dimensione psichica, come accade per le vere città che hanno delle vere caratteristiche. Proprio questo però è il suo aspetto interessante, essere una città neutra, una città incolore e trasparente.
Tre palazzi storici dell’università in cambio di un edificio anonimo del 1957. Il decano, 116 docenti e gli studenti firmano una lettera di protesta. I governi lesinano i soldi alle università e i Rettori, invece di scendere in piazza , vendono al miglior offerente i beni collettivi? Il Fatto Quotidiano”, 6 marzo. 2014
Vendereste tre gioielli per una collanina d’argento? Per 116 docenti e gli studenti dell’Università di Venezia la risposta è scontata, ma non lo è per il rettore Carlo Carraro. La storica Ca’ Foscari si articola in diverse sedi. Troppe per Carraro. I tempi son quelli che sono, i fondi non aumentano e bisogna comprimere i costi. Poco importa che l’ateneo non versi affatto in cattive acque, e che tra di loro si contino gioielli architettonici come Ca’ Cappello, affacciata sul Canal grande, costruita in epoca gotica e sede storica degli studi di area orientalistica a Venezia. Come riportato anche da l’Espresso, verrà ceduta, insieme a Ca’ Bembo, nel sestriere di Dorsoduro e palazzo Cosulich, affacciato sul Canale della Giudecca alle Zattere, di fronte al Mulino Stucky. La parola d’ordine è razionalizzare, e così, in cambio di tre pezzi pregiati, l’Università se ne prende uno che dovrebbe avere la stessa metratura: Ca’ Sagredo, costruito nel 1957, anonima ex sede Enel. Così, ha spiegato il rettore, si risolverà il problema della dislocazione “costosa e problematica” in troppe sedi dei due dipartimenti della facoltà di Lingue.
Studenti e docenti accusano di averlo appreso solo a novembre. Il 15, dopo la notizia, la riunione del Cda, a porte chiuse, è stata interrotta dagli studenti che hanno occupato il rettorato. Uno di loro sarebbe stato afferrato per il collo dal rettore, il quale a sua volta denuncia di essere stato aggredito. Dopo l’episodio, 116 docenti, tra cui il Decano, Guglielmo Cinque, hanno scritto una lettera per protestare contro il comportamento di Carraro, e quella che in città viene chiamata “la permuta del secolo”.
La trattativa è infatti una vendita attraverso permuta (è questa l’ultima definizione in ordine di tempo): tre palazzi per uno grande uguale. “Senza pesare sulla spesa pubblica ma anzi con recupero di efficienza e di denaro”, si è giustificato Carraro. Ma c’è un “però”. Pochi giorni dopo, la Soprintendenza fa sapere che “Ca’ Foscari ha chiesto un’autorizzazione per la vendita, ma non per la loro permuta”. Questa è possibile solo se per il venditore c’è “un incremento del patrimonio culturale nazionale”. Tradotto: tre edifici di pregio possono essere scambiati solo con uno di pregio maggiore. Altrimenti vanno venduti. La valutazione, però, è blindata, visto che l’Agenzia delle entrate ha certificato la sostanziale equivalenza del valore: 33,6 milioni per Ca’ Sagredo e 35,2 per i tre edifici dell'università. Non importa il valore storico, né che Ca’ Sagredo non possa neanche essere chiamata così, visto che è del 1900: un metro quadro in centro vale sempre lo stesso (5000 euro). La differenza di 1,5 milioni di euro, Ca’ Foscari la chiederà alla controparte. Ma dovrà aggiungere circa 8 milioni di euro per ristrutturare l’edificio ex Enel e per traslocare parte dei due dipartimenti che vantano una biblioteca gigantesca. Forte delle valutazioni dell’Agenzia, Carraro è andato avanti e ha secretato la trattativa per motivi di privacy. Il verbale con la delega non compare sul sito.
Con chi sta trattando la Ca’ Foscari? Non si sa bene. La nuova sede è di proprietà del “Risparmio immobiliare uno energia”, un fondo immobiliare chiuso e quotato in borsa. Poco o nulla si sa dei sottoscrittori. La gestione del fondo è in mano alla PlensPlan Invest (che ha istituito il fondo ma vi partecipa solo con l’1,77 per cento), controllata a maggioranza dalla Regione Trentino Alto Adige, il resto da banche locali. Il fondo è gravato da 101 milioni di debiti, soprattutto verso Unicredit e Cassa di risparmio di Bolzano, cui ha chiesto prestiti per comprare la maggior parte dei 10 immobili in gestione, quasi tutti ex Enel. In passato il fondo è stato coinvolto come punto di arrivo per una discussa vicenda di passaggi di proprietà finalizzati all’accrescimento artificioso del valore degli immobili (tra cui il palazzetto ex Enel). Non è risultata alcuna truffa, ma in sede giudiziaria si accertarono “guadagni da capogiro”. La società ha spiegato di aver eseguito una politica di acquisti “consona al valore di mercato”. Secondo Marta Locatelli, consigliere comunale del Pdl, il valore di Ca’ Sagredo si aggira intorno ai 15 milioni. Con una mozione approvata all’unanimità il consiglio ha chiesto al sindaco di vigilare per evitare che i palazzi venduti possano diventare alberghi, come accusano studenti e professori contrari, che hanno scritto preoccupati al ministro Giannini. Sostegno è arrivato anche da docenti stranieri. Il timore è che per ripianare i debiti, il fondo venda i tre edifici agli albergatori. Prima che sparisse, nel verbale del cda si sottolineava come i tre palazzi avessero “un’ampia previsione di destinazioni d’uso ammesse (direzionale, residenziale e ricettiva)”. Anche i Comitati privati per la salvaguardia dei beni artistici e architettonici sono sul piede di guerra. La trattativa però va avanti e si concluderà presumibilmente a fine aprile.
«Sei mai stato ad Augusta, tu, Corbera?... E in quel golfettino interno, più in su di punta Izzo, dietro la collina che sovrasta le saline?… È il più bel posto della Sicilia… la costa è selvaggia, ...completamente deserta, non si vede neppure una casa; il mare è del colore dei pavoni; e proprio di fronte, al di là di queste onde cangianti, sale l’Etna; da nessun altro posto è bello come da lì, calmo, possente, davvero divino» (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, I Racconti)
L’area oggetto dell’intervento secondo il proponente, l’Autorità Portuale di Augusta, sarebbe un “relitto inutilizzabile e priva di connotati naturali né antropici” o ancora in passaggi successivi “…terreni incolti e in stato di abbandono…, caratterizzato da una depressione colma di acqua stagnante che non trova sbocco sul mare”. In realtà si tratta di un'area umida salmastra che ricade nell' “Oasi di protezione e rifugio della fauna selvatica” in agro di Augusta e Melilli (D.A 17 giugno 1999, G.U.R.S. 10 set.1999, n. 43). Questo decreto è stato poi sospeso, non annullato, con D.A. 29 dicembre 1999 che ha eseguito un'ordinanza del T.A.R. Sicilia, sezione di Catania (G.U.R.S. Parte I – n.3 del 2000).
La salina, che si estende per circa 12 ettari (art. 1 D.A. 17 giugno cit.), si colloca tra un'area industriale-commerciale e un’area storico-archeologica che comprende l'hangar per dirigibili di Augusta e la zona archeologica di “Cozzo del Monaco”, e si caratterizza per la presenza di habitat d'interesse comunitario e di un habitat prioritario (habitat 1150 Lagune salmastre, Dir. 92/43/CEE); di specie vegetali di interesse conservazionistico di cui una, l'Althenia filiformis, inserita nella lista rossa nazionale, e di numerose specie ornitiche che rientrano nell'allegato I della direttiva Uccelli 2009/147/CE (ex 79/409/CEE) come l’Airone rosso Ardea purpurea; il Mignattaio Plegadis falcinellus; la Spatola Platalea leucorodia; il Falco pescatore Pandion haliaetus; il Gabbiano roseo Larus genei; il Gabbiano corso Larus audouinii; il Fraticello Sterna albifrons; il Fratino Charadrius alexandrinus e altre ancora.
Si tratta quindi di un sito le cui valenze naturalistiche sono da ritenersi pari a quelle del pSIC/ZPS “Saline di Augusta” (ITA090014), sebbene per ragioni inspiegate non ne faccia parte. Allo stesso tempo l'ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, riporta nel proprio elenco delle zone umide italiane per il censimento invernale degli uccelli acquatici le Saline di Punta Cugno, altra denominazione delle S. del Mulinello (codice sito SR0304).
Il Formulario Standard Natura 2000 relativo alle Saline di Augusta, sin dalla sua prima stesura nel 1995 a cura dell'Università di Catania, ha proposto a SIC l'intero sistema delle Saline megaresi – le cosiddette S. Regina, S. Migneco-Lavaggi e S. del Mulinello – nessuna esclusa. Tuttavia la perimetrazione del pSIC, ed anche della ZPS, in fase di approvazione ha incluso solo le prime due saline ed escluso le terze, al primo passaggio e così pure a tutti i successivi passaggi, lasciando il sito, sotto questo profilo, privo della meritata tutela. Ed è in assenza di tale vincolo sull'area che il progetto riesce comunque a procedere.
L'ampliamento viene così descritto dal proponente nello Studio Preliminare Ambientale: “L’opera in esame non costituisce una modifica sostanziale al progetto del nuovo terminal container/molo container approvato con decreto di compatibilità ambientale del 2007, anzi ne è parte integrante e necessaria, sia ai fini della completa funzionalità dello scalo sia ai fini della regimazione idraulica delle acque dell’area retrostante”. Esso viene quindi giustificato come il già previsto e programmato sviluppo ed ampliamento della cosiddetta banchina containers per la quale fu rilasciato parere VIA positivo con decreto DSA-DEC-2007-0000224 del 27 mar. 2007 e, infatti, al SIA presentato nel 2004 fa più volte riferimento il proponente richiamando, per quello attualmente all’esame, gli studi ed i monitoraggi allora effettuati e sottoposti. La procedura VIA non può però essere frazionata e tutte le opere dell’intero progetto devono essere valutate nel loro insieme e contemporaneamente. Si può citare la nota sentenza della Corte di Giustizia Europea del 21 settembre1999 (Causa 392/96 Commissione delle Comunità europee contro Irlanda) con la quale viene stabilito che il frazionamento costituisce un rischio di elusione della VIA ed induce ad un errato giudizio di compatibilità che, invece, per essere corretto, deve formarsi ed esprimersi sull’intero progetto. Pertanto, pena la violazione dei più elementari principi, il progetto va rigettato ed il proponente richiesto di ripresentare una richiesta di VIA che comprenda sia la banchina containers che i piazzali.
Il citato parere VIA positivo per la banchina containers fu rilasciato in data 27/03/2007, ormai quasi sette anni fa, e l’opera – ad oggi – non è stata neppure iniziata. È infatti solo di recente, febbraio 2014, che i lavori sono stati affidati alla ditta vincitrice. Pertanto, essendo trascorsi oltre 5 anni, si ricorda la “Tempistica per la realizzazione del progetto: i progetti approvati devono essere realizzati entro cinque anni dalla pubblicazione del provvedimento ovvero entro un periodo più lungo, qualora espressamente previsto nel provvedimento di VIA. Se non interviene una formale richiesta di proroga da parte del proponente prima della scadenza prevista per legge e l'accettazione da parte del Ministero dell'Ambiente, trascorso il period o di cinque anni la procedura di VIA deve essere reiterata” (fonte Mattm)
Al momento è concreto il pericolo di una trasformazione irreversibile di quest'area – benché essa sia inserita nel Piano di Gestione delle Saline della Sicilia Orientale – con conseguente perdita di preziosi habitat naturali e perturbazione di specie. E ciò a dispetto di una ricca normativa di tutela ambientale sottoscritta dallo Stato italiano: la Convezione di Ramsar (1971), la Convenzione di Bonn e la Convenzione di Berna (1979), la Direttiva Uccelli 2009/147/CE (ex 79/409/CEE), la Direttiva Habitat 92/43/CE e la legge n.66 del 6 febbraio 2006 (Adesione della Repubblica Italiana all'Accordo sulla Conservazione degli Uccelli acquatici migratori dell'Africa-Eurasia, AEWA, G.U. 4 marzo 2006), e non ultimi i basilari principi di precauzione e prevenzione.
Si cancellerebbe una significativa porzione delle antiche Saline del Mulinello, le uniche che riuscirono a continuare la produzione del sale fino ai primissimi anni Ottanta ed in cui ancora oggi sono presenti le vestigia di alcune “casi ‘i salina” e gli ultimi preziosissimi resti di mulini a vento in legno, irripetibili testimonianze di un processo produttivo che nel passato ha caratterizzato fortemente l’economia di Augusta, per far posto ad una superficie pavimentata.
È amaro constatare come, agendo in tal modo, non ci si preoccupi affatto di precludere ogni auspicabile futuro di tutela e valorizzazione naturalistica del territorio; non sono infatti contemplate opzioni alternative al progetto concepito, e ci si basa su un’idea di porto commerciale risalente a 50 anni fa, rimaneggiata più volte, che si sta oggi dimostrando palesemente sbagliata e priva dei fondamentali requisiti di sostenibilità economica ed ambientale. Il Piano Regolatore Portuale (PRP) – quella parte in variante che contiene il progetto di porto commerciale – risale al 1982, approvato nel 1986 e reso esecutivo nel 1987, mai aggiornato nonostante la legge che istituiva le Autorità Portuali lo prescrivesse e mai sottoposto a Valutazione d’Impatto Ambientale. Solo di recente, luglio 2013, si palesa il bando di gara per la redazione della Valutazione Ambientale Strategica a corredo di un nuovo faraonico PRP che prevede la realizzazione di un’altra banchina containers lunga più di tre chilometri!
Inoltre l’opera è chiaramente incoerente con le necessità passate, presenti e future del traffico mercantile. La banchina e l’ampliamento vengono giustificati con il “trend” di crescita del traffico containers che dovrebbe portare a regime la loro movimentazione nel porto commerciale di Augusta a 500.000 teu (twenty equivalent unit – containers da 20 piedi). Questa stima, già fatta nel 2004 e che avrebbe dovuto essere raggiunta nel 2013 (Studio Preliminare Ambientale, p. 48), si è dimostrata del tutto inattendibile. Anche le stime, risalenti al 2006 e che prevedevano un incremento giornaliero di approdi per 2-3 navi (ivi, p. 54) si sono rivelate fallaci.
Alla luce di tutto ciò, le Associazioni del territorio hanno espresso la loro contrarietà al progetto e presentato una serie di osservazioni a tutti gli enti competenti, dal Comune alla Regione al Ministero dell'Ambiente: le principali ragioni dell'opposizione sono costituite dalla violazione delle norme comunitarie e nazionali di tutela degli ambienti naturali, dall'inosservanza delle prescritte procedure di Valutazione di Impatto Ambientale, dalla mancanza del Piano Regolatore Portuale aggiornato, dalla sottovalutazione dei rischi e degli impatti delle opere sui beni naturali e monumentali, dallo stravolgimento paesaggistico e – non ultimo – dalla ormai comprovata inattendibilità delle stime dei bisogni trasportistici e di traffico marittimo per i prossimi decenni. In conclusione, hanno chiesto al Ministero dell’Ambiente di rigettare il progetto e di dichiarare nullo il provvedimento VIA rilasciato nel 2007 per la banchina.
Il parere della Commissione Tecnica di Verifica dell'Impatto Ambientale VIA-VAS rilasciato il 27 set. 2013, inopinatamente esclude l'opera dalla procedura di Valutazione d'Impatto Ambientale e non tiene nel dovuto conto tutte le osservazioni negative e contrarie al progetto. Sebbene non se ne siano potuto ignorare alcune – tanto da non poter evitare di porre numerose prescrizioni e di dover rimandare ad altri Enti il compito di ulteriori verifiche – la decisione della Commissione non difende adeguatamente un sito che per il suo valore naturalistico, storico e culturale merita di essere tutelato.
Il Ministro per l’Ambiente dovrebbe ormai prendere atto che la Commissione VIA abbisogna di un profondo rinnovamento.
Da qualche mese si è aperta la corsa a chi dovrà ricoprire (o tornare a ricoprire) la carica di presidente dell’Autorità Portuale di Augusta scaduta nell’ottobre 2013. Anche il Ministro dei Trasporti ha l’occasione di rinnovare persone, prassi e obiettivi. Lo faranno?
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www.left.it, 28 febbraio 2014 Nel rumore di fondo dell’eterno pettegolezzo intorno ai nuovi potenti si è più volte ripetuto che quando Matteo Renzi è a Roma, dorme all’Hotel Bernini Bristol, dell’amico Bernabò Bocca, senatore di Forza Italia e genero di Geronzi. Quel Bocca che, intervistato da Vittorio Zincone nel settembre scorso, si scagliava contro i «divieti» dei soprintendenti, auspicava la realizzazione di due campi da golf a Capalbio e invocava il messianico intervento dei privati. Bocca è nel consiglio di amministrazione di Civita, il più grande concessionario del patrimonio culturale, dunque sapeva cosa diceva. E uno si chiede: ma quando, la sera, Renzi e Bocca si trovano a fare due chiacchere in albergo, se parlano di politica culturale, sono d’accordo o no? Tutto indica che la «profonda sintonia» che Renzi ha dichiarato di avere con la destra di Berlusconi in tema di riforma della Costituzione (sic!), vige anche in tema di beni culturali. Il nuovo presidente del Consiglio ha detto più volte di voler abolire le soprintendenze («Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?», così nel suo libro Stil novo, a p. 23), e, nella manciata di parole che ha dedicato alla cultura in chiusura del comizio di paese con cui ha chiesto la fiducia al Senato il 24 febbraio, è riuscito a dire solo che «se è vero che con la cultura si mangia, allora dobbiamo aprire i Beni culturali agli investimenti privati». Anche da questo punto di vista, il governo Renzi-Alfano si pone in perfetta continuità con quello Letta-Alfano. Alla vigilia della sanguinosa staffetta che lo ha cancellato, Enrico Letta aveva presentato Impegno Italia, sedicente manifesto di una svolta possibile. L’unico punto dedicato alla «cultura» (il 41esimo, su 50) prevedeva di «rafforzare la gestione economica dei beni artistici e culturali. Incentivare lo sviluppo dei servizi aggiuntivi da dare in concessione ai privati». Se si ricorda che il presidente di Civita si chiama Gianni Letta, si comprenderà forse perché il governo Enrico Letta avvertisse questa urgenza. Ma il problema va ben oltre il contingente conflitto di interessi. Infatti, il documento di Letta è stato fatto proprio dalla direzione Pd che lo ha defenestrato, ed è proprio quella l’unica cosa detta da Renzi al Senato. Una vera telepatia unisce dunque Renzi a quel Dario Franceschini che solo pochi anni fa definiva «il vicedisastro» e «una delusione continua», e che ora ha messo alla guida del ministero per i Beni culturali, pardon al ministero del Petrolio. Intervistato dal Sole 24 Ore all’indomani della nomina, Franceschini non ha infatti trovato di meglio che riesumare l’ormai inascoltabile luogo comune del patrimonio culturale come petrolio d’Italia: «Penso che il ministero della cultura sia in Italia come quello del petrolio in un paese arabo». E ancora: «La cultura è il nostro petrolio». Insomma, il ministro è riuscito ad avverare in un batter d’occhio il profetico anagramma sfornato poche ore prima da Stefano Bartezzaghi: «Dario Franceschini = Dir frasi canoniche». Il copyright della canonicissima metafora del petrolio spetta al deputato democristiano Mario Pedini (1918-2003), noto soprattutto per essere uscito nelle liste della P2. Ma a renderla celebre fu Gianni De Michelis, che nel 1985 proclamò che: «Le risorse necessarie alla conservazione non ci saranno finché non ne viene evidenziata la valorizzazione economica». Partiva allora il tormentone dei “giacimenti culturali”, al cui prodotto finale ben si attaglia questa analisi di Joseph Stiglitz: «I Paesi che abbondano di risorse naturali sono tristemente famosi per le attività di ricerca della rendita. In tali Paesi è molto più facile diventare ricchi ottenendo un accesso privilegiato alle risorse che generando ricchezza. Questo è spesso un gioco a somma negativa». La politica culturale, ancora una volta, non cambia verso. |
La partita che si gioca a Roma è un episodio del lavorio dei neoliberisti per strozzare progressivamente i possessori dei patrimoni collettivi per privatizzarli e ridurli a strumenti del capitale finanziario. Attivissimi in questa impresa gli esponenti della politica delle "larghe intese", annidati nelle istituzioni e nel nuovo parastato. Il manifesto, 28 febbraio 2014
Attribuire tutto questo alle forze di opposizione, che, in quanto tali, non hanno i numeri per far saltare alcunché, appare decisamente poco credibile; e forse le ragioni di quanto sta succedendo andrebbero ricercate nel riassetto degli equilibri interni alle diverse elite politico-finanziarie, che, a diversi livelli, hanno contribuito al raggiungimento della poltrona più ambita (per ora) da parte del ragazzo che non ha l’età.
In realtà, la partita che si sta giocando sui destini di Roma Capitale costituisce un interessantissimo laboratorio del conflitto che, nei prossimi mesi, vedrà gli enti locali al centro dello scontro.
Sapientemente spogliati nell’arco degli ultimi quindici anni da un combinato disposto di misure formato dal patto di stabilità interno, dalla drastica riduzione dei trasferimenti erariali, da vecchi tagli e più moderne spending review, fino alla costituzionalizzazione del pareggio d bilancio, gli enti locali sono ora cotti a puntino per divenire i più efficienti esecutori delle politiche liberiste, rese «inevitabili» dalla trappola del debito pubblico e dall’aver assunto come priorità indiscutibili i vincoli monetaristi imposti dall’Unione Europea.
Gli enti locali sono al centro del conflitto, in quanto ancora detentori di una quantità di beni – territorio, patrimonio immobiliare e servizi pubblici– valutabili attorno ai 570 miliardi (stime Deutsche Bank del 2011) ed entrati da tempo nel mirino dei grandi capitali finanziari, alla disperata ricerca di asset sui quali investire l’enorme massa di ricchezza privata prodotta dalle speculazioni finanziarie dell’ultimo decennio.
Non è certo un caso la trasformazione, in atto negli ultimi anni, di Cassa Depositi e Prestiti da ente per il sostegno a tassi agevolati degli investimenti degli enti locali a SpA mista pubblico-privata che si pone come partner finanziario per il sostegno alle grandi opere, per la «valorizzazione» del patrimonio degli enti locali, per l’aggregazione in grandi multiutility della gestione dei servizi pubblici locali.
Se questa è la partita, appare a dir poco insufficiente l’indignazione del sindaco Marino con relative minacce di dimissioni. Ciò che sta per essere progressivamente dismessa è la funzione pubblica e sociale dell’ente locale in quanto tale, per trasformarne il ruolo da erogatore e garante dei servizi per la collettività a facilitatore dell’espansione degli interessi finanziari e speculativi su ogni settore delle comunità territoriali.
Una soluzione immediata per evitare oggi il default di Roma Capitale verrà sicuramente trovata e avrà, in piena sintonia con il decreto «Salva Roma» appena ritirato, le medesime caratteristiche di dare un po’ di respiro nel breve per rendere più stringente la catena del ricatto nel medio periodo.
L’idea del sindaco e della giunta capitolina di poter governare la città non mettendo in discussione alcuno dei vincoli strutturali che ne imprigionano la possibilità di azione è destinata in breve tempo a rivelarsi per quello che è: nient’altro che una pura illusione oggi, destinata a divenire complicità domani.
Per questo, una soluzione vera al conflitto in corso fra Governo e Roma Capitale non può venire dalle dinamiche istituzionali, bensì solo ed unicamente da una mobilitazione sociale ampia contro la trappola del debito e per un’indagine popolare e indipendente sullo stesso, contro il patto di stabilità e per la fuoriuscita immediata dallo stesso di ogni investimento relativo alla riappropriazione dei beni comuni e alla realizzazione del welfare locale, contro le privatizzazioni e per una gestione partecipativa dei servizi pubblici locali, contro gli interessi finanziari e per una nuova finanza pubblica e sociale.
Si tratta semplicemente di riappropriarsi della democrazia
Giochetti edilizi strapaesani e truffaldini attorno a uno dei tanti gioielli sparsi e misconosciuti del nostro patrimonio culturale. Corriere della Sera, 28 febbraio 2014
Scommettiamo che se ripassasse oggi, Albrecht Dürer, non si fermerebbe più a dipingere incantato il fascinoso castello di Arco, sul lago di Garda. I ruderi del maniero, sia chiaro, hanno conservato il loro charme. Ai suoi piedi, però, dove ai tempi del grande pittore tedesco c’erano solo ulivi e un secolo fa sorgeva un delizioso albergo ottocentesco, è venuto su un ecomostro. Una gigantesca spalmata di cemento armato dalle curiose caratteristiche: i «sotterranei» emergono da terra come un muraglione. Direte: ma un sotterraneo non si chiama sotterraneo perché sta sotto la terra? Miracolo urbanistico: qui no.
La storia va raccontata dall’inizio. Cioè da quando, agli sgoccioli dell’Ottocento, il caffettiere Giuseppe Lenninger, gestore del «Caffè Restaurant Villa Emilie» rivolge una richiesta al comune: «È intenzione dell’umile sottoscritto di fare erigere nel suo podere coltivato a ulivi, posto sopra la villa arciducale (…) un piccolo casino alla Svizzera come da disegno che qui si unisce e supplica perché esso sia approvato in linea estetica. Questo piccolo fabbricato consistente in due soli locali uno sopra l’altro…».
Ma si sa, l’appetito vien mangiando. E così, dopo aver avuto il via libera per il delizioso «piccolo casino» in quel punto panoramico che spaziava sul lago, il caffettiere, avendo intuito come Arco sarebbe diventato un centro turistico amatissimo dai tedeschi, decise di ingrandirsi. E meno di un anno dopo chiedeva di dichiarare abitabile l’edificio, nel frattempo diventato tutta un’altra cosa: un elegante albergo battezzato «Villa Olivenheim», casa degli ulivi. Era il 1888.
Da allora lo stabile, del quale resta una bella cartolina, ha avuto vita travagliata. Abbandonato dopo la Grande Guerra dagli affezionati villeggianti austriaci, germanici e ungheresi a causa del nuovo confine, fu infine comprato dall’Opera nazionale invalidi per farci un sanatorio per i «ricoverati tubercolotici di guerra» con i soldi forniti in buona parte, per spirito di fratellanza, con le rimesse degli emigrati in Argentina. E quello fu l’ultimo nome che prese: «Casa Argentina». Destinata via via ad esser abbandonata al degrado finché una ventina di anni fa fu ceduta dalla Provincia a nuovi proprietari. Il tempo di mettere a punto un progetto e questi chiedono di ricostruire l’edificio. No, risponde il Comune. E accusa il progetto di aver giocato in contrasto con la legge sul «volume esistente calcolato comprendendo volumi interrati e seminterrati». La proprietà fa ricorso al Tar. Respinto.
Nel 2000 il piano regolatore cambia. Ma prevede comunque per l’ex «Argentina», dato «l’alto valore paesaggistico derivante dalla posizione strategica e panoramica dell’area» dei limiti molto rigidi, una pianta d’alto fusto ogni 50 metri quadri, una «impronta architettonica qualitativamente elevata tale da richiamare lo stile tardo ottocentesco», un’altezza massima di 10 metri e mezzo… A farla corta: il rifacimento, visto il posto, deve essere garbato. Rispettoso.
Nel 2003, nuova variante. Assai più permissiva. Anche questa, tuttavia, specifica vari punti: «le volumetrie del progetto dovranno tendere a contenere al massimo l’impatto paesaggistico e l’intrusione nelle vedute panoramiche del castello» e seguire «il più possibile le curve di livello del terreno naturale» e «l’altezza dei fabbricati sarà quella che meglio concilia le esigenze di mitigare l’impatto visivo» e insomma il tutto «dovrà essere oggetto di analisi filologica e tendere al recupero, nel possibile, della sua immagine originaria, ripristinando i fronti principali e gli apparati decorativi dell’epoca». Quali? Lo dicono le foto conservate dagli ambientalisti che combattono la pesante ristrutturazione cementizia: le colonnine, l’abbaino, le finestre ad arco, i pinnacoli…
Fatto sta che due giorni dopo il Natale del 2004, mentre la gente smaltisce distratta i postumi dei cenoni ed è avviata la cosiddetta «fase informale», l’assessore all’urbanistica Sergio Dellanna consiglia alla proprietà come motivare «la richiesta di demolire il fabbricato storico» e cioè sottolineando il degrado e lo «sfiguramento» dell’edificio, i problemi di ripristino dell’originale, l’indisponibilità di parcheggi… Poco dopo il Comune, per bocca di altri assessori, dice d’essersi convinto dell’«impossibile ipotesi di convivenza tra il recupero filologico del manufatto e la necessità di mitigare l’impatto prodotto dagli spazi destinati a parcheggio mediante il loro interramento». Arrivano le ruspe. Tutto giù.
Cosa sia adesso quello che un tempo era l’elegante «Hotel Pensione Olivenheim» lo potete vedere dalle fotografie. Quella satellitare dell’area «prima» e «dopo» mostra un incremento delle cubature originali (a proposito: nessuno ha mai ben capito a quanto ammontassero) molto ma molto vistoso. Quelle della facciata ostentano una colossale parete di cemento armato, una specie di imponente zoccolo, in cima alla quale è adagiata la struttura residenziale vera e propria con le finestre che, lassù in alto, hanno finalmente la vista sul lago che altrimenti, senza l’innalzamento di quell’«interrato», sarebbe stato invisibile.
Cosa dicono le norme comunali? Dicono che può essere definita interrata una «costruzione collocata totalmente sotto il livello del terreno o sotto il terreno di riporto preventivamente autorizzato che non presenta più di una faccia scoperta». Ma possono essere considerati «interrati» quei parcheggi scavati nella montagna dietro quel muraglione che nel punto più alto svetta sulla strada per 10 metri? E che fine ha fatto il «recupero filologico» se là dove c’era il vecchio albergo poi sanatorio c’è oggi uno spropositato complesso di vari palazzi squadrati, anonimi e biancastri di cemento?
E non è finita. Accanto alla «Residenza Olivenheim» che all’albergo originale ha rubato anche quel nome che suona così romantico e bell’époque e che sarà venduto appartamento per appartamento (auguri: centinaia di case nella zona sono invendute) dovrebbe essere «recuperato» allo stesso modo anche un altro edificio bello ma malandato dove dovrebbe sorgere un hotel. E pazienza se quella strada si chiama Via del Calvario. Un tempo, quando quella collina era davvero bellissima, col castello che si stagliava così vicino che pareva di poterlo toccare, saliva tra gli ulivi silenziosi una struggente «via crucis». C’era un capitello, lì, all’inizio. Da tempo immemorabile. Dava fastidio. L’hanno tolto.
Trent'anni di storia napoletana. Dal Rinascimento del primo Bassolino, via via fino alla decadenza e al degrado dei nostri anni. Il manifesto, 27 febbraio 2014. Alcuni riferimenti in calce
Furono raggiunti in effetti risultati straordinari: la migliore tutela del centro storico; la salvaguardia e la valorizzazione di ogni residuo spazio verde; la definizione del progetto Bagnoli, dove era stata chiusa l’acciaieria dell’Italsider; il massimo potenziamento della rete metropolitana; la formazione di un ufficio per la pianificazione urbanistica di eccellente qualità che curò la formazione del nuovo piano regolatore.
Ma non durò molto. Già all’inizio del secondo mandato cominciò lo sbandamento. In Napoli non è Berlino, Isaia Sales ha cercato di decifrare l’enigma Bassolino. Era stato il sindaco italiano più celebre nel mondo, candidato carismatico alla presidenza del Consiglio, ma per ingraziarsi gli ambienti che contano a un certo punto cominciò a cedere a un mediocre opportunismo, e finì travolto dalla vergogna dei rifiuti. Ben oltre le sue responsabilità, fu additato come “emblema del malgoverno” e coinvolto in un giudizio catastrofico sulla città. Lo stesso giudizio esteso a Rosa Russo Iervolino, dopo di lui dal 2001 sindaco per dieci anni.
Poi è stata la volta Luigi De Magistris. Alle elezioni amministrative del 2011, il candidato del centrodestra Gianni Lettieri indicò fra i primi obiettivi del suo programma l’eliminazione del piano regolatore, che per De Magistris invece non andava toccato. E sorprendentemente vinse De Magistris, con più del 65 per cento dei consensi. Ne fui felice, pensai che a Napoli tornassero le belle giornate. Il nuovo sindaco partì con l’idea di “scassare”, cioè di liberare la città dal consociativismo e dalla stagnazione degli anni targati Bassolino-Iervolino.
A tutto ciò vanno aggiunte la dissoluzione degli uffici urbanistici e, a un certo momento, addirittura la disponibilità a privatizzare un brano del centro storico.
Per quanto possa valere, ma qualcosa vale, la progressiva degradazione di Napoli è stata certificata dall’indagine del dicembre 2013 de Il Sole 24 Ore sulla qualità della vita. La provincia di Napoli sta all’ultimo posto, il centosettesimo, l’anno scorso era penultima. Le province delle altre grandi città sono classificate come segue: Bologna terza, Firenze settima, Milano decima, Roma ventesima, Genova ventiquattresima, Torino cinquantaduesima, Bari novantesettesima, Palermo centoseiesima. All’inizio degli anni 2000, quando ancora rilucevano gli effetti del primo Bassolino, Napoli stava a metà classifica. Da allora è cominciata la discesa verso l’abisso.
Alla più recente rovina di Napoli ha certamente contribuito la crescita patologica della conurbazione che si estende a tutta la provincia e a parti delle confinanti province di Caserta e Salerno. Era la corona di spine descritta da Francesco Saverio Nitti nel 1903, che dopo un secolo ha assunto connotati spaventosi. Più di cento comuni con densità insediativa senza confronti, una frammentazione amministrativa che ha favorito situazioni di insostenibile spreco di territorio (basti pensare alla dissennata sovrabbondanza di aree per attività produttive) unite al permanere di insoddisfatti bisogni di alloggi, di attrezzature e servizi. Qui si è consumata la tragedia della terra dei fuochi che negli ultimi tempi ha assunto valenza nazionale.
Su la Repubblica di Napoli, Antonio di Gennaro ha descritto «l’improvvisa, dolorosa consapevolezza del saccheggio territoriale, dei crimini che sono stati commessi contro l’ecosistema e il paesaggio, la non tollerabile incertezza circa gli effetti sulla salute delle persone; tutto questo ha finito per funzionare come crogiuolo di nuove esperienze sociali e politiche». Ma anche come fomite di risentimento e di rivolta proprio di chi si sente tradito dalla città (la città come il Palazzo del potere e del privilegio).
Forse è questo l’aspetto più grave della crisi che travolge Napoli: l’essere negata come capitale. I comuni della cintura non sono più in sudditanza ma tendono ad assimilare il capoluogo in uno scenario di illegalità e di barbarie. Mentre non c’è traccia di una cultura pubblica, napoletana o nazionale, capace di far fronte alla rovina.
Qualcuno si illude che una soluzione possa trovarsi nella Città metropolitana, riferendosi alla proposta del governo approvata a fine dicembre per l’istituzione del nuovo ente, che dovrebbe sostituire le province di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria. A parte il caso di Roma Capitale. Nell’insieme, circa un terzo della popolazione italiana. Ma quella in discussione non è una riforma. La Città metropolitana non può nascere come una Fenice dalle ceneri delle province condannate a morte con giudizio sommario, fra cori di giubilo insensato. Non è una riforma, è un guazzabuglio determinato dall’unico obiettivo del contenimento della spesa pubblica, e del tutto indifferente all’efficienza dei poteri locali nell’erogazione dei servizi o alla qualità della rappresentanza delle comunità interessate.
La proposta governativa prevede che a capo della Città metropolitana sia il sindaco del comune capoluogo, e un consiglio metropolitano formato dai sindaci dei comuni della provincia. Tutti a titolo gratuito. Un espediente inutile (anche dal punto di vista del risparmio), anzi dannoso, che soprattutto a Napoli agirebbe come acceleratore della disgregazione. Ben diversa la filosofia ispiratrice della legge di riforma degli enti locali del 1990, una riforma autentica, bloccata dalla mancanza di coraggio.
Si prevedeva una città metropolitana generata dalla scomposizione del comune capoluogo e dalla formazione di un una nuova figura istituzionale – con numerosissime competenze, dalla pianificazione del territorio ai trasporti, dalla tutela dell’ambiente alla difesa del suolo, dalla valorizzazione delle risorse idriche alla distribuzione commerciale – e con potenzialità di riforma non solo amministrativa ma politica e sociale. Le sole condizioni che a Napoli potrebbero consentire il recupero di una decente normalità.
Concludo con Giorgio Bocca: «Napoli muore: ma siccome muore da troppi anni, nessuno ci fa più caso»
Ogni tanto accade qualcosa di buono. L'Unità, 25 febbraio 2014
Il vento politico può cambiare in senso favorevole alle riforme. Lo dimostra, per esempio, la vittoria nelle non facili elezioni sarde del Pd e del suo candidato Francesco Pigliaru, un economista, non un candidato “spettacolare”, già assessore della Giunta Soru. Lo sconfitto governatore in carica del centrodestra, Ugo Cappellacci, aveva in pratica rovesciato la strategia del centrosinistra che, fra non poche difficoltà, aveva varato con successo una pianificazione territoriale incisiva, prima col decreto salvacoste, poi coi piani paesaggistici coordinati da Edoardo Salzano, puntando a salvaguardare in modo attento un patrimonio naturalistico, ambientale, paesaggistico che è la ricchezza fondamentale della grande isola.
“Abbiamo costruito villaggi fantasma e reso fantasmi i nostri paesi”, commentò allora il governatore Renato Soru lanciando una sorta di “manifesto” programmatico per la sua isola fondato su una precedenza assoluta per la salvaguardia delle coste e per il restauro, recupero, riqualificazione dell’edilizia esistente. Gli fece eco un fine intellettuale, Giorgio Todde: “C’è qualcosa che lascia inebetiti nella vita sintetica del villaggio vacanze dove si mangia, si dorme, si balla, si nuota in piscine irreali, poi si mangia di nuovo, si dorme di nuovo in un ciclo rotondo e animale di cibo, deiezione e sonno”. Dal quale la Sardegna vera è esclusa, là, fuori dal recinto.
Purtroppo la giunta Cappellacci ha ripreso quel modello sbagliato, incoraggiato da Silvio Berlusconi la cui famiglia ha interessi cospicui su centinaia di ettari di quella che dovrebbe diventare la Costa Turchese. Coi sardi sempre fuori dai cancelli. Le zone ancora integre non sono poche, persino vicino a Cagliari, oppure nell’area di Bosa, e ancora nell’Iglesiente con la Costa Verde detta anche il Sahara d’Italia per l’ampiezza inusitata degli arenili e delle dune che li proteggono. Anche 3.000 ettari ininterrotti. Soltanto in Sardegna vi sono ancora migliaia di ettari di dune, altrove distrutte e cementificate.
Per questo i piani paesaggistici devono tornare al centro di un’azione congiunta Stato-Regione per risollevare l’economia sarda depressa dalla caduta degli ormai lontani sogni industriali, messa a terra dall’abusivismo all’origine del recente disastro ambientale. Bisogna puntare di più, con intelligente senso del reale, sull’economia agro-silvo-pastorale, sui suoi vini e formaggi oggi qualificati, sul manifatturiero, sul turismo naturalistico (potrà mai decollare il Parco Nazionale del Gennargentu?) oltre che su quello balneare. Offrendo però ai collegamenti marittimi col Continente quelle tariffe convenienti che la concorrenza fra più società doveva assicurare e che invece il solito “cartello” all’italiana ha negato, a danno delle attività sarde e dei sardi.
Vento favorevole alle riforme pure in Toscana dove la Giunta di Enrico Rossi ha portato con coraggio in Consiglio sia il piano paesaggistico redatto d’intesa con Ministero per i Beni Culturali sia la nuova legge urbanistica regionale. Esempio da imitare nelle regioni dove cemento e asfalto spesso hanno impazzato intaccando a fondo la risorsa millenaria del paesaggio tuttora basilare per una migliore difesa del suolo, per una vita sociale più serena, per un’economia più equilibrata e durevole, per un turismo qualificato. La Regione Toscana ha ascoltato la voce dei comitati di cittadini provocando, di fatto, il ritiro di un progetto di golf con club house e villette a schiera al Lago Aquato, presso Capalbio, in una Maremma intatta, delicatissima, ad alta vocazione agro-silvo-pastorale. Con vini lanciati anche sul mercato Usa dove ai produttori si chiedono le immagini dei bei paesaggi da cui vengono quelle bottiglie di pregio, e più son belli e più i vini valgono. Vogliamo capirlo finalmente?
Come una perversa macchina del tempo, il discorso pubblico sul patrimonio culturale ci ha riportati di peso nei plumbei anni Ottanta. Intervistato dal Sole 24 Ore, il neoministro per i Beni culturali Dario Franceschini non ha trovato di meglio che riesumare l’ormai inascoltabile luogo comune del patrimonio culturale come petrolio d’Italia: “Penso che il ministero della Cultura sia in Italia come quello del petrolio in un paese arabo”. E ancora: “La cultura è il nostro petrolio”. Insomma, il ministro è riuscito ad avverare in un batter d'occhio il profetico anagramma sfornato poche ore prima da Stefano Bartezzaghi: “Dario Franceschini = Dir frasi canoniche”.
Il copyright della canonicissima metafora del petrolio spetta al deputato democristiano Mario Pedini (1918-2003), noto soprattutto per essere uscito nelle liste della P2. Ma a renderla celebre fu Gianni De Michelis, che nel 1985 proclamò che: “Le risorse necessarie alla conservazione non ci saranno finché non ne viene evidenziata la valorizzazione economica”. Partiva allora il tormentone dei giacimenti culturali, al cui prodotto finale ben si attaglia questa analisi di Joseph Stiglitz: “I paesi che abbondano di risorse naturali sono tristemente famosi per le attività di ricerca della rendita. In tali paesi è molto più facile diventare ricchi ottenendo un accesso privilegiato alle risorse che generando ricchezza. Questo è spesso un gioco a somma negativa”. Parole che evocano la privatizzazione dei cosiddetti “servizi aggiuntivi” avviata da Alberto Ronchey su quell'onda, nei primi anni Novanta: un processo che doveva riguardare solo caffetterie e bookshop, e che ha invece finito per fagocitare l'intera vita del sistema museale italiano, inclusa la didattica e la progettazione delle mostre. Per intendersi è come se una scuola pubblica avesse dato in gestione al Cepu non la mensa, ma l’insegnamento stesso. Un’economia di rendita che ha prodotto un oligopolio di concessionari con importanti connessioni politiche (i primi due sono Civita, presieduta da un certo Gianni Letta, ed Electa, di proprietà Berlusconi...), creando pochi posti di lavoro stabili, una produzione culturale di infima qualità (la cosiddetta “valorizzazione”) e non di rado danni materiali al patrimonio: la peggiore delle economie petrolifere.
Ma degli anni Ottanta non abbiamo solo i nostalgici: ne abbiamo ancora i protagonisti. Giuliano Amato ha dichiarato ieri al Corriere che “i beni culturali hanno uno spaventoso bisogno di manager dei Beni culturali, non necessariamente chi ha gestito un McDonald’s riesce a esserlo, ma difficilmente può esserlo un bravo archeologo”. Chissà se il giudice costituzionale Amato sa che le sue parole (oltre a cozzare col fatto che il direttore-presidente del più grande museo del mondo, il Louvre, è proprio un archeologo) cozzano con la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, imperniata sul principio che nel governo del patrimonio la “primarietà del valore estetico-culturale non può essere subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici” (così una sentenza del 1986).
Ma il più anni Ottanta di tutti è Matteo Renzi, il quale, nel suo comizietto al Senato, ha biascicato che “se è vero che con la cultura si mangia, allora dobbiamo aprire i Beni culturali agli investimenti privati”. Una vera telepatia lo unisce a quel Dario Franceschini che solo pochi anni fa definiva “il vicedisastro” e “una delusione continua”: ecco perché lo ha messo a far la guardia al barile del petrolio. Speriamo che ora non gli passi anche un cerino.
Denuncia di Legambiente. «Mentre l’Italia sta franando, il parlamento cerca di condonare gli abusi edilizi, sempre rimandando l’abbattimento degli immobili costruiti illegalmente». Realacci promette opposizione dura. Vedremo. Il manifesto, 20 febbraio 2014Legambiente. L'associazione ambientalista lancia una campagna contro gli abusi edilizi denunciando una pratica tollerata da tutti i governi che solo nel 2013 ha favorito la costruzione di 26 mila edifici fuori legge. "Il parlamento deve approvare al più presto la legge sulle demolizioni", spiega il presidente Vittorio Cogliati Dezza
Mentre l’Italia sta franando, il parlamento cerca di condonare gli abusi edilizi, sempre rimandando l’abbattimento degli immobili costruiti illegalmente. Come se già non fossero storicamente documentati gli scempi causati dagli ultimi tre condoni edilizi (nel 1985, nel 1994 e nel 2003). Il fenomeno è così diffuso che è quasi impossibile da censire (manca ancora una mappatura nazionale del fenomeno), ma basta un dato anche parziale per spiegare come mai la penisola si stia sgretolando sotto le frane e tra le piene dei fiumi: solo nel 2013 sarebbero stati costruiti 26 mila immobili illegali.
Nasce da qui l’urgenza della campagna “Abbatti l’Abuso” cui hanno già aderito il Consiglio nazionale dei geologi, quello degli architetti, Libera, Avviso Pubblico e Legambiente, che ieri ha presentato il dossier “Abusivismo edilizio: l’Italia frana, il Parlamento condona”, un atto d’accusa che chiama in causa il governo e fotografa un territorio mortificato dall’incuria e dalla storica incapacità di ripristinare la legalità, soprattutto quando si tratta di salvaguardare il bene pubblico.
Si può ben dire che il fenomeno dell’abusivismo edilizio sia l’unico settore del “made in Italy” che non conosce crisi — nonostante la perdita di quasi 700 mila posti di lavoro in pochi anni denunciata dall’associazione nazionale dei costruttori edili. Le betoniere illegali nei cantieri improvvisati, infatti, continuano indisturbate ad impastare cemento al ritmo di almeno 26 mila immobili all’anno (tra ampliamenti e nuove costruzioni). Più o meno il 13% del totale delle nuove costruzioni: una nuova casa su dieci è fuori legge.
Non è una novità ma è il sintomo di una metastasi le cui radici si perdono nei decenni: solo nell’ultimo, tra il 2003 e il 2011, sono state conteggiate circa 258 mila case abusive per un giro d’affari illegale che Legambiente stima attorno ai 18,3 miliardi di euro. E’ più complicato azzardare altre stime andando ancora più indietro nel tempo, fino agli anni del cosiddetto boom, ma in questo caso basta un semplice sguardo nelle zone più fragili del paesaggio, spesso nel sud, quasi sempre sul litorale, per ritrovare la fotografia più nitida di un disastro ormai quasi impossibile da cancellare. Sono le più brutte cartoline della Sicilia e della Campania, rispettivamente prima e seconda tra le regioni dove ha imperato l’abusivismo edilizio anche nel 2013 (nell’isola sono stati registrati 476 illeciti, 725 persone denunciate e 286 sequestri, mentre in Campania c’è stato il più alto numero di sequestri). La Sardegna nel 2013 si è pericolosamente avvicinata alla vetta e si segnala per il maggior numero di persone denunciate (988). Puglia e Calabria si sono piazzate rispettivamente quarta e quinta nella classifica dell’abuso edilizio.
“L’abusivismo edilizio — spiega Rossella Muroni, direttore generale di Legambiente – rappresenta un’autentica piaga nazionale, prospera indisturbato da decenni e non conosce crisi, nutrendosi di alibi e giustificazioni. Ad essere occupate sono state le coste, i letti dei fiumi, i pendii delle montagne, senza pensare al danno paesaggistico ma nemmeno al pericolo di realizzare case, terrazze, alberghi, scuole e uffici in aree dove non si dovrebbe piantare nemmeno una tenda da campeggio”.
Il 2013, ammette l’associazione ambientalista, è stato anche un anno piuttosto ricco di demolizioni anche importanti. Gli “scheletri” di Lido Rossello e di Scala dei Turchi sulla costa agrigentina, per esempio, finalmente abbattuti dopo venti anni di battaglia legali. Però non basta e non basterà mai, se è vero che lo scorso anno “è stato denso di tentativi per approvare in parlamento un nuovo condono mascherato sotto le forme più diverse”. Almeno cinque, sostiene Legambiente, tutti bloccati tranne uno, il ddl Falanga che un mese fa è passato al senato con 189 sì, 61 no e 7 astenuti.
Legambiente riconosce la necessità di affrontare il problema “serissimo” del bisogno abitativo, ma non ci sta quando per fermare le ruspe e salvare le case fuorilegge si invoca un presunto abusivismo di necessità. Se questo abusivismo della “povera gente” esiste, ribatte Rossella Moroni, “i Comuni hanno l’obbligo di provvedere all’assegnazione in via prioritaria di un alloggio sociale”. Altrimenti viene facile pensar male, “a meno che non si ammetta che dietro a questo alibi si celano anche le ville di notai, farmacisti, avvocati e imprenditori”.
Un articolo descrittivo dei progettoni ciclabili (di qualche utilità?) tanto di moda in Italia, e soprattutto un fulminante commento di Paolo Rumiz che ne svela il senso reale. La Repubblica, 20 febbraio 2013
Le autostrade delle biciclette, ecco l’ultimo sogno verde pedalare da Torino a Palermo
di Cristiana Salvagni
ROMA — Da Torino fino a Palermo e da Trieste giù dritti a Santa Maria di Leuca. Tutto in bicicletta. Sono due delle rotte ciclabili ipotizzate in una proposta di legge messa a punto da 80 parlamentari bipartisan per realizzare, in pochi anni, una rete nazionale da percorrere a pedalate, lunga fino a 20mila chilometri. Utile per eliminare l’uso dell’auto sui tragitti più brevi, e che passando per i capoluoghi e i parchi naturali strizzi anche l’occhio al turismo sostenibile, tanto amato dagli stranieri.
«Il 60 per cento degli spostamenti in macchina copre una distanza inferiore ai 5 chilometri, il 15 per cento addirittura inferiore a un chilometro: sono distanze facilmente percorribili in bicicletta, se si hanno a disposizione percorsi sicuri» spiega Antonio Decaro, deputato del Pd che per primo ha firmato la proposta. «Così abbiamo creato una legge nazionale sulla mobilità ciclistica che include, oltre alla rete, un piano per accorpare le regolamentazioni che regioni, province e comuni saranno obbligati a fare». Per esempio «in tutte le stazioni ferroviarie e dei bus extraurbani gli enti locali dovranno costruire una velostazione per lasciare e riparare le bici — continua Decaro — e i comuni dovranno inserire, in caso di concessione edilizia, la clausola di prevedere anche spazi di sosta per le bici, così come ora avviene per le auto».
Questa futuristica autostrada ecologica, povera di asfalto e ricca di argini fluviali e antiche strade romane, si comporrà di 18 grandi itinerari, già tracciati in una mappa curata dalla Federazione italiana amici della bicicletta. «Da Bolzano si potrà pedalare fino a Catanzaro, dalla foce del Po fino a Venezia e da Milano si scenderà fino a Bari» racconta Antonio Dalla Venezia, responsabile Fiab del cicloturismo e della mobilità extraurbana. «C’è la ciclopista del Sole, lunga tremila chilometri, ma anche la ciclovia dei Pellegrini, di duemila, che ricalca la viaFrancigena: parte da Chiasso e attraversa Siena, Roma e Benevento fino all’antica meta di Brindisi, dove i fedeli si imbarcavano per raggiungere Gerusalemme. Un itinerario del genere potrebbe diventare un cammino internazionale come quello di Santiago de Compostela » prosegue Dalla Venezia. «In un momento in cui il turismo tradizionale è in crisi potremmo puntare su quello sostenibile praticato soprattutto da tedeschi, olandesi, francesi, visto che nel nostro Paese la stagione è molto lunga». Un tipo di vacanza che ogni anno muove in Europa dieci milioni di viaggiatori.
Se dai 4mila chilometri di piste esistenti ai 20mila in progetto la pedalata non sembra breve, in realtà le strade per trasformare il sogno in realtà sono molteplici. «Si possono riadattare i 5mila chilometri di lineeferroviarie dismesse, in particolare sulla dorsale adriatica — insiste Claudio Pedroni della Fiab — mettere in sicurezza le vie a basso traffico e poi recuperare gli argini dei fiumi e le piste di servizio degli acquedotti. E ancora le consolari storiche come la vecchia Salaria, che sfiora i Monti Sibillini e Campo Imperatore, o la Flaminia, puntellata dalle parti di Fano di manufatti romani». A pagare dovrebbe essere il ministero dei Trasporti. «Chiediamo — chiarisce Decaro — che il piano della mobilità ciclistica sia inserito nel piano nazionale dei trasporti: questo significa che ogni volta che viene finanziata la mobilità ferroviaria o automobilistica una piccola percentuale delle risorse, pari al 2 per cento, deve essere destinata alle biciclette». E i tempi? «Contiamo di depositare la proposta di legge entro una decina di giorni. E, una volta approvata, speriamo che per realizzarla bastino quattro o cinque anni».
Ma all'Italia non servono percorsi ghetto
di Paolo Rumiz
FOSSE per me, renderei ciclabile tutta l’Italia, quindi ben venga un ribaltone della viabilità. Sono stanco di rischiare la vita ogni giorno che mi muovo su due ruote per fare la spesa o andare al lavoro. Quella che temo è l’Italia, la sua cultura, che è tutta contro il velocipede. L’italiano medio disprezza chi lo usa, lo odia come un intralcio. «Ma quando sparirete», mi hanno gridato un giorno.
Per questo temo il trucco. Temo che ci si butti su piste “ghettizzate” già superate in tutta Europa, utili solo a togliere la bici dalle scatole degli automobilisti. Ho anche paura che ci si faccia scudo del mezzo ecologico per buttare soldi in inutili mega-progetti, o peggio che si faccia quella scelta solo per fare, senza crederci, qualcosa di sinistra.
Ho alcune convinzioni di ferro. La vera rivoluzione non è creare riserve indiane per turisti, ma rendere possibile l’uso della bicicletta nel quotidiano. Sogno pendolari sul sellino, mamme che vanno in bici a prendere i figli all’asilo, manager con gli incartamenti nelle sacche del mezzo gommato. Non so se avete mai visto la sera, ad Amsterdam o Zurigo, il rientro dal lavoro. C’è una città intera che fruscia. Bici col rimorchioper bambini, bici a tre ruote per originali, tandem per le coppie. Giorni fa a Vienna ho visto un ministro senza scorta parcheggiare il mezzo nel cortile della cancelleria. Il Reichstag, a Berlino, ha un parcheggio per soli quaranta posti macchina. I parlamentari affluiscono col metrò, a piedi o su due ruote.
Ne saremo mai capaci? Il fatto è che in Germania chi progetta piste ciclabili va in bicicletta, in Italia no. È questo che la fa differenza. E così accade che a Nord già si sperimentino piste ciclabili ad alta velocità, competitive con l’automobile, per connettere centri e periferie. L’obiettivo, oltre le corsie preferenziali, è la condivisione della strada e la moderazione del traffico in alcune aree con velocità ridotta per i motorizzati. Quella sarebbe davvero Europa.
Secondo la soprintendente di Venezia Renata Codello, funzionaria Mibac, nella Repubblica delle cui istituzioni lei è esponente, la critica è vietata. Per punire chi si permette di criticarla usa i legali dei poteri forti che dominano sulla città. Pensare che la volevano Sindaco. Corriere della Sera 19 febbraio 2014
La soprintendente di Venezia Renata Codello ha chiesto 200.000 euro di danni a chi scrive, a Italia Nostra e alla Lipu per le critiche ai suoi silenzi sul raddoppio dell’hotel Santa Chiara (vetro, cemento e acciaio: sul Canal Grande) e sulle immense navi da crociera che sfilano davanti a San Marco.
Sulle faccende nostre non entriamo: deciderà il giudice. Sulla causa a Italia Nostra, però, a costo di infastidire la signora, è impossibile tacere. L’associazione è accusata infatti d’avere chiesto l’esonero della sovrintendente in una lettera resa pubblica, scrivono i difensori, «con l’effetto di gettare enorme discredito» sulla loro cliente. Diceva l’Ansa: «La sezione di Venezia di Italia Nostra ha scritto al ministro dei Beni culturali Massimo Bray per chiedere (...) una ispezione urgente, ritenendo la soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici Renata Codello “non all’altezza dell’incarico”». Seguiva una lista di denunce sulla «distruttiva lottizzazione di Ca’ Roman», lo «scandaloso progetto di “restauro” del Fontego dei Tedeschi», il raddoppio del Santa Chiara, «i progetti al Lido che hanno ridotto l’isola a spettro di se stessa»... Tutte cose che la funzionaria, secondo Italia Nostra, non aveva colpevolmente bloccato. Vero? Falso? Non importa: era un atto d’accusa «così violento e sproporzionato», scrivono i legali, «da risultare illecito quand’anche riportasse affermazioni veritiere». Sic. E dunque parte di «un’ingiustificata aggressione» basata soprattutto su un video di YouTube dove la soprintendente, nel 2008, parlava «incidentalmente» delle Grandi Navi in laguna con toni niente affatto preoccupati.
Tema: un’associazione che da mezzo secolo si batte per il patrimonio italiano può o non può dire la sua su una persona che non ritiene all’altezza di Venezia? Ma non è tutto. Per dar battaglia in tribunale la Codello ha scelto l’avv. Adriano Vanzetti di Milano. Cioè il legale del Consorzio Venezia Nuova nella causa (persa) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di aver criticato il costosissimo progetto del Mose, sempre contestato dagli ambientalisti. «Si trattava, da parte del Consorzio, di una iniziativa dall’evidente sapore intimidatorio», ricorda l’avvocato ed ex deputato Massimo Donadi. Al punto che l’allora sindaco Massimo Cacciari saltò su: «Voglio esprimere tutta la mia solidarietà all’ingegnere Di Tella. Fargli causa è stata una scelta insensata. Lui non ha mai offeso nessuno ma esposto con grande competenza le sue tesi alternative al Mose, che il Comune peraltro condivide».
Ora, fermo restando il diritto di ciascuno di scegliersi l’avvocato che vuole, è opportuno che chi è delegato a tutelare Venezia scelga contro Italia Nostra proprio un legale di fiducia di quel Consorzio tanto contestato dagli ambientalisti? Lecito è lecito, ovvio. Ma opportuno? Di più: sapete chi firmò nel 2012 il ricorso di «Terminal Passeggeri» contro il decreto («penalizzante») del ministro dell’Ambiente sui rifiuti dei traghetti e delle navi da crociera? L’avvocato Francesco Curato. Marito della soprintendente che rivendica il diritto di non esprimersi su quelle navi perché, alla romana, «nun je spetta». Tutto lecito, ovvio. Ma opportuno?
La città dei flussi e del movimento nel suo processo storico e critico divergente da quella degli spazi della società e dell'identità: considerazioni e riflessioni che coinvolgono sia le prospettive urbanistiche, che quelle di percezione collettiva. La Repubblica, 18 febbraio 2014
In realtà, questa deprivazione sensoriale dovrebbe sorprenderci, visto che il corpo è diventato un’icona della cultura moderna altamente consapevole di sé. (...) Il corpo, oggi, è costantemente esplorato come chiave per comprendere se stessi: le persone parlano di accettazione del proprio corpo come passo per il raggiungimento della libertà personale. Eppure, il nostro modo di costruire non contribuisce alla cultura della consapevolezza corporea di sé.
Visto come stanno le cose, potremmo essere tentati di mettere sotto accusa quelli che appaiono solo come costruttori di strutture asessuate e di spazi pubblici neutri. Gli scrittori che pensano in termini di “corpo politico” dovrebbero piuttosto trattare l’esistenza di spazi morti in una cultura ossessionata dalla sensazione corporea come l’indizio di una più generale dimensione culturale; forse l’ossessione somatica non è esattamente quello che sembra. (...) Dare la colpa ai progettisti professionisti per aver realizzato spazi morti è un po’ come sparare sul messaggero che porta cattive notizie. In realtà, la cattiva notizia che ci arriva dai portavoce dell’architettura è un’altra: e cioè che un pubblico così avido di corpi fatti a pezzi, e di letture di argomento sessuale – in cui si descrivono atti fino al più piccolo dettaglio anatomico – possa sentirsi appagato da un corpo politico in cui impera la passività.
Uno dei modi possibili di definire la passività dei sensi nella vita di ogni giorno è “fastidio nel contatto”. A questo proposito, un paio di incisioni realizzate da William Hogarth nel 1751 possono risultare illuminanti per l’osservatore moderno.
In Beer Street e in Gin Lane, Hogarth cercava di rappresentare l’ordine e il disordine nella Londra del suo tempo. Beer Street mostra un gruppo di persone sedute insieme a bere boccali di birra in tutta tranquillità. Gli uomini si appoggiano a vicenda le braccia sulle spalle e in alcuni casi compiono lo stesso gesto anche con le donne. L’atto del toccare, in questa incisione, mostra una condizione del vivere nella società: rappresenta l’ordine sociale.
Gin Lane raffigura invece una scena in cui non c’è contatto fisico tra i corpi, dove ogni persona è catatonicamente ritirata in se stessa e ubriaca di gin, dove la gente non ha consapevolezza fisica né delle altre persone, né delle scale, né delle panchine o degli edifici presenti nella strada. Questa mancanza di connessione fisica trasmette l’idea hogarthiana di disordine nello spazio urbano. Se oggi uno sconosciuto con una bottiglia di birra in mano vi si avvicinasse per la strada e provasse a toccarvi l’avambraccio, probabilmente fareste un balzo indietro per la paura — e così del resto farei anche io. Il toccare è percepito più come una violazione che non come un atto generatore di ordine. Questa paura del contatto fisico trova espressioni diverse nell’ambiente costruito che ci circonda. Nel decidere il percorso delle strade, per esempio, gli urbanisti cercano di incanalare il traffico in modo da isolare la comunità residenziale dal quartiere degli affari, oppure, se il traffico attraversa zone residenziali, fanno in modo da separare le aree ricche da quelle povere o etnicamente diverse.
Nello sviluppo della comunità, i progettisti prevedranno la costruzione di scuole o di edifici residenziali nel cuore della comunità stessa, piuttosto che ai margini dove le persone possono entrare in contatto fisico con gli estranei. Sempre di più, le comunità recintate e sorvegliate 24 ore su 24 sono presentate agli ipotetici acquirenti come modello di vita ideale. Dal punto di vista urbanistico, la paura del contatto si traduce in paura del contatto fisico con gli estranei. È facile sentir parlare di quanta capacità di sopportazione sia necessaria per gestire il contatto con esseri umani “esterni”. Un modo più mirato per comprendere questa paura è quello di risalire alle sue origini, rintracciabili nell’evoluzione di un’altra esperienza corporea nello spazio: il movimento.
Un importante punto di partenza per questa storia congiunta del contatto e del movimento è stata l’apparizione, nel 1628, del De motu cordis del fisico William Harvey, un lavoro che analizza il cuore presentandolo come una gigantesca macchina che pompa sangue in tutto il corpo. Secondo Harvey, il meccanismo della circolazione è ciò che permette al corpo di crescere e di rimanere sano fino alle sue estremità inferiori – una visione che ha sfidato sia le vecchie credenze mediche sul calore innato del sangue che quelle religiose sul cuore come sede dell’anima. Questa nuova comprensione del corpo si è rivelata rivoluzionaria, modificando non solo le pratiche dei medici ma anche quelle di altre figure professionali.
Prima fra queste, la progettazione urbanistica. Gli urbanisti hanno infatti adottato le scoperte di Harvey sulle virtù del movimento, ritenendo che la circolazione desse vita al corpo politico urbano così come al corpo umano. Tali convinzioni si sono quindi espresse nei piani delle villes circulatoires del XVIII secolo, come Karlsruhe in Germania e, in particolare, nel piano L’Enfant per Washington DC, elaborato da Ellicott. Per descrivere le strade, i progettisti parlavano di vene e arterie. La scoperta di Harvey che la circolazione del sangue unifica il corpo in un sistema totale è stata adattata a una visione di coerenza sistematica della città: l’insediamento più lontano lungo il perimetro deve essere collegato al centro città attraverso ciò che l’urbanista Manuel Castells chiama “lo spazio di flussi”. (...) Queste credenze sul movimento sistematico nell’ambiente costruito hanno determinato una rottura significativa con le vecchie credenze barocche sulle virtù del movimento. Quando Papa Sisto V pianifica la Roma barocca, immagina il movimento lungo le strade della città come se si trattasse di percorsi verso destinazioni precise: le strade diventano vie di pellegrinaggio in direzione dei sette luoghi sacri della Roma cristiana.
Il Piano L’Enfant per Washington, al contrario, non è pensato solo in termini di pellegrinaggio verso i luoghi del potere. Non tutte le strade principali sfociano infatti in edifici monumentali. Si tratta invece di una visione più democratica, in cui le persone sono libere di muoversi nell’intera città e non sono costrette a dirigersi ineluttabilmente verso i luoghi e i santuari del potere. È stato durante l’esplosione urbanistica del XIX secolo che i progettisti hanno elaborato la discontinuità tra il movimento e lo spazio e hanno continuato a usare il vecchio immaginario harveyiano delle strade come arterie e vene. A poco a poco, però, il movimento ha assunto una forma più direzionale: l’allontanamento dal centro è diventato più importante del movimento verso il “cuore” della città. La direzionalità è apparsa, ad esempio, nel grande piano stradale del barone Haussmann, elaborato tra il 1850 e il 1860 per la città di Parigi. Quando Robert Moses concentrava la sua pianificazione stradale sul modo in cui lasciarsi alle spalle New York City con tutti i suoi problemi, faceva leva sull’impulso tipico della grande espansione urbanistica avvenuta all’epoca del grande capitalismo: quello di fuggire dai centri di diversità della città, densi e incontrollati.
Velocità significava che la gente “perdeva il contatto” con il luogo: questa non è solo una metafora. Perché in effetti le tecnologie della velocità hanno de-sensibilizzato e placato il corpo in movimento. Alla guida di un’automobile, il piede compie micro-movimenti, gli occhi si spostano solo a tratti dalla strada che si ha davanti allo specchietto retrovisore. La stessa velocità diminuisce la stimolazione sensoriale dei luoghi che si vedono passare. Guidare è come guardare la televisione, perché le rappresentazioni scorrono rapide davanti a un corpo immobile, o in una posizione fissa per ore e ore come davanti allo schermo del computer. In questa condizione, il contatto con gli altri, in particolare il contatto con l’ignoto, il non programmato, si affievolisce, e viene sostituito dalla mera visualizzazione dello schermo. Il moderno corpo politico è segnato dalla perdita delle capacità sensoriali causata dalla circolazione sempre più rapida di beni, di servizi e di informazioni.
Mentre auspichiamo che il piano paesaggistico possa entrare in vigore al più presto, sfuggendo alle forche caudine della cattiva politica, per dare una risposta certa e concreta al consumo di suolo, portiamo all’attenzione la contraddizione di una Regione che favorisce da decenni una devastazione senza precedenti in un Parco Regionale, da due anni promosso GeoParco Unesco, cioè il Parco Regionale delle Alpi Apuane. Il Parco è nato con le cave al suo interno, è nato ostaggio della politica e di pochi industriali.
Per combattere il consumo di suolo è indispensabile eliminare gli equivoci sull’edificabilità e ribadire legislativamente, come suggerì la Corte costituzionale, che lo jus aedificandi non è tra i contenuti della proprietà privata dei suoli, come invece vorrebbe la proposta di legge Realacci
1. – Il consumo di suolo e le lacune legislative.
La cementificazione, l’impermeabilizzazione e l’edificazione hanno stravolto il nostro territorio, esponendolo a frane, smottamenti e distruzioni di ogni tipo. Di fronte ad un simile disastro da più parti si sono levate voci allarmate e sono piovute in Parlamento numerose proposte di legge, che promettono di “limitare” il consumo dei suoli agricoli, ammettendolo soltanto se non sia possibile trovare soluzioni all’interno di aree urbanizzate.
Si parla, ovviamente, di “suolo”, cioè di quella parte della superficie terrestre che è a diretto contatto con l’atmosfera e che, attraverso l’azione combinata di acqua, minerali e batteri, condiziona la vita dell’intero pianeta. Sennonché, dal punto di vista giuridico, non è possibile parlare di “suolo” senza parlare anche di “sottosuolo” e di “soprassuolo”. Infatti, queste tre entità sono tra loro strettamente connesse e costituiscono nel loro insieme una entità complessa, molto spesso presa in considerazione dal diritto, che si chiama “territorio”. Si vuol dire, in altri termini, che “suolo” e “territorio” sono tra loro entità inscindibili, per cui un discorso sul suolo non può prescindere da un discorso sul territorio.
E, a questo proposito, non si può fare a meno di ricordare che il “territorio” è oggi attaccato da tre temibilissimi nemici: la crisi finanziaria, che produce la sua “svendita”, e quindi, anche la svendita dei suoli; la “privatizzazione”, che trasforma la proprietà collettiva del territorio e dei suoli, in proprietà privata, sottraendo risorse a tutti, a vantaggio di pochi; ed infine, la “cementificazione e impermeabilizzazione dei suoli” con gli evidentissimi e gravissimi danni che produce.
Comunque, concentrando l’attenzione sulla tutela di quella parte del territorio definita “suolo”, è da avvertire che effettivamente il discorso deve concentrarsi sulle “cementificazioni e sulle impermeabilizzazioni”, che sono la causa prima del suo “consumo”.
Al riguardo, si deve, tuttavia, rilevare che le proposte che sono state depositate in Parlamento, ed in primis quella dell’on.le Realacci, non tengono presente un dato di fondamentale importanza: il fatto cioè che ormai il costruito prevale sul non costruito e sono stati ampiamente superati, e di molto, tutti i limiti per assicurare la “sostenibilità” ambientale di nuove costruzioni.[1]
Ne consegue che oggi non è più possibile interpretare il problema in termini di “limitazione”, ma è diventato ineluttabile parlare della cosiddetta “opzione zero nel consumo di suolo”. Lo impone, a tacer d’altro, il fatto che è stato turbato in modo gravissimo l’equilibrio idrogeologico del nostro Paese, sicché è assurdo continuare a ragionare come se fossimo agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso, e non oggi, quando si è già distrutto inesorabilmente tutto il territorio. Si è costruito sui terreni agricoli, sulle aree golenali, sugli argini dei fiumi, sulle pendici dei vulcani, sulle spiagge, ecc. E, di fronte a tale immane disastro non è più immaginabile parlare di consumi ulteriori di terreni agricoli, forestali, o addirittura di orti urbani, ricorrendo al subdolo concetto di “compensazione ambientale”, che non serve ad altro se non a spostare il consumo di suolo da un luogo ad un altro. In parole povere un “artificio” per mettere a tacere, ingannandole, le coscienze dei più attenti ai problemi ambientali. Ma v’è ancora di più. Vi sono proposte, come quella già indicata, che parlano della elargizione, da parte dell’amministrazione pubblica, del ius aedificandi, su terreni agricoli, quasi fosse moneta sonante, per coloro che si impegnano a risanare zone urbanizzate. Siamo arrivati ad uno stato confusionario generale.
Occorre, dunque, rimeditare ab imis il problema e scoprire quali siano, sia pur limitando il discorso all’aspetto puramente giuridico, le cause di questo immane disastro.
Ponendosi in questa prospettiva, salta immediatamente agli occhi che causa principale del disastro è il convincimento, diffusissimo nell’immaginario collettivo, secondo il quale il “terreno” serve soprattutto per edificarvi sopra. In altri termini, nel “contenuto” del diritto di proprietà privata sarebbe incluso il ius aedificandi, il cui esercizio ha bisogno soltanto di un “permesso” dell’autorità comunale, quello che una volta si chiamava “licenza”, ed oggi “permesso di costruire”, e che solo per breve tempo, grazie alla legge n. 10 del 1977, fu chiamata “concessione edilizia”.
In realtà questo presunto “diritto di costruire”, inteso come insito nel diritto di proprietà fondiaria, non è previsto da nessuna norma del codice civile. Un tentativo per dare un riconoscimento legislativo al ius aedificandi fu fatto dall’On.le Maurizio Lupi, il quale, a nome del partito “Forza Italia”, presentò nel 2003 una proposta di riforma del governo del territorio, che, benché approvata dal Senato, fu poi bocciata dalla Camera dei deputati[2].
Né è possibile attribuire il valore di una disposizione di legge alla sentenza della Corte costituzionale n. 5 del 1980, che ha concepito il diritto ad edificare come “insito” nel diritto di proprietà, facendo sì che il DPR 6 giugno 2001, n. 380, introducesse poi la dizione “permesso di costruire”. Infatti, la Corte costituzionale ha il potere di “annullare” le leggi e non quello di “sostituirsi” al legislatore. E’ pertanto estremamente importante che le recenti proposte di legge sul consumo dei suoli facciano chiarezza su questo punto, ponendo in rilievo che il ius aedificandi non rientra tra i contenuti del diritto di proprietà privata.
Ed è da sottolineare che i Comuni di rado hanno agito nell’interesse effettivo delle collettività amministrate, ed a ciò sono stati indotti da riprovevoli leggi statali, che hanno favorito gli interessi dei singoli, spingendo i Comuni a concedere il massimo possibile di “permessi di costruire”. Si tratta, innanzitutto, come puntualmente nota Salvatore Settis[3], del Testo unico per l’edilizia, approvato con DPR 6 giugno 2001, n. 380, il quale, all’art. 136, comma 2, lett. c), ha abrogato il sano principio della legge Bucalossi (art. 12, della legge n. 10 del 1977), secondo cui “i proventi da oneri di urbanizzazione dovevano essere obbligatoriamente utilizzati dai Comuni per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, il risanamento dei complessi edilizi compresi nei centri storici, le spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale”. Di conseguenza, a seguito di tale disposizione legislativa, i Comuni si sono sentiti liberi di impiegare i cosiddetti oneri di urbanizzazione anche per le spese correnti e, essendo queste ultime sempre crescenti, hanno cominciato ad ”allentare la guardia sulle autorizzazioni a costruire, o peggio a stimolare l’invasione del territorio modificando piani regolatori, concedendo eccezioni e deroghe, chiudendo un occhio e più spesso entrambi” , ed il fatto peggiore è stato che, essendo diventati gli oneri di urbanizzazione un introito del quale si aveva bisogno anno per anno, i Comuni hanno “accresciuto il numero delle costruzioni, allentando i controlli, cannibalizzando il territorio”[4].
Né è da dimenticare l’effetto perverso provocato in proposito dall’art. 3, comma 3, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148, secondo il quale “sono soppresse le disposizioni normative statali incompatibili con il principio per il quale l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge ”. Si tratta di una legge palesemente incostituzionale, poiché fonda il suo disposto solo sulle prime cinque parole dell’art. 41 della Costituzione, dimenticando che questo articolo, dopo aver affermato che « l’iniziativa economica privata è libera », prosegue dicendo che essa: «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana ». Dunque una disposizione di legge assurda, che, tuttavia, ha dato maggior forza agli speculatori edilizi nel chiedere alle amministrazioni comunali di far presto a concedere loro i richiesti permessi di costruire.
2. – Il capovolgimento di una diffusa ed erronea convinzione.
E’ da porre in evidenza, a questo punto, che costruire, come sopra si accennava, significa “modificare il territorio” e che, di conseguenza, questo può esser fatto soltanto da chi è il “proprietario” del “territorio” medesimo, considerato, peraltro, nella sua interezza, tenendo conto, cioè, anche del paesaggio, dei beni artistici e storici e degli altri beni costruiti dall’uomo. Si deve cioè affermare con forza che il cosiddetto ius aedificandi appartiene al popolo, che è proprietario del territorio a titolo originario di sovranità e non al singolo cittadino proprietario di un appezzamento di terreno. E si deve subito avvertire che l’interesse del popolo deve esser fatto valore dal Comune, come ente esponenziale dalla comunità comunale, ma anche dai singoli cittadini, come vedremo in seguito, con l’esperimento dell’azione popolare.
Si oppone a questa indiscutibile verità, come poco sopra si osservava, la cultura borghese e quella ben più invasiva del neoliberismo economico, le quali hanno diffuso l’errato convincimento “dell’assolutezza e della illimitatezza” della proprietà privata, che perciò avrebbe come contenuto anche il diritto di costruire, nonché una prevalenza della “proprietà privata” del singolo, sulla “proprietà collettiva” di tutti sul territorio, con la conseguenza che la “tutela dell’interesse generale” viene vista come una “limitazione” della proprietà privata. E tutto questo a prescindere dalle chiarissime disposizioni della Costituzione, che vengono del tutto ignorate, come se fosse possibile leggere le disposizioni del codice civile indipendentemente dalle norme costituzionali.
E’ indispensabile “capovolgere” questa prospettiva, mettendo a confronto i due citati istituti, confronto che porrà in evidenza la “precedenza storica” della proprietà collettiva del territorio sulla proprietà privata, ed una “prevalenza giuridica” del primo diritto sul secondo.
3. – La precedenza storica della proprietà collettiva su quella privata.
Il punto di partenza di tutto il discorso è che il territorio, alle origini, è sempre appartenuto al popolo a titolo di sovranità. E’ sufficiente pensare come nasce la “Comunità politica”, per rendersene conto. Tra i vari esempi, il più pertinente sembra quello relativo alla nascita della Civitas Quiritium. Quando Romolo, o chi per lui, tracciò il solco dell’Urbs (che non ancora si chiamava Roma, poiché questo nome, dall’etrusco rumen, fu dato per l’appunto dai re etruschi), distinse il terreno su cui doveva nascere la Città dai terreni circostanti e dette luogo a tre fenomeni giuridici concomitanti: la nascita del Populus (nel senso che l’aggregato umano che si stanziava nella Città, diveniva una unità giuridica complessa, nella quale si distingueva il “civis”, il singolo cittadino, come “parte costitutiva” del tutto, ed il Populus, cioè l’intera cittadinanza); la nascita del “territorium” (da terrae torus, letto di terra), sul quale si stanziava il popolo, e infine, la “sovranità”, il potere sommo, riconosciuto al popolo stesso, di porre confini, non solo ai terreni, ma anche ai singoli cittadini, in modo che le loro libertà venissero limitate al fine di assicurare la convivenza civile.
In sostanza vennero in evidenza due concetti chiave: quello di “confine” e quello “della parte e del tutto”, nel senso che la “confinazione” dei terreni e delle libertà individuali fu essenziale per la nascita della Comunità politica, mentre lo stesso concetto di popolo, non si risolse nella concezione individualistica di una sola entità giuridica, ma implicò la rilevanza giuridica, sia del tutto, sia dei singoli cittadini, in quanto parti strutturali dell’insieme costituito dal popolo. Insomma una concezione “collettivistica” e non, come si è a lungo ritenuto, una concezione “individualistica”[5].
In sostanza, quello che è necessario porre in evidenza è che la nascita di una Comunità politica implica che, originariamente, il territorio appartiene al popolo a titolo di sovranità, nel senso che tra i poteri sovrani del popolo rientra anche la “proprietà collettiva” del territorio.
Lo dimostra a tacer d’altro, che per “cedere” a singoli soggetti parti del territorio è stata sempre ritenuta necessaria un atto solenne la divisio, preceduta da una manifestazione di volontà del titolare della sovranità. La prima “divisio” fu operata, secondo le testimonianze letterarie, dallo stesso Romolo, ma il Niebhur ha ritenuto che si trattasse di Numa Pompilio, il quale, evidentemente dopo una deliberazione dei Patres familiarum, divise il territorio dell’Urbe tra una parte assegnata ai singoli Patres, due iugeri a testa, cioè mezzo ettaro (quanto è appena sufficiente per soddisfare le elementari necessità familiari), ed una parte riservata all’uso comune della cittadinanza, il cosiddetto “ager compascuus”. Da notare che non si trattò affatto della cessione in proprietà privata, poiché sulla parte divisa i singoli assegnatari ebbero un potere indefinito, detto “mancipium”, e non un diritto reale come il diritto di proprietà privata. Ed è ancora da notare che anche le successive assegnazioni ai veterani delle terre conquistate avvenne mediante la solenne cerimonia, di origine etrusca, detta “divisio et adsignatio agrorum”, sempre preceduta da una lex centuraiata o da un plebiscitum, cioè da una manifestazione di volontà del popolo sovrano. D’altro canto, anche in questa seconda ipotesi, trattandosi di res nec mancipi, veniva trasferita soltanto la possessio (da potis sedeo, siedo da signore), cioè una res facti e non un vero e proprio diritto. Per parlare di un vero e proprio diritto reale, corrispondente più o meno alla nostra proprietà privata, fu necessario attendere l’inizio del I secolo a. C., quando, dopo una tormentata evoluzione giurisprudenziale, si cominciò a parlare di ”dominium ex iure Quiritium”, che comunque, fu oggetto di controllo pubblico, e comportò soltanto il ius utendi et fruendi, ma non il ius abutendi, del quale si parlò solo durante il medio evo.
Nel medio evo, peraltro, lo schema rimase lo stesso. Infatti, se si pensa che la sovranità, dal popolo era passata all’Imperatore, si capisce pienamente perché si parlò di un dominium eminens dell’Imperatore e di un dominium utile di chi lavorava la terra. Il territorio, insomma, apparteneva a chi era titolare della sovranità. L’appartenenza del territorio, in altri termini, rientrava nella somma dei poteri sovrani e questa appartenenza continuava ad esistere (Carl Schmitt parla di “superproprietà”) anche se in concreto la proprietà risultava assegnata ad un singolo cittadino.
La rottura dello schema romanistico si è avuta con la restaurazione napoleonica, la quale è stata realizzata in base al principio “Il potere al Governo, la proprietà ai privati”. Si è staccato così il diritto dall’economia e si sono poste le premesse per l’affermarsi delle teorie neoliberiste, che si disinteressano della persona umana e mirano soltanto al “massimo profitto”, dando origine al dannosissimo fenomeno della “finanziarizzazione dei mercati”, alla “svendita del territorio” ed alle perniciose “privatizzazioni”, che tolgono a tutti per dare a pochi.
4. – La prevalenza giuridica della proprietà collettiva su quella privata.
La salvezza sta nell’applicazione della vigente Costituzione repubblicana, la quale ha accolto in pieno l’insegnamento dei giureconsulti romani. La Costituzione, infatti, non solo ha sostituito lo Stato persona di stampo borghese con lo Stato comunità, qual era la Respublica Romanorum, ma ha riportato in primo piano la “proprietà collettiva” del territorio, ponendo in luce che la “proprietà privata” è semplicemente “ceduta” ai singoli con un atto di volontà del popolo sovrano, e cioè mediante legge. Alla “precedenza storica” della proprietà collettiva su quella privata si accompagna oggi la “prevalenza giuridica” della prima sulla seconda.
Lo chiarisce l’art. 42 della Costituzione, secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta dalla legge….allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, sancendo cioè che tale diritto è giuridicamente tutelato soltanto se ed in quanto “assicura” “lo scopo” della “funzione sociale”, rende cioè tutti partecipi dei benefici che provengono dalle attività produttive.
Il principio della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato è ribadito, inoltre, dall’art. 41 della Costituzione, riguardante “l’iniziativa economica privata” e cioè l’attività negoziale che il proprietario pone in essere per disporre della proprietà privata, e cioè per acquisire o vendere la proprietà dei beni economici.
Si legge in detto articolo che “L’iniziativa economica privata è libera”. “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Come si nota, alla “funzione sociale” dell’art. 42 Cost., fa riscontro “l’utilità sociale”, di cui al precedente art. 41 Cost.
Ma non è tutto. Questa “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, va coniugata con la “distinzione” tra “proprietà pubblica” e “proprietà privata”, di cui al primo alinea del citato art. 42 Cost., secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata”.
In sostanza, dal combinato disposto delle citate disposizioni emerge con estrema chiarezza che la nostra Costituzione, non prevede affatto un solo tipo di proprietà, ma due tipi: quella pubblica e quella privata, sancendo, nello stesso tempo, la “prevalenza della prima sulla seconda”. Insomma, i “limiti” alla proprietà di cui pure parla l’art. 42 della Costituzione, affermando che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti”, riguardano soltanto la proprietà privata, come è espressamente detto, e non la proprietà pubblica, la quale, in questo contesto, si identifica con la “proprietà collettiva demaniale”, che spetta al popolo a titolo di sovranità, come da tempo affermato da Massimo Severo Giannini[6].
Questa distinzione, inoltre, è stata chiarita da tempo dal Regolamento di contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 4 maggio 1885, n. 3074, il quale affermava testualmente: “I beni dello Stato si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a titolo di sovranità, e formano il patrimonio quelli che allo Stato appartengono a titolo di proprietà privata” [7].
Insomma, la “dinamica giuridica” che segue la Costituzione ripete puntualmente la stessa dinamica che si è svolta storicamente. All’inizio, l’intero territorio appartiene al popolo a titolo di “sovranità”. In seguito, parte del territorio viene, con “legge”, “riservato” all’uso diretto della popolazione, restando “proprietà collettiva demaniale” come res extra commercium, e cioè come beni “inalienabili, inusucapibili ed in espropriabili”, e parte viene “ceduta” a privati, diventando oggetto di “proprietà privata”.
E questa parte “ceduta” in proprietà privata, sia ben chiaro, deve comunque perseguire una “funzione sociale”, poiché ciò che conta, prima della tutela individuale, è l’”utilità sociale”, di cui parla l’art. 41 della Costituzione.
Insomma, sia la storia degli istituti giuridici, sia, direttamente, la nostra Costituzione confermano quanto sopra si diceva: si deve parlare di un “capovolgimento” delle tradizionali concezioni borghesi, rinverdite e rafforzate dalle teorie neocapitalistiche, e ritenere che non è il pubblico che “limita” il privato del suo uso del bene comune, ma è il privato che sottrae alla collettività la possibilità di utilizzarlo per il bene comune.
5. – Il ius aedificandi.
Se si tiene presente, come sopra si è tentato di dimostrare, che la “proprietà privata” deriva da una “cessione” di parti del territorio a singoli individui da parte del popolo, il quale, non solo ha la “proprietà collettiva” dell’intero territorio, ma conserva, come ricorda Carl Schmitt,[8] anche una “superproprietà” o, se si preferisce un dominium eminens sulle parti “cedute”, diventa davvero inconcepibile ritenere che, oltre al diritto di appartenenza di un appezzamento di terreno, sia stato “ceduto” anche il diritto di “modificare il territorio” nella sua interezza, potere che è ovviamente rimasto nei “poteri sovrani del popolo”.
Quando ci lamentiamo degli scempi paesaggistici, della cementificazione, delle distruzioni della natura non possiamo limitarci alla “denuncia”: è un nostro “diritto di proprietà collettiva” che è stato leso, e questo diritto è ben più grande e più tutelato del diritto di proprietà privata. E, comunque, come si è detto, il ius aedificandi non ha nulla a che vedere con il diritto di proprietà privata. Non c’è nessuna disposizione del codice civile che lo preveda, mentre, come è noto, lo stesso codice ha cura di precisare che questo diritto deve fare i conti con i “limiti posti dall’ordinamento giuridico”. Nel caso poi della costituzione a favore di un terzo da parte del proprietario privato del diritto di costruire e mantenere su suolo proprio una costruzione (art. 952 del codice civile), è evidente che tale costituzione di un diritto reale limitato è condizionata al riconoscimento da parte dell’Autorità competente, di quel particolare terreno come rientrante in una zona urbanizzata. Si vuol dire che è “l’urbanizzazione” del territorio, è in ultima analisi la “cessione” ai singoli di questo potere rientrante nella proprietà collettiva del territorio stesso, a far nascere in capo ai singoli proprietari di terreni il diritto di costruire. Fuori di questa “cessione”, il proprietario privato non può assolutamente vantare un ius aedificandi come insito nel suo diritto di proprietà.
Ed è per questo che è corretto parlare di “concessione” del diritto di costruire, come prevedeva la legge Bucalosi, n. 10 del 1977, ed è fortemente in contrasto con tutti i principi del nostro ordinamento parlare di “licenza di costruzione”, com’era una volta, o di “permesso di costruire”, com’è oggi.
Come si è sopra chiarito, tutto ciò dipende dal fatto che la cultura borghese e neoliberista si è tenacemente opposta all’idea stessa della “proprietà collettiva del territorio”, che è invece viva e presente nel nostro ordinamento costituzionale e contiene anche questo supposto “diritto di costruire”, che, per sua natura non può appartenere a singoli soggetti, ma a tutti i consociati.
6. – La dinamica costituzionale per lo sviluppo economico. La partecipazione dei cittadini.
Il problema dell’attuazione del ius aedificandi, rende necessario qualche cenno sulle linee direttrici che la nostra Costituzione pone a proposito dello sviluppo economico.
Come è noto, la nostra Costituzione parte dall’idea di comune esperienza secondo cui la ricchezza proviene da “due fattori”: “le risorse della terra” ed “il lavoro dell’uomo”. Infatti “due sono gli obiettivi” che la stessa si propone di raggiungere: a) “tutelare il territorio”; b) “proteggere il lavoro”. Ed è molto significativo, in proposito, il fatto che il Titolo III, Parte prima, della Costituzione, dedicato ai “Rapporti economici”, è in pratica dedicato, sia alla tutela del territorio, sia alla tutela del lavoro.
In particolare parlano del territorio l’art. 42, primo comma, secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti e a privati”, nonché l’art. 44, primo alinea, secondo il quale occorre “conseguire il razionale sfruttamento del suolo”. Parlano invece di lavoro, l’art. 35, secondo il quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, l’art. 36, secondo il quale “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente a assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, nonché l’art. 38, importante per l’affermazione di principio secondo cui tutti devono lavorare, ed è esentato da questo dovere soltanto “il cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, per il quale è previsto il “diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale”.
Il quadro costituzionale, relativo ai due essenziali fattori della produzione, tuttavia, non si ferma qui. Basti pensare, quanto alla difesa del territorio, al riferimento dell’art. 9 alla tutela del paesaggio e dei beni artistici e storici[9], nonché alla disposizione dell’art. 52 Cost., secondo il quale “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. E, per quanto riguarda il fattore lavoro[10], al primo alinea dell’art. 1 della Costituzione, secondo il quale “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, nonché all’art. 4, primo comma Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Tutela del territorio, e cioè delle risorse della terra[11], e tutela del lavoro, e cioè della piena occupazione, sono, dunque, obiettivi fondamentali della nostra Carta costituzionale.
Come perseguire questi due obiettivi è specificato nel citato Titolo III, della Parte prima, Cost.
In questo titolo si prevede, innanzitutto, all’art. 43 Cost., un intervento pubblico nell’economia principalmente in relazione alle “imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, precisandosi che “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese categorie di imprese”.
Insomma, il principio è che le imprese strategiche debbono essere in mano pubblica e che non è accettabile rimettere alla speculazione privata la produzione di beni e servizi primari per la vita del Paese. Questo punto essenziale è stato travolto dalle numerose e dannosissime “privatizzazioni”, che hanno privato l’Italia, in breve periodo, del 50 per cento delle imprese, sospingendola verso una irrimediabile miseria, propedeutica ad un finale ed irreparabile disastro economico e sociale.
Altro punto strategico proprio della nostra “dinamica costituzionale” consiste nell’aver “separato” la piccola e media proprietà, come la proprietà coltivatrice diretta e la proprietà della prima casa (artt. 44 e 47 Cost.), dalla proprietà la cui produzione eccede le strette esigenze di vita e sono in grado di far crescere la “produzione nazionale”.
Per questo tipo di proprietà, come si è già accennato, la stessa tutela giuridica è condizionata all’assolvimento della “funzione sociale”, cioè all’obbligo di dar spazio all’ “occupazione” ed alla “produzione” di beni che possano soddisfare i bisogni di tutti.
Quest’obbligo è sancito in modo espresso e con piena “precettività” dal citato art. 42 Cost., in base al quale, si ripete, “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge… allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. E’ una norma universalmente riconosciuta in dottrina come “norma precettiva di ordine pubblico economico”, la quale, tuttavia, anche a causa di talune discutibili sentenze della Corte costituzionale, è rimasta del tutto “inapplicata”. Lo dimostrano il continuo e dannosissimo ricorso alle “chiusure e delocalizzazioni” di “imprese” desiderose solo di maggiori profitti, nonché la massa enorme di “immobili” e soprattutto di “terreni” “abbandonati” dai loro proprietari.
Al riguardo, è la stessa Costituzione che ci offre il rimedio. Se è vero, come è vero, che la “tutela giuridica” della proprietà privata è condizionala alla “funzione sociale”, il venir meno di quest’ultima, fa venir meno anche la tutela giuridica e, di conseguenza, vien meno il “diritto di proprietà privata” ed anche, e necessariamente, qualsiasi diritto di “indennizzo”, visto che non esiste più il diritto da indennizzare.
Si verifica, insomma, un “effetto automatico”, per il quale, il bene originariamente appartenente a tutti, e da tutti “ceduto”, mediante legge, ad un singolo individuo, torna con tutta evidenza nella proprietà collettiva di tutti.
Dunque, nel caso dell’abbandono, di terreni ed immobili, che ha un suo precedente storico “nell’ager desertus” della tarda Roma imperiale, implica il dovere, meglio si direbbe il “munus”, dell’autorità pubblica di iscrivere formalmente nella proprietà pubblica e collettiva dalla stessa amministrata il bene di cui si discute, a ciò provvedendo, dopo la necessaria “diffida” ad adempiere al proprietario. Si tratta, in sostanza, di rileggere attraverso una “interpretazione costituzionalmente orientata”, quanto è già scritto nell’art. 838 del codice civile in relazione ai terreni abbandonati, tenendo conto, come poco sopra si accennava, che il “meccanismo giuridico” previsto dalle sopra ricordate “disposizioni costituzionali” di ordine pubblico economico” implica il venir meno, insieme con il diritto di proprietà, anche del conseguente diritto all’indennizzo.
C’è poi un ultimo punto molto importante da tener presente nell’analisi di questa “dinamica costituzionale”: è la “partecipazione” del cittadino alla “funzione legislativa”, alla “funzione amministrativa”, ed alla “funzione giudiziaria”. Ed è da sottolineare che, la partecipazione alla funzione legislativa e a quella giudiziaria riguarda soltanto un potere di iniziativa o di abrogazione, mentre quella concernente la funzione amministrativa implica un effettivo esercizio della funzione stessa. Infatti, come è noto, la funzione legislativa è riservata al Parlamento e quella giudiziaria è riservata all’Autorità giudiziaria, ed invece la funzione amministrativa è condivisa da questa, con enti e con soggetti privati.
E’ noto che la partecipazione alla funzione legislativa si concreta nel referendum abrogativo (art. 75 Cost.) e nella proposta di leggi di iniziativa popolare (art. 71, comma secondo Cost.).
Più complesse sono le disposizioni costituzionali che riguardano l’effettivo esercizio della funzione amministrativa da parte dei cittadini. La disposizione principe in proposito è quella dell’art. 3, comma secondo, Cost., secondo il quale è compito della Repubblica assicurare “l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E “partecipare” alla ”organizzazione”, in termini giuridici, vuol dire proprio partecipare all’azione amministrativa dei pubblici poteri. E parlare di “lavoratori” vuol dire parlare di tutti i cittadini, poiché, come si è visto, per la Costituzione non esistono i “fannulloni”: o si ha la capacità di lavorare e si “deve” lavorare, o si è “inabili al lavoro” ed allora si ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.
Accanto a questo principio a carattere generale, la Costituzione fa ricorso alla “partecipazione” anche nel citato art. 43, nel quale, come si è detto, si affida la gestione di imprese o di categorie di imprese “di preminente interesse generale” anche a “comunità di lavoratori o di utenti”, e cioè ad entità giuridiche diverse dalla pubblica amministrazione.
Di “partecipazione” infine parla diffusamente e con precisione l’ultimo comma dell’art. 118 del rinnovato Titolo V della Costituzione, nel quale si legge che ”Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e “comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Qui addirittura si afferma che l’iniziativa dei cittadini in tema di funzioni amministrative dovrebbe precedere, in casi di estrema vicinanza agli interessi del popolo, l’azione dei pubblici poteri: questo e non altro significa il ricorso al concetto di “sussidiarietà”.
Quanto alla partecipazione alla funzione giudiziaria, occorre ricordare che, in base alla costruzione che abbiamo descritto della “Comunità politica”, il “cittadino è parte costitutiva” del popolo, e come tale può e deve agire, con un’azione popolare, nell’interesse proprio e di tutti i consociati. Si tratta di un potere di iniziativa che è insito nel sistema costituzionale, con la conseguenza che una previsione di legge ordinaria in proposito avrebbe valore puramente dichiarativo.
Questo principio sembra sia stato accolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione[12] e dalla Corte costituzionale[13] nel noto caso dell’azione promossa da un semplice cittadino per ottenere la cancellazione della legge elettorale, cosiddetta “porcellum”. In detta sentenza si legge, infatti, che la “questione” sottoposta all’esame della Corte costituzionale, “ha ad oggetto un diritto fondamentale tutelato dalla Costituzione, il diritto di voto, che ha come connotato essenziale il collegamento ad un interesse del corpo sociale nel suo insieme”. Pare proprio che la Corte costituzionale abbia utilizzato il concetto, poco sopra esposto, del rapporto tutto-parte, considerando il cittadino come “parte strutturale” della collettività, per cui la sua azione giudiziaria concerne il proprio interesse individuale e, nel contempo, quello di tutti gli altri consociati. E se è così, si può agevolmente affermare che oggi, ad opera della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza costituzione, l’azione popolare, è diventata una sicura realtà[14].
8. – Cosa fare?
Il discorso fin qui condotto ha spianato la strada per combattere, sul piano giuridico, contro il principale responsabile della cementificazione e della impermeabilizzazione del suolo, il cosiddetto ius edificandi. Dovrebbe esser chiaro, infatti, che non è affatto configurabile un diritto di costruire “insito” nel diritto di proprietà privata, mentre si deve necessariamente affermare che questo potere di trasformazione del territorio costituisce una “potestà” insita nella proprietà collettiva che spetta al popolo sul suo territorio a titolo di sovranità.
Vengono in evidenza, a questo punto, due concetti importanti: la tutela del territorio e la fruizione dello stesso. In sostanza, emerge la necessità di “norme di tutela” e di “norme del governo” del territorio.
Le prime, che sono di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma secondo, lett. s), Cost., pongono i “limiti invalicabili” di tutela[15], oltre i quali, superate le soglie della sostenibilità ambientale, si provocano seri danni ambientali; le seconde, che rientrano nella competenza concorrente delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, comma terzo, Cost., pongono la “normativa d’uso” del territorio, sanciscono, cioè, in quali zone del territorio e con quali modalità, è possibile costruire. In questo secondo caso, è bene sottolinearlo, lo Stato ha l’obbligo di stabilire, con una legge quadro, i “principi fondamentali” aventi la funzione di indirizzare o porre dei limiti alle manifestazioni legislative[16] della Regione. E non può sfuggire che l’attuale legge quadro per l’edilizia appovata con DPR n. 380 del 2001 è tutta da rifare.
E’ di questa nuova legge quadro che oggi c’è urgente, indilazionabile bisogno. Infatti, è solo in una legge di tal genere, infatti, è possibile stabilire, Nella visone di un quadro generale del problema, , norme fondamentali applicabili in tutto il territorio nazionale, concernenti il consumo di suolo agricolo e di verde urbano.
Ed a questo proposito, considerato che il punto dolente è quello del cosiddetto ius aedificandi, causa efficiente di notevolissimi danni al territorio, si potrebbe prevedere che la concessione edilizia possa essere rilasciata solo su terreni esistenti in zona urbanizzata e preventivamente acquisiti al patrimonio comunale, o perché si tratta di terreni o immobili abbandonati, che, come si è visto, sono automaticamente rientrati nel patrimonio della Comunità comunale, o perché, per eccezionali esigenze pubbliche, tali terreni o immobili siano stati preventivamente espropriati prima dell’urbanizzazione ed al costo previsto per i terreni agricoli.
Detta concessione dovrebbe inoltre consistere, non in un’autorizzazione a costruire, ma nella costituzione di un diritto di superficie da concedere a seguito dell’esperimento di una gara ad evidenza pubblica e dietro pagamento di un equo canone annuo rivalutabile secondo le stime di mercato. Si eviterebbe così la piaga delle dannosissime “rendite fondiarie”, causate dalle cosiddette “urbanizzazioni di favore”, che arricchiscono indebitamente pochi speculatori, a danno di tutti, nonché delle frequenti collusioni tra costruttori e amministratori pubblici. D’altro lato si assicurerebbe alle casse comunali un altro introito sicuro, dovendosi, peraltro, anche prevedere che gli oneri di urbanizzazione siano effettivamente destinati alle opere di urbanizzazione, evitando che detti introiti siano utilizzati per le spese correnti, come prevede la citata legge destinati alle spese correnti, come oggi avviene, seguendo le disposizioni del citato art. 136, comma secondo, lett. c) del vigente T.U per l’edilizia, approvato con DPR 6 giugno 2001, n. 380.
E’ poi tra questi principi fondamentali che andrebbe previsto anche la necessità di istituire una cintura verde intorno alla zona cittadina urbanizzata, nonché la previsione di notevoli Parchi urbani. Indispensabile sarebbe poi prevedere delle norme penali che considerano delitto punibile con la reclusione da uno a cinque anni, il fatto di chi leda detti principi ed arrechi, comunque, danni ambientali.
La legge quadro di cui si discute dovrebbe ancora prevedere una attenta manutenzione[17] del territorio comunale e, nell’immediato, una grande opera pubblica statale di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico d’Italia.
Non è chi non veda come un’opera pubblica di tal genere possa simultaneamente perseguire due finalità: la ricostituzione del territorio e contribuire efficacemente all’uscita dalla presente cosiddetta crisi economico finanziaria, poiché la distribuzione di risorse finanziarie ad un considerevole numero di lavoratori agirebbe da volano dell’economia e permetterebbe anche di diminuire notevolmente il debito pubblico. E’ da considerare d’altro canto che gli stessi costruttori, se invogliati a concorrere agli appalti per l’esecuzione di una grandiosa opera pubblica di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico, certamente non avrebbero nessuna difficoltà a lavorare per un fine diverso da quello sin qui seguito. Ora la parola passa al Governo, il quale ha l’obbligo inderogabile di convincere l’Europa che è inutile accantonare contabilmente 50 miliardi all’anno per 20 anni, come ci impone il fiscal compact e che sarebbe molto più ragionevole investire dette somme in un’opera che ristabilisca gli equilibri ambientali, senza produrre merci da collocare sul mercato.
Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2014
Cosa c’è di male a far sfilare alcuni Masai agli Uffizi in occasione di una sfilata di moda, si chiede Caterina Soffici. C’è di male che il tema di quella sfilata era il “neocolonialismo”, e che ai ricchi bianchi fasciati da lini chiari seguivano i selvaggi in costumi tradizionali, portati a Firenze come bestie da serraglio. Alla faccia della diversity! Qualunque direttore di museo americano ci avrebbe rimesso il posto.
I musei, in Italia, hanno a che fare con la conoscenza e l’educazione (lo dice l’articolo 9 della Costituzione), e con il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). Nell’età del totalitarismo ideologico neoliberista per cui tutto è merce, e nell’Italia di Matteo Renzi, Oscar Farinetti e Marco Goldin sembrerà strano: ma è per questo che i musei sono mantenuti (anche se a stento) con il denaro delle tasse di tutti, e non quello di chi ci fa le serate cafonal. Ma – si obietta – in America e in Inghilterra nei musei si banchetta eccome. Il Victoria and Albert di Londra – scrive Soffici – la sera si trasforma in “un circo Barnum”
Quarta risposta: anche là esiste un dibattito assai acceso. Lo scrittore americano Jonathan Franzen ha scritto: “Un autentico spazio pubblico è un luogo dove ogni cittadino è il benvenuto, e dove la sfera puramente privata è esclusa o limitata. Il motivo per cui negli ultimi anni i musei d’arte hanno registrato un forte aumento di visitatori è che i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico. Com’è piacevole l’obbligo del decoro e del silenzio, la mancanza di consumismo sfacciato”.
Quale alibi migliore della Scienza per derogare un piano urbanistico a privatizzare un pezzo di litorale? Ecco un ulteriore colpo di piccone volto distruggere un progetto urbanistico odiato dal “blocco edilizio”, dai fanatici dello sviluppismo e tenacemente difeso degli ambientalisti e, soprattutto, dei comitati cittadini. L’ennesimo episodio di malgoverno urbanistico di una giunta molto discussa. Riferimenti in calce
Il 30 gennaio il sindaco di Napoli ha firmato presso il Ministero della coesione territoriale un accordo preliminare con la fondazione Idis-Città della Scienza, che consentirà a quest’ultima di ricostruire in loco i fabbricati del museo scientifico bruciati l’anno scorso. Un blocco di oltre 100mila metri cubi di fronte al mare, arretrato di qualche metro per consentire la realizzazione della spiaggia pubblica. Ma quello che per De Magistris costituisce un buon compromesso viene invece denunciata come una scelta sciagurata da molte realtà di base napoletane ed associazioni ambientaliste, tra cui Italia Nostra. Quest’ultima ha preannunciato un ricorso al TAR contro la firma dell’Accordo di programma quadro, fissato per il 4 marzo, primo anniversario dell’incendio. L’Accordo si rende necessario per modificare gli strumenti urbanistici comunali: infatti la Variante al PRG per la zona occidentale, approvata nel 1998, ed il Piano urbanistico attuativo per Bagnoli-Coroglio, ratificato nel 2005, prevedono il trasferimento di tutti i volumi edilizi esistenti sul litorale (inclusa una parte di Città della scienza) per fare posto ad una spiaggia pubblica di quasi due chilometri.
Città della Scienza, che occupa un’ex area industriale di 6,5 ettari sita ‘a cavallo’ della strada litoranea, è stata infatti realizzata con un Accordo di programma del 1997 che andava in deroga alla variante, adottata l’anno prima dal consiglio comunale ed all’epoca in via di approvazione: l’accordo stabilì che il trasferimento dei volumi ricadenti nell’area destinata a spiaggia sarebbe avvenuto una volta ammortizzato il finanziamento pubblico erogato per ristrutturare a science center i fatiscenti capannoni della ex Federconsorzi. Questo espediente, voluto dall’allora sindaco Bassolino, ha aperto un pericoloso vulnus nella realizzazione del piano, di cui si sono avvantaggiati anche altri soggetti: basti ricordare che, al momento di approvare il Piano attuativo, si stabilì di posporre parimenti il trasferimento dell’adiacente borgo di Coroglio (una misura tacitamente estesa de facto anche al vicino circolo ILVA). Di fatto, rinviando indefinitamente la liberazione del lungomare, si è permesso il progressivo coagulo di numerosi interessi privati intorno al suo utilizzo ‘provvisorio’: nello stesso anno, il 2005, un consorzio di concessionari balneari ha privatizzato con l’avallo di Comune ed Autorità portuale gran parte degli arenili esistenti, ancorchè non fosse avvenuta alcuna bonifica del mare e della spiaggia.
Avverso le disposizioni urbanistiche, nonché in contrasto con la legge 582/1996 (che all’articolo 1, comma 4, prevede “il ripristino della morfologia naturale della costa”) ed il vincolo paesaggistico posto nel 1999 sulla piana di Bagnoli-Coroglio (che aveva esplicitamente escluso una richiesta di vincolo per archeologia industriale avanzato dalla locale soprintendenza su sollecitazione dell’Idis per i propri capannoni), intorno alla struttura di Vittorio Silvestrini è cresciuto negli anni un fronte del rifiuto che considera inattuabile la riqualificazione urbanistica ed ambientale disposta dalla Variante e ne propugna la modifica per garantire la valorizzazione degli interessi privati esistenti. Queste forze, agevolate dalle vecchie amministrazioni di centrosinistra, non sono state contrastate nemmeno dalla nuova giunta arancione che, malgrado le forti aspettative iniziali, si è posta in sostanziale continuità con il loro operato. Il ‘braccio di forza’ ingaggiato con l’Idis all’indomani del rogo per assicurare il rispetto del piano con la ricostruzione in altra sede dei volumi distrutti (essendo tragicamente venuta meno ogni esigenza di ammortamento) si è infine risolto a favore di quest’ultima; non è forse un caso che l’assessore all’urbanistica De Falco, sostenitore delle posizioni di Italia Nostra, sia stato dimissionato nel bel mezzo della trattativa.
Eppure non mancano le ragioni e i mezzi per contrastare le pretese di Città della Scienza, oltre quelle già esposte; qualcuna De Magistris ha tentato di giocarla, senza però andare fino in fondo. Con un’ordinanza sindacale emessa lo scorso 3 dicembre, ha imposto (vanamente) all’Idis di presentare il certificato definitivo di bonifica delle proprie aree: nel corso della trattativa è infatti emerso che per quindici anni Città della Scienza ha ospitato milioni di visitatori (in gran parte bambini) senza avere il necessario attestato di sicurezza ambientale. E’ poi legittimo sostenere l’opportunità, prima di ogni decisione, di aspettare che l’indagine giudiziaria in corso faccia luce sugli autori e le ragioni che si celano dietro l’incendio della struttura: benchè i dirigenti di Città della Scienza sostengano che il rogo sia collegabile a non meglio precisate mire speculative della camorra, i giornali hanno più volte riferito l’esistenza di un ‘pista interna’, che ha portato la magistratura a sequestrare i registri contabili della fondazione. Last but not least, va fatta valere l’esistenza di una delibera d’iniziativa popolare, sottoscritta da 13mila cittadini ed approvata il 25 settembre 2012 dal consiglio comunale, che dispone la destinazione ad uso balneare gratuito e la gestione comunale di tutto il litorale da Coroglio a Bagnoli.
E’ comunque evidente come l’indisponibilità dell’Idis ad abbandonare la spiaggia non sia determinato dalle pur spesso addotte ragioni funzionali bensì dal valore economico dell’area, come candidamente esplicitato sulla stampa locale dal consigliere delegato della fondazione, Vincenzo Lipardi. Non va poi dimenticato che il progetto di Città della Scienza redatto dall’architetto Pica Ciamarra prevede la realizzazione di un attracco per le Vie del Mare sul vecchio pontile della ex Federconsorzi: una scelta attualmente sospesa ma su cui l’Idis punta ancora, e che, se realizzata, incrementerebbe notevolmente i visitatori della struttura ma al prezzo di compromettere la balneabilità di gran parte del litorale vicino Nisida.
In conclusione, la questione non ruota intorno a qualche metro quadro di spiaggia in più o in meno, come piace credere al sindaco De Magistris, bensì sulla legittimità e credibilità delle norme urbanistiche per Bagnoli. Cedere (e stavolta definitivamente) su Città della Scienza significa aprire la strada ad una revisione peggiorativa della Variante e del Piano attuativo, con lo spostamento dei volumi edificabili sul lungomare ed il ridimensionamento di indispensabili attrezzature pubbliche, come il parco urbano e la spiaggia. La vicenda si inserisce infatti in un contesto estremamente critico sia per Bagnoli che per la città: la bonifica è in stallo, le aree sono sequestrate ed è appena iniziato il processo per truffa e disastro ambientale. Il 13 febbraio è stata messa in liquidazione Bagnoli-Futura, la società di trasformazione urbana del Comune incaricata della riqualificazione, indebitata per centinaia di milioni di euro con le banche e con Fintecna, ex proprietaria dei suoli industriali di Bagnoli; quest’ultima, reagendo all’ordinanza sindacale che le imponeva di rimuovere la colmata a mare realizzata nel 1962 sul litorale dall’ex Italsider, aveva già chiesto al Tribunale il fallimento di BagnoliFutura per recuperare 60 mln di indennità mai corrisposti. La possibilità che i suoli e le opere pubbliche finora realizzate finiscano per pochi soldi in mani private, che un’amministrazione comunale politicamente debole e sottoposta al rischio del dissesto finanziario ceda al ricatto e modifichi gli strumenti urbanistici secondo le convenienze degli speculatori, è quindi più che un’ipotesi. Infatti pochi giorni fa il Sindaco, per coinvolgere la Cassa depositi e prestiti (proprietaria di Fintecna) e gli investitori privati, ha comunicato l’avvio di una revisione ad hoc del piano urbanistico, preannunciando modifiche inquietanti, come la realizzazione di un porto turistico nella riserva naturale marina di Nisida.
Lungi dal costituire il faro della riqualificazione di Bagnoli, Città della Scienza (che ha già usufruito di due Accordi di Programma in deroga alle norme urbanistiche, nel 1997 e nel 2003) sta contribuendo attivamente al suo affossamento, con la complicità di quegli intellettuali e mass media che l’hanno avvolta in un’aura di incriticabilità. Solo una decisa mobilitazione dei cittadini potrà porre con forza i decisori pubblici coinvolti (Ministero dell’Ambiente, Soprintendenza, Sindaco e Consiglio Comunale) di fronte alla loro precisa responsabilità di difendere l’interesse collettivo. E’ quello che le realtà territoriali di base napoletane si stanno impegnando a fare tra mille difficoltà, e per cui chiedono il sostegno attivo del mondo urbanistico ed ambientale nazionale. Al di là dei giochi di parole, per Bagnoli e Napoli si tratta davvero dell’ultima spiaggia.
Riferimenti
comitato
Il manifesto, 15 febbraio 2014
Domani in Sardegna si vota per l’elezione del presidente della Regione. Seggi aperti per tutta la giornata di domenica. I risultati si conosceranno lunedì. La consultazione arriva in un momento del tutto particolare. Per Matteo Renzi sarà infatti il primo impegnativo test elettorale. Naturale quindi che su Cagliari si siano accesi in questi giorni tutti i riflettori nazionali. E che l’esito sia molto atteso. I principali candidati in corsa sono Ugo Cappellacci per il centrodestra, Francesco Pigliaru per il centrosinistra, Michela Murgia per la coalizione Sardegna possibile. C’è grande incertezza. Cappellacci e Pigliaru sarebbero testa a testa, ma Michela Murgia potrebbe rimontare grazie al voto degli indecisi, un’area che, a sole ventiquattro ore dal voto, è ancora molto vasta. Murgia punta anche sul consenso dei grillini, che alle ultime politiche hanno preso in Sardegna il 29,68 per cento dei voti e che alle regionali non sono riusciti a presentare una lista a causa delle laceranti divisioni interne al movimento.
Nell’isola il clima è teso. Ieri, nella giornata di chiusura dei comizi, con un blitz la giunta di centrodestra presieduta da Cappellacci ha adottato in via definitiva il nuovo Piano paesaggistico della Sardegna (Pps), mandando in soffitta il Piano paesaggistico regionale (Ppr) varato nel 2006 da Renato Soru. La delibera è stata approvata nonostante la mancanza della «valutazione ambientale strategica» (Vas) obbligatoria per legge, ed è quindi priva di effetti validi sul piano giuridico. Va anche ricordato che la revisione del Ppr targata Cappellacci è stata impugnata dal governo davanti alla Corte costituzionale su sollecitazione del ministero per i beni culturali.
Nell’antivigilia dell’apertura delle urne, con Berlusconi impegnato a sostenere Cappellacci in una convention del centrodestra ad Arborea e Francesco Pigliaru che ha battuto in autobus il nord Sardegna da Porto Torres a Olbia, la notizia dell’approvazione del Ppr è arrivata come una bomba. La prima reazione è stata di Pigliaru: «L’adozione del Pps da parte della giunta Cappellacci — ha detto il leader del centrosinistra — è un’approvazione di cartone, fatta soltanto per fini elettorali. Rimango a bocca aperta: il centrodestra ha avuto cinque anni per fare le cose nel modo corretto, confrontandosi con il governo secondo le regole. Invece, a conferma dell’incapacità di questa giunta, Cappellacci ha voluto forzare, mostrando un incredibile disprezzo per le regole».
Bordate a Cappellacci anche dal segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, ieri a Cagliari per un tour elettorale. «Il voto serve a evitare che Cappellacci ritorni a essere il presidente della Sardegna: non solo non ha mantenuto le promesse, ma è evidente che non ha fatto nulla per il lavoro e per il territorio». «Lo dico anche — ha aggiunto Ferrero — a chi non è entusiasta dei candidati del centrosinistra: il voto a Michela Murgia non aiuta a mandare via Cappellacci». Anche Rifondazione fa parte della coalizione guidata da Pigliaru. Per Ferrero è il lavoro che deve stare al centro dei programmi, a Cagliari come a Roma. «Ma perché questo avvenga — ha aggiunto il segretario del Prc — con il voto bisogna rafforzare la sinistra». E in effetti il tema del lavoro è in Sardegna drammatico. Giovedì a Cagliari è ripartita la mobilitazione dei lavoratori in cassa integrazione della Alcoa, con un corteo davanti alla sede della Regione. Gli operai chiedono risposte sullo stato della vertenza, al momento in una fase di stallo, con la fabbrica chiusa, e la convocazione di un incontro al ministero per lo sviluppo economico. Durante il corteo i lavoratori hanno lanciato uova sui manifesti elettorali e hanno annunciato l’intenzione di restituire le schede elettorali.
Chi sembra assolutamente convinto della vittoria di Cappellacci è Berlusconi. «Non c’è bisogno — ha detto ad Arborea di fronte a migliaia di persone — di convincere i sardi: sanno già chi votare. Ugo, possiamo fare così: tu canti, io racconto storielle. E facciamo uno show patriottico». Poi l’attacco a Michela Murgia: «Ho saputo che la signora Murgia ha già presentato la sua giunta, e si è tenuta lei l’assessorato dei trasporti: forse da piccola giocava con i trenini. Ma lei è una che ha insegnato l’odio». Due accenni alla situazione nazionale: «Sono l’ultimo premier eletto dal popolo», con riferimento alla staffetta Letta-Renzi: «Nel 2009 avevo il consenso del 75% degli italiani. Ecco perché la magistratura ha deciso di farmi fuori. E nel 2001 contro di me c’è stato un golpe. Sono sceso in campo contro il comunismo, che ha fatto 120 milioni di morti». Berlusconi parlava ad Arborea, che quando fu fondata, nel 1928, si chiamava Mussolinia
Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2014
Cosa c’è di male a far sfilare alcuni Masai agli Uffizi in occasione di una sfilata di moda, si chiede Caterina Soffici. C’è di male che il tema di quella sfilata era il “neocolonialismo”, e che ai ricchi bianchi fasciati da lini chiari seguivano i selvaggi in costumi tradizionali, portati a Firenze come bestie da serraglio. Alla faccia della diversity! Qualunque direttore di museo americano ci avrebbe rimesso il posto.
I musei, in Italia, hanno a che fare con la conoscenza e l’educazione (lo dice l’articolo 9 della Costituzione), e con il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). Nell’età del totalitarismo ideologico neoliberista per cui tutto è merce, e nell’Italia di Matteo Renzi, Oscar Farinetti e Marco Goldin sembrerà strano: ma è per questo che i musei sono mantenuti (anche se a stento) con il denaro delle tasse di tutti, e non quello di chi ci fa le serate cafonal.
Ma – si obietta – in America e in Inghilterra nei musei si banchetta eccome. Il Victoria and Albert di Londra – scrive Soffici – la sera si trasforma in “un circo Barnum”.
Prima risposta: non lo fa per sopravvivere, lo fa per libera scelta e con regole precise; da noi ci sia arrangia svendendo i gioielli di famiglia a prezzi da ribasso, e in condizioni rischiose. Seconda risposta: i musei italiani sono diversi, perché non nascono quasi mai come tali, ma sono in luoghi storici delicatissimi, inadatti a simili carnevalate. Terza risposta: non è un caso che abbiamo l’articolo 9, da noi l’arte è per tradizione inclusiva e non esclusiva; quello che conta è il tessuto diffuso e la sua funzione civile, difficilmente compatibile con l’esclusività del lusso.
Quarta risposta: anche là esiste un dibattito assai acceso.
SAVI Tecnicamente lo strumento di pianificazione è stato approvato in via definitiva malgrado mancasse il parere motivato «obbligatorio e vincolante» dell’ufficio Savi, responsabile della Vas, la valutazione ambientale strategica. Non solo: gli assessori regionali hanno dato il via libera senza che la maggior parte delle osservazioni fondamentali depositate da comuni, associazioni ecologiste e culturali sia stata ammessa a integrare o modificare il testo considerato finale del Pps, intervenendo almeno sulle parti in cui vengono cancellati con un colpo di spugna molti beni paesaggistici per lasciare spazio al cemento.
Osservazioni. Quelle osservazioni potevano anche essere respinte, ma a decidere doveva essere il Savi. Comunque sia norme, mappe, elenchi di beni paesaggistici, ambientali e identitari sono piovuti in sala giunta senza che l’ufficio deputato a valutarne la compatibilità ambientale abbia potuto esprimersi formalmente, come stabilisce la legge. Cappellacci ha spiegato la fretta di chiudere la partita con la necessità di stabilire «regole certe, che consentano di evitare le sabbie mobili della burocrazia». Ma è facile prevedere che su quelle regole si aprirà una battaglia giudiziaria senza esclusione di colpi.
Vas. Per sapere se si tratta di un bluff elettorale basterà attendere il dopo voto, quando il candidato vincente potrà revocare l’atto di approvazione con il ricorso all’autotutela, riaprendo la procedura interrotta. Perché secondo la valutazione generale la delibera sarebbe illegittima: quindi dovrebbe bastare un ricorso ai giudici amministrativi perché venga annullata. Per adesso, ha spiegato il capo di gabinetto dell’Urbanistica Massimiliano Tavolacci, il documento non sarà pubblicato sul bollettino ufficiale della Regione. Quando comparirà, verrà integrato col parere del Savi. Così - ha spiegato il dirigente - il Pps non dovrà ripassare in giunta.
Però le norme, che derivano da una direttiva comunitaria del 2001 recepita dall’Italia quattro anni dopo, indicano un scansione diversa: la Vas deve precedere l’approvazione dell’atto di pianificazione e il suo contenuto, tutte le modifiche e le prescrizioni, deve entrare nel testo da portare in giunta. In altre parole il giudizio di compatibilità ambientale firmato dal Savi deve prevalere sull’indirizzo politico, adeguando ogni previsione alle regole. Cappellacci ha imposto una sorta di inversione della procedura: prima si approva quanto proposto dalla giunta e poi si valuta. Una giurisprudenza sterminata, che riguarda altre regioni, getta più d’un ombra sulla legittimità di questa scelta. La delibera firmata ieri mattina potrebbe non avere alcun valore giuridico e di conseguenza alcuna efficacia. Due mesi. Impossibile prevedere se il Savi andrà avanti nell’esame delle osservazioni e della compatibilità ambientale e paesaggistica del Pps: legge alla mano l’ufficio avrebbe ancora due mesi abbondanti per concludere il lavoro, che in base alla legge è indispensabile e dovrebbe svolgersi in perfetta autonomia dalla politica. Ma in mancanza di precedenti, nessuno sa che cosa fare. La giunta Cappellacci ha avuto cinque anni di tempo per realizzare la revisione del Ppr di Renato Soru, come annunciato nella campagna elettorale del 2009. A due giorni dal voto il governatore ha tagliato corto, con una lettura molto soggettiva delle norme europee e statali. Cappellacci peraltro era già passato leggero sull’obbligo di co-pianificazione: per questo pende già un ricorso dello Stato alla Corte Costituzionale.
La Vas decisiva per qualsiasi pianificazione
Qualsiasi strumento pubblico di pianificazione dev’essere sottoposto per legge alla Vas, la valutazione d’impatto strategica. L’obbiettivo stabilito dalla direttiva comunitaria 2001/42 che ne regola la procedura è di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente. In base alla legge statale che ha recepito nel 2005 il dettato comunitario la Vas dev’essere effettuata durante la fase preparatoria del piano e comunque prima della sua approvazione. La procedura è pubblica, di conseguenza aperta alla partecipazione di enti, associazioni e cittadini attraverso le osservazioni ed è seguita da una fase di monitoraggio destinata a correggere errori nel caso di effetti negativi per l’ambiente. Il servizio regionale che cura la Vas è il Savi - Servizio sostenibilità ambientale e valutazione impatti - che a partire dalla prima adozione del piano (in questo caso il Ppr) da parte della giunta regionale e del successivo deposito delle osservazioni ha complessivamente 90 giorni di tempo per valutare la compatibilità ambientale dello strumento proposto e decidere in perfetta autonomia quali modifiche e integrazioni apportarvi a tutela dell’ambiente. Concluso il lavoro, il piano modificato in base alla Vas passa all’ufficio dell’urbanistica, che deve applicare obbligatoriamente modifiche e prescrizioni motivate dal Savi. Il passaggio successivo - in questo caso - è l’approvazione definitiva da parte della giunta regionale, che può intervenire ancora sul piano soltanto ripartendo da zero, quindi ripetendo la procedura di elaborazione e la procedura di Vas. (m.l)