«Si è costruito molto e in modo mediocre negli ultimi 30 anni. Un ciclo edilizio perpetuo, che neanche la crisi ha fermato, dove città e campagna si sono confuse». La seconda inchiesta sel manifesto sulle città d'oggi, 13 febbraio 3014
Sarà sembrata una città prestante quand’era racchiusa dalle mura, di cui resta qualche lacerto a certificarne il ruolo nel povero sistema difensivo della Sardegna, con tutti quei campanili e gli edifici adibiti funzioni di direzione e di servizio che l’hanno accreditata come capoluogo di una vasta provincia. Così qualcuno ci ha creduto, fino al XVIII secolo, che potesse contendere il primato a Cagliari, favorita dalla presenza stabile del vicerè. Non le manca l’impronta ottocentesca: i luccichii di un teatro, e poi un piano di ampliamento, progettato secondo i criteri collaudati in Terraferma, una sferzata di energia dopo il 1837. Un disegno buono per un secolo, cornice alle architetture in linea con il sentimento nazionale, e poi premessa alla città moderna, con lo sguardo rivolto ai migliori modelli.
La popolazione è cresciuta con un ritmo lento ma costante; per quanto afflitta dalla sovrabbondanza di indigenti alloggiati in case basse e malsane, una circostanza che suscita grande inquietudine dopo la tragica epidemia del 1855. Appena confortata dalla processione dei Candelieri che ogni anno a Ferragosto rinnova il voto contro la peste.
Preoccupazioni fondate; e infatti negli anni ’50 del Novecento si diffonde la Tbc con picchi di mortalità molto più elevati di quelli riscontrati fino a quel momento in Sardegna. Si spiega con l’indice di affollamento (fino a 10 persone/vano), la penuria d’acqua, le fogne inefficienti. Un’emergenza igienico-sanitaria che s’immagina di affrontare con la ricetta di Concezio Petrucci, autore del Piano regolatore generale fascista, facendo tabula rasa del vecchio centro. Con un’idea vaga sul trasferimento della popolazione. I meno abbienti allo sbando, o in lista per accedere al programma Ina-Casa nelle aree di Monte Rosello. I più fortunati impegnati da un po’ a mettersi in salvo, con mezzi propri, lontano dalle vecchie strade Purior hic aer è scritto sulla facciata di una casa, timidamente liberty, nel colle dei Cappuccini).
Si è formato così un pregiudizio, chiave di volta di una ideologia resistente: il nucleo antico causa di tutti i mali, infetto e insanabile. Che sottintende la rinuncia a prestargli cure; meglio amputare, come/dove capita, per ricostruire a piacere; applausi per chi concorre alla catarsi. Primo cimento: due palazzoni (grattacieli — li chiamano i sassaresi) che gettano la loro ombra ben oltre la piazza che a mala pena li contiene.
Una trasformazione fuori misura ma modello per altri interventi più moderati nei dintorni, eccitati dalla convinzione che la vita della città continuerà a svolgersi in quell’area circoscritta dove la borghesia più istruita e facoltosa esprime una multiforme vitalità (nella sede del Pci di Enrico Berlinguer o nella parrocchia di Francesco Cossiga).
Compattezza e frammenti
Non ci sono sintomi che facciano prevedere la dispersione dell’insediamento che si avvierà di lì a poco. Alla propensione secessionista obbedisce la pianificazione intrapresa nei primi anni ’50, attuata nel decennio successivo. Il più rilevante esito di quelle previsioni centrifughe è il quartiere marginal-popolare di Santa Maria di Pisa dove si relega quasi tutta l’edilizia economica dell’ultimo mezzo secolo. Una mossa esiziale per il disegno della città, impedimento per ogni futuro proposito di coesione sociale. A cui si somma lo sparpagliamento nel territorio agricolo di abitazioni unifamiliari su lotti di varia misura, e anche in questo caso i suburbi, più o meno laschi, sono connotati dalla omogeneità del reddito: a sud le ville dei più fortunati, a nord, lungo il percorso dell’antica strada reale, il regno di autocostruttori, spesso abusivi, tollerati dalle amministrazioni altrimenti chiamate a farsi carico di un vasto disagio abitativo.
La crisi del vecchio centro murato è evidente quando, nel 1983, è approvato il nuovo piano regolatore, compiacente verso ogni propensione alla crescita, soprattutto nelle forme più speculative. Dappertutto, e ancora in danno del paesaggio urbano: questa volta alla fisionomia modernista, con la serie di demolizioni di eleganti casette del primo Novecento sostituite da più vantaggiosi edifici multipiano.
Si è costruito molto e in modo mediocre e ovunque negli ultimi 30 anni, anche per rispondere alla immigrazione dai paesi. Non sarebbe difficile quantificare la crescita e preoccuparsi della sproporzione. Il patrimonio edilizio che nel 1919 è costituito da circa 2600 edifici — realizzato in 5–600 anni — è aumentato di almeno sei volte volte nel tempo breve di mezzo secolo (a cui non corrisponde un cosi importante incremento di abitanti). La estensione di territorio investito dal processo di urbanizzazione, fotografata nel passaggio di secolo, è almeno venti volte quello della struttura urbana com’era negli anni Cinquanta, con i suoi preziosi oliveti e orti a contorno.
«Predda Niedda»
Dopo il 1980 è già difficile capire dove finisce la città e comincia la campagna, ma pochi ci fanno caso. Prevale la convinzione che si tratti del metabolismo giusto. E neppure la crisi economica — dagli esordi alla maturità — spinge a riconsiderare la smisurata fiducia riposta nel ciclo edilizio perpetuo, anche da parte delle banche domestiche (quando fiducia sta per credito). Si preferisce conservare l’atteggiamento corrivo che ha contribuito alla graduale svalutazione della città imbruttita dall’ingordigia, e indifferente come altrove al rischio di una bolla immobiliare.
Il più grande errore? Un’area chiamata «Predda Niedda» (pietra nera), centinaia di ettari urbanizzati con denaro pubblico: una «zona industriale d’interesse regionale» (Zir), ma sono pochissime le manifatture in una moltitudine di ipernegozi e negozietti a contorno. Il bilancio: 172mq di superficie commerciale ogni 1.000 abitanti nel distretto sassarese, un rapporto molto più elevato delle medie nel Centro e nel Nord del Paese e che a Cagliari si ferma a 121 mq.
Questo schiacciante trionfo della grande distribuzione ha provocato lo scollamento tra residenze e attività commerciali, amalgama indispensabile per dare senso all’abitare. E quindi la crisi delle attività commerciali nella città compatta, che pensano di risollevarsi omologandosi agli standard e ai codici estetici di «Predda Niedda» premiata da una cangiante movida pomeridiana.
Un nuovo piano urbanistico è in costruzione da una decina di anni. Le previsioni dell’amministrazione di centrosinistra non hanno trovato il consenso della Regione. Il confronto sulle importanti censure è in corso, e non è facile prevederne gli esiti. L’impressione è che l’attività di pianificazione non sia stata accompagnata da un dibattito all’altezza delle attese. Così permangono sottovalutazioni, specie della città «sdraiata», della seconda Sassari dove abitano ormai 30mila cittadini, un quarto della popolazione. Una doppiezza inesplorata: da una parte la città densa con profili da strapaese; dall’altra lo strampalato blob che la accerchia, con le figure tipiche e gli svantaggi della metropoli dissipatrice, energivora, inquinante, disequilibrata e disequilibrante, iniqua. E sconveniente, perché questo modo di vivere ha già un costo insostenibile.
È urgente guardarla bene questa realtà, tutt’altro che fantasmatica: per accettarla senza subirne le scosse, e quindi per governarla. Andando oltre le definizioni spicce (come quella di non-luogo — uffa!).
Nel frattempo sarebbe opportuno smetterla di compromettere altro suolo. Riconsiderando la crescita proposta: un volume per oltre 30mila nuovi abitanti, inconciliabile con il previsto decremento di popolazione di 10mila nel 2030. L’estensione delle urbanizzazioni ad aree ancora libere renderebbe più marcate le distanze, accrescendo le esclusioni e le disuguaglianze.