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Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2014

Stasera alle 21 si svolgerà una – immaginiamo movimentata – assemblea pubblica indetta dai lavoratori dell’Istituzione Bologna Musei. Il tema da discutere è: “Le esternalizzazioni nei musei fra privatizzazione dei servizi pubblici e svalorizzazione del lavoro”. Già, perché il Comune di Bologna ha prima riunito tutti i musei in un’unica istituzione, e ora sta procedendo a passo veloce verso una privatizzazione ancora più spinta di quella che ha già fagocitato gli Uffizi, il Duomo di Siena o il Colosseo.Sono stati messi a bando, per il triennio che va dall’autunno di quest’anno a quello del 2017, non solo i servizi di accoglienza, la biglietteria, la sorveglianza e la custodia, ma anche i servizi educativi e la mediazione culturale.

Chi vincerà la gara? I musei di Bologna finiranno in mano a Civita (presidente Gianni Letta), o a Electa (gruppo Mondadori, cioè Berlusconi)? I lavoratori dei musei denunciano che tutto si sta svolgendo senza trasparenza e senza garanzie per i loro diritti, e che dopo il bando saranno orientate al lucro privato funzioni che vanno “dall’allestimento mostre alla movimentazione e trasporto di opere, dal controllo del patrimonio al controllo di gestione e qualità, dalla gestione delle attività amministrative e organizzative alla gestione e conservazione del patrimoni, dai servizi bibliotecari all’organizzazione e gestione degli eventi, della comunicazione e del marketing e valorizzazione del patrimonio”.

Insomma, è come se una scuola o un’università pubbliche appaltassero le lezioni e la ricerca: tanto varrebbe smettere di mantenerle con le tasse pubbliche. Dalla parte dei lavoratori, e dei cittadini, si è schierata Italia Nostra, chiedendo “un ripensamento radicale del bando emanato dal Comune, e proponendo di aprire una discussione trasparente su quello che è un capitolo decisivo della nostra politica culturale, ovverosia il destino dei nostri musei”.

Già, perché Bologna è l’ennesima stazione della via crucis che sta inchiodando il patrimonio culturale della nazione alla croce del mercato. E non si intravedono resurrezioni.

Dopo Napoli anche Milano interviene a regolare l'uso a fini pubblici di beni privati abbandonati. Salviamoilpaesaggio.it, giugno 2014 (m.p.r)

27 giugno 2014 Immobili abbandonati e funzione sociale: dopo Napoli è l’ora di Milano

Nei mesi scorsi abbiamo ampiamente raccontato il punto di arrivo degli studi di Paolo Maddalena, Vicepresidente Emerito della Corte Costituzionale, riguardante la funzione sociale degli edifici e la corretta applicazione, in particolare, dell’articolo 42 della Costituzione che porta a considerare in maniera innovativa la necessità di imporre che «qualunque bene abbandonato, in virtù della cessazione della sua funzione sociale, debba ritornare nella disponibilità del soggetto che originariamente ne è proprietario e che ne aveva ceduto parte ad un singolo privato: cioè il popolo sovrano». Questi fondamentali studi hanno già trovato un’azione amministrativa, un primo caso, con due delibere della Giunta del Comune di Napoli che potete scaricare qui.

Ecco, ora, un secondo prezioso caso che arriva dall’amministrazione comunale di Milano, che ha provveduto a censire e rendere pubblici (in una mappa pubblicata online sul suo sito internet ) 160 immobili privati abbandonati presenti in tutte le nove zone cittadine. Rappresenta la prima fase conoscitiva del progetto che ha l’obiettivo di rigenerare e ricucire il tessuto urbano esistente.

Se i proprietari non interverranno, soprattutto in seguito alle messe in mora, l’ente locale potrà richiedere «l’attribuzione a tali beni di una destinazione pubblica, di interesse pubblico o generale», come previsto dall’articolo 11 del nuovo regolamento edilizio adottato dal Consiglio Comunale lo scorso 14 aprile.Secondo la classificazione dell’amministrazione comunale, sono ritenuti abbandonati quegli edifici che risultano non manutenuti e utilizzati per più di cinque anni, «ove tale non utilizzo riguardi almeno il 90% delle loro superfici».

L’elenco è il risultato delle rilevazioni effettuate da associazioni ed enti impegnati sul territorio. E’ stato così possibile costruire una prima banca dati in continua evoluzione e aggiornamento anche sulla base di nuove segnalazioni da parte dei Consigli di Zona e dei cittadini e suscettibile, quindi, di ulteriori integrazioni o modifiche.

Il nuovo regolamento edilizio (che attende ora l’approvazione in via definitiva dal Consiglio Comunale), stabilisce che «l’amministrazione comunale, una volta accertato lo stato di abbandono, di degrado urbano, di incuria e di dismissione delle aree e/o degli edifici, diffida i soggetti ad eseguire interventi di ripristino, pulizia e messa in sicurezza delle aree, nonché di recupero degli edifici sotto i profili edilizio, funzionale e ambientale». Entro 60 giorni dalla notificazione della diffida (già ricevuta da molti proprietari) «i proprietari o i titolari di diritti su detti immobili – come si legge nel regolamento edilizio – devono presentare progetto preliminare per l’esecuzione degli interventi edilizi, per la sistemazione e la manutenzione, o per la riconversione funzionale degli stessi in conformità alle previsioni del Piano di Governo del Territorio, allegando una relazione che espliciti le modalità e i tempi per l’esecuzione degli interventi di recupero urbano e di riqualificazione sociale e funzionale».

Decorso il termine e «constatata l’inerzia dei proprietari o dei titolari di diritti su tali beni», il Comune può provvedere in via sostitutiva all’esecuzione di interventi di manutenzione e di pulizia degli immobili, nonchè a mettere in sicurezza le aree.Le relative spese sostenute dovranno essere rimborsate dai proprietari o titolari di diritti su tali beni.

Ovviamente il Comune di Milano (come tutti i Comuni italiani) risulta privo della disponibilità finanziaria per accollarsi tutti gli interventi di recupero non espletati dai proprietari. Sempre secondo l’articolo 11 del regolamento edilizio, «qualora il proprietario non intervenga, rendendo necessario l’intervento sostitutivo, l’amministrazione comunale provvede, altresì, ad attivare uno dei seguenti procedimenti:
a) di attribuzione a tali beni di una destinazione pubblica, di interesse pubblico o generale assumendo gli atti e gli strumenti previsti dalla legislazione nazionale e regionale vigente;
b) di recupero delle aree non residenziali dismesse, ai sensi dell’art. 97 bis della Legge Regionale 11.3.2005 n. 12».

“La pubblicazione di questo censimento, costruito e aggiornato grazie alle associazioni, ai Consigli di Zona, ai cittadini – ha spiegato la vicesindaco Ada Lucia De Cesaris – è un altro tassello nel contrasto all’incuria del patrimonio edilizio esistente, impegno primario di questa Amministrazione. La normativa, ma anche l’Amministrazione comunale, hanno già numerosi strumenti per consentire il superamento del degrado prodotto dagli immobili abbandonati, che hanno pesanti ricadute sul territorio, sui singoli quartieri, sulla vita quotidiana delle persone. Ci auguriamo che questo censimento possa essere di ulteriore stimolo per avviare interventi concreti di messa in sicurezza, riqualificazione o anche riuso temporaneo”.

L’assessore De Cesaris ha anche aggiunto: «Non ci sono espropri “proletari” sugli edifici abbandonati e le azioni saranno conseguenti ad eventuali non risposte della proprietà» e ha sottolineato come «i veri inadempienti siano le grandi proprietà immobiliari, che lasciano proprietà fatiscenti mentre chiedono di poter effettuare nuovi interventi edilizi».

Il nostro Forum sta lavorando tecnicamente su tutti questi aspetti, nel solco degli stimoli suggeriti da Paolo Maddalena, e quanto prima avvierà un proprio progetto per far sì che Napoli e Milano non siano semplici casi isolati ma i primi “gradini” di un percorso capace di eliminare il valore speculativo al possesso di beni immobiliari e restituire un significato al bene comune e alla funzione sociale.

1 giugno, 2014Napoli: due delibere prevedono il riutilizzo a fini sociali di beni abbandonati.
Un primo passo nella direzione dei “beni comuni”?


Negli ultimi mesi, attraverso il nostro sito nazionale e la newsletter settimanale, abbiamo ampiamente divulgato il punto di arrivo degli studi di Paolo Maddalena (Vice presidente emerito della Corte Costituzionale) in merito ad un tema assolutamente nevralgico, legato alla corretta interpretazione dell’articolo 42 della nostra Costituzione, alla sua applicazione, all’appartenenza giuridica e storica del territorio. In particolare, Maddalena sostiene in modo molto argomentato e tecnico che qualunque bene abbandonato, in virtù della cessazione della sua funzione sociale, debba ritornare nella disponibilità del soggetto che originariamente ne è proprietario e che ne aveva ceduto parte ad un singolo privato: questo soggetto altri non è che il popolo sovrano.

Dice Maddalena: «Se il singolo non utilizza un bene, il popolo sovrano se lo riprende. Ad esempio, se un imprenditore delocalizza la fabbrica all’estero per guadagnare di più e poi vuole trasformare l’immobile in un albergo, è fuori dalla Costituzione. Non si inventa niente: anche gli antichi romani, nella loro saggezza, stabilirono che le res nullius non esistevano, perché non potevano immaginare l’esistenza di un bene non appartenente a nessuno. E questo principio era accolto anche nello Statuto Albertino. Se non c’è funzione sociale non c’è tutela giuridica, e non c’è quindi proprietà privata. Inoltre, l’articolo 838 del Codice civile dispone che il terreno abbandonato è trasferito a chi vuole coltivarlo. Ma il Codice è stato scritto prima della Costituzione: tutte le norme antecedenti vanno lette alla luce della Carta».

Ora, a distanza di 66 anni, l’articolo 42 della nostra Costituzione ha un primo caso di applicazione secondo questa visione giuridica: il 24 aprile scorso la giunta del Comune di Napoli ha varato due delibere (che dovranno essere discusse ed approvate dal consiglio comunale) che prevedono il riutilizzo a fini sociali dei beni abbandonati.

Con queste delibere il Comune individua i beni del patrimonio immobiliare «inutilizzati o parzialmente utilizzati», ma «percepiti dalla comunità come “beni comuni“, e suscettibili di fruizione collettiva», attraverso una analitica mappatura che comprenderà anche i 391 beni del Demanio di cui l’amministrazione ha fatto richiesta. Nella categoria «beni comuni» verranno compresi anche i beni «inutilizzati o parzialmente utilizzati» di proprietà di privati. Il Comune inviterà formalmente i proprietari di questi beni privati, entro 150 giorni, «ad adottare provvedimenti necessari al perseguimento della funzione sociale»; in caso di mancato riscontro, l’amministrazione deciderà l’inglobamento al patrimonio comunale.

Per i complessi edilizi rimasti invenduti, il sindaco convocherà i proprietari costruttori per concordare con loro un prezzo di vendita «parametrato alla capacità media dei napoletani». In caso di mancato accordo, anche questi immobili entreranno a far parte del patrimonio comunale. Abbastanza superfluo aggiungere che l’iniziativa della giunta napoletana porta il dibattito dal livello puramente accademico alla prassi quotidiana, ristabilendo il senso del concetto di “bene comune”. Non sono mancate e non mancheranno le polemiche, poichè il tema tocca il “nervo” del rapporto tra proprietà collettiva e proprietà privata indicando un principio già felicemente applicato in Svezia o in Danimarca.

Per approfondire lo studio del prof. Maddalena invitiamo a leggere il suo recente libro “Il territorio bene comune degli italiani“, di cui potete trovare una nostra recensione e i dati necessari qui:
http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2014/04/il-territorio-bene-comune-degli-italiani-un-libro-di-paolo-maddalena/

Potete anche leggere questo contributo maggiormente dedicato al tema dei cosiddetti “diritti edificatori“: http://www.salviamoilpaesaggio.it/blog/2014/02/il-consumo-di-suolo-e-la-mistificazione-dello-ius-aedificandi/

Secondo Maddalena «gli sprechi, con la crisi dilagante, sono intollerabili: ci sono immobili abbandonati appartenenti a persone che se ne disinteressano, mentre il popolo napoletano vive nei tuguri. La delibera è nel solco della Carta fondamentale: il diritto alla prima abitazione è garantito dalla Costituzione. Ma ci sono beni che soddisfano utilità personali e familiari, inviolabili, e altri che vanno ben oltre questi bisogni. La piccola proprietà è intoccabile, ma la grande proprietà deve giovare a tutti. Capannoni, fabbriche, immobili abbandonati non adibiti alla loro funzione».

In un’intervista al Corriere del Mezzogiorno, Maddalena ha ricordato che «nella Costituzione ci sono norme secondo cui “la proprietà privata non è garantita come diritto soggettivo assoluto, ma esclusivamente in quanto finalizzata ad assicurare una funzione sociale del bene”, il che consente al Comune di acquisire il bene in quanto “bene comune” della città a cui restituire “una funzione sociale ed economica” da decidere attraverso “modalità partecipate”. I beni eventualmente espropriati potranno essere affidati tramite avviso pubblico». Il sindaco Luigi De Magistris ritiene che potranno esserci contenziosi «ma le delibere le abbiamo scritte bene e c’è un preciso procedimento amministrativo. Non c’è alcun rischio per chi possiede beni, ma solo per chi li ha abbandonati».

A ben vedere, questa interpretazione dell’articolo 42 della Costituzione è l’esatto opposto di quanto il Ministro Lupi ha nei giorni scorsi compreso in una bozza di disegno di legge riguardante i principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana. Questo DdL è chiaramente indirizzato verso gli interessi della proprietà immobiliare, così come chiarito sin dal titolo primo e dall’articolo 1 dove si attribuisce ai proprietari il diritto di iniziativa e di partecipazione – nella pianificazione – per “garantire” il valore della proprietà ed evitare riduzioni al valore immobiliare dei terreni.

Delibera 240414 0258 beni pubblici beni comuni (formato pdf – 1,1 MB) >>
Delibera 240414 0259 beni privati beni comuni (formato pdf – 1,3 MB) >>

Riferimenti

Sull'argomento si veda su eddyburg Quel bene di tutti chiamato paesaggio di Francesco Erbani Il consumo di suolo e la mistificazione del ius aedificandi di Paolo Maddalena
Il territorio, il lavoro, la crisi finanziaria.Contributo alla teoria dei beni comuni di Paolo Maddalena, Perché e come contrastare il consumo di suolo di Edoardo Salzano. Si veda anche la sezione Consumo di suolo, e l'anolaga su "archivio di eddyburg 2003-2013"

«Inter­vi­sta­tori e intervistato sono con­sa­pe­voli che le cosid­dette scienze sociali sono spesso stru­mento nelle mani del "potere costi­tuito" per il consenso a un ordine sociale. Pure riten­gono che la socio­lo­gia possa svol­gere un ruolo nella com­pren­sione delle rela­zioni sociali». Il manifesto, 1 luglio 2014

A Zyg­munt Bau­man non difetta la scan­zo­nata ten­denza a met­tere in rela­zione campi disci­pli­nari, attorno ai quali sono state costruite mura stret­ta­mente sor­ve­gliate dai padroni della pro­du­zione sociale della cono­scenza. I suoi libri sono costel­lati da rife­ri­menti let­te­rari, filo­so­fici, eco­no­mici, tele­vi­sivi e cine­ma­to­gra­fici. E tut­ta­via lo stu­dioso di ori­gine polac­che non si stanca mai di ripe­tere che in fondo lui è solo un socio­logo, una disci­plina che può aiu­tare a com­pren­dere il fun­zio­na­mento della società. Ed è pro­prio dallo sta­tuto disci­pli­nare che prende le mosse il libro-intervista di Bau­man con Michael Hviid Jacob­sen e Keith Tester che ha come titolo La scienza della libertà (Erik­son edi­zioni, pp. 160, euro 15).

Non è però la socio­lo­gia la scienza della libertà, anche se in pas­sato è stata così rap­pre­sen­tata. Tanto gli inter­vi­sta­tori che l’intervistato sono con­sa­pe­voli che le cosid­dette scienze sociali sono stati spesso uno stru­mento nelle mani del «potere costi­tuito» per costruire il con­senso a un ordine sociale. Eppure riten­gono che la socio­lo­gia possa con­ti­nuare a svol­gere un ruolo rile­vante nella com­pren­sione delle rela­zioni sociali. A patto, però, che la socio­lo­gia sia con­sa­pe­vole che la neces­sa­ria dimen­sione quan­ti­ta­tiva e le astra­zioni su cui pog­gia sono un modo diverso di rap­pre­sen­tare la vita, gli affetti, le pas­sioni di uomini e donne al pari della let­te­ra­tura, della cine­ma­to­gra­fia. Con alcune affer­ma­zioni di Bau­man che susci­tano mera­vi­glia negli inter­vi­sta­tori. Come quando il car­to­grafo della moder­nità liquida sostiene che ci sono, sto­ri­ca­mente, alcuni romanzi che hanno avuto la capa­cità di cogliere la realtà sociale più di un trat­tato sullo stato nazione o sulle classi sociali.

Que­sto libro-intervista può essere con­si­de­rato in due maniere. La difesa, intel­li­gente e sofi­sti­cata, di una disci­plina acca­de­mica for­te­mente con­te­stata negli anni pas­sati pro­prio per­ché usata dal potere costi­tuito. Oppure può essere letto come un testo che sot­to­li­nea l’ambivalenza che carat­te­rizza la moder­nità liquida. È que­sta seconda carat­te­ri­stica, pre­sente in maniera rile­vante nelle pagine del volume, che svela il carat­tere «aperto» della rifles­sione di Bau­man. Aperta a essere smen­tita, certo, ma anche tesa a misu­rarsi con temi, argo­menti con­si­de­rati «minori» pro­prio dalla socio­lo­gia, come le rela­zioni amo­rose, i talk show, il cini­smo di massa e i sen­ti­menti che accom­pa­gnano la moder­nità liquida (il risen­ti­mento, l’opportunismo, il rifiuto di una etica pub­blica). Rispetto a ciò, Bau­man è con­sa­pe­vole che le fonti a cui attin­gere mate­riali non hanno nulla a che fare con l’ammasso di dati sta­ti­stici o le «astra­zioni» delle disci­pline acca­de­mi­che, ma sono mate­riali grezzi, poco lavo­ra­tivi, che resti­tui­scono tutto ciò che la socio­lo­gia ha sem­pre rite­nuto ines­sen­ziali: i sen­ti­menti. Da qui la cen­tra­lità della loro ambi­va­lenza.
Da que­sto punto di vista l’ambivalenza rivela il suo potere espli­ca­tivo delle rela­zioni sociali. L’esempio più ricor­rente in Bau­man è il con­sumo. L’acquisto dell’ultimo gad­get tec­no­lo­gico o il ricam­bio vor­ti­coso del pro­prio guar­da­roba sono certi com­pren­si­bili all’interno dei mec­ca­ni­smi di ripro­du­zione dell’ordine sociale eco­no­mico, ma hanno anche a che fare con una ten­sione alla libertà che non può essere fret­to­lo­sa­mente liqui­data come una colo­niz­za­zione delle coscienza da parte del capi­tale. Il con­sumo è un atto ambi­va­lente, per­ché pre­fi­gura domi­nio, ma anche ricerca della libertà. È que­sta ambi­va­lenza dei feno­meni sociali e delle moti­va­zioni per­so­nali che ha potere per­for­ma­tivo.
«La scienza della libertà» risiede non tanto nella can­cel­la­zione dell’ambivalenza, ma nella sua for­za­tura in una dire­zione o nell’altra. Tra domi­nio e sot­tra­zione dal potere, Bau­man tut­ta­via non sce­glie. Man­tiene «aperta» la sua rifles­sione a esiti ancora non con­tem­plati dal les­sico poli­tico. Ma è pro­prio in que­sta aper­tura che si pos­sono accen­tuare i punti di rot­tura, di fuo­riu­scita dall’ordine sociale domi­nante. Una pro­spet­tiva che potrebbe essere accolta da Zyg­munt Bau­man con un sor­riso venato da un amaro disincanto.

I limiti e gli errori di un'analisi meramente quantitativa di un processo territoriale, economico e sociale. A chi «farebbe bene» il land grabbing? Greenreport, 27 giugno 2014, con postilla

Secondo lo studio Food appropriation through large scale land acquisitions pubblicato su Environmental Research Letters da un team italo-americano di ricercatori del Politecnico di Milano e dell’Università della Virginia, «La coltivazione delle terre coinvolte nel fenomeno del “land grabbing” nei paesi in via di sviluppo ha il potenziale di nutrire 100 milioni di persone, in aggiunta a quelle sfamabili nelle stesse terre con le attuali tecnologie. Il potenziamento delle infrastrutture derivante dagli investimenti in agricoltura potrebbe infatti incrementare la produttività dei terreni agricoli di sussistenza in paesi come la Papua Nuova Guinea, il Sudan, l’Indonesia etc. Gli investimenti alla scala globale riuscirebbero così a sfamare almeno 300 milioni di persone in tutto il mondo, paragonati ai circa 190 milioni che potrebbero essere nutriti da tali terre nelle condizioni attuali».

Lo studio che punta ad un quadro generale ma che sembra sottostimare le pesanti ricadute sociali ed ambientali a livello locale, analizza l’acquisto su vasta scala di terreni da parte di società e governi nazionali o esteri, cioè la controversa pratica del “land grabbing”, soprattutto in Africa dove moltissime acquisizioni sono avvenute in regioni con problemi di sicurezza alimentare e di malnutrizione.
I ricercatori del politecnico spiegano che «C’è chi sostiene che tali investimenti in agricoltura miglioreranno significativamente le rese colturali, genereranno nuovi posti di lavoro e porteranno nuove conoscenze e infrastrutture in aree spesso deprivate. Altri puntano l’accento sul fatto che i prodotti coltivati vengono spesso esportati dagli investitori in altri paesi, obiettando che queste acquisizioni potrebbero sottrarre alle popolazioni locali il controllo sui terreni, l’acqua e le risorse naturali, lasciandole in una condizione persino peggiore di quella attuale».
Lo studio italo-americano «Ha quantificato la massima quantità di cibo che può essere prodotta da colture coltivate nelle terre oggetto di acquisizione e il numero di persone che queste potrebbero sfamare. Tali risultati sono stati confrontati con la produzione agricola ottenibile con le pratiche colturali attuali e con il numero di persone nutribili con tali raccolti». Per ottenere loro risultati, i ricercatori dicono di aver «Utilizzato un database alla scala globale contenente le acquisizioni di terreni con una superficie superiore a 200 ettari, avvenute dal 2000 in avanti. Ogni acquisizione di terreno era corredata di informazioni relative alla superficie del terreno e alla coltivazione dominante, oltre che di indicazioni circa la tipologia dell’accordo: contratto firmato o verbale, oppure semplice intesa successiva a una manifestazione di interesse».
Poi hanno calcolato, per ciascuna acquisizione di terra, il massimo rendimento potenziale della coltura/e coltivata ed tilizzato le calorie dell’alimento per determinare il numero di persone che tale raccolto potrebbe nutrire. Secondo i calcoli prodotti nello studio «Se tutti i terreni acquisiti venissero coltivati al massimo del loro potenziale di resa colturale, la produzione di riso, mais, canna da zucchero e palma da olio aumenterebbe rispettivamente del 308%, 280%, 148% e 130%. Tenendo in considerazione le proporzioni delle coltivazioni che potrebbero essere utilizzate per la produzione alimentare, oltre che del fabbisogno necessario per una “dieta bilanciata”, i risultati hanno dimostrato che le colture prodotte su terreni acquisiti potrebbero nutrire tra 300 e 550 milioni di persone, contro i 190-370 milioni di persone che risulterebbero nutrite da tali terre con le attuali tecnologie».
Sempre secondo i risultati, «La classifica dei paesi più coinvolti nel fenomeno del “land grabbing” vede in testa l’Indonesia, seguita dalla Malesia, dalla Papua Nuova Guinea e dall’exSudan. Complessivamente questi paesi potrebbero fornire (nel caso di produzione massima) l’82% delle calorie ottenibili dalla coltivazione di tutte le terre acquisite. Studi precedenti riferivano che circa 32,9 milioni di ettari di terreni erano stati acquisiti tramite investimenti internazionali su vasta scala per varie finalità. Di questi, 22 milioni erano stati acquisiti a scopo agricolo».
Maria Cristina Rulli del Politecnico di Milano e Paolo D’Odorico dell’Università della Virginia commentano: «La nostra ricerca ha fornito una valutazione del quantitativo di cibo potenzialmente producibile in terreni soggetti al fenomeno delle acquisizioni di terreno su larga scala. Di conseguenza, deve esserci la consapevolezza del fatto che se questi alimenti venissero utilizzati per nutrire le popolazioni locali potrebbero alleviare la malnutrizione addirittura, nel caso in cui le terre acquisite non fossero state precedentemente coltivate, anche senza investimenti finalizzati all’aumento della resa colturale».
Il problema è che il land grabbing non punta a sfamare le popolazioni locali, ma a rifornire spesso i mercati esteri dei Paesi e delle imprese che acquisiscono i terreni. «Attualmente – concludono Rulli e D’Odorico vi sono ancora domande aperte le cui risposte potrebbero contribuire al dibattito su tale tema e cioè: come vengono gestiti i terreni acquisiti? Ovvero, che ne è degli alimenti prodotti? Vengono esportati dagli investitori? Questi terreni venivano già utilizzati per scopi agricoli prima dell’acquisizione e, se sì, per quali coltivazioni? Con quale resa colturale? Ottenere risposte a queste domande ci permetterebbe di quantificare la diminuzione degli alimenti disponibili per le comunità locali e ci aiuterebbe a trovare strategie di gestione per ridurre le possibili conseguenze negative delle acquisizioni su vasta scala sulle comunità locali».

postilla

Molto, troppo caute le riserve dei ricercatori sui risultati del loro lavoro, e stranamente neutrale il titolo attribuito da Greenreport all'articolo. La domanda chiave, a nostro parere, è la seguente: è ragionevole, dal punto di vista dell'equità e del rispetto dei diritti degli uomini, privare 180 milioni di poveri contadini del Terzo mondo della base della loro sussistenza per consentire un più ampio consumo di tea, caffè e altre leccornie ai già obesi ed energivori abitanti del Primo mondo? Poiché è questo che, oggi e storicamente, significa il land grabbing.
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Apuane: vi è una riserva di marmo ancora per mille anni di escavazione, sostengono gli industriali. E chi se ne frega se questo comporterebbe la sparizione di uno straordinario monumento >>>

Apuane: vi è una riserva di marmo ancora per mille anni di escavazione,sostengono gli industriali. E chi se ne frega se questo comporterebbe lasparizione di uno straordinario monumento paesaggistico, ambientale egeologico. L'importante - come si è anche accorta la famiglia Bin Laden che oravuole entrare nel business - è di continuare a godere di colossale renditeinquinando sorgenti, fiumi e aria. Intanto, un passo in questo senso è statofatto con l'approvazione nella Commissione ambiente e territorio della RegioneToscana, nonostante l'eroica resistenza dell'assessore Marson, di ulterioriemendamenti peggiorativi del Piano paesaggistico. Di cui, il più negativo è lapossibilità di riaprire le cave dismesse da non più di 20 anni al di sopra dei1200 metri, in aree vincolate. E non è improbabile che in fase di approvazioneda parte del Consiglio regionale, qualche soldatino alle dipendenze diConfindustria proponga ulteriori codicilli per la distruzione della Montagna.

Ma in attesa dell'assalto finale, si possono già fare alcuneconsiderazioni. La prima è che, nonostante che le autorizzazioni di apertura dinuove cave dovrebbero ora essere inquadrate in "piani di bacino"soggetti al parere preventivo della Regione, saranno i Comuni a decidere e adire l'ultima parola; e l'esperienza insegna che in Toscana l'osservanza deipiani sovraordinati è stata finora un'eccezione. Con l'aggravante, che quil'osmosi fra amministratori, imprese e Parco delle Apuane ha creato un bloccodi interessi che nessun meccanismo regolativo di piano può seriamente intaccare.Bisogna, perciò, cambiare politica e l'unica chance in questo senso è dimandare a casa gli attuali amministratori e sostituirli con persone che sipreoccupino più della salute del territorio e dei cittadini che dei profittidelle imprese. Da qui alle prossime elezioni questo è il compito dei comitati.

La seconda considerazione è che il grande sconfitto di questa prova diforza è il Presidente Enrico Rossi, il quale all'inizio e durante il suomandato aveva ribadito che la sua era una maggioranza di sinistra. "Ilnuovo piano garantisce insieme alla tutela ambientale, anche le legittimeistanze di crescita e sviluppo economico"; non è un esponente della giuntaa dichiaralo, ma la portavoce di Forza Italia che così sancisce la nascita di una nuova maggioranza. LaRegione Toscana perciò si omologa alla politica di Matteo Renzi, il premier cheintende sfasciare la Costituzione vigente in combutta con un corruttore digiudici e di minorenni, compratore di senatori, evasore fiscale, ma"votato da milioni di italiani".

Fine del modello toscano? Vi è da dire che questo modello, chesignificava uno sviluppo che non distruggesse paesaggio e ambiente, ma anzi nefacesse preziose materie prime da salvaguardare e riprodurre, è esistito solocome proposta politica e tecnica di minoranze fra cui la Rete dei Comitati perla difesa del territorio. E, tuttavia, il tentativo e in qualche caso la speranzaerano che le istituzioni sapessero raccogliere la sfida, in tale senso erastato possibile registrare qualche cauta apertura del Presidente della Regione.Ora, un Consiglio di nominati dai partiti, ignaro di quanto avviene nel mondo,culturalmente arretrato (e cattiva cultura fa cattiva politica) affonda questasperanza. Ribadisce che lo sviluppo si ottiene distruggendo un patrimonio chenon appartiene ai cavatori, ma al mondo. Scavalca i sindacati, molto più cautie consapevoli che la monocultura marmifera deve essere sostituita daun'economia più equilibrata che valorizzi tutte le risorse del territorio.Puntella le rendite dell'oligopolio dei cavatori senza accorgersi che larendita storica del partito ex Pci, ex Pds, ex Ds, ... "ex" siesaurirà definitivamente quando sulla scena elettorale prenderà posizione unpartito degno di credibilità che faccia propri gli interessi dei cittadini.

Per adesso solo un progetto pilota della multinazionale svedese, me è innegabile che gli effetti della riurbanizzazione anche su stili di vita e relativo mercato si facciano sentire. Bloomberg, 30 giugno 2014 (f.b.)

Titolo originale: Ikea Goes Urban With First High Street Store in Hamburg – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Ikea è riuscito a diventare il principale negozio di arredamento del mondo convincendo la clientela a guidare fino a enormi centri ai margini delle aree metropolitane, da Stoccolma a Shanghai. Ma da oggi gli abitanti di Amburgo potranno andarci a piedi in una normale via della città. Il colosso svedese apre il suo primo negozio urbano nella zona di Altona, la circoscrizione più a ovest delle sette che compongono Amburgo, in un progetto pilota rivolto ai sempre più numerosi residenti delle città che detestano le lunghe trasferte verso i punti vendita tradizionali giallo blu. Una inaugurazione che (al costo per l'azienda di 80 milioni di euro) rappresenta un esperimento per Ikea, e apre nuove frontiere al mercato, secondo Johannes Ferber, direttore generale che guida l'espansione in Germania. “Un esperimento molto costoso per noi,ma vogliamo capire se funziona il formato del negozio urbano. E quello di Altona può servire da modello per altre grandi città come Berlino”. Si tratta di un'idea in linea con altri tentativi di altre catene di colonizzare gli ambienti urbani, da Tesco a Carrefour, con formati di dimensioni minori e relativamente centrali. I centri città sono anche l'ultima tendenza per le case automobilistiche, come la Daimler che ha appena aperto sempre a Amburgo un negozio Mercedes completo di bistrot, passeggiata commerciale e che mostra una sola auto.

Un sito dismesso

L'Ikea ha 356 punti vendita al mondo, 49 in Germania. Il progetto di Altona è il terzo nella città portuale, terza per dimensioni nel paese e prima per il reddito pro capite, secondo le statistiche della camera di commercio locale. La decisione di localizzarsi a Altona nasce nel quadro di una ricerca per un terzo negozio, racconta Ferber, e la municipalità ha di propria iniziativa messo a disposizione un sito dismesso abbandonato da oltre sei anni. La compagnia calcola che nel negozio potrebbero passare mediamente 4.000 clienti al giorno, anche il doppio nei fine settimana e altre occasioni particolari, contro i 12.000 nei negozi di Monaco o Berlino. “Molti residenti delle città non possiedono un'auto, e non sono disposti a guidare fuori città per far shopping” continua Ferber, e la speranza è che oltre la metà dei clienti di Altona verrà qui coi mezzi pubblici o a piedi.

Biciclette in prestito

Ikea mette a disposizione delle cargo bike per i clienti che possono così trasportare gratis i propri acquisti a casa, salvo restituire il mezzo entro tre ore. In alternativa è possibile chiedere a un corriere sempre in bicicletta, prezzo di partenza 9,90 €, di farsi consegnare la spesa a domicilio. “Per noi è una sfida, dobbiamo contare su un buon movimento per servire rapidamente la clientela a casa”. Ikea ha anche modificato la propria offerta di prodotti per il negozio di Altona, secondo la possibile domanda dei potenziali 150.000 clienti che risiedono in un raggio di tre chilometri, dalle scaffalature agli accessori. Incaricati dell'azienda hanno visitato 200 appartamenti della zona a valutare le necessità specifiche, racconta Ferber. “Ci sono tantissimi abitanti di Amburgo che si portano una costosa bicicletta fino in casa perché non hanno altro posto per metterla, e abbiamo una soluzione per loro”, si tratta di un gancio da muro particolare. E a differenza dei classici enormi contenitori Ikea senza finestre, al piano terra di Altona un'ampia vetrina mostra vari prodotti fra cui la sedia girevole Skruvsta a 99 euro, o le lampade Maskros a 39 euro.

‘Kill Billy’

All'interno, Ikea offre la zona esposizione e quella in cui il cliente può caricare i prodotti sui trolley o sistemarli altrimenti. Nei negozi tradizionali queste due aree sono su piani diversi. “Un modo innovativo di proporre cose come le cucine insieme ai relativi accessori, vetreria, porcellane, pentole, per poi passare alle sale da pranzo o sedie” continua Ferber. L'apertura del negozio ha suscitato opposizioni con lo slogan “Kill Billy” attaccato con adesivi ai lampioni e cestini della carta straccia, che cita ovviamente la famosa libreria simbolo del marchio: secondo gli oppositori la riqualificazione farà impennare quotazioni immobiliari e affitti.

In un referendum tenuto nel gennaio 2010 a Altona, il 77% dei votanti si è espresso a favore del negozio. “Se i favorevoli fossero stati una maggioranza del 51% forse ci avremmo ripensato, ma con una margine tanto ampio abbiamo deciso di proseguire” conclude Ferber. “Certo per Ikea deve essere molto diverso dall'organizzare un punto vendita in aperta campagna, dato che bisogna confrontarsi coi quartieri”commenta Florian Kroeger, gestore di un esercizio di ristorazione all'altra estremità dell'area pedonale. La sua famiglia è proprietaria di Claus Kroeger da 90 anni, si offrono bevande calde scelte e vini. Secondo Kroeger, 41 anni, il grande negozio farà bene, portando un po' di necessaria vita nel quartiere tradizionalmente operaio.

Una prospettiva di osservazione giornalistica che più sbagliata non si potrebbe, per un'idea - con beneficio d'inventario ovviamente - a suo modo virtuosa del rapporto fra politica, sviluppo, ambiente e società. Corriere della Sera, 28 giugno 2014, postilla (f.b.)

Si chiamerà Jing-Jin-Ji. Sembra uno scioglilingua, ma è il nome della megalopoli da oltre 110 milioni di abitanti che nei disegni dei pianificatori cinesi servirà da modello per una nuova forma di urbanizzazione e di sviluppo dell’economia. Si tratta di fondere Pechino con Tianjin e lo Hebei, la provincia che circonda la capitale. «Jing» riassume Beijing; «Jin» sta per Tianjin e «Ji» è un’abbreviazione di Hebei. Il progetto Jing-Jin-Ji ha avuto la benedizione del presidente Xi Jinping, che lo dirige. Il nuovo agglomerato sta prendendo forma: intorno alla capitale è in fase avanzata di costruzione un anello autostradale che collegherà la super area urbana; Pechino è già contornata da sei tangenziali, che qui si chiamano anelli, a partire dal quadrilatero della Città proibita, ma questo settimo sarà lungo 940 chilometri per collegare e integrare la nuova regione cittadina. L’apertura al traffico è prevista nel 2015. Oltre all’impatto sociale e allo stupore per un progetto così enorme, la megalopoli ha un significato politico: i politologi cinesi dicono che Xi l’ha immaginata come impronta ed eredità della sua presidenza. Una tradizione che risale all’era imperiale: l’ordine di innalzare la Grande Muraglia venne dal primo imperatore, Qin, due secoli prima di Cristo; il Grande Canale d’acqua che collega Hangzhou nel Sud a Pechino fu fatto scavare dall’imperatore Sui Yang nel settimo secolo.

Nel nuovo impero globalizzato in cui si è trasformata la Repubblica popolare, Deng Xiaoping ha costituito la zona economica speciale di Shenzhen nel 1978, lanciando il «mercato con caratteristiche cinesi»; Jiang Zemin ha spinto l’industrializzazione del delta dello Yangtze designando Shanghai come il centro finanziario della Cina. E l’era Xi sarà segnata da Jing-Jin-Ji, che oltre a proporre una forma di urbanizzazione centrata sui trasporti ferroviari ultraveloci e le superstrade a otto corsie, dovrà servire da vetrina per la nuova riforma dell’economia. L’area intorno a Pechino interessata dal progetto si estende per 216 mila chilometri quadrati, circa due terzi della superficie italiana; con i suoi 110 milioni di abitanti (21 a Pechino, 14 a Tianjin, 73 nello Hebei) si avvicina alla popolazione del Giappone; ha un Prodotto interno lordo combinato di oltre sei trilioni di yuan, quasi mille miliardi di dollari, ossia il 10 per cento del totale cinese. Di Jing-Jin-Ji si è cominciato a parlare da anni, perché le gigantesche pianificazioni sono la specialità di questa Cina.

Ma ora la realizzazione rapida sembra vitale. Anzitutto bisogna trovare una cura per le malattie urbane che rischiano di rendere invivibile la capitale: il traffico pazzo di quasi sei milioni di automobili, gli ingorghi chilometrici, l’inquinamento cronico e il costante aumento della popolazione (Pechino sta crescendo di 600 mila abitanti l’anno). Anche Tianjin, con i suoi 14 milioni di anime, soffre su scala lievemente ridotta degli stessi mali. Per questo viene coinvolta la provincia dello Hebei. Il governo ha deciso che alcuni dipartimenti ministeriali, università e ospedali verranno spostati dalla capitale a Baoding, 150 chilometri a sudovest. E per convincere cinque milioni di abitanti a spostarsi subito almeno di qualche decina di chilometri, le autorità pechinesi hanno già cominciato ad abbattere dei grandi mercati di periferia che richiamavano decine e decine di migliaia di lavoratori migranti. Pechino e Tianjin distano 130 chilometri, ma in realtà si fa prima a muoversi tra le due città che da un capo all’altro della capitale. Con il treno superveloce, dalla modernissima stazione Sud di Pechino che somiglia a un aeroporto, si impiegano 33 minuti esatti per sbarcare nel centro di Tianjin, dove all’inizio del secolo scorso sorgeva la concessione italiana in Cina. Ora, intorno alle nostre vecchie palazzine coloniali (che vengono restaurate per ospitare sedi di società del terziario e locali pubblici) stanno sorgendo grattacieli di vetro e acciaio ispirati al modello Manhattan. Poi c’è la questione economica.
Xi ha detto che integrare e coordinare lo sviluppo della regione intorno a Pechino in termini di funzioni amministrative, di distribuzione delle industrie, trasporti, servizi urbani, eviterà doppioni, sprechi, inefficienze dovuti all’inutile concorrenza tra città vicine per gli stessi settori di business. Presentato così, il futuro di Jing-Jin-Ji sembra roseo. Ma naturalmente ci sono urbanisti che contestano l’idea, sostenendo che è una finzione. Le città dell’area intorno a Pechino sono già quasi contigue, i benefici reali della fusione saranno minimi, dice Ray Kwong del China Institute presso la University of Southern California: «Usando il criterio che i cinesi sostengono di voler inventare con “Jing-Jin-Ji” si potrebbe già chiamare l’area tra Boston e Washington “Bosington”».


postilla
Sia l'autore dell'articolo che il rappresentante del californiano China Institute dimostrano, usando quel termine “Bosington”, di non sapere nulla del tema con cui si stanno baloccando: la medesima regione urbana ha da oltre mezzo secolo un altro nome, ovvero “Bos-Wash”, coniato dal geografo Jean Gottmann a indicare (e qui arriva il vero svarione dei nostri eroi) non tanto un progetto insediativo, sul tipo per esempio delle utopie anni '30 alla maniera di pensare l'urbanistica di le Corbusier o la sua totale esplosione autostradale alla Wright, ma una prospettiva intelligente di osservazione di ciò che

sta gia' accadendo, e che è meglio considerare nel suo insieme, anziché decidere a pezzi e bocconi, col rischio di subirne contraccolpi inattesi che dureranno sull'arco di generazioni. Ed è giusto e corretto, almeno provare a conferire respiro politico di ampio raggio alle trasformazioni dell'ambiente e del territorio, nella scia di grandi programmi di fatto già attuati o pensati. Si pensi, solo per fare un paio di esempi, al programma britannico delle New Towns, di fatto proiezione territoriale dell'antica utopia sociale di Ebenezer Howard, declinata prima a sinistra dal Labour, ma poi sostanzialmente ripresa a destra dai governi Conservatori, a dimostrare la validità di questo concetto positivo di Megalopoli, lontano mille miglia dall'idea di città degenerata evocata originariamente dal reazionario Oswald Spengler (non a caso ispiratore dei nazisti). L'altro esempio, nostrano italiano, è quello del Progetto '80 e delle sue proiezioni territoriali, che intendevano non tanto imporre astratti assetti macro-progettuali alla penisola, ma al contrario dare respiro strategico a processi già in corso, e tentare di monitorarne in modo unitario gli sviluppi. Basta pensare ai passaggi che legavano ambiente, mercato del lavoro, e nascita di quello che allora si chiamava ancora elaboratore elettronico. Ripensarci, oggi, guardando alla Cina ma non solo, non pare così sciocco e fuori dalla realtà, anche se magari non piace alla vulgata contabile di gran voga (f.b.)
p.s. Sulla megalopoli originaria Bos-Wash si veda in Eddyburg Archivio l'estratto da Jean Gottmann, Funzioni e relazioni di una pluri-città (1960)

Alla scadenza della concessione, le autostrade potrebbero tornare gratuitamente allo Stato. Una norma semplice e mai applicata. Perché i concessionari cercano in ogni modo di ottenere rinnovi senza gara o almeno lunghe proroghe. Come utilizzare i pedaggi per risolvere il problema degli indennizzi. Lavoce.info, 27 giugno 2014, con postilla

Rinnovo o ritorno allo Stato?
La concessione di ogni autostrada prevede che, alla scadenza, l’infrastruttura venga devoluta gratuitamente al concedente, cioè allo Stato. Perché questa norma, così chiara, non viene applicata alle varie concessioni già scadute? È ben vero che l’Unione Europea impone che i rinnovi di concessione vengano assegnati per gara, ma certo non potrebbe obiettare se lo Stato, magari tramite l’Anas, si appropriasse dell’autostrada senza bandire alcuna gara. L’ostacolo maggiore è rappresentato dall’indennizzo che lo Stato dovrebbe pagare al “vecchio” concessionario per gli investimenti realizzati e non ancora ammortizzati.

Quando i concessionari fanno melina
Per aumentare le probabilità di rinnovo, con o senza gara, le concessionarie minimizzano nel tempo gli ammortamenti, aumentando così sia il profitto che l’importo dell’indennizzo in caso di subentro. Anche i nuovi investimenti (ad esempio, terze corsie) sono avviati negli anni a ridosso della scadenza, sempre per accrescere ulteriormente l’indennizzo di subentro. I concessionari poi, forti anche dei loro appoggi politici, fanno di tutto per ottenere rinnovi senza gara o per evitare che ne vengano fatte di “vere” e aperte. La conseguenza è che, sino ad oggi, non si è riusciti a concludere nemmeno una gara per il rinnovo di una concessione.

Per la Padova-Mestre è stata rinnovata senza gara a una società mista tra Anas e Regione Veneto. La Cisa e la Brescia-Padova hanno ottenuto lunghe proroghe con l’appiglio della costruzione di nuove tratte previste all’origine, in concessioni ormai vecchie di quaranta o cinquanta anni, ottenute al tempo senza gara e gratuitamente. Tre concessioni già scadute – Centropadane (settembre 2011), Autostrade Meridionali (dicembre 2012, Autobrennero aprile 2014) – continuano a essere gestite in proroga dalle stesse concessionarie.

Per la Centropadane una gara bandita nel 2012 è in “stallo” e la società minaccia di chiedere 320 milioni di danni allo Stato se non otterrà una proroga; a bilancio il valore dei beni devolvibili ancora da ammortizzare è di 260 milioni. Le Autostrade Meridionali indicano a bilancio un indennizzo di subentro di circa 400 milioni. In entrambi i casi, per evitare esborsi rilevanti da parte dello Stato, la scelta della gara per il rinnovo sembra appropriata, purché si riesca infine a fare delle vere gare, aperte anche a concorrenti.

Il caso Autobrennero
Ben diversa appare invece la situazione dell’Autobrennero. Una legge del 2010 prevedeva che l’Anas dovesse indire una gara entro l’anno. Bandita poi con un anno di ritardo, è stata contestata dalla concessionaria con vari ricorsi al Tar e dopo tre anni non pare vi sia ancora in vista alcuna soluzione, mentre continuano i tentativi di parlamentari della Regione di ottenere proroghe o lunghi rinvii mediante “colpi di mano” con emendamenti a leggi finanziarie inseriti all’ultimo momento. Nel bilancio (2012) i beni devolvibili ancora da ammortizzare sono indicati in 200 milioni. Non sappiamo se i piani finanziari (secretati) indichino cifre diverse, ci sarebbe comunque da aspettarsi semmai somme inferiori a quelle di bilancio, visto che non per tutti gli investimenti fatti dalle concessionarie c’è l’assenso dell’Anas. Se l’autostrada venisse devoluta allo Stato, senza bandire alcuna gara per rinnovo, l’esborso per l’indennizzo potrebbe essere finanziato a debito con grande facilità dall’Anas (o da un altro ente pubblico che subentri nella proprietà dell’autostrada) e rimborsato in poco più di un anno, considerando che l’autostrada produce un flusso di cassa operativo di oltre 150 milioni l’anno. Né sono previsti significativi nuovi investimenti.

Non si tratterebbe di una “nazionalizzazione” perché, con l’unbundling, tutte le (poche e semplici) attività gestionali (esazione, pulizia, manutenzione) potrebbero essere messe separatamente e periodicamente a gara e assegnate alle imprese private più efficienti (magari alla stessa vecchia concessionaria). Non ci sarebbero nuovi occupati nel settore pubblico, tranne i pochi addetti alla gestione delle gare. Il gettito dei pedaggi affluirebbe invece direttamente allo Stato (magari tramite l’Anas). Un esempio di questo sistema esiste già in Spagna.

I pedaggi furono introdotti per finanziare il costo delle nuove autostrade. Logica vorrebbe dunque che, terminato l’ammortamento e la concessione, com’è nel caso dell’Autobrennero, i pedaggi venissero eliminati o quanto meno riportati a quanto necessario per coprire i soli costi di manutenzione. Mantenendo invece i pedaggi al livello attuale si genera un cospicuo flusso di profitto che ha la natura di imposta. È preferibile allora che sia lo Stato stesso a riscuotere questa componente d’imposta, piuttosto che venderla a un nuovo concessionario che, nella determinazione del prezzo offerto, applicherebbe certo un forte sconto al flusso di profitti atteso.

Con la devoluzione, si potrebbe avere anche una notevole riduzione di costi perché nelle gare per l’assegnazione dei vari servizi (esazione, pulizia, eccetera) vi sarebbe ampia e vera concorrenza: per manutenzioni e nuove costruzioni si potrebbero assegnare appalti “aperti” senza doverle affidare a imprese controllate in house. E si eliminerebbero tutti i costi societari come ad esempio i pletorici consigli di amministrazione.

postilla

Riemerge finalmente l'antica battaglia dell'indimenticabile (per chi lo ha conosciuto) Guglielmo Zambrini, che per primo svelò la truffa delle concessioni autostradali e del loro sempiterno rinnovo, uno dei primi veicoli dello spostamento di risorse dal pubblico al privato, di accrescimento del debito pubblico e del suo trasferimento alle generazioni future.

Rispunta dopo un periodo di velo pietoso su un'area lasciata all'abbandono, il progettone simbolo del centrodestra urbanistico, che sia l'ennesima volta buona? Dal tono, parrebbe proprio di no, almeno riguardo ai vantaggi per la città. Corriere della Sera Milano, 27 giugno 2014, postilla (f.b.)

Santa Giulia si presenta al mercato. Dopo il lungo stop imposto dalla magistratura e dopo aver affrontato una profonda crisi finanziaria e la successiva ristrutturazione dell’assetto societario, il gruppo Risanamento propone il nuovo masterplan dello sviluppo edilizio e urbanistico di circa 450 mila metri quadrati a sud-est di Milano, oltre Rogoredo.

Il piano presentato ieri all’ultima giornata di Eire-Expo Italia real estate, la fiera del settore immobiliare, è sostanzialmente lo stesso già illustrato (a fine gennaio) al Comune e prevede nuove residenze, un nuovo museo tecnologico dedicato ai bambini (al posto della prima idea di un centro congressi), un’arena per spettacoli ed eventi sportivi e un parco urbano che diventerà il secondo più grande della città con 330 mila metri quadrati di verde. L’idea dei progettisti dello studio Forster+Partners è quella di un quartiere «aperto» e non separato al resto della città, grazie ai collegamenti viari e di trasporto pubblico, da un lato con Rogoredo e dall’altro con la zona di viale Ungheria e via Bonfadini «Il meglio della città, insieme al meglio del verde», è lo slogan suggerito dall’architetto Luis Matania, insieme all’immagine di una zona capace di vivere «24 ore su 24» per effetto delle molte funzioni commerciali e terziarie e del reticolo di strade strette e «promenade » pedonali. Nella parte Sud dell’area, inoltre, è prevista a breve la consegna del raddoppio (altri 20 mila metri quadrati) dell’insediamento di Sky tv.

«Abbiamo pensato a una città che punta sull’integrazione di due dimensioni chiave — spiega Davide Albertini Petroni, direttore generale Risanamento e amministratore delegato di Santa Giulia —: sostenibilità e smartness, traducendo in proposte concrete il concetto di smart city». Ma subito dopo spiega anche che una priorità è «trovare operatori interessati al progetto e preparare un piano da presentare al mondo immobiliare», oltre a «trovare partner che possano investire». A fine marzo, infatti, è scaduta la clausola di esclusiva di Idea Fimit, la società di sviluppo immobiliare che aveva manifestato interesse a una partnership con Risanamento su Santa Giulia. Resta quindi aperto il nodo della ricerca di nuove «forze», dopo le traversie finanziarie e le cessioni di alcuni asset, tra i quali l’area Falck.

Il progetto, inoltre, è in attesa di approvazione da parte del Comune di Milano e «con gli enti competenti quali Arpa e Asl si sta iniziando il processo di confronto per la procedura delle bonifiche, visto che la zona si trova su una ex area industriale della Montedison — spiega ancora il direttore generale — con l’obiettivo di iniziare i lavori nei primi mesi del 2016 e di concluderli in un periodo di almeno 7 anni dall’inizio del lavoro delle gru». Insomma, c’è ancora un po’ di strada da percorrere prima di vedere completato questo nuovo pezzo di città, che ha già conosciuto una gestazione tormentata, con il lungo sequestro giudiziario del parco che adesso è stato riconsegnato alle 1.400 persone che già abitano a Santa Giulia.

postilla

Condividiamo le conclusioni dell'articolo: eh si, c'è ancora un bel po' di strada da fare, soprattutto per capire, o provare a capire, quale sarà lo sbocco a regime, anche nei suoi effetti non solo urbanistici sul contesto circostante, del progettone simbolo degli interessi privati che, da soli, avrebbero dovuto scagliare la metropoli nell'orbita luccicante del postmoderno, dove tutti sono fotomodelle, designers, cantanti e intrattenitori, intenti a relazionarsi in una specie di shopping mall eterno e ubiquo. Ci restano invece ancora quegli eterni disegni, urbanisticamente identici, di un quartiere che fa poco per quanto gli sta attorno, e che segrega anche al proprio interno le zone di serie A da quelle di serie B, col parco a fare da cuscinetto. E restiamo sempre e comunque, a vent'anni e passa dal suicidio (qualcuno se lo ricorda ancora, no?) di Raul Gardini, travolto da quell'idea di passaggio dall'industria alla rendita immobiliar-finanziaria-tangentara, sospesi nel limbo delle decisioni degli speculatori. Consolandoci, si fa per dire, con l'ennesimo rendering dell'archistar, mentre vorremmo camminarci dentro, nella città futura, tanto per gradire (f.b.)
p.s. Digitando nell'Archivio “Santa Giulia” nel motore di ricerca interno, o magari semplicemente sfogliando le pagine della sezione Milano, tanti particolari in più

Dietro l’apparente ingenuità della proposta ci sia la solita retorica del petrolio d’Italia: una retorica che ha in mente una bellezza da sfruttare, se non da prostituire. E non stupisce che sia stato Oscar Farinetti a lanciare l’idea, nel marzo scorso». Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2014


L’Italia è una Repubblica democratica fondata sulla bellezza”. Dopodomaniun certo numero di persone con un’agenda sorprendentemente libera si incontreràa Roma per discutere (sembra seriamente) sull’opportunità di cambiare in questomodo l'articolo 1 della nostra Costituzione. Da settimane un incalzantemailbombing annuncia l’evento, promosso dalla deputata Sel, Serena Pellegrino,e condiviso da molte associazioni, anche serie e rispettabili. Tutti, apartire dalla promotrice, sembrano in ottima fede. E si presume che inbuona fede sia anche il giornalista di Report Emilio Casalini, che è il veroautore dell'idea, contenuta in un suo ebook (Fondata sulla bellezza. Come farrinascere l’Italia a partire dalla sua vera ricchezza) appena uscito daSperling&Kupfer.

Gli stralci di questo testo, tuttavia, confermano comedietro l’apparente ingenuità della proposta ci sia la solita retorica delpetrolio d’Italia: una retorica che ha in mente una bellezza da sfruttare, senon da prostituire. E non stupisce che sia stato Oscar Farinetti a lanciarel’idea, nel marzo scorso. Ma quali che siano i sottintesi, l’idea meritadi essere (velocissimamente) archiviata. Intanto i principi fondamentali dellaCostituzione sono un sistema perfettamente equilibrato, che non c’è alcunmotivo di alterare. E poi questa retorica stucchevole ed estetizzante della“bellezza” (che “salverà il mondo”, secondo una frase di Dostoevskijdecontestualizzata e ripetuta a vanvera) è superficiale, melensa,deresponsabilizzante, sviante. La Repubblica non tutela il patrimonio perchésia “bello”, ma perché ci fa eguali, liberi, umani. Il valore in gioco non è labellezza, ma la cittadinanza. E poi: chi non vede quanto sarebbe devastantesostituire al pane del lavoro la brioche della bellezza? Non ci potrebbe essereun messaggio più autolesionista e privo di mordente e di futuro. Dopo un similecambiamento non ci resterebbe che dire ai nostri ragazzi: “Non hai lavoro? Èl’Italia, bellezza”.

Solo in Italia non c’è obbligo di sottoporre i progetti finanziati dallo Stato, come Mose o Expo, a valutazioni economiche di esperti indipendenti. Poi dicono che la corruzione è colpa di poche mele marce, o dei troppi controlli della burocrazia. Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2014
In Italia si costruiscono grandi opere, ma nessuno spiega perché. Il 6 giugno, al Politecnico di Milano, si è svolto un convegno sulla valutazione economica dei grandi investimenti nei trasporti. L’Italia è un paese peculiare: non ha mai valutato seriamente nulla, nonostante diverse norme lo prevedessero, in particolare quelle ambientali. O meglio, sono state fatte ma sempre con risultati positivi. Trovare tecnici e accademici “non eccessivamente pignoli” non è difficile, soprattutto se retribuiti dai promotori degli investimenti stessi. In Italia, al contrario di quel che avviene negli organismi internazionali e nei paesi sviluppati, non è richiesta alcuna “terzietà” alle analisi: ci si limita a chiedere all’oste se il vino è buono. Solo da pochi tecnici indipendenti, e di rado, sono arrivati dei “no” basati su analisi economiche e finanziarie. I risultati di queste iniziative isolate si sono visti. Ma a danno delle carriere di quegli incauti che hanno fatto le analisi.

Molte mazzette e poche analisi

Quello delle grandi opere pubbliche è uno dei pochi in cui il governo è autorizzato dalla normativa europea a trasferire risorse alle imprese nazionali. Infatti le gare per l’affidamento sono certo obbligatorie, ma sono sempre e solo vinte da imprese nazionali, e generalmente sempre le stesse. Poi, si sa, le imprese tendono a manifestare gratitudine. E quanto sia diffuso questo sentimento per gli appalti vinti lo vediamo quasi ogni giorno, dalle inchieste sul Mose di Venezia a quelle sull'Expo di Milano, alla stazione sotterranea Alta Velocità di Firenze. Tutte opere per le quali era stata da alcuni sottolineata l’eccessiva onerosità per le casse pubbliche. Ma se per molti attori non fosse esattamente l’economicità e l’utilità dell’opera l’obiettivo principale, si potrebbe leggere un nesso tra i fenomeni di corruzione e lo scarso interesse per valutazioni indipendenti. Oltre a un elevato tasso di corruzione, il settore ha ricadute occupazionali scarsissime per ogni euro pubblico speso (spesso si afferma il contrario, contro ogni evidenza fattuale). Secondo la Corte dei Conti, e viste le cronache giudiziarie, le grandi opere sono anche caratterizzate da straordinari livelli di penetrazione della malavita organizzata e da scarsa innovazione tecnologica (è un settore maturo).

Inoltre, forse anche in relazione all’assenza di valutazioni degne di questo nome, il settore ha dato uno straordinario contributo alla crisi del bilancio pubblico italiano, come dimostrato anche dal prof. Arrighi sulle pagine del Fatto. Ma per fortuna, questo disastro non riguarda tutti i modi di trasporto: le autostrade almeno in buona parte le pagano gli utenti con i pedaggi. Per gli investimenti ferroviari non è così: è tutto a carico dello Stato, e per importi straordinariamente elevati (in media tre miliardi di euro all’anno). Non certo per le linee minori: l’Alta Velocità, un eccellente progetto dal punto di vista degli utenti, ha scavato una voragine nei conti pubblici (si stima che sia costata tre volte di più di opere analoghe nel resto d’Europa). Alcune tratte sono ben utilizzate, altre semi-deserte (la tratta Roma-Milano è percorsa da circa 100 treni al giorno su 300 di capacità, che è un grado di utilizzazione discreto, ma le altre tratte molti meno). Gli utenti sono di categoria medio-alta, ma lo Stato, con straordinaria generosità, ha deciso di non caricare su di loro nemmeno un euro dei costi di investimento. La letteratura internazionale dimostra che l’impatto ambientale di opere ferroviarie di questi tipo varia dal modestissimo al negativo, considerando anche le emissioni in fase di costruzione.

E la festa non sembra affatto finita: sono alle viste una trentina di miliardi di euro a carico dello Stato in nuovi progetti ferroviari, molti dei quali di nuovo analizzati indipendentemente da alcuni studiosi (si veda LaVoce.info), e alcuni con livelli di utilizzazione prevedibili persino inferiori di quelli già realizzati. Oppure invece questa volta la festa sta per finire? Qualche segnale positivo c’è: l’intervento al convegno di cui si è detto di uno dei consiglieri di Matteo Renzi (il deputato del Pd Yoram Gutgeld) ha fatto chiaramente intendere che se i soldi pubblici nel settore dei trasporti vengono buttati dalla finestra come si è fatto finora, difficilmente ne arriveranno altri. Panico tra molti studiosi del settore, abituati a sentire promesse mirabolanti provenienti dai vari governi, e ad assecondarle con analisi molto “benevole”.

È ora di smetterla con i soldi buttati

Non ci sono più soldi pubblici da spendere con disinvoltura, e certo questa non è una motivazione che di per se possa rallegrare (rallegra però averlo sentito dire con forza da un consigliere di Renzi). E forse una motivazione che rafforza questa c’è: la nuova autorità indipendente per la regolazione dei trasporti sembra fortemente intenzionata a lasciare alla politica la scelta delle infrastrutture, ma senza consentire ai concessionari pubblici e privati chiamati a realizzarle, di sprecare soldi dello Stato o degli utenti, sia con opere sovradimensionate rispetto alla domanda, che con soluzioni irragionevolmente costose.

*professore di Economia dei trasporti al Politecnicodi Milano

Il Comitato per la Bellezza è stato gentilmente invitato a partecipare ad un confronto che si svolgerà venerdì prossimo alla Camera e che ha per tema l’inserimento all’articolo 1 della Costituzione della Bellezza come uno degli elementi fondanti dell’identità nazionale. Al confronto hanno aderito numerose associazioni, alcune dal passato importante. Non il nostro Comitato per la Bellezza. Noi riteniamo infatti - e l’abbiamo ripetutamente spiegato alla promotrice, on. Serena Pelegrino di SEL - che la Bellezza sia già ampiamente tutelata dalla nostra Costituzione all’articolo 9 laddove si dice che “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Solo che questo articolo rischia di rimanere - grazie anche al Titolo V della Costituzione e all’inerzia di troppe Regioni - inattuato. Per questo riteniamo necessaria un’ampia, documentata, cruda riflessione sulle continue violazioni, sui continui svuotamenti ai quali è sottoposto il fondamentale articolo 9. Altro che fare accademia sulla Bellezza di cui tutti parlano come “un brand” , anzi “il brand” italiano, in termini pericolosamente mercantili, mentre, ogni giorno, i nostri paesaggi, le nostre coste, le nostre montagne, persino i Parchi lasciati a se stessi, subiscono l’aggressione di nuovo cemento e asfalto, i centri storici, svuotati, rischiano di diventare sempre più rumorosi divertimentifici turistici, la tutela dei beni culturali e ambientali ha subito tagli di fondi e di personale qualificato spaventosi, da tramortire, le Soprintendenze vengono intimidite e ulteriormente indebolite da una campagna ormai quotidiana contro di esse, accusate, anche da uomini e forze di governo, di essere un “residuo dell’Ottocento”, di aver “incatenato” il processo di modernizzazione del Paese, di burocratizzare la tutela stessa, di basarsi su di un “pregiudizio estetico” (così Legambiente) per difendere paesaggi straordinari dalle pale eoliche...Non di aver invece fermato nei limiti delle loro esigue forze, mai adeguate, nuovi “mostri” e nuove degradazioni, non di aver realizzato, quando c’erano i fondi, splendidi restauri, di presentare ai turisti una costellazione comunque straordinaria di musei e di aree archeologiche, ecc.

Questi sono i veri problemi oggi. Una seria, civile, diffusa tutela (che è già, in sé, valorizzazione) passa da qui, da questi drammatici nodi che esigono una autentica “ricostruzione” del Ministero stesso, non declamazioni accademiche. Anni fa si voleva “migliorare” l’articolo 9 della Costituzione inserendovi la nozione di “ambiente” (come se il paesaggio non la contenesse già). Vennero presentate modifiche così pasticciate che si concluse di lasciar perdere. La prima parte della nostra Costituzione è quanto mai attuale: non ha bisogno di essere modificata, bensì di venire finalmente, puntualmente attuata.

per il Comitato per la Bellezza: Vittorio Emiliani, Desideria Pasolini dall’Onda, Luigi Manconi, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Gaia Pallottino.
Roma, 24 giugno 2014

Una soluzione tecnologica è un passo in avanti, purché non venga applicata da sola, ma adeguata al contesto complesso di problemi in cui si inserisce. La Repubblica 25 giugno 2014, postilla (f.b.)

Cespugli di fiori e prati all’inglese al posto di paraboliche e panni stesi. Così potrebbe cambiare la vista dall’alto delle nostre città in base alla prima delibera del Comitato per lo sviluppo del verde urbano del ministero dell’Ambiente, che prevede incentivi fiscali fino al 65 per cento per chi trasforma il tetto di casa in un giardino pensile.

La terrazza condominiale e il lastrico solare che diventano un’oasi green , per godersi il panorama, prendere il sole o fare una festa, non è più solo un capriccio o un lusso: secondo il comitato di saggi che deve indirizzare i regolamenti attuativi della legge numero 10 del 2013, quella sullo sviluppo degli spazi verdi in città, è una metamorfosi da incoraggiare perché migliora le prestazioni energetiche degli edifici quanto l’installazione dei pannelli solari o la sostituzione degli infissi vecchi. Quindi deve godere degli stessi sgravi fiscali.

Diffusi soprattutto al centro sud, i lastrici solari sono una costante delle periferie italiane costruite a partire dagli anni Sessanta. Solo a Roma ce ne sono 20mila, per un polmone verde potenzialmente vasto 400 ettari: cinque volte Villa Borghese o 570 campi da calcio. Ma la delibera approvata in aprile può aiutare anche città poco verdi a riempirsi di parchi ad alta quota: a Mestre, per esempio, ci sono tanti lastrici e solo l’1 per cento di verde urbano. Per ottenere gli incentivi le strade sono due: presentare la certificazione che attesta il risparmio energetico, e in questo caso si arriva allo sgravio del 65 per cento sulla spesa sostenuta, o presentare l’intervento come ristrutturazione generale e sfruttare l’incentivo del 50 per cento.

Tantissimi i benefici: le “coperture verdi” riducono le emissioni di anidride carbonica, assorbono i rumori, filtrano le polveri sottili, trattengono l’acqua piovana alleggerendo la rete fognaria, tallone d’Achille degli allagamenti, migliorano l’isolamento termico dei palazzi e il panorama. «I giardini pensili cambiano anche il clima estivo nelle città perché smorzano l’isola di calore » spiega l’ingegnere Giorgio Boldini, membro del comitato e presidente dell’Associazione italiana verde pensile.

«A Roma in agosto la temperatura è più alta di cinque gradi rispetto alle campagne circostanti: il sole batte sull’asfalto, sui muri di cemento e questi si arroventano, riscaldano l’aria e il calore resta durante la notte. A Milano i gradi diventano anche nove in più». Nel suo giardino sul tetto, cento metri quadrati di erba e arbusti a quota 24 metri nel quartiere Prati, a Roma, Boldini ha addirittura piantato dei pioppi argentati che hanno raggiunto i sei metri di altezza. «Grazie a queste piante a casa non ho bisogno dell’aria condizionata» continua.

Non serve la bacchetta magica per mutare un lastrico in giardino ma basta sostituire le piastrelle con uno strato impermeabile, un altro inerte e qualche centimetro di terra. L’operazione costa sui 150 euro al metro quadrato. «Esattamente quanto ci vorrebbe per rifare un lastrico vecchio: per questo la trasformazione conviene quando bisogna ristrutturare » chiarisce Boldini. «L’intento della delibera è dire che si può trasformare un tetto in giardino e ricavarne un beneficio economico».

Questa posizione apre grandi prospettive per architetti e garden designer amanti della biodiversità: Roma, Milano, Napoli o Bari non conquisteranno certo lo splendore dei mitici giardini pensili di Babilonia, considerati una delle Sette Meraviglie dell’antichità, ma riconvertire in verde le distese di tegole e piastrelle impone un nuovo sguardo sulla progettazione. «Le città del futuro saranno sempre più integrate con gli elementi naturali» spiega Edoardo Bit, architetto specializzato nel verde verticale. «Questo significa riportare in quota i corridoi ecologici per le specie animali e vegetali spodestate dai palazzi».

postilla

Non è certo un caso se pur in mezzo a tanti altri aggeggi assai più ingombranti e vistosi, dentro il quartiere forse più decantato d'Italia dei nostri tempi, spicchi fra tutti il cosiddetto Bosco Verticale: la natura va di moda, e in una certa prospettiva è pure ottima cosa provare a uscire dalle secche di certi approcci meccanici puri alla città che sull'arco del '900 hanno creato tanti guai. Ed è ulteriormente positivo che questo guardare alla natura non si declini più in quelle versioni ideologiche fallimentari della città giardino villettara, energivora, palesemente insostenibile e a orientamento automobilistico detta comunemente sprawl e non solo dai suoi critici. Però tocca come sempre distinguere la parte dal tutto: c'è una bella differenza tra un adeguamento edilizio e la cosiddetta “città del futuro”, esattamente come c'è un abisso fra un terrazzo, per quanto verdissimo e produttivo di cose pure da mangiare, e un parco metropolitano, una rete ecologica, un campo agricolo. Per esempio in questi giorni si sta sviluppando con l'iniziativa http://www.habitami.it/ una campagna pubblico-privata di riqualificazione energetica degli edifici, e va benissimo, ma nessuno si sognerebbe mai di definire, da sola, una cosa così “la città del futuro”. Ecco, proviamo a considerare sempre, tutto, nelle giuste proporzioni, non di più, non di meno (f.b.)


Nel 1994 il Presidente del Consiglio dei Ministri impugnava la legge della Regione Toscana “Disciplina degli agri marmiferi di proprietà dei Comuni di Massa e Carrara” per violazione dell’art. 117 della Costituzione (le cave devono essere normate dalla Stato e non dalle Regioni sosteneva), e in particolare perché prevedendo la Regione la temporaneità e l’onerosità delle concessioni, perpetue in base alla legge vigente, incide sui diritti reali immobiliari preesistenti, disciplinati con normativa speciale risalente alla legislazione preunitaria (Editto di Maria Teresa 1751 e Decreto di Francesco V 1846).
La Regione, che aveva legiferato costretta anche dall’“allarmante fenomeno delle rendite parassitarie” e in considerazione dell’enorme importanza economica dello sfruttamento degli agri marmiferi e della loro rilevanza anche dal punto di vista paesaggistico ambientale , aveva dettato criteri, che andavano, a parere del governo Berlusconi, a danno dei concessionari di cava. La Corte Costituzionale (488/ 1995) non solo confermava la validità della legge “rivoluzionaria” regionale, ma riaffermava la valenza dell’art. 32 comma 8 (L. 724/1994) e cioè che a decorrere dal 1 gennaio 1995 i canoni annui sarebbe stati determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato. E precisava: "A questa regola i Comuni di Massa e Carrara devono fin d’ora uniformarsi, indipendentemente dall’entrata in vigore dei regolamenti più volte ricordati".
Che cosa è successo in questo ventennio?

A Carrara il regolamento è stato svuotato dalle amministrazioni succedute alla Fazzi Contigli; a Massa si è scelto di continuare con il decreto del 1846. Il canone rapportato al valore di mercato del marmo estratto, imposto (“devono”) dalla Corte Costituzionale, è stato dimenticato, con il vantaggio dei pochi concessionari di cave, anche percettori di rendite, che a queste rendite improprie e ai guadagni mostruosi non vogliono rinunciare. A Massa, il Comune riscuote 8,30 euro ogni tonnellata di marmo che passa dalla pesa pubblica (e molto non passa dalla pesa), indipendentemente dal valore del marmo (che oscilla da qualche centinaia di euro ad alcune migliaia di euro)

Vent’anni dopo (2014) è ancora la politica, la cattiva politica, anche di sinistra, che scende in appoggio degli industriali e di fronte ad un piano paesaggistico che cerca di tutelare l’ambiente, le acque, i profili dei monti, i circhi glaciali, le grotte carsiche, geotopi e geositi, le aree di Rete Natura 2000 (SIC-ZPS), un patrimonio che non è solo italiano, ma del mondo intero, un piano paesaggistico che suggeriva di portare a progressiva chiusura le cave all’interno di un Parco, modificando e stravolgendo i diritti della cittadinanza.
Due soli esempi: è sopravvissuto un paragrafo nella disciplina del piano paesaggistico in cui si precisa che l’apertura di nuove cave (che cadranno in zona SIC/ZPS), l’ampliamento delle esistenti (che già ora sono entrate in zona SIC/ZPS) e ampliamenti e recuperi ambientali di cave dismesse (molte di queste sono già oggi in aree individuate come SIC e ZPS) non devono interferire in modo significativo con SIC, SIR, ZPS, emergenze geomorfologiche, geositi e sorgenti, linee di crinale, zone umide Ramsar (fatti salvi i diritti acquisiti di chi ha una attività in corso !).

Che cosa vuol dire "in modo significativo?"
Nel fascicolo Emendamenti, ( pag. 7 punto 4) si scrive che si intendono “rinaturalizzate” solo le cave dismesse da almeno 30 anni: la politica dunque stabilisce che la natura si riappropria dello spazio che le è stato tolto…. solo dopo 30 anni.
La sostanza del comma ci dice che, grazie a questa precisazione, si potranno ri-aprire cave chiuse da 30 anni!
Ancora più sorprendente (pag. 8) l’art. 12 relativo alle aree boscate, aree dove sono ammessi interventi di trasformazione a condizione che non comportino alterazione significativa permanente del paesaggio. Il testo originario riportava semplicemente: alterazione significativa. La politica impone che l’alterazione significativa debba essere anche permanente: solo in questo caso non si ri-apriranno cave.
Per volontà politica il grande bacino marmifero di Carrara non è entrato nel Parco delle Alpi Apuane. Leggiamo sui quotidiani di questi giorni che la famiglia Bin Laden sta per comprare il 50% di una società che possiede 1/3 delle cave di Carrara per 45 milioni di euro. Che cosa rende così costoso quel bene? Certamente la materia prima che appartiene, come ha scritto la Corte Costituzionale, alla collettività carrarina. Quanti dei 45 milioni ricadranno nel territorio? Nessuno, ma questa cifra sarà divisa fra TRE famiglie, proprietarie appunto di quel 50%.
Siamo in Europa, ma in questa parte di Europa, nella Toscana da decenni amministrata dalla sinistra, si permette per il guadagno di pochi di tagliare a fette le creste, distruggere l’ambiente, inquinare le acque, e, per gli interessi economici di questi imprenditori, si rischia oggi che la materia paesaggistica dell’intera Regione, ancora una volta, non abbia norme e regole. E’ recente una sentenza del Consiglio di Stato (sez. IV n. 2222, 29 aprile 2014)che definisce il paesaggio un “bene primario e assoluto”, ma gli abitanti della Toscana sono costretti a ricorrere all’Europa perché ciò si realizzi.

legati mani e piedi all'industria del marmo, dall'altra un movimento che guadagna terreno per la forza delle ragioni: in mezzo un'opinione disorientata dalla propaganda di chi oppone economia e lavoro all'ambiente». Il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2014

Verrà un giorno in cui le Alpi Apuane saranno come i dinosauri: sparite. Con la differenza che dovremo spiegare ai nostri figli che siamo stati noi a distruggere un pezzo straordinario del nostro territorio e della nostra vita. Parlare delle Apuane vuol dire descrivere – attraverso un caso estremo, e dunque più comprensibile – la situazione di tutto ciò che la Costituzione chiama «paesaggio e patrimonio storico e artistico della nazione». Le Apuane sono cancellate da una industria che crea sempre meno occupazione; sono cancellate in violazione delle leggi vecchie e nuove (per esempio annullando le linee di cresta anche sopra i 1200 metri di altezza, in barba al Codice del paesaggio); sono cancellate inquinando acqua e aria, e abbassando la qualità della vita degli abitanti (si pensi solo ai 700 camion che attraversano ogni giorno Carrara); sono cancellate da una politica incapace (per ignoranza e corruzione) di comprendere che è possibile un'altra economia; sono cancellate dal silenzio mediatico.

All'inizio del Novecento i cavatori erano 14.000, oggi sono poco più di mille, ma la loro produttività è andata alle stelle. Ogni anno si estrae un milione e mezzo di tonnellate di marmo, distruggendone però quasi dieci milioni. Il professor Elia Pegollo, che viene da una famiglia di cavatori, ha calcolato che col materiale escavato ogni anno si potrebbe lastricare un'autostrada a quattro corsie di 2500 km: da Firenze a Stoccolma, per intenderci. Ma l'80% del volume che ogni anno sottraiamo alla montagna non finisce in opere di architettura o scultura, bensì in filtri per acquedotti, adesivi edilizi, vernici e sbiancanti, industria alimentare, dentifrici. Il che rende grottesco l'uso abusivo della retorica michelangiolesca: come ha scritto lo storico dell'arte Fabrizio Federici, «se davvero, come poetava Buonarroti, le figure portate alla luce dallo scultore fossero già racchiuse entro il blocco di marmo, si assisterebbe a una quotidiana mattanza di Madonne e Bambini, di Veneri, di atleti, ridotti in scaglie e in polvere».

Le quantità necessarie ad una industria del lusso globalizzata e le potentissime e violentissime tecniche moderne rendono impossibile – anzi truffaldino – parlare ancora dell'estrazione del marmo nei termini romantici di un cimento tra l'uomo e la montagna. Ma non solo la propaganda, perfino le regole del gioco sono ancora ferme all'antico regime: nonostante alcuni severi pronunciamenti della Corte Costituzionale, il comune di Massa regola le concessioni usando ancora le leggi precedenti all'unità d'Italia (per l'esattezza una legge estense del 1846). Una situazione normativa intollerabile, quando si apprende che la famiglia saudita Bin Laden (sì, quella) sta trattando l'acquisto del 50% del gruppo Marmi Carrara, il più importante estrattore. Una notizia che ci pone di fronte alla situazione per quello che è: sulle Apuane abbiamo rinunciato alla nostra sovranità sul nostro territorio nazionale, il cui letterale sbriciolamento verrà deciso molto, ma molto lontano dai nostri confini.

E mentre gli interessi speculativi sauditi sono accolti a braccia aperte, il Coordinamento imprese lapidee del Parco delle Apuane ha dichiarato una guerra santa contro il Piano Paesistico Regionale della Toscana, voluto dall'assessore Anna Marson (che è stata oggetto di pesanti attacchi personali). Il perché di una reazione così violenta lo ha chiarito bene l'urbanista Paolo Baldeschi: «Ma qual è il peccato mortale del Piano? La colpa è di cercare di frenare il taglio delle vette al di sopra dei 1200 metri e di limitare l’estrazione all’interno del Parco delle Apuane, facendo salve le concessioni esistenti, ciò che ha provocato la netta contrarietà del Presidente del Parco, (vicepresidente uscente, già segretario del Pd di Fivizzano), evidentemente più sensibile agli interessi dei cavatori che a quelli dell’ente da lui presieduto». D'altro canto, continua Baldeschi, «il Coordinamento dimentica di dar conto delle inadempienze sistematiche delle aziende impegnate nelle attività estrattive: la mancanza di raccolta delle acque a piè di taglio, l’assenza o il mancato utilizzo degli impianti di depurazione spesso esistenti solo sulla carta, i rifiuti abbandonati nelle cave dismesse, la mancata attuazione dei piani di ripristino, una diffusa e impunita inosservanza di regolamenti e prescrizioni. Si dimentica, altresì, dell’inquinamento delle falde, delle sorgenti e dei torrenti, della diffusione di polveri sottili, degli innumerevoli danni ambientale e paesaggistici».

Da una parte gli interessi dell'industria del marmo e una politica locale ad essi legata mani e piedi, dall'altra un movimento di opinione che guadagna terreno grazie alla forza delle proprie ragioni: nel mezzo un'opinione pubblica disorientata dall'eterna propaganda di chi oppone le ragioni dell'economia e del lavoro alle ragioni dell'ambiente. La sfida è quella di far comprendere che questa opposizione è un clamoroso falso, alimentato ad arte da chi ha interesse nella perpetuazione dell'attuale economia di rapina.

Sabato scorso è tornato a riunirsi a Casola, in Lunigiana, il movimento Salviamo le Apuane, e martedì prossimo si occuperà dello stesso tema la Rete dei Comitati, convocata a Firenze. L'obiettivo non è solo quello di fermare la distruzione delle Apuane, ma anche e soprattutto dire che un'altra economia apuana è possibile, e che è tempo di mettere a punto un Piano Alternativo di Sviluppo per le Alpi Apuane. Il messaggio è quello contenuto nella Carta delle Apuane, redatta nel 2010: «Le Apuane sono sottoposte ad un regime monocolturale che mortifica ed impedisce uno sviluppo economico potenzialmente notevole: si afferma dunque che la monocoltura della cava è incompatibile con lo sviluppo economico ed occupazionale del territorio ... Le Apuane possono diventare il cuore di un modello economico diverso, più equo e più fertile, che rifacendosi alle ricchissime quantità di risorse naturali, antropiche, idrogeologiche e paesistiche di questa catena, unica nel Mediterraneo e in Europa, possa estendersi alle colline e alle città costiere, nonché ai parchi limitrofi (Cinque Terre, Appennino, Magra, San Rossore) fino a costituire un formidabile complesso sociale ed economico, oltre la crisi e la bolla finanziaria». Con le Apuane, insomma, si può anche mangiare: se non ci divoriamo le Apuane.

In una intervista al neo nominato Provveditore agli Studi milanese si aprono nuove prospettive per i quartieri, chiarendo forse il senso del "rammendo" evocato da Renzo Piano, che in sé non ha nulla a che vedere coi metri cubi. La Repubblica Milano, 23 giugno 2014, postilla

In passato ha insegnato educazione fisica e ha fatto l’allenatore di basket. Adesso Marco Bussetti è il nuovo provveditore di Milano. Tanti i problemi che dovrà affrontare nei prossimi mesi, dal tempo pieno agli organici. Ma uno dei suoi pallini è lo sport: «Un grande strumento educativo spesso maltrattato». Il suo modello è la Francia, con le palestre patrimonio di tutti e le associazioni sportive scolastiche. La sua scuola ideale è aperta alla città e qui Milano è capofila del progetto nazionale. «Un’ottima idea, devono rimanere aperte ai quartieri non solo durante l’anno ma anche in estate». La sua nomina è arrivata durante gli scritti della maturità: è Marco Bussetti il nuovo provveditore di Milano. Cinquantadue anni, una laurea in scienze motorie, un passato da insegnante di educazione fisica e da allenatore di basket. È già stato provveditore a Monza e ha lavorato per sei anni all’ufficio scolastico regionale prima del nuovo incarico che gli è stato affidato dal direttore generale, Francesco De Sanctis.

Bussetti, durante la sua carriera da insegnante, ma anche in quella amministrativa, si è occupato a lungo di sport nelle scuole, argomento spesso trascurato o considerato di secondo ordine. Che cosa ne pensa?
«Lo sport è uno strumento educativo fondamentale in tutti gli ordini di scuola. Ma è vero: è una disciplina spesso messa nell’angolo. Eppure le famiglie la percepiscono come esigenza: i genitori apprezzano tantissimo quegli istituti che riescono a garantire attività sportive in maniera continuativa».

Ha un ruolo marginale soprattutto dove studiano i più piccoli: ci sono classi delle elementari che fanno ginnastica in classe.
«Parliamo fra l’altro dell’età dell’oro dal punto di vista motorio: è lì che i bambini dovrebbero sviluppare determinate abilità. Eppure non ci sono esperti a guidarli, perché sono le maestre di italiano o matematica a fare ginnastica. Ma l’attività fisica a scuola è maltrattata anche alle medie come alle superiori».

Che cosa farebbe lei?
«Bisognerebbe dare vita alle associazioni sportive scolastiche con più discipline che i bambini possono provare al di fuori dall’orario di scuola. Realtà complementari al mondo dello sport già esistente. È un modello che c’è già in Francia e in tanti Paesi d’Europa, con veri campionati di più discipline. Ho lavorato a lungo a questo progetto, ci punterò ancora nella mia nuova veste, non solo per le scuole milanesi. Le palestre delle scuole possono essere un patrimonio enorme per i nostri studenti».

A proposito di strutture: Milano è capofila di un progetto nazionale sulle scuole aperte che vorrebbe aule, palestre, biblioteche aperte alla città e ai quartieri. Palazzo Marino punta molto su questo. Che ne pensa?
«Un’ottima idea che appoggio e condivido pienamente. Le scuole potrebbero avere una nuova vita non solo durante l’anno, a lezioni finite. Ma sarebbero luoghi da aprire anche nei mesi estivi per tantissime attività. Una buon processo in cui è fondamentale coinvolgere il più possibile chi le governa ».

Quali sono i primi problemi che dovrà affrontare da provveditore?
«Prima di tutto devo prendere contatto con tutto il personale dell’Ufficio scolastico provinciale. Ora è il momento di ascoltare, di capire, di conoscere al meglio la realtà milanese. È già iniziata la discussione su organici e graduatorie, una delle priorità per questo ufficio. Solo dopo potrò prendere contatto con il territorio, con i dirigenti, con le singole scuole».

Qualche mese fa i sindacati sono tornati a lanciare l’allarme sulle elementari: insufficiente il numero di insegnanti inviati dal Ministero per garantire il tempo pieno, a fronte di una popolazione scolastica in crescita.
«Purtroppo non dipende da noi ma è un tema che dovremo affrontare. Io nel tempo pieno continuo a crederci molto come modello educativo. Mi rendo conto che ci sia una forte sofferenza su questo fronte».

Gli studenti alle prese con la maturità hanno finito ieri gli scritti e si preparano agli orali. Vuole dare un consiglio ai ragazzi?
«Il voto è sempre relativo. Mai giudicare le persone, o farsi mettere in crisi, da un voto».

postilla

E così fa un altro piccolo passo avanti quello che potrebbe rivelarsi il vero strumento cardine per il famoso “rammendo delle periferie” tanto frainteso da chi dovrebbe occuparsene, ma evidentemente lo fa soltanto con una idea parziale. I tanti sfottò che hanno accompagnato di recente l'ormai famosa frase di Renzo Piano, a volte anche grottescamente paventando improbabili colate di cemento (ormai nominare la colata di cemento pare diventato un modo per apparire più intelligenti e informati), forse non tenevano conto degli aspetti diciamo così immateriali del processo, ovvero quelli organizzativi e che operano su tempi e responsabilità, anziché sui soli spazi fisici. Significativo, anche, che il sostegno arrivi da un ambito come quello dello sport, vivacissimo e per propria natura giovanile e di massa: ottimo motore di sviluppo, per usare una metafora da altri campi di interesse. Il prossimo passo dovrebbe essere quello di chiarire il ruolo dei soggetti coinvolti, a partire da quelli istituzionali, perché la sola buona volontà di un singolo provveditore non basta, e occorre per esempio capire cosa possa fare l'istituenda Città Metropolitana. Ma aspettiamo con fiducia questi sviluppi, a ben vedere assai simili, forzando la mano, a quelli del successo del car-sharing, qui si tratta di neighborhood-sharing, e magari usare termini anglofoni aiuta a promuovere le iniziative presso un certo pubblico (f.b.)

Sardinia post, 22 giugno 2014
Il Piano paesaggistico regionale (o dei sardi che dir si voglia) s’ha da annullare. La posizione è ribadita da sempre a chiare lettere dalle associazioni ambientaliste, ma ora più che mai a circa quattro mesi dalle elezioni regionali. E si punta chiaramente il dito contro l’attuale governatore di centrosinistra, Francesco Pigliaru, che ha ampiamente citato la salvaguardia del paesaggio nella breve – ma vittoriosa – campagna elettorale. Si chiedono interventi urgenti e immediati, perché ripete ancora Stefano Deliperi, storico referente del Gruppo d’intervento giuridico, “non basta l’annullamento in via di autotutela della delibera assunta a febbraio, a due giorni dal voto dalla precedente giunta”. Non basta, almeno, a tutelare coste e paesaggio. Servono azioni nuove, perché, secondo tecnici e specialisti il rischio è che il Pps voluto da Cappellacci sia in vigore e con il Piano anche quelle lottizzazioni definite zombie. Sopite solo perché messe in stand – by dal precedente Piano targato Soru. Sono due, principalmente, le ragioni di scontento degli ambientalisti (dal Grig a Italia Nostra) citate da La Nuova Sardegna in edicola oggi. Una è appunto la questione Pps, l’altra è il commissariamento della Conservatoria delle coste (società in house) decisa qualche giorno fa dalla giunta Pigliaru. Per gli attivisti è un primo passo verso il ridimensionamento, da qui le promesse tradite sull’attenzione ai temi ambientali.

Ma c’è di più. Intervistato sempre dal quotidiano sassarese scende in campo addirittura Gian Valerio Sanna (ex assessore all’Urbanistica Pd, della giunta Soru). Nessuna corsa alle regionali, per lui (era stata negata la deroga a ripresentarsi nelle liste dopo tre mandati, ndr) e un bel po’ di amaro in bocca. E’ lui uno dei padri del primo Ppr. Ebbene, si schiera fianco a fianco agli ambientalisti e rincara la dose senza mezzi termini, parla di “connivenze nel partito”, e ancora dice “sul cemento da riversare sulle coste destra e sinistra oggi mi sembrano uguali”. Critica anche la posizione di Soru: “Mi pare che in questa fase gli interessino di più vantaggiosi compromessi, come continuare ad avere un peso nella politica regionale”. E si spinge fino a indicare chi e cosa nutre il clima attendista. Come la Lega delle cooperative, mentre all’interno del Pd, non si contrasta più l’area Cabras – dice- apparsa più possibilista nei confronti degli interventi costieri. I punti di frizione con Pigliaru sono sempre due: il Pps, per Sanna è in vigore quello di Cappellacci, e il commissariamento della Conservatoria delle coste.

Troppi freni, per lui, troppi silenzi. Così, denuncia, il rischio è che piombino 12/13 milioni di metri cubi. E fa pure degli esempi concreti. Uno su tutti: gli investimenti in Costa Smeralda del Qatar. Secondo la normativa attuale, dice Sanna, sono concessi ampliamenti fino al 30% per le strutture ricettive, più un ulteriore 25% per l’ampliamento delle strutture ricettive collegate e ancora 15% per strutture di carattere tecnico. Insomma, a Pigliaru chiede di riprendere il vecchio Piano e di farlo senza indugi, prima che sia troppo tardi.

«Nel 2016 Venezia rischia di essere cancellata dai siti «Patrimonio dell’Umanità». «Occorre prendere provvedimenti al più presto per difendere la città lagunare anche dalle altre grandi opere che la minacciano e dalla pressione turistica sempre più forte». La Nuova Venezia, 21 giugno 2014

VENEZIA «Stop alle grandi navi in laguna da gennaio 2016. Altrimenti Venezia rischia di essere cancellata dai siti mondiali dell’Unesco Patrimonio dell’Umanità». L’avvertimento è stato inviato al governo sotto forma di «raccomandazione», firmata dal World Heritage committee riunito a Doha in Qatar. L’organizzazione mondiale delle Nazioni unite che si occupa di siti da proteggere ricorda come il traffico di navi troppo grandi provochi problemi alla laguna e anche alle rive e ai palazzi della città. «Dunque», si legge nella lettera, «occorre prendere provvedimenti al più presto per difendere la città lagunare anche dalle altre grandi opere che la minacciano e dalla pressione turistica sempre più forte».
Un’iniziativa che ha riscosso il plauso di Italia Nostra e delle associazioni ambientaliste. Che invece preoccupa il Porto. «Ho letto che le navi spostano sedimenti in laguna centrale», dice il presidente dell’Autorità portuale Paolo Costa, «in realtà non è così». Costa annuncia anche di aver inviato una lettera al governo chiedendo lumi. «Il 30 giugno le compagnie americane annunciano il programma per il prossimo anno», dice Costa, «e già in febbraio ci hanno comunicato che in assenza di alternative chiare sceglieranno altri porti. Per la città potrebbe essere un danno enorme». Sul tavolo ci sono da mesi i progetti alternativi per il passaggio delle grandi navi davanti a San Marco.
Dibattito intenso, che adesso per l’uscita di scena del sindaco Orsoni e della giunta dimissionaria si svolge con un protagonista in meno. L’ipotesi sostenuta dal Comune era quella di deviare le grandi navi a Marghera. Quella del Porto invece di scavare il nuovo canale Contorta-Sant’Angelo per far arrivare le navi in Marittima dalla bocca di Lido e non più da San Nicolò. Ci sono anche le proposte di Cesare De Piccoli (e della società genovese Duferco) per spostare il nuovo terminal passeggeri a San Nicolò, davanti all’isola artificiale del Mose. Stesso luogo individuato da Luciano Claut, assessore grillino della giunta di Mira, e Stefano Boato. Progetti che, per volontà del Senato, dovranno essere comparati e sottoposti alla Valutazione di Impatto ambientale.
Il ciclone Mose e l’inchiesta che ha portato in carcere 35 persone ha un po’ oscurato l’argomento Grandi navi. Ma la tensione è alta. La settimana prossima si riuniscono anche i comitati “No Grandi Navi laguna bene comune” per ricordare al governo che non può essere usato il «sistema Mose». Alberto Vitucci ©RIPRODUZIONE RISERVATA

I gattopardi cambiano qualcosa perché tutto rimanga come prima. Qualche straccio vola, ma rimangono immutati: il dominio degli interessi delle Grandi Imprese su quelli della città, e naturalmente l'errore di fondo e la sorgente degli scandali, il MoSE. Il Sole 24 ore, 19 giugno

Dopo l'inchiesta giudiziaria sul sistema di corruzione e fondi neri cresciuto intorno al Mose (con 35 persone in custodia cautelare), il Consorzio Venezia Nuova e il governo si preparano a rinnovare completamente il consiglio d'amministrazione, tecnicamente il "direttivo". È la decisione presa di comune accordo dai vertici del Cvn e l'esecutivo guidato da Matteo Renzi. Il dossier è in mano al ministero delle Infrastrutture. Si parla di preservare gli incarichi del presidente Mauro Fabris e del dg Hermes Redi, nominati un anno fa e quindi già garanti per il governo della discontinuità aziendale con il passato, ma di azzerare i consiglieri, scegliendo personalità "terze".
Per terze, profondamente, si intende qualcuno non interno alle imprese consorziate, i cui nomi sono finiti al centro delle indagini dei procuratori veneziani. La decisione è per ora ufficiosa. La prassi impone ora che i vertici del Cvn inviino una lettera al ministero guidato da Maurizio Lupi, offrendo la disponibilità a rivedere il direttivo. Cosa che dovrebbe avvenire già entro il fine settimana, o comunque nel giro di pochi giorni. Poi il governo dovrà indicare dei nomi, concordandoli con il Consorzio, trovando così una nuova squadra.
La selezione delle nuove personalità di garanzia dovrebbe essere fatta in tempi rapidi. Il fatto che venga nominato un nuovo direttivo, estromettendo i consorziati, è una scelta piuttosto forte da parte dell'esecutivo: non è tecnicamente un commissariamento (di cui molti sottolineano le difficoltà normative) ma prevede comunque l'ingresso di nuove figure di nomina governativa, alternative rispetto alle imprese associate. La decisione peraltro arriva subito dopo quella di abolire il Magistrato alle Acque, come scritto nel decreto sulle misure urgenti per la Pa, su cui l'esecutivo sta lavorando in questi giorni.
Una rapida rivoluzione per Venezia, visto che lo stesso Consorzio è concessionario del Magistrato alle Acque (dipendente a sua volta dal ministero delle Infrastrutture). I membri che dovrebbero lasciare l'incarico nel direttivo sono otto: Duccio Astaldi, Romeo Chiarotto, Giampaolo Chiarotto, Omer Degli Esposti, Francesco Giorgio, Americo Giovarruscio, Giovanni Salmistrari, Salvatore Sarpero, più un altro membro in attesa di designazione (il nome di Degli Esposti era già noto alle cronache per essere stato indagato e rinviato a giudizio per concussione dalla procura di Monza per il "sistema Sesto", uscito dal processo per sopraggiunta prescrizione del reato). Ieri il presidente del Cvn Fabris ha voluto dare delle rassicurazioni: «Abbiamo già avviato la discontinuità col passato - sottolinea Fabris -. Siamo stati convocati ad un tavolo di confronto con il governo per discutere quali opportune iniziative intraprendere, come l'eventuale rinnovo della governane e la possibile ulteriore riduzione dei costi finali dell'opera oltre ad ogni altra attività che si renderà necessaria per mettere a riparo il Mose dalle conseguenze delle inchieste in corso. In questo senso, abbiamo preso impegno di formulare una proposta, che presenteremo nei prossimi giorni. Non si parla di un commissariamento, di cui tra l'altro sarebbe tutta da verificare l'immediata praticabilità». Inoltre Fabris chiede che l'opera possa essere completata: «Il sistema di dighe mobili è ormai all'85% e quasi del tutto finanziato».
Intanto l'ex presidente del Magistrato alle Acque Patrizio Cuccioletta, accusato di corruzione, è stato interrogato dai pm e avrebbe ammesso le sue responsabilità nei mancati controlli al Consorzio a fronte di dazioni di denaro. Ieri inoltre il tribunale del Riesame di Venezia ha posto agli arresti domiciliari tre indagati nell'inchiesta sul Mose, tra cui Luciano Neri e Federico Sutto, i due ex funzionari del Cvn, accusati di aver consegnato materialmente il denaro che Giovanni Mazzacurati avrebbe distribuito ai politici per facilitare i lavori del Mose. La misura della detenzione domiciliare è stata concessa anche a Stefano Boscolo. Resta invece in carcere Stefano Tomarelli, ex componente del consiglio direttivo del Cvn.
«È quanto chiede al Governo la sezione veneziana di Italia Nostra che ha convocato ieri a Roma un incontro-stampa sul tema "Mose, malaffare, che fare?", proprio per fare il punto della situazione dal fronte dell’associazione ambientalista che da anni si batte contro la realizzazione dell’opera». Il Gazzettino, 19 giugno 2014

VENEZIA Lo scioglimento del Consorzio Venezia Nuova e la fine del concessionario unico per le opere di salvaguardia in laguna. Una moratoria dei cantieri in corso. La nomina di una commissione d’indagine di esperti «terzi» che valuti lo stato effettivo dei lavori del Mose e anche il modo in cui essa sta venendo realizzata, esaminando anche le possibili criticità - dal funzionamento delle cerniere all’uso dei materiali - già emerse in alcune occasioni. Perché il sospetto è che se numerose irregolarità sono state commesse nell’uso dei fondi per la realizzazione dell’opera - come sta accertando l’inchiesta in corso della Procura veneziana - questo possa essere avvenuto anche per quanto riguarda aspetti tecnici e uso dei materiali legati al progetto di dighe mobili.
È quanto chiede al Governo la sezione veneziana di Italia Nostra che ha convocato ieri a Roma un incontro-stampa sul tema «Mose, malaffare, che fare?», proprio per fare il punto della situazione dal fronte dell’associazione ambientalista che da anni si batte contro la realizzazione dell’opera. Era presente il presidente Lidia Fersuoch, il consigliere Cristiano Gasparetto ed esperti come Andreina Zitelli, Luigi D’Alpaos e Armando Danella, che da anni seguono la questione Mose. Perplessità sono state invece espresse da Italia Nostra riguardo allo scioglimento del Magistrato alle Acque disposto dal Governo dopo l’inchiesta Mose, perchè uomini e strutture che lo componevano sono rimasti gli stessi, assegnato al Provveditorato alle Opere Pubbliche, mentre è sull’organizzazione del lavoro e non sulla soppressione di un’antica istituzione che andrebbero accesi i fari.
Per quanto riguarda inoltre la gestione della laguna e del suo territorio, si chiede inoltre il passaggio di competenze dal Ministero delle Infrastrutture e quelli dei Beni Culturali e dell’Ambiente e un ruolo riconosciuto del Comune di Venezia e degli altri Comuni di gronda nella gestione delle opere che li riguardano. Chiesta anche una revisione del progetto Mose, che non garantisce la reversibilità prevista dalla legge. Annunciata anche la presentazione di un esposto alla Corte dei Conti per danno erariale e sottolineato come l’Unesco,, nel convegno mondiale in corso a Doha abbia dato allo SAtato italiano tempo fino al 2016 per risolvere le criticità di Venezia: dal passaggio delle grandi navi in laguna ai flussi turistici incontrollati.(e.t.)
Conformemente alla sua ideologia, Matteo Renzi, prima di revocare la concessione ai corruttori privati ha abolito la struttura pubblica che dovrebbe controllarli. Avrebbe potuto cacciare i corrotti e sostituirli con degli onesti competenti. Ma il MoSE succhiasoldi e devastante deve andare avanti e il privato è meglio del pubblico. La Nuova Venezia, 16 giugno 2014

«Hanno trasformato questo luogo sacro in un covo di malfattori. Il peggio del peggio. Un dolore grande per chi come me ci ha buttato il sangue». Felice Setaro, napoletano di Torre Annunziata, è stato presidente del Magistrato alle Acque dal 1990 al 1999. L’ultimo prima dell’era Cuccioletta-Piva con tutto quello che adesso emerge dalle carte dell’inchiesta sul Mose. A 85 anni ricorda con lucidità quei momenti. E vive «con grande amarezza» le ultime vicende che hanno visto arrestati i suoi due successori, Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva.

«È incorruttibile», diceva di lui Giovanni Mazzacurati. Setaro era stato l’unico che aveva osato ridurre il corrispettivo che spettava al Consorzio su tutti i lavori dal 15 al 12 per cento. Presidente Setaro, se l’aspettava un uragano del genere? «No proprio no. Fino a un certo punto i ruoli erano chiari e distinti, poi come si dice a Napoli, si sono forse mescolate le carte un piede accà e uno all’a...» Lei ha conosciuto bene Mazzacurati. Lo ritrova in quello che sta emergendo dall’inchiesta? «Con me non ha mai provato a dettar legge. Quando decisi di abbassare gli oneri del concessionario dal 15 al 12 per cento ricevetti qualche sentita lamentela. Ma andai avanti».
Allora il Magistrato alle Acque era ancora il controllore del Consorzio. «Certamente. E noi non abbiamo fatto sciocchezze. Sapevamo che c’era una grande opera da portare avanti ma decidevamo sempre ascoltando la coscienza». C’è stato qualche momento critico nei rapporti con il Consorzio? «Quando i nostri esperti, l’ingegner Creazza, lo stesso Datei, ci dissero che il Mose aveva il problema degli intraferri. In sostanza, tra paratoia e paratoia l’acqua passa lo stesso perché è elemento incomprimibile. Non lo abbiamo taciuto. Del resto la stessa legge prevedeva la reversibilità del sistema: se non funziona va demolito». Non è andata così «No. Qualcosa è cambiato.
Cosa ricorda dei suoi successori? «La prima cosa che ha fatto Cuccioletta è stata quella di far fare lavori all’alloggio di servizio, per trasformarlo in appartamento di rappresentanza. Peraltro non veniva quasi mai. La Piva è stata una grande delusione». E della città? «Un rapporto di grande stima con il sindaco Cacciari. Insieme a lui avevamo quasi fatto passare l’idea che Venezia si salvava con la manutenzione». Adesso il Magistrato lo vogliono abolire. Un grande errore. Lì è passata la storia. Io sogno che ci ripensino e trovino persone oneste e capaci. Che nel decidere ascoltino soltanto la propria coscienza».

Intervento di Tomaso Montanari in conclusione dei lavori del convegno su «Venezia e l'architettura moderna», promosso e organizzato dallo Iuav, e tenutosi all'Ateneo Veneto il 23 maggio 2014.

Confesso di non aver capito bene perché mi trovo qua. Sono molto onorato dall'invito a trarre le conclusioni di questa giornata, ma non sono sicuro di aver compreso le ragioni che hanno spinto il collega e amico Aldo Norsa ad affidare proprio a me – che non sono veneziano, e non sono architetto – questo ruolo in una giornata dedicata a «Venezia e l'architettura moderna», una giornata che ambisce ad indicare una via che permetta di «superare le incomprensioni».

Posso solo supporre che un certo simpatico sadismo del professor Norsa l'abbia spinto ad invitare uno storico dell'arte ormai, suo malgrado, noto per lo sforzo di usare una certa parresia, cioè un certo parlar chiaro, nelle cose che riguardano il nostro patrimonio artistico. E, d'altra parte, un bellissimo saggio di Richard Sennet, da poco anche tradotto in italiano, illumina il nesso tra diritto di parola e diritto allo spazio urbano: e proprio concentrandosi sul Ghetto di Venezia, e sulla sua trasfigurazione shakeaspeariana.

Verrebbe dunque voglia di esercitare subito questa parresia.

Il fatto che il programma della nostra giornata debba ammettere che non si potrà parlare del progetto che rischia di distruggere anche la memoria del Fontego dei Tedeschi perché la proprietà non ha autorizzato un simile dibattito, nega le ragioni stesse della nostra professione di ricercatori. Si tratta di un veto inammissibile: un segno concreto del totalitarismo del mercato che, deformando la città, arriva a deformare anche le regole più elementari della democrazia.

O ancora: sono desolato che una sovrabbondanza di impegni, o una cortesia di educazione, impedisca alla soprintendente Renata Codello di ascoltarmi (dopo che io ho disciplinatamente ascoltato la sua desolante allocuzione), ma vorrei comunque invitarla a ritirare immediatamente la sua querela contro Italia Nostra e contro Gian Antonio Stella, rei di averla duramente criticata per il suo appoggio all'irruzione delle Grandi Navi in Laguna e per le troppe autorizzazioni rilasciate alla speculazione edilizia che sta uccidendo Venezia. Ebbene, io sottoscrivo ogni parola di quelle denunce: non so se la soprintendente vuole farmi tacere, querelando anche me.

In ogni caso, non tirerò le conclusioni della giornata: perché l'hanno fatto ora benissimo gli studenti dello Iuav, che hanno portato una ventata di sano buon senso e di vigile spirito critico in una sala finora davvero troppo chiusa. Certo, verrebbe voglia di sottolineare alcune delle loro osservazioni: come quella che stigmatizzava l'idea di spostare dalla città storica tutti i servizi (dall'ospedale alle università), una scelta che non potrà che accelerare e aggravare lo spopolamento di Venezia. E poi sarebbe giusto chiedersi come è stato possibile infierire in modo così barbaro sullo spazio interno dell'Arsenale. O, ancora, che senso abbia progettare e costruire il cosiddetto M9, il Museo del Novecento di Mestre, senza ben sapere cosa vi verrà conservato. Il rischio concreto è che l'altisonante etichetta di 'museo' copra l'ennesima location per mostre come quelle che mortificano da anni il Nordest del Paese: e già si annuncia la prossima, intitolata a Tutankhamon, Caravaggio, Van Gogh. E non è uno scherzo: è l'apoteosi di Marco Goldin.

Proverò, invece, a prospettarvi una semplice idea: quella di ribaltare il tema di questa giornata, di guardarlo in un altro modo. Invece che chiedersi (magari dolendosi) perché la modernità, attraverso, l'architettura, non sia riuscita a modificare Venezia, vorrei piuttosto chiedermi se Venezia, attraverso la conoscenza della sua architettura, non possa riuscire a modificare la modernità: la nostra idea di modernità.

Il risultato, insomma, non sarebbe un'altra Venezia, ma un'altra modernità. Nel chiedermelo, mi sono rammentato di questa affermazione di Vittorio Gregotti: «Ma io penso che 'Venezia città della nuova modernità' abbia oggi anche un altro significato, perché credo che sia l'architettura moderna ad avere bisogno di Venezia, luogo della storia per eccellenza, da quando sono profondamente mutati, negli ultimi trent'anni, la natura e il significato della nozione di moderno» (1998).

Manfredo Tafuri più di tutti ci ha insegnato la connessione strettissima tra principi, mentalità, azioni dell'amministrazione, politica, idee architettoniche.

E un primo punto sul quale Venezia può insegnare molto, è un nodo cruciale di questa rete: vale a dire il rapporto tra pubblico e privato. La storia di Venezia sul lungo periodo è una storia di progettazione pubblica, collettiva. Perché, più che in qualunque altro posto del mondo, a Venezia non c'è confine tra architettura e urbanistica. Il fatto che la forma della città sia stata fissata, nella sua massima espansione possibile, in una data straordinariamente alta conferisce ad ogni innovazione di una singola architettura quella che vorrei chiamare una responsabilità urbanistica intrinseca.

A Venezia, in altre parole, non c'è sfasatura tra forma e funzione, tra natura e politica. E questa è una prima lezione per la modernità: la responsabilità della progettazione architettonica, la sua obbligatoria coincidenza con una visione urbanistica.

Questo è ancora più vero, se possibile, a proposito di un altro punto fatale per l'architettura moderna: il rapporto tra la città e il suo territorio. Un territorio che a Venezia si chiama Laguna. La Laguna ha vissuto perché lo ha voluto la Repubblica, che ha saputo tenere in equilibrio acqua e terra, forza dei fiumi e forza del mare. Piero Bevilacqua ha scritto che «la storia di Venezia è la storia di un successo nel governo dell'ambiente, che ha le sue fondamenta in un agire statale severo e lungimirante, nello sforzo severo e secolare di assoggettamento degli interessi privati e individuali al bene pubblico delle acque e della città». Ecco, questa storia è un progetto perfetto per un'altra modernità. Quella che oggi ci manca.

Naturalmente, si tratta una storia controversa e non mancarono le discussioni: celeberrima quella cinquecentesca tra Alvise Cornaro, che avrebbe voluto bonificare la Laguna, e Cristoforo Sabbadino, che ne difese vittoriosamente la continua manutenzione. Una lezione per la conservazione di tutto il nostro patrimonio: la lezione che Giovanni Urbani ha inutilmente provato a portare nel cuore del Novecento.

Come ci ha lucidamente mostrato Edoardo Salzano, questa storia gloriosa si è interrotta con l'avvento dell'Italia unita, ed è definitivamente collassata negli ultimi quarant'anni di malgoverno veneziano. Per fare entrare le Grandi Navi (turistiche, industriali e commerciali) si sono dragati e approfonditi i canali d'accesso in Laguna, e contemporaneamente se ne è abbandonata la secolare manutenzione. Il risultato è stato un abnorme aumento dell'acqua alta, culminato nella vera e propria alluvione del 1966. Fu proprio quell'enorme choc che mise Venezia di fronte all'alternativa: o riprendere il governo della Laguna e mantenere l'equilibrio, o essere mangiata dall'Adriatico.

Fu allora che emerse la terza via: il Mose, che permise di eludere la scelta tra responsabilità e consumo. L'idea era di continuare indefinitamente a violentare la Laguna e poi rimediare meccanicamente, con una gigantesca valvola che chiudesse le porte al mare. È come se un paziente ad altissimo rischio di infarto venisse persuaso dai medici a non sottoporsi ad alcuna dieta né ad alcun esercizio fisico, e a scommettere invece tutto su una costosissima e complicata operazione di angioplastica. Non verrebbe da pensare solo che i medici sono incompetenti: ma anche che hanno qualche interesse occulto nell'operazione. Follemente, la scelta della terapia è stata affidata direttamente ai chirurghi. Fuor di metafora: la salvezza di Venezia e del suo territorio è stata affidata ad un consorzio di imprese private (il Consorzio Venezia Nuova) interessate a realizzare il costosissimo meccanismo di riparazione del danno, il Mose appunto. E tutto è stato asservito a questo ente: anche il controllo del Magistrato delle Acque, che si è trovato a ratificare (invece che a sorvegliare) scelte operate in base all'interesse privato.

Sarebbe difficile spiegare un simile suicidio se non vedessimo che Venezia si distrugge ogni giorno in mille altri modi, prostituendosi, fino alla morte, ad un turismo cannibale.

Privatizzazione del destino della città ed economia della prostituzione: anche nella sua agonia Venezia addita alla nostra modernità le strade da non percorrere.

Ora, qui è il caso di chiedersi: ma in tutto questo l'architettura – gli architetti – da che parte sta? Dalla parte di quale modernità? Dalla parte dell'interesse pubblico, del governo pubblico dell'ambiente, di una visione condivisa di città, di una manutenzione dell'organismo urbano storico, oppure invece dalla parte dell'interesse privato, del governo privatizzato della res publica, dei rimedi meccanici ai danni antropici, del disequilibrio forzato?

Stanno dalla parte di Alvise Cornaro, o dalla parte di Cristoforo Sabbadino? Chi è più moderno? Dove sta la modernità? Tutte queste domande si possono riassumere in una sola domanda: quale sviluppo, quale modernità, noi vogliamo?

In pratica: siamo orientati verso l'aumento dei volumi, o no? Vogliamo continuare a mangiare e privatizzare lo spazio pubblico, o no? Vogliamo cavalcare lungo la rotta attuale, o invertirla? E, ancora più in dettaglio: vogliamo una città-location-per-eventi, o una città viva? Una disneyland per turisti o una città dei residenti? Vogliamo spettatori o vogliamo cittadini? Vogliamo collaborare alla dittatura del mercato, o vogliamo restaurare la democrazia.

Rispondiamo a queste domande e sapremo che tipo di architettura vogliamo fare. Paola Somma, in un aureo libretto sulla Biennale di architettura (significativamente intitolato: Mercanti in fiera), ha scritto: «Ovviamente, la Biennale non è la sola responsabile dello stravolgimento economico e sociale che ha trasformato Venezia prima in vetrina e poi in merce essa stessa. Ma ha attivamente cooperato con i governi e le istituzioni locali e nazionali e con i gruppi finanziari interessati a riconvertire le cosiddette città d’arte in fabbriche di eventi e in condensatori di rendita immobiliare e fondiaria». Le Biennali sono state vetrine di un'architettura vuotamente citazionista, simbolista, fondata su un superficiale e soggettivo gioco di analogie formali. Un'architettura spesso legata a doppio filo ad una selvaggia speculazione finanziaria. Le Biennali sono arrivate fino a legittimare un'aberrazione artistica, sociale e ambientale come la Torre di Cardin. Sono state il palcoscenico di un'architettura programmaticamente irresponsabile: e come tale, profondamente anti moderna. O almeno diametralmente opposta alla modernità suggerita dalla storia costruttiva di Venezia.

Che può essere riassunta in una sola parola: responsabilità. Che è anche la parola chiave di una modernità che voglia avere un futuro.

Salvatore Settis ha recentemente proposto agli architetti di adottare un giuramento che orienti la loro professione appunto nel senso della responsabilità: un giuramento sul modello di quello ippocratico. Un giuramento vitruviano. Ecco, se un simile giuramento di massa dovesse mai celebrarsi davvero – come speriamo – esso non potrebbe avvenire che in un unico luogo al mondo: a Venezia.

Lo scandalo è nell'opera, nel sistema di potere che ha generato e sovrapposto alle istituzioni che gli hanno fornito copertura, nella politica che lo ha promosso e che si è abbeverato alle velenose sorgenti della corruzione. Il manifesto, 14 giugno 2014

Con le dimis­sioni del sin­daco la crisi isti­tu­zio­nale vene­ziana rag­giunge il suo acme e insieme si chiude. Resta del tutto aperta la crisi poli­tica, etica e civile. La magi­stra­tura, invo­cata da anni, ha final­mente disve­lato anche agli occhi di chi non aveva mai voluto vederlo un mostruoso sistema di potere, di con­ni­venze e com­pli­cità, di cor­ru­zione, rea­liz­zato con la marea di denaro con­fe­rita dallo Stato al Con­sor­zio Vene­zia Nuova. A leg­gere i ver­bali degli inter­ro­ga­tori, le memo­rie, le inter­cet­ta­zioni, la mon­ta­gna di docu­menti e testi­mo­nianze che fon­dano l’indagine sul “sistema Mose” (che sarebbe meglio chia­mare sistema “Con­sor­zio Vene­zia Nuova”, anche se l’uno senza l’altro non sareb­bero mai potuti esi­stere), si scorre una sorta di “romanzo cri­mi­nale” dei nostri tempi, i cui pro­ta­go­ni­sti non sono bor­ga­tori o mala­vi­tosi del Brenta bensì più o meno for­biti pro­fes­sio­ni­sti, impren­di­tori, tec­nici, finan­zieri, poli­tici. Cri­mi­na­lità orga­niz­zata, comun­que: d’alto bordo, mani­po­la­to­ria e sedut­tiva oltre che cor­rut­trice e, alla biso­gna, inti­mi­da­trice. Anni­data nei luo­ghi del potere, della cul­tura, del culto, della ricerca, non meno che nelle segre­te­rie poli­ti­che e nei ver­tici e qua­dri di asso­cia­zioni di cate­go­ria, negli ordini pro­fes­sio­nali, nei “corpi inter­medi”, insomma nella cosid­detta società civile, spre­giu­di­cata e disi­ni­bita come poche altre in Ita­lia, que­sto spe­ciale tipo di “cri­mi­na­lità orga­niz­zata” non ha man­cato di ricor­rere allo stru­mento dell’ege­mo­nia pro­muo­vendo ric­ca­mente in tutto il mondo il pro­getto Mose.

Le cla­mo­rose vicende attuali, per assurdo, lo con­fer­mano. Lo scan­dalo non sem­bra nean­che lam­bire l’opera né le pro­ce­dure seguite per rea­liz­zarla. Anzi, improv­vidi poli­tici anche di nuova gene­ra­zione si pro­di­gano a lodarla e a chie­derne la rapida messa in fun­zione, sal­van­dola dallo scan­dalo. Ma lo scan­dalo è pro­prio l’opera, il Mose stesso. Non sanno, i per­du­ranti lau­da­tori, che pro­prio sulla sua effi­ca­cia vi sono auto­re­vo­lis­simi dubbi (messi a tacere o igno­rati gra­zie a quella potente e mel­li­flua dezin­for­ma­tsia), che l’impatto sull’ecosistema lagu­nare è già pesan­tis­simo, che i costi di gestione saranno per sem­pre altis­simi? Non si accor­gono che, cam­biati alcuni nomi, il sistema alla cui ombra è cre­sciuto quel mostruoso ancor­ché sua­dente potere è total­mente in piedi, (ad esem­pio, coin­cide con gli inte­ressi e i poteri legati al busi­ness delle grandi navi, intesi a per­pe­tuarlo con un nuovo deva­stante canale, opera da affi­dare al Con­sor­zio Vene­zia Nuova, senza gara e sotto il con­trollo — sem­bra uno scherzo — di quel Magi­strato alle Acque i cui ultimi due pre­si­denti sono ora nelle patrie galere)? La presa del potere da parte del Con­sor­zio Vene­zia Nuova, nei mini­steri e appa­rati romani e nella poli­tica locale e nazio­nale, è stata pro­gres­siva e per­va­siva, paral­lela alla cor­rut­tela e al cri­mine ambien­tale che produceva.
Libe­rare Vene­zia, cosa che non può fare la magi­stra­tura ma solo una nuova coa­li­zione civile e poli­tica, signi­fica ripu­lire e libe­rare buona parte d’Italia.
l'autore era asses­sore all’ambiente del comune di Venezia

Uno strano appoggio di Legambiente al perverso lavorìo distruttivo che Renzi sta conducendo contro le tutele che ostacolano il suo FARE. Eppure, chi volesse suggerire qualcosa al PMR in materia di ambiente ed ecologia avrebbe un ricco elenco di atti da proporre, a partire da un serio piano nazionale per l'energia e della definizione dei "lineamenti fondamentali dell’assetto del territorio nazionale". Magari non affidandoli alla coppia Lupi-Realacci. Greenreport, 12 giugno 2014

Legambiente festeggia il Wind Day, la giornata del vento promossa da European Wind Energy Association e Global Wind Energy Council dimostrando che anche in Italia dal vento può arrivare energia pulita a prezzi competitivi. L’associazione, accusata proprio in questi giorni da una campagna del Fatto Quotidiano di essere troppo vicina alla “lobby” delle energie rinnovabili, rivendica il suo sostegno all’eolico e spiega che «Complessivamente sono 8.650 MW installati in Italia a fine 2013, tra impianti di grande taglia e mini eolico, che hanno consentito di soddisfare i fabbisogni di oltre 5,5 milioni di famiglie attraverso 14,8 TWh prodotti dal vento (quasi il 5% dei consumi complessivi). In ogni parte del mondo cresce la potenza eolica installata, che negli ultimi dieci anni è decuplicata, con oltre 300 GW installati e per il 2014 si stima che le nuove istallazioni potranno raggiungere i 47 GW di potenza».

Edoardo Zanchini, vice presidente di Legambiente, sottolinea che «L’eolico è oggi una realtà in Italia e in tutti i continenti che nessuno può più considerare marginale. n particolare in un periodo di crisi e di necessità di ridurre consumi e importazioni di fonti fossili, un Paese come l’Italia ha tutto da guadagnare nel puntare sull’eolico. Oggi siamo a un passaggio decisivo, perché le rinnovabili garantiscono oltre un terzo dell’energia elettrica consumata in Italia e possiamo costruire un modello energetico moderno e distribuito incentrato su efficienza energetica e rinnovabili».

Cogliendo l’occasione del Wind Day Legambiente lancia anche un appello al Governo Renzi perché intervenga rispetto ai troppi problemi e veti che fermano lo sviluppo di impianti eolici: «Il principale problema su cui intervenire riguarda le regole – dicono al Cigno Verde – perché in tante Regioni è di fatto impossibile realizzare nuovi impianti eolici: dalla Sicilia alla Sardegna, dall’Emilia Romagna alle Marche, norme e linee guida bloccano ogni tipo di progetto. Inoltre, le Soprintendenze sempre più spesso bloccano i progetti anche quando sono al di fuori di aree protette e di vincoli per un pregiudizio estetico sempre più evidente. Ultimo caso è il progetto di 4 torri bocciato nei comuni di Vado Ligure e Quiliano, fermato proprio per ragioni estetiche dopo aver avuto una VIA positiva da parte della Regione».

Secondo Zanchini, «Occorre fare finalmente chiarezza rispetto alle regole per l’approvazione degli impianti eolici, perché l’incertezza delle procedure sta diventando una barriera insormontabile ovunque. Basti dire che a fronte di 15 progetti presentati per impianti off-shore nessuno è in funzione o in cantiere, per l’assenza di qualsiasi riferimento normativo e per i veti di Regioni e Soprintendenze».

E l’eolico offshore, che vive da tempo un boom in Europa e che sta prendendo piede anche in Cina, mentre sono stati sbloccati da Obama progetti al largo della costa Atlanti Usa, in Italia non ha nemmeno in vigore le linee guida nazionali introdotte nel 2010, e Legambiente evidenzia che «La situazione di conflittualità è tale che vengono bocciati anche progetti a diversi chilometri dalla costa o davanti all’impianto siderurgico di Taranto». Per quesyto gli ambientalisti chiedono al Governo PD-NCD-centristi di «Intervenire con un provvedimento che affronti questi temi come fatto negli altri Paesi europei, dove la gestione dei progetti avviene in maniera molto diversa e trasparente».

Legambiente fa l’esempio della Spagna, dove il governo centrale ha approvato un piano che individua le aree incompatibili con la realizzazione di impianti eolici per ragioni ambientali o di rotte di navigazione commerciali o militari, «Così nelle altre aree si possono proporre impianti da sottoporre a valutazione». La Francia ha scelto una procedura differente, che prevede l’individuazione da parte del Governo delle aree dove realizzare impianti eolici off-shore e recentemente si sono aperte gare trasparenti per la selezione delle proposte, individuati incentivi ma anche vantaggi per i territori. Per Legambiente «Procedure analoghe devono essere introdotte anche in Italia in modo da superare l’attuale situazione, e permettere alle imprese di avere certezze rispetto agli investimenti, escludendo le aree incompatibili e fissando criteri per la selezione delle proposte».

Gli ambientalisti non sfuggono però ad un’altra tematica cara a chi, come Lipu e Italia Nostra, si oppone agli impianti eolici e sottolineano che «Un ritardo rilevante lo sconta il nostro Paese anche rispetto al tema dell’interazione tra impianti e avifauna, al momento infatti non vi sono regole nazionali o linee guida in materia. L’obiettivo anche qui dovrebbe essere di alzare il livello del confronto scientifico su questi temi, per aprire un confronto con Regioni, studiosi, associazioni, al fine di evitare o limitare al minimo gli impatti nei confronti della biodiversità, studiando attentamente le diverse situazioni territoriali e le specie presenti».

Zanchini conclude: «Al Governo chiediamo di cambiare marcia rispetto alla situazione degli impianti eolici nel territorio italiano. Per continuare nella crescita delle installazioni si deve intervenire con politiche attente ai territori, come la sostituzione e il repowering degli impianti esistenti, la realizzazione di nuovi progetti di piccola e grande taglia integrati nel paesaggio e poi attraverso impianti off-shore nei tratti di costa dove le condizioni di vento e ambientali lo consentono. Legambiente stima una potenzialità dell’eolico pari al 10% dei fabbisogni elettrici italiani complessivi con lungimiranti politiche di sviluppo degli impianti e di efficienza energetica, che sarebbero una garanzia importante per un futuro energetico realmente sicuro e pulito».

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