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A proposito di Refrontolo , dello "sblocca Italia di Renzi e del condono perpetuo di Caldoro: non tutti i coccodrilli piangono, alcuni azzannano con gli occhi asciutti. Huffington Post, 4 agosto 2014

Dopo i morti di Refrontolo - ennesima tragedia annunciata frutto molto più del territorio maltrattato che del maltempo -, il Presidente del Veneto Zaia ha evocato il Vajont e da Palazzo Chigi hanno garantito che "adesso si volta pagina".

Tutto già visto e già sentito. Già viste, ahinoi, centinaia di disgrazie simili a questa: frane e alluvioni (più di 1.500 secondo il "Natural Hazard Earth System Sciences") alimentate da un uso dissennato del suolo - cemento ovunque, come nel caso del Trevigiano disboscamenti scriteriati per fare posto a sempre nuovi vigneti - che hanno provocato migliaia di morti (più di 5 mila dal 1950).
E sentita, strasentita, ad ogni evento luttuoso, la promessa di ministri e presidenti di regione che "adesso si volta pagina".

Peccato che proprio qualche ora prima della "bomba d'acqua" di Refrontolo, un altro presidente di regione, Caldoro in Campania, abbia proposto una specie di condono edilizio mascherato per migliaia di case illegali costruite spesso in aree a rischio idrogeologico o vulcanico. E peccato che più o meno contemporaneamente il presidente del consiglio in persona e il ministro Lupi abbiano annunciato con tanto di "slides" una presunta svolta nelle politiche urbanistiche e nelle regole per l'edilizia che in realtà perpetua, anzi rischia di aggravare i mali cronici del nostro territorio.
Sulla sanatoria voluta da Caldoro c'è poco da dire: è una vergogna assoluta, bisogna solo sperare che finisca in nulla.

Ma inaccettabile è anche il proposito del governo di rendere molto più semplici, con lo "Sblocca-Italia", le procedure per chi vuole costruire: altro cemento dunque, un'altra spinta all'Italia del dissesto territoriale. Il tutto nasce da una premessa totalmente falsa: in Italia l'edilizia è ferma perché le regole sono troppo rigide. Affermazione quasi grottesca: per decenni l'edilizia delle nuove costruzioni, quella legale e quella illegale, ha imperversato allegramente, consumando suolo a ritmi doppi rispetto al resto d'Europa (in Italia, dati Istat, oltre il 7% del territorio è cementificato contro una media europea del 4,3%). Se oggi questa edilizia è in crisi, ciò non dipende da un eccesso di burocrazia ma da un fatto più semplice e banale: sono finiti gli italiani che hanno soldi per comprare nuove case, sono finiti perché c'è la crisi e perché di case da vendere se ne sono costruite troppe. Nel frattempo, mentre si costruivano case da vendere che a centinaia di migliaia sono tuttora invendute, non si affrontava il vero dramma sociale legato alla casa: che è l'assenza - anche questa un'anomalia rispetto all'Europa - di un'offerta numericamente adeguata di case in affitto a prezzi accessibili per qualche milione di famiglie a basso reddito.

Discorso in parte analogo si può fare per le grandi opere. Matteo Renzi, sempre presentando il programma "Sblocca-Italia", ha mostrato una cartina di nuove autostrade da realizzare che fa impallidire, quanto a tasso di demagogia e propaganda, l'elenco di grandi opere promesso a suo tempo - anche in quel caso con tanto di mappa colorata - da Berlusconi. Ma l'Italia non ha bisogno di una nuova cascata di autostrade, molte delle quali del tutto inutili (un caso per tutti: l'autostrada tirrenica da Civitavecchia a Livorno; molto più rapido e meno costoso allargare l'Aurelia). Ha bisogno di ferrovie, di manutenzione delle reti primarie (fogne, acquedotti, depuratori...), di trasporto pubblico urbano, di investimenti per rinaturalizzare le sponde cementificate di fiumi e torrenti; misure pressoché assenti dallo "Sblocca-Italia".

La quasi contemporaneità tra il cripto-condono di Caldoro, l'annuncio renziano dello "Sblocca-Italia" e la tragedia di Refrontolo ripropone insomma l'ormai abituale corto circuito tra la condizione di endemico dissesto territoriale che affligge l'Italia - problema drammatico anche sul piano squisitamente economico, perché i disastri continuati hanno un costo elevatissimo per famiglie e imprese - e le risposte che dà la politica. Risposte che troppo spesso sono parte del problema molto più che della soluzione. Renzi vuole rilanciare l'edilizia? Intenzione sacrosanta. Ma allora spinga sulla riqualificazione del patrimonio esistente, sulla manutenzione del territorio, sulla rigenerazione urbana, oppure l'edilizia rimarrà al palo (ripetiamo: se oggi è in crisi è perché nessuno compra più nuove case) e l'Italia finirà sempre più sott'acqua.

Alcune parole, un po' a caso, di un vocabolario da fare. Corriere della sera, 5 agosto 2014

Amnesia
«In Italia i disastri di natura idrogeologica sono secondi solo ai terremoti quanto a numero di vittime e costi sostenuti per riparare ai danni. Ma quanto e più dei terremoti questi disastri sono oggetto di una sorta di amnesia collettiva e diventano tema di dibattito anche politico solo quando irrompono nella cronaca quotidiana. Eppure per loro natura presupporrebbero un’attenta opera di prevenzione basata su un uso corretto del territorio» (Monica Ghirotti, «Grandi frane: disastri e processi del Novecento», da «L’Italia dei disastri» a cura di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise).

Boschi
«Già nel secolo XVI Leandro Alberti aveva descritto le montagne boscose, dove “scendeano l’acque chiare fra selve et herbette, et scendeano con minor impeto e minor abbondanza”. Lamentando che ora, invece, “la pioggia non fermandosi, incontinente scendendo, et seco conducendo la terra mossa oltre il consueto grossa, entra nei torrenti, canali et fiumi, il che così non occorreva ne’ tempi antichi”» (Franco Tassi, Apollinea, novembre-dicembre 2011).
Criticità
«Lungo i 7.000 km di rete autostradale italiana sono stati identificati, quantomeno in forma preliminare, ben 706 punti di criticità in corrispondenza dei quali il tracciato potrebbe essere interessato dalla riattivazione di frane già censite e cartografate nel progetto Iffi; analogamente, lungo i 16.000 km di rete ferroviaria italiana sono stati identificati, quantomeno in forma preliminare, ben 1.806 punti di criticità in corrispondenza dei quali il tracciato potrebbe essere interessato dalla riattivazione di frane già censite e cartografate» (Claudio Margottini, «l’Italia dei disastri» a cura di Guidoboni e Valensise).
Danni
«Nel solo decennio 1994-2004, per tamponare i danni dovuti ad alluvioni, terremoti e frane più gravi, lo Stato ha dovuto scucire complessivamente 20 miliardi e 946 milioni di euro. Cioè due miliardi l’anno» (analisi del Cineas, il Consorzio universitario del Politecnico di Milano specializzato nella cultura del rischio). La stima dell’Ance, l’associazione dei costruttori, è ancora più alta: «Il costo complessivo dei danni provocati in Italia da terremoti, frane e alluvioni, dal 1944 al 2012, è pari a 242,5 miliardi di euro».
Esperti
Gli interventi di ricostruzione sono stati spesso occasione per dare incarichi a capocchia. Memorabile la delega di Raffaele Lombardo, governatore della Sicilia, per «l’organizzazione delle sede operativa di Messina, informazione cittadinanza zone alluvionate, progettazione ripresa economica e sociale del territorio» dopo l’alluvione che il 1° ottobre 2009 a Giampiglieri e a Scaletta Zanclea, nel messinese, aveva fatto 37 morti. Il prescelto fu un certo Francesco Micali. Curriculum? Era al quarto anno di giurisprudenza, suonava l’organo in parrocchia e tirava su qualche spicciolo la sera nei pianobar.
Foreste
«I naturalisti sanno bene che il manto arboreo di una foresta di latifoglie, con relativo sottobosco, può assorbire ben più della metà delle precipitazioni totali restituendo gradualmente l’acqua raccolta, sotto la forma di vapore acqueo. Non solo, ma anche la pioggia che raggiunge e penetra il suolo vi arriva sapientemente dosata e “smorzata” ad opera della copertura vegetale, senza quella terribile forza dinamica di erosione, dalla quale nessun terreno scoperto può alla lunga salvarsi… Mentre sui nostri monti, alle valli che dovrebbero regolare e incanalare le piogge, troppo spesso fanno cornice dirupi brulli e petrosi, coste terrose facilmente dilavabili, un tempo sede di foreste famose e decantate, oggi pantani di mota nella cattiva stagione e aridi calvari bruciati dal sole d’estate» (Franco Tassi, storico direttore del Parco Nazionale d’Abruzzo. «Apollinea», novembre 2011).
Gomma
«Non si può morire per una frana sull’autostrada. La Calabria è geologicamente molto giovane. E quindi è la più esposta a rischi idrogeologici. Tutto dovrebbe essere progettato con molta più attenzione. Al contrario, assistiamo da decenni a cattiva gestione del territorio, incuria, devastazioni. E ogni volta che cerchiamo come geologi di sensibilizzare le istituzioni sul problema ci scontriamo con un muro di gomma. Finché non c’è il disastro…» (Paolo Cappadona, presidente dell’Ordine dei geologi calabresi, dopo la frana che nel gennaio 2009 piombò sull’A3 Salerno-Reggio Calabria tra Rogliano e Altilia Grimaldi uccidendo due persone e ferendone 6)
Imposte
«Sostenere che queste sciagure accadono anche perché non ci sono risorse finanziarie disponibili per la tutela e la manutenzione del nostro territorio risulta difficile, soprattutto a fronte dei 43,88 miliardi di euro che vengono incassati ogni anno dallo Stato e dagli Enti locali dall’applicazione delle imposte ambientali, di cui il 99% finisce invece a coprire altre voci di spesa. I soldi ci sono, peccato che ormai da quasi un ventennio vengano utilizzati per fare altre cose» (Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre, dopo l’alluvione di Olbia del novembre 2013).
Leonardo
«L’acqua disfa li monti e riempie le valli, e vorrebbe ridurre la terra in perfetta sfericità, s’ella potessi» (Leonardo da Vinci, che invitava a diffidare sempre dell’acqua che «non ha mai quiete, insinoché non si congiunge col suo marittimo elemento»).
Miliardi
«Il fabbisogno necessario per la realizzazione di interventi per la sistemazione complessiva della situazione di dissesto su tutto il territorio nazionale è stimato in 44 miliardi di euro, dei quali 27 per il Centro-Nord e 13 per il Mezzogiorno, oltre a 4 miliardi per il fabbisogno relativo al recupero e alta tutela del patrimonio costiero italiano» (relazione alla Camera di Elisabetta Zamparutti, Pd, gennaio 2010. La stessa cifra sarà ribadita nel 2013 dall’allora ministro dell’Ambiente Corrado Clini).
Neponucemo
San Giovanni Nepomuceno è considerato il santo protettore contro le frane e le alluvioni. Viene invocato per disperazione in assenza di una politica del territorio all’altezza di un paese esposto a disastri idro-geologici come il nostro.
Olbia
Devastata nel novembre 2013 da una rovinosa alluvione che colpì tutti coloro che erano abituati a vedere nella città la capitale della Costa Smeralda, del sole, del mare d’élite, Olbia pagò un prezzo carissimo alla catena di errori: «Tutti i problemi nascono dai tre condoni edilizi degli ultimi trent’anni, che hanno sanato situazioni di palese e pericolosa illegalità in una città che si era ampliata in modo selvaggio, a rimorchio del successo della Costa Smeralda, con case costruite nell’alveo dei fiumi», denuncia lo stesso sindaco Gianni Giovannelli, «La città ha 16 quartieri abusivi: sedici. Dovrei espropriare le case di migliaia di persone e abbatterle: è impossibile».
Patrimonio a rischio
I nostri tesori esposti al pericolo di frane, dice lo studio «Patrimonio culturale, rischio da frana», di Carlo Cacace, Carla Iadanza, Daniele Spizzichino e Alessandro Trigila, sono 5.511. Sparsi su tutta l’Italia ma soprattutto in Toscana e nell’Umbria. Venti potrebbero esser travolti da frane a Foligno e Squillace, 21 a Firenze, 22 a Caltanissetta, 23 a Tropea, 24 a Gubbio e su su 32 a San Gimignano, 35 a Troina, 42 Genova, 71 a Pescocostanzo, 72 a Colle Val d’Elsa… Quelli a rischio alluvione sono il doppio: 11.155. Trecento a Mantova, 438 a Pisa, 705 a Ferrara, 1030 a Firenze e addirittura 1375 a Roma.
Rischio elevato
Sono a «rischio elevato» sul fronte idro-geologico (486mila frane censite) il 44% dei comuni lombardi, il 68% di quelli abruzzesi, il 71% di quelli liguri e valdostani, l’86% di quelli molisani, l’87% di quelli lucani, l’89% dei comuni umbri. (Rapporto Ministero dell’Ambiente, 2009) «Si stima che la popolazione potenzialmente esposta ad un elevato rischio idrogeologico sia pari a 5,8 milioni di persone» («Lo Stato del Territorio Italiano 2012», Ance-Cresme).
Sarno
Quella del maggio 1998 a Sarno, in provincia di Salerno, è stata la più grave catastrofe idrogeologica degli ultimi decenni in Italia. Sotto il fango venuto a valle da una catena di frane in seguito ad eccezionali rovesci di pioggia, restarono 137 vittime. In particolare nella frazione di Episcopio. L’area aveva la più alta densità abitativa d’Italia (tre volte il valore della Campania) nonostante fosse già stata colpita da 5 frane dal 1841 al 1939 e 36 dopo la seconda guerra mondiale. Precedenti che avrebbero dovuto spingere le autorità locali a bloccare ogni costruzione e agli stessi cittadini di stare alla larga dalle aree più pericolose. Difficile dimenticare l’accusa amarissima di Fabio Rossi, docente di idrogeologia a Salerno, con gli occhi fissi sulla spianata di fango che aveva inghiottito i corpi: «La colpa è loro, ma questo non si può dire ai morti…».
Tagli
Per il Fondo Rischio Idrogeologico l’Italia nel 2008 stanziava 551 milioni di euro. Scesi via via, di governo in governo, a 84. Per precipitare, nella finanziaria 2014 varata da Letta, a 20 milioni (meno 96% sul 2008) portati precipitosamente a 30 dopo le polemiche seguite alla disastrosa alluvione in Sardegna.
Valle dei Templi, Agrigento
«Questa importante area storico-archeologica è interessata da tempo da un esteso fenomeno di dissesto classificabile principalmente come scorrimento traslativo rotazionale con alcuni piccoli fenomeni di crollo e ribaltamento innescatisi nel 1976. Tale fenomeno coinvolge potenzialmente sia il Tempio della Concordia sia quello di Giunone Lacina così come la fortificazione, l’altare dei sacrifici e la cisterna dell’area archeologica…» («Patrimonio culturale, rischio da frana», di Carlo Cacace, Carla Iadanza, Daniele Spizzichino e Alessandro Trigila).
Zero
Incrociando nel titolo le parole «frana» e «condanna» (in tutte le sue varianti: condanne, condannato, condannati etc…) l’archivio dell’Ansa, milioni di files accumulati dal 1981, contiene solo 4 notizie: quattro. Neppure in un caso, però, si tratta di amministratori colpiti da una sentenza che censuri la sciatteria con cui hanno gestito il territorio. Lo stesso ex sindaco di Sarno, Gerardo Basile, è stato condannato in Cassazione per un reato collegato a una frana: non ordinò l’evacuazione delle frazioni collinari della cittadina investite dal nubifragio. Per la gestione del territorio, però, condannati zero. Neanche nei casi più scellerati. Zero.

In tre articoli, alcune facce dell’incuria che provoca disastri. Il territorio è una realtà complessa, e solo un sistema complesso di regole (la sua pianificazione ) può garantire la sopravvivenza delle specie che lo abitano. La Nuova Venezia, 5 agosto 2014

Prosecco e colline.Guerra sulle regole
Nessuno tocchi il prosecco. Da queste parti, circondati dalla Grande Bellezza delle colline dove nasce il vino più trendy del momento, sono ammessi i pesticidi ma vietato l’uso improprio nel nome prosecco. Eppure è proprio grazie al nome del prosecco che la tragedia del Molinetto della Croda ha sfondato il muro dei grandi media nazionali. «Dite pure ai vostri colleghi - si è infervora il governatore Luca Zaia – che magari scrivono nei grandi giornaloni italiani, che prima di attaccare l’economia d’eccellenza del nostro territorio, quella appunto del prosecco, vengano a conoscere la realtà». E accompagna personalmente le grandi testate giornalistiche a «gustare» il paesaggio. Luca Zaia fa parte del tessuto connettivo di questo territorio: vi è nato e cresciuto, lo vive e ne respira l’essenza, lo chiamano per nome. A questi piccoli paesi ha restituito orgoglio e dignità. Chi tocca il prosecco, dunque, tocca Luca Zaia. Non è solo questione di cuore: quand’era ministro delle Politiche Agricole, nel 2009, ha regalato a questo territorio la più grande opportunità post industriale, quella della denominazione protetta del prosecco. Docg nella zona «storica» di Conegliano e Valdobbiadene (e Asolo) e Doc in nove province venete e friulane. Così è stato arginato il timore del prosecco cinese e delimitato la zona di produzione, facendo diventare il prosecco il primo concorrente dello Champagne e il primo distretto vitinicolo nazionale con oltre 300 milioni di bottiglie. Logico che una tragedia di queste proporzioni - ed ogni accostamento sull’uso del territorio e sulla monocoltura del prosecco - lo metta di cattivo umore. Adesso questa parte del Veneto è tra le più ricche d’Italia. E un ettaro di terreno agricolo vitabile vale il doppio di un terreno industriale. Insomma, Zaia ha fatto ricchi i contadini del prosecco, che lo adorano. Le isolate voci che si distinguono non hanno molta fortuna. Perché se è vero che aver ragione nel momento sbagliato non porta lontano, la storia dell’umanità – dal Vajont in poi - è lastricata di uomini e donne dalla parte del torto che hanno trovato ragione postuma.

Da europarlamentare del Pd, Andrea Zanoni ha firmato la sua ultima interrogazione proprio sollevando il tema dell’espansione dei vigneti in collina ai danni del bosco: non è stato rieletto. «Le frane e gli smottamenti di queste settimane devono far riflettere - spiega l’ex europarlamentare –. Scavare nel sottosuolo e sradicare alberi vuol dire impoverire il nostro territorio di difese naturali indispensabili al mantenimento di un certo equilibrio. Il patrimonio naturale del nostro Veneto non può essere sacrificato per nessun interesse economico di sorta, nemmeno in nome della pur prestigiosa industria del prosecco».

A Feltre sta nascendo un gruppo di acquisto solidale di terreni per scongiurare la «prosecchizzazione» del territorio. Il numero due dei geologi italiani, Paolo Spagna, non si tira indietro: «Le colline dell’Alta Marca trevigiana, geologicamente giovani e poco resistenti, sono rese ancor più fragili dall’azione intensiva dell’uomo». E Tiziano Tempesta, docente di estimo all’Università di Padova, avverte: «Vedo cose, nelle colline del prosecco, che gridano vendetta. Attenti, perché stiamo andando nella direzione opposta a quella giusta: la monocoltura del prosecco può far molto male non solo all’assetto del territorio ma anche al territorio stesso». «Ma questa fama planetaria è un bene o piuttosto un rischio?», si chiede nel suo eremo di Santo Stefano di Valdobbiadene Miro Graziotin. «Non rappresenta forse anche un problema? Perché alla crescita impetuosa non è seguita un’altrettanta crescita sulle regole, sulle strategie e sul futuro di questo prezioso regalo della natura».

L'ingegner Napol
«La colpa? L’incuria dei boschi»

«La colpa non è dei vigneti, ma della mancata opera di manutenzione dei boschi. E prima di tutto di un evento eccezionale, perché una precipitazione piovosa come quella di sabato scorso non capitava da almeno 60-70 anni». Gian Pietro Napol – ingegnere civile di Vittorio Veneto, 61 anni, sposato, con due figli, titolare dello studio omonimo a Vittorio, e oggi presidente del Foiv, federazione degli ingegneri dell’Ordine del Veneto, dopo esserne stato vicepresidente per 8 anni – non mette sotto accusa i filari di Prosecco, ma gestione e manutenzione complessiva del territorio, dalla cura dei boschi a quella dei corsi d’acqua. «Un tempo d’inverno i contadini tenevano curati i boschi e soprattutto il sottobosco, raccoglievano il fogliame per approntare le lettiere delle mucche nelle stalle, tagliavano le piante morte, o in assetto precario, e facevano una costante manutenzione di scoline, fossi e corsi d'acqua», rileva Napol , «ma oggi tutto questo non avviene più, in quanto ritenuto economicamente non conveniente».

E proprio la tragedia di Refrontolo, secondo Napol, è la controprova degli effetti devastanti di questa mancata opera di manutenzione. «E purtroppo sono sotto gli occhi di tutti», aggiunge, «sbagliato prendersela con le coltivazioni di Prosecco: non sono una delle cause, semmai le colture a vite contribuiscono a stabilizzare i terreni dei versanti, impedendone il dilavamento». Secondo il numero uno degli ingegneri veneti, le soluzioni concrete per risolvere la questione delle frane e delle fragilità del territorio sono univoche: si deve ripristinare la cultura dei nonni, incentivando le attività di manutenzione dei corsi d'acqua che sono proprietari dei terreni contermini. E qui Napol suggerisce al legislatore di scontare ai proprietari le spese sostenute per tali opere: «Impensabile che gli Enti pubblici, preposti alla tutela e salvaguardia dei corsi d'acqua demaniali, possano far fronte a tutto, dal momento che in questo momento più che mai mancano sia le risorse umane sia quelle finanziarie». L’ingegnere auspica da questo punto di vista una rigorosa divisione dei compiti fra le istituzioni e gli organi di controllo: Genio Civile e Servizi Forestali, secondo Napol, devono assicurare un’attenta sorveglianza/vigilanza sullo stato dei luoghi. Infine, un invito alla Regione perché proceda nell’obiettivo dichiarato nel progetto comunitario legato ai fondi d'investimento Por-Fers 2014- 2020, con ben 50 milioni di euro investiti. «Si parla in quel contesto della promozione dell’adattamento climatico, con la prevenzione e la gestione dei rischi», conclude Napol, «mi sembra la sede più adatta per inserire il rischio idraulico e quello idrogeologico».

Il geologo Barazzuol
«Basta sbancamenti
e più rispetto»

Doveva esserci anche lui, alla festa sotto il tendone al Molinetto della Croda. Ma un impegno improvviso lo ha indotto a rinunciare: ha vissuto ore d’ansia per gli amici, sabato. Si sono salvati. Ci è tornato subito dopo, poi domenica mattina, e ancora lunedì, come geologo incaricato dal Comune di Refrontolo di monitorare l’area della tragedia, compiere sopralluoghi e rilievi utili capire le ragioni del disastro. Diego Barazzuol (in foto), 55 anni, geologo di Farra di Soligo, non si dà pace. Destino e professione gli hanno preparato un copione pazzesco, sabato. «È incredibile, ho lo studio a due passi dal Lierza, sono nato qui, credo di conoscerlo metro per metro. In qualche estate è secco, e di solito non supera i 35-40 centimetri. Ma sabato è stata una cosa mai vista...» Lei è un tecnico. Proviamo a spiegare cos’ è accaduto? «Una pioggia incredibile, in un’ora e mezza è caduta l’acqua di un mese. Altro che secce reverse, come dicevano i nostri vecchi. L’ondata che ha spazzato via tutto era alta 4-5 metri, su un fronte di 18: ha fatto il salto di 20 metri, poi ha viaggiato a 15 chilometri all’ora. Sono 300 metri cubi al secondo di acqua e fango. Immane». Ma c’è stato l’effetto diga, sopra il molinetto? «Era un’ipotesi plausibile per spiegare una simile cascata d’acqua, ma ci siamo dovuti ricredere. Acqua e solo acqua, con l’effetto Venturi dovuto al restringimento del fronte sopra il molinetto, che ha alzato a dismisura il livello». Allora è responsabile la pioggia? I suoi colleghi accusano l’espansione delle coltivazioni del Prosecco, che indeboliscono le colline «Bisogna fare chiarezza. La pioggia è stata eccezionale, ma tutto è stato aggravato dal fatto che la terra era già pregna e satura dopo le piogge di venerdì. Non ha ricevuto nulla. L’acqua è tutta scivolata giù, in 15-20 minuti si è creata l’enorme massa poi precipitata dal molinetto. Le frane ci sono, ma anche in zone di bosco. E se è vero che le radici della vite sono deboli, nel giro di pochi anni crescono anch’esse». Prosecco innocente, dunque? «Non si può affrontare la questione nemmeno in questi termini. Il Prosecco si può piantare, ma non ovunque, perché le colline sono fragili da sempre. Non certo sui piani inclinati, dove le marne sottili, di natura argillosa, non contribuiscono alla stabilità. E non si può piantare prosecco con sbancamenti selvaggi». Ma ci sono regole? «Qualcuna sì, e ora si fanno strada principi di precauzione e norme più attente. In zone di forte pendenza, meglio rendere trattorabile un filare ogni 3 o 4, e calibrare i terrazzamenti. In ogni caso, mai raddrizzare dorsali: rispettiamo le curve delle colline, impluvi e dorsali». Tra boschi rasati e filari che spuntano ovunque, si è parlato di assalto alle colline da parte degli imprenditori del vino. «Sono un tecnico, queste definizioni non mi appartengono. Il prosecco è anche un prodotto che oggi “tira” e traina l’agroalimentare. Cinquant’anni fa c’erano più vigneti, poi c’è stato un abbandono, adesso è boom. Su queste colline non si deve esagerare». Paolo Spagna, presidente veneto dei geologi, parla di pericoli per chi vive sulle colline. E chiede monitoraggi della Pedemontana e un piano di protezione civile. «È doveroso, proprio per la fragilità di queste colline, che vanno rispettate, non sbancate. E le autorità devono assicurare risorse e fondi» Come geologi chiedete l’istituzione del geologo di zona, una sorta di superesperto che valuti ogni intervento sul territorio. «Sarebbe la soluzione per impedire scelte sbagliate in zone delicate, e risparmiare tanti soldi di interventi dopo i disastri. Ma gli vanno garantiti mezzi e poteri»

Appia, regina di storia e di abusi le repliche della Prefettura di Roma e dell'autore. Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2014

DIRITTO DI REPLICA

della Prefettura di Roma

In relazione a notizie apparse sul Fatto Quotidiano del 27 luglio u.s. a pag.   12   nel passaggio concernente le misure a protezione dell’ex Ministro della Giustizia, Prof. Avv. Paola Severino, si precisa che la vigilanza fissa espletata da militari dell’Esercito Italiano nei pressi dell’abitazione dell’ex Ministro è stata attivata a tutela di obiettivi diplomatici contigui precedentemente alla nomina a Ministro dell’Avv. Severino. Con l’occasione si precisa altresì che il dispositivo di protezione a suo tempo posto a garanzia dell’incolumità personale del Ministro anche presso la residenza privata è stato adottato sulla base delle procedure previste dalla normativa vigente per le Personalità che ricoprono incarichi istituzionali con particolare esposizione a rischio.

di Tomaso Montanari

Prendo atto che sull’Appia si protegge tutto tranne l’Appia stessa. Non è una novità: mentre la Reggia di Carditello era abbandonata ai vandali e ai ladri, un presidio dell’esercito vegliava sulla contigua discarica. Tornando all’Appia, mi piacerebbe sapere se questi sensibilissimi obiettivi diplomatici si trovino in ville abusive, magari fornite di diplomatiche piscine. E se la normativa vigente impedisce che funzionari della soprintendenza e cittadini possano visitare beni archeologici di proprietà pubblica inglobati nel fortilizio privato difeso a spese pubbliche. Chissà.

Tra gli esercizi intellettuali più difficili quello di non cadere nella disperazione quando si scopre (ahimè così spesso) che la memoria degli italiani è morta, o è seppellita dagli “affari”. Sono decenni che si sa perché i disastri accadono, e si fa il contrario di ciò che serve per evitarli. La Repubblica, 4 agosto 2014

Bomba d’acqua” fuori stagione? Forse, anche se l’annessione dell’Italia ai Tropici sembra ormai un fatto compiuto. Ma mentre tutti si stracciano le vesti, non nascondiamoci dietro un dito.

Frane, fiumi in piena, disastri naturali ritmano la cronaca di questi anni. Ogni volta, proclami e promesse, in attesa del prossimo lutto. «Una devastazione che mai ci saremmo aspettati» dichiara il presidente del Veneto Zaia, dimentico di smottamenti ed esondazioni nella stessa zona di Refrontolo, lo scorso febbraio.

«Ora si volta pagina, investiamo in opere di difesa» proclama il sito del Governo, con una velina-fotocopia di quelle di altri governi. Per citarne uno, Corrado Clini (allora ministro dell’Ambiente), che dopo una frana in Liguria (settembre 2012) dichiarò pensosamente: «Servirebbe un piano contro il dissesto idrogeologico». Gran prova d’intuito, da parte di chi era stato direttore generale dello stesso Ministero per dieci anni.

Ma in Italia ogni disastro è opera del fato avverso o di congiunture astrali. Mai che si parli di responsabilità o di punire i colpevoli: che sarebbe la prima mossa per voltar pagina davvero, e non a parole. E a che cosa è mai servito il monito del Capo dello Stato, quando dopo un’altra alluvione con quattro morti (settembre 2011) dichiarò che «bisogna affrontare il grande problema nazionale della tutela e della messa in sicurezza del territorio, passando dall’emergenza alla prevenzione»?

Con un territorio allo sfascio dal Cervino a Pantelleria, anziché analizzarne le fragilità e concepire piani d’insieme aspettiamo che i riflettori si accendano su piccole porzioni di territorio, per metterci una pezza: oggi Treviso, ieri Sibari affogata nel fango o Giampilieri coi suoi 38 morti. Come se tutto il resto fosse al sicuro.

L’Italia ha il territorio più fragile d’Europa (mezzo milione di frane), il più esposto al danno idrogeologico, che colpisce periodicamente le persone, l’economia, il paesaggio. Eventi che dovrebbero imporre la redazione di mappe del rischio e la ricerca di soluzioni. Invece, gli investimenti per la messa in sicurezza del territorio sono diminuiti del 50%, e i lavori per un’aggiornata carta geologica sono stati affossati. Usiamo ancora quella al 100.000, voluta da Quintino Sella nel 1862 più per le risorse minerarie che per lo stato dei suoli.

La nuova carta al 50.000 prevedeva 652 fogli, ma solo 255 sono stati realizzati (il 40 % del territorio), dopo di che, per i tagli lineari alla Tremonti o la spending review che ne è l’impudico sinonimo, il progetto si è arenato. E se del 60% del territorio non c’è carta geologica, come intende il Governo «chiudere la stagione che ha visto l’Italia inseguire le emergenze»? Secondo il rapporto Ance-Cresme (ottobre 2012), il 6,6% del territorio è in frana, il 10% a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico.

I costi della mancata manutenzione sono stati valutati in 3,5 miliardi di euro l’anno (senza contare i morti): negli anni 1985-2011 si sono registrati oltre 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti. Nonostante questi segnali di allarme, scrive il rapporto, cresce senza sosta «l’abbandono della manutenzione e presidio territoriale che assicuravano l’equilibrio del territorio».

Continua invece il consumo di suolo: secondo dati Ispra, otto metri quadrati al secondo, per ciascun secondo degli ultimi cinque anni (e il Lombardo-Veneto è al primo posto). Dati che trascinano l’Italia fuori dall’Europa, dove il consumo medio del suolo è del 2,8%, a fronte di un devastante 6,9% per il nostro Paese. Pretestuose “grandi opere” pubbliche si aggiungono “piani-casa” e condoni edilizi, con l’assunto che basta “mettere in moto i cantieri” e l’economia è salva: la stessa litania menzognera che ci viene ripetuta da Craxi in qua.

Ma questa dissennata cementificazione uccide i suoli agricoli, colpisce al cuore l’agricoltura di qualità, copre i suoli di una coltre di cemento, con perdita irreversibile delle funzioni ecologiche di sistema che aggrava gli effetti di frane e alluvioni. Eppure, secondo l’Associazione Nazionale Costruttori, un piano nazionale per la messa in sicurezza del territorio richiederebbe un investimento annuo di 1,2 miliardi per vent’anni, che assorbirebbe manodopera bilanciando il decremento delle nuove fabbricazioni.

Con un curioso lapsus, Erasmo D’Angelis, che a Palazzo Chigi guida #italiasicura, struttura contro il dissesto idrogeologico, ha dichiarato all’Ansa che il Governo intende procedere allo «sblocca dissesto ». Si spera che intendesse “bloccare il dissesto”, perché a sbloccarlo ci pensano le bombe d’acqua. Ma il decreto “Sblocca Italia” prevede «permessi edilizi più facili e grandi opere accelerate», senza distinguere (lo ha notato Asor Rosa sul manifesto ) «fra le opere in ritardo per motivi burocratici e quelle nei confronti delle quali si è manifestata la consapevole opposizione dei cittadini in nome di una vivibilità che fa tutt’uno con il rispetto del territorio e dell’ambiente, anzi facendo intenzionalmente d’ogni erba un fascio».

Se sarà così, il lapsus di D’Angelis si rivelerà tragicamente profetico. Per non dire che le “leggi ad alta velocità” servono spesso (come per il Mose) a indirizzare fondi pubblici sul profitto privato dei soliti noti: lo hanno mostrato benissimo Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri nel loro impeccabile Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia ( Rizzoli).

«Il maggior rischio degli investimenti in infrastrutture è la vanità», intitolava il Financial Times del 5 gennaio 2014. Ma nell’Italia delle frane e delle bombe d’acqua la vanità dovrebbe essere bandita

Dalla testimonianza di uno dei docenti dell'IUAV che si è opposto con tenacia al MoSE e agli altri scempi. Un altro tassello della storia del mostro ( diquel divoratore di risorse attuali e future della collettività che Matteo Renzi vuole proseguire).La Nuova Venezia, 3 agosto 2014

Galan prova a ricostruire la storia a suo uso e consumo, raccontando che il ruolo del presidente della Regione nelle decisioni del Mose era ininfluente: non c’era motivo per cui l’ingegner Mazzacurati gli desse dei soldi. Peccato che la storia lasci in giro dei testimoni. Uno è Stefano Boato, che con gli scandali non ha niente a che fare, ma che del Mose sa tutto, avendo fatto parte della Commissione di Salvaguardia, l’unico organismo tecnico che abbia mai dato un parere sul Mose. Parere favorevole, strappato da Galan con un autentico blitz. E remunerato, ha rivelato Mazzacurati nell’interrogatorio del 31 luglio 2013 ai Pm Paola Tonini e Stefano Ancilotto, «con un regalo extra da mezzo milione».

Boato è professore universitario, insegna pianificazione territoriale e ambientale. Fa parte della Commissione di Salvaguardia come tecnico, in rappresentanza del ministero dell’Ambiente. Giovedì è stato convocato dagli inquirenti. Cosa volevano sapere? «Se Galan, da governatore, ha avuto importanza o no nell’approvazione del Mose». La sua risposta? «Ho detto di sì per due motivi. Il primo è che Galan ha partecipato a due Comitatoni, nel 2003 con Berlusconi e nel 2006 con Prodi, approvando e avviando politicamente il Mose con Berlusconi, poi rinunciando alle verifiche di qualità e merito con Prodi, verifiche che erano doverose».
Nel Comitatone c’è anche il Comune di Venezia. «Sì ma lo Stato pesa più di tutti, perché ha il voto del presidente più i ministri. Nel 2003 il Comune di Venezia fu corresponsabile, in quanto il sindaco Costa subordinò l’accordo a 11 prescrizioni farsa. Ma nel 2006 il Comune con Cacciari sindaco votò contro; lo Stato dette un solo voto, perché Prodi per superare le divergenze nel governo votò anche per conto dei ministri, altra follia accaduta; il terzo decisore favorevole fu Galan». Altro che ininfluente, allora. «Galan è protagonista e coautore di una decisione presa con comportamenti da kamikaze. Io c’ero e so di cosa parlo: veniva con la maglietta e su scritto Viva il Mose. Roba da matti per il livello richiesto». Lei ha parlato di due motivi. «Galan ha contato molto di più a livello tecnico: i Comitatoni davano l’approvazione politica, senza l’ok ai progetti non si andava avanti. Il Consiglio superiore dei Lavori Pubblici è stato saltato. La commissione Via nazionale è stata disattesa. L’unico voto tecnico sul Mose è stato dato in Commissione Salvaguardia. In 15 anni Galan non era mai venuto a presiederla, si presentò solo quella volta». Che anno era? «Fine 2003, inizio 2004. Teorizzò l’esatto contrario di quello che dicono la legge e l’esperienza della Commissione, la quale ha sempre votato sul merito. Essendoci già due pareri positivi, quello del Magistrato alle Acque e quello del ministero dei Beni culturali di Roma, peraltro avversato dalla Soprintendenza di Venezia, disse che bastava prendere atto e votare a favore, seduta stante». E il giudizio di merito? «Il giudizio di merito era in 82 fascicoli, che bisognava esaminare. Avevamo tre mesi di tempo, ne avevamo cominciati [dei fascicoli- n-d.r.], tre per seduta, ne mancavano 73. Ogni fascicolo è un malloppo di 400-500 pagine, con progetti e relazioni. Galan impose la decisione con la sua maggioranza. Così il Magistrato alle Acque, che era sotto esame, approvava se stesso».
In Commissione Salvaguardia quante persone ci sono? «Minimo 14 perché siano validi i voti. Siamo usciti in cinque o sei commissari, rifiutandoci di avallare il comportamento. Ma non fu sufficiente, loro avevano fatto i conti con precisione sul numero legale». Su cosa votarono, visto che non avevano visionato i progetti? «Un attimo dopo che eravamo usciti dalla porta, spuntò un documento che nessuno aveva visto prima, ovviamente scritto dal Consorzio Venezia Nuova, anche se non lo potrà mai dimostrare. Pieno di follie. In mezz’ora lo approvarono. Decidendo tra l’altro che da quel momento la Commissione Salvaguardia non si sarebbe più occupata del Mose».

«L’uomo di Mazzacurati al PM allibito: dal Consorzio incentivi a chi centrava gli obiettivi a suon di mazzette». Il Fatto Quotidiano, 3 agosto 2014
C’erano persino i premi sulla corruzione e sull’utilizzo dei fondi neri. Premi in denaro, ‘'intende, che il Consorzio Venezia Nuova (Cvn) pagava all’ex presidente Giovanni Mazzacurati quando raggiungeva l’obiettivo a suon di mazzette. E nel 2009, con i soldi del Cvn, fu pagato anche un servizio di cristalleria da 12.400 euro per il matrimonio dell’allora governatore Giancarlo Galan.

Si scopre anche questo, leggendo gli ultimi atti depositati, dalla procura di Venezia, al tribunale del Riesame. Il riesame ieri ha respinto le richieste di Antonio Franchini e Niccolò Ghedini, difensori di Galan, che avevano chiesto la sua scarcerazione o, in alternativa, almeno gli arresti domiciliari. Il parlamentare di Forza Italia resta invece in carcere, nell’ospedale di Opera, perché il Riesame presieduto dal giudice Angelo Risi ha respinto le richieste della difesa. Il collegio ha anche annullato l’ordinanza d’arresto per i fatti antecedenti al 22 luglio 2008 – parliamo di alcuni finanziamenti per le campagne elettorale e della ristrutturazione dell'ormai famosa villa di Cinto Euganeo – perché destinati alla prescrizione. Negli atti depositati dalla procura, però, emergono nuove testimonianze che accusano Galan d’aver intascato ulteriori soldi.

Lo scenario della corruzione in laguna s’allarga anche a episodi estranei al Mose, come quelli raccontati dall’imprenditore Pierluigi Alessandri. Ecco in sintesi la sua versione: “Ho avuto modo di parlare con Galan delle difficoltà della mia impresa, al che mi disse che gli era stato riferito che noi eravamo una delle imprese di riferimento dei Ds... e mi disse che avrebbe visto cosa avrebbe potuto fare, purché, da parte mia, fossi stato “disponibile” a far parte della cerchia degli imprenditori a lui “vicini”, intendendo imprenditori disponibili a elargire somme di denaro e favori di altro genere”. E Alessandri si attiva: “Ho corrisposto a Galan 115mila euro tra il 2006 e il 2007 poi ho fatto gratuitamente dei lavori alla sua casa di Cinto Euganeo... è stata emessa una fattura per 25mila euro che non è stata pagata... il costo dei lavori effettuati... era di circa l00mila euro...”. Lavori conclusi nel 2009, spiega Alessandri, parlando di un reato – in teoria – non ancora prescritto.

L'imprenditore parla di un vero e proprio sistema e confida: “Non ho consegnato personalmente i soldi a Galan, lo ha fatto mia figlia, all'interno di una busta chiusa, ma lei non era al corrente del contenuto della busta... dopo ho sentito la necessità di confidare le dazioni di denaro a mia moglie e ai miei figli, per condividere il peso morale di tale condotta. Ho sbagliato, ma purtroppo il sistema era questo, mi sembrava l'unica via possibile per far sopravvivere la mia azienda in Veneto...”. Per quanto riguarda il Mose, invece, il sistema era utilizzare fondi neri per corrompere il politico di turno. E a obiettivo raggiunto ci si spartiva persino dei premi. A raccontarlo è Stefano Tomarelli, braccio destro di Giovanni Mazzacurati, l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova. Tomarelli racconta che Giancarlo Galan aveva imposto, nella laguna di Venezia, l’alloggiamento dei cassoni del Mose, previsto inizialmente a nel porto di Ravenna. L’intento era chiaro: “I soldi dei veneti vanno spesi in Veneto”. L’idea di Galan aveva però creato un problema: era necessaria una nuova Valutazione d’impatto ambientale. “E questo – spiega Tomarelli - significava fermare tutto completamente”. E a quel punto si “scatenò l'ira di Dio”. “Mazzacurati – continua Tomarelli - intervenne pesantemente, sicuramente anche economicamente...”. Siamo tra il 2004 e il 2006, il periodo in cui “Galan aveva un peso incredibile”. E Mazzacurati – continua Tomarelli - “si portò il titolo di merito d’aver risolto questo problema ... avendo utilizzato i fondi che aveva a disposizione... disse che era riuscito … ad avere un successo strepitoso … in relazione dell'utilizzo dei fondi neri nei confronti di Galan...”.

Poi aggiunge che “a volte” Mazzacurati “otteneva pure dei premi dal consiglio direttivo... ”. Il pm sembra strabuzzare gli occhi: “Premi in ragione della corruzione effettuata?”. Tomarelli balbetta: “No, dei premi .. beh ...sì, diciamo l'obiettivo raggiunto... non è che nel consiglio direttivo si parlasse di corruzione... però le persone che erano lì... si dividevano la cifra che davano a Mazzacurati come premio...”. E il premio arriva in modo ufficiale: “Con una delibera formale”, conclude Tomarelli, spiegando di non ricordare se Mazzacurati ottenne un premio anche nel caso dei fondi neri usati per Galan ma che, in sostanza, il sistema era questo.

In un trafiletto di poche parole e neppure firmato, una chiave essenziale nella costruzione della Città Metropolitana dei cittadini. La Repubblica Milano, 1 agosto 2014, postilla (f.b.)

Manovre di avvicinamento ad Expo sul fronte trasporto pubblico. Atm e Palazzo Marino hanno messo a punto tre nuovi tipologie di ticket di viaggio per viaggiare sui mezzi cittadini, sulle linee ferroviarie Trenord e sul Passante. L’obiettivo è quello di favorire il più possibile gli spostamenti senza le auto private non soltanto verso il sito espositivo di Rho-Pero, ma anche in città, per quei turisti che arriveranno nei sei mesi di evento.

Il primo tipo di nuovo biglietto sarà valido per l’andata e il ritorno da Milano alla fiera di Rho e potrà essere utilizzato anche sul Passante. Costo: 5 euro. Seconda novità: il biglietto “giornaliero Expo” da 8 euro, valido sia da e per il sito espositivo sia per girare in tutta Milano sui mezzi Atm urbani e sul Passante. Ultimo nuovo tipo di biglietto deciso ieri dalla giunta è il ticket “giornaliero Area grande Expo”: costerà 10 euro e potrà essere utilizzato nell’area metropolitana. Sarà un confronto tra Trenord e Comune a stabilire quanto estesa potrà essere l’area in cui sarà valido il biglietto, studiando le direttrici ferroviarie che arrivano a Milano da nord e sud.

Per questi ultimi due tipi di biglietto si prevede che già a dicembre saranno messi in circolazione in via sperimentale per tutti quelli che vorranno raggiungere Rho per le manifestazioni in programma, dall’Artigiano in Fiera ai vari saloni di esposizione in calendario. Le stazioni di Rho-Fiera e di Pero, sulla linea 1 del metrò, sono state riaperte due settimane fa dopo la chiusura per i lavori necessari proprio in vista di Expo, durati poco più di un mese: è stata realizzata una deviazione dei binari per consentire più flessibilità nella gestione del capolinea, e quindi per andare incontro ai momenti di maggior afflusso dei passeggeri che visiteranno l’Esposizione.

postillaCome raccontava ai primordi dell'automobilismo di massa il sociologo urbano Roderick McKenzie, della seminale Scuola di Chicago, l'idea di area metropolitana in quanto dimensione urbana contemporanea passa soprattutto attraverso la percezione popolare delle relazioni che intercorrono fra i suoi diversi luoghi. Ovvero, prima delle pur indispensabili architetture istituzionali di governo e rappresentanza, sta l'accoppiamento di spazi e identità, l'idea di appartenere a un luogo a cui appartengono anche altri soggetti e ambiti. Se uno dei passaggi chiave dalla dimensione metropolitana novecentesca è quello della mobilità sostenibile, del rapporto sempre più stretto, consapevole e governato, fra spazi e flussi, allora il tema dell'integrazione tariffaria nel trasporto collettivo (e magari più avanti, come indicano alcuni studi internazionali recenti, anche a coinvolgere le varie forme di condivisione) diventa centrale. Ed è un peccato che chi prende le decisioni non appaia altrettanto propenso a promuovere questo aspetto: magari l'occasione dell'Expo potrebbe essere anche una spinta in questo senso (f.b.)

Se il Valle non è diventato un centro commerciale o un teatro privato è merito di chi ha occupato: alla faccia di chi per tre anni ha linciato mediaticamente gli occupanti e i loro sostenitori. Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2014

In un Paese in cui non ci sono soldi, personale, volontà per restaurare quasi nulla di tutto ciò che di importante ci cade quotidianamente sulla testa è incredibile che la Soprintendenza ai beni architettonici di Roma avverta l’improcrastinabile necessità di restaurare il Teatro Valle. Lunedì 28 abbiamo consegnato a Marino Sinibaldi (incaricato, dal Comune, in quanto presidente del Teatro di Roma, di trattare con la Fondazione Valle Bene Comune) una lettera (firmata da Paolo Berdini, Massimo Bray, Paolo Maddalena, Ugo Mattei, Salvatore Settis e da chi scrive) chiedendo di «conoscere esattamente la natura di questi lavori: e cioè la loro entità, lo stadio della loro progettazione, l’identità dei responsabili, la disponibilità dei finanziamenti il calendario con cui si svolgeranno».

Su nessuno di questi punti è arrivata una risposta: ma in compenso è arrivata l’intimazione del Comune ad uscire dal Valle entro oggi. Con le mani in alto, verrebbe da aggiungere. Una resa senza condizioni. Insomma: la tutela del patrimonio culturale subisce l’ennesima onta, quella di venire strumentalizzata per far finire un’esperienza preziosa. E c’è da scommettere che il teatro verrà chiuso, poi si cercheranno i fondi, poi si farà un progetto. E solo tra tre o quattro anni si riparlerà di riaprire il Valle. Se va bene.

Intendiamoci: la disponibilità di Sinibaldi ha finalmente portato nella sorda gestione della vicenda attuata dal Comune di Roma una vera sensibilità culturale e politica. Il documento presentato da Sinibaldi dà atto alla comunità del Valle di una straordinaria vittoria politica: «Il Teatro di Roma opererà affinché sia raccolta e valorizzata l’esperienza culturale di questi anni. Ciò potrà compiersi attraverso un coinvolgimento della Fondazione nelle attività teatrali, nell’ottica della creazione di unmodello di Teatro Partecipato dalle associazioni e dagli artisti attivi nella città di Roma. La Fondazione Teatro Valle Bene Comune potrà inoltre collaborare con proprie proposte ai progetti elaborati dal Teatro di Roma (in particolare il progetto “Teatro dei diritti”), all’ideazione di iniziative volte all’allargamento del pubblico e alla formazione degli artisti e dei lavoratori teatrali». Se il Valle non è diventato un centro commerciale o un teatro privato, insomma, è merito di chi ha occupato: alla faccia di chi per tre anni ha linciato mediaticamente gli occupanti e i loro sostenitori. Soltanto ieri il «Foglio» – intervistando un Dario Franceschini prostrato a tappetino di fronte a Matteo Renzi – ha parlato per l’ennesima volta di «occupazione illegale travestita da operazione culturale». Ecco, il documento del Comune consegna questo tipo di giudizi a un estremismo di destra rabbioso, e senza uno straccio di idea.

E dunque? Perché non accettare che il pretesto dei fantasmatici lavori della Soprintendenza lasci depositare la polvere per qualche anno, per poi lavorare tutti insieme al teatro partecipato immaginato da Sinibaldi? Il perché lo ha spiegato martedì Christian Raimo in uno dei testi più belli e lucidi scritti in questi tre anni: «La lotta degli occupanti e della Fondazione Valle Bene Comune (5600 soci, mica pochi) è stata di due tipi: una battaglia di resistenza e una battaglia di proposta. Quella di resistenza è chiara a tutti – non fate che questo posto venga lasciato al degrado, alla insignificanza, alla privatizzazione, alla disperazione che nutre chiunque oggi abbia deciso di fare cultura in Italia. Ma l’imprudenza che veniva rivendicata è stata anche un’altra: si è voluto pensare, provandolo a praticare prima di tutto e poi stilando dispositivi giuridici ad hoc, un diverso modello di governo della cosa pubblica.

È possibile una gestione senza un cda? È possibile dare cariche turnarie a chi deve amministrare? E, domande ancora più scabrose: è possibile contrastare il governo insensato della Siae? È possibile livellare gli stipendi dei vari lavoratori? È possibile rendere popolari i prezzi dei biglietti? Su questi punti qui non c’è stato riconoscimento ieri. Questi sono i motivi principali per cui il teatro ha continuato a essere occupato in questi tre anni. Il Valle è stato un modello di educazione politica, studiato, promosso, premiato anche all’estero.

“…Questo è il senso di quello striscione che campeggia ora davanti al teatro, ora in platea, ora in galleria, dal giugno del 2011, ‘Com’è triste la prudenza’. La frase è del drammaturgo Rafael Spregelburd, e la sfida era simile: una battaglia di una nuova classe – quella degli artisti, dei lavoratori della cultura – nel trasformare un desiderio artistico in un modo diverso di vedere il mondo. La sensibilità di una narrazione del contemporaneo che si lancia a immaginare nuovi modelli gestionali… Si tratta di capire non cosa accadrà al Valle, ma cosa accadrà a noi”.

Ecco. Non avrei saputo dirlo meglio di così.

L’occupazione del Valle non è solo contro la privatizzazione, ma contro un’amministrazione pubblica che di fatto nega il bene comune e contraddice il progetto della Costituzione.

Com’è triste una sinistra che non ha più voglia di cambiare il mondo, a cosa serve una sinistra che nemmeno sa più che un altro mondo è possibile?

«Cancellate una serie di norme e vincoli sulle aree protette, a cominciare da quella della costiera sorrentina e amalfitana. Consentiti incrementi di volumetrie persino nelle zone rosse a rischio Vesuvio se finalizzate alla stabilità e al risparmio energetico degli edifici». Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2014

La norma galeotta è contenuta nel comma 72 di un documento di 47 pagine, un maxi emendamento sul quale il governatore azzurro della Campania Stefano Caldoro ha posto la fiducia. Uno zibaldone di revisioni legislative faticoso a leggersi, portato in aula in maniera anomala sei mesi dopo al bilancio al quale era “collegato”, eppure liquidato in tempi record, che la maggioranza del consiglio regionale campano ha approvato a scatola chiusa e senza fiatare per evitare di andare a casa con un anno di anticipo. In questo modo e “con evidenti e spregiudicate finalità di campagna elettorale”, accusa il Pd, si è deciso di riaprire i termini del condono edilizio del 1985 e del 1994 in Campania, annullando la scadenza del 31 dicembre 2006 per sostituirla al 31 dicembre 2015, cancellando una serie di norme e vincoli sulle aree protette – a cominciare da quella della costiera sorrentina e amalfitana – e consentendo incrementi di volumetrie persino nelle zone rosse a rischio Vesuvio se finalizzate alla stabilità e al risparmio energetico degli edifici.

La delibera è passata con il voto di Fi e di quasi tutto il centrodestra, mentre il Pd e resto del centrosinistra hanno abbandonato l’aula per protesta con la speranza – risultata vana – di far mancare il numero legale. Dentro lo stesso zuppone, diluito in 243 commi, è passata una mini riforma elettorale che sembra scritta apposta per ostacolare le ambizioni del sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, il candidato in pectore del Pd per sbarrare il prossimo anno la strada al Caldoro-bis. L’incompatibilità dei primi cittadini campani viene infatti tramutata in ineleggibilità. De Luca, e gli altri sindaci che volessero aspirare ad entrare in consiglio regionale, dovranno dimettersi irrevocabilmente dalla carica di primo cittadino prima dell’accettazione della candidatura alle elezioni regionali. La norma finora in vigore consentiva di optare dopo il voto, e così fece De Luca nel 2010. Sconfitto da Caldoro, dopo qualche mese di doppio incarico preferì rimanere sindaco di Salerno e dimettersi da consigliere regionale. Viene inoltre alzata la soglia di sbarramento delle coalizioni dal 5% al 10%. Anche qui si odora il profumo di norma “anti personam”. In questo caso quella di Beppe Grillo e del suo M5S.

E così si rispolvera la vecchia tentazione di Forza Italia in Campania, che in prossimità di ogni appuntamento elettorale promette più cemento per tutti. Soprattutto se abusivo. Finora l’attenzione si era concentrata sulla riapertura del condono 2003, rimasto precluso alle 76.836 opere abusive censite in Campania dopo il 1994 a causa di una legge regionale voluta dall’allora Governatore Ds Antonio Bassolino che ha dichiarato insanabili gli immobili edificati senza licenze e in aree vincolate. I numerosi tentativi della pattuglia di parlamentari campani guidata dall’avvocato Carlo Sarro si sono infranti sui voti contrari della Lega Nord. Così per quegli abusi resta vigente il divieto di condono. Ma nel “collegato” della Campania si offre una seconda chance a chi riuscirà a dimostrare di aver compiuto l’abuso prima del 1994.

Il segretario campano Cgil, Franco Tavella, boccia il provvedimento senza se e senza ma: “Dà il via libera all’ulteriore cementificazione di un territorio già devastato”. E qualche mal di pancia ha attraversato anche il centrodestra. Carlo Aveta, consigliere eletto nella lista La Destra e organico alla maggioranza, ha votato contro: “E’ un atto illegittimo, il ‘collegato’ dovrebbe attenere solo a norme di natura finanziaria”.

La Repubblica, 30 luglio 2014
Sterminate folle premono sui musei, sulle città d’arte. Miliardi di cinesi, indiani, giapponesi, russi che paiono dietro l’angolo disegnano nuove frontiere non della cultura ma della cupidigia di nuovi introiti. Il turismo mordi-e-fuggi genera l’arte usa-e-getta (il 75% dei turisti che vanno a Venezia si fermano meno di un giorno lasciandovi chili di detriti). La neomania dei selfie, sdoganati come performance individualista, inonda il web di fotoricordo che certificano non la curiosità culturale ma la presenza rituale del turista. Non archiviano il ricordo, sostituiscono lo sguardo: perciò la loro quantità è più importante della qualità. La visita a un museo somiglia più a una simulazione che all’esperienza di un tempo, l’incontro di una persona (il visitatore di oggi) con un’altra (Giotto, Caravaggio, Rembrandt). Perciò in un libro recente (2010) Steven Conn si domanda sin dal titolo se i musei hanno ancora bisogno di oggetti ( Do Museums still need Objects?). Secondo lui, via via che diminuisce la fiducia nel potere degli oggetti di trasmettere conoscenza diminuiscono di numero gli oggetti esposti nei musei, crescono gli apparati tecnologici e le appropriazioni fotografiche. Il nuovo rituale turistico sostituisce la tecnologia alla storia, la rappresentazione virtuale alla realtà.

Le immagini su un cellulare acquistano un grado di verità e un’intensità di esperienza che non si accontentano di essere equivalenti al contatto con «la cosa vera», vogliono essere superiori ad esso. Consentono manipolazioni (ingrandire un dettaglio), archiviazione di impressioni momentanee, scambi di opinioni via Facebook. L’oggetto d’arte diventa il mero innesco di un processo sensoriale che si svolge prevalentemente altrove. Davanti alla Gioconda, il 20% dell’esperienza (diciamo) è quella del quadro nell’affollatissima sala del Louvre; ma l’80% ha luogo nello smartphone, nell’i-Pad, in un labirinto di modalità interattive che consentono inedite forme di appropriazione. Secondo Conn, la storia (la “cosa vera”) sta diventando noiosa, la tecnologia la rivitalizza; la realtà virtuale è superiore alla realtà tangibile, l’illusione prende il posto del- la riflessione, la duplicazione spodesta l’unicità dell’originale. L’irriducibile diversità del passato si diluisce e si annienta in un gratuito bricolage. Viene in mente Baudrillard: «Il simulacro non è mai ciò che nasconde la verità; la verità èil simulacro, e nasconde che non c’è alcuna verità. Solo il simulacro è vero».

Le folle che si accalcano davanti alla Gioconda e ignorano i Leonardo della sala lì accanto e l’accanimento fotografico che sostituisce lo sguardo sono fratelli: due declinazioni della fretta, di una concezione del museo come esperienza di consumo, di una stessa rinuncia alla riflessione. Vi sono rimedi? Il Louvre ci sta provando a Lens, città mineraria in gran decadenza, dove un “secondo Louvre” è stato aperto con gran successo un anno fa, e ha già avuto più di un milione di visitatori, rianimando un’area di scarsa attrattività. Scegliendo oggetti della collezione e disponendoli in ordine cronologico (ma mescolando le opere d’arte dei vari dipartimenti), sia lo staff del museo che i visitatori sono invitati a riflettere sulla consistenza e sulla storia delle colle- zioni; collocando a Lens una bellissima mostra sui Disastri della guerra che ricorda l’anniversario 1914-2014, una parte cospicua di visitatori è attratta altrove, e moltiplica le potenzialità di quel grande museo. Se arrestare la valanga di selfie pare difficile, sarà possibile diffondere una cultura della lentezza che nell’osservazione dell’opera d’arte veda un’occasione di riflessione e di crescita civile? È immaginabile mettere in rete i tour operator e indirizzare i flussi turistici non solo su poche destinazioni iconiche, ma sulla trama minuta dei monumenti, delle città, dei musei?

A queste domande nessuno si aspetta più risposte dirimenti dall’Italia, che pure è il Paese con la più nobile tradizione museografica, con le più antiche norme di tutela, prescritta dalla Costituzione nell’art. 9, sempre celebrato e mai pienamente attuato. Volgari approssimazioni vedono nell’arte delle nostre città e dei nostri musei un’occasione di business e non un’esperienza di vita; circola nei palazzi del potere la stolta ipotesi che un manager vale per principio più di uno storico dell’arte; si ipotizza di chiudere musei e siti archeologici con pochi visitatori, si ironizza sul fatto che gli Uffizi abbiano meno visitatori del Louvre (che è 30 volte più grande). E intanto è in fase di cottura una riforma del ministero dei Beni culturali innescata non (come sarebbe giusto) dalla voglia di investire sulla cultura, di assumere nuovo personale, di mettere l’Italia in prima fila in un discorso, quello sul rapporto fra arte e cittadinanza, che sarà fra i più importanti del nostro secolo; ma da una pretestuosa spending review , e cioè da ulteriori tagli che vanno ad aggiungersi a quelli perpetrati dal 2008 in poi da governi d’ogni colore. Ma la colpevole insistenza sul turismo come ragione ultima delle cure dovute al nostro patrimonio culturale trascura il solo punto essenziale: quel patrimonio non è dei turisti, ma dei cittadini; è “nostro” a titolo di sovranità (questo dice la Costituzione), è consustanziale al diritto di cittadinanza, serbatoio di energie morali per costruire il futuro. L’Italia ha su questo fronte un diritto di primogenitura, ma pare decisa a rinunciarvi.

Per ora è forse utile chiedersi perché Renzi ha deciso di fermare le macchine, pur sapendo che avrebbe pagato un (per lui intollerabile) pegno mediatico. La risposta è che la riforma di Franceschini non è contro le soprintendenze(nonostante qualche grave errore): cioè non mira a limitarne il potere, ma a organizzarle in modo diverso». Il fatto quotidiano, 28 luglio 2014

Nel mio ultimo post ho provato a spiegare perché la riforma dei Beni culturali presentata da Dario Franceschini non sia (o non fosse, se è già morta) una riforma renziana. Alcuni osservatori hanno provato a dimostrare il contrario, ma è stato lo stesso Matteo Renzi a chiarire come stessero le cose, stoppando clamorosamente la riforma e umiliando pubblicamente Franceschini. Qualche spirito bizzarro ha sussurrato che sia stata proprio quella mia analisi a catalizzare i sospetti del califfo (lo ha riferito Gian Antonio Stella, nell’editoriale di sabato de il Corriere della Sera). In ogni caso, l’incidente è stato serio: proprio sul patrimonio culturale si è registrato il primo turbamento della vita di corte del governo, nonché il primo arresto non dico delle cosiddette ‘riforme’ (che si arrestano benissimo da sole), ma della magica catena di annunci in cui si è finora risolta l’azione di governo del sedicente Harry Potter di Rignano sull’Arno.

Come andrà a finire, ora? Renzi costringerà Franceschini a rimangiarsi la riforma? La congelerà in attesa di cucinarla in salsa diversa? La istraderà su un binario morto? Lo vedremo presto.

Per ora è forse utile chiedersi perché Renzi ha deciso di fermare le macchine, pur sapendo che avrebbe pagato un (per lui intollerabile) pegno mediatico. La risposta è che la riforma di Franceschini non è contro le soprintendenze(nonostante qualche grave errore): cioè non mira a limitarne il potere, ma a organizzarle in modo diverso. In altre parole: non sradica il presidio della tutela territoriale, non dà carta bianca ai sindaci, non libera le mani dei cementificatori. Ed è questo che non piace al premier: che, se potesse, farebbe carne di porco dell’articolo 9 come la sta facendo della seconda parte della Costituzione. E quando ha capito che la riforma Franceschini non era un tritacarne, Renzi ha staccato la spina. Si è scritto che glielo avrebbe fatto notare una potente soprintendente a lui ben nota: una signora ormai così remota da ogni idea di tutela del patrimonio diffuso e del paesaggio, e così determinata a mantenere il controllo delle sue slot-machine museali, da buttare disinvoltamente a mare la missione più preziosa dei suoi colleghi.

La confusione, dunque, è grande. E so che il mio giudizio non drasticamente negativo sulla riforma Franceschini ha creato sconcerto. Ma il dovere di chi fa ricerca e scrive sui giornali è quello di rimanere lontano da ogni ortodossia: senza paura di apparire eretici. Anzi, in fondo, sperandolo.

E se sono rimasti spiazzati i sicofanti renziani, che avevano previsto tuoni e fulmini da parte di quelli che chiamano le vestali del patrimonio o i talebani della tutela, è stato sconcerto anche dal mio lato del campo di battaglia: tra coloro che servono eroicamente lo Stato nelle trincee delle soprintendenze. Non parlo dei direttori generali romani (la cui espulsione di massa sarebbe il viatico di ogni seria riforma), né per delle direttrici regionali che, pur entrando ed uscendo da processi contabili e penali trovano il tempo di propalare che Montanari sdogana la riforma Franceschini perché il ministro gli avrebbe promesso la Direzione per l’educazione, la direzione degli Uffizi, il titolo di Pappataci o un Caravaggio da appendersi sul letto. Voci che non varrebbe nemmeno la pena di commentare, se non avessero addirittura lambito le pagine de il Corriere della Sera.

La miglior risposta è che io non ho mai cambiato linea: ho apprezzato nella riforma Franceschini il molto che è in continuità con ciò che io ed altri abbiamo provato a proporre nella commissione voluta da Massimo Bray. Già in A cosa serve Michelangelo? (Einaudi 2011), scrivevo: Gli storici dell’arte dipendenti dal Ministero dei Beni culturali sono oggi divisi in due tipologie, tra loro assai diverse. La grande maggioranza, una sorta di ‘chiesa bassa’, opera in modo fedele al dettato costituzionale, cercando (in generale con preparazione e abnegazione) di tener testa ai poteri locali in nome della conservazione e della dignità culturale delle opere e del territorio che sono loro affidati.

La ‘chiesa alta’ dei pochi super-soprintendenti è invece totalmente succube, e in ultima analisi complice, del potere politico – centrale, locale e di ogni colore –, e finisce per tradire sistematicamente la propria missione avallando e cavalcando le più inverosimili iniziative di ‘valorizzazione’ delle opere che essa avrebbe invece il dovere di salvaguardare. E se la soprintendenza di Firenze è l’epicentro del sistema, il suo storico e carismatico capo Antonio Paolucci ne è il potente nume tutelare». Ebbene, oggi chi è il più duro oppositore della riforma Franceschini? Ma Antonio Paolucci, naturalmente! Perché la riforma Franceschini smonta ilmonopolio (fallimentare e corrotto) dei Poli museali, e minaccia di mettere le basi per rivedere anche il sistema delle concessioni. E perfino Italia Nostra (a causa di un miserabile conflitto di interessi fiorentino) si è piegata a difendere il Polo Museale Fiorentino, in un grottesco comunicato che cita sologli incassi di quello che Renzi ha definito una macchina da soldi».

La riforma Franceschini è piena di difetti: oltre a quelli che ho elencato nell’ultimo post e all’irredimibile peccato originale di essere ‘a costo zero‘, il più grave è forse la mancanza di risposte all’orrenda piaga del precariato del patrimonio. Ma dobbiamo rammentare che il mondo che quella riforma provava a cambiare non è il migliore dei mondi possibili. Le direzioni regionali sono state un fallimento, i musei italiani non riescono a diventare centri di ricerca, l’educazione al patrimonio non è mai esistita, il territorio è non di rado abbandonato, la sinergia tra architetti e storici dell’arte è una chimera, il nesso tra musei e territorio (salvo qualche eccezione virtuosa) è purtroppo morto e sepolto.

D’altra parte, l’unione tra le soprintendenze architettoniche e quelle storico-artistiche è piena di rischi (come ho scritto), ma è un’alternativa migliore alla altrimenti necessaria soppressione di alcune sedi: e la chiusura a riccio dei miei colleghi storici dell’arte è un errore in sé (perché è motivata dal timore che a guidarle siano solo architetti: ma non possiamo rinunciare a fare una cosa giusta per paura che ci venga male, bisogna invece essere determinati a farla venir bene), ed è un errore che antepone l’interesse della corporazione all’interesse del patrimonio. Proprio come noi professori siamo i principali colpevoli dell’estremo degrado dell’università italiana, anche i funzionari delle soprintendenze hanno qualche responsabilità nella crisi della tutela: troppo silenzio, troppo conformismo e troppo conservatorismo hanno coperto i tradimenti della chiesa alta dei Beni culturali.

Chissà se ora (e ancor di più quando arriverà la vera riforma-fine-del-patrimonio) qualcuno capisce o capirà perché ho scritto che la riforma Franceschini, pur gremita di errori e gravida di rischi, non era pessima. Per esser chiari: se potessi decidere io, questa non sarebbe la mia riforma. Ma dati i tempi e la situazione, a me pareva francamente un miracolo che da quella macelleria che è il governo Renzi non fosse uscito un macello. E infatti…

Se per caso Franceschini dovesse comunque spuntarla non saranno certo rose e fiori. Ogni passaggio andrà seguito con estrema attenzione, dalla scrittura dei regolamenti, a quella dei bandi per le posizioni apicali dei musei, dal funzionamento dei segretariati regionali a quello del coordinamento regionale dei musei. Sarà, come sempre, una battaglia di trincea, da combattere con ogni mezzo. Anche distinguendo Franceschini da Renzi, se serve.

«In settimana il decreto. Risorse aggiuntive per 4,5 miliardi.Tra i lavori considerati prioritari l’alta velocità Napoli-Bari». La Repubblica, 28 luglio 2014

Roma. Conto alla rovescia per il decreto sbocca-Italia che dovrebbe vedere la luce, secondo le indicazioni giunte ripetutamente dal governo, questa settimana, probabilmente venerdì. In prima linea l’abbattimento delle barriere burocratiche alla realizzazione delle grandi opere, spesso incagliate, per ricorsi al Tar, ritardi nel via libera relativi all’impatto ambientale o inadempienze dei concessionari. In tutto, come annunciato dal premier Matteo Renzi, 43 miliardi «già conteggiati» ai quali si potrebbero aggiungere risorse fresche ogni anno per circa 4,5 miliardi per le grandi opere e altri 3,7 (ma in 6 anni) per la miriade di piccoli cantieri.

Deregulation per le licenze private
La sorpresa dell’ultima ora riguarda tuttavia l’edilizia privata dove si annuncerebbe una deregulation che ha già fatto storcere il naso alle associazioni ambientaliste. Secondo una bozza del testo, anticipata ieri dall’Adnkronos, si andrebbe incontro a una piccola rivoluzione sul rilascio delle concessioni edilizie: fino ad oggi si deve infatti presentare al Comune una regolare domanda di licenza per dar corso ai lavori di edificazione. Con la riforma ci si potrà rivolgere direttamente allo sportello unico, muniti di una autocertificazione con le caratteristiche essenziali del progetto, realizzata da uno studio professionale, che testimonia il rispetto del piano regolatore e delle altre norme urbanistiche. A quel punto lo sportello unico avrebbe trenta giorni di tempo per rispondere, nel caso contrario si potrebbe procedere ai lavori. La norma sulla deregulation delle licenze di costruzione sarebbe stata inserita a sorpresa - il governo parla di bozze ancora in discussione - in base ad uno stralcio dell’articolo 20 della riforma urbanistica presentata nei giorni scorsi dal ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi.
Le grandi opere
Tornando al pacchetto che riguarda invece i lavori pubblici, la lista delle grandi opere sulla quali il governo è chiamato a scegliere i progetti da sbloccare, comprende circa 300 cantieri. In prima linea c’è l’alta velocità Napoli-Bari (che dovrebbe munirsi di un commissario ad hoc) e la tratta ferroviaria Brescia-Padova. Sul tavolo ci sono anche le infrastrutture indicate nel 2013 nel decreto «del fare» del governo Letta: il potenziamento della ferrovia Novara-Malpensa, la rimozione dei passaggi a livello sull’Adriatica nel tratto Foggia-Lecce e la terza corsia autostradale in Friuli.
La riforma dei porti
Nell’ambito del provvedimento è previsto anche un intervento di razionalizzazione delle autorità portuali: attualmente sono 23 e scenderebbero a quota 15. Inoltre le autorità che includono due o più scali saranno tenute aavere una unica sede nel porto più importante mentre negli scali minori rimarrà solo un direttore generale che gestirà le risorse finanziarie, coordinerà le risorse umane e curerà l'attuazione delle direttive del presidente.
Il nodo del Brennero
Secondo, la bozza diffusa ieri, nella lunga lista ci sarebbero anche i valichi ferroviari del Frejus, del Sempione e del Brennero. Una possibilità per alleviare i costi, sponsorizzata soprattutto dal ministro per le Infrastrutture Lupi, riguarderebbe il finanziamento di opere come il traforo ferroviario del Brennero sulle quali c’è una pressione europea: per questi grandi lavori si starebbe valutando di chiedere a Bruxelles - anche i margini in questa direzione sono assai limitati - una flessibilità del rapporto deficit-Pil scomputando la spesa per investimenti. Un capitolo a parte è quello dei termovalorizzatori, cui Renzi nei giorni scorsi ha fatto esplicito riferimento: un terreno minato per i vari movimenti «anti» presenti sul territorio: il Forum Nimby ha calcolato nei giorni scorsi che ben 22 di queste opere sono soggette all’azione di contestazione di comitati civici di varia natura.
I lavori segnalati dai sindaci
Nel pacchetto potrebbero figurare anche alcune opere segnalate dalle amministrazioni locali, che sono state sollecitate da Renzi nel giugno scorso ad indicare via mail i cantieri bloccati sul proprio territorio. Molte le richieste che si sono affastellate sui tavoli e nei tablet di Palazzo Chigi. Tra queste starebbero prendendo quota la Metro C a Roma, il Teatro Margherita a Bari e la metanizzazione di alcuni quartieri di Catania. A questa lista degli enti locali si aggiungerebbe il monitoraggio dello stato dell’arte delle opere pubbliche effettuato dalle Regioni (all’appello manca solo la Calabria): si tratta di un altro elenco di oltre 600 cantieri, la maggior parte già avviati e che attendono la spinta decisiva.
I ritardatari perdono la concessione
Come agire sulla burocrazia? Per ora si parla di un intervento sui ricorsi al Tar e di velocizzazione della valutazione di impatto ambientale, ma le misure sono da definire. Quello che sembra certo è che si interverrà con una norma che costringerà strutturalmente a velocizzare i lavori per i quali si è ottenuta una concessione: infatti nel caso in cui chi ha ottenuto una concessione per un’opera pubblica, nel giro di tre anni non sia riuscito a realizzare un progetto talmente avanzato da ottenere i relativi finanziamenti bancari, si provvederà alla revoca della concessione. Che sarà oggetto a questo punto di una nuova gara e assegnata ad un’altra azienda. Nel pacchetto anche semplificazioni, incentivi e sgravi fiscali per rilanciare gli investimenti privati. Allo studio ci sono strumenti finanziari innovativi volti a produrre un effetto leva su capitali privati attraverso le risorse pubbliche, come i project bond e il parternariato pubblico-privato.
Il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2014 (m.p.g.)
Sulla Via Appia Antica. E da nessun'altra parte: solo camminando su questa lunga, struggente ferita – che ancora potrebbe unire, scorrendo in un verde ininterrotto, il Colosseo ai Castelli Romani – si può davvero capire cos'è il patrimonio culturale italiano. Qui tutti i frammenti della magnificenza antica – quelli che nei musei archeologici annoiano inconfessabilmente anche gli addetti ai lavori – prendono senso e vita: si animano in un contesto, in un tessuto che si fonde col verde e col cielo.E non è un caso: nel 1824 fu il grande architetto Giuseppe Valadier a voler ricomporre ai lati della strada tutto ciò che giaceva a terra. Invece che «confonderli tra i moltissimi esistenti nei musei e nei loro magazzini». Valadier, e poi Luigi Canina, avevano negli occhi le incisioni visionarie con cui Piranesi aveva reinventato l'Appia, e collegando il sogno alla realtà riuscirono a lasciarci un corpo vivo.

Un corpo che dobbiamo ad ogni costo tramandare a chi verrà dopo di noi. Non è un'impresa impossibile, basterebbe volerlo: proprio sull'Appia vedi perché lo Stato riesce a mettere a segno alcuni strepitosi successi, e anche perché quello stesso Stato sembra far di tutto per vanificarli. Sull'Appia incontri l'Italia: al suo peggio e al suo meglio.La regina viarum – la più importante e famosa strada dell'antichità – fu aperta nel 312 a. C. dal console Appio Claudio: allora collegava Roma a Capua, arrivando fino a Brindisi (porta verso la Grecia) nel 191 a. C. Una strada modernissima: a due corsie, pavimentata in modo da consentire ai carri la massima velocità. Una strada presto straordinariamente bella: a causa dell'enorme quantità di tombe monumentali, sculture, epigrafi cresciute ai suoi lati. Una strada in cui puoi letteralmente mettere i piedi sulle orme della storia: qua nel 37 a. C. viaggiarono insieme Orazio, Virgilio e Mecenate, da qua Carlo V volle entrare trionfalmente a Roma nel 1536, e come lui il generale Clark, liberatore americano di Roma nel 1944.

Oggi, sulle stesse pietre, incontri radi ciclisti stranieri, gli occhi spiritati e felici di chi guarda all'Appia come ad un incredibile incrocio tra Pompei, Spoon River e il Cammino di Santiago. Varcata la turrita Porta San Sebastiano, li vedi che fissano con curiosità una camionetta dell'esercito, ferma davanti al cosiddetto Arco di Druso. Sulle fiancate grigioverdi c'è scritto «Strade sicure»: ma non vegliano sulla sicurezza dell'Appia, non fermano i Suv che sfrecciano a clacson spiegato. No, fanno la guardia alla villa di qualcuno: forse a quella, vicinissima, dell'ex ministra della Giustizia Paola Severino. Una villa famosa per esser stata dimenticata nella dichiarazione dei redditi, e per essere stata blindata a spese pubbliche durante il mandato ministeriale. Ma, soprattutto, una villa che conserva uno degli importantissimi colombari (cioè antichi loculi cimiteriali) di Vigna Codini: un monumento di proprietà dello Stato a cui di fatto non riescono ad accedere non dico i cittadini (come pure vorrebbe la legge), ma nemmeno i funzionari della soprintendenza archeologica: per «ragioni di sicurezza». Certo non la sicurezza del patrimonio, quella prescritta dall'articolo 9 della Costituzione.

Le ville private: ecco il flagello dell'Appia Antica. Poco più avanti una parte delle Mura Aureliane è a terra: un mucchio di detriti transennati ricorda quanto sia letale il peso dei terrapieni su cui poggiano lussureggianti giardini privati e improbabili piscine hollywoodiane. È proprio contro gli abusivisti, «i gangsters dell'Appia», che ha lottato per tutta la vita Antonio Cederna: «L'Appia antica – scriveva nel 1954 – è diventata il luogo geometrico di tutta la cattiva architettura romana, la palestra per gli speculatori principianti, il banco di prova di tutte le più ordinarie e impunite illegalità. I ruderi sono scaduti a miserabili comparse, hanno perduto la loro grandezza, la loro meravigliosa cornice di deserto e di silenzio, immeschiniti, corrosi, spellati. Le stupende rovine della via Appia antica vengono chiusi tra sipari male intonacati, tra muriccioli e fino spinato, come animali esotici e pidocchiosi: statue e rilievi spezzati e trafugati, le iscrizioni usate come materiali da costruzione: la via Appia antica è diventata il canale di scolo dei nuovi quartieri, tagliata, sminuzzata, sventrata».

Immagini attualissime: ancora oggi la meraviglia dell'Appia è avvelenata da feste matrimoniali con gli ombrelloni piantati in cima a mausolei monumentali, da pacchianissime location per eventi difese dal filo spinato, da monumenti ridotti a spartitraffico per residenti che vogliono un accesso a doppia corsia. E non sono solo le ville: i frati di San Sebastiano aprono un punto di ristoro nel complesso monumentale (con sedie di plastica da stazione di periferia) senza nemmeno avvertire la Soprintendenza, e di fronte al Punto Informativo del Parco dell'Appia (un'istituzione regionale nata male, e dall'efficacia purtroppo quasi nulla) una schiera di cassonetti e un'autorimessa abusiva permettono di misurare il tasso di degrado e inconsapevolezza.

Un'inconsapevolezza che arriva fino al Campidoglio. Cadono le braccia quando si arriva alla Villa di Massenzio – di proprietà comunale – con le rovine del palazzo imperiale, del circo e del mausoleo del figlio Romolo che coronano una serie di dolcissime collinette verdi: un posto di sogno, ma sfigurato dalla mancanza di manutenzione, di cura, di amore. Un complesso che chiude anche d'estate alle quattro del pomeriggio, lasciando fuori tutti i romani che avrebbero il diritto di terminare in quella potenziale meraviglia le loro giornate di lavoro. Come stupirsi, se lo stesso Comune sposta l'itinerario dell'autobus 660, togliendo ai lavoratori e ai turisti l'unico mezzo pubblico per arrivare sull'Appia?

Ma poco dopo, quando ti avvicini al terzo miglio, ecco qualche timido segno di civiltà: la strada comincia ad essere discretamente scandita da bidoni dell'immondizia di ghisa, tinti di verde per mimetizzarsi nella vegetazione. Su tutti, lo stemma della Repubblica e una targhetta: «Soprintendenza archeologica speciale di Roma». Eccolo lo Stato, finalmente: nella concreta umiltà della pulizia.
E lo Stato, sull'Appia, ha il volto di Rita Paris. Se la battaglia per l'Appia è stata, nonostante tutto, vinta; se gli italiani della mia generazione possono ancora sapere cos'è la regina viarum, lo dobbiamo al destino per cui – nel 1996, proprio l'anno in cui Cederna si spense – la direzione dell'Appia toccò a questa archeologa, straordinariamente lucida e forte. Un'archeologa che – per uno stipendio che non raggiunge i 1800 euro al mese – porta ogni giorno sulle spalle il peso dell'Appia, oltre alla direzione del Museo Nazionale Romano.

È lei che ci accompagna dentro una tomba degna di un imperatore: il piccolo pantheon di Cecilia Metella, cinto di marmi e ornato di un fregio con tanti teschi di bue (da cui il nome con cui generazioni di romani hanno chiamato quel posto: Capo di Bove). In pieno Medioevo questa tomba risorse a nuova vita: le spuntarono i merli, e diventò il torrione del castello di Bonifacio VIII Caetani, il papa che Dante scaraventa all'inferno. Bonifacio vi volle anche una chiesa, e la fece costruire come quelle che aveva visto a Parigi: un incunabolo di gotico francese alle porte di Roma. Poi, un bel giorno del 1588 un altro cardinal Caetani, svenatosi per comprare la carica di Camerlengo, autorizzò due figuri a vendere a pezzi questo monumento straordinario. Se ce l'abbiamo ancora, è perché un pugno di magistrati capitolini, parlando a nome del popolo romano, ebbe il coraggio di ricordare al cardinale che «ancora eravamo obligati a farla manutenere et conservare», e che quella tomba si sarebbe potuta distruggere solo con un ordine espresso del papa: che non arrivò.

Oggi a resistere «nomine populi Romani» è proprio Rita Paris, che veglia su Capo di Bove contrastando con successo i nuovi Caetani. Nel 2002 ha fatto acquistare allo Stato una villa privata, e l'ha trasformata in un paradiso della conoscenza. Gli scavi condotti nel giardino hanno dimostrato che la villa sorge nel cuore della celebre tenuta del filosofo Erode Attico, precettore di Marco Aurelio: una scoperta eccezionale, con rinvenimenti di statue e iscrizioni che hanno destato interesse in tutto il mondo. Alla faccia di un noto archeologo accademico dei Lincei, che aveva sostenuto il contrario in un parere che si opponeva al vincolo chiesto dalla Paris: un parere commissionato e pagato dai proprietari di una villa vicina, assai proclivi all'abusivismo. Con un simbolo potentissimo, la villa è oggi la sede dell'archivio di Antonio Cederna, donato dalla famiglia e consultabile anche online, e ospita una mostra permanente sulla storia della tutela dell'Appia, allestita con eleganza da museo svedese. Indimenticabile la grande mappa (realizzata dallo studio di Vezio De Lucia) che censisce e situa l'enorme quantità di edifici abusivi sorti sull'Appia: un milione e trecentomila metri cubi solo dopo il 1965, quando il piano regolatore di Roma decise, inutilmente, la 'tutela integrale' della strada.

Ma il capolavoro di Rita Paris e del suo eroico staff è l'apertura al pubblico, nel 2000, della maestosa, enorme Villa dei Quintili: un complesso poi continuamente migliorato, ora dotato di un piccolo, preziosissimo museo. Un luogo che è tornato ad essere un'oasi di verde, storia, pace e piacere, come ai tempi dell'impero romano: ma oggi a disposizione dei nuovi sovrani, i cittadini. Sempre nel 2000, usando i fondi del Giubileo, ecco un altro successo incredibile: la Soprintendenza ottiene di far interrare il tratto del Grande Raccordo Anulare che tagliava in due l'Appia, la quale così riconquista il suo tracciato. E non basta: nel 2006 lo Stato ha acquistato anche la tenuta di Santa Maria Nova, da pochi giorni inaugurata con una grande festa popolare: un luogo indimenticabile, dove sono emerse le terme in cui venivano a ricrearsi i pretoriani di Commodo, ornate di mosaici gremiti da gladiatori in combattimento. Insomma, Rita Paris ha immaginato e attuato una specie di dura e tenace bonifica, che lentamente restituisce al bene comune terra e storia strappate alla speculazione privata e all'illegalità.

All'incrocio con Via di Fioranello, un bel cartello ricorda a chi la imbocca da qua, che «la Via Appia Antica rappresenta in tutta la sua estensione un monumento storico, patrimonio di tutti. Hai l'obbligo di rispettarla e conservarla integra per le generazioni future». Di là dalla strada, finisce il tratto recuperato dalla Soprintendenza e inizia quello che corre verso Marino, che ancora aspetta di vedere riesumato il selciato e restaurati i monumenti. Per ora mancano i soldi, e così rimane un malinconico teatro di droga e prostituzione anche a mezzogiorno, in mezzo ai rifiuti abbandonati a terra. Bisognerebbe trovarli, quei soldi: ci vorrebbe un ministro per i Beni culturali degno di questo nome. O un mecenate illuminato: come il giapponese Yuzo Yagi, che proprio Rita Paris ha convinto a donare due milioni per il restauro della Piramide di Cestio.

Ma se i ministri e i mecenati veri sono rari, non manca chi vorrebbe mettere un cappello sulla bonifica ventennale attuata dalla Soprintendenza: una storia di successo che comincia a far gola. Autostrade per l'Italia ha appena presentato un progetto (dall'originale titolo «Operazione Grand Tour») che, in cambio di un'erogazione liberale non ancora precisata, vorrebbe imporre all'Appia «un nuovo modello di gestione» diverso da quello pubblico, istituendo una «cabina di regia» che esautorerebbe lo staff che ha fatto del recupero dell'Appia una best practice internazionale. Un'operazione che, invece di finanziare i progetti pubblici che funzionano, mira ad azzerarli e a sostituirli con altri ben più commerciali, privi di una qualunque visione culturale. Insomma, si scrive 'mecenatismo', si legge 'privatizzazione'.

Il ministro Dario Franceschini ha immediatamente sposato l'Operazione Grand Tour: forse per dimostrare di essere sufficientemente renziano, forse perché non è mai andato sull'Appia, forse perché nessuno gli ha raccontato che i suoi funzionari stanno facendo molto, ma molto meglio. E al mio amico Gian Antonio Stella, che sul «Corriere» ha difeso il progetto dalle critiche dei comitati e delle associazioni, vorrei dire che quando Cederna fu eletto deputato della Repubblica, la Società Autostrade gli fece recapitare una bicicletta, una delle prime mountain bike. Cederna la regalò immediatamente a Don Guanella, rispedendone la ricevuta di consegna ad Autostrade perché non voleva avere niente a che fare con quella società, che aveva combattuto molto spesso, difendendo il paesaggio italiano. Ecco, penso che il Mibact dovrebbe comportarsi come Cederna: già, perché qualche volta «pecunia olet».

Banca d'Italia scrive che «le autostrade costituiscono un monopolio naturale, e non subiscono una reale concorrenza da parte delle altre modalità di trasporto. Il settore non è stato adeguatamente liberalizzato, prima della privatizzazione, creando così un gestore privato dominante». Il che significa non solo che consentiamo ai concessionari di non investire nella manutenzione e nell'ammodernamento delle autostrade esistenti, ma anche che abbiamo affidato agli stessi concessionari le scelte infrastrutturali strategiche del Paese: una vera cessione di sovranità. Siamo proprio sicuri che sia opportuno permettere ad Autostrade di sommare a questo monopolio anche il governo dell'Appia? Ed è giusto che chi mangia (per esempio) il prezioso territorio del Parco Agricolo di Milano Sud con la costruzione della Tangenziale Esterna, voluta da Maurizio Lupi e legata all'Expo, possa poi presentarsi ai cittadini come il generoso paladino del verde dell'Appia?

Il motto fatto scrivere da Rita Paris sulle pareti della villa diventata simbolo del riscatto dice che l'Appia è un «Laboratorio di mondi possibili, tra ferite ancora aperte». Il progetto delle Autostrade allargherebbe quelle ferite, le renderebbe più profonde. Quasi distrutta dalla prepotenza privata, l'Appia ha invece bisogno di scelte trasparenti ispirate esclusivamente al pubblico interesse. E proprio sull'Appia, negli ultimi vent'anni lo Stato ha dimostrato con i fatti di saper tutelare il bene comune. Il fondatore della strada, Appio Claudio Cieco, è famoso per aver detto «fabrum esse suae quemque fortunae», che ciascuno è responsabile del proprio destino. Lo Stato siamo noi: l'Appia dimostra che, nonostante tutto, possiamo farcela. Che un altro mondo è possibile.

«Le maggiori istituzioni internazionali individuano la crescita come panacea universale di tutti i problemi economici. Ma il riconoscimento dei difetti dell’accumulazione capitalistica è il frutto di un’analisi critica dello scambio metabolico tra società e natura». Sbilinciamoci.info, 25 luglio 2014

La logica dell'accumulazione capitalistica contrasta con l'etica kantiana di un sistema di regole fondato sui limiti imposti all'uomo dal pianeta Terra. «Anche oggi», notava intorno alla metà degli anni '60 Kenneth Boulding, «siamo molto lontani dall'aver effettuato quei cambiamenti morali, politici e psicologici che dovrebbero essere impliciti nella transizione dalla prospettiva del piano illimitato a quella della sfera chiusa». Eppure, c'è chi fa finta di niente e nega che il pianeta Terra abbia alcun limite (...). Dieci anni prima del collasso del sistema finanziario globale, l'economista statunitense Richard A. Easterlin glorificava nel suo libro la Crescita trionfante. Anche oggi, cinque anni dopo l'inizio della crisi finanziaria globale, le principali pubblicazioni di tutte le maggiori istituzioni internazionali come la Banca Mondiale (Bm), Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), l'Unione Europea (Ue) o l'Ocse individuano la crescita come panacea universale di tutti i problemi economici. In paesi come la Germania o il Brasile l'accelerazione della crescita economica è prevista per legge. Non sono previsti né limiti né alcuna gradualità nella crescita.

Nei consessi di economisti non sembra esserci alcuna tendenza a domandarsi se i gravi problemi economici, sociali e ambientali che vengono discussi quotidianamente sui giornali possano essere il risultato di decenni di crescita capitalistica. E lo stoicismo di tali studiosi non è stato scalfito nemmeno da eventi disastrosi quali quelli di Fukushima e della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, o dalle «condizioni climatiche eccezionali» degli ultimi anni. Quasi tutto il pensiero economico critico è stato soffocato dall' economia mainstream – quasi tutto, poiché alcune isole di pensiero critico sono riuscite a costruire strutture teoriche avanzate, idee alternative solide e visioni lungimiranti che le torbide inondazioni del mainstream non si sono dimostrate in grado di spazzare via.

Le strutture teoriche rilevanti in questo scenario comprendono la termodinamica economica di Nicholas Georgescu-Roegen, una teoria che riconosce il ruolo dello scambio metabolico tra società e natura. Le attività umane e lo sviluppo sociale sono contestualizzati nel tempo e nello spazio e non vivono in un ambiente artificiale privo di qualunque dimensione spazio-temporale, popolato da degli omuncoli quali gli homini oeconomici protagonisti delle teorie mainstream .

I «limiti alla crescita» discendono in termini logici dall'estensione limitata del pianeta e dalle caratteristiche peculiari del processo di accumulazione capitalistica mondiale.

Nel 1870, un secolo prima che il Club di Roma lanciasse il suo grido di allarme, Friedrich Engels discusse i limiti della natura nel suo La dialettica della natura: «Non dovremmo glorificare noi stessi contando ad ogni piè sospinto le conquiste del genere umano sulla natura. Per ciascuna di queste conquiste la natura si prende la sua rivincita [...] Cosicché, ad ogni passo, siamo obbligati a ricordare di non essere in grado di dominarla in alcun modo [...] ricordando al contrario di esserne parte integrante con la nostra carne, il nostro sangue ed il nostro cervello e di esistere nel mezzo di essa [...] e tutta la nostra supremazia su di lei deriva dal vantaggio umano sulle altre creature dato dal saper apprendere le sue leggi e dal poterle potenzialmente applicare in modo corretto».

In altre parole, il riconoscimento dei limiti della crescita e dell'accumulazione capitalistica è anche il frutto di un'analisi critica dello scambio metabolico tra società e natura. In un'economia capitalistica questo scambio è espansivo, non solo per il «soddisfacimento dei bisogni-godimento della vita», indentificato da Nicholas Georgescu-Roegen come uno dei motori principali dell'attività economica, ma anche per il ruolo svolto dalla ricerca del profitto e dall'accumulazione compulsiva come Karl Marx notava nel primo libro del Capitale: «Accumulare, accumulare! Questa l'esortazione di Mosè e dei profeti!» (...). Nell'accumulazione capitalistica, uno stato di crescita stazionaria dell'economia è pressoché impossibile. (...) Lo stato stazionario potrebbe realizzarsi solo in termini approssimativi e in un orizzonte temporale limitato; presto o tardi collasserà».

A questi argomenti Georgescu-Roegen aggiunge la fondamentale conclusione che, chiunque «creda di poter disegnare un progetto mirato alla salvezza ecologica dell'umanità non ha compreso né la natura dell'evoluzione né quella della storia».

Herman E. Daly, uno dei principali difensori dell'economia dello stato stazionario, rappresenta i sistemi economici come dei cicli di produzione e di consumo, di estrazione di risorse dall'ecosistema e di emissioni che vi riaffluiscono. Ma, facendo ciò, egli ignora l'importante intuizione di Georgescu-Roegen sulla base della quale una dinamica analoga a quella disegnata da Daly può forse essere vera dal punto di vista quantitativo ma non può di certo esserlo da quello qualitativo, dal momento che l'entropia tenderà a crescere in modo irreversibile in questi cicli.

Assumendo come valide le leggi della termodinamica, uno stato stazionario è dunque impossibile. Nondimeno, dati i noti limiti delle risorse naturali e l'odierna realizzabilità di numerose tecniche di riduzione delle emissioni, una diminuzione del consumo della Terra in chiave ecologica è oggi un imperativo assoluto.

I movimenti sociali stanno reclamando esattamente questo, basando le loro rivendicazione sul «programma bioeconomico minimo» che si fonda sulle otto massime di Nicholas Georgescu-Roegen, suggerite nel 1975 come una sorta di imperativo ecologico.

Il suo primo punto riguarda il disarmo degli eserciti; nel secondo, egli promuove un sostegno universale rivolto verso l'indipendenza nello sviluppo dei popoli e degli individui capace di garantire a tutti il godimento delle condizioni materiali proprie di una vita dignitosa; nel terzo, viene sostenuta la necessità di una riduzione nelle dimensioni demografiche del pianeta tale da rendere possibile il sostentamento di tutti gli esseri umani attraverso i prodotti dell'agricoltura organica; il quarto, il quinto ed il sesto punto sono connessi al tema della riduzione degli sprechi vertendo rispettivamente sulla necessità di misure volte al risparmio energetico, al blocco della produzione dei beni di lusso ed alla rimozione degli incentivi allo spreco e al sovraconsumo incoraggiati dalla moda. Giunto al settimo punto, Georgescu-Roegen afferma la necessità di una progettazione dei beni che preveda la loro riparabilità e ne riduca al massimo la potenziale obsolescenza.

Infine, contrastando la globale tendenza verso l'adozione di modelli capaci di garantire una costante accelerazione dei processi produttivi, egli propugna l'opposta necessità dell' «imparare a rallentare».

Anche Hermann Scheer ha definito un «imperativo energetico» identificandolo come uno strumento utile allo sviluppo di azioni e obiettivi politici in grado di tener conto e di affrontare i limiti, ormai tangibili, all'utilizzazione delle risorse naturali e le pressioni sulla Terra.

L'ipotesi dell'«astronave Terra» potrebbe essere presa in considerazione, nella logica proposta da Scheer, solo nel caso in cui non prevedesse l'utilizzo di carburanti fossili ma fosse in grado di convertire in energia i raggi solari. In altre parole, il sistema energetico della Terra dovrebbe abbandonare l'attuale schema di alimentazione basato sul consumo delle risorse fossili esauribili, convertendosi altresì ad un sistema aperto dove i raggi solari costituiscano la fonte unica di sostentamento energetico.

Altrimenti, i «passeggeri» potrebbero finire come Phileas Fogg nel Giro del mondo in ottanta giorni di Julius Verne, dove, come notato da Peter Sloterdijk, «...giunto all'ultima tappa della circumnavigazione, la tappa atlantica [...], esaurite le scorte di carbone [...] egli comincia a bruciare la parte superiore della struttura lignea della sua stessa navicella nel tentativo di continuare ad alimentare le camere di combustione del motore. Con questa immagine della navicella di Phileas Fogg in preda all'autocombustione, Julius Verne ha fornito niente di meno che una metafora, su scala mondiale, dell'età industriale».

Qui bisogna aggiungere solo che la rotta e la velocità della barca sono determinate dalla compulsione per l'accumulazione capitalistica; solo con questo vincolo il capitano e il suo equipaggio sono pronti a navigare attorno al mondo e, inoltre, a farlo ad una velocità adeguata a raggiungere lo scopo in un tempo fortemente compresso come gli ottanta giorni di Julius Verne.

Aprire il sistema energetico del pianeta alla potenza del sole è ciò che realmente conta. Tuttavia, per assicurare che tale trasformazione non prenda le sembianze delle teorie economiche dello stato stazionario criticate da Georgescu-Roegen o delle iniziative per la decrescita, la ristrutturazione del sistema energetico planetario dovrà essere connessa con le trasformazioni sociali già in atto in alcune parti del mondo e alla base dell'«economia della solidarietà»: produzione cooperativa, protezione dei beni pubblici, democrazia economica nelle imprese, pianificazione economica dov'è utile e necessaria e reinserimento del mercato nella società

(traduzione di Dario Guarascio).

«Un appello internazionale a Renzi lanciato dai Comitati privati. Borletti Buitoni: "Per Venezia il massimo della tutela"». Ciò che preoccupa è che si faccia riferimento alla tutela del patrimonio monumentale della città. E la Laguna? La Nuova Venezia, 22 luglio 2014 (m.p.r.)

«Il mondo si mobilita per salvare Venezia dalle grandi navi». Sono già 63 le firme eccellenti raccolte dai Comitati privati per la Salvaguardia e inviati sotto forma di appello al premier Matteo Renzi e al ministro delìi Beni culturali Dario Franceschini: «Il governo decida al più presto e tolga le grandi navi dalla laguna». Tra le firme nomi illustri del mondo della cultura, del cinema, della moda, della letteratura e dell’architettura. Tra questi Norman Foster, Cate Blanchet, Calvin Klein, il premio Nobel Vidia Naipaul, James Ivory, Susan Sarandon e Jane Fonda.

«Per più di 13 secoli Venezia è sopravvissuta alle inondazioni, alle pestilenze e ai conflitti bellici», scrivono i comitati al governo, «e ora in periodo di pace la regina dell’Adriatico, dichiarata Patrimonio mondiale dall’Unesco rischia di essere travolta dagli enormi transatlantici che la attraversano quotidianamente, indifferenti al rischio che il loro passaggio implica». Chiediamo che venga affrontato con urgenza il problema del passaggio delle grandi navi davanti a San Marco».
Un appello già raccolto dalla sottosegretaria ai Beni Culturali Ilaria Borletti Buitoni, già presidente del Fai, il Fondo per l’Ambiente italiano. «Sono grata ai comitati per questa iniziativa», dice, «è gente che per Venezia si è impegnata concretamente dopo l’alluvione del 1966. Io credo che come governo dobbiamo prenderci la responsabilità di prendere una decisione al più presto. Per quanto ci riguarda ci dovrà essere la massima tutela del patrimonio monumentale della città». Quanto al Comitatone, annunciato per i primi giorni di agosto, Borletti si augura che sia convocato al più presto: «Una decisione va presa con urgenza».
E il canale Contorta, proposto dall’Autorità portuale? «Non sono un esperto di idraulica», dice il sottosegretario, «ma la laguna ha un equilibrio molto fragile. Qualsiasi soluzione alternativa dovrà essere condivisa e valutata dal ministero per l’Ambiente. «Abbiamo voluto lanciare questo appello», dice il presidente dei Comitati privati Umberto Marcello Del Majno, «perché siamo molto preoccupati: nel vuoto politico locale, con la città senza sindaco, non vogliamo che si dimentichi l’emergenza grandi navi o si facciano scelte sbagliate».
«Sappiamo che c’è una mobilitazione locale su questo tema», continua Del Majno, «ma Venezia interessa il mondo. E il mondo si è mobilitato». Non è il primo appello del genere che riguarda lo «stop» alle grandi navi in Bacino San Marco. Ma anche dopo il naufragio della Costa Concordia, su Venezia il governo aveva deciso a metà. Il decreto firmato dai ministri Clini e Passera era stato sospeso per la laguna «in attesa di alternative». Ma adesso, due anni e mezzo dopo la tragedia del Giglio, le alternative sono ancora sul tavolo, C’è lo scavo del nuovo canale Contorta, chiesto dal Porto, il nuovo canale dietro la Giudecca (Vtp e il sottosegretario Zanetti), ma anche l’ipotesi Marghera per le navi grandissime, avanzata dal Comune, con la possibilità di arrivare in Marittima scavando il canale Vittorio Emanuele. E infine le soluzioni del porto «fuori dalla laguna», le ipotesi Boato, Claut e De Piccoli che chiedono di spostare il terminal al Lido trasportando i crocieristi con batteli medio grandi. Ma la decisione ancora non c’è.

“Bisogna “commercializzare” l’Italia e in primo luogo quindi la Sardegna”. La frase lapidaria, detta ad una tv sarda, appartiene al sottosegretario ai Beni Culturali, Francesca Barracciu. Dichiarazione di primaria importanza perché chiarisce bene le intenzioni del governo Renzi in materia di cultura e di beni archeologici, storico-artistici e paesaggistici. “Gli Uffizi”, sentenziò tempo fa l’allora sindaco Renzi, “sono potenzialmente una gran macchina da soldi”. “I Musei sono miniere d’oro non sfruttate”, gli ha fatto eco il ministro Franceschini presentando a larghe linee il nuovo assetto del suo derelitto Ministero oggetto della settima-ottava “riforma” in pochi anni.

Che, stavolta, avendo accorpato di recente il Turismo, vede ormai anteporre al Patrimonio e alla sua tutela la Valorizzazione di tipo turistico-promozionale. Per cui la sigla potrebbe ben cambiare da MiBACT in MiTURBEN o MiSTURBEN visto lo “sturbo” che provocherà nelle Soprintendenze e negli uffici tecnico-scientifici della tutela. Guai però a criticare, perché, come per la riforma del Senato o per l’Italicum, si passa, tout court, per “gufi” e per “nemici delle riforme”, additati come tali da Serracchiani e Bonafè. Vecchi bacucchi insomma, mentre i Soprintendenti in carica sono, al più, studiosi squisiti incapaci di organizzare qualcosa di utile per incrementare gli ingressi o burocrati ottusi, se non babbei. Non so se per provincialismo, difetto di informazione, scarsa frequentazione di musei stranieri, costoro ignorano che il Louvre coi suoi 9 milioni di ingressi è passivo per il 50% del suo bilancio (ci pensa lo Stato) e che altrettanto accade al Metropolitan Museum, che i grandi musei inglesi e molti musei di fondazioni - come la Smithsonian di Washington - sono gratuiti e semmai con ciò danno un servizio culturale gratis e incrementano notevolmente i flussi turistici (secondo gli inglesi, del 50%). Ma ovunque la distinzione fra il Patrimonio/Materia Prima e il Turismo/Indotto è chiarissima. Da noi non più.

Il progetto Franceschini, per quello che se ne è appreso, da lui e dagli uffici, parte dall’idea centrale di rendere autonomi dalle Soprintendenze i 20 maggiori musei italiani affidandoli a manager anche stranieri. Con quale fine? Di ricavarci dei bei profitti, si suppone. La cosa è gravissima e del tutto nuova nella storia della tutela in Italia. Tagliare il rapporto fra i Musei (statali, per ora) e le loro peculiari origini, col loro territorio è antistorico e astratto. Per i Musei archeologici poi è una solenne fesseria alimentandosi questi ultimi delle continue campagne di scavo (tant’è che esistono ormai numerosi musei “di scavo”): lo splendido Museo di Policoro, osco-lucano, magno greco, ellenistico, ecc. l’hanno dovuto raddoppiare anni fa per la massa di nuovi formidabili ritrovamenti nella Siritide.

Se prevale - e in quest’ottica prevale di certo (Barracciu dixit) - la logica oggettivamente, necessariamente economica del turismo su quella culturale, non necessariamente economica, della ricerca e della conservazione artistica, si aprono le porte ad una sorta di enorme Ipermercato Italia, all’aperto e al chiuso, per masse incontrollabili di turisti di ogni Paese. E’ il risultato di aver mescolato - anziché tenerli ben distinti - Cultura e Turismo, facendo prevalere il secondo. Paradossalmente, il guaio vero è che, mentre i nostri musei, le nostre aree archeologiche (non tutto è Pompei in Italia e anche Pompei non è poi tutta quanta il disastro che si dipinge), risultano concorrenziali, non lo è affatto l’apparato turistico dell’ospitalità, della mobilità, ecc. Secondo la Coldiretti il turismo italiano è più caro del 10% rispetto agli altri Paesi più visitati. Altri rilevano che i prezzi in Italia cambiano a seconda che un semplice cappuccino venga servito agli italiani o agli stranieri. Questo scredita e respinge molto. Altro che musei.

Certo i nostri, ospitati in ville, dimore o palazzi storici, sono più piccoli e non gonfiabili: gli Uffizi attuali, se non erro, dispongono, per ora, di una superficie espositiva sui 12.000 mq contro i 180.000 mq del Louvre, ma con 1,8 milioni di visitatori ne stipano 150 per mq, mentre a Parigi con 9 milioni circa di visitatori (e con seri problemi di controllo e scioperi contro bullismi, violenze, ecc.) ne registrano soltanto 50 per mq. Per cui in tutti i nostri musei, gallerie, ecc, persino al Colosseo, non si possono non contingentare gli ingressi. Cosa che infastidisce molto i nostri “riformatori”. Ma 1 milione di visitatori all’anno sono 1 milione di persone che alitano, respirano e traspirano (e naturalmente 2 milioni di ascelle, 2 milioni di piedi), che creano umidità, con seri danni a tavole e tele se la climatizzazione non è perfetta. In ogni caso se la folla si accalca nelle sale. Come sta avvenendo.

Un’ultima osservazione sul paesaggio italiano che è sempre più aggredito e stravolto dal binomio cemento-asfalto con consumi di suolo pazzeschi, a Napoli il 62 % è impermeabilizzato, a Milano il 60, in Lombardia, montagne incluse, oltre il 10%. Che è il doppio della Germania. Se una parte dei paesaggi si è salvata dall’assalto di padroni, padroncini, abusivi, Comuni senza testa, ecc. lo si deve anzitutto alle pur depauperate e intimidite Soprintendenze che oggi risultano quotidianamente sotto accusa e che dispongono in tutto di 480 architetti per sorvegliare e tutelare un territorio vincolato pari al 47% del Belpaese, 141.358 Kmq, per cui c’è un solo architetto ogni 290-300 Kmq. Oppure, se preferite, 1 architetto ogni 42 centri storici… Una sola regione, la Toscana per fortuna, fino a qualche anno fa intaccata o minacciata da lottizzazioni pericolose (nonché dalle cave delle Apuane), ha adottato il piano paesaggistico concordato col Ministero. E il resto? Si vedrà. Le regioni più devastate, guarda caso, quelle dell’abusivismo foraggiato dalle varie mafie, e magari quelle dove - vedi Sicilia - la tutela è da sempre “regionalizzata”. Un disastro. Niente piani, niente tutele.

Purtroppo la prima apprezzabile versione governativa del “nuovo” Titolo V della Costituzione - quella che riportava al centro taluni poteri generali in materia di ambiente, di parchi, di paesaggio - è stata già snaturata dalla bozza Calderoli-Finocchiaro come ha notato (fra i pochi) Fulco Pratesi sul “Corriere della Sera”. Anche qui si retrocede dunque - per avere i voti della Lega per Senato e Italicum? - verso il brutto pasticcio istituzionale 2001. L’anno in cui, fra l’altro, si cancellò l’art. 12 della legge n. 10 sui suoli del ’77 che imponeva ai Comuni di riservare gli oneri di urbanizzazione alle sole spese di investimento e non alla spesa corrente. E i Comuni, alla canna del gas, schiacciarono il pedale dell’edilizia, per lo più “di mercato”, cioè speculativa. Con centinaia di migliaia oggi di case vuote, sfitte, ecc. E poca, o punta, direbbero Renzi o Boschi, edilizia pubblica e sociale.

«Appalti, cemento, progettazioni di opere nate con questi presupposti daranno benefici scarsi, una sicura ferita all’ambiente e tanto consumo di suolo ma però faranno tanto consenso. Adesso questa politica, se non la corregge Renzi, dovranno pagarla gli italiani». Ilfattoquotidiano.it, 22 luglio 2014

Nel sistema nazionale dove la regolazione pubblica delle vecchia rete autostradale vede il Ministero delle infrastrutture nel ruolo più di spettatore che di programmatore e concedente di concessioni autostradali, anche la nuova rete in costruzione ne subisce un’influenza negativa. Contribuisce la frammentazione di 23 società che gestiscono in concessione i 7 mila km di rete autostradale, sia pubbliche che private, a rendere disorganico il quadro per la viabilità e gli utenti. Le concessionarie hanno una forte influenza politica (appalti, progettazioni, assunzioni), pagano canoni risibili allo Stato e si sono garantite, con i diversi governi che si sono succeduti, tutti disattenti, un automatismo tariffario con pedaggi salasso che generano extra-profitti.

Ciò grazie alla promessa di un maxi piano (sulla carta) di potenziamento della rete autostradale esistente che assicura rendite di posizione monopoliste con rinnovi delle concessioni automatici che evitano le gare suggerite dall’Europa. E’ in questo contesto che vanno valutati i sette grandi project-financingautostradali affidati negli anni passati e messi in “legge obiettivo”. Essi prevedevano investimenti complessivi per 15,3 mld e per i progetti più complessi lo Stato aveva stanziato un allettante pacchetto di risorse: oltre due miliardi di euro.

Ora, dopo tanti avvertimenti di esperti ed ambientalisti, questi progetti sono in grave difficoltà finanziaria. Si tratta della Pedemontana Veneta e Lombarda, della Tem milanese, dell’Asti Cuneo, della Tirrenica Nord della Cispadana e della Brebemi. Tutti questi progetti scontano non solo la grave crisi economica che si è abbattuta sul Paese ma anche l’inasprimento delle condizioni finanziarie poste dalle banche che non si sono più rese disponibili per prestiti a lungo termine se non con quote di equity, e quindi di rischio, degli azionisti che non hanno mai sottoscritto. Nel corso della progettazione e della realizzazione delle opere le banche sono diventate azioniste di controllo come nel caso di Tem e di Brebemi e i closing finanziari sono avvenuti durante il corso delle opere grazie ai prestiti di istituti pubblici come la Bei e Cassa Depositi prestiti.

Ma in questi anni i nodi della “grandeur autostradale privata” sono venuti al pettine facendo saltare i piani economico-finanziari. Ecco perché ora queste 7 concessionarie hanno richiesto complessivamente 2,9 miliardi di aiuti pubblici; o attraverso la defiscalizzazione o attraverso stanziamenti a fondo perduto e con l’allungamento della durata della concessione. Le previsioni di traffico erano state sovrastimate e i costi di realizzazione sottostimati per giustificare le tratte da realizzare. Le difficoltà a raccimolare le risorse per avviare i cantieri e la modifica dei progetti chiesta dagli enti locali e dalle valutazioni ambientali hanno allungato i tempi di anni.

Ciò ha incrementato il peso degli interessi sul costo dell’opera. Per esempio per Brebemi, i costi sono triplicati passando da 800 milioni a 2,4 mld di cui ben 800milioni di soli interessi ed oneri finanziari. All’atto dell’apertura della direttissima Brescia Milano, parallela alla A4 Milano Brescia, si è scoperto che le tariffe saranno doppie rispetto a quelle già salate di autostrade per l’Italia. Tra abbassare le tariffe per aumentare i volumi di traffico o tenerle alte Brebemi ha scelto la seconda opzione. E cosi anche l’utilità sociale, oltre a quella trasportistica, vengono meno. Con un traffico previsto di 20mila veicoli giornalieri, contro gli 80mila stimati, il Project -financing non poteva che essere “aggiustato” spostando sulla spesa pubblica i maggiori costi e le minori entrate.

Puntuale è arrivata la richiesta al Cipe di Brebemi di defiscalizzazione per 497 milioni di euro e di allungamento della durata della concessione di 10 anni, cioè da 20 a 30 anni. Così verrebbe modificato il Project financing e stravolta le condizioni della gara fatta nel 2007, la stazione appaltante perderebbe ulteriormente di credibilità e ciò spiega il motivo per cui in questi 7 Project -financing che ora chiedono 2,9 miliardi non c’è un euro di una banca straniera. Appalti, cemento, progettazioni di opere nate con questi presupposti daranno benefici scarsi, una sicura ferita all’ambiente e tanto consumo di suolo ma però faranno tanto consenso. Adesso questa politica, se non la corregge Renzi, dovranno pagarla gli italiani. E’ cosi che i Project financing fatti per non gravare sullo Stato finiscono per essere modificati dagli stessi promotori delle opere e subiti (con entusiasmo) dai committenti pubblici Ministero delle Infrastrutture, Anas e Regioni.

Dario Balotta è esperto di trasporti e ambiente

Una tappa intermedia del disegno dicosiddetto sviluppo del territorio lombardo, che procedesciaguratamente e senza che se ne delinei uno davvero alternativocredibile. Corriere della Sera Milano, 22 luglio 2014, con postilla(f.b.)

MILANO — Costi lievitati, casse prosciugate e richieste di sgravi fiscali all’Erario. E ancora: cantieri in ritardo, proteste sugli espropri dei terreni, polemiche sul caro pedaggi, aree di servizio chiuse e le tre corsie che finiscono in un «imbuto» in mezzo ai campi. Eccole le incognite che fanno risuonare un Sos per le nuove autostrade lombarde. Un grido d’allarme per tre grandi opere regionali – Pedemontana, Brebemi e Tem – che echeggia proprio alla vigilia della doppia apertura per la «direttissima» Brescia-Milano e per il primo tratto (7 km) della Tangenziale est esterna. Una duplice inaugurazione, quella di domani, con il premier Matteo Renzi che taglierà il nastro.

Dopo 18 anni d’attesa e 5 di lavori, finalmente è arrivato il giorno del semaforo verde per i 62 km della Brebemi. Ribattezzata A35, la nuova autostrada, con i suoi 35 mila veicoli al giorno stimati (all’inizio erano 70 mila), alleggerirà la morsa del traffico sulla A4. Ma le luci che si accenderanno per il gran debutto non scacceranno le ombre che si allungano sulla grande opera. Soprattutto a cominciare dal raddoppio dell’investimento (tutto finanziato da privati), che dagli 866 milioni di euro previsti è salito a 1,6 miliardi, pari a un costo di 25,8 milioni di euro al km. Ecco perché i principali azionisti, Gavio e Intesa San Paolo, hanno chiesto al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) una defiscalizzazione di 497 milioni di euro e un contributo pubblico di 80 milioni di euro.

Schema incompleto ma indicativo (cliccare per zoom)

Guai finanziari che non risparmiano nemmeno la Pedemontana, controllata dalla Serravalle. Al punto che anche la società autostradale ha presentato analoga richiesta al Cipe. Obiettivo? Un super bonus fiscale da 450 milioni. Uno sgravio cruciale considerato che la disponibilità economica si aggira attorno a 1,7 miliardi di euro a fronte di un investimento complessivo di 5 miliardi, per costruire un’autostrada che collegherà Varese con Bergamo lungo un tracciato di 87 km, più 70 di viabilità connessa. Ma, senza soldi in cassa, soltanto il primo lotto della Pedemontana (30 km) sarà ultimato per l’Expo.

Entro maggio 2015, invece, saranno terminati i 32 km della Tem (la futura A58), di cui da domani — dopo due anni di lavori e una spesa di 180 milioni di euro (25,7 milioni al chilometro) — saranno percorribili i 7 km a tre corsie da Pozzuolo Martesana a Liscate. Sulla Tangenziale est esterna, però, continua a pesare il nodo espropri, che tra l’altro rischia di far lievitare i costi. Infatti il pagamento dei cosiddetti «danni zootecnici», causati alle aziende agricole nel mirino degli espropri, potrebbe far innalzare i 246 milioni di euro finora previsti per coprire i costi per l’acquisizione delle aree.

Ieri, intanto, si è concluso con un altro nulla di fatto e l’ennesimo rinvio al 28 luglio, l’incontro fra Tem, Regione e Coldiretti per raggiungere un’intesa sulla questione. E se la società Tem fa sapere che con 728 dei 1.500 proprietari di terreni e immobili lungo il tracciato è già stato siglato un accordo bonario, Ettore Prandini, presidente della Coldiretti Lombardia, osserva che 150 imprenditori della terra stanno aspettando da due anni una risposta e che la grande opera divorerà dieci milioni di metri quadrati di superfici agricole.

Non a caso Legambiente parla di «una ferita per il territorio», riferendosi proprio a Brebemi e Tem. Così come si alzano le proteste degli enti locali per le auto che, provenienti da Brescia e Bergamo, finiranno la loro corsa negli imbuti della «Cassanese» e della «Rivoltana», strade che sono ancora in fase di riqualificazione. E proprio sull’ondata di traffico che invaderà queste due arterie, Franco De Angelis, assessore della Provincia di Milano, ha sollevato timori e preoccupazioni sia sui collaudi, sia sui costi di gestione. Due problemi che saranno affrontati oggi in un incontro con i vertici della società Tem.

Capitolo pedaggi. Gli automobilisti masticano rabbia perché sulla Brebemi si pagheranno 15 centesimi al km, più del doppio, rispetto ai 7 centesimi della A4. Mentre sulla Tem si prevede un pedaggio fra 12 e 15 centesimi al km. Ma sulla Brebemi non mancheranno nemmeno i disagi, perché sino a fine anno le due aree di servizio rimarranno chiuse, dopo che l’appalto per la loro gestione è andato deserto.

postillaA rischio di annoiare, anzi nella quasi certezza di annoiare, ci si sente comunque in dovere di rammentare quanto la questione autostradale – nonostante tutte le divagazioni trasportistiche economiche e giudiziarie a cui ci ha assuefatto la stampa di informazione – sia squisitamente territoriale, ovvero riguardi il modello di assetto metropolitano e regionale. Ed è un vero peccato che questo modello, chiarissimo leggibile e pure facilmente comunicabile ai cittadini, non sia mai e poi mai al centro delle contestazioni politiche e ambientaliste, e men che meno di schemi alternativi. Evidentemente o non c'è alcuna coscienza del fatto che esista, eccome, un “grande disegno” sostanzialmente regressivo e per nulla attento alle questioni ambientali e territoriali (oggi si direbbe della sostenibilità), oppure si preferisce da parte di chi qualcosa sa, tenerselo ben stretto e non farne oggetto di dibattito pubblico. Sembra un'altra epoca, quella in cui si scontravano anche sulle pagine della stampa non specializzata gli schemi “a turbina” dichiaratamente ambientalista e di sinistra, e quello cosiddetto di “sviluppo lineare” democristiano e confindustriale. Quella serie di anelli autostradali, e il sistema insediativo che sottendono e promuovono, altro non sono che i nipotini del modello confindustriale-democristiano anni '50-'60. E chi non ne parla, potrebbe: a) riguardarsi un po' la faccenda, i documenti non mancano; b) dichiarare la propria fede destrorsa, o malafede per interesse che dir si voglia (f.b.)

« Il premio Nobel Stiglitz ha dei dubbi: «Molte regole esistono proprio per proteggere i lavoratori, i consumatori, l’ambiente. E furono decise in risposta a una domanda democratica. Nei patti segreti per la de-regolamentazione rischia di riaffiorare una gara al ribasso». La Repubblica, 21 luglio 2014 (m.p.r.)

New York. Nuovi patti di libero scambio vengono negoziati in gran segreto. «Siamo costretti a inseguire fughe di notizie». A lanciare per primo l’allarme è stato Joseph Stiglitz, premio Nobel dell’economia, uno dei pensatori più ascoltati dalla sinistra americana. Tra i pericoli che Stiglitz denuncia, quello che ci riguarda ha una sigla altrettanto misteriosa dei suoi contenuti. Ttip, non è un acronimo entrato nel linguaggio corrente. Sta per Transatlantic Trade and Investment Partnership. Se va in porto, sarà il più ambizioso accordo di libero scambio della storia. Una fase due della globalizzazione, dopo quella che nel dicembre 2001 spalancò alla Cina le porte dell’Organizzazione mondiale del commercio, quindi dei nostri mercati.

In Europa, del Ttip si parla a sprazzi, solo quando viene agitata una minaccia di “veto” per motivi che poco hanno a che vedere coi contenuti di quel patto. Angela Merkel ha evocato rappresaglie contro il Ttip, per protesta verso lo spionaggio della National Security Agency e della Cia in Germania. Francois Hollande ha fatto lo stesso per tentare di ridurre la maxi-multa americana contro la più grande banca francese, Bnp Paribas. Ma che cosa ci sia dentro la “scatola nera” del Ttip, pochi lo sanno, perfino ai vertici dei governi. Se Stiglitz parla di «segretezza eccessiva», c’è di che far scattare sospetti e diffidenze anche in Europa. Perché dentro le cabine di regia dei tecnocrati, i negoziati avanzano comunque, e le loro conseguenze si faranno sentire sulle economie nazionali, l’occupazione, il livello di tutela dei consumatori.
La nuova intesa Usa-Ue su commerci e investimenti riguarda il più vasto mercato del mondo: 45% del Pil mondiale è racchiuso nelle due grandi economie dell’Occidente, l’americana e l’europea. Tra i fautori più accesi del Ttip figurano Barack Obama e il premier inglese David Cameron, in omaggio all’ideologia liberoscambista che accomuna i Paesi anglosassoni. La U. S. Chamber of Commerce che è una specie di Confindustria, fa la stima seguente: se va in porto, farà salire di 120 miliardi di dollari il volume degli scambi tra le due sponde dell’Atlantico. Quindi potrebbe dare una spinta alla crescita globale, e soprattutto a quella dell’Eurozona che ne ha un gran bisogno. I calcoli del Centre for Economic Policy Research di Londra, fatti propri dalla Commissione di Bruxelles, dicono che da un simile accordo l’Unione dei 27 ci guadagnerebbe 120 miliardi di euro di reddito in più all’anno, l’America 95 miliardi. L’export europeo salirebbe del 28%, nel lungo periodo.
Due milioni di posti di lavoro in più, è la stima ventilata da Cameron. 545 euro all’anno per la famiglia media in Europa, è il vantaggio stimato da Londra: molto più di quel che il governo Renzi ha potuto fin qui aggiungere alle buste paga. Ma uno studio dell’economista Dennis Novy, disponibile sul sito La-Voce.info, ci ricorda che le medie sono sempre ingannevoli. Il vero nodo, spiega Novy, è capire chi sarebbero i vincitori e i perdenti.
Il Ttip interverrà non tanto sui dazi (già ridotti dalle liberalizzazioni precedenti) quanto sulle barriere non tariffarie. Cioè normative che ostacolano la libera circolazione delle merci. Un settore che ne ricaverebbe soprattutto vantaggi è l’automobile, dove troppi standard di sicurezza dissimili tra le due sponde dell’Atlantico frenano l’export. Tra quelli che rischiano di perderci, sempre nell’analisi di Novy, c’è l’agricoltura mediterranea almeno in quei settori che hanno goduto di sostegni. Una partita molto delicata riguarda la sicurezza alimentare. Cioè la salute dei consumatori. Non solo ogm: in molti comparti dell’alimentazione ormai il consumatore europeo è protetto da regole più severe rispetto all’americano. Anche se in certi casi la salute diventa un alibi: tanti prodotti genuini della filiera made in Italy hanno sofferto “inique sanzioni” all’ingresso in America, per normative sanitarie che coprivano precisi interessi dei produttori locali.
Il Ttip può aprire il ricco mercato nordamericano a tanti prodotti italiani ancora in lista d’attesa. Ma chi garantisce che l’esito sarà davvero quello? Il problema del Ttip è che coincide con una fase di ripensamento critico sulla globalizzazione, di riflussi nazionalisti, e in particolare una diffusa “sfiducia nella delega” verso i tecnocrati europei. Il nuovo Europarlamento sarà un interlocutore coriaceo. In America la questione s’intreccia con le nuove normative sui mercati finanziari, soprattutto la legge Dodd-Frank che ha stabilito limiti e controlli più severi sulla finanza speculativa. Dentro il Ttip è previsto un arbitrato per dirimere conflitti fra gli Stati e i grossi investitori. Come dimostra l’affaire Bnp Paribas e la furia francese contro la maxi-multa, è un altro terreno minato.
Obama vorrebbe che questa globalizzazione 2.0 nascesse all’insegna di garanzie sociali, clausole sui diritti dei lavoratori, e regole a tutela dell’ambiente. Per lui il Ttip deve servire da modello ad un analogo patto trans-Pacifico dal Giappone all’Australia, con cui mettere alle strette la Cina e ogni forma di concorrenza sleale. Stiglitz ha dei dubbi: «Molte regole esistono proprio per proteggere i lavoratori, i consumatori, l’ambiente. E furono decise in risposta a una domanda democratica. Nei patti segreti per la de-regolamentazione rischia di riaffiorare una gara al ribasso». Obama vorrebbe firmare l’accordo prima della fine del suo mandato. Altrimenti a vararlo potrebbe essere Hillary Clinton: ironia della sorte, la moglie del presidente che avviò la prima globalizzazione, attraverso il Nafta (mercato unico dal Canada al Messico) e l’avvio dei negoziati con la Cina.

Riferimenti
Eddyburg si è più volte occupato di questa orrenda nuova creatura del finanzcapitalismo, nei confronti della quale il silenzio degli ambienti filogovernatori è assordante. Per comprendere meglio le caute critiche di Stiglitz vedi ad esempio l'articolo di Dario Guarascio, ripreso dal sito Sbilanciamoci.info

La cronaca della visita a Venezia del Commissario anticorruzione Raffaele Cantone in due articoli di Monica Zicchiero e Alberto Zorzi, e di Giuseppe Pietrobelli, Corriere del Veneto e Il Gazzettino, 18 luglio 2014

Corriere del Veneto IL CAPO DELL'ANTICORRUZIONE
INCONTRA MAGISTRATI e CONSORZIO:
«UN COMMISSARIO? VALUTEREMO»
di Monica Zicchiero e Alberto Zorzi,

VENEZIA – «Il commissariamento delle imprese corruttrici negli appalti pubblici è una norma storica. Il senso è: non solo ti mettiamo in carcere, ma non ti permettiamo di prenderti i soldi del reato che hai commesso. Ci proveremo ad applicarla anche a Venezia per il Mose». Strappa l’applauso della folla il presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone, invitato a parlare di legalità e appalti con il senatore Felice Casson dall’associazione Umberto Conte in un teatro Aurora strapieno nonostante il caldo.

Dopo l’incontro con il Consorzio Venezia Nuova – «ho preso delle carte per approfondimenti » – e con la Procura di Venezia, a Marghera il magistrato si toglie giacca e cravatta e comincia a parlar chiaro. «Il commissariamento applicato alla Maltauro nel caso di Venezia ha un problema: qui non ci sono imprese aggiudicatarie perché non c’è mai stato un appalto». Tutto nasce dalla famosa legge speciale del 1984. «Una legge che ha attribuito denaro pubblico a privati che lo hanno gestito senza controllo», sottolinea. «Così la più grande opera pubblica in Italia viene sporcata perché la legge è stata fatta male e con deroghe di ogni tipo che hanno permesso una gestione privatistica di soldi pubblici - alza il sopracciglio Cantone - Adesso mi chiedo chi farà la manutenzione.

Sarà l’affare successivo e bisogna avere occhi aperti. Solo chi ha costruito l’opera, sa come funziona. Il famoso disegno dell’appalto che dura tutta la vita e anche oltre». Anche se proprio nel corso della visita al Consorzio il presidente Mauro Fabris gli aveva chiarito la sua posizione. «Noi vogliamo concludere i lavori e accelerare il più possibile la fase di avviamento - spiega - ma poi la modalità di gestione la sceglierà il governo. Noi come Consorzio non ci candideremo ». La questione della conclusione dei cantieri è l’altro punto caldo. «Mi pare poco praticabile l’idea di accantonare un’opera completata all’ 85 per cento», dice Cantone, ma dal pubblico si alzano contestazioni: «Hanno speso l’85 per cento dei soldi, non fatto l’85 per cento delle opere ». Lui alza le mani: «La politica si deve assumere la responsabilità di dire cosa va fatto». E al massimo può dire alla politica cosa non va fatto. Perché, come dice il senatore Casson, «il fatto che ci siano le stesse persone in campo e in galera nella prima e nella seconda Tangentopoli milanese e veneta è un modo di intendere gli affari».

Primo, non sottovalutare i corruttori. «In Italia corruttori ed evasori fiscali sono simpatici, è gente che se la sa cavare e nessuno si scandalizza se tornano in Parlamento. Invece devono essere considerati come i mafiosi ». Tra prescrizioni dimezzate per i reati di corruzione e falso in bilancio depenalizzato, Cantone critica il codice degli appalti, «che si applica sono agli sfigati è che per l’Expo è stato derogato 86 volte». Parole dure anche per la legge obiettivo, che ha fatto fare il salto di qualità al Mose, ma anche al sistema corruttivo. «I general contractor sono gli stessi dieci grandi costruttori che decidono il bello e il cattivo tempo delle opere pubbliche», avverte il magi- strato, secondo il quale servono sanzioni semplici ed esemplari: «I corruttori vanno allontanati dai posti di comandi e per i politici non deve esistere la presunzione di innocenza: deve esserci la certezza della specchiatezza». Resta solo la consolazione che nell’«affaire» Mose non ci sono infiltrazioni mafiose e che l’indagine è stata «da manuale », perché che ha dimostrato come la corruzione abbia permeato anche il sistema dei controlli. «Peggio Milano o Venezia? Peggio Venezia, secondo me», dice Cantone. Il magistrato alle tre era arrivato all’Arsenale per incontrare il presidente Fabris e il direttore Hermes Redi. «Ci eravamo già visti un paio di settimane fa, sono stati due incontri costruttivi e molto concreti - è stato il commento di Fabris - Lui vuole capire, noi con la massima trasparenza gli stiamo dando le informazioni che chiede».

Il presidente del Consorzio preferisce non entrare nel merito degli argomenti trattati, ma la posizione è piuttosto chiara: il sistema della concessione unica è stato creato con delle norme statali, e non c’è stata nessuna «privatizzazione», visto che il soggetto pubblico nel Mose c’è ed è il Magistrato alle Acque. Alle quattro e un quarto, sbarcando da un motoscafo della Guardia di Finanza, Cantone è invece arrivato in Procura a Venezia, dove ha incontrato il procuratore capo Luigi Delpino, il nuovo procuratore aggiunto Adelchi D’Ippolito (che ieri era in visita di cortesia, ma che si insedierà a settembre) e i tre pm che coordinano l’inchiesta sul Consorzio e sulla Mantovani: Stefano Ancilotto, Paola Tonini e Stefano Buccini. Il presidente dell’Anticorruzione ha spiegato che aveva la «necessità di parlare con i colleghi», ma ha spiegato di «non poter rivelare i contenuti del colloquio». In mezz’ora si è parlato dell’inchiesta (su cui peraltro era molto aggiornato) e appunto dell’applicabilità della norma sulle mazzette negli appalti al caso del Consorzio, oltre agli sviluppi futuri, anche dal punto di vista della tempistica.

Il GazzettinoMOSE, C'E' L'IPOTESI COMMISSARIO
di Giuseppe Pietrobelli,
Dilemma amletico in laguna dopo trent'anni di incontrastata solitudine decisionale del Consorzio Venezia Nuova che ha fatto e disfatto tutto ciò che ha voluto su salvaguardia e Mose, l'opera idraulica più grande e costosa mai pensata in Italia. Saranno commissariati imprese e lavori in corso di ultimazione alle bocche di porto, in base alla stretta voluta dal governo dopo lo scandalo dell'Expo 2015, pallido preludio del malaffare che sta venendo a galla a Nord Est?
Per dipanare la matassa di un problema giuridico, prima che politico, il commissario anticorruzione Raffaele Cantone ha compiuto ieri una visita in tre tappe a Venezia. La prima nella sede del Consorzio, per esaminare presupposti e conseguenze della possibile replica del modello-Maltauro, già operativa a Milano e Vicenza. La seconda in Procura della Repubblica, per verificare l'esistenza delle condizioni di applicabilità, ovvero il patto illecito che avrebbe condizionato l'esito degli appalti. La terza nel teatro Aurora di Mestre, per discutere con Felice Casson, senatore del Pd, della necessità di una crociata contro la tangentocrazia, da equiparare alla Mafia per effetti nefasti su società ed economia italiana.
In quella parte di Arsenale che il Consorzio ha trasformato negli anni in un'oasi verde di pace, dentro una cornice architettonica straordinaria, Cantone ha incontrato il presidente Mauro Fabris, il direttore Hermes Re-di e l'avvocato Alfredo Biagini. Ha guardato i computer che controllano la Laguna, i monitoraggi delle maree, i modellini del Mose. Poi, senza rompere -per il momento- il bel giocattolino (il governo ha assicurato che verrà portato a termine) ha ammesso: «La legge prevede la possibilità in presenza di fatti corruttivi dell'applicazione di alcuni strumenti, come il commissariamento delle imprese aggiudicatarie».
Ma per arrivare a tale conclusione deve fare i conti con «una legge speciale che risale al 1984, una scelta legislativa di altri tempi. È una situazione complicata, con un unico concessionario. Mi pare comunque strana l'idea che vengano chiamati i privati a gestire soldi pubblici e a realizzare le opere». Puntura di spillo rivelatrice di un orientamento, anche se il Commissario aggiunge: «Sono abituato a capire, prima di decidere». Per farlo deve risolvere il paradosso di poter commissariare le «imprese aggiudicatarie» che si identificano con la «stazione appaltante», il Consorzio da esse composto.
I1 presidente Mauro Fabris, quando Cantone se ne è andato, cogliendo il rischio di veder strappare il potere alla nuova gestione, assicura: «Il Commissario sta valutando l'applicabilita del decreto anticorruzione. Ma per farlo deve tenere conto se vi siano stati o meno elementi di discontinuità con la vecchia governane del Consorzio». A seguire, snocciola una litania di elementi di rottura: la nuova presidenza, il nuovo direttore, un nuovo organismo di vigilanza, la revoca delle deleghe ai vecchi dirigenti, il taglio delle spese estranee alla finalità originaria del Consorzio, la concentrazione sull'asset principale, che è il completamento del Mose entro il 2016.
«Si può aggiungere che in questa triste e schifosa vicenda i reati non sono stati commessi per ottenere gli appalti». Infatti, erano già stati assegnati, eppure il denaro scorreva a fiumi. Uscendo dal palazzo di giustizia, un'ora e mezzo dopo, Cantone ha ammesso di aver aggiunto un altro tassello alla sua indagine.
«Avevo la necessità di parlare con i procuratori, che mi hanno spiegato la situazione». Forse perché cercava le prove, agli atti, della corruzione? «Certamente quello è il presupposto per l'applicazione del decreto». E quindi per il commissariamento. Ma se n'è andato senza portare via documenti dell'inchiesta. A Marghera, davanti a una platea pidiessina foltissima, interessata al tema della legalità, Cantore si è poi lasciato andare ad altre ammissioni. «Nell'Expo di Milano i lavori non li farà più la società che ha pagato le tangenti, ma le sue maestranze, con una diversa amministrazione». Ecco la strada che potrebbe ripercorrere a Venezia. Anche perché Casson lo ha sollecitato ricordando che lo scandalo-Mose nasce «dalla creazione, voluta da centrodestra e centrosinistra, di fondi leciti da gestire senza rendicontazione: 11 è il marcio, il bubbone del Mose».

E Cantone, di rimando: «Un Comune qualsiasi deve seguire il Codice degli appalti, mentre qui sono stati spesi 6 miliardi senza averne fatto alcuno, perché non erano previsti dalla legge che ha assegnato ai privati la gestione, senza controllo, dei soldi pubblici». Affondo finale: «E questo, con il silenzio di tutti».

«Un buon piano, dunque, ma che manca del pilastro fondamentale della nuova legge di governo del territorio, tuttora in gestazione. Piano paesaggistico e legge sono reciprocamente complementari e necessari: senza la legge il Piano è disarmato, se non per la parte vincolistica».

Dopo due anni di gestazione e di lavoro congiunto tra il Centro interateneo di studi territoriali (Università) e il Settore tutela, riqualificazione e valorizzazione del paesaggio (Regione), la Toscana ha adottato il nuovo Pit con valenza di Piano paesaggistico. Anche se la delibera parla di "integrazione"del piano precedente approvato nel 2007, si tratta di un progetto del tutto diverso, sia nella filosofia, sia nell'architettura, sia nei contenuti. Chi fosse interessato può leggerne i documenti nell'apposito sito della Regione; qui è sufficiente sottolineare che nel piano acquista centralità lo Statuto del territorio che detta le regole di tutela e riproduzione delle "invarianti strutturali", declinate come "i caratteri idro-geo-morfologici dei bacini idrografici e dei sistemi morfogenetici"; "i caratteri ecosistemici dei paesaggi"; "il carattere policentrico dei sistemi insediativi, urbani e infrastrutturali"; "i caratteri morfotipologici dei sistemi agro-ambientali dei paesaggi rurali".

Lo Statuto è distinto dalla Strategia del piano (nello strumento precedente le due cose si mescolavano in modo confuso). Poiché stabilisce le regole che assicurano la tutela e la riproduzione del patrimonio territoriale e non obiettivi contingenti, lo Statuto non ha scadenze temporali implicite e assume il valore di una Carta costituzionale cui devono conformarsi gli strumenti urbanistici e i piani di settore. Quattro abachi di "morfotipi"- uno per invariante - definiscono per ciascun morfotipo, valori, criticità, obiettivi di qualità. Completano il Piano, le "schede d'ambito" e una cartografia originale che ha avuto un prestigioso riconoscimento internazionale. Né può essere sottovalutato l'enorme lavoro svolto dai funzionari regionali per la "vestizione" dei vincoli paesaggistici, senza il quale il Mibact non avrebbe dato via libera al Piano.

Un buon piano, dunque, ma che manca del pilastro fondamentale della nuova legge di governo del territorio, tuttora in gestazione. Piano paesaggistico e legge sono reciprocamente complementari e necessari: senza la legge il Piano è disarmato, se non per la parte vincolistica. Ma anche con la legge approvata, il Piano per forza di cose agirebbe soltanto nella sfera regolativa; gli aspetti propositivi richiedono, infatti, una strumentazione che il Piano non dispone. Per fare un esempio, tutti gli obiettivi di qualità che interessano il mondo agricolo sono tradotti in direttive di tipo promozionale. Non dicono alle imprese agricole "devi mantenere" (terrazzamenti, diversificazione colturale, maglia agraria, ecc.), ma propongono in questo senso politiche di incentivazione che, tuttavia sono messe in opera (o potrebbero) solo dal nuovo Programma di sviluppo rurale. Piano Paesaggistico e Programma di sviluppo rurale, due strumenti che dovrebbero giocare in stretto accordo e che finora sono stati autonomi se non addirittura orientati in senso opposto. Lo stesso vale per i cosiddetti "progetti di paesaggio", contemplati dal Codice, ma privi di mezzi finanziari specifici. In una parola, l'assessorato all'Urbanistica, guidato con coraggio e competenza da Anna Marson, appare isolato se non addirittura osteggiato dagli altri centri di potere assessorili.

Vi è, tuttavia, una questione ancora più fondamentale che è stata messa in luce dalla "battaglia sulle Apuane" di cui è stato già scritto su eddyburg e ancor più dalla paradigmatica vicenda dell'aeroporto fiorentino. Su quest'ultimo punto il Piano paesaggistico è completamente afasico, né poteva essere altrimenti dato che la questione, come tutte le grandi opere infrastrutturali (sottoattraversamento di Firenze da parte della Tav, autostrada tirrenica, variante di valico. ecc.), è sottratta alla pianificazione normale, sia dalla Legge Obiettivo, sia da una precisa volontà politica che in proposito assegna al Piano paesaggistico tutt'al più compiti di mitigazione e compensazione. Subito dopo l'adozione del Piano il consiglio regionale ha, infatti, approvato una variante al Pit che prevede una nuova pista aeroportuale parallela all'autostrada, una "lancia" di 2000 metri (che probabilmente diventeranno 2400, più gli spazi di manovra), conficcata nel costituendo Parco della Piana, distruggendo o compromettendo spazi agricoli, zone umide ed ecosistemi. Il Piano paesaggistico - dopo il gioco al ribasso sulle attività di escavazione nelle Apuane - è stato adottato con i voti della maggioranza e l'astensione di Forza Italia e la Variante aeroportuale del Pit approvata con i voti decisivi dell'opposizione. Regione Toscana bifronte: innovativa nel piano paesaggistico, purché non tocchi gli interessi consolidatisi in scelte sbagliate e in buona parte obsolete, ma che implicano tanto flusso di denaro per alimentare banche, imprese e nomenclatura di potere; e poco male se pochissima vera occupazione. Una strategia ancora basata sulle infrastrutture pesanti, ideologizzate come strumenti di modernizzazione e non sulla cura capillare e amorevole del territorio. Regione Toscana che non ha la forza politica di proporsi come modello alternativo di uno sviluppo durevole e sostenibile; che da un lato adotta un Piano paesaggistico coraggioso (ammesso che non sia stravolto dalle osservazioni dei numerosi cecchini interni ed esterni) e allo stesso tempo lo vanifica in alcune essenziali decisioni strategiche. Con il premierato Renzi-Berlusconi e l'aria che tira nel paese c'è da temere che prevarrà la seconda strada.

Riferimenti
Sulla "battaglia per le Alpi Apuane" si veda su eddyburg: Franca Leverotti Le Alpi Apuane: vent'anni di errori e cattiva politica, Contraddizioni toscane. Il Parco Regionale delle Alpi Apuane e il Piano Paesaggistico: un passo avanti verso la civiltà?; Paolo Baldeschi Alpi apuane - nuova maggioranza
nella Regione Toscana; Tomaso Montanari Apuane. Le ruspe cancellano i monti, Marco Rovelli
Apuane, centomila firme per salvare un bene comune. Altro ancora utilizzando il comando cerca

Corriere della sera, 19 luglio 2014, con postilla

«Il basolato ci danneggia i suv. Non si potrebbe fare qualcosa? Che so, coprirlo con una lastra di cristallo...». La contessa Marisela Federici, racconta divertito e affranto agli amici il commissario per l’Appia Antica Mario Tozzi, proprio non riusciva a capire perché mai non si trovasse una soluzione per quella pavimentazione posata a partire dal 312 a.C. da Appio Claudio Cieco. Che fastidio, per lei e gli ospiti dei party nella sua villa, sobbalzare su quelle basole!

Fastidio
Che la regina dei salotti potesse uscirsene con frasi simili si sapeva. Un giorno, alle telecamere di Riccardo Iacona, invitò quanti si suicidano per mancanza di lavoro a darsi da fare: «Lavorassero un po’ di più invece di lamentarsi tanto!». Ma lo stesso fastidio per quel basolato antico, potete scommetterci, lo provano senza dirlo molti di quelli che usano tutti i giorni la «Regina Viarum» come fosse una bretella stradale. Ad esempio consoli e proconsoli della politica e della burocrazia: senza il traffico e i semafori dell’Appia Nuova o della Tuscolana l’aeroporto di Ciampino pare più vicino: vuoi mettere la comodità?

Traffico
Certo, dalla tomba di Cecilia Metella a Torricola il traffico sarebbe vietatissimo. Ci sono cartelli con la sbarra del divieto d’accesso. E qualche tratto, qua e là, è contromano. Ma su quella che è la più celebre strada del mondo antico, che i grandi viaggiatori risalivano a piedi o a cavallo sostando alle catacombe di San Callisto, alla Villa di Massenzio o al tumulo dei Curiazi, circolano nei giorni di punta, denuncia la direttrice Alma Rossi, duemila macchine l’ora. Sfiorando i temerari turisti che camminano verso le catacombe filo filo al muro dove San Pietro incontrò Gesù: «Quo vadis, Domine?». Per non dire dei giganteschi autotreni a due piani carichi di auto per la Hyundai, che sta ancora lì dopo aver ricevuto la disdetta del contratto dal Comune di Roma addirittura ventidue anni fa.

Da Goethe a Caderna
Antonio Cederna aveva visto tutto già nel 1953: «La via Appia Antica si avvia a diventare l’insufficiente corridoio di scolo dei vari quartieri che le stanno sorgendo ai lati». E ancora prima di lui aveva indovinato Wolfgang Goethe decantando la «solidità dell’arte muraria. Questi uomini lavoravano per l’eternità ed avevano calcolato tutto, meno la ferocia devastatrice di coloro che son venuti dopo ed innanzi ai quali tutto doveva cedere».

Archeologia e abusi
Sono decenni che il Parco dell’Appia Antica, 3.500 ettari in larghissima parte storicamente in mano ai privati, attende una vera sistemazione che metta ordine in un caos dove hanno spazio, oltre ai meravigliosi resti archeologici, case di cura e depositi di auto confiscate, garage del Cotral (il Consorzio trasporti pubblici) e sfasciacarrozze, centri sportivi con piscine fuorilegge e ville di miliardari col vizietto dell’abuso. Basti dire che, un quarto di secolo dopo la fondazione, il «Piano Parco» è ancora in sospeso. E galleggia tra competenze e sensibilità diverse: i Comuni di Roma e Ciampino, la Provincia e la Regione, le Soprintendenze di Roma e del Lazio, quella archeologica, quella per i Beni architettonici e il Paesaggio e, per le catacombe, la Pontificia commissione di archeologia sacra.

Bellezza e degrado

Tema: come possono gli amanti dell’arte e i turisti in genere riconoscere come un unico parco archeologico d’importanza planetaria un grande e caotico impasto di eccezionali testimonianze monumentali sparpagliate un po’ qua e un po’ là e spesso difficili da trovare come la stupenda isola verde della Torre del Fiscale, affidata a un manipolo di appassionati volontari, isola che ospita grandiosi acquedotti ma è assediata da palazzoni-alveari e dal traffico dell’Appia Nuova e della Tuscolana?
È in questo panorama di bellezza e degrado, prati verdi e mostruosità edilizie e disordine generale, panorama assai diverso dall’idea bucolica dell’Agro Romano coperto di fascinose rovine, che è nato il progetto «Operazione Grand Tour». Voluto per «valorizzare e rendere fruibile per romani e turisti l’“esperienza” dell’Appia Antica» attraverso una serie di iniziative finanziate anche da «Autostrade per l’Italia». E subito impallinato dall’Associazione Bianchi Bandinelli, dal Comitato per la Bellezza, da Salviamo il paesaggio, da Italia Nostra: «Un’operazione inverosimile».

Ztl e autovelox
Perché? Per «l’aspetto più sconcertante: la mobilità privata su gomma come elemento irrinunciabile e caratterizzante». Del resto, Autostrade non è forse «pronta a mettere a disposizione le proprie tecnologie autostradali, realizzando attività di comunicazione e marketing, punti di ristoro, laboratori e mostre»? «Robe da matti!», ribattono Mario Tozzi e l’Ente Parco: «Il progetto è nero su bianco: “chiusura al traffico con una nuova area Ztl” per ridurre al minimo del minimo i passaggi di macchine, restringimento delle corsie automobilistiche, nuovo limite inderogabile di velocità a 30 chilometri l’ora imposto con “tutor” e autovelox, controlli elettronici a tutti i sedici varchi d’ingresso, piste ciclabili per unire le varie parti del parco, stazioni di “bike sharing”, agriturismi con aziende agricole vere per conservare ciò che resta dell’Agro Romano, bus elettrici per collegare i siti. E da cosa e da chi dovrebbe essere difeso, il parco?»

Diffidenza
Da «Autostrade», spiegano le associazioni citate. Non si fidano. Neanche se il progetto, così è scritto, si ispira «all’accordo Hewlett-Packard-Ercolano». Cioè il modello di mecenatismo che piace perfino ai più diffidenti difensori dei tesori monumentali italiani: «In nome di Antonio Cederna, l’uomo cui si deve la salvezza dell’Appia Antica e la modernità della sua concezione, ci opponiamo con determinazione all’accordo Beni culturali-Società Autostrade. E in nome di Cederna lanciamo un appello a quanti in Italia e nel mondo civile non sono disposti a barattare la storia e la cultura per un piatto di lenticchie».

Favorevoli
Per cominciare, replicano dall’Ente Parco, non sono lenticchie, perché alla fine Autostrade potrebbe scucire dieci milioni di euro. E poi si tratterebbe di «mecenatismo puro. Esattamente come quello che è accaduto per la Piramide Cestia con percorso da tutti ritenuto esemplare». E il peso del colosso privato in cabina di regia? «Nessuna cabina di regia unica» e «tanto meno le Soprintendenze sono esautorate dal loro ruolo o delegittimate». E la mobilità su gomma? «L’intero progetto si basa sulla chiusura definitiva al traffico privato di tutta l’Appia Antica da Porta San Sebastiano a Frattocchie». E Autostrade cosa avrebbe da guadagnarci? «Neanche un marchio sui cartelloni. Solo lo sgravio fiscale e la possibilità di dire: è una cosa bella e l’abbiamo fatta anche noi».

Vacche magre
Basterà a rassicurare chi pensa che comunque «pecunia olet» e tanta bellezza non dovrebbe essere contaminata dal denaro infetto di chi, orrore!, costruisce strade a sei corsie? Scommettiamo: no. Ma anche chi guarda con occhio torvo ogni intervento privato dovrebbe chiedersi: è giusto, in questi tempi di vacche magre, rinunciare a priori a finanziamenti preziosi prima ancora di vedere gli accordi firmati e protocollati? E quanto pesano, in queste diatribe, le gelosie sulle competenze? Mah...

postilla

Sull’argomento eddyburg si è già espresso, prima sottoscrivendo l’appello contro l’accordo tra lo Stato e la società Autostrade, poi pubblicando l’opinione di Maria Pia Gurmandi. Rinviamo a entrambi i documenti. Vogliamo osservare qui che l'articolo di Gian Antonio Stella, giornalista che stimiamo e di cui riprendiamo spesso articoli di documentata denuncia, questa volta ha proprio sbagliato. Il suo articolo sembra scritto da chi sull'Appia non ha mai messo piede, altrimenti avrebbe constatato che le uniche cose che funzionano sono proprie gli spazi pubblici gestiti dalla Soprintendenza Archeologica. e che l'unica denominazione possibile - per chi voglia davvero tutelare quell'area - è quella di "parco archeologico"
Ma il diavolo fa le pentole, non i coperchi: Stella ignora che proprio ciò che denuncia - il traffico privato abnorme, gli abusi - dipende esattamente dalle competenze del Parco Regionale che, in 25 anni, non è riuscito a risolvere alcunchè, anzi spesso è stato di ostacolo al lavoro della Soprintendenza Archeologica, l'unica che invece i progetti li ha e li ha realizzati. Senza bisogno di scomodare il solito privato, Autostrade. Tutt'altro che «gelosia delle competenze», come comprende chiunque conosce i fatti e i documenti.
Quando Antonio Cederna, il grande difensore dell'Appia, fu eletto deputato della Repubblica, la società Autostrade gli fece recapitare una bicicletta, una delle prime mountain bike. Cederna la regalò immediatamente a Don Guanella, rispedendone la ricevuta di consegna ad Autostrade perchè non voleva avere nulla a che fare con una società contro cui aveva combattuto da sempre.

L'Unità, 18 luglio 2014
La sua idea di ridurre il potere delle ex Soprintendenze regionali divenute direzioni generali regionali va certo nella giusta direzione: semplificare la catena di comando e il rapporto centro-soprintendenze. Mi lasciano invece perplesso altre idee, soprattutto una: quella di una più stretta integrazione fra turismo e beni culturali e paesaggistici. Il primo sembra, da quanto si è letto, prevalere sui secondi assoggettandoli a logiche economico-promozionali. Ciò discende dalla convinzione - da lei ribadita nei giorni scorsi - che i nostri grandi musei siano “miniere d’oro” non sfruttate a dovere, cioè potenziali “macchine da soldi”.

Non dalle maggiori esperienze straniere: il Louvre infatti, coi suoi 180.000 mq di superfici espositive e coi suoi quasi 9 milioni di ingressi è passivo al 50% (ci pensa lo Stato) e analoga è la situazione del Metropolitan di New York. I grandi musei inglesi, come lei ben sa, sono gratuiti (tranne le mostre) e contano proprio così di attrarre più turisti. Il che è vero secondo le loro statistiche ufficiali: + 50% di turisti a Londra.

Ecco uno dei punti nodali: i beni culturali e paesaggistici sono, a mio avviso, la “materia prima”, il patrimonio da tutelare, da conservare, in sé e per sé, maggiore o minore che sia, mentre il turismo è un suo “indotto economico” che può ben essere potenziato se ben organizzato. E purtroppo in Italia esso è disorganizzato e più caro (del 10 %, sostiene Coldiretti) delle medie europee. Nonché spesso di qualità scadente.

Nel suo progetto (per quel che se ne sa) si prevede, in una visione che privilegia l’economia, il profitto, rispetto alla tutela complessiva del patrimonio, di separare i grandi musei dal territorio, dalle città, dal contesto storico in cui sono nati - da donazioni multiple di grandi famiglie, da chiusure di chiese e conventi, da collezioni o gallerie patrizie, nei modi più diversi - cioè dalle Soprintendenze. Popolate secondo la vulgata corrente o di studiosi troppo raffinati o di ottusi burocrati. Essi verrebbero affidati in completa autonomia a direttori anche stranieri, comunque non provenienti dai Beni Culturali. Un bello schiaffo alle nuove leve degli storici dell’arte italiani, dopo quello dell’accorpamento (deciso sulla carta) delle Soprintendenze ai Beni Artistici e storici a quella per i Beni architettonici. Con in più qualche pericolo “politico”. Chi nominerà quei venti mega-direttori e con quali criteri, il ministro? Prevarranno criteri “politici” o meritocratici? Essi potranno essere anche stranieri. Lei osserva che se vi sono italiani (per lo più, mi lasci dire, storici dell’arte) chiamati a dirigere musei vecchi e nuovi all’estero, vi potranno ben essere stranieri validi…

Per l’arte contemporanea è molto probabile. Per quella antica e per l’archeologia i dubbi non sono pochi. Nei maggiori teatri lirici nazionali non è che i Sovrintendenti stranieri abbiano dato prova strepitosa di sé. In ogni caso si è già visto con Mario Resca come inserire manager nel corpo di un Ministero “di patrimonio” abbia creato solo una gran confusione, per esempio per il “vitello d’oro” tutto o quasi privato delle società di servizi museali aggiuntivi. Ancora da sbrogliare, se non erro. Queste mega-direzioni esternalizzate sono un primo passo per privatizzare (vecchio progetto-Urbani) i maggiori musei? Retrospettivamente, anche ridurre in passato il MiBAC alla canna del gas aveva probabilmente questo fine ultimo. La polpa ai privati, l’osso allo Stato. E come la mette coi musei civici che spesso, nel Centro-Nord, sono i più grandi e prestigiosi di quelli statali? A Brescia o a Pavia, per esempio, è tutto civico.

Non voglio dilungarmi. Accenno al paesaggio italiano. Un giorno stavo assistendo alla telecronaca del Giro d’Italia e mi stupii nel vedere ripresi dall’elicottero paesaggi intatti, verdi, coltivi ordinati, nessuna periferia cenciosa. Corsi a vedere dove stessero correndo: purtroppo il Giro era sconfinato in Austria… Tutto questo avviene da noi per colpa delle Soprintendenze? Al contrario, per colpa di una sottocultura molto italiana - alla quale il berlusconismo ha dato un propellente formidabile - che intende il paesaggio come qualcosa di privato, in cui “ciascuno è padrone a casa sua”.

Lei ha costituito un precedente pericoloso con la creazione di una commissione per il ricorso contro i pareri emessi dalla Soprintendenze ai beni architettonici. Lei sa meglio di me che gli organici di quelle Soprintendenze sono ancor più carenti degli altri a fronte di una marea di richieste di concessioni edilizie, di autorizzazioni a costruire ovunque, a ristrutturare in fretta e furia. Per cui ogni architetto dovrebbe affrontare in ogni giorno lavorativo almeno 4-5 pratiche edilizie e urbanistiche ognuna delle quali richiede spesso anche una quarantina di giorni di istruttoria.
Come si rimedia? Col potenziamento degli organici, ovvio. No, col richiedere, di fatto, un silenzio/assenso, sapendo che silenzio sarà, vista la incredibile mole di lavoro e la non meno incredibile pochezza di mezzi e di uomini. Le Soprintendenze vengono accusate di essere “organi monocratici”. E’ difficile pensare che non lo sia un organo tecnico-scientifico: non si decide a maggioranza come fare un restauro o, in campo medico, un’operazione a cuore aperto. Prima dello sciagurato Titolo V (la cui effettiva riforma sembra allontanarsi) esisteva un ufficio centrale ben dotato che, per esempio nel 1998, compì oltre 135.000 istruttorie progettuali annullando 3.092 progetti, neanche tanti, però maxi-progetti, “mostri”, in tempi rapidi, mediamente 42 giorni. Ma quell’utilissimo Ufficio centrale era stato dotato di mezzi e di personale tecnico adeguato. Noi ci auguravamo che accadesse per la co-pianificazione Regioni-Ministero prevista dal Codice per il Paesaggio. Dov’è finita invece, Toscana a parte?

In conclusione mi sembra, signor ministro, che mescolare la materia prima “patrimonio” e l’indotto “turismo” anteponendo per giunta il primo al secondo, oltre a smontare, di fatto, una tradizione, centenaria ormai di buona tutela (nonostante gli italiani), rischi di non giovare per primo al turismo che avrebbe bisogno, quello sì, di manager, di specialisti, di promoter e di obiettivi adeguati ai 48.738.575 stranieri che sono arrivati da noi nel 2012. Oggi la politica turistica la fanno i tour operator, come più conviene loro. E sul paesaggio comandano speculatori, abusivi, padroni e padroncini.

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