La Repubblica, 13 ottobre 2014 (m.p.r.)
Un sindaco via, l’altro, a male parole. Genova li spazza via dal suo cuore incollerito come detriti alluvionali. Nel fango, della classe dirigente galleggia solo chi ha più pelo sullo stomaco. E dunque ha l’astuzia di non farsi vedere lì in mezzo ai negozianti dell’ultimo quadrilatero commerciale sopravvissuto nel centro cittadino, sempre gli stessi, ancora una volta a spalare e buttar via merce. A loro si chiede il coraggio di ricominciare, di vincere lo scoramento, l’adesso basta. Ma chi ce l’ha ancora, il coraggio di guardarli in faccia?
La Repubblica, ed. Firenze, 12 ottobre 2014«IO ritengo di essere l'uomo del dialogo: ascolteremo le opinioni di tutti. Ma sia chiaro che se non si approva il Piano del paesaggio, il centrosinistra dovrà trovarsi un altro candidato alla presidenza della Regione». Meglio dirlo prima. Sul Piano paesaggistico tanto contestato dagli agricoltori e dai produttori di vino, il governatore Enrico Rossi ci mette tutto il carico. Conferma di essere pronto a rivedere e ridiscutere alcuni passaggi. Ma sul risultato niente scherzi, notifica dall'Internet Festival di Pisa, durante l'intervista di Lucia Annunziata. Il Piano è parte fondante della Toscana del futuro. Almeno la Toscana che ha in testa lui: «Il nostro obiettivo è garantire lo sviluppo all'agricoltura mantenendo la specificità del paesaggio », dice Rossi. Avvertendo fin d'ora quei consiglieri che dovessero accarezzare l'idea di mettersi di traverso.
Un avviso ai naviganti e una prova di forza, da parte del presidente che ha il ‘bis' in tasca, direttamente consegnatogli dal premier Matteo Renzi. Ma dal palco pisano, Rossi gli inoltra un suggerimento e una richiesta: «Se nella legge di stabilità Renzi inserirà benefici solo per Firenze mi arrabbierò ». Il premier non si dimentichi del resto della Toscana: «Non ho elementi per esprimere giudizi definitivi, ma mi aspetto che nella finanziaria il premier riservi altrettanta attenzione a rilevanti questioni infrastrutturali per la costa». Quali? Due su tutti: «L'autostrada tirrenica e l'adeguamento del porto di Livorno con i dragaggi sul canale Scolmatore». E se i pisani non dovessero sentirsi sufficientemente rassicurati,
Rossi mette sul piatto anche gli scali aeroportuali. Dice «di sentirsi la coscienza a posto e di avere compiuto una scelta che fa soprattutto il bene di Pisa ». Perché «se la città preferisce restare nel suo piccolo, sappia che corre il rischio di restare marginalizzata: l'individuazione di Corporacion America e della proprietà unica dei due scali consente di fronteggiare al meglio la concorrenza di Bologna, e di assicurare lo sviluppo di Pisa fino a 7 milioni annui di passeggeri».
Se poi ci sarà bisogno di «chiedere al governo attenzione per la cittadella aeroportuale pisana, lo faremo», giura Rossi. Tra le richieste al premier c'è però anche il capoluogo: «A Renzi chiedo 40 milioni per terminare i lavori alla diga di Levane e per completare le casse di espansione sull'Arno, così da mettere Firenze in sicurezza ». Rossi conferma la disponibilità «ad aggiungere altri 40 milioni per l'Arno». Ma ricorda subito dopo a Renzi che «servono interventi sul porto di Livorno, mentre a Pisa servono cittadella aeroportuale, centro congressi e un più rapido collegamento ferroviario con Firenze».
Sul piano politico Rossi conferma di non voler fare guerre al renzismo: «Ritengo che cercare ora rivincite contro Renzi sia sbagliato, è stato uno straordinario acceleratore della crisi della politica che la sinistra ha compreso tardi. Semmai il rammarico è che da sinistra non sia avvenuto altrettanto ». Cercare ora rivincite vorrebbe dire piuttosto «farsi asfaltare», dice Rossi. Aggiungendo: «Io scommetto sugli under 30, sui giovani che incontro e che non sono né renziani né antirenziani ma semplicemente di sinistra. E molti di coloro che oggi fanno battaglie a difesa dell'articolo 18 si sono dimenticati per anni dei Cococo e Cocopro, anche se il Jobs Act non credo risolverà tutti i problemi».
Articolo21.org, 12 ottobre 2014
Vorrei chiedere ai colleghi che conducono i telegiornali: non usate più l’espressione “bomba d’acqua” al posto di nubifragio, fortunale, forte temporale, ecc. A parte che tecnicamente la “bomba d’acqua” è un’altra cosa, ma, evocandola, sembra che assolviate chi ha assistito, come a Genova, inerte ad una nuova tragica alluvione. La terza disastrosa che colpisce e sconvolge il capoluogo ligure in cinque anni. Non siamo di fronte ad eventi eccezionali, né, tantomeno, a “calamità naturali”. Siamo di fronte ad un caso “di scuola” della distruzione di un sistema idrogeologico naturale manomesso e devastato dall’uomo nei decenni
Le polemiche più immediate riguardano soprattutto il mancato preallarme della Protezione Civile e del Comune, ma c’è ben altro a monte di quel pur deplorevole ritardo. Perché Genova? Ma potremmo dire perché il Gargano, Olbia, la foce del Tevere, la collina trevigiana o Messina? Perché la nostra bella Italia è sempre più sfigurata dal cemento+asfalto e quindi resa in tal modo fragilissima. Genova poi è un caso da manuale dell’imprevidenza di massa, anche della stupidità e del menefreghismo. Come si può assistere ai grovigli del Tar (la cui istituzione è fra le principali cause di rallentamento dei lavori indispensabili) senza muovere un dito, vedendo che i fondi stanziati nel 2010 non producono una sola opera di imbrigliamento, di difesa, neppure la demolizione di una tombatura di torrente, o di uno degli edifici-killer?
Sono passati ben 44 anni dalla tragica alluvione del dicembre 1970, che seminò lutti in più di quaranta famiglie e devastazioni in mezza Genova. Mi ci trovai in mezzo per caso, inviato da Milano ad un convegno marittimo alla Fiera del Mare dove rischiammo di rimanere intrappolati dalla piena di Bisagno e Polcevera. Rimasti al buio, riuscimmo a scappare, a piedi, avendo per guida il console della Compagnia portuale, Agosti, verso il centro di piazza De Ferrari. Da lì vedemmo che la città a monte era illuminata e pressoché normale, mentre verso Brignole tutto era buio e sommerso. Tragicamente buio e sommerso, con 44 morti.
Il giorno dopo scoprimmo che i letti di fiumi e torrenti su in alto non erano stati ripuliti da quando gli ultimi contadini se n’erano andati e che in basso gli stessi erano stati improvvidamente occupati, rialzati e ristretti da orti, campi da calcio e da tennis in serie, circoli sportivi e ricreativi, creando così le condizioni ottimali perché straripassero. Negli anni successivi si è continuato a cementificare le alture genovesi, quasi a strapiombo sulla città, coi Forti antichi che sorgono fra 400 e 800 metri di altitudine, a sradicare bosco e sottobosco, a desertificare campi e pascoli. Col risultato di far precipitare le acque piovane a valle, sulla città, ad una velocità un tempo rallentata da boschi, coltivi, terrazzamenti, ecc. ed ora divenuta pazzesca grazie all’asfaltatura ossessiva di ogni viottolo. In basso poi si sono lasciati costruire edifici, anche di notevole cubatura, a filo delle sponde, o sul percorso dei corsi d’acqua costretti fra argini di cemento, e magari “tombati” in città, i quali, in regime di piena, “esplodono” letteralmente invadendo case e strade divenute a loro volta vorticosi corsi d’acqua. Nel Sud tutto è aggravato da un disperante abusivismo edilizio che ha costipato colline, pianure, ripe di fiumi, alvei di torrenti e di fiumare, pareti, colate di fango. Ma anche a Genova non si è scherzato quanto a stravolgimento del tessuto urbano con le lottizzazioni, ben nel cuore del centro storico, di Madre di Dio e di Piccapietra, e con grandi quartieri in montagna, di fatto. Per una città la cui popolazione peraltro è drasticamente calata: dalla punta di 816 mila residenti del 1981 ai 586mila del 2010, con una diminuzione del 28,2 per cento. E magari si vuole “rilanciare l’edilizia”.
Ci si può rassegnare a tanto disastro? Assolutamente no. Che si può fare? Molto, se si concentrano subito fondi e investimenti sulla difesa e la ricostruzione idrogeologica dell’Italia, sulla messa in sicurezza ambientale, anche anti-sismica (dove ci sono più frane, i terremoti risultano devastanti). E’ il più vero, urgente, incombente dramma nazionale, da affrontare con un non meno urgente e adeguato piano anch’esso nazionale, articolato per regioni, per bacini idrografici. Il suo costo è stato calcolato in 40 miliardi scalati in più anni, ovviamente. Tanti. Però se non si comincia mai, lo sfacelo aumenta e con esso i danni, i morti, gli sfollati, i senza lavoro. E novembre deve ancora arrivare.
Nel 1989 la tanto deprecata Prima Repubblica si era data un’ottima legge, la n. 183, che istituiva Autorità di Bacino, da quelle nazionali (sette, dal Po al Volturno) alle locali, sul modello dell’Authority del Tamigi che aveva risanato il grande fiume, la rete idrica e protetto l’ambiente fluviale della “great London”. Là l’Autorità funziona avendo riunito in sé i poteri di ben 11mila enti. Qui Comuni e Regioni insofferenti di una Autorità superiore si sono applicati con puntiglio a smontare e a svuotare quella buona legge. Un suicidio di massa che tv e giornali dovrebbero raccontare. Altro che prendersela ogni momento con la Prima Repubblica!
Un Salva Italia strategico, pianificato insomma: altro che questo Sblocca Italia del governo Renzi teso ad eludere vincoli e piani, a cancellare i controlli delle Soprintendenze (magari esse stesse) e di altre Autorità territoriali rendendo i costruttori, figurarsi, i responsabili di se medesimi. La semplificazione burocratica può avvenire soltanto riunendo i molti passaggi cartacei in alcuni passaggi strategici però efficaci, non eliminando i controlli. E’ il momento di riportare in onore – per un nuovo New Deal italiano del territorio e del paesaggio – la pianificazione. Altrimenti, come profetizzava Antonio Cederna, ci resteranno davvero “brandelli d’Italia”.
Il sindaco di Firenze a fine mese sarà in Cina, poi a Cannes. "Possiamo mettere in moto 1,5 miliardi di investimenti". Saranno consentiti fino al 20% di ampliamenti delle superfici degli immobili trasferiti. La Repubblica - Firenze, 9 settembre 2014.
Fai investimenti immobiliari a Firenze? Palazzo Vecchio ti agevola sulle tasse locali: sconti o addirittura esenzioni sulla Tasi e l'Imu. E se la montagna non va a Maometto, ci penserà Maometto ad andare alla montagna, giura il sindaco Dario Nardella reduce da un giorno a Monaco di Baviera all'Expo Real, la più grande fiera internazionale del Reale estate, dove si è presentato insieme al super manager Giacomo Parenti con un pacchetto di 60 tra immobili e aree su cui investire a Firenze: "Io d'ora in poi andrò ovunque a promuovere la città: a fine mese sarò in Cina, poi a Cannes. Abbiamo l'opportunità di mettere in moto la più grande operazione immobiliare degli ultimi 150 anni: un miliardo e mezzo di investimenti possibili, 60 milioni di euro di oneri d'urbanizzazione per il Comune, 10 mila posti di lavoro. Un'occasione da non perdere", sogna ad occhi aperti Nardella.
E' di fatto l'inizio di una nuova stagione per Palazzo Vecchio. Anche negli anni della grandeur renziana solo una vendita è andata a segno, quella del teatro comunale di Corso Italia, comprato dalla Cassa depositi e Prestiti ma tuttora in cerca di un futuro, visto che un progetto (e un investitore) ancora non c'è. Per il resto, aste deserte su immobili pubblici (palazzo Vivarelli Colonna) e operazioni immobiliari private o miste al palo in molte zone della città: da viale Belfiore alla Manifattura Tabacchi. E così ora via alla caccia spietata all'investitore. Prima con le armi della seduzione: «Nel prossimo bilancio sgravi fiscali per attrarre investimenti», annuncia Nardella. Se non basta l'idea del sindaco è quella di andare lì dove gli affari si muovono: "Nardella Real Estate", già lo prendono in giro i suoi.
Va proprio in questa direzione il corposo dossier di opportunità di investimento che il sindaco ha illustrato martedì a Monaco a imprenditori, fondi d'investimento, consoli e uomini di Stato: dall'exManifattura Tabacchi all'area delle ex Officine grandi riparazioni fino al complesso Lavagnini e alla Querce, che potrebbe trasformarsi in un albergo di lusso. E poi ancora la Cassa di risparmio di via Bufalini, palazzi in via di Quarto a Careggi, il convento cappuccino di via dei Massoni, Poggiosecco. Nardella ha proposto di tutto, palazzi enormi, vecchi depositi del tram, ville, l'ex tribunale di San Firenze, persino l'immobile con l'arco di piazza Repubblica.
Anche beni privati con iter urbanistici avanzati: "Ci siamo fatti dare una liberatoria", spiega il sindaco. "Molti interessamenti da parte di gruppi alberghieri", si lascia solo sfuggire Parenti. Per il resto trattative top secret. «Tutti sono beni su cui c'è certezza dell'investimento, consentiamo di ampliare fino al 20% la superficie della trasformazione per gli immobili trasferiti”, rivendica l'assessora all'urbanistica Elisabetta Meucci. Nella top 5 dei beni più gettonati: l'ex Telecom di via Masaccio, il teatro Comunale, la Manifattura Tabacchi, le ex officine Grandi riparazioni dietro la Leopolda, il palazzo Vivarelli Colonna, il "palazzo del sonno" delle Ferrovie in viale Lavagnini. Una volta a Monaco Nardella non si è fatto sfuggire l'occasione di una visita all'Allianz Arena, lo stadio del Bayern: "E' pensato per le famiglie: mi piacerebbe averne uno così a Firenze".
Una riflessione ambiental-comportamentale-generazionale che apre un intero mondo ricco di prospettive anche e soprattutto per chi si occupa di politiche urbane e territorio, ben oltre la pura mobilità dolce. Corriere della Sera, 12 ottobre 2014, postilla (f.b.)
Un terzo dei bambini e dei ragazzi fino a 13 anni va a scuola a piedi. Un terzo degli studenti fa lo stesso per raggiungere istituti superiori e università. Gli adulti che arrivano a piedi sul luogo di lavoro sono tre volte di meno. Solo l’11,5 per cento del totale. Nel dato diffuso dall’Istat in occasione della Giornata nazionale del camminare (oggi) è contenuta una lezione interessante. Questa: i nostri figli e nipoti sanno trarre insegnamenti utili da tempi grami. Provate a pensare: perché un ragazzo sceglie di andare a scuola a piedi? Ha ragionato sulla riduzione dell’inquinamento e la qualità della vita nelle aree urbane? Possibile, ma non probabile. Se va a scuola a piedi è perché si fa più presto ed è più divertente: meglio chiacchierare con gli amici che sopportare un genitore nervoso imbottigliato nel traffico. Zaini pesanti? Si adotta il trolley. Logico, se ci pensate.
Quella logica di cui noi adulti, spesso, non siamo capaci. Molti miei coetanei non sanno camminare: se muovono i piedi, devono correre. Una splendida attività, sia chiaro, per cui è bene tuttavia consultare tendini, mogli e cardiologi. Camminare è un’azione antica come l’uomo. Quando si è alzato in piedi, nella notte dei tempi, non ha ballato la rumba o chiesto se qualcuno gli dava un passaggio. È andato da un posto all’altro. Se non è stato divorato, è pure tornato indietro.
I ragazzi camminano, e arriveranno lontano. La generazione nata alla fine del XX secolo sta recuperando abitudini antiche: andare a piedi è una di queste. Anche andare in bicicletta. Usare i mezzi pubblici. Non acquistare un’auto, condividerla («car sharing», in milanese moderno): da Enjoy a BlaBlaCar è tutto un fiorire d’iniziative. Tempi economicamente impegnativi e genitori psicologicamente fragili hanno compiuto il miracolo. I ragazzi inventano attività nuove, grazie a Internet. E reinventano cose vecchie: lavorare insieme, iniziare un’impresa, camminare.
Non è un’apologia della decrescita felice: essere più poveri non è mai bello. È, invece, una constatazione ammirata. Gli italiani di domani usano anche le idee di ieri per affrontare le difficoltà di oggi. Chiamare «vintage» l’usato, per esempio, è geniale: una spolverata di modernità sul giubbotto dello zio. La parsimonia dei giovani clienti ha portato produttori e distributori a ragionare di più su quello che vendono. Alimentarsi con attenzione ha costretto l’industria a essere meno opaca (ai tempi dei social network gli errori si pagano, dall’amministratore delegato in giù). Molti di questi comportamenti sono legati alla necessità. Ma non possiamo farcene un merito, noi che siamo nati negli anni Cinquanta e Sessanta. Aver tollerato l’espansione di una generazione di precari — senza tutele, con pochi soldi, con scarse prospettive di impiego tradizionale — non è un motivo di merito. Resta un fatto: alcuni buoni comportamenti sono figli (illegittimi) delle nostre cattive decisioni.
I ragazzi sono avanti, anche quando sono indietro. Una generazione tanto poco teorica, e così pratica, non si vedeva in Italia da cinquant’anni. Come abbia fatto a crescere nelle nostre case — ideologicamente cariche, inutilmente dogmatiche — non si sa. Ma sta accadendo. E il grande aiuto che possiamo darle è: lasciamola fare. Lasciamola camminare da sola, e decidere dove vuole andare. Per tornare da dove siamo partiti. Non accompagniamo i ragazzi a scuola in auto, se è possibile evitarlo. Non portiamo i figli all’università sul sellino dello scooterone. È un errore educativo e un azzardo stradale. Ma avete visto come guidano la moto, certi cinquantenni?
postilla
L'Autore non ce lo dice, forse non interessa cogliere per motivi professionali il legame diretto, ma quello che ci sta raccontando altro non è se non lo scontro campale in corso fra conservatori e progressisti a proposito di strategie di sviluppo urbano-territoriali (ed economico-sociali) del futuro. La parola chiave sono quelli che gli statistici chiamano Millennials, cioè la generazione che va dai ragazzini a chi inizia ad affacciarsi ora ad una vita adulta e pienamente autonoma: cosa vogliono, si chiedono istituzioni e mercato, e soprattutto cosa vogliamo offrirgli? In termini di spazio dentro cui “camminare” in senso lato, ovvero di città e territorio, pare che destra e sinistra ancora si distinguano. La destra, quella che conosciamo bene anche dalle nostre parti (indipendentemente dalle etichette e colore di bandiera) vuole la dispersione insediativa, la frammentazione familista, i consumi individuali compulsivi e coatti. La sinistra, o schieramento davvero progressista che dir si voglia, dovrebbe promuovere condivisione, sostenibilità, socialità e relazioni non competitive. In fondo è la differenza tra andare a scuola a piedi in un quartiere integrato, e farsi accompagnare dai nonni lungo una eterna Bre.Be.Mi. col quarto Suv di famiglia, da un baccello chiuso monofunzionale all'altro, magari con le sentinelle in piedi in mezzo all'unico spazio pubblico del sagrato. Per restare al tema mobilità affrontato da Severgnini, su Città Conquistatrice qualche riflessione su domanda, offerta, Automobile di Destra e Automobile di Sinistra (f.b.)
Il manifesto, 11 ottobre 2014
Nella riunione di ieri mattina, la giunta ha deciso, su proposta dell’assessore all’urbanistica, Cristiano Erriu, di revocare la delibera di adozione con la quale, nell’ottobre del 2013, la coalizione di centrodestra aveva, di fatto, abrogato il piano di tutela del paesaggio approvato nel 2006 dalla giunta di Renato Soru.
La delibera a suo tempo approvata dall’esecutivo Cappellacci cambiava tutto rispetto alla legge Soru. Le coste della Sardegna, che quella legge tutelava come un bene paesaggistico inalienabile, diventavano, soltanto, un «sistema ambientale ad alta intensità di tutela». Che cosa esattamente significasse questa formula, lo chiariva un passaggio della bozza preparatoria, ora abrogata, della legge poi approvata dalla giunta Cappellaci: «È necessario mediare tra la tutela delle risorse primarie del territorio e dell’ambiente e le esigenze socio-economiche della comunità, all’interno delle strategie di sviluppo territoriale e di sostenibilità ambientale». Tutela sì, quindi, ma se questa blocca le «strategie di sviluppo territoriale» va eliminata o drasticamente ridotta. E siccome non è mai stato un mistero per nessuno che per la stragrande maggioranza dei comuni costieri le «strategie di sviluppo» coincidono con la lottizzazione del territorio per costruire alberghi e villaggi turistici, era chiaro dove andasse a parare il contro piano di Cappellacci. Tanto più che le norme volute dal centrodestra recepivano al loro interno sia il Piano casa approvato dall’ultimo dei governi Berlusconi e per ben tre volte prorogato nell’isola da Cappellacci, sia una legge regionale che dava il via libera alla costruzione di venti campi da golf.
Non è quindi un caso che ieri la giunta Pigliaru abbia proposto anche nuove norme urbanistiche destinate a intervenire sugli effetti perversi dell’ultimo Piano casa di Cappellacci, in scadenza a fine novembre. Una serie di misure — ha chiarito ieri in conferenza stampa Erriu — che dentro il quadro di tutela disegnato da Soru, che ora torna in vigore nella sua interezza, regoleranno l’attività edilizia attraverso incentivi al recupero del patrimonio esistente e alla realizzazione di progetti compatibili con la tutela del paesaggio e con la salvaguardia delle coste
In una intervista a Maurizio Giannattasio, la vicesindaco con delega all'urbanistica delinea l'inizio di un processo di revisione dell'idea di città, da luogo delle trasformazioni edilizie a spazio sostenibilmente abitabile nella prospettiva dell'area metropolitana. Ottime intenzioni. Corriere della Sera Milano, 11 ottobre 2014 (f.b.)
Un documento. Da discutere con la maggioranza e poi con le forze politiche, i consiglieri comunali i comuni della città metropolitana, gli operatori di settore, le associazioni. Per dettare gli indirizzi della futura pianificazione del territorio. Basato su quattro cardini: la riduzione del consumo di suolo, la rigenerazione urbana, il riassetto ambientale e idrogeologico e una risposta efficace alla domanda di casa. Così sembrano titoli generici. In realtà significa cambiare alcuni obiettivi fondamentali: si deve puntare sul patrimonio immobiliare esistente, sia inutilizzato, sia degradato, sia utilizzato evitando di consumare nuovo suolo. «Il criterio è semplice — spiega il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris —: rigenero e riqualifico il patrimonio esistente, recupero le aree dismesse e degradate»
Vicesindaco De Cesaris ha appena chiuso il nuovo regolamento edilizio e già vuole riaprire il Pgt? «Credo sia tempo di cominciare una riflessione a tutto campo per capire in che modo rinnovare l’urbanistica nell’ottica dell’area metropolitana e come rilanciarla per farla uscire da un periodo di crisi. Dobbiamo pensare a piani intercomunali in grado di creare continuità tra territori, servizi e infrastrutture. La giunta preparerà un documento che verrà discusso con la maggioranza e poi presentato al consiglio comunale, le forze politiche, operatori, professionisti, associazioni».
Rimetterete mano al Pgt? «Dobbiamo fare i conti con un Pgt che nasce da una mediazione e che a mio parere ha dei limiti e delle rigidità che vanno superate»
Quali? «Dobbiamo pensare ad una densificazione selettiva: realizzo solo dove è già stato consumato il suolo, rigenerando e riqualificando, recuperando aree dismesse. In questi casi si può pensare anche a indici superiori a quello attuale».
Tanti grattacieli? «Se di qualità qualcuno perché no, ma in cambio della tutela di altre aree della città , dei quartieri, del territorio verde e agricolo».
Quali strumenti del Pgt modificherete? «Non mi preoccuperei ora di cosa modificare. Mi piacerebbe aprire un dibattito sui temi cardine. Se l’obbiettivo è la riduzione del consumo di suolo, bisogna pensare a una serie di regole, semplificate e innovative, che aiutino e incentivino la rigenerazione urbana, sistemi che consentano anche il riuso temporaneo».
Ossia? «Vuol dire permettere anche degli usi non definitivi che impediscano il degrado e l’abbandono del patrimonio esistente e che rispondano a esigenze reali per periodi limitati».
Interventi sull’esistente. E come si difende il «non esistente»? «Bisogna salvaguardare quella parte di territorio non edificato e soprattutto il territorio agricolo. Questa parte di territorio non solo va salvaguardata, ma va anche sostenuta e incrementata. Va definita la rete che unisca i grandi parchi urbani, il Parco sud, il verde e le aree agricole, anche alcune di quelle ancora non tutelate: in un disegno unitario».
C’è fame di case a prezzi abbordabili. Che farete? «Bisogna ripensare l’housing sociale, includendo le nuove forme di abitare come le coabitazioni associative, quelle di carattere assistenziale, quelle temporanee. Ma non basta: dobbiamo realizzare più abitazioni in edilizia convenzionata, affitto moderato e anche di aumentare la disponibilità del patrimonio sociale trovando le leve economiche in un momento di crisi».
«L’organo costituente dovrà comunque volare alto: assicurare un quadro equilibrato di garanzie democratiche e, insieme, consentire un effettivo governo metropolitano. Nell’approntare lo statuto, il Consiglio metropolitano non potrà chiamarsi fuori da un confronto sulle strategie». La Repubblica. ed Milano, 8 ottobre 2014
Arriva in grave ritardo e con una legge istitutiva che fa acqua da tutte le parti, ma non si può sbagliare. O decolla o il fallimento della città metropolitana lascerà un paesaggio di rovine. La prima verifica ha tempi brevi: la messa a punto, entro la fine dell’anno, dello statuto da parte del Consiglio metropolitano (24 eletti di secondo grado, i cittadini tenuti all’oscuro e la politica che pensa per loro): un passaggio delicato quanto decisivo. Da qui dipende, fra l’altro, il conseguimento di un obiettivo su cui tutte le forze politiche si dichiarano d’accordo: rendere possibile l’elezione diretta degli organi di governo nel 2016.
Ma non può bastare. Se si vuole una democrazia sostanziale, lo Statuto non può ridursi a una sistemazione burocratica a valle della sparizione della Provincia. Tantomeno può dar vita a un assetto gestionale in cui le questioni in gioco vengano riportate entro gli schemi del laissez-faire a cui da tempo ci ha abituati anche il mondo degli enti locali.
Intendiamoci: la coperta è corta. L’intera Lombardia andrebbe interpretata per quella che è: un sistema di aree metropolitane che dal basso danno vita a un coordinamento regionale. Solo così avremmo un riassetto organico, in una vera ottica federalista, con un riequilibrio dei poteri tra i diversi livelli della Pubblica amministrazione. Ma nel quadro politico attuale – si obbietterà – una simile prospettiva è mera utopia. Lo so: quanto di più lontano dal separatismo antifederalista della Lega Nord come dal neo-centralismo renziano. Non a caso la fase costituente della città metropolitana non prevede il coinvolgimento dei livelli superiori (Regione e Stato) se non come controllori. Così, per ora, la partita si giocherà solo ai livelli inferiori: comuni, zone omogenee (tutte da istituire), governo metropolitano.
I limiti e le storture della legge 56/2014 non possono però costituire un alibi. L’organo costituente dovrà comunque volare alto: assicurare un quadro equilibrato di garanzie democratiche e, insieme, consentire un effettivo governo metropolitano. In altri termini, nell’approntare lo statuto, il Consiglio metropolitano non potrà chiamarsi fuori da un confronto sulle strategie. Andranno messe sul tavolo le questioni e gli obiettivi di fondo. Quali? In estrema sintesi, si potrebbero ricondurre a quattro punti:
1. il sostegno agli elementi motori dell’economia che consentano alla città metropolitana milanese di non soccombere nella competizione fra metropoli (con tutto ciò che consegue in termini di domanda di lavoro e di risorse per il vivere);
2. il perseguimento della qualità della vita e della coesione sociale, attraverso la lotta agli squilibri tra centro e periferia (urbana e metropolitana) anche con la messa in atto di un vero policentrismo, fino a una capillare riqualificazione dei luoghi dell’abitare;
3. la riduzione dell’entropia metropolitana, ovvero della dissipazione irrazionale delle energie che servono al funzionamento della metropoli, a cominciare dal potenziamento del trasporto pubblico e da un governo correlato della tendenza insediativa;
4. il potenziamento del verde quale elemento strutturale del quadro insediativo. Non basta il ferreo, sacrosanto, contenimento del consumo di suolo: occorre una politica attiva che, in una rinnovata alleanza tra agri-coltura e urbis-coltura, faccia dello straordinario sistema dei grandi e dei piccoli parchi – tutti da consolidare ed estendere – una risorsa fondamentale per la qualità dell’abitare metropolitano.
Un avviso ai naviganti. Non ci si trinceri dietro la mancanza di risorse economiche. Si badi piuttosto a non accrescere il costo complessivo di funzionamento dell’amministrazione pubblica locale e si mobilitino l’intelligenza e le energie sociali.
Dal Convegno dell'Istituto Veneto: "Governare le Acque. Salvaguardia e gestione della Laguna di Venezia" «l'allarme per le "opere irreversibili" e che minacciano di escludere Venezia dall'elenco dei siti protetti». La Nuova Venezia, 10 ottobre 2014 (m.p.r.)
Una serie di incentivi per le trasformazioni edilizie sostenibili potrebbe e dovrebbe anche interessare ambiti urbani e tematici ben diversi e più ampi di quelli supposti. La Repubblica, 9 ottobre 2014, postilla (f.b.)
Vivere con un orto o un giardino sopra la testa è tecnicamente possibile. Oggi però è anche economicamente conveniente. La delibera del ministero dell’Ambiente concede infatti incentivi fiscali fino al 65% a chi trasforma il tetto o il “lastrico solare” (per esempio il terrazzo condominiale o la copertura piana dei parcheggi) in uno spazio verde. Un passo in avanti verso la diffusione del verde in città e verso la trasformazione degli edifici in senso ecologico: i tetti verdi trattengono l’acqua piovana, assorbono il rumore, aumentano la qualità della vita, ma soprattutto aiutano l’isolamento termico. Ed è questo aspetto che l’agevolazione fiscale vuole favorire.
«Il verde è un eccellente sistema di coibentazione, che aumenta le capacità di contenimento energetico dell’immobile», spiega Patrizia Pozzi, paesaggista milanese che si è dedicata intensamente a questo tipo di progetti. «Negli ultimi cinque, sei anni l’85% dei miei interventi sono stati su lastrico solare, vasti spazi come quello delle sedi della Vodafone e dell’Oréal, dove oltre al verde ci sono aree per il relax e altre attività». Patrizia Pozzi ha creato una joint venture con la società di progettazione architettonica Lombardini22.
Con la formula “Milano Green Roof” hanno dato vita a una collaborazione sul tema delle coperture vegetali offrendo un servizio chiavi in mano, dai vari progetti fino alla certificazione energetica, indispensabile per poter ottenere le agevolazioni fiscali. La paesaggista, i suoi partner e altri esperti presenteranno i diversi aspetti del tema in un incontro il 23 ottobre, a Milano, nella sede di Lombardini22. «Questi interventi non interessano solo le grandi aziende, ma anche i privati, perché i costi non sono stellari», precisa Patrizia Pozzi.
«Molti immobiliaristi, per esempio, hanno capito che se trasformo il terrazzo condominiale in un giardino, aumento il valore e le possibilità di uso dell’edificio da parte di chi ci abita». Per quanto riguarda i fabbricati già esistenti, basta una perizia che valuti la tenuta della struttura e la sua impermeabilizzazione. Il processo di installazione poi è piuttosto ben rodato: «Oggi sono sufficienti pochi centimetri di terra. Si tratta di pacchetti preconfezionati di semplice installazione: bastano 15 centimetri per avere un prato, 20-30 per dei cespugli, 40-60 per piante anche di sette metri di altezza». Così, per una volta, un taglio delle tasse sembra voler aggiungere bellezza alle nostre città.
postilla
Se la mano pubblica arriva a sostenere in questo modo un po' di sostenibilità ambientale, non potrebbe anche arrivare oltre? Ovvero far sì che gli incentivi, la rinuncia da parte della pubblica amministrazione a un introito fiscale in cambio di qualcos'altro, non si traducano semplicemente nella gioia degli immobiliaristi, ma anche in un incremento di valore d'uso dello spazio urbano. Il fiorire di terrazze va benissimo, ma se si riuscisse anche a tradurre questo verde privato in un vantaggio collettivo oltre quello genericamente ambientale, la cosa assumerebbe senso e dimensioni infinitamente maggiori. Per esempio diversificare gli incentivi a seconda delle specifiche funzioni di quel verde (che può essere di dimensioni anche rilevanti), o promuovere la formazione di reti di qualche tipo, ad esempio di produzione e distribuzione alimentare quando possibile, magari non necessariamente gestite dalle proprietà degli immobili. In fondo, anche queste cose fanno la differenza tra destra e sinistra, e non è mica poco (f.b.)
Qualche riflessione in più dallo spunto di questo articolo, su la Città Conquistatrice
Riceviamo la lettera dei tre esperti, responsabili per le discipline dell’idraulica e della morfodinamica del Piano Morfologico per la laguna di Venezia, Andrea Defina,Stefano Lanzoni, Marco Marani. Quando gli studi, pagati con fondi pubblici, diverranno pubblici? Con postilla (m.p.r.)
La lettera ci è stata inviata da Marco Marani che l'ha accompagnata con altre sue personali considerazioni: «So che il testo del Piano Morfologico e' circolato ampiamente tra chi si occupa di questi temi. Chi si e' occupato del Progetto Contorta per l'Autorita' Portuale ha avuto accesso al piano e lo ha letto. Il mancato riferimento al piano non e' dunque dovuto a una mancanza di informazioni. Tutt'altro. Quel che spero si capisca dalla lettera è che nel passaggio del Progetto Contorta presso il Magistrato alle acque, che sta da tempo discutendo il piano morfologico, NON e' possibile far finta di dimenticare il piano morfologico stesso. A meno che non lo si voglia fare di proposito». Speriamo che l'Autorità portuale che conta per il suo progetto "dell'appoggio di tanti ministri" come abbiamo sentito dichiarare da Costa nella sua presentazione del progetto, non sia tra "gli ostacoli" che da anni impediscono l'approvazione del Piano Morfologico (m.p.r.).
Coraggio e Terra!, 6 agosto 2014
Come sigle, associzioni e cittadini attivi nella difesa e per la valorizzazione delle #TerrePubbliche nel contesto romano e laziale, siamo tenuti ora ad un salto di qualità: adesso sono di tutta Italia le terre pubbliche concretamente minacciate di vendita. Sulla vendita delle terre pubbliche, infatti, si chiude una porta e si apre un portone.
Mentre molte Regioni vanno nella direzione di regolamentare affitti e bandi per la gestione virtuosa del patrimonio pubblico – escludendo l’ipotesi di alienazione – nel panorama nazionale il Ministero delle Politiche Agricole (ministro Maurizio Martina), di concerto con quello di Economia e Finanze (ministro Padoan), firma il decreto dal titolo“Terrevive” … vive ancora per poco!
Perché oltre a proporre la vendita dell’80 per cento del patrimonio agricolo finora censito tra i beni del Demanio e degli Enti pubblici, ne garantisce un vincolo d’uso di soli vent’anni.Un piatto ghiotto, quindi, per chi voglia fare speculazione (di natura anche non agricola) su terre vendute sotto costo, e dovendo aspettare solo 20 anni per il cambio di destinazione d’uso.
Si dice che la decisione sia in favore anche del ricambio genrazionale e delle nuove generazioni, ma i terreni di valore superiore ai 100.000 euro saranno venduti con asta pubblica, sbaragliando ogni possibilità di accesso a giovani agricoltori, dando altre terre (inoltre pubbliche) a chi terre ed imprese già ne ha, avendo la capacità di fare acquisti di così grande valore. Un favore ai soliti noti, alle grandi famiglie d’Italia e ai loro rampolli. Nessun impegno sull’agricoltura e nessuna convenienza economica reale per il Paese.
Una istituzione che vende beni pubblici, perde le sue garanzie di credibilità finanziaria, perde patrimonio non recuperabile in altro modo, perde risorse su cui costruire uno sviluppo trasparente per il bene comune. Nelle manifestazioni di ormai due anni fa sotto il Ministero chiedevamo di pubblicare gli elenchi dei terreni del Demanio e degli Enti, ma non per favorirne la vendita. Ora più di 5000 ettari rischiano per l’80% l’alienazione, in attuazione dell’articolo 66 del decreto 1/2012.
Manteniamo l’attenzione sul tema: pianificheremo operazioni comunicative, concrete e coordinate, valutando insieme proposte. Fate girare questo appello, se pensate sia utile.
Di questi tempi, l'informazione su un atto amministratico così ovvio non meriterebbe neppure una segnalazione. Nei giorno dello SbloccaItalia e della Legge Lupi appare come un gesto controcorrente: una buona notizia. Corriere della Sera, 7 ottobre 2014
Il Consiglio dei ministri ha deciso di impugnare la legge regionale della Campania, collegata alla Finanziaria regionale 2014, che prevede «Interventi di rilancio e sviluppo dell’economia
regionale nonché di carattere ordinamentale e organizzativo».
«Se soltanto il 5 per cento delle risorse destinate alle grandi infrastrutture fosse indirizzato a moderni sistemi pubblici di car-sharing e neo-autostoppismo, ci sarebbero molte meno auto nelle strade. Meno auto in coda. Meno inquinamento e forse più socialità». Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2014
Autostrade, raccordi, anelli tangenziali, concessioni, project financing, Sblocca Italia oggi, Legge Obiettivo ieri. Miliardi di euro per fantomatiche opere pubbliche. Cemento e asfalto per realizzare infrastrutture che dovrebbero, queste le intenzioni delle istituzioni pubbliche, aiutare la mobilità dei cittadini.
Non è questa la sede per affrontare le critiche al decreto Sblocca Italia e la devastazione ambientale che potrebbe portare con sé. Ci ritorneremo, magari con una parentesi di questa rubrica. Ma tutta la retorica del fare, delle grandi opere, ha sostanzialmente fatto intravedere ai cittadini italiani un grande sogno: basta con il traffico! Stop alle lunghe code! L’Italia si muove!
Quando i vari premier, di ogni colore politico, si presentano in tv e tracciano sulla grande cartina del Belpaese tante linee colorate per quante sono le nuove vie di comunicazione che promettono di regalare agli italiani, il telespettatore-automobilista sogna.
Sogna ad occhi aperti. Come un moderno Fantozzi. “Alle 8 in punto suonerà la sveglia. Barba e doccia. Uscirò fresco come una rosa dal garage. Imboccherò la nuova superstrada che passa proprio li, a due passi dal mio quartiere. Via veloce a 130 chilometri all’ora lungo l’asfalto liscio e pulito. Potrò fermarmi a fare colazione all’autogrill. Poi, sterzata a destra, ecco la mia uscita. Direzione centro città. Sopra la nuova sopraelevata. Parcheggio sotterraneo. Ascensore. Ufficio. Dalla sveglia alla scrivania: 45 minuti.” Sogna il telespettatore. Sogna. Si sente in sintonia con il Gallo Cedrone: “Finalmente se score signori…”. Poi, il brusco risveglio. La benzina è sempre più cara. Le strade esistenti sono un colabrodo. Le autostrade nuove sono care. I treni, dove ci sono, sono fatiscenti e sempre in ritardo. Dalla sveglia di casa alla scrivania (per i fortunati che hanno un lavoro) 2 ore e 40. Questo avviene perché le istituzioni, a tutti i livelli, hanno poca fantasia, oppure devono accontentare la lobby del cemento e dell’asfalto. Perché se si invertissero le proporzioni tra risorse per la mobilità privata e risorse per i pendolari la situazione sarebbe ben diversa.
O magari, se soltanto il 5 per cento delle risorse destinate alle grandi infrastrutture fosse indirizzato a moderni sistemi pubblici di car-sharing e neo-autostoppismo, ci sarebbero molte meno auto nelle strade. Meno auto in coda. Meno inquinamento e forse più socialità. Abbondano le idee, le apps per smartphone e i siti internet (clacsoon.com , blablacar.it, roadsharing.com e tanti altri). Ma il nostro tweet-premier nella cartella hashtag per la mobilità ha solo le opzioni #asfalto #autostrade #concessionarie e vedrete come le twitterà veloce grazie allo #sbloccaitalia.
Ciò che colpisce di più, in questa lettura desolatamente obsoleta di alcuni processi sociali in corso, è la sostanziale assenza delle discipline territoriali, o almeno di un punto di vista vagamente interdisciplinare, come il tema meriterebbe. La Repubblica, 7 ottobre 2014, postilla (f.b.)
L’esodo dalle città verso la provincia non è un fenomeno solo italiano. Riflette il deterioramento della qualità della vita e dell’ambiente soprattutto nelle periferie urbane. Dove si addensano i flussi migratori. Dove, al tempo stesso, il sistema residenziale e il paesaggio si sono degradati. Così, quelli che possono, se ne vanno. Per echeggiare il linguaggio dell’ecologia sociale: “evadono” dalle città e si “rifugiano” nei paesi più piccoli. Possibilmente, non lontano dai centri urbani, perché, comunque, le città restano il principale luogo di offerta di servizi. L’Italia, d’altronde, è un Paese di compaesani (come ha osservato il sociologo Paolo Segatti). La “provincia”, il mondo dei piccoli paesi e delle piccole città, d’altronde, è, ancora, fonte di soddisfazione, personale e sociale. Anzitutto, perché offre una rete di relazioni più fitta.
Tra coloro che risiedono in comuni con meno di 10 mila abitanti, 7 persone su 10 affermano di avere legami e conoscenze con i vicini di casa. Oltre i 30 mila abitanti, la quota scende a poco più del 50% e negli agglomerati metropolitani, con più di 500 mila abitanti, al 40% (Indagini Demos). Di conseguenza, al crescere della dimensione urbana cresce anche il senso di solitudine. Che affligge il 26% di coloro che vivono nelle metropoli, ma solo il 18% nelle località più piccole. Nei piccoli centri, inoltre, risultano più elevate la soddisfazione economica e la fiducia nel futuro. Perché stare in mezzo agli altri, considerarsi parte di una “comunità”, abbassa il sentimento di vulnerabilità sociale. Proprio la provincia italiana, soprattutto nel Centro-Nord, peraltro, negli ultimi trent’anni, ha espresso il maggior grado di crescita economica, grazie allo sviluppo della piccola e piccolissima impresa, sostenuta dal ruolo della famiglia e dell’associazionismo. E dall’importanza del lavoro come valore. Anche per questo, la “provincia italiana” è divenuta, in effetti, “capitale”. Del benessere sociale e dello sviluppo economico. Tuttavia, i vantaggi del piccolo mondo locale, negli ultimi anni, si sono ridimensionati. Mentre emergono problemi, sempre più evidenti.
Anzitutto, l’ambiente e il paesaggio si stanno degradando. Lo sviluppo economico impetuoso del passato recente oggi è in declino. Ma ha ridotto molte aree di provincia in agglomerati di aziende e capannoni. Altrove, in micro- quartieri dormitorio. La diffusione urbanistica, spesso, è avvenuta senza regole. All’italiana. Così, la provincia ha smesso di essere accogliente come un tempo. Mentre il “localismo”, come sentimento e identità, si è tradotto in “spaesamento”. Tanto più di fronte all’impatto con la globalizzazione — economica, sociale e cognitiva. Ben testimoniata dall’immigrazione. Così, proprio in provincia, nei paesi più piccoli, oggi incontriamo indici di insicurezza crescenti. Che si traducono in reazioni sociali e (anti) politiche di autodifesa. Intercettate da “imprenditori politici” dello spaesamento, come la Lega. Per questo, occorre evitare che la spinta verso la provincia si traduca in “provincialismo”. E riduca le città in periferie. Abbiamo, invece, bisogno di riqualificare le città, ma anche la provincia. Per fare degli italiani un popolo di compaesani e, al tempo stesso, di cittadini.
postilla
In questo articolo firmato da uno dei più noti e ascoltati studiosi di discipline sociali nel nostro paese, colpisce soprattutto la prospettiva scelta per leggere il fenomeno, che pare in pratica piallata su certe santificazioni del Censis a proposito di distretti paesi e dintorni, del tutto ignare (e scarsamente interessate) ad aspetti che invece parrebbero ovvi, dopo mezzo secolo di critica internazionale alla suburbanizzazione, ai suoi rovesci della medaglia ambientali, sociali, economici. Certo, siamo ancora nel paese in cui basta intravedere qualche rudere di campanile piantato in mezzo allo sprawl per evocare lisergiche nostalgie, e cancellare miracolosamente tutto il resto, almeno finché spunterà la prossima emergenza (il terremoto, la crisi economica, il consumo di suolo, i servizi sociali …). Però da uno studioso di rango ci si aspetterebbe almeno un briciolo di consapevolezza, del fatto che quanto noi chiamiamo “borghi” altrove si chiama più o meno nello stesso modo, ovvero “suburbs”, e non evoca affatto di per sé qualcosa di buono, anche quando c'è qualche fienile qui e là a commuovere l'osservatore. L'occhio critico dovrebbe saper cogliere anche il resto, per esempio le tendenze del tutto opposte di contro-suburbanizzazione (f.b.)
Un titolo un po' schematico per un articolo che racconta abbastanza eloquentemente tutte le miserie della nostra politica quando si tratta di consumo di suolo e ambiente in generale, magari per tirarla lunga e aspettare la bipartisan Legge Lupi. Corriere della Sera, 6 ottobre 2014
Fra i purtroppo numerosi disegni di legge impantanati da mesi e mesi in Parlamento ce n’è uno che aveva fatto storcere il naso a parecchi, fuori e dentro il Palazzo. Certi costruttori lo guardavano come fosse stato il loro epitaffio e certe Regioni si erano inalberate lamentando presunte lesioni alla propria autonomia. L’idea di quel provvedimento era restituire dignità a un territorio meraviglioso come il nostro ma che a partire dal dopoguerra è stato letteralmente stuprato dalla cementificazione selvaggia e dalla speculazione con la fattiva collaborazione della politica. Ancora oggi che le città italiane, dice Legambiente, traboccano di case vuote (250 mila soltanto a Roma) si continua a divorare suolo a ritmo incessante.
Siamo arrivati al punto che in Italia il consumo del suolo, ormai superiore all’8 per cento di una superficie montuosa per oltre un terzo, è praticamente doppio rispetto alla media dei 28 Stati dell’Unione Europea, attestato intorno al 4,3 per cento. La Germania, con una densità di popolazione superiore del 15 per cento alla nostra, un territorio pianeggiante nonché un apparato industriale non inferiore a quello italiano, è al 6,8 per cento.
Per non parlare delle conseguenze per l’agricoltura, che in quarant’anni ha sacrificato al cemento 5 milioni di ettari, una superficie pari a Lombardia, Emilia Romagna e Liguria messe insieme. Con il risultato che la produzione interna non arriva a coprire che il 75 per cento del fabbisogno. E siamo a quel disegno di legge. Il primo che aveva proposto una norma per limitare il consumo del suolo era stato Mario Catania, ex ministro dell’Agricoltura del governo di Mario Monti. Ma il tempo era poco e la melina parlamentare si mise subito in moto: la legislatura finì senza che si potesse fare qualche passo avanti significativo. Catania allora tornò alla carica a maggio del 2013, riproponendo la stessa proposta di legge in qualità di deputato di Scelta civica. Anche qui, però, senza grossi risultati. Per sette mesi il suo testo, insieme a quelli di altre proposte dello stesso tenore, è rimasto chiuso in qualche cassetto.
Finché a febbraio di quest’anno, pochi giorni prima della fine del governo di Enrico Letta, la responsabile dell’Agricoltura Nunzia De Girolamo presenta a sua volta un disegno di legge che ricalca nella sostanza quello di Catania. E nonostante il brusco cambio a Palazzo Chigi, il treno sembra partire speditamente. Il 6 marzo viene costituito a tambur battente un comitato ristretto in commissione alla Camera, con la missione di partorire in fretta un testo condiviso da portare in aula. Quattro riunioni, di cui l’ultima il 28 maggio. Poi più nulla.
Il motivo? C’è chi tira in ballo l’esigenza di aspettare una legge urbanistica. Chi diversamente ricorda le avversioni di una parte del mondo delle costruzioni, lasciando intendere che al blocco non sarebbe estranea l’azione delle lobby. E chi invece parla di incomprensioni fra il ministero dell’Ambiente retto dall’esponente udc di stretta osservanza casiniana Gian Luca Galletti, e quello dell’Agricoltura affidato al lombardo Maurizio Martina, democratico: contrasti sulle competenze che ciascuno dei due rivendica. Qualunque sia la ragione, se questioni di lobby o di potere, oppure soltanto le solite stucchevoli faccende burocratiche, il fatto è che da più di quattro mesi una legge ritenuta urgente è su un binario morto. Dal quale non si sa quando e se potrà muoversi. Intanto, ogni giorno che passa, altri cento ettari di territorio vengono sbranati: alla faccia delle migliaia di appartamenti invenduti, delle periferie urbane che cadono a pezzi, del nostro paesaggio che va in malora.
Corriere della Sera Lombardia, 2 ottobre 2014, postilla (f.b.)
Il gruppo Bennet getta la spugna e si prepara a chiudere l’ipermercato di Cortenuova. Una mossa a lungo temuta che comporterà a cascata la chiusura di tutto il centro commerciale «Le Acciaierie», da anni in crisi. La volontà di abbassare le serrande in «tempi rapidissimi» è stata comunicata ieri pomeriggio ai sindacati. E a giorni dovrebbe essere aperta la procedura di mobilità per i 78 dipendenti diretti dell’ipermercato. Inaugurato nel 2005 il centro «Le Acciaierie» con i suoi 175 negozi su due piani per 44mila metri quadrati e la cupola in legno lamellare a caratterizzarne il profilo, la più grande in una struttura commerciale in Europa, doveva essere il tempio dello shopping nella Bassa. Un mega polo d’attrazione che contava sull’arrivo veloce della Brebemi per alimentarsi. Quasi dieci anni dopo, quando finalmente l’autostrada è stata inaugurata, il suo destino pare segnato a quello di cattedrale nel deserto.
Schiacciato dalla concorrenza il centro è andato piano piano perdendo negozi e marchi commerciali. A tenerlo in vita il fatto che il gruppo Bennet aveva anche acquistato i muri dell’ipermercato. La società della grande distribuzione pesa per il 30% nel consorzio degli operatori del centro commerciale. Quest’ultimo, aumentando le chiusure è andato sempre più in cattive acque, e la Pedroni immobili, detentrice dei locali ha visto aumentare sempre più il peso delle spese comuni diventando il soggetto più esposto. A giugno quando ormai le attività attive erano ridotte a una quarantina e il primo piano chiuso, il consorzio ha chiesto il concordato liquidatorio. Per garantire la continuità la Bennet si è accollata per mesi il costo delle utenze. Una situazione che ora non sembra più sostenibile.
A rendere precaria la situazione anche il problema delle manutenzioni che andrebbero eseguite. «La società ci ha spiegato che in una situazione da cui in un momento all’altro potrebbero venir meno le forniture di energia, gas e acqua e non ci sono più le condizioni per lavorare in sicurezza, non si può continuare l’attività - spiega Alberto Citerio della Fisascat Cisl - . Al momento però non sono state aperte procedure di mobilità. Siamo in un momento di incertezza e l’incontro con la Bennet è stato in qualche modo preventivo per cercare di trovare una soluzione per i dipendenti di Cortenuova. C’è però la volontà di chiudere in tempi brevissimi». «Già nelle scorse settimane la superficie di vendita dell’ipermercato è stata ridotta - aggiunge Maurizio Regazzoni della Uiltucs -.È evidente che senza la Bennet il destino è segnato anche per le quindicina di attività rimaste aperte nel centro commerciale. L’ipermercato paga le scelte operative sbagliate nella gestione del centro negli anni passati. Sono stati fatti scappare grandi marchi. Gli errori nella gestione insieme alla concorrenza del centro di Antegnate che è più piccolo ed è riuscito ad affrontare meglio la crisi, hanno fatto il resto. Anche la famosa Brebemi che doveva essere la soluzione a tutti i problemi in realtà non ha portato beneficio».
Venerdì i sindacati incontreranno i dipendenti e il 10 di nuovo la Bennet. «A Cortenuova lavorano in 78 - precisa Aronne Mangili della Filcams Cisl -, ci sono 65 commessi, 8 apprendisti e 5 addetti alle pulizie. La prima strada che si tenterà è il riassorbimento di parte dell’occupazione a Romano e Albano Sant’Alessandro dove la società gestisce altri due punti vendita, ma gli spazi di manovra non sono molti».
postilla
Fra le cose più brutte che possono capitare, c'è quella di ribadire sconsolatamente “ma noi l'avevamo detto”. E davanti a un segnale chiaro come una enorme scatola vuota, anzi un enorme territorio pieno di scatole potenzialmente vuote, ma abbondantemente quanto inutilmente infrastrutturato e urbanizzato come le ex campagne dell'Albero degli Zoccoli, cascano davvero le braccia. Vanno a finire così, di solito abbastanza presto, tutte le chiacchiere a vanvera sullo sviluppo locale, i posti di lavoro in cambio di trasformazioni edilizie strampalate, la squilibrata contrattazione fra operatori senza scrupoli e amministratori senza cervello, nonché senza alcuna propensione ad ascoltare chi prova ad avvertirli. Se lo ricordino, quelli che ancora adesso ridacchiano perché la Bre.Be.Mi. è vuota, o quelli che piagnucolano aspettando che altri cantieri portino il sempre spergiurato sviluppo: è tutto una enorme fregatura, e ci lascia naufraghi in un deserto. Per i dettagli basta leggere qualche campione scelto di quanto si pubblicava più o meno una decina di anni fa a proposito: Uovo di Serpente, oppure Hic Sunt Peones Ma che infinita tristezza! (f.b.)
Qualche considerazione sull'oggi dal quotidiano online Today
Il Movimento No TAV e l’Opposizione francese alla Lyon-Turin richiamano l’attenzione degli organi di informazione sui ritardi dell'opera e sulla consistente perdita di finanziamenti europei. Notav.info, 4 ottobre 2014
La Torino-Lione è pronta a perdere altri 33 milioni di euro di contributi europei. E’ ufficiale: lo scavo del Tunnel de La Maddalena non sarà ultimato entro il termine perentorio fissato dall’Unione Europea del 31 dicembre 2015. A sconfessare tutti i pomposi annunci governativi è la stessa LTF (la società pubblica italo-francese cui è affidata l’opera): nelle sue ultime gare di appalto, pubblicate questa estate, la fine lavori è indicata a dicembre 2016. Ancora più pessimista il Ministero delle Infrastrutture: il suo sito web comunica che la galleria sarà finita solo a giugno 2017. Eppure la Commissione Europea era stata chiara: nessun contributo sarà erogato per lavori svolti oltre il termine. Sconti e indulgenze sono passati di moda a Bruxelles.
Strano ma vero, a dirlo sono proprio loro. L’11 giugno 2014 LTF pubblica un avviso di gara di appalto per il monitoraggio ambientale sullo scavo del Tunnel de La Maddalena. LTF richiede di indicare il costo di tali servizi «jusqu'au PK 7+741 environ (qu'il est actuellement prévu d'atteindre en décembre 2016)» ovvero fino a 7741 metri di scavo “che attualmente si prevede di raggiungere nel dicembre 2016” (1). Le pagine “Cantieri Italia” del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti pubblicano i dati ufficiali e aggiornati delle opere finanziate dal CIPE. La scheda “Cunicolo esplorativo de La Maddalena in variante” non lascia spazio ad interpretazioni: “Fine lavori: Data Prevista: giugno 2017” (2).
Solo metà galleria? Perso metà contributo. Nel marzo 2013 la Commissione Europea è costretta a revocare metà dei contributi agli studi preliminari per la Torino-Lione, in quanto “per via di ulteriori ritardi, l’azione non potrà essere portata a termine entro il 31 dicembre 2015. Si è dovuto pertanto aggiornare l’ambito dell’azione per includervi unicamente le attività che potranno effettivamente essere realizzate.” (3).
Oggi, dopo 39 mesi dall’apertura del cantiere, LTF ha scavato appena il 17% dei 7541 metri totali del tunnel geognostico (4). E non finirà prima di dicembre 2016, forse giugno 2017, forse oltre. La decisione UE è perentoria: sarà erogato il contributo esclusivamente su quanto realizzato effettivamente entro la “data di completamento dell'azione: 31.12.2015”. Ad allora, al ritmo attuale, LTF non sarà che al 50% dello scavo. Quindi metà dell’importo non risulterà finanziabile perché fuori tempo massimo. Il conto è presto fatto. L’intero Tunnel de La Maddalena sono 131,6 milioni € di costo ammissibile, metà Tunnel non realizzato vale 65,8 milioni €. Qui il contributo UE coprirebbe il 50%, quindi si perdono 32,9 M€.
L’Europa non starà a guardare. Il 30 settembre scorso alcuni eurodeputati del nuovo Parlamento Europeo hanno incalzato Maroš Šefčovič
, candidato Commissario ai Trasporti, nel corso della sua audizione, per richiamare la sua attenzione sulla necessità di una revisione delle decisioni sul progetto Torino-Lione, inutile, esorbitante e sottostimato. Una riunione al Parlamento Europeo di Bruxelles avrà luogo il 14 ottobre per scambiare conoscenze tra esperti No TAV ed eurodeputati e per migliorare il dialogo tra cittadini e istituzioni europee affinché i nuovi deputati possano argomentare le loro posizioni in vista delle decisioni che il PE dovrà assumere nei prossimi mesi sul progetto della Torino-Lione (5)
Numerosi eurodeputati invieranno interrogazioni scritte al nuovo Commissario ai Trasporti, non appena sarà nel pieno dei suoi poteri, con riferimento all’inutilità del progetto, alla cattiva gestione dei lavori in corso a La Maddalena, e alla necessità che il co-finanziamento europeo sia erogato a progetti sicuramente utili e con ritorno economico rapido proprio con riferimento alla necessità di risanamento dei bilanci di Italia e Francia. Una richiesta di esame delle attività svolte da LTF sarà inviata anche alla Corte dei Conti e all’OLAF.
Le ultime parole famose di Lupi e Virano, Il 15 luglio 2014, durante una visita al cantiere de La Maddalena, il Ministro Lupi conferma che «i tempi di conclusione al 31 dicembre 2015 dell'intero tunnel saranno rispettati» (6). Peccato sia sconfessato in contemporanea proprio dal suo stesso Ministero, il cui sito segnala già un ritardo di un anno e mezzo rispetto alle “garanzie” del Ministro. L’8 settembre 2014 il Commissario Virano rincara dicendo che “gli scavi di Chiomonte per la Tav Torino-Lione«stanno procedendo senza reali problemi ed è confermata la previsione di terminarli entro la fine del 2015» (7). Un’affermazione che ha dell’incredibile, in plateale contraddizione con quanto indicato in appalti pubblici usciti solo due mesi prima. Il Commissario controlla l’operato di LTF o si affida all’immaginazione?
Confrontate con le banali informazioni di immediata consultazione pubblica qui richiamate, le roboanti quanto compulsive rassicurazioni di ministri e commissari si salvano a malapena dal ridicolo. In un paese normale la conclusione sarebbe una sola: dimissioni.
Dossier
Il dossier con la documentazione completa è disponibile qui, nel sito NoTAV:
Note e riferimenti
(1) LTF - Lyon Turin Ferroviaire, Francia-Chambéry: Servizi di consulenza in ingegneria ambientale, 2014/S 110-195236, Avviso di gara – Settori speciali, Servizi, II.2.1
(2) Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Cantieri Italia, Cunicolo esplorativo de La Maddalena in variante, Cronoprogramma dell'opera
(3) Decisione della Commissione C(2013)1376 5.3.2013
(4) LTF - Lyon Turin Ferroviaire, http://www.ltf-sas.com/accueil-italien/
(5) http://www.presidioeuropa.net/blog/?p=5025
(6) Adnkronos, “Tav: Lupi, ad agosto riunione task force su opere compensazione”, 15 luglio 2014,
(7) Ansa, “Tav: Virano, si procede senza problemi”, 8 settembre 2014,
«Dura lettera inviata al Corila da parte di due ingegneri dell’Università di Padova. "Quello che vediamo circolare", scrivono gli ingegneri della facoltà di Idraulica, "è un testo diverso da quello preparato in origine"». La Nuova Venezia, 5 ottobre 2014 (m.p.r.)
Clamorosa dissociazione nel gruppo di tecnici che sta concludendo la proposta per il nuovo Piano morfologico della laguna. Due ingegneri dell’Istituto di Idraulica dell’Università di Padova, Stefano Lanzoni e Marco Marani, hanno inviato una dura lettera al presidente del Corila Pierpaolo Campostrini, che coordina gli studi. Contestano in particolare l’inserimento nel Piano della tematica portuale. «Nel punto E2 in particolare», scrivono, «sono contenute affermazioni sul futuro della portualità veneziana che non competono al Piano e non riguardano questioni morfologiche». Dubbi vengono avanzati dagli ingegneri anche sugli scenari di innalzamento del medio mare contenuti nel Piano. L’accusa che fa discutere la comunità scientifica è in sostanza quella di aver messo a punto una versione di documento che in qualche modo potrebbe giustificare scientificamente il grande scavo del canale Contorta. I cui danni, come sostiene il Porto, potrebbero essere limitati con la costruzione di velme e barene artificiali.
Il territorio, nella sua accezione ampia, è il luogo in cui si incrociano e manifestano tanti elementi della complessità, ma l'abitudine a fidarsi del camice bianco ci tradisce. La Repubblica, 5 ottobre 2014, postilla (f.b.)
Da mesi seguo i copiosi interventi che si susseguono sulla stampa italiana a proposito di organismi geneticamente modificati, devo ammettere che qualcosa non mi è chiaro. La prima perplessità nasce quando chi si dichiara a favore degli Ogm destinati all’alimentazione umana sembra ritenersi, per ciò stesso, autorizzato a concedere patenti di scientificità o di emotività. La scientificità va a chi concorda con le sue opinioni, tutti gli altri sono vittime dell’emotività. Questo non riguarda solo le persone, ma anche le pubblicazioni: gli studi a supporto delle tesi pro-Ogm vengono citati come scientificamente validi; quelli che indagano su problemi — a livello ecologico, economico o giuridico — legati a quelle coltivazioni e al consumo di quei prodotti invece non esistono, non sono affidabili, oppure non sono, indovinate? scientifici.
Del resto tutti sanno o dovrebbero sapere, che il mondo scientifico è tutt’altro che concorde su questo argomento. Ma tant’è in questo momento chi si presenta tenendo alta la bandiera della scientificità pro-Ogm suscita più attenzione di chi con curricula altrettanto rispettabili, posizioni accademiche indiscusse e valanghe di pubblicazioni all’attivo, ritiene che quei prodotti non siano una scelta opportuna per la nostra agricoltura, per la nostra economia e — nel senso più complesso e completo — per la salute dei nostri ecosistemi.
Quello che mi diverte osservare, però, è che a fronte di tanta agitazione a mezzo stampa, le aziende produttrici non fiatano. Il New Yorker si lancia, con sacro furore, contro una persona che ha un nome e un cognome, la mia amica e compagna di tante riflessioni e battaglie, Vandana Shiva; una senatrice della nostra repubblica si schiera a supporto di quanto scritto da quella rivista; ma mentre tutti si scaldano così tanto, le voci dei protagonisti non si sentono.
D’altronde questa è la principale caratteristica delle multinazionali che si occupano del nostro cibo (e spesso anche delle malattie correlate, quindi dei nostri farmaci): non si sanno i nomi dei responsabili delle scelte che fanno. Se la fondazione Navdanya prende una posizione, trovare Vandana Shiva è la cosa più semplice del mondo, si fa un numero di telefono e lei risponde di sé e di quel che ha fatto o deciso. Quando invece parliamo di Monsanto, Syngenta, Bayer sembra di parlare di società anonime, non si sa chi c’è, cosa pensa, cosa vuole e che progetti ha, perché non c’è modo di associare un nome a un’azione. Questo, se ci penso bene, non mi piace affatto. Perché in generale un po’ di trasparenza e rintracciabilità, quando si parla di cibo, farebbe piacere, a tutti i livelli, etichette comprese.
Ma — per quanto possa sembrare paradossale — tutto quel silenzio ha anche un lato positivo. Le multinazionali, parrebbe, tacciono ma ascoltano. Nel mese di agosto, la Monsanto ha comunicato al mondo che visto che in generale le popolazioni europee non sembrano propense al consumo di Ogm e che non c’è un forte appoggio politico, l’azienda, in Italia, si concentrerà sulle varietà di mais non Ogm, studiando varietà per l’agricoltura convenzionale, con particolare attenzione al risparmio idrico. Così la situazione è abbastanza surreale: da un lato i giornali si fanno in quattro per difendere gli Ogm in Italia, gli “scienziati veri” gli danno una mano, alcuni agricoltori arrivano addirittura a seminare illegalmente mais Ogm con tutto quel che ne consegue in termini di provvedimenti e — ancora! — spazi sui giornali, e tutto questo senza prendere mai in considerazione le volontà, chiaramente espresse, dei cittadini; dall’altro l’azienda che dovrebbe beneficiare di tanto scalmanarsi in sua difesa che fa? Prende atto dell’ostilità del pubblico italiano e dice d’accordo, cambiamo strategia, in Italia lavoreremo sul mais convenzionale. È interessante, come fenomeno.
Le ragioni del no agli Ogm in agricoltura, si basano su considerazioni più complesse e articolate del ritornello “fa male/non fa male”, “conviene/ non conviene”: esse riguardano un modello di agricoltura, alimentazione, ecologia, solidarietà, sviluppo, cultura ed economia che abbiamo già raccontato mille volte e che viene praticato ogni giorno, sia dagli agricoltori sia dai consumatori sia dalle tantissime associazioni della task force per un’Italia libera da Ogm le quali, e tra queste c’è Coldiretti, lavorano per proteggere filiere compromesse anche da normative insensate. Sono ragioni che riguardano da vicino un modo rispettoso, prudente e gentile non solo di fare reddito, ma anche di fare scienza.
Chi porta ad esempio la Spagna dimentica la significativa quota di biodiversità che questa nazione ha perso aprendo alle coltivazioni Ogm e con essa la sua immagine nel campo agroalimentare di qualità. La Francia ha infatti detto no agli Ogm proprio per difendere le sue produzioni tipiche, fonte economica importante. Negli stessi Stati Uniti il dibattito sull’inutilità di queste coltivazione è in costante crescita. Così come cresce in ogni parte del mondo la produzione di mangimi Ogm free , e la questione del benessere animale trova sempre più consensi e buone pratiche. Tutti questi comportamenti fanno parte di un pensiero scientifico in grande espansione.
Ma la ragione principale si chiama sovranità alimentare, ed è una bellissima espressione, coniata quasi vent’anni fa da La Via Campesina, per indicare il diritto di ogni paese (e dunque dei suoi cittadini, del suo popolo) ad avere il controllo politico su quel che si coltiva e si mangia sul proprio territorio, cioè a decidere le proprie politiche agricole in base alle proprie necessità nutrizionali, economiche, culturali ed ecologiche. Questo diritto è fondamentale per il benessere di un popolo, quel benessere che non si misura con il Pil ma con strumenti ben più accurati e — lasciatemelo dire — scientifici: si misura andando a rilevare la quantità di glifosato presente nelle acque di falda, si misura monitorando le incidenze di determinati tipi di tumori, si misura rilevando le competenze alimentari diffuse tra le giovani generazioni, si misura in termini di identità, quella stessa identità che rende così economicamente rilevante il nostro made in Italy, il quale — e parlo da gastronomo — non si valuta all’atto della vendita o della degustazione, non inizia quando ci si siede a tavola davanti a un piatto. Il made in Italy inizia quando un agricoltore decide cosa seminare e sceglie un seme che a sua volta ha una storia, un’identità e un legame con un luogo.
postilla
Qualche lettore di Eddyburg forse si ricorderà di un appello lettera aperta pubblicato anni fa a proposito di energia nucleare, a contestare nel metodo esattamente quanto qui Petrini chiama la contrapposizione fra scienziati veri, obiettivi, e approccio emotivo, sotto sotto superstizioso, che si oppone al progresso umano esclusivamente sulla base dell'istintiva diffidenza verso ciò che turba il proprio primitivo animalesco ordine mentale. Diceva, quell'appello poi ripreso in forme lievemente diverse anche su una pubblicazione tematica di Italia Nostra, che una centrale nucleare, esattamente come una produzione Ogm, è difficile da assimilare a una provetta, o a un centro ricerche in un dipartimento universitario, mentre va letta invece nei suoi rapporti col territorio, e quindi alla luce delle discipline territoriali, le quali non sono meno scientifiche di altre solo perché i loro cultori non indossano un camice bianco, magari sulle pagine dei giornali a dare maggior autorevolezza e respiro universale al loro punto di vista. E il concetto di sovranità alimentare citato sempre da Carlo Petrini, invece, queste competenze e prospettive le comprende eccome, proiettandole appunto sul territorio e le sue dinamiche reali, a cui i camici bianchi dovrebbero fare il favore di portare un minimo di rispetto, almeno quando escono dal laboratorio. A meno che non considerino, dall'alto delle proprie conoscenze, comunità scientifica solo il campo allargato delle loro parziali ricerche, luogo legittimato a ricomporre ogni contraddizione. Ma siamo certi che non è così (f.b.)
Cfr. Il Territorio del Nucleare, Eddyburg Archivio ottobre 2010
Left Avvenimenti, 4 ottobre 2014
Una delle “grandi opere” del Giubileo 2000 doveva essere il sottopasso di Castel Sant’Angelo, un tunnel che sarebbe partito da lontano e, che passando sotto le fondamenta della Mole Adriana, avrebbe fatto rispuntare il traffico dopo il Santo Spirito. Scendemmo nelle viscere dell’imponente castello poggiato dai Romani su uno zatterone di marmo. I tecnici ci indicavano le grandi fenditure nei muri: la Mole stava “aprendosi” verso il fiume. Il soprintendente ai Beni architettonici, Francesco Zurli, taceva. Parlò quello ai Beni archeologici, Adriano La Regina e pose il proprio veto decisivo. Lo chiamavano già il “signor NO” e da allora lo fu anche di più. Pochi però ricordano il restauro dei Fori curato da lui coi fondi (ben 120 miliardi in più annualità, anche quelli dimenticati) di una legge speciale voluta dal ministro Oddo Biasini. Pochi rammentano che il vero restauro strutturale del Colosseo lo curò sempre il “signor NO” coi 40 miliardi dati, quasi in silenzio, dalla Banca di Roma nei primi anni ‘90.
Il 47 % del Belpaese è protetto da vincoli paesaggistici posti dalle leggi Bottai (1939) e Galasso (1985). Ma gli architetti dello Stato vigilanti su di essi sono appena 487. In calo. Devono ovviamente occuparsi anche di 20mila centri storici (almeno mille mirabili), di migliaia di palazzi antichi, di 95mila fra chiese e cappelle, insieme agli storici dell’arte anche meno numerosi di loro (453). Molti sono anziani: da anni non si fanno concorsi.
Le “belle arti” - così le chiama la gente - hanno fama di bloccare questo e quello in un Paese peraltro insofferente di regole e vincoli. Tanto da essere devastato per oltre metà dagli abusi. Non sono quindi per niente popolari queste “sentinelle della tutela” destinate ad attuare, come possono, con fondi minimi, stipendi all’osso (i funzionari guadagnano 1700-1800 euro), rimborsi risibili per le missioni, l’art. 9 della Costituzione.
Non erano però mai state, neppure sotto Berlusconi, il bersaglio fisso di sindaci e assessori, anche del Pd, e dello stesso premier, Matteo Renzi, già da sindaco di Firenze. Ma sono così tanti i “no” delle Soprintendenze ai 100mila ricorsi edilizi e urbanistici annuali? Macché: appena il 2-3%. Tardano? Per forza, i tecnici che li esaminano sono appena 230 in tutta Italia. Esercitano “un potere monocratico”? Finora sì, come una équipe di scienziati, o di chirurghi. Mica chiedono un parere ai politici. Ma è proprio questo che risulta indigeribile. Difatti Decreto Franceschini e Sblocca Italia pongono ai pochi funzionari, stracarichi di pratiche complesse, termini perentori per rispondere. Addio controlli. E la Costituzione?.
«Vorrei precisare che noi siamo studiosi indipendenti, e adesso formuleremo le osservazioni al Sia, lo Studio di Impatto ambientale del progetto Contorta». Due domande: da chi è pagato il Corila? quando gli studiosi indipendenti mostreranno le carte? La Nuova Venezia, 3 ottobre 2014
Gli esperti di Ca’ Farsetti. Ma anche una consulenza esterna affidata al Corila, il Consorzio universitario della ricerca presieduto dal presidente del Cnr Fabio Trincardi. Potrebbe concretizzarsi già nelle prossime ore la richiesta avanzata dal commissario Zappalorto - in particolare dal suo vice Natalino Manno - per poter contare sull’apporto del Corila per fornire il parere richiesto al ministero dell’Ambiente sul progetto di scavo del nuovo canale Contorta Sant’Angelo. Una iniziativa giustificata dal fatto che il Comune non disporrebbe di tutte le competenze necessarie.
In realtà gli esperti c’erano, istituiti dalla prima giunta Cacciari. Gli stessi che avevano espresso parere negativo sul progetto Mose. Ma il gruppo venne sciolto nei primi anni Duemila, con l’arrivo dell’amministrazione Costa. Adesso ci sono i dirigenti degli uffici, l’Ambiente in primo luogo. Si tratta di dare un parere sulla proposta di scavare il nuovo canale in laguna centrale. Progetto elaborato dall’Autorità portuale diretta da Paolo Costa. Trenta giorni di tempo per esprimere il parere che poi andrà valutato dalla commissione nazionale Via. Integrata, ha comunicato il direttore generale Mariano Grillo, dal dirigente della Regione Giuseppe Fasiol.
Polemiche a non finire sulle procedure scelte e i tempi accelerati della Legge Obiettivo. E anche sulle conseguenze che lo scavo di un canale del genere potrebbe avere per la laguna. «La laguna fra degrado morfologico, improbabili miti e voglie ingorde degli uomini», è il titolo dell’intervento che Luigi D’Alpaos, tra i massimi esperti di idraulica della laguna, terrà all’Istituto veneto il 9 ottobre. Il Porto gli contrappone Attlio Adami, idraulico in pensione, che sostiene come gli effetti dello scavo siano «minimi».
E adesso toccherà al Corila. Il direttore Pierpaolo Campostrini è lo stesso che ha guidato il Consorzio negli ultimi anni. E portato a termine il nuovo Piano morfologico della laguna. Che prevede la costruzione di nuove velme e barene per arginare l’erosione dei sedimenti. Proprio quello che si vuole fare con il Sant’Angelo, da dove saranno scavati 6 milioni e mezzi di fanghi da reimpiegare come argini, velme e barene. «Non abbiamo mai dato parere sul Mose, ma bocciato le alternative presentate», dice. E aggiunge: «Vorrei precisare che noi siamo studiosi indipendenti, e adesso formuleremo le osservazioni al Sia, lo Studio di Impatto ambientale del progetto Contorta». Il parere dovrà essere concluso entro il 18 ottobre.
omune.info, 1 ottobre 2014 (m.p.r.)
Il movimento per l’acqua per tutto l’autunno portò avanti la campagna “Salva l’acqua” raggiungendo l’importante risultato di mettere al centro del dibattito pubblico il tema della privatizzazione dell’acqua e dei beni comuni. Nonostante ciò il decreto divenne legge. Quei mesi di mobilitazione risultarono, però, utili alla costruzione della campagna referendaria avviata con la raccolta firme nella primavera del 2010 e proseguita fino al voto del 12 e 13 giugno 2011 con lo straordinario risultato di 27 milioni di italiane e italiani che decisero di schierarsi a difesa dell’acqua e dei beni comuni.
La rilevanza di quel risultato, tra le altre cose, sta nell’aver messo in discussione alla radice le politiche neoliberiste ponendo un argine al dilagare del mercato. Proprio per questo, sin dalle prime settimane, l’esito referendario fu messo sotto attacco. Le istituzioni europee sono state le prime ad accorgersene. E quando c’è da difendere gli interessi dei capitali finanziari le risposte non si fanno attendere. Il 5 agosto Trichet e Draghi, a capo della Bce, inviarono una lettera al governo in cui si ribadiva l’esigenza di rilanciare “una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, (…) attraverso privatizzazioni su larga scala“. Ovvero, è necessario dare immediatamente un segnale forte per cui le formule liberiste alla base delle politiche economiche europee non possono subire rallentamenti, a maggior ragione se questi derivano dall’espressione della volontà popolare tramite strumenti di democrazia diretta come il referendum.
Il governo Berlusconi già traballante, non ci mise più di una settimana a dare un segnale incontrovertibile di sudditanza alla Bce e ai suoi diktat. Il 13 agosto varò la cosiddetta manovra economica bis, uno dei provvedimenti più irrispettosi delle regole democratiche che il nostro paese abbia conosciuto. L’articolo 4 era, di fatto, uno schiaffo ai 27 milioni di votanti al referendum. Infatti veniva riproposta la stessa normativa abrogata dai referendum, pur con la foglia di fico di tenerne fuori l’acqua. Solo un anno dopo la Corte costituzionale, sollecitata da diverse regioni, censurò nettamente quell’articolo proprio perché in contraddizione con l’esito referendario.
Oggi, a distanza di tre anni, ci troviamo in una situazione molto simile. La novità più pesante, però, è l’approfondimento della crisi economica e sociale. Nonostante ciò al governo italiano vengono imposte le solite ricette che passano attraverso riforme strutturali. Riforme che si basano sempre sugli stessi principi: deregolamentazione, riduzione dei diritti, privatizzazioni e in generale allargamento della sfera d’intervento del privato a scapito di quella pubblica. Da ciò deriva che il governo attuale, entro il termine dei sei mesi di presidenza di turno dell’Ue, quindi entro fine anno, deve necessariamente portare qualcosa al tavolo della trattativa europea. Per questo sta accelerando sulle riforme istituzionali, su quelle che riguardano il mondo del lavoro, la scuola, il rilancio delle privatizzazioni e più in generale una rinnovata mercificazione del territorio e dei beni comuni.
Ed ecco che la storia si ripete, anche questa volta per garantire gli interessi dei mercati e delle lobbies finanziarie. Come nel 2011, al rientro dalla pausa estiva, il consiglio dei ministri vara un decreto, lo “Sblocca Italia”, che segnala un deciso cambio di fase nelle politiche governative costruendo un piano complessivo di aggressione ai beni comuni tramite il rilancio delle grandi opere, misure per favorire la dismissione del patrimonio pubblico, l’incenerimento dei rifiuti, nuove perforazioni per la ricerca di idrocarburi e la costruzione di gasdotti, oltre a semplificare e deregolamentare le bonifiche.
Ma la continuità con il passato appena descritto si apprezza nel fatto che questo provvedimento mira di nuovo alla privatizzazione del servizio idrico. Infatti, si modifica profondamente la disciplina riguardante la gestione dell’acqua arrivando ad imporre un unico gestore in ciascun ambito territoriale e individuando, sostanzialmente, nelle grandi aziende e multiutilities, di cui diverse già quotate in borsa, i poli aggregativi.
Ciò si configura come un primo passaggio propedeutico alla piena realizzazione del piano di privatizzazione e finanziarizzazione dell’acqua e dei beni comuni che il governo sembra voler definire compiutamente con la Legge di Stabilità. In questo provvedimento, probabilmente, verranno inserite quelle norme, in parte già presenti nelle prime versioni del decreto circolate all’indomani del consiglio dei minsitri di fine agosto, volte a imporre agli Enti Locali la collocazione in borsa delle azioni delle aziende che gestiscono servizi pubblici, oltre a quelle che costringono alla loro fusione e accorpamento secondo le prescrizioni previste dal piano sulla “spending review”. Si arriverebbe, addirittura, a costruire un vero e proprio ricatto nei confronti degli Enti Locali i quali, oramai strangolati dai tagli, sarebbero spinti alla cessione delle loro quote al mercato azionario per poter usufruire delle somme derivanti dalla vendita, che il governo pensa bene di sottrarre alle tenaglie del patto di stabilità.
Con il decreto “Sblocca Italia” si svelano, dunque, le reali intenzioni del governo, ovvero la diretta consegna dell’acqua e degli altri servizi pubblici locali agli interessi dei grandi capitali finanziari. Infatti, la strategia governativa, pur ammantandosi della propaganda di riduzione degli sprechi e dei costi della politica mediante lo slogan “riduzione delle aziende da 8.000 a 1.000”, non garantirà certamente l’interesse collettivo ma solo quello economico e di massimizzazione dei profitti delle grandi aziende multiutilities che già gestiscono acqua, rifiuti e trasporto pubblico locale.
La battaglia per il diritto all’acqua, che il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua porta avanti da quasi dieci anni, si inserisce esattamente in questo contesto e finora ne ha saputo cogliere i limiti e le debolezze, riuscendo ad ottenere diverse vittorie, a partire da quella referendaria. E’ evidente, però, che oggi si rischia di essere costretti ad una posizione difensiva, dovuta ad un nuovo, profondo e determinato attacco, che il governo intende mettere in campo in questo autunno.
Da una parte risulta fondamentale riattivare l’interlocuzione, dove possibile, con gli enti locali che continuano a perdere la loro autonomia decisionale ed economica, attraverso i vincoli del patto di stabilità e la riorganizzazione conseguente alla legge Del Rio sulle Provincie e città metropolitane. Dall’altra bisogna ripartire dalla ricchezza di quello che il movimento per l’acqua ha saputo mettere in campo negli ultimi tre anni, per rilanciare una prospettiva nazionaleper il diritto all’acqua e per la difesa dei beni comuni.
Più in generale per opporsi a questa strategia governativa che, in perfetta sintonia con i governi precedenti, punta alla piena attuazione delle politiche liberiste, diviene determinante rilanciare visioni alternative, costruire un’alleanza sociale per i beni comuni che, a partire dalla valorizzazione delle singole lotte, dia vita ad una mobilitazione sociale diffusa e ampia.
Paolo Carsetti è membro del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua
«L’Istituto veneto raccoglie la richiesta: convegno internazionale il 9 ottobre. Il tema è sempre lo stesso: come salvaguardare un ambiente unico al mondo minacciato dall’erosione e da interventi sbagliati. A cui sta per aggungersi lo scavo di un grande canale portuale in mezzo alla laguna». La Nuova Venezia, 3 ottobre 2014 (m.p.r.)
«L’Unesco ha lanciato l’allarme su Venezia e la sua laguna. Mettendo in guardia dal realizzare altri scavi e opere irreversibili. Un’autorevole presa di posizione che la città non può ignorare. Per questo abbiamo deciso di mettere le varie voci a confronto, e illustrare lo stato dell’arte su basi scientifiche». Il presidente dell’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti Gian Antonio Danieli spiega le motivazioni per cui l’Istituto, dalla prestigiosa tradizione scientifica, ha deciso di organizzare per il 9 ottobre a palazzo Franchetti un grande convegno sulla portualità e la salvaguardia lagunare.