Si vuole proseguire la distruzione della Laguna, e si vuol cogliere ogni pretesto per farlo più in fretta che si può. Ciò che interessa è accrescere le torme di turisti "mordi e fuggi", che stanno portando al collasso Venezia e il suo territorio. Roberto D'Agostino intervistato dal Corriere del Veneto, 13 gennaio 2014, con postilla
E se l'Expo fosse l'occasione per sperimentare le grandi navi a Marghera? La proposta arriva direttamente da Roberto D'Agostino, l'architetto ed ex assessore all'Urbanistica che ha presentato il progetto di portare le crociere a ridosso dell'area industriale. «Nel 2015 non potranno passare le navi sopra le 96 mila tonnellate, perché il presidente del Porto al Seatrade di Miami non propone alle compagnie di portarle a Marghera? Sarebbe una dimostrazione di cosa vuol dire fare sistema e un esempio di sinergia», dice. D'Agostino sottolinea come due strutture provvisorie si possano fare in poco tempo, allontanando qualsiasi perplessità del conflitto tra traffico commerciale e crocieristico.
Le stesse che ha espresso anche la commissione del ministero all'Ambiente che ha analizzato il progetto prima di una eventuale valutazione di impatto ambientale. La relazione è in corso di preparazione e pare che le prescrizioni siano tali da non consentire il passaggio alla fase successiva, a partire proprio dalla compresenza dei due traffici e la vicinanza con un'area a rischio (quella di Porto Marghera). «La compresenza di crociere e navi cargo è presto data da una migliore organizzazione dei passaggi, il problema comunque esiste anche per il canale Contorta Sant'Angelo visto che tre quarti del percorso è lo stesso - precisa l'ex assessore -. Sui rischi invece ormai sono praticamente inesistenti: a Porto Marghera le fabbriche rimaste sono poche e il raggio di pericolosità rimane all'interno del perimetro della zona industriale».
Proprio per questo invita il presidente del Porto ad accettare la sfida: «Sperimentiamo sul campo la percorribilità della proposta Marghera, l'Expo non potrebbe essere l'occasione migliore», sottolinea D'Agostino, ben sapendo comunque le perplessità della Capitaneria di porto secondo cui non sarebbe garantita la sicurezza. Potrebbe essere anche l'unica possibilità per far tornare in pista l'ipotesi che sembra essere passata in secondo piano rispetto a Contorta e al porto alla bocca di porto del Lido (il Venice Cruise 2.0 di Cesare De Piccoli). «Se fosse davvero così si contraddirebbe l'ordine del giorno votato dal Senato che prevede un confronto tra tutti i progetti sul tavolo», precisa l'architetto. Il problema a questo punto è anche temporale e si scontra con le parole del ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi che ha fissato per marzo il termine per la Valutazione di impatto ambientale e quindi la scelta dell'alternativa al passaggio a San Marco. Se da una parte marzo potrebbe essere il mese in cui si conclude l'iter sul Canale Contorta, dall'altra potrebbe cominciare la valutazione sul terminal alla bocca di porto del Lido, e se qualora venisse ricompreso anche Marghera i tempi si allungherebbero ancora creando quell'incertezza che Porto, operatori e compagnia di crociera non vogliono. «Rimane il fatto che anche Marghera ha concluso l'istruttoria: adesso aspettiamo le prescrizioni vere».
postilla
L'intervistato è stato la guida urbanistica delle giunte Cacciari e l'ispiratore della giunta Orsoni, ma sembra non sapere che cos'è la Laguna di Venezia. Oppure lo sa, ed ha interessi che non coincidono con quelli della tutela di quel gioiello. Altrimenti non avrebbe promosso e sostenuto una soluzione per l'arrivo della Grandi navi a Venezia che non è molto migliore del famigerato allargamento di Contorta Sant'Angelo. Come quest'ultimo, anche l'utilizzo dell'approdo di Porto Marghera per le Grandi navi comporterebbe l'allargamento del Canale dei petroli, di cui da almeno quarant'anni è noto il devastante effetto distruttivo della Laguna, e si predica e prescrive la riduzione. Chi è interessato alla questione può leggere l'aureo libretto di Lidia Fersuoch, Confondere la Laguna, nella collana Occhi aperti su Venezia di Corte del fòntego editore.
una gestione dei Beni Culturali autonoma, vigente dal 1977, e che differenzia la Sicilia anche dalle altre regioni a statuto speciale? Repubblica.it Palermo, 14 gennaio 2015 (m.p.r.)
La lunga battaglia della Sovrintendenza di Siracusa si è conclusa stamattina. Il dirigente generale dei Beni culturali Rino Giglione (lo stesso che l'aveva sospesa) ha reimmesso nelle sue funzioni di capo dell'ufficio Beatrice Basile. Un provvedimento che arriva dopo la sentenza del giudice del lavoro che aveva dichiarato immotivato e dannoso il provvedimento di sospensione e dopo un parere dell'Avvocatura dello Stato, richiesto dal dipartimento, che ha sostanzialmente avallato e definito congrue per il reintegro della Basile le motivazioni del tribunale.
La Basile era stata allontanata dall'incarico a inizio settembre: era accusata in particolare di avere autorizzato la realizzazione di una piscina prefabbricata fuori terra nella villa dell'ex assessore al Territorio Mariarita Sgarlata, che in seguito al clamore per la vicenda - e a una denuncia in procura presentata dal governatore Crocetta - si era poi dimessa dall'incarico. Dopo la sopensione della Basile, altri tre dirigenti della Sovrintendenza di Siracusa erano stati assegnati ad altro incarico. La Basile ha sempre contestato il provvedimento di sospensione, asserendo di non avere violato alcuna regola nè avere violato l'ordine di protocollo delle pratiche, e attorno alla sovrintendente si era formato un vasto fronte di politici e ambientalisti che avevano segnalato il rischio che, con il suo allontanamento, potessero avere spazio le speculazioni edilizie in diverse zone di elevato valore culturale, all'interno di un sito tutelato dall'Unesco.
Soddisfatta l'ex assessore Sgarlata, che torna a parlare dopo tre mesi dalle sue dimissioni: «Sono felice del ritorno di Beatrice Basile alla guida della Soprintendenza di Siracusa - queste le sue parole - che da novembre del 2013, dalla sua nomina sotto il mio mandato di assessore regionale ai beni culturali, aveva segnato una tregua, un fermo biologico all'inarrestabile consumo del suolo che ha profondamente segnato il nostro territorio negli ultimi decenni. Credo che in molti in questi mesi l'abbiano rimpianta, anche chi magari aveva gioito per l' assurda "rotazione", perchè quello che serve a Siracusa è riqualificare l'esistente, rivitalizzare i quartieri della città e bloccare l'aggressione al suo paesaggio».
«Con il reintegro a Soprintendente di Siracusa di Beatrice Basile - dice Giuseppe Patti, coordinatore dei Verdi di Siracusa - si chiude una pagina tristissima della bassa politica siciliana che va in scena nei palazzi palermitani del potere, segna l’incapacità amministrativa di un Governo vittima di quel potere alto burocratico che altro non fa che paralizzare tutto il sistema, alta burocrazia spesso delegittimata dai doppi incarichi e dalle prebende di altra natura».
Anche l'attuale assessore ai Beni culturali, Antonio Purpura, dal primo momento dopo l'insediamento (a novembre) si era detto favorevole al ritorno della Basile: «E' un provvedimento che ho trovato sul mio tavolo appena insediatomi ed evidentemente le valutazioni giuridiche concordate con il mio ufficio di gabinetto, che ci avevano portato alla decisione di non sottoporre la proposta di revoca in giunta, erano fondate visto che sono state confermate dall'ordinanza del Tribunale», dice Purpura. «L'auspicio è che il provvedimento serva a ripristinare un clima di efficace operatività in una delle sovrintendenze più importanti della Sicilia», conclude.
Riferinemti
COMUNICATO STAMPA OPZIONE ZERO 13 gennaio 2015
Grande soddisfazione per Opzione Zero che insieme ad altri comitati da anni si batte contro la superstrada a pagamento prevista a sud della Riviera del Brenta lungo il tracciato dell’Idrovia. E’ di oggi la notizia che la società GRAP spa, vorrebbe portare avanti il progetto del Raccordo Anulare di Padova (GRA) rinunciando però alla realizzazione della sua appendice, la famigerata “camionabile”.
Per Rebecca Rovoletto e Lisa Causin, portavoce di Opzione Zero, lo stralcio della “camionabile” è un fatto di grande importanza perché a questo punto viene a mancare uno degli assi di sviluppo più importanti del cosiddetto “Bilanciere del Veneto”, il progetto strategico regionale che tra autostrade e gigantesche urbanizzazioni speculative voleva stringere la Riviera del Brenta in un groviglio di cemento e asfalto. Un risultato raggiunto grazie soprattutto all’azione di denuncia e alla lotta ostinata di comitati, associazioni, cittadini e amministrazioni locali.
Furono infatti i comitati della Riviera del Brenta, tra cui anche Opzione Zero, a svelare nel 2009 legravi irregolarità nell’iter di approvazione del progetto “camionabile” ritardandone così l’approvazione per almeno 2 anni e costringendo il Governatore Luca Zaia e l’allora assessore Renato Chisso a una dura trattativa per ottenere dal Governo l’inserimento in Legge Obiettivo. Le numerose e puntuali osservazioni presentate poi dai comitati in sede di Valutazione di Impatto Ambientale, in particolare quelle depositate dai gruppi padovani in difesa del “Tavello”, costrinsero la Commissione VIA nazionale a esprimere nel 2011 un parere favorevole condizionato da pesanti prescrizioni, tanto pesanti da imporre la revisione dell’intero progetto.
Di lì a poco comparivano le prime crepe nella cricca veneta del cemento: nel gennaio 2012 veniva arrestato Lino Brentan, uomo vicino al PD presente in numerosi consigli di amministrazione di società autostradali, compresa la GRAP spa di cui era amministratore delegato. Poi nel 2013 lo scandalo MOSE, con l’arresto di Piergiorgio Baita uomo chiave della Mantovani spa, tra i principali sponsor della camionabile e a seguire il crollo di Galan e di Chisso e del modello truffaldino del “project financing” in salsa veneta. Infine, importante è stata la pressione di varie organizzazioni per ottenere il completamento dell’Idrovia.
Il Presidente di Opzione Zero Mattia Donadel commenta: «Finalmente, una picconata dopo l’altra, è crollato il castello di menzogne e anche i proponenti e la Regione hanno dovuto arrendersi all’evidenza. La camionabile lungo l’idrovia era inutile e insostenibile sotto ogni punto di vista; i volumi inconsistenti di traffico previsto non sarebbero mai stati sufficienti per ripagare l’investimento, e alla fine centinaia di milioni di debito sarebbero ricaduti sulla collettività, esattamente come sta accadendo in questi giorni per l’autostrada BREBEMI in Lombardia. Questa superstrada, così come la Orte-Mestre e le altre numerose autostrade in project financing, puzzava di marcio fin dall’inizio: quest’opera è stata pensata e voluta ad uso e consumo dei proponenti, Mantovani spa in testa, e dei politici della cricca Veneta a cominciare da Galan, Chisso e Brentan. I comitati hanno denunciato fin da subito gli impatti e il rischio di malaffare legato a quest’opera, ora Zaia non ha più scuse: stralci definitivamente la camionabile e anche il GRA dalla pianificazione regionale».
Per Opzione Zero questa vicenda dimostra che la lotta portata avanti dai comitati in questi anni è stata decisiva per salvare la Riviera dal cemento e dall’asfalto: perché infatti oltre alla camionabile sono ormai “impantanati” anche Polo Logistico, Veneto City, Città della Moda, elettrodotto Terna e Parco Commerciale di Calcroci.
Rimane un ultimo mostro da abbattere: la Orte-Mestre. Una sfida assai difficile da vincere, ma per Opzione Zero certamente non impossibile.
Il Comitato "Opzione Zero" Riviera del Brentaaderisce alla Rete nazionale Stop Orte-Mestre
Un articolo molto critico su un'iniziativa molto, e giustamente, discussa, con una replica di Carteinregola, del tutto giustificata. Il Fatto quotidiano.it, blog
La vicenda della costruzione dello stadio della Roma calcio ha concluso il suo primo tempo, per restare nell’ambito calcistico, con la decisione presa dal Consiglio comunale di Roma di attribuire al progetto che prevede la realizzazione 1 milione e duecentomila metri cubi di cemento (Antonio Cederna avrebbe detto ’12 hotel Hilton di Monte Mario’) il “riconoscimento dell’interesse pubblico”. E’ stata una scelta adottata a maggioranza contro la efficace opposizione dei consiglieri del Movimento 5Stelle: una scelta democratica, dunque. Converrà attrezzarsi per il secondo tempo della partita in cui, finita l’ubriacatura ideologica della “grande opera”, si dovrà tornare con i piedi per terra e ragionare sul complessivo assetto della città e sulle caratteristiche del progetto.
Dal punto di vista del generale assetto della città, occorre ribadire che la scelta del sito di Tor di Valle è frutto esclusivo e ostinato del promotore: la società calcio Roma. La legge sugli stadi approvata dal Parlamento consente di costruire i propri stadi e come tale deve essere rispettata. Ma non obbliga le amministrazioni pubbliche ad essere supine rispetto ai voleri della proprietà fondiaria. Nessuna legge vietava che il sindaco Marino imponesse di costruire lo stadio in un altro quadrante della città, dove gli oneri di urbanizzazione dovuti per legge e i maggiori oneri dovuti alla contrattazione urbanistica, avrebbero prodotto un beneficio più ampio per l’intera popolazione romana. Né vale a titolo giustificativo la motivazione che non è previsto che sia il Comune a scegliere il luogo ma può solo esprimersi sul pubblico interesse della proposta del privato. In questo modo si spiana la strada alla disegno di legge del ministroMaurizio Lupi che si basa proprio sulla subordinazione delle amministrazioni pubbliche rispetto alla proprietà fondiaria. E non è certo questo il mandato ricevuto da Marino dai suoi elettori.
Ma pur di giustificare l’interesse pubblico dell’operazione, il sindaco Marino ha elencato i benefici che verranno alla città: il prolungamento fino all’area dello Stadio di una linea metropolitana; la costruzione di un nuovo ponte sul Tevere e la creazione di un parco di 34 ettari. E’ evidente che identiche opere avrebbero potuto portare un grande beneficio per qualsiasi altro quadrante delle città dove vivono centinaia di migliaia di romani e dove non esistono metropolitane e parchi. Perché, dunque, non si è scelto un altro quadrante? La risposta è che è stata accettata senza fiatare l’indicazione di Cushman e Wakefield, società immobiliare di caratura internazionale, che fu incaricata dalla Roma di trovare l’area per il nuovo stadio, come aveva denunciato il 20 aprile 2012Gianni Dragoni sulle pagine del Sole 24 Ore. Insomma, il futuro della capitale d’Italia sta nelle mani di una grande società immobiliare controllata dalla finanziaria Exor (famiglia Agnelli) e di un esponente della finanza internazionale come James Pallotta.
Il sindaco Marino si vanta di essere è il più strenuo avversario dei poteri forti, ma purtroppo per lui e per la città, si è messo in ginocchio – indimenticabile a riguardo il suo viaggio presso gli uffici di Pallotta a New York nell’agosto 2014 – di fronte alle lobby. Non è una novità. Marino ha già delegato alla Cassa depositi e prestiti, come noto “potere debolissimo”, la trasformazione della preziosa area del Flaminio (ne parleremo nel prossimo post) e ha brindato insieme a Malagò, altro eterno volto dei poteri forti, per la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024. Con buona pace del sindaco, la sua amministrazione è il paradiso dei poteri forti.
Del resto, pur di mettere in ombra questo vulnus imperdonabile, si continua a sostenere “che l’amministrazione comunale non farà alcun investimento economico”. Credono ancora di prendere in giro i romani: le opere giudicate di interesse pubblico saranno realizzate attraverso l’esborso di denaro pubblico noto (gli oneri di urbanizzazione previsti dalla legge) e da altro denaro di proprietà pubblica derivante dai maggiori introiti dovuti agli aumenti di volumetria concessi. Si spenderanno dunque per opere utili solo e soltanto alla Roma calcio preziosi soldi pubblici.
E veniamo al merito del progetto per cercare di smontare il cumulo di bugie che sono state maldestramente costruite a difesa dello scempio. Ciò che dispiace dal punto di vista generale è che alla difesa della mura del Campidoglio siano stati arruolati anche associazioni che dicono di battersi per gli interessi della città, come ad esempio Carteinregola, ma ognuno sceglie la sua strada. Si afferma che non è vero che l’area sia in un deserto urbano ma “sta a ridosso del popoloso quartiere Eur-Torrino”. Questo quartiere si trova in realtà a cento metri di dislivello dall’area ed è da essa diviso da una invalicabile barriera morfologica costituita da una ferrovia e da due strade carrabili ad alta percorrenza. L’area scelta è un deserto urbano, punto e basta.
Si afferma poi che non è vero che vengano regalati 350 mila metri quadrati di cemento perché nell’area esistono altre volumetrie e il piano vigente prevede di realizzare 112 mila metri quadrati. Addirittura si afferma che “se si avvalesse del ‘Piano Casa’ potrebbe ulteriormente aumentarle e trasformare l’Ippodromo in appartamenti”. Ma quando mai! L’area è destinata a verde e attrezzature sportive: quelle volumetrie potevano essere realizzate per attività sportive, non per le più lucrose attività commerciali o per uffici. Riguardo al Piano casa è appena il caso di ribadire che non è applicabile alle zone di verde e attrezzature sportive. Pallotta riceve un gran regalo economico.
Terzo argomento, il più grave sotto il profilo della legalità, riguarda la questione sollevata da molti articoli di stampa che la società proponente non fosse titolare delle aree su cui si dovrà realizzare il progetto. Su questo punto Carteinregola afferma addirittura che “E’ un problema del privato, non del Comune. Se il privato non potrà più mantenere la proposta avanzata, automaticamente decadrà”. Decine di anni di rapporti tra pubblico e privato sepolti con disinvoltura: è noto infatti che amministrazioni pubbliche devono obbligatoriamente verificare la titolarietà della proprietà immobiliare del proponente. Altrimenti sarebbe il far west.
Occorre dunque iniziare a pensare collettivamente con la partecipazione delle associazioni che hanno a cuore il destino di Roma ad una differente localizzazione in modo da ottenere che gli interessi riconosciuti dalla legge alla società Roma calcio si sommino a quelli di centinaia di migliaia di romani che sono ancora privi di moderne linee di trasporto pubblico: con le centinaia di milioni sperperati per la felicità di Pallotta si possono costruire almeno due linee tramviarie che –oltre allo stadio- potrebbero portare sollievo ad una città in gravi difficoltà. E’ un’occasione irripetibile e la città sommersa dal fango della corruzione svelata dall’inchiesta Mafia Capitale, non può permettersi di delegare il suo futuro agli eterni poteri forti che l’hanno portata al fallimento che tocchiamo tutti i giorni con mano in termini di degrado e del quotidiano aumento delle tariffe e della cancellazione del welfare urbano ad iniziare dal trasporto pubblico.
La replica di Carteinregola
Gentile Redazione di ilfattoquotidiano.it,
come portavoce del Laboratorio Carteinregola, nonchè come vostra lettrice e estimatrice, desidero porre alla vostra attenzione un episodio di informazione non corretta, contenuto nel blog di Paolo Berdini, che essendo ospitato dal sito del Fatto Quotidiano, ritengo interessi anche la vostra testata, che da sempre apprezzo per l'autonomia, la coerenza e soprattutto il rigore nel riportare le posizioni altrui, senza lasciare margini a sottintesi non veritieri. Ora, nell'articolo pubblicato oggi sul blog del Fatto Quotidiano, "Nuovo stadio della Roma: perché lo pagheremo anche noi" (Paolo Berdini attacca esplicitamente Carteinregola, citando un nostro articolo sul progetto dello Stadio, pubblicato sul nostro sito il 22 dicembre scorso, Stadio della Roma: le nostre ragioni (e le leggende metropolitane) , ma soprattutto - e forse è proprio questo che ha scatenato tanto livore - ripreso da Eddyburg,(http://www.eddyburg.it/2014/12/il-nuovo-stadio-della-roma-le-nostre.html ) il sito di "urbanisti militanti" su cui spesso scrive lo stesso Berdini.
Naturalmente noi non abbiamo niente in contrario sul fatto che Berdini possa muoverci delle critiche - accade spesso - con l'unico limite, che ci sembra faccia parte anche della filosofia del vostro giornale, di riportare le posizioni senza faziosità. Cioè senza far intendere cose diverse dalla verità. Invece da quanto scritto da Berdini nell'articolo citato, chi legge potrebbe facilmente dedurre che Carteinregola sia a favore dello Stadio della Roma a Tor di Valle e che difenda il progetto del Sindaco a spada tratta. Invece sfido chiunque a trovare una sola riga in tutti i nostri articoli in cui non sia ribadita la nostra avversità al progetto dello Stadio, tra l'altro supportata da molte motivazioni addotte dallo stesso Berdini (soprattutto per le cubature come "moneta urbanistica" per pagare le infrastrutture di interesse pubblico). Anche se, devo dire, non condividiamo tutte le motivazioni di Berdini, perchè noi non abbiamo bisogno di "esagerare" la realtà per essere più convincenti. Anzi, pensiamo che solo dicendo le cose come stanno, accertando i fatti e separandoli dalle opinioni con rigore e serietà, si possa essere credibili.
E il "pezzo forte" del nostro articolo da lui criticato era dedicato a una circostanziata disamina delle nostre 5 ragioni contro il progetto dello Stadio, ragioni e posizione che Berdini si è guardato bene dal citare, alla faccia della correttezza che chi scrive su una testata di informazione dovrebbe garantire. Alla fine non credo che ne saremo danneggiati, visto che il nostro laboratorio, che si batte per l'interesse pubblico, tanto da organizzare un presidio di 4 mesi contro le delibere urbanistiche di Alemanno (due anni fa) e un presidio di due mesi contro il Piano casa di Zingaretti (4 mesi fa) non gode di un grande visibilità sulla stampa (ma il Fatto è stato il primo e pressochè unico giornale che ci ha dato la parola sul Piano Casa, quest'estate) è comunque per noi pubblicità.
Però ci piacerebbe che qualcuno ricordasse a Berdini che non si fa un gran servizio ai lettori travisando così i fatti, al riparo - e approfittandosi - della visibilità e dell'autorevolezza di una testata notoriamente indipendente come Il Fatto Quotidiano.
Buon lavoro
Anna Maria Bianchi
Affidare lo sviluppo urbano alle pure dinamiche di mercato, pensando che qualche mano invisibile risolverà tutto, è stupido e sadico, come ci conferma il caso della Mosca post-socialista. La Repubblica, 15 gennaio 2015, postilla (f.b.)
Sembra proprio il sogno di un leghista modello: gli immigrati che se ne vanno, tornano a casa più rapidamente di come sono arrivati. Oltre un milione di stranieri, ma forse molti di più, provenienti dalle repubbliche più povere dell’ex Unione Sovietica, letteralmente spariti nel giro di due settimane e tanti altri pronti alla fuga. Ma dopo le prime inevitabili reazioni di soddisfazione, anche i russi più ostili all’“invasione”, cominciano a temere di essere precipitati in un incubo. D’improvviso la Russia di Putin, tanto amato e corteggiato da Matteo Salvini e dai suoi, sembra bloccata, paralizzata nelle piccole cose che sembrano marginali quando ce le hai e che creano il panico quando invece non ci sono più.
Se ne sono accorti i moscoviti, generalmente viziatissimi quanto a pulizia e manutenzione delle strade, ritrovandosi a galleggiare su lastre di ghiaccio che nessuno ha tolto via per tempo dai marciapiede. O ad attraversare come in un percorso di guerra, vie cittadine su cui piovono quintali di neve dai tetti che non hanno più alcuna manutenzione. A San Pietroburgo, comune storicamente molto più povero, va ancora peggio. L’ufficio del sindaco ha chiesto alla gente di «spalarsi la neve con mezzi propri», ricevendo in risposta una valanga di improperi e e di insulti da cittadini assolutamente impreparati alla bisogna.
Ed è solo l’inizio. La fuga degli stranieri sta bloccando cantieri, negozi, ristoranti, piccole fabbriche aggiungendo altri danni alla già incontenibile crisi economica. I motivi sono tanti. Certamente hanno avuto un loro ruolo le nuove leggi che restringono notevolmente la possibilità di circolazione degli stranieri e che pretendono una «perfetta conoscenza della lingua russa. Ma il colpo decisivo è stato il crollo del rublo che ha dimezzato il suo valore rispetto alla fine dell’estate.
Il ridicolo salario medio, che nessun russo avrebbe mai accettato, di 4000 rubli al mese (fino a settembre 100 euro, adesso 53) è diventato intollerabile perfino per questo popolo di disperati arrivati dalle steppe dell’Uzbekistan, dalle montagne del Kirghizistan e del Tagikistan o dai villaggi più miseri di Bielorussia e Ucraina. Troppo poco per sopportare condizioni di vita da medioevo, l’arroganza persecutoria della polizia, l’indifferenza della gente che li evita per le loro diverse abitudini religiose, alimentari e di igiene personale e che li chiama con la parola tedesca Gastarbeiter, che qui ha una valenza fortemente dispregiativa. E soprattutto, il guadagno irrisorio, non giustifica più i ricatti continui dei datori di lavoro tipo: «Fai così o ti rispedisco al tuo villaggio».
Uno sfruttamento spudorato che ha fatto la ricchezza di molti imprenditori e portato molte invidiabili comodità agli abitanti delle grandi città russe. A Mosca, per esempio, basta anche meno di un anno per costruire un palazzo di dieci piani o per ristrutturare stucchi e colonne di un’antica abitazione pre-rivoluzionaria destinata ai grandi ricchi della capitale. Così come in pochi mesi si possono veder realizzare opere stradali, strutture pubbliche che in Europa richiederebbero anni. Il metodo è semplice: si ospitano gli immigrati in container di metallo limitrofi ai cantieri e trasformati in alloggi di fortuna, un gabinetto all’aperto e un piccolo rumorosissimo generatore per la luce e il, poco, riscaldamento. La spesa per dieci lavoratori è inferiore alla paga richiesta da un operaio russo. L’orario di lavoro non c’è, nel senso che si lavora dall’alba fino a notte inoltrata, anche nei giorni di festa. I container con gli immigrati vengono poi trasferiti in tutta fretta in alti campi di lavoro alla vigilia delle inaugurazioni e dei brindisi compiaciuti tra politici e oligarchi.
E non sono solo i privati a guadagnarci ma anche i comuni e le organizzazioni statali. Lo hanno scoperto gli studenti che hanno trovato le aule sporche e i cortili delle scuole colmi di rifiuti dopo la scomparsa dei “bidelli asiatici” che dormivano in palestra e, all’alba, si occupavano delle pulizie. O i direttori dei musei sconvolti dalla polvere che si accumula ovunque, i medici degli ospedali privati di colpo di un personale disposto a qualsiasi genere di servizio pur di rimanere ospitato in qualche sottoscala.
Per anni la maggioranza dei russi ha mugugnato, perfino protestato in piazza contro l’invasione degli ex cugini della defunta Unione sovietica. Mal tollerate le adunate di preghiera islamica, gli sguardi penetranti degli ”omini spazzaneve dagli occhi a mandorla”, perfino la “fastidiosa musica orientale” che si può sentire uscire a “palla” dagli angusti finestrini dei container che circondano le case da rimettere a nuovo nel centro storico. Ma adesso l’emergenza cambia le cose.
In pochi giorni a Mosca sono scomparsi sguatteri da cucina, parcheggiatori, guardiani, addetti alle pulizie, giardinieri, meccanici. Promesse di straordinari e qualche ordine perentorio sono serviti a tirare fuori dagli uffici un centinaio di impiegati (russi doc) attempati e inadatti a questo genere di lavori. Li vedi con la pala in mano scivolare sulla neve maledicendo gli stranieri e la loro fuga: «Queste cose non dovremmo farle noi».
postilla
Forse non sarà sfuggita al lettore (oppure si, chissà) l'analogia del caso specifico di Mosca, con quello di tante altre città piccole e grandi che vedono scappar via gli “immigrati che fanno lavori utili” di cui sino a quel momento non si accorgeva quasi nessuno. E forse però serve allargare il campo, e rileggere da questione sul versante del metodo, allargandola: se a Mosca si tratta di immigrati, altrove accade a normali cittadini, che subiscono gli effetti economici non solo di qualche crisi o svalutazione, ma più semplicemente e normalmente del metabolismo urbano determinato dalle forze di mercato. Per esempio quando una famiglia di lavoratori dei servizi alla persona non può più in alcun modo trovar casa abbordabile ragionevolmente vicino al luogo in cui eroga quei servizi, e se ne allontana sempre più, sino ad abbandonare il lavoro: nuova povertà da disoccupazione, e meno servizi, o servizi assai più cari, per chi se ne avvantaggiava. Centrale anche il ruolo incrociato delle politiche della casa e dei trasporti pubblici: se anche in un contesto di riduzione del centro a terreno di caccia di ricchi e attività terziarie, esiste comunque (come accadeva nella seconda metà del '900) una politica pubblica dei trasporti collettivi e della casa economica, pur in quartieri periferici ma serviti, i servizi indispensabili a far funzionare la città saranno assicurati. In mancanza di questi due interventi coordinati, fasce di reddito sempre più comprensive, di tutti coloro che non sono davvero ricchi, verranno allontanate dalla città, con impoverimento da mancato reddito, oppure da spese per trasporti privati, e relativi impatti ambientali. Ecco cosa ci dice, fuori dal contesto specifico, anche il caso di Mosca (f.b.)
«Il collegamento deve essere preso molto alla lontana, non perché non esista, ma perché ha bisogno di una serie fin troppo lunga di precisazioni e contestualizzazioni. Basta a volte spostarsi di qualche centinaio di metri, nel medesimo quartiere, per scoprire che il disagio pare svaporato per miracolo, pur restando immersi nei medesimi spazi fisici, tipi di edifici, strade, verde». Today.it, 11 Gennaio 2015
Ce l'hanno raccontato in lungo e in largo, come la biografia degli autori degli attentati di Parigi sia inscindibile dall'ambiente della banlieu. E del resto da qualche anno, con notevole puntualità e regolarità, che siano i saccheggi dei negozi perbene a Londra, o le manifestazioni surreali tra le villette e i fast food di Ferguson, o qualche comportamento oltre i limiti della demenza dalle nostre parti italiane, non si manca mai di collegare un certo tipo di spazi ad alcuni problemi. Il collegamento però deve essere preso molto alla lontana, non perché non esista, e non sia per certi versi diretto, ma perché ha bisogno di una serie fin troppo lunga di precisazioni e contestualizzazioni. Infatti se solo ci pensiamo un istante, la nostra testa quando evoca quelle arterie commerciali britanniche, i parcheggi del suburbio americano, o certe nostre distese di prati spelacchiati tra palazzi razionalisti, ricostruisce spazi diversissimi, chiamandoli nello stesso modo. E dicendoci in modo piuttosto chiaro, che se hanno qualcosa indubbiamente in comune, non si tratta delle forme fisiche.
Hanno tutte la capacità di produrre quel genere di disagio che spesso sfocia, seguendo un canale o l'altro, nelle psicopatologie violente e senza sbocco non autoreferenziale. Che siano i saccheggi e gli incendi di negozi per rubacchiare stupidaggini da consumi infantili, o urlanti confuse spesso autolesionistiche manifestazioni contro tutto e contro tutti, o addirittura l'innescare l'altrettanto confusa conflittualità estrema che poi sfocia nella criminalità organizzata o nelle varie forme di terrorismo, a seconda del caso che fa incontrare i disagiati con questo o quel maître à penser. Questo plasmare cervellini particolarmente fragili è un carattere delle periferie, evidentemente non proporzionale alla distanza tra gli edifici, agli standard a parcheggio o verde, allo stato di manutenzione delle tubature, o degli spazi comuni. Ovvero tutti quegli aspetti che, attraverso processi partecipativi o meno, con assemblee nelle scuole, urla di casalinghe, riunioni pensose al centro civico, affrontano i vari cosiddetti piani per le periferie, puntualmente focalizzati nel risolvere tutto ciò che evidentemente, almeno così da solo, non produce affatto disagio.
Del resto basta a volte spostarsi di qualche centinaio di metri, nel medesimo quartiere, per scoprire che il disagio pare svaporato per miracolo, pur restando immersi nei medesimi spazi fisici, tipi di edifici, strade, verde. A volte esiste qualche indizio abbastanza chiaro almeno a indicare un percorso di riflessione: come le case in proprietà anziché in affitto, ad esempio, che secondo molto pensiero conservatore sono sinonimo di identità e stabilità, delle famiglie e degli individui. Oppure l'epoca di costruzione e tipo di occupazione dei fabbricati, o presenza o meno di attività economiche in qualche pianterreno. Altre volte neppure un indizio labile del genere, salvo la constatazione che in un posto c'è il disagio, nell'altro no, e che di sicuro gli spazi fisici sono identici. Ma una cosa è certa: quegli spazi, da soli, non cambiano nulla. E chissà che quest'ultima traumatizzante esperienza, di pochissimi balordi psicopatici terroristi, che si sono maturati tutto il loro disadattamento nel brodo di coltura della periferia, non convinca qualcuno di importante. Lo convinca, sul serio, a piantarla per sempre, ogni qual volta succede qualche manifestazione di disagio nelle periferie, ad uscirsene con la solita pensata: chiamiamo un bravo architetto!
Millennio urbano, 8 gennaio 2015
Il processo di sostituzione del patrimonio pubblico con l’edilizia residenziale privata sta cambiando il paesaggio urbano di molte città del Regno Unito. Durante l’anno appena trascorso una protesta popolare aveva impedito che la demolizioni delle torri del quartiere-ghetto di
Red Road a Glasgow servisse da spettacolo inaugurale dei Commonwealth Games, e aveva indicato all’opinione pubblica britannica uno degli aspetti meno accettabili della rigenerazione urbana.
È tuttavia la capitale britannica il luogo dove la sostituzione del patrimonio residenziale pubblico con interventi immobiliari privati, dominati da investitori internazionali, sta avendo le peggiori conseguenze sul fabbisogno di alloggi economici. Qui, dove l’attuale sindaco prima di entrare in carica inveiva contro l’“aziendalizzazione” dello spazio pubblico, tra la demolizione di decine di immobili pubblici si stanno facendo strada nuovi complessi di abitazioni di lusso.
È il caso di Heygate Estate che un tempo ospitava 3.000 persone a basso reddito nel distretto urbano di Elephant & Castle. Al suo posto sorge ora Elephant Park, un esclusivo complesso di 2.500 case delle quali solo 79 saranno alloggi sociali. Quello di Elephant Park non è solo l’accattivante nome del nuovo complesso immobiliare: per 70 anni è stato il più grande parco di Londra ed ora sarà di proprietà privata. La stessa cosa sta succedendo in numerosi quartieri e distretti della metropoli.
La privatizzazione dello spazio pubblico favorita dalla dismissione e dalla riqualificazione di immobili comunali, come la Battersea Power Station, dove sarà creata una piazza privata – la Malaysia Square – a testimonianza dell’origine del gruppo d’investitori privati – o l’ex sito di Mount Pleasant di smistamento postale della Royal Mail a Clerkenwell, la cui riconversione in appartamenti di lusso ha incontrato la decisa opposizione dei residenti locali, è parte del modello di radicale trasformazione urbana sostenuta da Boris Johnson che sta costringendo i londinesi a basso reddito ad andarsene dalla capitale. E’ un processo più volte descritto anche in altri articoli di questo sito.
Eppure nel 2009 Johnson aveva annunciato un “manifesto per lo spazio pubblico”, un documento programmatico che denunciava il senso di esclusione vissuto dai cittadini nei confronti della trasformazione della loro città. La dichiazione riguardava la democrazia e il diritto per i londinesi di sentirsi inclusi nella loro città. Ora sembra aver cambiato decisamente direzione di marcia.
Anna Minton, che in Ground Control si è occupata di come la cosiddetta rigenerazione urbana abbia trasformato le condizioni di fruibilità dello spazio pubblico e interagito con le divisioni della cittadinanza- ricorda su The Guardian come i fautori delle nuove proprietà private, che si moltiplicano in tutta Londra, facciano notare che in questo modo essa è stata costruita a partire dal XVIII secolo. Gli investitori di quel tempo si chiamavano conte di Bedford (Covent Garden), conte di Southampton (Bloomsbury Estate) e il Duca di Westminster (Mayfair, Belgravia e Pimlico), ma anche la stessa famiglia reale (Royal Estate a Regent Park).
Nel modello di sviluppo urbano degli estate del West End londinese lo square sostituiva la piazza e il giardino pubblico altro non era che verde condominiale. Nel disegno della città l’intervento immobiliare privato diventa la trama sulla quale il riformismo municipale interverrà in seguito per dare alla strada la stessa dignità ordinatrice della proprietà fondiaria. E tuttavia il fatto che questa parificazione dell’intervento privato a quello pubblico abbia plasmato alcuni dei più bei settori londinesi basta a spiegare il motivo per cui, a distanza di due secoli, mantenere lo spazio pubblico sotto il controllo della autorità locale scoraggiarebbe gli investimenti privati?
Se vengono realizzati in tutta Londra spazi la cui natura è giuridicamente privata, anche se teoricamente sono aperti a tutti, sorvegliati dalla sicurezza interna 24 ore su 24, è inevitabile che verranno imposte regole sui comportamenti ammessi e sulle modalità di accesso. Persino il Garden Bridge attraverso il Tamigi viene previsto soprattutto come attrazione turistica privata, piuttosto che come spazio pubblico per la città, con limitazioni imposte alle modalità di passaggio.
Minton invita a prendere seriamente in considerazione le conseguenze di questa perdita di controllo della autorità locale sulle condizioni democratiche di accesso alla città, che il cambio di prospettiva del sindaco Johnson sta facendo diventare prerogativa di investitori miliardari. Il rischio che le condizioni d’uso pubblico degli spazi di pertinenza dei complessi privati somiglino a quelle delle aree aperte degli estate della Londra pre-democratica – controllate da cancelli e postazioni di guardia – sembra diventato piuttosto concreto.
Il Tar annulla il divieto del transito dei giganti del mareo. Il Ministro dell'ambiente assicura che entro marzo si concluderà la Via per il canale Contorta, e se positiva si procederà con lo scavo: nessuno gli ha spiegato che cos'é la Laguna. L'intervista di Antonio Cianciullo al ministro dell'ambiente e un'articolo di Nicola Pellicani. La Repubblica, 10 gennaio 2015
GALLETTI: «VIA QUEI GIGANTI DA SAN MARCO
IN 2 ANNI IL PROBLEMA PUO' ESSERE RISOLTO»
di Antonio Cianciullo
Roma. «Quei condomini galleggianti a San Marco non devono passare. Per motivi di sicurezza e per rispetto alla storia della città. La Laguna è un patrimonio da difendere. La soluzione è un percorso alternativo che tuteli sia il turismo che l’ambiente: in un paio d’anni il problema può essere risolto». Gian Luca Galletti, ministro dell’Ambiente, non arretra. Anzi rilancia.
Lei parla di una soluzione in prospettiva, intanto lo sfregio delle navi che con la loro mole soffocano il palazzo dei dogi si ripropone.
«Bisogna distinguere tra soluzione definitiva e soluzione transitoria. Nell’immediato occorre ovviamente partire dalla decisione del Tar. Le opzioni sono due. La prima è riproporre in forma migliore l’atto della capitaneria che è stato annullato ma che è frutto delle sollecitazioni avanzate dagli ultimi due governi: si tratta di ridurre il numero e la stazza delle grandi navi in transito. La seconda opzione è trovare un accordo consensuale con tutte le compagnie di navigazione per un’autoriduzione volontaria che eviterebbe il rischio di un alt improvviso».
Sono comunque palliativi. Come si cancella in maniera definitiva il rischio provocato dal passaggio di giganti marini da 100mila tonnellate?
«L’unico progetto finora sottoposto alla Valutazione d’impatto ambientale, la Via, è il canale Contorta. Mi impegno a far sì che la Via si concluda entro marzo. Se sarà positiva si potrà procedere».
C’è chi dice che questo rimedio sia peggiore del male: 150 milioni di euro per un’altra autostrada in Laguna, con effetti devastanti sui fondali protetti dall’Unesco. Le grandi navi entrerebbero dal varco di Malamocco poi si immetterebbero in questo nuovo canale allargato ad hoc.
«Ripeto: questo è l’unico progetto per il quale sia stata presentata una domanda di Via. Se ce ne saranno altri li valuteremo. Ritengo comunque che l’ipotesi del canale Contorta rappresenti un passo avanti importante: le grandi navi non passerebbero più davanti a San Marco ma entrerebbero in Laguna aggirando la città per arrivare al molo passeggeri».
Non sarebbe meglio lasciare i colossi del mare in Adriatico?
«Si tratta di conciliare le esigenze del turismo con quelle dell’ambiente. La partita non è chiusa».
GRANDI NAVI A VENEZIA,
IL TAR ANNULLA LO STOP
di Nicola Pellicani
Venezia. L’ultimo gigante del mare ad attraversare il Bacino San Marco, è stata la Costa Fascinosa. Un grattacielo galleggiante di 114mila tonnellate, capace di contenere fino a 3.800 passeggeri, transitato davanti alla Basilica, a metà dicembre dello scorso anno.
Doveva essere l’ultima Grande Nave a solcare il Bacino, prima dell’entrata in vigore del “vecchio” decreto Clini-Passera che dal 1° gennaio 2015, vietava i transiti alle navi di stazza lorda superiore alle 96 mila tonnellate. Un addio che però ha tutto il sapore di un arrivederci, perché ieri il Tar del Veneto ha rilevato l’illegittimità dell’ordinanza della Capitaneria, che recepiva i limiti imposti dal decreto varato all’indomani della tragedia della Costa Concordia al Giglio. Secondo il Tar i limiti «avrebbero potuto applicarsi soltanto a partire dalla messa a disposizione di vie di navigazione alternative rispetto a quelle attualmente in uso e allo stato ancora non praticabili». I rischi ambientali, inoltre, sono ritenuti solo ipotetici.
In sostanza, tutto da rifare. Il Tribunale ha accolto il ricorso presentato da Vene-zia Terminal Passeggeri e dagli operatori portuali. Bisognerà ora attendere l’individuazione di un percorso alternativo, prima di poter applicare il decreto. E le alternative sono sempre di là da venire. Mentre il ministero dei Trasporti annuncia che presenterà appello al Consiglio di Stato, in campo ci sono diverse proposte, ma soprattutto un mare di polemiche che stanno dividendo letteralmente in due la città. Da una parte il Porto che sostiene l’escavo del Canale Contorta Sant’Angelo, lungo quasi cinque chilometri con sei milioni e mezzo di metri cubi di fanghi da togliere dalla Laguna. Una soluzione che può contare sul sostegno del mondo dell’impresa e del sindacato, ma che trova l’ostilità del mondo ambientalista. Ma non solo. Erano contrari anche la passata amministrazione comunale e un ampio ventaglio di associazioni e di comitati pubblici che temono l’ennesimo scempio della laguna. Sul piatto ci sono altre ipotesi. Due progetti prevedono la realizzazione di un terminal off shore in bocca di porto. Un altro progetto ipotizza invece il trasloco del terminal passeggeri nella prima zona industriale di Marghera.
I piani sono però tutti al vaglio dei vari ministeri, mentre le navi sono sempre lì che premono per entrare in Bacino. Anche se per il momento la sentenza del Tar non produrrà alcun effetto concreto. Da un lato perché le compagnie crocieristiche hanno già realizzato i programmi per l’anno in corso, dall’altro in quanto avevano già accettato, indipendentemente dagli obblighi, di sottostare alle soglie stabilite. In realtà, la sentenza mette a nudo l’incapacità di prendere una decisione che porti a risolvere il problema una volta per tutte.
Dice Paolo Costa, presidente dell’Autorità Portuale: «Attendiamo con fiducia le decisioni che il governo vorrà prendere, al più presto». Matteo Zoppas, presidente di Confindustria Venezia, mette l’accento sul problema occupazionale: «Non dimentichiamoci che stiamo parlando di oltre 5.000 persone che vivono ormai da tre anni con una spada di Damocle sulla testa. Questa decisione sarebbe dovuta arrivare prima».
Di tutt’altro tenore il punto di vista di Giovanni Puglisi, presidente della Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco: «Sono allibito dal provvedimento del Tar del Veneto perché non rende giustizia non tanto alla decisione della Capitaneria di Porto, quanto ai veneziani ».
«Alcune dichiarazioni fanno scattare per lo scrittore una denuncia da parte della società francese che realizza la Torino-Lione. L'accusa è "istigazione pubblica a commettere delitti" per aver detto che la TAV va sabotata. "Ma chi è davvero minacciato dall'incriminazione che mi è stata rivolta è l'articolo 21 della Costituzione». Altreconomia.it, 7 gennaio 2015 (m.p.r.)
Nel settembre 2013, la LTF, ditta francese costruttrice della linea TAV Torino-Lione, annuncia una denuncia contro lo scrittore Erri De Luca, per le dichiarazioni rese all'Huffington Post Italia e all'Ansa. La denuncia viene effettivamente depositata il 10 settembre 2013 presso la Procura della Repubblica di Torino. «La Tav va sabotata», aveva detto Erri De Luca. Il 5 giugno 2014 sì è svolta la prima udienza preliminare, a porte chiuse. Il 9 giugno 2014 viene stabilito il rinvio a giudizio, per il 28 gennaio 2015. L'accusa è di aver «pubblicamente istigato a commettere più delitti e contravvenzioni ai danni della società LTF sas», come si legge nell'avviso di garanzia.
A due settimane dall'inizio del processo, il 14 gennaio 2015, uscirà in Italia e Francia un piccolo libretto di 64 pagine. Si intitola La parola contraria, è edito da Feltrinelli e costa 4 euro. È la “pubblica difesa” dello scrittore. Lo abbiamo intervistato.
Erri De Luca, quella in Val di Susa è una «lotta massicciamente diffamata e repressa». Perché?
La Val di Susa è un caso unico per la resistenza che la vallata ha saputo opporre a una 'grande' opera. In altri territori le ruspe e le trivelle sono passate con più facilità. È un caso unico per la qualità della resistenza civile degli abitanti di questa valle. È una lotta di pura e legittima difesa, indispensabile in un Paese come l'Italia. Ma attenzione, non è una lotta di retroguardia, semmai di avanguardia. Gli abitanti della Val di Susa dimostrano e stabiliscono il diritto di sovranità delle popolazioni locali sulle risorse, sull'aria, sull'acqua, sulla salute. Le loro voci sono minacciate dalla strafottenza pubblica nei confronti della vita civile. È una lotta di lunga durata ormai: una lotta esemplare per quel che riguarda il Paese e l’Europa. Una volta archiviato il cantiere, credo che verrà studiata nei libri di scuola.
Riflettendo sulla “istigazione” di cui l'accusano, lei scrive: «Vorrei essere lo scrittore incontrato per caso, che ha mischiato le sue pagine ai nascenti sentimenti di giustizia che formano il carattere di un giovane cittadino. […] Istigare un sentimento di giustizia, che già esiste ma non ha ancora trovato le parole per dirlo e dunque riconoscerlo. […] Di fronte a questa istigazione cui aspiro, quella di cui sono incriminato è niente».
Lo scrittore è una voce pubblica, che ha il compito di proteggere il diritto di tutti a esprimere la propria. Io mi considero un cittadino sia della Val di Susa sia di Lampedusa: posti nei quali la tenacia popolare ha smentito la diffamazione che è stata rivolta loro. I valsusini sono definiti "montanari" contrari al treno e all’alta velocità, amanti forse del calesse. La verità è che difendono il loro territorio da quello che ho definito '"stupro", in una delle più intense e durevoli lotte di prevenzione popolare contro la distruzione. È quindi ovvio che non possano transigere, che non siano trattabili la vallata e la loro salute. Non possono cambiare la loro posizione. Possono solo essere deportati. Non si può transigere sul diritto ad abitare quel suolo.
Il processo cui va incontro è un processo sulla libera informazione e sulla libertà di parola.
Nel nostro Paese l'informazione è piuttosto compromessa. Io la chiamo informazione 'embedded", al seguito delle truppe, del bollettino di guerra degli stati maggiori. I giornali sono aziende la cui linea è dettata dal cda, dove i giornalisti sono impiegati. La libertà di stampa si è ridotta a termini simili a quelli precedenti alla Seconda guerra mondiale. Solo che oggi siamo sotto la dittatura dell’economia. Anche i nostri rappresentanti politici sono stati scelti in base alle loro fortune economiche. La tradizione di idolatria dell’economia è recente. Ma chi è davvero minacciato dall’incriminazione che mi è stata rivolta è l’articolo 21 della Costituzione. Le accuse nei miei confronti sono un tentativo di imporre il silenzio nei confronti degli altri. Nei miei confronti ovviamente non funziona. Qui è in discussione la libertà di parola contraria. Finché è ossequiosa e rispettosa delle autorità e delle malefatte, la libertà di parola è sempre ben accetta. Quella contraria invece è sottoposta a giudizio o censura.
Ci sono montagne di documentazione che dimostrano, da anni, che la TAV in Val di Susa è inutile e dannosa. Allora perché tanti si ostinano a sostenerla, e lo Stato la considera un'opera “strategica”?
Si tratta di motivi di uniformità alle direttive economiche. Si tratta dei vantaggi delle imprese che devono realizzarla. Non la faranno mai, ma finché dura continueranno a lucrarci, anche a cantiere svuotato continueranno a guadagnarci. Un po' come accade con il Ponte sullo stretto di Messina. Sul fatto che sia strategica per lo Stato, registro che però io sono stato denunciato da una ditta privata. Sfido allora la pubblica autorità a costituirsi parte civile contro di me. Manca questo tassello a completare l’intimidazione. Non è detto che non lo facciano entro il 28 gennaio.
Tuttavia non si ritiene una vittima, né di aver subito un torto.
'"Vittima" è una parola che mi dà fastidio. Io sono testimone di un abuso nei miei confronti e nei confronti di una comunità. Se verrò condannato, non ricorrerò in appello -i miei avvocati sono ormai rassegnati-. I miei ragionamenti sono quelli contenuti nel libro: se non saranno sufficienti in primo grado non vedo il motivo per andarmi a cercare una seconda aula in cui ripetere gli stessi argomenti cercando migliore udienza. Se quello di cui sono accusato è un reato, allora mi dichiaro reo confesso e recidivo. Ho scelto anche di non cambiare tribunale (per incompatibilità ambientale, ndr), poiché per i processi No Tav non è mai stato fatto. La linea difensiva è svolgere il dibattimento il prima possibile, senza presentare obiezioni né testimoni. Le mie sono parole che ho sempre pronunciato. Non era la prima né l’ultima volta che le pronunciavo: sono convinto della ragioni della Val di Susa. Per me prendere la parola a favore di una comunità è un dovere. Fa bene alla mia salute. Se mi censuro, censuro il mio vocabolario, mi danneggio. Le leggi dicono che potrei andare in carcere.
In questi mesi ha ricevuto molto sostegno. «I tempi cambiano», scrive nel suo libro.
C'è stata molta solidarietà nei miei confronti a partire sin da giugno. Molte persone hanno letto in pubblico le mie pagine. È la cosa più bella che mi sia capitata in questa vicenda. Non si tratta di solidarietà sull’argomento, ma affetto nei confronti delle pagine scritte. È questa la mia linea difensiva: se ci sono dei precedenti di istigazione vanno cercati nella scrittura, non nella mia biografia. Io ho espresso una mia opinione, che è stata criminalizzata. Inoltre c'è stata la solidarietà degli editori, che hanno deciso per un prezzo così basso per il libro. Col resto ci si prende un caffè.
Continua inarrestabile la trasformazione della città volta a «diventare parco divertimenti a disposizioni delle multinazionali del tempo libero». Nuovavenezia.it, 7 gennaio 2015 (m.p.r.)
Venezia. Due nuovi alberghi del lusso stanno per aprire già in primavera su altrettante isole della laguna: Sacca Sessola e San Clemente. L'insegna JW Marriott sbarca in Italia e sceglie Venezia per il debutto: il
brand alberghiero americano aprirà il 16 marzo del prossimo anno un albergo a cinque stelle, con centro benessere e centro congressi sull'isola di Sacca Sessola, portando così a conclusione un progetto di trasformazione alberghiera fermo da molto tempo.
L'isola è di proprietà di una società finanziaria tedesca e il progetto del complesso era stato avviato una decina di anni fa ma mai completato. Il progetto contempla anche la ristrutturazione della chiesetta dell'isola per i matrimoni. Sacca Sessola è un'isola artificiale, formata nel 1860 dall'accumulo dei fanghi dragati nei canali che è stata sede di ospedali nei due secoli scorsi; è una delle più grandi della laguna veneziana e occupa una superficie di circa 40 ettari, con monumenti e palazzi finemente decorati. È raggiungibile con 15 minuti di barca da piazza San Marco e una navetta sempre in funzione collegherà l'isola con il centro storico. L'albergo avrà 266 camere e suites progettate dallo studio milanese Matteo Thun & Partners. Il centro congressi, che si proporrà al mercato internazionale degli eventi, disporrà di spazi e sale di varie dimensioni e funzionalità, per una superficie totale di circa 1.200 metri quadrati.
Un resort che punterà molto anche sulla tranquillità e gli spazi verdi dell'isola interamente recuperati. Il centro benessere sarà il più grande di quelli presenti a Venezia, sviluppato su tre edifici, con tre piscine, di cui una coperta. Ma anche diverse stanze potranno contare su giardino e piscina privata». L'albergo avrà un'apertura stagionale - da marzo a ottobre - proprio per sfruttare al meglio sul piano meteorologico le caratteristiche di Sacca Sessola. Prevista anche una scuola di cucina riservata ai clienti dell'albergo, ma anche semplicemente agli appassionati.
Verrà inaugurato invece ad aprile sull'isola di San Clemente, il nuovo hotel San Clemente dopo la firma tra Starwood e la turca Permak Group, con un altro brand di lusso, il St. Regis e avrà 174 camere dopo una ristrutturazione del valore complessivo di 25 milioni di euro. Il gruppo turco Permak ha acquistato un'area di 62 mila metri quadrati sull'isola di San Clemente, nella Laguna di Venezia, che comprende l'hotel a cinque stelle San Clemente Palace Resort (205 camere) che lì sorge. Il gruppo Permak, attivo dei settori delle costruzioni, macchinari, turismo, tecnologia, prodotti chimici e vendita al dettaglio. Il complesso alberghiero darà lavoro a 600 persone, dotato di nuove attrezzature per lo sport, ristoranti, una piscina e un centro benessere. I lavori di restauro hanno rispettato l'originale impianto edilizio del complesso.
Riferimenti
Serie di osservazioni condivisibili sull'opportunità di spostare il tiro negli investimenti infrastrutturali, che così servirebbero certamente meglio il territorio. Corriere della Sera Milano, 10 gennaio 2015
Il tema della mobilità nell’area metropolitana milanese merita qualche nota per capire se esistono margini di miglioramento. Quella che segue è la sintesi di riflessioni che per molti anni sono state condotte da un fertile gruppo di pensiero all’interno del Politecnico di Milano. Di recente esse sono avvalorate da un serio rapporto della Corte dei conti francese. L’analisi che qui interessa sostiene che «mettere in esercizio un sistema europeo di segnalamento e gestione del traffico lungo le linee ferroviarie esistenti raddoppierebbe la capacità, con un costo pari a un quindicesimo di una linea ad alta velocità». Una verifica veloce conferma la possibilità di ottenere risultati analoghi anche da noi. Oggi questa tecnologia in Lombardia è attiva solo sulle linee Alta Velocità e il costo della gestione è pari a circa 1,5 milioni/km, anche se sono allo studio sistemi molto meno costosi. Di contro, realizzare ogni chilometro di linea Alta Velocità della Milano-Torino è costato, incluse le compensazioni territoriali, circa 62 milioni (in pianura, un primato di costo).
Veniamo al dunque. Con risorse scarsissime (ma per la diffusione della tecnologia c’è il Fondo europeo per gli investimenti), le disponibilità andrebbero orientate verso le opere più efficaci, in primis il potenziamento del sistema ferroviario metropolitano e dei parcheggi di corrispondenza nei luoghi di partenza dei pendolari. Sarebbe illusorio pensare di dotare l’area metropolitana di servizi di trasporto pubblico capillari, mentre è ragionevole pensare che l’auto privata possa coprire il primo segmento dello spostamento, casa-stazione. Il risultato sarebbe la riduzione di congestione e inquinamento. Se gli amministratori saranno coraggiosi, fra qualche anno in città troveremo, oltre ai mezzi pubblici collettivi, bici e micro veicoli elettrici da noleggiare, in quantità decisamente superiore a quelli oggi disponibili, per coprire primo e ultimo miglio.
Questo significa rinunciare all’Alta Velocità? Sì, se pensiamo al modello Milano-Roma; no se pensiamo a infrastrutture meno ambiziose e più adatte a un territorio caratterizzato dalla presenza di città medie, più o meno a 50 chilometri l’una dall’altra. Che senso avrebbe non servirle con cadenze ragionate? E se il servirle implicasse una riduzione delle velocità di punta da 300 a 200 chilometri/ora sarebbe un problema? Certamente no. La Germania, con una struttura urbana molto simile alla nostra, ha già optato con successo per un modello simile, risultato efficace e redditizio, sulla rete esistente.
La Repubblica
online, blog "Articolo 9", 9 gennaio 2015 (m.p.g.)
Ebbene, chi ha vinto? Direi che si tratta di un brutto pareggio tattico, che sposta in avanti la conclusione della partita. Un pasticcio un po' ipocrita, insomma: nella migliore tradizione italica. Vediamo perché.
I requisiti necessari per fare domanda prevedono la laurea: ma non specificano in che cosa. Va bene anche quella in Veterinaria. Poi bisogna aver fatto almeno una di queste tre esperienze professionali che dimostrino una «particolare e comprovata qualificazione professionale in materia di tutela e valorizzazione di beni culturali»: essere dirigenti del Mibact (non importa con quale laurea o competenza); essere stato dirigente d'azienda per cinque anni (e dunque va benissimo anche Sotheby's, o aver presieduto una fondazione che si occupa di arte, o aver diretto una società che organizza mega mostre di cassetta...); insegnare in una università (anche diritto dei beni culturali, o chimica del restauro, o economia della cultura...).
Con criteri così scriteriatamente larghi, la Commissione che farà la selezione avrà un potere discrezionale enorme. E quella Commissione la nomina, monocraticamente, il ministro. E i criteri con cui dovrà operare non sono meno vaghi dei requisiti: la gestione dei beni culturali viene parificata alla loro tutela (porte apertissime ai famosi managers), e più in generale si fa un gran confusione tra il profilo di un vero direttore e quello di un direttore amministrativo. Meno male che è prevista la conoscenza della lingua italiana: se fosse applicato davvero, questo sembra l'unico filtro capace di bloccare dirigenti Mibact decotti, managers all'amatriciana, professori di complemento, membri del Giglio Magico. Tutti italiani, s'intende.
Ma c'è poco da scherzare: questo bando dà ragione a tutti gli scettici che hanno fin qui aspramente criticato la riforma. E dà torto a tutti quelli che ci avevano, seppur timidamente, creduto: come me, per esempio. L'esito finale potrà ancora essere ribaltato: dalla scelta dei cinque membri della commissione, e quindi dal loro lavoro. La speranza è l'ultima a morire.
«Fra gli inquilini privati c'è proprio il Cvn. Una concessione illegittima, secondo le associazioni come Italia Nostra, che hanno presentato esposti e diffide. Perché, secondo il piano regolatore, quell'area di città era destinata a uso pubblico». L'Espresso, 15 gennaio 2015 (m.p.r.)
E adesso tocca all'Arsenale. L'inchiesta giudiziaria e il commissariamento del Consorzio Venezia Nuova (Cvn) potrebbero avere conseguenze anche su una delle zone storiche e monumentali più antiche della città. Ben 48 ettari di edifici e spazi acquei che adesso appartengono al Comune, ma sono in parte in concessione alla Marina militare, alla Biennale e imprenditori privati. Fra gli inquilini privati c'è proprio il Cvn che nel 2013 ha traslocato nella parte nord dell'Arsenale dove era già la sua controllata Thetis, società di progettazione. Una concessione illegittima, secondo le associazioni come Italia Nostra, che hanno presentato esposti e diffide. Perché, secondo il piano regolatore, quell'area di città era destinata a uso pubblico.
II vecchio progetto del Cvn puntava a trasformare i tre bacini di carenaggio, dove un tempo si costruivano le navi che fecero grande la Serenissima, nella zona di rimessaggio per le paratoie del Mose. Dopo gli arresti e l'estromissione dei presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati, il neopresidente Mauro Fabris aveva manifestato l'Intenzione di spostare le officine per la manutenzione delle dighe mobili a Marghera, nell'area bonificata ex Pagnan, che è già servita come deposito per Il Mose durante le operazioni dì assemblaggio. In questo modo sarebbe stata restituita alla collettivita una parte importante dell'Arsenale, che oggi può essere visitato soltanto negli spazi a sud (Gaggiandre, Corderie e Tese).
II problema si ripropone adesso con l'entrata in scena dei commissari governativi messi alla guida del Cvn, Luigi Magistro e Francesco Ossola. Attraverso Forum Arsenale, la cittadinanza ha espresso parere contrario a una decisione dei Comune, anch'esso commissariato, sull'argomento. Il blitz per affidare in concessione (19 anni rinnovabili) i bacini e tutta l'area Nord al Cvn e alla sua controllata Palomar era scattato nell'autunno del 2005. II Demanio aveva siglato l'atto a Roma, a insaputa del Comune. Soddisfatto l'allora governatore Giancarlo Galan: «I bacini? Serviranno per movimentare i cassoni dei Mose». Adesso si fa strada l'ipotesi del trasloco. A Marghera o addirittura a Malamocco, dove sono stati costruiti i cassoni in calcestruzzo del Mose. II trasferimento si tradurrebbe in un corposo risparmio per le casse dello Stato. Dieci milioni solo per le nuove infrastrutture previste, altrettanti per i minori costi del trasporto via mare.
Nella città che hanno lasciato volontariamente priva di ogni rappresentanza democratica il potere adesso è gestito direttamente da quelli che fino a ieri comandavano dietro le quinte. A ogni scandalo svelato ne succede un altro. l'Espresso, 9 gennaio 2015
Sei mesi dopo il maremoto giudiziario, i gattopardi del Mose si riprendono Venezia. La mano di vernice del commissariamento deciso da Raffaele Cantone, presidente dell'autorità anticorruzione, non ha cambiato di una virgola gli equilibri interni al Consorzio Venezia Nuova (Cvn), concessionario unico incaricato di realizzare il sistema di dighe mobili a protezione della laguna. Non è bastata l'espulsione dal sistema di Giovanni Mazzacurati, dominus del Cvn, e di Pierluigi Baita, ex manager-azionista della Mantovani cioè dell'azienda che guida il Consorzio. Né è stata sufficiente l'ondata di patteggiamenti concessi ai politici, dall'ex governatore Giancarlo Galan all'assessore di Galan e di Luca Zaia, Renato Chisso.
In una situazione di vuoto politico, con la città senza sindaco almeno fino a maggio dopo le dimissioni dell'indagato, Giorgio Orsoni, il nuovo e sorprendente protagonista degli affari in laguna è l'incontenibile prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, amico del piduista e piquattrista Luigi Bisignani, nonché cinghia di trasmissione di chi ha spadroneggiato sui sei miliardi di appalti del Mose e non intende lasciare la presa: Gianni Letta, in primis, e subito a ruota, Altero Matteoli, indagato per il Mose e per la bonifica di Porto Marghera, nonché difensore d'ufficio del prefetto di Roma nelle vicende legate all'inchiesta su Mafia Capitale. «Al prefetto Pecoraro va la nostra solidarietà ed il nostro appoggio incondizionato», ha dichiarato all'Adn Kronos l'ex ministro delle Infrastrutture concedendosi il plurale maiestatis.
Chi si chiedesse che c'entra Pecoraro nelle vicende veneziane deve accontentarsi di una risposta formale. La prefettura romana è competente perché si è stabilito che il Mose, pur vivendo nell'extraterritorialità giuridica delle tre leggi speciali su Venezia, è da ritenersi una creatura di due ministeri romani: le Infrastrutture, appunto, e l'Economia che, attraverso il Cipe, un mese fa ha deliberato un altro megafinanziamento da 1,37 miliardi per le dighe mobili. E così Pecoraro si è trovato a redigere l'ordinanza che nomina i due commissari. Si tratta dell'ex finanziere Luigi Magistra, braccio destro del magistrato Gherardo Colombo ai tempi del pool Mani Pulite appena dimessosi dalla vicedirezionc dell'Agenzia delle Dogane, e di Francesco Ossola, progettista dello Juventus stadium e ordinario di ingegneria strutturale al Politecnico di Torino che ha già lavorato per il Consorzio Venezia Nuova nel 1998 nei lavori di rialzo della fondamenta dei Tolentini. Un terzo amministratore sarà nominato prossimamente.
Il prefetto Pecoraro, protagonista di una lunga serie di casi controversi, dall'espulsione di Alma Shalahayeva, moglie del dissidente kazako Mikhtar Ablyazov, alla trattativa dello stadio Olimpico con l'ultras napoletano Genny 'a carogna, dalle cariche contro gli operai dell'Ast di Terni ai permessi alle cooperative guidate da Salvatore Buzzi, non si è limitato a firmare l'ordinanza di commissariamento. Prima delle festività natalizie è sbarcato nella nuova sede del Consorzio all'Arsenale di Venezia e ha incontrato i rappresentanti delle tre principali imprese del Mose, che insieme alla Ccc (Lega coop) hanno quasi il 90 per cento delle quote Cvn: Alberto Lang, vicepresidente in rappresentanza di Condotte, Salvatore Sarpero, direttore generale della Fincosit, e soprattutto Romeo Chiarotto, classe 1929, proprietario della Mantovani.
Dopo l'estromissione di Baita, Chiarotto ha affidato la Mantovani a un altro ex poliziotto come Pecoraro, l'ex questore di Treviso Carmine Damiano - poi finito sotto inchiesta per corruzione - su suggerimento di un altro prefetto, Gianvalerio Lombardi. Nonostante l'età, il costruttore padovano resta il punto di riferimento dell'opera tanto che i rumors lagunari lo dicono responsabile dell'estromissione di Alberto Scotti (TechnitalMazzi), progettista del Mose piuttosto critico sulla riuscita delle cerniere delle dighe prodotte dalla Fip del gruppo Mantovani.
In questo contesto l'ordinanza di commissariamento rischia di ridursi a una lettera di licenziamento per il vicentino Mauro Fabris, lobbista del Mose diventato parlamentare multitasking (Ccd-Cdu, Udr, Udeur, Pdl) e piazzato all'Arsenale su ordine del ministro Maurizio Lupi dopo gli arresti del giugno scorso. Il documento firmato da Pecoraro e datato 1 dicembre 2014 non è proprio un lavoro di cesello. Giovanni Mazzacurati è ribattezzato Giuseppe Mazzacurati. La legge sui compensi agli amministratori è postdatata al 2013, benché sia del 2010, e Alessandro Mazzi di Fincosit-Technital è indicato come vicepresidente del Cvn anche se si è dimesso il 6 giugno 2014, due giorni dopo l'arresto. De minimis non curar praefectus ma la sostanza del provvedimento sta nella messa in sicurezza del Consorzio, nella scelta di completare i lavori con le stesse imprese che hanno iniziato i lavori (loro erano innocenti, gli amministratori erano colpevoli) e di mantenere in carica i commissari "fino a collaudo avvenuto". In termini di tempo, questo significa almeno il 2018 se i lavori, dopo l'ultimo slittamento, saranno completati nel 2017.
Da lì in avanti si apriranno due partite. La prima è il pagamento dei commissari. L'ordinanza ha rinviato la quantificazione del compenso ma ci sono in sostanza due soli modi. L'opzione forfettaria con un salario annuo sotto il tetto massimo dei 240 mila euro fissato per gli stipendi dei manager pubblici. Oppure c'è l'opzione privatistica che retribuisce i commissari in percentuali sui lavori fissate dagli ordini professionali di appartenenza. Non c'è dubbio che il Cvn sia un raggruppamento di imprese private, anche se opera con fondi pubblici. Quindi, a termine di legge, le parcelle dei commissari potrebbero essere nell'ordine di qualche milione di euro, dato che il costo finale del Mose si aggira sui 6 miliardi.
La seconda riguarda il grande business della manutenzione delle dighe mobili. I.a messa in opera delle paratoie alle bocche di porto ha già evidenziato problemi di tenuta delle vernici, già denunciati da studiosi come Fernando De Simone, e di proliferazione di microrganismi marini. Ancora non c'è una cifra certa sull'impatto economico annuale della manutenzione delle dighe ma la stima fatta da Baita a l'Espresso (da 20 a oltre 60 milioni di euro) offre una banda di oscillazione troppo ampia per non indurre in tentazione. Per citare una frase famosa attribuita a Baita: «Il bello del Mose è che i lavori si fanno sott'acqua».
Paradossalmente, il commissariamento sembra avere dato forza a chi critica le dighe mobili, un fronte molto eterogeneo. I commercianti hanno ribadito che piazza San Marco non sarà protetta dalle paratoie alle bocche di porto, sollevate con la marea a 110 centimetri mentre San Marco va sotto con 80 centimetri. Hermes Redi, progettista nominato direttore generale del Cvn poco prima del commissariamento, ha confermato che, senza le opere complementari necessarie a proteggere il cuore e il simbolo di Venezia, piazza San Marco continuerà a sparire sotto l'acqua come è accaduto duecento volte nel 2014. Questi interventi complementari, peraltro, costerebbero 100 milioni di euro, una frazione pari a circa un sessantesimo del costo delle dighe mobili.
I comitati ambientalisti (No Mose e Ambiente Venezia) si sono rivolti ai due neocommissari per riportare all'attenzione il possibile malfunzionamento del sistema in condizioni di mare agitato. È una questione emersa già nel 2008 dallo studio della società francese Principia commissionato dall'allora sindaco Massimo Cacciari. I.e critiche e i dubbi di Principia erano stati accantonati dal presidente del Magistrato alle Acque PatrizioCuccioletta,altro uomo di Gianni Letta che íà finito nell'inchiesta e ha patteggiato la condanna, a differenza della collega Maria Giovanna Piva che attende la richiesta di rinvio a giudizio come Orsoni, Matteoli e l'ex europarlamentare Pdl Lia Sartori. 11 Magistrato alle Acque era il principale controllore del Mose ma, in realtà, i funzionari del ministero erano totalmente a disposizione delle maggiori imprese del Consorzio che scrivevano anche i testi per conto dei dipendenti statali.
Anche la struttura del Magistrato alle Acque ha ricevuto la sua parte di vernice antiruggine. In primo luogo, Matteo Renzi lo ha soppresso e ha trasferito ic sue competenze al Provveditorato alle opere pubbliche del Veneto. Ma con la nuova veste i rapporti di forza non sembrano cambiati. Chi comandava nel Consorzio prima comanda anche adesso. L'incontro di Pecoraro a dicembre con i grandi azionisti del Consorzio, rivelato dalla Nuova Venezia, ha molto scontentato le piccole cooperative locali socie del Cvn che, con l'eccezione del Coveco di Pio Savioli, non sono state sfiorate dall'inchiesta e che continuano a trovarsi ai margini dei processi decisionali. Circostanza ancora più incresciosa, dovranno partecipare pro quota al rimborso di 27 milioni di euro dovuti all'Agenzia delle Entrate per l'evasione fiscale accertata dalla Guardia di finanza e finalizzata a creare i fondi neri necessari per pagare le mazzette ai politici.
Questo disagio dovrebbe essere superato grazie a una nuova struttura prevista dall'ordinanza commissariale della prefettura di Roma. Il documento firmato Pecoraro prevede che i commissari costituiscano un comitato consultivo «in modo da garantire un'adeguata rappresentanza alle imprese consorziate». Questo comitato adotterà «specifiche linee guida per definire modalità e termini per la straordinaria e temporanea gestione delle attività oggetto di concessione». In altre parole, con questo modello di governance si fa un passo avanti, sia pure in modo straordinario e temporaneo, verso uno dei grandi obiettivi strategici di Mantovani e soci: la gestione del Mose dopo il completamento dell'opera.
«Alcuni brani da La parola contraria di Erri de Luca, da oggi nelle librerie per Feltrinelli. La difesa preparata dallo scrittore nel processo che lo vede imputato per le sue dichiarazioni sulla necessità di bloccare i lavori in Val di Susa». Il manifesto, 8 gennaio 2015
Uno scrittore ha in sorte una piccola voce pubblica. Può usarla per fare qualcosa di più della promozione delle sue opere. Suo ambito è la parola, allora gli spetta il compito di proteggere il diritto di tutti a esprimere la propria. Tra i tutti comprendo in prima fila i muti, gli ammutoliti, i detenuti, i diffamati da organi d’informazione, gli analfabeti e chi, da nuovo residente, conosce poco e male la lingua.
Prima di dovermi impicciare del mio caso, posso dire di essermi occupato del diritto di parola di questi altri.
«Ptàkh pìkha le illèm»: apri la tua bocca per il muto (Proverbi/Moshlé 31,8). Oltre a quella di comunicare, è questa la ragione sociale di uno scrittore, portavoce di chi è senza ascolto. Salman Rushdie con il suo romanzo Versetti satanici ha scatenato manifestazioni di masse islamiche contro una blasfemia risentita nel suo racconto. Delle persone sono scese in piazza e sono morte per questo effetto di reazione. Il romanzo di Goethe I dolori del giovane Werther scatenò un’ondata di suicidi nei giovani europei.
Con minori conseguenze, Reinhold Messner 25 con le sue pubblicazioni ha attirato lettori a salire in montagna e alpinisti a tentare le sue imprese. Mauro Corona ha fatto venire voglia ai suoi lettori di visitare Erto e la diga del Vajont. Questi sono casi di istigazione? O con più proprietà di linguaggio e nessuna conseguenza penale semplicemente suggestioni dovute al verbo ispirare? Se dalla parola pubblica di uno scrittore seguono azioni, questo è un risultato ingovernabile e fuori del suo controllo.
Le parole possono solo questo, anche quando incitano a più impetuosi impegni: Aux armes citoyens è istigazione presente nella Marsigliese, inno nazionale francese, il più bello che conosco. Incita alla guerra civile, a prendere le armi contro il tiranno. Fa da colonna sonora sottintesa di ogni insurrezione. Claude Joseph Rouget de Lisle, autore del testo, aspetta da un paio di secoli denuncia per istigazione.
L’utopia non è il traguardo ma il punto di partenza. Si immagina e si vuole realizzare un luogo che non c’è ancora.
Uno stupro del territorio
La Val di Susa si batte dal tempo di una generazione per il motivo opposto: perché il luogo ci sia ancora. Non quello immaginato da chi, pur di realizzare profitto su uno dei tanti grandi lavori, è indifferente al danno procurato alla salute pubblica. Utopia, e delle peggiori, è l’asservimento di un territorio a una speculazione dichiarata, per meglio abusare, strategica. Le perforazioni e la polverizzazione di giacimenti di amianto fanno inorridire chiunque abbia notizia del guasto micidiale di uno spargimento delle sue fibre tossiche. La mia definizione è: stupro di territorio. La Val di Susa si batte contro il disastro ambientale per scongiurarlo, per non doverlo piangere dopo. Si tratta della più intensa e durevole lotta di prevenzione popolare. Paga questa sua volontà con una repressione su scala di massa e con la militarizzazione della sua vita civile.
Una grande prepotenza pretende di schiacciare le ragioni e i corpi di una piccola vallata. Resistono da una generazione con determinazione commovente. Da commosso ho aderito alle loro ragioni aggiungendo spesso e da molti anni la mia presenza fisica alle loro manifestazioni. Il nostro paese ha bisogno di rinnovarsi scrollandosi di dosso i parassiti delle corruzioni, degli interessi privati a danno delle pubbliche spese, dei privilegi. L’organismo è sano ma il suo manto è aggredito. In Val di Susa il corpo reagisce e ostacola lo scavo degli acari infestanti, dei tarli rosicchianti le montagne. La resistenza civile produce gli anticorpi necessari.
Così pure a Lampedusa una comunità ha saputo reagire alla degradazione imposta da leggi criminali. Gli ordini venuti dal continente hanno voluto stringere un nodo scorsoio intorno all’isola e farne terra chiusa. I Lampedusani hanno slegato e fatto terra aperta.
Dare cibo, acqua, vestiti, alloggio, premura per gli ammalati, i prigionieri, i morti: le sette opere di misericordia sono state compiute da loro, che vivono sul mare e usano leggi opposte. E non sono LampeduSanti, ma semplicemente LampeduSani. La rima nord e sud, Val di Susa e Lampedusa, riscatta oggi il titolo di cittadini da prepotenze che li vogliono sudditi.
Perché si dia istigazione alla violenza bisogna dimostrare la connessione diretta tra parole e azioni commesse. In una dichiarazione riportata su «Left», supplemento di «l’Unità» (21 giugno 2014), Gaetano Azzariti, professore di Diritto costituzionale, afferma: «L’articolo 21 della nostra Costituzione ci permette la massima libertà di esprimere le nostre opinioni. Per questo i pubblici ministeri, in un caso come quello di De Luca, dovranno dimostrare la connessione diretta tra le parole e l’azione… Se non si può dimostrare un’immediata successione di eventi tra parole e azioni, allora il reato non esiste».
Istigazione alla violenza: negli anni passati degli autorevoli esponenti di partiti, con largo seguito di iscritti e militanti, hanno di volta in volta pubblicamente minacciato il ricorso alle armi per raggiungere dei loro obiettivi. In altre circostanze hanno annunciato il ricorso all’evasione fiscale di massa. Non sono stati inquisiti dalla magistratura per il reato di istigazione.
Omissione di confronto
Sono d’accordo: anche se investiti di autorità e di conseguente facoltà di promuovere azioni criminose presso il largo seguito di aderenti, hanno esercitato il loro diritto di parola. Nel mio caso la pubblica accusa afferma che le mie parole hanno avuto un seguito di azioni. Mi attribuiscono un ruolo che nemmeno gli alti esponenti di partito hanno avuto.
Non appartengo a nessuna formazione politica. Partecipo da cittadino a manifestazioni che condivido e per interesse di testimone. Ma la pubblica accusa afferma che avrei influenzato il comportamento di persone e la commissione di reati.
Si è arrivati a pronunciare questo ragionamento: dopo le mie frasi si sono prodotti tali episodi. E prima delle mie frasi? Manca per omissione il confronto. Dopo la fabbricazione dei fazzoletti di carta le persone si sono soffiate il naso. E prima? L’argomento è di quelli messi in ridicolo da un buon millennio e fissati dalla frase latina: «Post hoc, ergo propter hoc»: dopo di questo, dunque a causa di questo.
I pubblici ministeri hanno esibito un elenco di episodi compiuti da militanti No Tav, compilato dalla Digos di Torino, accaduti a partire da settembre 2013. Tutti questi episodi sono stati rivendicati da anonimi militanti No Tav che dichiaravano di avere agito in solidarietà con quattro loro militanti arrestati. Tutti gli autori degli episodi di quell’elenco hanno agito per sostenere la causa dei loro compagni. Almeno uno, uno solo, poteva aggiungere, magari anche in margine come postilla: e poi perché l’ha detto De Luca sull’«Huffington Post».
I pubblici ministeri esibiscono come dimostrazione un elenco incompleto, privo di raffronto con il periodo precedente, e che per giunta dimostra il contrario.
Quegli episodi non c’entrano niente con le mie frasi incriminate da loro.
Dalle mie parti, al Sud, esiste un altro tipo di responsabilità della parola. Uno augura il peggio a una persona e quella più tardi subisce un incidente. Il tale del malaugurio viene ritenuto responsabile dell’accaduto e dà così avvio alla sua fama di iettatore.
Quando in uno stadio del Nord Italia si incita la natura invocando «Forza Vesuvio» si sta istigando un vulcano all’eruzione. La reazione da parte meridionale non è stata una denuncia ma l’esorcismo efficace di una grattatina in zona pubeale. Che la linea Tav in Val di Susa possa essere sabotata, che possa non sbucare dall’altra e da nessuna parte. Che possano finire i fondi pubblici destinati all’affarismo di aziende collegate ai partiti. Che un governo di normali capacità di intendere e volere la lasci incompiuta, come già altri 395 (trecentonovantacinque) grandi lavori in Italia. Che possa essere dichiarata disastro ambientale e i suoi responsabili perseguiti per questo. La linea Tav va sabotata: la frase rientra nel diritto di malaugurio.
Ministri di questo e di altri governi hanno dichiarato la linea Tav in Val di Susa opera strategica. Strategico è aggettivo di origine militare, stratega era il comandante dell’esercito greco. L’effetto è anche militare: il cantiere della perforazione e la vallata sono sotto presidio di forze armate oltre che di corpi di polizia e carabinieri.
Stati di emergenza
Area di interesse strategico vuol dire semplicemente area sottratta a dissenso, dove non si può protestare e dove pertanto si può usare l’esercito con funzione di ordine pubblico. La definizione di area d’interesse strategico è pomposa ma recente. Applicata al cantiere Tav di Chiomonte, con legge del 12 novembre 2011, è stata in precedenza inventata per la Regione Campania, allo scopo di proteggere dalle proteste civili la costruzione di impianti di smaltimento rifiuti. Si capisce che l’aggettivo «strategico» infilato nella legge del 2011 è stato preso dalla spazzatura (il DL 23/5/2008 n. 90 32 attribuisce qualifica di «area di interesse strategico nazionale» a siti, aree, impianti connessi alla gestione di rifiuti).
Sono incriminato per avere espresso la necessità di sabotare un’opera strategica per lo Stato. Ma a costituirsi parte civile contro di me è una ditta privata, Ltf sas. Non dovrebbe essere lo Stato con la sua avvocatura? Lo Stato non si ritiene danneggiato dalla mia insubordinazione contro l’opera così decisiva per le sorti pubbliche? Si nasconde dietro la parte civile di una qualunque ditta privata?
A proposito, la ditta in questione non è italiana ma francese, con sede a Chambery: ltf sta per Lyon Turin Ferroviaire. Bizzarrie del destino: caso vuole che in Francia non siano in vigore le nostre normative antimafia nell’assegnazione degli appalti. Caso vuole che per la Francia la linea Lyon-Torino non sia strategica né prioritaria. L’entusiasmo della ditta ltf non è condiviso in patria.
Chiedo che sia lo Stato a costituirsi parte civile contro di me. Mi si processa per una dichiarazione contro un’opera solenne e strategica del nostro territorio e in caso di condanna dovrei rimborsare un’azienda francese anziché lo Stato italiano? Chiedo alla pubblica e distratta autorità di procedere alla costituzione di parte civile contro di me. Sarò condannato per essermi opposto a un’opera di Stato e non a una qualunque ditta estera venuta a far danno da noi
Il neo direttore generale dei Beni culturali, intervistato da Sara Grattoggi, risponde a Volpe: «Come risultato finale mi pare ovvio che le cinque grandi piazze di Roma antica vadano riproposte nella loro interezza, eliminando via dei Fori, e che il loro interesse pubblico d’insieme sia nettamente superiore a quello delle sistemazioni successive». La Repubblica, ed. Roma , 7 gennaio 2015
Professor Francesco Scoppola, come valuta le proposte della commissione stato-comune sull’area archeologica centrale?
«Ogni commissione - risponde il direttore generale del Mibact - lavora per riunire una pluralità di vedute e anche in questo caso mi pare che il confronto sia stato fruttuoso. Ma non sono certo io a dover valutare il risultato, visto che da poche settimane la mia competenza nel ministero è quella delle belle arti e del paesaggio, mentre per l’archeologia è stato riconfermato Gino Famiglietti».
Lei prese parte al progetto del 1985-1988 che prevedeva lo smantellamento di Via dei Fori Imperiali. Un punto che la commissione, però, non intende attuare, almeno in una prima fase.
«Anche in quel progetto lo scavo archeologico stratigrafico dell’area oggi occupata da via dei Fori Imperiali non rappresentava la prima fase da attuare, ma una delle ultime. Come risultato finale mi pare ovvio che le cinque grandi piazze di Roma antica vadano riproposte nella loro interezza, eliminando via dei Fori, e che il loro interesse pubblico d’insieme sia nettamente superiore a quello delle sistemazioni successive. Se ci fossero dubbi in proposito dovrebbe bastare a superarli lo straordinario afflusso di pubblico ottenuto da Piero Angela per il bimillenario della morte di Augusto. Per la prima volta le impalcature con le gradonate non guardavano le sfilate sul nastro d’asfalto ma lo scenario attorno a quella strada».
L’unico modo per superare il problema tecnico dei diversi livelli degli scavi e dell’attuale piano stradale sarebbe, secondo la commissione, una soluzione simile a quella proposta dal professor Panella, che prevedeva una leggera passerella in acciaio tra piazza Venezia e largo Corrado Ricci, poggiato sui livelli antichi, ma in linea con il percorso attuale. Scoppola, la vede come una soluzione praticabile?
«Il problema dei livelli diversi esiste e fu segnalato già da Leonardo Benevolo. Ma non si tratta certo di problemi insolubili e non è detto che si debba fare ricorso a qualcosa da aggiungere in via permanente».
La commissione intanto ha proposto una revisione del vincolo su via dei Fori. Cosa ne pensa?
«Nessun vincolo di nessun tipo ha mai proibito le indagini, le ricerche, le prospezioni, gli scavi stratigrafici».
Se per il momento non si smantellerà via dei Fori, si ipotizza invece la rimozione di via Alessandrina.
«Iil valore storico di via Alessandrina è indubbiamente maggiore di quello di via dei Fori e tuttavia è anch’esso secondario rispetto a quello degli spazi antichi».
La commissione giudica “assolutamente strategica” la prosecuzione della metro C non solo fino a piazza Venezia, ma anche oltre, secondo il progetto originario. Concorda?
«Quello della mobilità pubblica è certamente uno dei principali nodi da sciogliere prima di poter dare piena attuazione alla pedonalizzazione della zona archeologica centrale. Se i tempi e i costi della metropolitana romana si avvicinassero alle medie europee, scavando finalmente e sempre a “cielo chiuso” al di sotto della quota archeologica e scegliendo opportunamente il posizionamento delle stazioni e delle risalite in superficie in corrispondenza degli strati geologici privi di contenuto archeologico, la questione non si porrebbe neppure perché tutto sarebbe subito e contemporaneamente realizzabile».
La Repubblica, 7 gennaio 2015 (m.p.r.)
IL SALVAGENTE DEI GIUDICI
PER I GUASTI DELLA POLITICA
di Tomaso Montanari
E alla fine, come sempre, tocca alla magistratura rimediare ai danni di una politica corrotta o suicida. E davvero si preferirebbe raccontare un’altra storia: ma quella storia non c’è. È ora un tribunale, un tribunale del lavoro, a dire che Beatrice Basile deve essere reintegrata nel ruolo di soprintendente di Siracusa. Dal quel ruolo la Basile era stata allontanata il 3 settembre scorso, per volontà della Giunta Crocetta. Formalmente perché avrebbe acconsentito alla realizzazione di una piscina fuori-terra (una grande vasca da bagno rimuovibile) nella villa dell’assessore regionale Mariarita Sgarlata, contestualmente costretta a dimettersi. In realtà perché sia la Basile che la Sgarlata rappresentavano un ostacolo per la mafia del cemento: quella che non si accontenta di controllare il territorio della Sicilia, ma preferisce tombarlo per sempre.
Come commentò lucidamente l’ex parlamentare Fabio Granata, rimuovere la Basile significava «azzerare il sistema della tutela paesaggistica e architettonica: una vera vergogna. Rimuovendo con risibili e strumentali motivazioni la Soprintendente Basile e altri Soprintendenti non “assoggettabili”, non solo si decide di accontentare i cementificatori e i loro complici ma anche di demolire l’intero sistema di tutela del paesaggio e del territorio». Importa oggi ricordare che la stessa Beatrice Basile reagì con senso del bene comune, dichiarando con sobrietà e fermezza «che la difesa dei nostri beni culturali non si incarna solo in un Soprintendente; è opera, dovere e risultato comune, come comuni sono quei beni. Non esistono taumaturghi, esistono cittadini. Rassicuro gli amici: non corro alcun pericolo, non un briciolo in più di quello che corre, oggi, qualsiasi mio collega in Sicilia che intenda assolvere con correttezza e onestà intellettuale ai propri compiti di tutela». Il pericolo lo corrono «il paesaggio e patrimonio storico e artistico della nazione» (art. 9 Cost.) che si trovano sul territorio siciliano.
Perché nel 1975, e cioè proprio mentre nasceva il Ministero per i Beni culturali, si decise che la Sicilia sarebbe stata terra franca: solo lì le soprintendenze sarebbero state direttamente sottoposte al governo regionale. In altre parole, la classe politica sicula poteva mettere le mani, e quali mani, sul bene comune non rinnovabile del territorio e dell’arte, mandando in fumo in pochi decenni un passato ineguagliabile, insieme a tutto il futuro possibile. Come è poi puntualmente successo: in un gorgo di degrado che non ha pari nel resto della pur degradatissima Italia.
Per questo ha sacrosanta ragione Salvatore Settis, che in una intervista a “La Sicilia” del 10 dicembre scorso ha invitato con forza a rimediare a quel tragico passo falso, cancellando questa nefasta autonomia e riportando la Sicilia in Italia.
Perché oggi plaudiamo alla magistratura che restituisce una vera soprintendente ad una delle più struggenti città del mondo: ma non potremo sempre cavarcela così.
LA SOPRINTENDENTE SOSPESA E REINTEGRATA
"LA MIA RIVINCITA SULLE LOBBY DEL CEMENTO"
di Antonio Fraschilla
Palermo. «Felice per il provvedimento del giudice ma preoccupata per i tempi del reintegro: d’altronde lo stesso dirigente generale che mi ha allontanata dovrebbe adesso reintegrarmi ». La fu ex soprintendente di Siracusa, Beatrice Basile, ha in mano la sentenza del giudice del lavoro che la insedia nuovamente alla guida della tutela dei beni culturali aretusei, dopo essere stata sospesa dall’incarico per una velenosa vicenda di piscine autorizzate all’ex assessore Mariarita Sgarlata.
La Basile con la Sgarlata ha condotto diverse battaglie contro la cementificazione di Siracusa e dopo le polemiche sollevate dal suo improvviso allontanamento, lei nota in città per le azioni a difesa del patrimonio culturale, la Regione per tutta risposta ha avviato il trasferimento di altri due dirigenti che lavoravano a stretto contatto proprio con la soprintendente. Ma la Basile non si è data per vinta e ha fatto ricorso al giudice del lavoro.
Quindi adesso è nuovamente soprintendente?
«No, perché il dirigente generale che mi ha allontanata dal servizio mi dovrebbe reintegrare. E temo che si perderà altro tempo e che passeranno molti mesi prima che possa tornare al mio posto. Ormai mi aspetto di tutto da questa Regione».
Lei è stata “cacciata” per aver autorizzato una piscina prefabbricata all’ex assessore Mariarita Sgarlata, dimessasi dopo le polemiche. Rifarebbe quel provvedimento?
«Certo che lo rifarei, in quel terreno non esisteva alcun vincolo e si trattava di una piscinetta prefabbricata. Ma nel decreto che mi sollevava dall’incarico non si faceva alcun riferimento alla piscina, bensì a non meglio precisate relazioni su ispezioni avvenute lo scorso agosto. Io mi ero insediata nel novembre 2013, pochi mesi prima, quindi cosa avrei potuto fare in poche settimane tanto da essere sollevata dall’incarico? La storia della piscina è successiva di venti giorni rispetto alla mia sospensione. La verità è che sono stata allontanata per le mie battaglie a difesa del territorio di Siracusa. Ci sono grandi interessi d’imprenditori che erano pronti a cementificare la città».
Può fare qualche esempio?
«Come primo atto dal mio insediamento a soprintendente ho approvato il perimetro del parco archeologico, includendovi anche aree sulle quali erano stati presentati piani di lottizzazione per case e alberghi a ridosso di zone d’inestimabile valore culturale. Poi mi sono sempre spesa contro un’altra lottizzazione, quella della Pillirina: un’area sulla quale volevano costruire decine di villette».
Anche sul porto storico insistono vari progetti.
«Certo, e grazie al nostro lavoro in soprintendenza erava- mo riusciti a far modificare un progetto che prevedeva la realizzazione di una piattaforma galleggiante grande quanto un campo da calcio a ridosso di Ortigia. Insomma, in città molti speculatori sapevano che avrebbero avuto un osso duro alla guida della soprintendenza».
Il governatore Crocetta della lotta alla mafia e alla corruzione ha fatto una bandiera. Lo ha mai sentito su questa vicenda?
«Sì, mi ha anche chiamata per farmi le congratulazioni dopo la sentenza di reintegro del giudice. Ma concretamente non ha mosso un dito per evitare quanto accaduto. Forse il suo obiettivo era solo far dimettere la Sgarlata. In ogni caso sapeva bene chi erano gli sponsor politici di questa operazione ed erano, anzi sono ancora, tutti nella sua maggioranza».
Mille proroghe nella legge del governo, ma per i più deboli non c'è proroga alcuna. Gli assessori di Roma, Milano e Napoli contro il governo. Il ministro Lupi: «Non drammatizzate». Il manifesto, 7 gennaio2015
Le decisione del governo di non rinnovare la proroga degli sfratti per il 2015 rischia di trasformarsi in «una bomba sociale». A lanciare l’allarme su un problema che non si può ridurre a una pura e semplice questione di ordine pubblico sono stati ieri Francesca danese, Daniela Benelli e Alessandro Fucito, assessori alle politiche abitative di Roma, Milano e Napoli, tre dei quattro Comuni italiani ( l’ultimo è Torino) maggiormente colpiti dall’emergenza sfratti. E lo hanno fatto lanciando un appello al governo Renzi in cui si chiede di fermare l’intervento delle forze dell’ordine per quanti si trovano ad avere il contratto scaduto, scongiurando così «una situazione altrimenti ingestibile». Un appello al quale il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi ha risposto invitando i tre assessori a «non drammatizzare». per l’emergenza casa, ha detto Lupi, «il governo nel 2014 non è stato a guardare, anzi ha finalmente imboccato una strada nuova, cosciente che l’emergenza andava affrontata in modo più radicale e e non con lo strumento vecchio e logoro della proroga».
Il problema nasce con al fine dell’anno e l’approvazione del decreto Milleproroghe senza l’abituale proroga degli sfratti per fine locazione. Un intervento giustifica dal ministero delle Infrastrutture con il fatto che nel decreto casa sono già attivi due fondi per un totale di 446 milioni, e salutato con soddisfazione da Confedilizia, l’organizzazione dei proprietari immobiliari per il cui presidente Corrado Sforza Fogliani, il governo ha messo fine a quella che era ormai diventata una «liturgia». In realtà si tratta di un autentico dramma per le famiglie interessate, circa 30 mila in tutta Italia, che rischiano adesso di ritrovarsi con la polizia alla porta di casa. Tanto più se si considera che si tratta di famiglie particolarmente disagiate dal punto di vista economico(il provvedimento riguarda quanti hanno un reddito inferiore ai 27 mila euro annui lordi) oppure con a carico un parente anziano, portatore di handicap o malato terminale. «Non sono famiglie che vogliono restare nella casa in cui sono perché particolarmente attratte da quell’abitazione, ma perché non sono in condizione di trovare sul mercato un altro alloggio adeguato alle loro ristrette possibilità», ha denunciato nei giorni scorsi il segretario generale del Sunia Daniele Barbieri.
Nei prossimi giorni i tre assessori porteranno la questione sfratti anche all’attenzione dell’Anci ma i tempi sono stretti e la situazione rischia davvero di diventare esplosiva in tutta Italia, dove le famiglie a rischio sfratto sono tra le 30 e le 50 mila.
Quella legata agli sfratti è un’emergenza ulteriormente aggravata dalla crisi economica. Dal 2008 a oggi Roma ha registrato oltre diecimila sentenze per finita locazione, Napoli 4.500 e Milano 4.000. Anche se lo stesso Viminale ammette di no avere dati certi, il 70% delle famiglie interessate dal provvedimento ha i requisiti previsti dalla legge per ottenere una proroga. Delle oltre 70 mila sentenze di sfratto emesse nel 2014 in Italiane sono state eseguite 30 mila il 90% delle quali per morosità spesso incolpevole. In pratica nel nostro paese si eseguono mediamente 140 sfratti al giorno con la forza pubblica e se si escludono le famiglie proprietarie di case e gli assegnatari di alloggi pubblici, questo significa che ogni anno in Italia uan sentenza di sfratto quasi sempre per morosità incolpevole, tocca una famiglia su quattro.
Definire allarmante un simile quadro della situazione è a dir poco riduttivo. La proroga sarebbe dovuta servire proprio per intervenire in aiuto a questi nuclei familiari, che il governo ha invece preferito ignorare garantendo in compenso un intervento a sostegno di adeguati piani casa da parte dei comuni,. Intervento che, però, finora non si è visto.
Chiaro che la situazione rischia adesso di diventare incandescente. «Si rischia una bomba sociale devastante», ha detto ieri il deputato di Sel Filiberto Zaratti. «Serve un piano straordinario che affronti e risolva l’emergenza abitativa con stanziamenti di risorse per l’edilizia residenziale pubblica e politiche abitative che ci consentano di uscire dalla logica dell’emergenza»
Cominciano le tattiche dilatorie sul Progetto Fori? Una disamina puntuale delle molte e vistose contraddizioni e ambiguità in campo. Carteinregola, 6 gennaio 2015 (m.p.g.)
Sul quotidiano La Repubblica di oggi, il Presidente della “Commissione Paritetica per l’elaborazione di uno studio per un Piano strategico per la sistemazione e lo sviluppo dell’Area Archeologica Centrale di Roma” Giuliano Volpe, risponde all’intervista rilasciata dall’assessore Caudo sempre a Repubblica il 3 gennaio sulla volontà dell’amministrazione Marino di portare avanti il Progetto Fori con il ripristino della continuità dei Fori smantellando la strada costruita all’inizio degli anni ’30 da Mussolini. In realtà, nonostante l’annuncio, il titolo e il sommario dell’articolo anticipino che “il Mibact “boccia” Caudo: impossibile smantellare via dei Fori Imperiali“, le dichiarazioni di Volpe sono in realtà un capolavoro di “svicolamento” davanti alle domande, inutilmente incalzanti, del giornalista Boccacci.
Eccole:
1) “Qual è il giudizio sul progetto [del Campidoglio, confermato da Caudo nell’intervista a Repubblica]?"
2) “Il Campidoglio è favorevole allo smantellamento…e voi”?
3/4) “Che proponete?… Che cosa bisognerebbe aspettare?”
5) “…Che manca per realizzare un sogno coltivato ormai da tre decenni?”
6) "…La commissione è divisa…Adriano La Regina è favorevole allo smantellamento, con una posizione opposta a quella degli altri componenti…”
Ed ecco le risposte, rispetto allo smantellamento di Via dei Fori Imperiali, che non arrivano a nessuna conclusione chiara (tantomeno a un “no” deciso):
1) L’assessore Caudo [che nell’intervista ha definito “contraddittoria” la posizione della Commissione sulla rimozione della strada aggiungendo che restituisce posizioni diverse NDR] “su questo punto ha frainteso i contenuti della relazione”
2) La commissione ha sottolineato che “Via dei Fori Imperiali …è ormai parte integrante del paesaggio urbano… svolge una funzione di collegamento essenziale nella città"
3/4) “Abbiamo proposto una soluzione progressiva…un sostanziale miglioramento della situazione dell’attuale strada”… “E soprattutto un progetto organico…”
5) “C’è un problema tecnico che riguarda i livelli degli scavi, molto inferiori a quello della strada [sic!]” “la commissione ha proposto di proseguire sulla via dello studio e della progettazione di soluzioni innovative…“
6) “La Regina ha condiviso l’intera impostazione… solo sul punto della conservazione del tracciato strada c’è stata una posizione differente…”[il punto centrale del Progetto Fori NDR] e “più sui tempi che sugli obiettivi da raggiungere”…
L’unica cosa che ci sembra chiara, in realtà, è che nessuno ha il coraggio di realizzare davvero il progetto di Cederna, Argan e Petroselli, ma neanche di dire che il progetto di Cederna, Argan e Petroselli non “s’ha da fare”. Quindi si fa un po’ di teatro, si adducono i “tanti problemi tecnici“, dal dislivello in su – cioè si scopre l’acqua calda alla faccia di tutti quelli che da decenni hanno lavorato a un progetto che non è più da pensare, solo da realizzare – e si chiede altro tempo per approfondire ancora. Naturalmente per passare da uno “studio” a “un progetto strategico condiviso“… senza “preconcetti“, evitando le “polemiche“, e superando “le posizioni ideologiche contrapposte“. Amen.
A questo punto la palla passa a Ignazio Marino, che deve scegliere tra la silenziosa eutanasia del progetto prospettata dalla Commissione Paritetica (e dal ministro Franceschini?) e la realizzazione del Progetto Fori che ha promesso ai suoi elettori, portato avanti dal suo assessore, ma che in realtà non è né di Marino, né di Caudo, ma di Argan, Cederna, Petroselli (Benevolo, Insolera, Calzolari, Nicolini…).
In questi tempi bui, noi cittadini guardiamo al Sindaco Marino con fiducia e timore, perché sappiamo che si trova ad un bivio. Da una parte può approfittare delle eccezionali circostanze negative per tirare fuori un coraggio eccezionale e passare alla storia (non solo con il Progetto Fori). Dall’altra può scivolare più o meno consapevolmente nel solito opportunismo all’italiana, che prevede virtuose dichiarazioni d’intenti, che non passano mai ai fatti, mentre tutto continua come prima.
Ma in questo caso, il destino della Capitale sarebbe segnato: una lenta agonia, che forse è cominciata proprio quando si è persa la capacità di credere a progetti che pensavano in grande. In grande per l’ambizione del cambiamento e per il coinvolgimento di tutti e di tutta la città.
Riferimenti
Abbiamo pubblicato recentemente su eddyburg l'intervista all'assessore Giovanni Caudo, e un ampio servizio di Annamaria Bianchi. Altro materiale lo trovate nelle cartelle dedicate a Roma nel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg-
«Il "progetto di rammendo" di Renzo Piano, pur originale e privo di sensazionalismi, non basta a risolvere la questione sociale. Dimenticate da tutti, perfino da urbanisti e sociologi, le diseguaglianze sono il vero motore delle rivolte». Il manifesto, 6 gennaio 2015
Cessato l’allarme, la “questione periferie” torna nel cono d’ombra dei media come fosse stata un fenomeno isolato e passeggero, un capriccio di una parte della città delusa e abbandonata. Ora c’è il “progetto di rammendo” affidato a Renzo Piano e al suo gruppo di lavoro G124, e così la politica passa volentieri la mano (meglio sarebbe dire la palla) all’architettura e all’urbanistica, rinunciando al suo ruolo guida.
È invece utile non sottovalutare quanto è successo nelle nostre periferie (e quello che potrebbe ancora accadere) ricordando le parole di una lunga intervista a Foucault («spazio, sapere e potere») a chi gli chiedeva quale fosse il ruolo dell’urbanistica e dell’architettura nella società moderna: «All’inizio del XVII secolo si smette di concepire la città come un luogo privilegiato, come un’eccezione all’interno di un territorio costituito da campi, foreste e strade. D’ora in poi le città, con i problemi che sollevano e le configurazioni particolari che assumono, servono da modelli per una razionalità di governo che verrà applicata all’insieme del territorio».
E del resto lo stesso Renzo Piano conferma come «il grande progetto del nostro Paese sia quello delle periferie: la città del futuro, la città che sarà, quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. Sono ricche di umanità, qui si trova l’energia e qui abitano i giovani carichi di speranze e voglia di cambiare».
Tuttavia incalzato dai suoi allievi che gli chiedono se certi progetti architettonici possono rappresentare delle forze di liberazione o, al contrario, delle forze di resistenza, Foucault risponde: «La libertà è una pratica. Dunque può sempre esistere in effetti un certo numero di progetti che tendono a modificare determinate costrizioni, ad ammorbidirle, o anche ad infrangerle, ma nessuno di tali progetti, semplicemente per propria natura, può garantire che la gente sarà automaticamente più libera».
Il contributo di Renzo Piano al problema delle periferie, sia pure mosso da buoni propositi, ha il punto debole (non imputabile a lui) nell’affrontare la questione solo nella direzione dell’architettura e dell’urbanistica: «Si deve intensificare la città, costruire sul costruito, sanare le ferite aperte. Di certo non bisogna costruire nuove periferie oltre a quelle esistenti: devono diventare città ma senza espandersi a macchia d’olio, vanno ricucite e fertilizzate con strutture pubbliche.È necessario mettere un limite a questo tipo di crescita, non possiamo più permetterci altre periferie remote, anche per ragioni economiche». Su questa questione, nel procedere dell’intervista, Foucault si esprime con molta determinazione: «Penso che l’architettura (e l’urbanistica, ndr) possa produrre, e produca, degli effetti positivi quando le intenzioni liberatorie dell’architetto coincidono con la pratica reale delle persone nell’esercizio delle loro libertà».
Ora bisogna riconoscere che Renzo Piano è uno dei più bravi architetti italiani per cultura, serietà e professionalità, ma ha ragione Emanuele Picardo ad affermare su questo stesso giornale (il manifesto del 30/12/2014) che: «Affrontare la periferia solo con lo sguardo dell’architetto è un peccato originale che ne impedisce una lettura complessa e articolata».
E qui è necessario restituire di nuovo la parola a Foucault: «L’esercizio della libertà non è del tutto insensibile alla distribuzione degli spazi, ma esso può funzionare soltanto dove si dà una certa convergenza; se vi è divergenza o distorsione l’effetto prodotto è immediatamente contrario a quello ricercato». Questo è quello che è accaduto al progetto rutelliano delle «cento piazze». Alcune di esse, come a San Basilio hanno avuto un certo successo; altre, come al Quarticciolo, stanno per essere smantellate perché gli abitanti le sentono estranee e vogliono ritornare alla piazza che c’era negli anni ’50.
Dunque un progetto architettonico-urbanistico o viene concepito e realizzato direttamente (e autoritariamente) dal Principe, oppure, in epoca moderna, non può che scaturire (sia pure con l’autonomia necessaria) all’interno di una cornice politica che detta una propria visione della società, una politica intesa come mediazione di interessi in gioco, interpretazione dei bisogni, espliciti o meno, degli abitanti che quei luoghi li abitano e li attraversano quotidianamente. Se la politica delega in toto la soluzione dei problemi sociali all’architettura e all’urbanistica, il progetto che ne consegue risulta monco, affidato al libero arbitrio (ed estro) del suo Progettista che viene gravato di un compito improprio e improbo, ovvero quello di risolvere questioni sociali che non gli competono direttamente, il che facilmente degenera in opere autocelebrative che a Roma, per fare un esempio, si chiamano la “Nuvola” o lo “Stadio del nuoto” (e rimane solo da sperare che tra di esse non compaia infine anche il nuovo stadio della Roma a Tor di Valle).
È vero che il “progetto di rammendo” di Piano ha una sensibilità diversa e si rivolge ai quartieri periferici senza cercare effetti sorprendenti né sensazionalismi e utilizzando poche risorse (poco più dello stipendio di senatore a vita messo a disposizione da Piano), ma è la cornice politica che manca, ciò che a suo tempo dava senso alle geniali iniziative di Nicolini nello scenario politico impostato da Petroselli. Perché a fronte di tante demagogie populiste bisogna pur affermare e difendere l’autonomia delle scelte progettuali — architettoniche o urbanistiche — che mai debbono essere piegate al volere dei poteri dominanti quale che siano, come avveniva già nel Rinascimento.
Una delle principali condizioni che distingue le attuali periferie da quelle degli anni ’50 e ’60 è la crescita progressiva delle disuguaglianze sociali. Anche nelle prime periferie urbane, la causa del degrado nasceva dalle condizioni di povertà ma, all’epoca, c’era l’attesa e la quasi certezza che lo sviluppo e il benessere prima o poi, avrebbe raggiunto tutti gli strati sociali. Queste condizioni di povertà sono diventate ora strutturali, croniche, fisiche, esistenziali, trasformate in condizioni di miseria, senza che si abbia più la percezione che esse possano migliorare, in un quadro sociale imbarbarito dove prevale il morbo individualista del «speriamo che io me la cavo».
E al tempo stesso la questione sociale al centro di tante e famose opere letterarie dell’800 e della prima metà del ’900, da Zola a Steinbeck, da Balzac ad Hugo, come affermava qualche giorno fa Alberto Asor Rosa su La Repubblica, «non vive più nelle coscienze delle persone. La percezione e la condanna delle disuguaglianze sociali è stata respinta ai margini, non interessa». La stessa sorte capita agli urbanisti, ai sociologi, agli antropologi per i quali la questione delle disuguaglianze in quanto suddivisione della società tra chi possiede molto e chi non possiede niente, si consuma e si dissolve nella ricerca di improponibili soluzioni specialistiche.
Perfino i giovani ricercatori la aggirano: anche loro indagano casi particolari, segmentazioni sociali, quasi che questi fossero isolabili dal contesto sociale più generale. Ci si occupa di rifugiati, profughi, Rom, barboni, occupanti di case, storie isolate di vicende personali. È come se questa società si fosse fatta distratta, avesse rimosso il tema del conflitto sociale e non tenesse più in conto di quello che Stiglitz chiama il prezzo della disuguaglianza, il vero motore delle rivolte. Se il mondo diventa sempre più duale e la periferia rappresenta quel 99% di chi non possiede niente che assedia le comunità blindate di quel l’1% che possiede tutto, la soluzione può essere solo quella di cambiare direzione, e politica
«Per la mania delle mega-opere sono stati tralasciati ilavori ordinari e la viabilità minore. Risultato? 5 crolli solo in Sicilia». Ma non solo in Sicilia. Articoli di DanieleMartini e Giuseppe Lo Bianco. Il FattoQuotidiano, 6 gennaio 2015
L’ANAS DI CIUCCI:
STRADE E PONTI CHE SPROFONDANO
di Daniele Martini
Sarà colpa degli appalti assegnati con criteri discutibili,dei lavori poco accurati, della manutenzione fatta con il contagocce, oppuredel destino cinico e baro. Fatto sta che soprattutto in Sicilia, ma non solonell'isola, i viadotti e i ponti vecchi e nuovi vengono giù. L'ultimo, loScorciavacche dalle parti di Mezzojuso sulla statale 121 tra Palermo edAgrigento ha battuto tutti i record restando transitabile appena una settimana:inaugurato alla vigilia di Natale è stato chiuso alla fine dell'anno. “Chiusosolo per precauzione”, minimizza parlando con il Fatto Quotidiano Alfredo Bajo, il condirettore generale dellaprogettazione Anas, in pratica il responsabile tecnico dell'azienda pubblicadelle strade committente dell'opera. Dalle immagini appare chiaro, però, che lachiusura più che dettata dalla prudenza è imposta dal fatto che lì le auto nonpossono transitare proprio più, essendo la carreggiata sprofondata per oltre unmetro. Di fronte a quella voragine, a conti fatti è andata bene che non cisiano state vittime. Così come era andata sostanzialmente bene anche lenumerosissime altre volte in cui ponti e viadotti negli ultimi anni si erano afflosciaticome sacchi vuoti.
Manutenzionee arterie minori dimenticate
La provvidenziale assenza di morti o la circostanza che levittime siano state frettolosamente derubricate come incidenti sul lavoro, haimpedito che quei fatti gravissimi e reiterati fossero interpretati per quelche sono: un fenomeno preoccupante e pericoloso, la riprova che l'attenzionespasmodica dedicata dal presidente Anas Pietro Ciucci alle grandi opere, dalfaraonico ponte sullo Stretto di Messina alla regina delle incompiute, laSalerno-Reggio Calabria, ha lasciato il segno sulle strade statali normaliandando a scapito dei lavori minori e della manutenzione accurata. Dopo anni diquesta politica, ora si contano i cocci e anche il governo di Matteo Renzi e ilministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, si rendono conto che non si puòpiù far finta di nulla.
LaTecnis e il gioco dei lavori chiusi in anticipo
Nel caso dell'ultimo viadotto siciliano collassato ci sonomolte circostanze che lasciano perplessi. Per esempio la decisione diinaugurare a tutti i costi l'opera con 3 mesi di anticipo sui tempi previstiper la fine dei lavori affidati da Anas a un raggruppamento di imprese tra cui,con le cooperative Cmc e Ccc, spicca la ditta Tecnis del siciliano MimmoCostanzo, erede di uno dei 4 famosi Cavalieri del lavoro di Catania. Con lostesso sistema della consegna anticipata dell'opera rispetto alla scadenzaufficiale, l'Anas 2 anni fa pagò sotto forma di premio proprio alla Tecnis labellezza di 26 milioni di euro su un lavoro di circa 250 per la costruzione di11 chilometri della Salerno-Reggio Calabria nel parco del Pollino, nonostantequell'autostrada sia tutto tranne che un esempio di lavori veloci. Progettistaera Nino Bevilacqua, un signore che si sposta in elicottero e vive in uncastello affacciato sul porto di Palermo, un professionista tra i più pagatid'Italia, usato spesso da Tecnis. Forse anche per la presenza di Bevilacqua,l'Anas apprezza molto la Tecnis a cui affida spesso e volentieri i lavori. C'èla Tecnis, per esempio, sulla Variante di Morbegno della statale 38 inValtellina, appalto da oltre 200 milioni di euro. C'è Tecnis sullaPalermo-Agrigento e sulla Agrigento-Caltanisetta, sulla Rieti-Terni (altri 170milioni di euro) e c'era Tecnis sulla Variante di Quadri, 2 chilometri e 200metri di asfalto nella Valle del Sangro in Abruzzo costati 40 milioni di euro einaugurati 9 mesi fa.
La pessima condizione dei viadotti e delle strade èmacroscopica. All'inizio di luglio in Sicilia collassò il viadotto Petrulla sullastatale 123 tra Licata a Ravanusa: 4 i feriti tra cui una donna incinta. Subitodopo si accorsero che il vicino ponte Ficili era a rischio e lo chiusero. Nellastessa estate fu sprangato il ponte Gurrieri a Modica e quello della BalataBaida sulla statale 187 a Castellammare in provincia di Trapani. Poco più di unanno prima, febbraio 2013, si afflosciò il Verdura sulla statale 115 traTrapani e Siracusa e il 28 maggio 2009 nella provincia di Caltanissetta vennegiù un pezzo del ponte Geremia II.
Lungoelenco di incidenti, feriti e chiusure
Anche l'elenco dei ponti caduti o chiusi fuori dalla Siciliaè impressionante. Il caso più grave, con un autista di camion morto, risale aduna decina d'anni fa sulla statale 42 in provincia di Brescia dove si spezzò ilviadotto Capodiponte. L'incidente più clamoroso è però quello del ponte sul Potra San Rocco al Porto e Piacenza, unica via tra Emilia e Lombardia oltreall'autostrada e la ferrovia. Lì la mattina del 29 aprile 2009 sprofondò nelfiume un'intera arcata trasformando la strada in una botola in cuisprofondarono 4 automobilisti che rimasero feriti, uno in maniera grave. Suquel pezzo di ponte crollato l'Anas aveva detto di essere intervenuta appena unanno prima con lavori di consolidamento che evidentemente avevano consolidatopoco. Nello stesso anno si verificarono due crolli sulla Teramo-Mare mentre il2 marzo 2011 le impalcature del ponte sulla statale 407 Basentana a Calciano inprovincia di Matera si abbassarono all'improvviso di 2 metri. Nello stessoperiodo sempre in Basilicata chiusero il ponte di Baragiano. Otto giorni dopoin Puglia crollò una parte del ponte tra Vieste e Peschici sulla statale 89. L'11 maggio di due anni fa toccò a un ponte Anas in Abruzzosulla linea ferroviaria tra Terni e Rieti all'altezza di Scoppito.
PALERMO-AGRIGENTO
LA PROCURA INDAGA SUL CEDIMENTO
diGiuseppe Lo Bianco
Sequestro dei documenti di “tutte le fasi dell’appalto”,come dice il procuratore di Termini Imerese Alfredo Morvillo, e nomina di unpool di docenti universitari che hanno il compito preliminare di accertare lecause del cedimento dell’asfalto: il giorno dopo l’allarme per il crollo deltratto di accesso al viadotto Scorciavacche, sulla statale Palermo-Agrigentoall’altezza di Mezzojuso, realizzato da due “coop rosse” e dalla Tecnis delcatanese Mimmo Costanzo, è partita la caccia alle responsabilità. “Ci muoviamosu due fronti – dice il procuratore Morvillo, cognato di Giovanni Falcone –abbiamo sequestrato tutti i documenti relativi a tutte le fasi della gara diappalto per verificare eventuali anomalie, e abbiamo nominato i consulentitecnici che hanno il compito di accertare le cause del crollo”. Dal tipo diaccertamenti necessari, se irripetibili o meno, dipenderà l’iscrizione delleprime persone (tecnici o responsabili amministrativi del consorzio di impreseBolognetta) nel registro degli indagati. “Il fatto è grave – aggiunge Morvillo– e procediamo con urgenza. Nel giro di pochi giorni dovrebbero arrivare leprime risposte”.
Ieri pomeriggio il procuratore Morvillo e il sostitutoFrancesco Gualtieri hanno incontrato due docenti della facoltà di Ingegneria diPalermo ai quali è stata affidata la perizia preliminare. E solo dopo sarannodecise le operazioni tecniche da eseguire. Nel frattempo l’aerea del viadottorimane sequestrata su ordine della magistratura e chiusa al traffico, deviatosulla provinciale adiacente. Per il presidente di Anas Pietro Ciucci, chedomani compirà un sopralluogo sul luogo del cedimento, infine, si tratta di unfalso allarme: “A dispetto di certi titoli e di certe fotografie maleinterpretate o scambiate, nessun viadotto è crollato, il danno ammonta a pochecentinaia di migliaia di euro”. Che non saranno, ha assicurato, a caricodell’Anas: "Non lasceremo niente di intentato per individuare iresponsabili e garantiremo la massima collaborazione alla Procura di TerminiImerese’’ e l'impegno "per il ripristino dell'opera senza oneri a caricodi Anas".
Dato per scontato che una personalità come quella dell'autore intervenga su questo aspetto della “questione periferie”, lascia sgomenti però l'assenza di contributi di tipo scientifico o politico esterni al progetto spaziale. Corriere della Sera, 5 gennaio 2015, postilla (f.b.)
Gli scontri nelle periferie delle città italiane hanno fatto riemergere alla fine del 2014 la questione sociale generale della vita nelle periferie. È certo una questione che nelle forme che conosciamo ha inizio soltanto duecento anni or sono. Prima dell’età della meccanizzazione, non senza ragione, esse si definivano borghi o sobborghi o banlieues; e dopo invece slums, o bidonvilles nei Paesi in via di sviluppo. La questione delle periferie è stata oggetto (nelle vicende della società europea) di dibattiti, studi e proposte molto articolate e, da parte dell’architettura, di molte proposte strutturali, come le garden cities e le new towns. E, prima ancora, delle utopie di Fourier oppure in quanto «ripresa» del modello insediativo rurale (come nel Movimento Moderno) o ancora in quanto «risposta» razionale e moralmente doverosa dell’abitazione operaia: il tutto secondo diverse interpretazioni degli ideali socialdemocratici del welfare state, ma pur sempre in quanto «risposta» di soccorso urgente di un problema abitativo a basso costo di costruzione, di terreno e di servizi. Tutto questo anche con progressivi interventi di miglioramento delle loro connessioni con le parti centrali e storiche della città accanto alla quale erano collocate e la cui espansione le avrebbe poi travolte e riassorbite in quanto categoria insediativa e sociale diversa e separata.
Nello stato di incertezze culturali, di forte scarsità economica e di richiesta di attenzione nell’aumento della povertà e delle emergenze sociali dei nostri ultimi anni, mi rendo conto, forse è possibile rispondere solo con l’idea di «rammendo» e di «aggiustamento»; tuttavia questo non dovrebbe far dimenticare la necessità di indirizzare le opere nuove o di modificazione verso una concezione strutturale che deve proporre una discussione di fondo sulla nozione stessa di periferia, anche in relazione alla tensione in aumento verso l’abitare urbano e, quindi, verso un’organizzazione nuova dell’espansione delle città. Le città, almeno quelle europee, grandi e piccole, di fondazione, o come ingrandimento di un villaggio, come polis o come «città coloniale», con tutte le loro stratificazioni hanno conservato nella storia (pur con le loro modificazioni, rifacimenti, ristrutturazioni, aumenti e diminuzioni di popolazione) il carattere irrinunciabile della loro mescolanza sociale e funzionale e della presenza di servizi essenziali. Ma anche di monumenti di riferimento all’identità della città stessa e della sua cultura delle sue parti.
Nonostante le rilevanti differenze della vita collettiva e singolare dei nostri anni, l’espansione delle tecnologie e delle comunicazioni (e nonostante la presa di coscienza della globalità e delle differenze culturali dell’abitare del nostro intero pianeta) il fatto urbano deve offrire ovunque il proprio carattere fondamentale di mescolanza sociale, di lavoro, di cultura e di servizi che caratterizza da sempre l’idea di città: contro ogni specializzazione ingiustificata, contro ogni idea di gated community di poveri, di ricchi o di diversi. Questo non significa negare il carattere dei quartieri che costituiscono l’insieme urbano ognuno dei quali nasce in una particolare occasione economica e di costume storico, con regole insediative, densità, eccezioni e principi diversi di costruzione delle forme architettoniche, e degli spazi aperti. Quindi anche il «rammendo», l’emergenza, il soccorso dovuto, non dovrebbero mai dimenticare l’obbiettivo di modificazione strutturale di qualunque parte urbana costituito dalla coltivazione progressiva della mescolanza funzionale, sociale, di lavoro. Ma anche della presenza di elementi eccezionali (un’università, un teatro, un museo, ecc.) a servizio dell’intera città che favoriscano l’interscambio necessario delle parti alla costituzione dell’identità urbana.
postilla
Per chiarire forse meglio il senso di questo articolo, il suo inserirsi organico in un filone di dibattito sostanzialmente architettonico e progettuale (quindi parziale) sul tema periferie, basta ripercorrere il modo in cui si citano i riferimenti: le città giardino sia nella versione originaria che nello sviluppo novecentesco della new town, o prima ancora alcuni portati spaziali delle utopie classiche ottocentesche, sono riproposti coerentemente nell'interpretazione dello spazio fisico mediata dagli architetti. Tutto bene, se non fosse che, come praticamente da sempre provano a ricordare tanti, tantissimi quanto inascoltati critici di questo approccio, si confonde non solo la parte col tutto, ma si ribalta per così dire l'iceberg logico, ponendo gli aspetti spaziali alla base di tutto quanto. Mentre invece, come ben sanno ad esempio gli studiosi del movimento legato a Howard, la centralità dello strumento città giardino nella promozione del “sentiero pacifico verso la riforma sociale” finisce già da subito per schivare il punto centrale, ovvero quella riforma. La stessa cosa vale per ogni contenitore fisico, che è un prodotto delle idee di giustizia e progresso, al massimo uno strumento adeguato per perseguirle, non certo l'unico e altrettanto certamente non quello centrale e indispensabile. E concludendo questa nota di postilla al tempo stesso troppo lunga e troppo breve: possibile che le discipline storiche, sociali, politiche, nulla abbiano da dire se non accodarsi a questa o quella cordata di progettisti, o rivendicando una fettina di visibilità e prestigio, nel dibattito sulle periferie aperto sinora solo fra architetti? Probabilmente, se qualcosa merita di essere rammendato, è prima di tutto una seria interdisciplinarità, che non vuol dire (come succede con certe riviste) invitare qualcuno per un commento collaterale (f.b.)
Riferimenti
Alle periferie eddyburg ha riservato molta attenzione. Si vedano, tra l'altro, i materiali raccolti nella cartella Periferie.
Un pezzo alla volta Venezia diventa merce. Ciò che non ha avuto il coraggio di fare un sindaco troppo debole con il Consorzio Venezia nuova lo fa il burocrate inviato da Renzi a sostituire la democrazia.
Continua la svendita comunale della città, questa volta tocca a due pregevoli edifici a villa della Giudecca. Su progetto di Mainella, sono stati costruiti, come a volte usava negli anni venti, in stile neobizantino, immersi nel verde di un giardino aperto, in maniera affascinate come altri mai, sulla laguna sud. Prima era stata la volta di Ca’ Corner della Regina (Prada), del Fondego dei tedeschi (Benetton), dell’Ospedale al mare del Lido (Cassa Depositi e Prestiti dopo le opache vicende che ci hanno lasciato anche il “buco” al Casinò del Lido). L’altro giorno non ci si è riusciti con Ca’ Diedo e Palazzo Gradenigo solo per mancanza di offerte.
“Per far fronte al patto di stabilità” veniva detto alla fine dell’anno passato quando si vendeva, e per di più anche sotto costo, il Fontego dei tedeschi e come recita il mantra odierno. Peccato che da queste liquidazioni il Comune non abbia incassato ancora un euro!
Mercoledì il Commissario ha portato in Consiglio Comunale – Consiglio si fa per dire, in questa democrazia surrogata, perché oltre a lui c’erano solo alcuni dirigenti dell’apparato - una delibera per mettere all’asta una delle due ville con metà del giardino. Era talmente indecente che, ad una diffida di Veneziacambia2015 e al rumoreggiare della sala strapiena di cittadini, è stato costretto a sospendere la seduta per ritornare poi con la delibera integrata alla meglio. E’ stata inserita la necessità di seguire le procedure di legge per una variante al PRG, necessaria comunque prima della formalizzazione della vendita. Il Commissario e i tecnici se ne erano “dimenticati”. Ora c’è tempo per gli acquirenti fino al 30 dicembre per depositare il valore minimo valutato, 10 milioni di euro e fare il giorno dopo un contratto, necessariamente preliminare perché, se la variante non trasformasse la destinazione urbanistica come sperato o la Direzione Regionale del Ministero dei beni culturali non desse l’autorizzazione alla vendita, il Comune dovrebbe rendere i quattrini.
Una procedura tutta illegittima ma, verrebbe voglia di dire, anche da “peracottari al mercato” se non fossimo di fronte ad una farsa grottesca per la città.
Ogni anno il Comune accumula un deficit economico terribile, certo a causa dei mancati conferimenti statali, assolutamente necessari per una città complessa come Venezia, dirottati tutti sul MoSE per il quale, il Comune, non solo non ha protesto ma ha avuto anche il Sindaco coinvolto. Certo per un patto di stabilità iugulatorio che lo costringe a rivalersi sui servizi ai cittadini e sul suo stesso personale ma anche per non mettere finalmente mano per sgrovigliare le municipalizzate, spesso parcheggio di amici e amici di amici con bilanci di difficile trasparenza, dove grandi potrebbero essere i risparmi.
E’ in forza di queste semplici ragioni –che nei fatti chiedono una politica economica diversa- che la nostra opposizione alla messa all’asta di villa Hériot e del suo giardino, si rafforza. Ma, rivolgendoci anche a coloro che la pensano diversamente, chiediamo loro un aiuto solidale per la difesa della legalità e del rispetto delle procedure.
E’ illegittimo mettere all’asta un bene pubblico e, nell’eventualità di un esito positivo, formalizzarne l’acquisto in un contratto preliminare senza che prima la Direzione regionale del Ministero dei beni culturali ne permetta l’alienazione perché non di “interesse artistico, storico o etnoantropologico” ( Codice dei Beni Culturali). E’ illegittimo nel Bando d’Asta non evidenziare che il giardino è paesaggisticamente vincolato nella sua interezza dal 1948 e, perché di interesse pubblico, non può essere frazionato. E’ illegittimo fare un’asta pubblica di un bene che, se necessita di una variante urbanistica, questa non è stata ancora approvata con le preliminari osservazioni dei cittadini. Recentemente la nostra Soprintendente ai beni culturali, la dott.sa Codello, ha presentato al Palazzo Ducale il libro Venezia fragile condividendone le tesi. Ma è impedendo lo smembramento dei giardini vincolati delle ville della Giudecca, che onorerà il suo mandato istituzionale operando per difendere la fragilità della città in corpore vivi. La qualità architettonica delle ville, il loro grado di conservazione, la loro storia ed il contesto di cui sono parte rappresentano proprio il valore che il Direttore regionale ai beni culturali del Veneto dott. Ugo Soragni (o il suo nuovo sostituto) al quali rappresenteremo con decisione la questione, dovrà certificare. Sarà opportuno farlo subito per le modalità irrituali –chiamiamole così - dell’asta pubblica attivata da Zappalorto.
Rivolgendoci a questi due primi livelli istituzionali, locale (Codello), Regionale (Soragni), abbiamo richiamato norme, leggi e compiti ispettivi conseguenti. Ci pare peraltro opportuno rivolgerci anche al livello superiore richiamando l’attenzione del Ministro Franceschini proprio perché, nella catena di comando nell’ambito culturale, rappresenta la politica. L’alienazione di un bene pubblico in una comunità anche se sempre non opportuna, può essere attribuita ad una condizione talmente particolare da poter essere, se non condivisa, compresa. Ma questo, signor Ministro non è più il caso di Venezia. Come ricordato in premessa, questi ultimi anni hanno evidenziato che, nel tentativo di far cassa, è il patrimonio complessivo della città che si sta dilapidando. Lei ha tutti gli elementi per capire cosa significhi. Vogliamo però rimarcare che la quantità e le modalità delle alienazioni hanno già fatto cambiare il piano su cui le ricadute operano. Dal livello culturale si è passati a quello sociale anche perché il fenomeno si inserisce in una città la cui popolazione e enormemente squilibrata: 57.000 residenti, 33 milioni di turisti. La disgregazione della comunità è già iniziata. Grande ne è il pericolo e ogni ulteriore perdita di un bene per distruzione, alienazione o utilizzazione impropria, contribuisce a indebolire l’identità propria di una comunità storicamente costituitasi come città. Salvatore Settis, proprio qui a Venezia l’altro giorno, ha ricordato il pericolo per una città rappresentato dalla perdita di memoria di sé stessa. Ma memoria sono anche le cose, le case, i territori, i paesaggi del nostro ieri: le due ville della Giudecca sono state comperate, nel 1947, da un Sindaco di una città che, benché impoverita dalla guerra, vedendo lungo, ha voluto destinarle a fini educativi e scolastici. E oggi ancora ospitano una Casa della Memoria e della Storia (IVESER), bambini di una scuola materna, l’Università dell’Arte specializzata in restauro e la Società Europea di Cultura.
L’altro ieri la centinaia di persone presenti in Comune, al cospetto di un Consiglio formato dal solo Commissario e tre tecnici, hanno rappresentato con decisione la coscienza dei bisogni di una popolazione a fronte di un Consiglio renitente, ridotto a vuota crisalide priva di rappresentanza.
Due articoli del tutto indipendenti sull'edizione nazionale e milanese del Corriere della Sera, 4 gennaio 2015, accostano senza volerlo un panorama internazionale di realizzazioni attraverso le nuove reti tecnologiche, e una lacuna forse tutta italiana, con postilla (f.b.)
LA RISCOSSA DI MEDELLIN, LE RETI SOLIDALI DI BOSTON: MAPPA A SORPRESA DELLE CITTA' DEL FUTURO
di Giampiero Rossi
Parigi, Boston, Melbourne, ma anche Medellin e Milano. Secondo l’architetto Carlo Ratti — progettista e docente al Mit di Boston — sono queste, tra conferme e novità, le città in cui nel 2015 potrebbe manifestarsi con maggiore evidenza la «primavera urbana». Il punto di partenza è una non-novità: l’uso delle reti. Però, come spiega Ratti, «le possibilità di interconnessione stanno innescando nuove dinamiche collaborative, dal basso. Lo abbiamo visto in modo eclatante durante le cosiddette primavere arabe e credo che, in modo analogo, sia un concetto che possiamo applicare a una prossima primavera urbana».
Ma dove e come saranno più visibili i frutti di questa nuova stagione metropolitana? Ratti, che nell’ateneo del Massachusetts dirige il Senseable City Lab segue diversi progetti che, a suo giudizio, potranno diventare modelli per la crescita della qualità della vita e delle relazioni nelle grandi città. «Qualche settimana fa, a Parigi, ho incontrato il vicesindaco con delega all’urbanistica, Jean-Louis Missika, che ha lanciato un programma molto interessante per lanciare progetti di innovazione. Lo hanno chiamato “Reinventer Paris”, l’idea è proprio quella di usare il crowdsourcing , cioè una sorta di asta di idee per grandi operazioni di trasformazione urbana. La città ha messo a disposizione oltre venti siti, alcuni di grande valore e in pieno centro, che verranno assegnati non al miglior offerente, ma a chi presenterà l’idea di più innovativa, usando un processo di candidatura dal basso che quindi può partire da qualsiasi cittadino, sebbene sia richiesta anche la presentazione di un progetto di finanziamento. È interessante osservare come questo meccanismo stia scompigliando i giochi dei grandi sviluppatori nella capitale francese. Perché questo modello implica come obiettivo finale un guadagno in termini di qualità urbana».
Sulla sponda opposta dell’Atlantico, un altro esempio il professor Ratti ce l’ha proprio sotto gli occhi, perché si sta sviluppando nella «sua» Boston. «L’amministrazione ha creato la piattaforma “New Urban Mechanics”, un sito web che raccoglie le segnalazioni di qualsiasi tipo di problema, guasto o inefficienza in città e permette ai cittadini di proporre soluzioni, o anche di agire, magari coalizzandosi, sempre grazie alla possibilità di fruire di informazioni in rete. Insomma, tutti possono trasformarsi in “meccanici della città” invece di rimanere alle vecchie procedure di segnalazione e attesa di un intervento dall’alto. Un po’ come accade nell’organizzazione degli spalatori per le grandi nevicate».
Una città da tempo considerata campione nei sistemi di condivisione è Melbourne, in Australia, «dove il sindaco Bob Adams ha creato un perfetto equilibrio tra residenze e uffici in ogni zona, in modo da rendere più efficienti ed economici i servizi pubblici. Non è un caso che la città risulti sempre ai vertici delle classifiche mondiali sulla qualità della vita…». Poi c’è sempre l’esempio di Medellin, in Colombia, «che già da un po’ si sta trasformando da uno dei posti più violenti del mondo a un modello di integrazione tra i quartieri, a partire dalle favelas più emarginate, ora collegate con il centro con teleferiche o scale mobili». Mentre Copenaghen ambisce a diventare entro 5 o 10 anni al massimo la prima città carbon free , senza inquinamento da monossido di carbonio. Ma il 2015 è l’anno di Milano: «In fin dei conti — spiega Carlo Ratti — sul tema dell’alimentazione l’Expo è una forma di crowdsourcing : ci sono tante persone che convergono in un posto e mettono insieme le proprie esperienze. È così che si cresce».
UNA SMART CITY DI CARTELLO
di Massimo Sideri
Chi si avvicina alla città percorrendo le autostrade trova dei cartelli con su scritto: «Milano, Industria, Commercio, Cultura, Arte». Al nostro distratto occhio da milanesi probabilmente il cartello non trasmette nessuna informazione e appare un elemento scontato del panorama. Ma vale la pena ragionare su quale possa essere il messaggio sintetico dell’enorme «bigliettino da visita» della città per tutti gli altri. Ora su arte e cultura non si può eccepire nulla. Milano non è certo più la città di Giovanni Testori o del teatro di Giorgio Strehler ma sarebbe come dire che Parigi non è più la città di Édith Piaf. Il successo dell’offerta annuale di mostre di respiro internazionale è nei numeri e negli ultimi giorni dell’anno la fila per entrare a vedere i capolavori di Van Gogh, Chagall e Segantini occupava un intero lato di piazza del Duomo. Per fare un altro esempio il calendario del Teatro alla Scala, nonostante le polemiche, riesce sempre ad attrarre i grandi solisti. Sul commercio nulla quaestio : Milano è culturalmente un crocevia commerciale fin dal Medioevo e l’anima dei commercianti viene colpita ma non piegata dalla crisi.
Ma veniamo alla prima parola che dovrebbe rappresentare la città: l’industria. Il tessuto socio-economico risente ancora della presenza delle fabbriche e della cultura operaia. Ma il declino industriale dell’Italia passa anche da Milano come testimoniano le ex fabbriche trasformate in loft. Insomma, l’industria è un’immagine forte ma che potremmo anche pensare di rottamare. L’alternativa c’è. Ora che nel 2015 l’Expo offrirà alla città un’occasione irripetibile di visibilità potrebbe essere il momento giusto per imporre anche una nuova declinazione che, nella sostanza, è già a buon punto: Milano come smart city e centro dell’innovazione.
Come documentato questa è la città della mobilità intelligente, della rete in fibra ottica più estesa d’Europa. È un hub di Internet e Banzai, Libero e Jobrapido — tanto per citare le più importanti esperienze di società digitali — non a caso sono sorte a Milano. Non si consiglia solo di fare marketing che pure non sarebbe un’idea così peregrina (Israele ha da tempo istituzionalizzato una vera campagna di propaganda internazionale per imporre la propria immagine, del tutto legittimata dai fatti, di «Start up Nation»), ma di mostrare che il cambiamento non ci spaventa. Sindaco Pisapia, non so quanto possa costare cambiare i cartelli di ingresso nella città, ma vogliamo scrivere «Milano: smart city, commercio, arte e cultura»?
postilla
Il caso di Milano, che casualmente chiude l'articolo sull'edizione nazionale ma “riapre” sui medesimi temi quella locale, è solo emblematico di tante tante altre città italiane dove sostanzialmente il tema smart city, variamente declinato, lo è assai malamente. E in fonda basta scorrere quell'elenco di iniziative sfiorate negli esempi del MIT per cogliere una differenza sostanziale: dove il termine ha assunto senso compiuto, con effetti concreti sulla qualità della vita degli abitanti, è perché lo si è interpretato correttamente, come mezzo, non come fine. Ovvero non come un modo come un altro per far girare risorse economiche, pasticciando con reti e apps anziché con infrastrutture o promozione di vaghe innovazioni varie, ma come strumento di cambiamento, dopo aver fissato obiettivi ambientali, sociali, di mobilità, e via dicendo. Altrimenti il bello slogan è destinato a rimanere tale, salvo per chi lo sventola a pubblicizzare i fatti propri (f.b.)