Re:common, 18 luglio 2018. Il gasdotto è strumentale per il mantenimento dello status quo, impedendo di transitare non solo verso un approvvigionamento energetico ambientalmente più sostenibile, ma anche verso un futuro più democratico. Con riferimenti (i.b.)
Il 3 e il 4 luglio 2018 scorsi sono successi due fatti forse non direttamente collegati tra loro, che però meritano una riflessione. Il 3 luglio il quotidiano danese Berlingske pubblica un’inchiesta che fa luce sulle dimensioni assunte dallo scandalo di riciclaggio internazionale nato dall’Azerbaijani Laundromat, e al centro dell’indagine delle autorità danesi (ne abbiamo parlato qui: “Azerbaijani Laundromat, lo scandalo si allarga“). Il 4 luglio, il nuovo governo italiano, “il governo del cambiamento”, approva tramite il suo rappresentante presso la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo un prestito di 500 milioni di euro al gasdotto TAP (a questo link la notizia della Reuters).
Quando nel marzo del 2017 abbiamo ribadito le ragioni per cui il gasdotto TAP non andava costruito (vedi l’articolo: “Perché no tap né qui né altrove“), forse ce ne siamo dimenticata una. O meglio, non l’abbiamo scritta perché ci sembrava banale farlo, ma alla luce dei fatti ci siamo detti che forse non è così, ed è bene esplicitarlo. La ragione è che il gasdotto TAP – e il resto del Corridoio Sud del gas – è sistemico, ovvero funzionale alla continuazione dell’ordine delle cose attuale, e come tale non solo non è parte della transizione verso qualsiasi futuro più democratico o climaticamente più sostenibile, ma è un blocco a questo cambiamento.
Che cosa intendiamo dire? Che il gasdotto TAP è un problema che va ben oltre la lettura superficiale che se ne riesce a dare nel non-dibattito attuale. Chi fino ad oggi ha cercato di ridurre lo spazio della discussione sul TAP provando a guardare “solo” agli impatti ambientali, o al rischio industriale collegato al progetto, lo ha fatto con l’intenzione di limitare la discussione all’estetico miglioramento del progetto, evitando di mettere in discussione il progetto stesso. Parliamo ad esempio di chi pensava che spostando il punto di approdo del gasdotto, o cambiandone il tracciato, se ne sarebbe ridotto l’impatto. In questo ambito limitato giocano le istituzioni finanziarie pubbliche, come la Banca europea degli investimenti e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, che fallimento dopo fallimento ancora non sono riuscite a trovare uno spazio di ascolto e confronto con le persone e le istituzioni locali – come la commissione tecnica del Comune di Melendugno, e il Movimento No TAP in Italia, o altri soggetti in Albania e in Grecia – che hanno denunciato già da anni i danni (e l’assenza di benefici) collegati al progetto. In questo stesso spazio, che comprende anche la possibilità che siano avvenuti falsi e abusi d’ufficio collegati al processo di autorizzazione del gasdotto – oggetto di svariate denunce nel corso degli ultimi anni – gioca anche l’indagine della Procura di Lecce, che ha riaperto il fascicolo sul gasdotto in seguito alla denuncia dei sindaci presentata a gennaio di quest’anno.
Ma alzandoci in punta di piedi e guardando oltre la cortina di fumo della discussione delimitata dalla politica e dalle istituzioni, vedremo la valenza sistemica del TAP. Oltre quel fumo fitto si trovano alcuni dei motivi per cui nessuno dei partiti politici che finora hanno espresso delle perplessità su alcuni aspetti del progetto, sono riusciti a trasformare quelle perplessità in una posizione chiara e definita, e soprattutto a traslare le perplessità in azione pratica, concreta, efficace per fermare la costruzione del progetto. Un’azione non ideologica e urlata, bensì politica. Ragioni che per altro sono difficili da vedere anche da molte delle persone che guardano “in alto” in attesa di un’azione salvifica che finalmente blocchi la costruzione del progetto.
Vedremo così che il TAP è sistemico perché risponde a un quadro di interessi che non è pubblico, o di interesse pubblico o collettivo, e che va molto al di la della “sicurezza energetica” o della “diversificazione delle fonti” o della dichiarata “strategicità europea” dell’opera. Gli interessi a cui risponde sono piuttosto privatistici, ovvero ricadono nell’ambito in cui il pubblico e il privato si mescolano, e l’azione che ne deriva va a beneficio di alcuni attori privati che però sono ben lontani dal rappresentare l’interesse pubblico, e di alcuni soggetti che rivestono funzioni pubbliche, senza per questo rappresentare l’interesse pubblico. E’ questo il quadro di interessi che sta a monte degli schemi societari del Corridoio Sud del Gas in Turchia, emersi dalle inchieste de L’Espresso dello scorso anno, e esplicitati nella mappa di interessi pubblicata qui: https://graphcommons.com/graphs/bce3e757-6529-4148-a3f9-3c83167c109d
E’ anche il quadro di interessi che emerge dallo scandalo di riciclaggio internazionale investigato in Danimarca, in cui sono coinvolti due dei paesi con cui l’Europa (e l’Italia) intrattengono relazioni commerciali centrali, soprattutto in ambito energetico. Due paesi governati dalle stesse elites dagli anni Novanta a oggi, che hanno costruito la propria ricchezza in buona parte sulla vendita di petrolio e gas, e da cui dipende in buona parte la “sicurezza energetica” italiana e europea.
I due prestiti pubblici concessi al gasdotto TAP dalla Banca europea degli Investimenti, e dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo sono anche loro funzionali a questo quadro di interessi, e ugualmente sistemici. In questo senso non c’è stata differenza tra il governo Gentiloni e il governo Conte: entrambi hanno risposto allo stesso schema di interessi, nessuno ha messo in discussione niente dello status quo, nessuno ha dato un segnale di “cambiamento”.
Eppure la storia recente ha visto diversi casi in cui l’Italia si è astenuta dal voto relativo alla concessione di prestiti molto controversi attraverso le istituzioni finanziarie multilaterali a cui partecipa. Ad esempio nel caso dell’oleodotto Ciad-Camerun (come riportato nella relazione dal Tesoro che potete trovare a questo link) dove uno degli aspetti critici era proprio quello della corruzione, o nel caso della centrale a carbone di Medupi in Sud Africa, di cui parlò anche il The Guardian.
I governi che avevano deciso di astenersi allora erano “governi del cambiamento”? Certamente no. Astenendosi questi governi non hanno fatto niente di rivoluzionario, avevano scelto una delle opzioni previste dai protocolli interni alle banche multilaterali, basando la decisione su motivazioni tecniche, sulla base di una valutazione assolutamente politica. Tanto politica quanto la decisione di votare a favore di altri progetti, tra cui il gasdotto TAP.
Tra febbraio e luglio, la continuità nella posizione a favore di entrambi i finanziamenti presa dal governo uscente e da quello appena insediato confermano che il progetto nel settore energetico più controverso in Italia e in Europa, il TAP appunto, rimane sistemico.
Entrambi questi governi ci ricordano che se vogliamo costruire il cambiamento dovremo per forza alzarci in punta di piedi, guardare oltre, e ripartire da lì.
Riferimenti
In eddyburg trovate diversi articoli sulla vicenda TAP, ne segnaliamo alcuni: un' intervista a Tomaso Montanri di Giacomo Russo Spena, sulle contestazioni del cantiere Tap ilReportage dalla Puglia. Disfida del gas: sul fronte del Tap, gasdotto che divide di Diego Motta, sull' incongruenza tra uso di combustibili fossili e l' agenda climatica Ipocrisia e affari i pilastri del nuovo gasdotto di Jo Ram e Pascoe Sabido e a proposito delle azioni di persuasione non sempre lecite per convincere, con successo, i nostri governanti e la Commissione Europea a continuare una politica energetica basata sul gasLa favola dell'energia pulita e gli affari sporchi del gasdotto TAP di Ilaria Boniburini.
Effimera, 20 giugno 2018. Segnalazione di libro che affronta come gli abitanti più compiti da disastri ambientali, sanitari ed economici riescono a resistere al neoliberismo eurocentrico che si avvale anche del neofascismo, del razzismo e del sessismo.
"Resistenze ai disastri sanitari, ambientali ed economici nel Mediterraneo", DeriveApprodi, Roma, 2018. A cura di Salvatore Palidda, con contributi di Mara Benadusi, Anna D’ascenzio, Kamel Doraï, Sümül Kaya, Stefania Ferraro, Antonio Mazzeo, Luca Manunza, Laurent Mucchielli, Salvatore Palidda, Jean Francois Pérouse, Antonello Petrillo, Vittorio Sergi, Salvo Torre, Lucia Vastano, Zoé Vernin.
Qui potete scaricare e leggere il capitolo 17, scritto da Salvatore Palidda: Quali insegnamenti trarre dagli studi su antropocene, capitalocene, necropolitica, per la resistenza ai disastri ed elaborare alternative?
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile.
Dialoghi Mediterranei, luglio 2018. Il ritratto di una città al voto, che vede emergere una nuova classe politica di donne e giovani. E' la sfida dell'anima più genuina e solidale dei quartieri popolari contro sviluppismo e speculazione. (i.b.)
Dai quartieri di periferia arrivava la gente con degli striscioni: sopra c’era scritto il nome del quartiere. (Chiara Sebastiani, Una città una rivoluzione)
Lontano da shâr’a Burghiba …
La Rivoluzione Tunisina del 2011 nasce nelle aree interne ma si realizza nella capitale; il disagio sociale che la sostiene nasce nelle campagne ma si esprime nelle città. I suoi martiri sono caduti nei sollevamenti delle periferie ma i suoi luoghi simbolici sono gli spazi pubblici del centro di Tunisi: shâr’a Burghiba – che viene ancora chiamata l’Avenue come ai tempi del Protettorato francese – la Kasbah, il Bardo. Sette anni dopo, la scommessa delle elezioni municipali è quella di ridare voce ai protagonisti collettivi della rivoluzione: i quartieri.
I quartieri di Tunisi, fuori da quello che gli urbanisti chiamano “l’ipercentro”, si dividono nell’immaginario collettivo in quartieri pregiati e quartieri malfamati. Nei primi rientrano la mitica banlieue nord con i pittoreschi villaggi di Sidi Bou Said e La Marsa e le zone residenziali dei ceti medio-alti di El Menzah, Ennasr, La Soukra; nei secondi i quartieri popolari densamente abitati, spesso originati da insediamenti abusivi, o da progetti di edilizia pubblica, lontano e mal collegati, come i famigerati quartieri di Ettadhamen e Dwar Hicher (Lamloum 2015). Ma spesso gli uni e gli altri sono contigui e quando vi sono scontri nei ghetti popolari l’acre odore dei lacrimogeni invade i palazzi sulle colline circostanti. E soprattutto vi sono ovunque, tra questi due estremi di cui si occupano i media, quartieri invisibili e abitanti senza voce: la città reale, lontano dalla città immaginale. L’area metropolitana di Tunisi – comunemente chiamata “le Grand Tunis” – conta oltre due milioni e mezzo di abitanti e si estende su quattro governatorati: Tunisi, l’Ariana, Ben Arous e La Manouba
Negli ultimi decenni lo sviluppo impetuoso dell’urbanizzazione le ha conferito una fisionomia nella quale competono due modelli diversi: un po’ Parigi – nel restyling della vecchia città coloniale come nello sviluppo di linee metropolitane di superficie – un po’ Los Angeles – nel disordinato proliferare di un periurbano metà speculativo e metà abusivo sorretto dall’uso dell’automobile mentre le pur pregevoli opere di riqualificazione dell’antica medina, storicamente il cuore della città, non la sottraggono al rischio di spopolamento e gentrificazione (Chabbi 2016). In linea di massima, tra Tunisi e L’Ariana si trovano le aree residenziali pregiate e tra Ben Arous e La Manouba i quartieri popolari, in realtà zone molto ricche e molto povere si mescolano non solo all’interno dei governatorati ma negli stessi comuni. Ora le elezioni municipali costringeranno a pensare la metropoli in termini diversi. Perché quei quartieri dalle forti identità da entità puramente sociali sono improvvisamente diventate entità politiche.
Prima della Rivoluzione le municipalità – che non esistevano in tutto il Paese ma solo nelle zone più urbanizzate – avevano scarsa autonomia e scarse risorse essendo sottoposte alle direttive dello Stato centrale e dei suoi organismi periferici (i governatorati) e controllate dal partito unico Rcd del presidente-dittatore Ben Ali. Il voto per le rappresentanze locali, come per quelle nazionali, era una farsa che assegnava maggioranze bulgare allo stesso Rcd estromettendo ogni tentativo di presenze politiche alternative. Come risultato la popolazione locale faceva resistenza non pagando le tasse, praticando l’abusivismo edilizio e non andando a votare (Turki, Loschi 2017).
Dopo la Rivoluzione il decentramento politico è stato iscritto nella Costituzione. Si è proceduto a municipalizzare l’intero territorio creando nuove municipalità e rivedendo i confini amministrativi precedenti, si è adottata una legge elettorale accentuatamente proporzionale (prevede una soglia di sbarramento minimale del 3% e un meccanismo di distribuzione dei resti che favorisce le liste minori) e fortemente innovativa (obbliga le liste a rispettare l’alternanza tra candidati uomini e donne e la parità tra capilista dei due sessi, prevede quote obbligatorie di giovani e incentivi per l’inserimento di candidati portatori di handicap) e si è infine adottato (a campagna elettorale già iniziata) il Codice delle collettività locali che stabilisce concretamente poteri e risorse dei nuovi comuni. Si vota su liste bloccate ed i Consigli municipali contano da 12 a 60 membri a seconda del numero di abitanti del Comune. Il ruolo di sindaco coincide con quello di Presidente del Consiglio municipale: questo viene eletto dal Consiglio tra i capilista delle liste che hanno ottenuto uno o più seggi.
Il 6 maggio nelle 350 municipalità ha votato il 35,6% degli aventi diritto. Il grande vincitore è stato il partito islamico Ennahdha (30%) seguito a buona distanza dal suo partner di governo laico-statalista Nidà Tunès (23%) e, a notevole distanza, da due partiti della sinistra, il vecchio Fronte popolare e il recente Courant démocratique mentre tutti gli altri hanno raccolto briciole. Le cosiddette liste “indipendenti” (che noi chiameremmo liste civiche) hanno raccolto nell’insieme il 33% dei voti. Salutate dai media come il vero “primo partito”, esse sono in realtà un coacervo di emanazioni partitiche e resti del vecchio Rcd, notabili locali e giovani entusiasti, funzionari municipali e mondo associativo, vecchie volpi della politica e giovani e donne reclutati per riempire i rigorosi requisiti delle quote. Ciò non toglie che spesso nei comuni potranno essere l’ago della bilancia.
Questo è il resoconto di un viaggio nei quartieri periferici della capitale prima e dopo le elezioni del 6 maggio: nel tentativo di cogliere voci che raramente arrivano ai media mainstream. Qui, in tre brevi settimane di campagna elettorale, membri di partiti e membri della società civile si sono sforzati di spiegare ai loro concittadini – ai loro vicini di casa e di quartiere – che queste elezioni possono essere utili. Sono riusciti a convincerne solo poco più di un terzo. Ma quel terzo ha permesso di insediare per la prima volta nel Paese le cellule base della democrazia.
Verso sud: tra mare e montagna
Se la banlieue nord è nota per le sue località turistiche, le sue case nascoste da rampicanti di gelsomino e buganvillea, il suo patrimonio architettonico e i suoi alberghi di lusso, la banlieue sud, nel governatorato di Ben Arous, è associata al porto di Radès, a zone industriali, a nuovi insediamenti residenziali dove i prezzi scendono man mano che aumenta la distanza dal centro e dal mare. Ciononostante, non è affatto una regione omogenea. Il nucleo storico ingloba le vecchie residenze coloniali, le graziose villette di Mégrine e le ville pregiate del capoluogo Ben Arous; lungo la zona costiera proseguendo oltre il porto industriale si sgranano gli antichi villaggi di Ezzahra, Hammam Lif, Hammam Chatt; nelle aree interne i nuovi insediamenti abitativi di Mornag e El Mourouj, antiche zone agricole di vigneti, e ancora più all’interno i quartieri popolari di M’hamdiya e Fouchana.
Ben Arous è, in primo luogo, il prodotto del mostruoso sprawl urbano della capitale. Se i centri lungo la costa sono oggi serviti da una modernissima linea metropolitana, alle aree interne si accede solo con un sistema di autobus fatiscente oppure con l’automobile privata, scelta inevitabile per tutto il ceto medio e anche parte delle classi popolari. Lungo la superstrada che corre verso sud si alternano zone industriali, residui di zone agricole dove pascolano le pecore, nuclei abitativi cresciuti disordinatamente, spesso illegalmente, casette basse, negozi di frutta e verdura e – residui anch’essi degli insediamenti coloniali – insegne che recitano “Pharmacie” o “Pâtisserie”, il tutto dominato dalla polvere e da montagne di sacchetti di plastica.
Di prima mattina, lo svincolo per Bou Mhel el-Bassatine è un collo di bottiglia dove si ingolfano, a suon di clacson automobili e camion diretti alla zona industriale; il cantiere di un nuovo ramo di superstrada ha ridotto l’unica carreggiata di accesso al piccolo comune dell’interno. Davanti ad un nucleo commerciale che comprende un centro medico, un negozio di articoli sportivi e un caffè mi accoglie Takwa Trabelsi: ha trent’anni, una laurea in ingegneria informatica e una sfilza di master internazionali in management e conflict resolution. Ha creato e dirige uno studio di consulenza per decision-makers VIP a livello internazionale e fa formazione per leader nella regione MENA. Poi è anche sposata, ha un figlio e un secondo in arrivo. A Bou Mhel el-Bassatine ci è nata ed è stata presentata come capolista dal partito Ennahdha. Ma chi conosce questo piccolo comune che dista appena dieci chilometri dal centro di Tunisi? Ha 46 mila abitanti, zero attrazioni turistiche, zero imprese importanti. La sua popolazione è fatta di “molto ricchi e molto poveri”. I primi abitano nella zona collinare – alzando lo sguardo dalla strada polverosa ci si accorge che poco lontano, bianche villette si annidano nella macchia di vegetazione verde scura. I secondi abitano vaste aree di alloggi abusivi dove mancano i servizi, il verde, perfino l’acqua. Il traffico è uno dei problemi principali di questo pezzo di metropoli – vi contribuiscono la zona industriale, il pendolarismo di studenti e lavoratori – insieme a quello dei rifiuti. Gli spazi pubblici “sono pari a zero”: come in tutti quartieri popolari
Qui ha votato il 34% degli iscritti. Ha vinto Ennahdha che con il 30% si aggiudica 7 seggi, mentre Nidà Tounès con il 21% ne prende 5. Ma 5 seggi spettano anche alla lista indipendente “Al mustaqlat Bou Mhel el-Bassatine” arrivata seconda con il 22% che potrebbe allearsi con Courant démocratique (15% e 4 seggi) e i laico-progressisti dell’Unione civile (10% e 3 seggi). Si formerebbe così uno schema di 12 a 12, riflesso di quello politico nazionale. Il ruolo di sindaco spetterebbe a Takwa, capolista della lista vincente ma dipenderà dal formarsi di alleanze politiche. «Ma noi non vogliamo fare politica – dice Takwa – vogliamo fare».
Fare cosa? Se ci spostiamo sulle zone costiere cambiano il paesaggio, la composizione sociale, gli schieramenti politici, eppure alla fine troviamo le stesse priorità. Il comune di Hammam Chatt, sui 40 mila abitanti anch’esso, è assai più distante di Bou Mhel el- Bassatine dal centro di Tunisi (venticinque chilometri) ma ci si arriva comodamente con un treno metropolitano elettrificato, dotato di moderne carrozze con aria condizionata. Qui lungo la strada principale si allineano ridenti caffè e salons de thé, tutti “misti”, ovvero “per famiglie”, e molto frequentati dai giovani. I marciapiedi, bordati da cespugli e fiori ornamentali, sono un invito a praticare lo spazio pubblico. Il comune è una località balneare, ha una università, un polo tecnologico, un parco naturale in progettazione, una zona industriale, un pezzo di parco nazionale. È una città di classe media – con disparità sociali – e sono aspirazioni di classe media quelle che la popolazione esprime.
Queste aspirazioni hanno trovato la loro rappresentanza in Fethi Zagrouba, capolista della lista indipendente “Medinatna”, ingegnere chimico sulla cinquantina, docente universitario, con specializzazioni scientifiche, pedagogiche e manageriali ottenute in Francia, che di Hammam Chatt è stato consigliere e vice-sindaco tra il 1995 e il 2005, e poi di nuovo nel 2010 – giusto in tempo per «assicurare la continuità della gestione» nel 2011, al momento della Rivoluzione, assumendo il ruolo di sindaco ad interim. Nella sede della sua lista – un locale nuovo e ben attrezzato, con lungo tavolo, bandiere nazionali, pacchi di volantini – ha convocato i principali candidati e i responsabili dei gruppi di lavoro che lo ascoltano attentamente mentre si servono i rinfreschi e in un angolo dolci e bibite sono pronti per la festa di chiusura campagna nel pomeriggio.
Una lista «basata sulle competenze di architetti, ingegneri, agricoltori, formatori professionali, insegnanti, funzionari del Ministero degli Interni, infermieri, medici, personalità dotate di esperienza», precisa Fairouz Ghariani, ventinovenne dottoranda in Chimica, sposata con due bambini piccoli, attiva in diverse associazioni scientifiche nonché nel consiglio municipale dei giovani (“Jeune Chambre”), candidata e responsabile della commissione femminile che aggiunge: «Noi giovani abbiamo bisogno di essere guidati. Io avevo sentito parlare di Fethi. Il mio amore per la comunità mi ha spinto ad impegnarmi nel suo movimento».
Sul metodo di formazione della lista Fathi spiega: «Abbiamo selezionato gente conosciuta e qualificata. Hanno costituito ciascuno intorno a sé dei nuclei che si sono sviluppati in cellule di quartiere. Il compito di queste è stato di selezionare i profili adatti alle candidature. Non c’è posto per interessi particolaristici». Aggiunge: «Siamo strutturati come un partito politico locale ma in modo informale». Una struttura che ricorda il vecchio Rcd. Sulla matrice politica della lista indipendente peraltro Zagrouba è esplicito «Nidà Tounès era per noi era un faro luminoso ma poi ha formato il governo con Ennahdha …». Il programma della lista è il solito: «Abbiamo ascoltato i cittadini. Vogliono infrastrutture, servizi, pulizia». Fethi vi aggiunge «la buona gestione e l’autofinanziamento tramite partenership pubblico-privato e cooperazione internazionale». Alla vigilia delle elezioni Zagrouba è sicuro: «Quando torna ci troverà al municipio …».
Aveva ragione. A Hammam Chatt il tasso di partecipazione è stato del 36%, e Medinatna, con il 27% dei voti, si è piazzata al primo posto seguita a distanza da Nahdha (22%) e Nidà (21%). Courant démocratique 14%, Fronte popolare 6%. Fairouz, da neo-eletta, spiega:
Mohammed Amine Sdiri, che a Hammam Chatt è stato candidato non eletto nelle liste di Ennahdha, non vede le cose in termini molto diversi. Questo ingegnere dei trasporti, nativo di Hammam Chatt ma espatriato per formarsi in Francia, attualmente consulente per il Ministero dello Sviluppo, rappresenta quella nuova classe politica che ha incominciato a emergere in queste elezioni. Il discorso è sempre quello. «Abbiamo cercato di ascoltare la gente. Vogliono la pulizia. Dei programmi e degli spazi culturali. Dei servizi bene organizzati». Anche Sdiri pensa che il problema principale sia «l’organizzazione del lavoro municipale, molto carente». E che occorra «essere realisti e puntare sulla buona gestione delle risorse municipali». Con questa sostanziale convergenza di vedute è possibile un rigido schema governo/opposizione? Sdiri non lo pensa.:
«la formazione delle coalizioni – i negoziati sono ancora in atto – avrà rilevanza per l’elezione del sindaco. Poi si punterà a lavorare insieme. Sì, è vero, in liste indipendenti come Medinatna c’è di tutto, anche ex quadri Rcd o simpatizzanti senza tessera. Ma per il futuro ciò che conta veramente è che in comuni come il mio ci conosciamo tutti. Ognuno di noi ha amici e parenti sparsi in liste diverse. Io per esempio ho una cugina in una lista, un amico d’infanzia in un’altra …».
Sdiri era ben consapevole di essere candidato in un comune dove Ennahdha è minoritaria. Prima delle elezioni dichiarava: «Sono molto fiero e felice di quanto avviene in Tunisia. Sono sicuro che siamo sulla buona strada. È quello che mi ha convinto ad abbandonare la mia carriera di giovane manager bene avviata all’estero, e a tornare in patria». Dopo le elezioni la sua posizione non cambia: «È importante che queste elezioni abbiano avuto luogo. Le assemblee municipali sono il pilastro della democrazia. Noi di Ennahdha siamo soddisfatti».
Si tratta di una soddisfazione che contrasta con la delusione di altri come quella di Wided Sadfi, 38 anni, docente universitaria in Diritto e Finanza pubblica, candidata nel comune di Hammam Lif , dove ha sempre vissuto, nella lista indipendente “Nabdih Hammam Lif” che significa più o meno: “Il battito del cuore di Hammam Lif”. Il nome della lista e il suo logo (un cuore che racchiude montagna e mare) rivelano insieme l’entusiasmo e l’ingenuità dei suoi fondatori. Il comune, che fino a poco tempo fa inglobava anche Hammam Chatt ha un passato importante di località balneare e termale celebre e di ex residenza beylicale. Cittadina animata con una bella spiaggia, dominata dall’inconfondibile profilo del Boukornine, il monte dalla doppia punta, ha sofferto negli ultimi anni di un forte degrado ambientale.
Il tasso di partecipazione al voto qui è stato superiore alla media nazionale, raggiungendo il 38%. Ma a differenza di Bou Mhel el-Bassatine e di Hammam Chatt in questo comune che conta anch’esso sui 40 mila abitanti ci sono state ben 11 liste a contendersi 24 seggi. Nidà Tunès è arrivata in testa con il 34% dei voti e nove seggi, seguita da Ennahdha con il 28% e sette seggi: di che assicurarsi una comoda maggioranza in consiglio. Per il resto, il voto si è polverizzato in una pletora di listarelle indipendenti, riuscendo a mandarne in consiglio ben sei di cui cinque con un seggio ciascuno. Tra queste la lista di Wided che era la numero 2 – da cui la delusione, simile a quelle di molti esponenti di liste come questa nate “dal basso”. Racconta:
Ne è risultato un programma «non ideale bensì realista» aggiunge come tutti. Anche le priorità sono sempre quelle: la nettezza urbana e le infrastrutture, cui si aggiunge il patrimonio culturale, il risanamento della spiaggia, e risorse per il tempo libero e lo sport dei giovani. E come tutti Wided riconosce che «il budget municipale è piccolo, occorre lavorare sull’investimento privato e sulle partnership pubblico-privato». E come tante piccole liste, “Nabdih Hammam Lif” alla fine avrà mandato in consiglio solo il capolista il quale – come in molte liste indipendenti – è un uomo e non è giovane.
Le aree interne: tra città e campagna
Quando ci si allontana dalla costa si entra nelle “aree interne”, ovvero «quelle aree significativamente distanti dai centri di servizi essenziali (di istruzione, salute e mobilità), ricche di importanti risorse ambientali e culturali e fortemente diversificate per natura e a seguito di secolari processi di antropizzazione» [1].
M’hamdiya, nel governatorato di Ben Arous, è rappresentativa dell’estensione urbana che divora pezzi di campagna, seguendo l’andamento del mercato fondiario e lasciando larghe macchie di zone rurali – uliveti, pascoli – oltre le quali riemerge la città. In questo quartiere a 16 chilometri dal centro, in direzione sud-ovest, che cela resti importanti di archeologia romana e fasti beylicali totalmente ignoti al turismo, si arriva esclusivamente in macchina, con taxi collettivi o autobus radi e sovraffollati. I suoi mercati sono intensamente frequentati, così come le moschee i cui minareti spuntano ovunque. Come in molti quartieri popolari l’identità islamica – in senso non solo religioso ma politico, sociale e culturale – è forte. Le notti del mese di Ramadan – iniziato subito dopo le elezioni – a M’hamdiya come nel comune adicente di Fouchana le strade sono dense di gente, famiglie, bambini, giovani, dalle moschee si eleva nelle strade il salmodiare delle preghiere notturne di attarawih, mentre nelle distese infinite di caffè siedono gli uomini e di fronte alle innumerevoli bancarelle si assiepano famiglie con bambini.
Con i suoi 64 mila abitanti M’hamdiya ha diritto a 30 seggi. Sabato pomeriggio, la vigilia delle elezioni, il seggio di Nida’ Tunes, che si trova accanto all’ufficio di maître Zouari Abd al Hamid, notaio cinquantenne capolista locale, è effervescente. File di persone in attesa di istruzioni (come votare? con quali documenti?). Briefing dei giovani osservatori elettorali e rappresentanti di lista. Maître Zouari siede ad un scrivania di legno, alle spalle la bandiera della Tunisia e quella del suo partito. Spiega che non ha mai fatto politica prima – non aveva tempo – che si è deciso per rispondere alle pressanti richieste ricevute e perché pensa di poter portare qualche idea nuova al governo della città: cambiare i metodi di implementazione delle politiche, portare risorse aggiuntive con le partnership pubblico-privato. Da notaio che se ne intende aggiunge anche la sburocratizzazione dell’amministrazione. Il suo programma è lunghissimo ma in testa vi sono le stesse priorità che altrove: infrastrutture (strade, giardini pubblici, reti fognarie e acqua potabile) e servizi (sanitari e scolastici).
A M’hamdiya ha votato il 30% degli aventi diritto e non si è presentata una sola lista indipendente. Ennahdha prende il 60% tondo dei voti e porta a casa 18 seggi mentre Nida’ Tunes lo segue a grande distanza (il 15% e 5 seggi). Gli altri sette seggi sono spartiti tra tre partiti minori – come se in questo quartiere non ci fosse spazio per trastullarsi con liste civiche dai nomi più o meno fantasiosi che sorgono invece nei quartieri piccolo borghesi.
El Mnihla, altro quartiere grande e popoloso (oltre 80 mila abitanti e 30 seggi) sorge nella direzione opposta, a nord-ovest, nel governatorato dell’Ariana, dove sono i quartieri eleganti di El Menzah, La Soukra e Ennasr ma dove si trova altresì, a soli sei chilometri dal centro, il famigerato quartiere di Ettahdhamen che deve la sua cattiva reputazione tanto alla presenza di furto e spaccio quanto a quella di gruppi di salafisti radicali i quali a furto e spaccio (e all’alcool) fanno la guerra anche passando a vie di fatto. Di Ettadhamen la nuova municipalità di El Mnihla faceva parte fino a recentemente. Dal centro una linea metropolitana di superficie che risale agli anni ’90, dotata di mezzi moderni, attraversa Ettadhamen e si ferma a Intilaka, importante hub urbano con mercato alimentare e mercato dell’usato, una varietà di negozi e anche giardinetti. Da Intilaka a Joumhouria, frazione di El Mnihla, si può andare a piedi ma occorre circa mezz’ora. L’alternativa sono i taxi collettivi o individuali, poco frequenti ambedue. La passeggiata si snoda in un’area urbanizzata, perlopiù fatta di piccole case o villette che denotano livelli variabili di benessere, talvolta con la ricerca di un tocco gentile nella decorazione delle porte, nelle piante davanti all’uscio o sui muretti di separazione. Ci sono scuole elementari e piccoli chioschi di bibite ma l’unico spazio pubblico sono i soliti caffè per soli uomini che durante il Ramadan si riempiono dopo l’iftar mentre nelle strade giovani donne camminano spedite trascinandosi al seguito come un trolley una bimbetta per andare a sedersi su qualche muretto in compagnia di altre donne.
El Mnihla comprende quartieri lussuosi come i recenti Jardins d’El Menzah e Ennasr, quartieri molto poveri come Achaich, Basatine e Sanhaj, e quartieri intermedi come Joumhouria e Rafeha. I quartieri più ricchi non sfuggono al degrado delle infrastrutture e dell’ambiente mentre quelli più poveri possono essere sprovvisti di acqua potabile, reti fognarie e strade asfaltate e ovunque l’abusivismo accresce i problemi. È di Joumhouria un’altra candidata di lista indipendente, anche lei giovane e entusiasta, anche lei votata alla delusione: Amna Akaichi, 27 anni, studentessa di Giurisprudenza e Scienze politiche. Anche la sua lista nasce dal basso, con un altro nome che riflette entusiasmo ed ingenuità: Nahm, nastatiy’ ovvero Yes we can. È stata creata da giovani che si sono conosciuti all’università.
Hanno fatto come tutti il porta a porta. Poi sono arrivati i risultati. Se M’hamdiya è sotto la media nazionale qui il tasso di partecipazione al 24%. Quasi metà dei voti (48%) vanno a Ennahdha (14 seggi) seguita a distanza da Nidà Tunes (23%, 7 seggi). La delusione di Amna (non eletta) è grande ma conta di continuare ad impegnarsi, anche grazie a quei due candidati della sua lista entrati in consiglio dove potranno fungere da raccordo con i loro elettori e concittadini.
Da Joumhouria vengono anche Rawda e Wided, 24 e 25 anni. Loro come tanti giovani del quartiere a votare non ci sono andate. Lavorano ambedue come assistenti in un centro sociale per malati di Alzheimer che impiegano un’ora a raggiungere. Il loro disinteresse per queste elezioni è totale Esprimono la convinzione che tutti i politici intascano soldi frutto di corruzione. Ma si animano quando parlano del loro quartiere. Rawda mi mostra i luoghi della sua infanzia, la scuola, le strade che percorreva. Wided racconta di bambini che giocavano per strada con giochi improvvisati, rudimentali altalene, aquiloni fatti con buste di plastica, di merende a base di pane olio e zucchero, di frutta raccolta dai muretti, di maschietti che per lei erano come fratelli e di un padre che la lasciava libera perché la voleva forte e indipendente. Lamenta che oggi non è più così, internet e smartphone hanno prodotto isolamento, il consumismo dilaga e le relazioni tra ragazzi e ragazze hanno perso la loro innocenza. Ciononostante le due ragazze il loro quartiere lo amano, caldo luogo di intense amicizie e di forti identità. Non sognano affatto di cambiare quartiere ma, caso mai, paese.
Verso ovest, infine, in direzione della montagna e del confine algerino, i quartieri di edilizia intensiva formale e informale lasciano il posto alla campagna in un paesaggio dove si alternano lunghe distese di zone agricole – in parte intatte – oltre le quali riappare una città fatta di casette basse e piccole botteghe lungo le strade principali dei quartieri, e di villette ora modeste ora più eleganti nelle viuzze secondarie. È questo il tipico paesaggio di Chawatt, frazione di Jdeida, un comune di 45 mila abitanti, a venticinque chilometri dal centro, che ha come simbolo il carciofo, prodotto caratteristico di questa zona ancora parzialmente agricola (un gigantesco carciofo in pietra troneggia in mezzo alla rotatoria di accesso alla città). Il comune comprende tre settori, Jdeida vecchia, Jdeida nuova e Chawatt.
Hassan Korbaj ha 65 anni. Originario del Sahel come Burghiba, di cui è un ammiratore, vive a Chawatt da quasi quarant’anni. Sposato e padre di cinque figli, è pensionato dopo aver fatto il quadro intermedio nei cantieri. Ai tempi di Burghiba era membro della cellula del Neo-destur di Chawatt. Ha abbandonato la politica ai tempi di Ben Ali, vi è tornato dopo la Rivoluzione, iscrivendosi a Nidà Tunes. Deluso dall’accordo tra Nidà e Nahdna decide con alcuni amici di fondare un nuovo partito e di presentarsi alle elezioni municipali con la lista ‘Il Lavoro e la Speranza’.
«Tutti eravamo impegnati in altri partiti – Nahdha, Nidà, Fronte popolare – che non hanno funzionato bene. Il nostro capolista è stato sindaco dal 2011 al 2017 quando è stato sostituito dal Ministro dell’Interno. La nostra lista comprende molti giovani e tutti i candidati sono diplomati: funzionari pubblici, ingegneri, insegnanti, tecnici. Li abbiamo selezionati per conoscenza personale o tramite le nostre reti». Il programma ha una ventina di punti ma come ovunque in testa c’è la pulizia, i servizi a rete (luce e gas, acqua potabile e fognature), le strade. Ma Korbaj sogna di una Casa della Gioventù, una biblioteca, un cinema perché «oggi i ragazzi si ritrovano nei caffè o semplicemente in strada, le ragazze in casa e molti giovani finiscono su una brutta strada». Per Korbaj si tratta di un problema sociale, non securitario: «Qui ci conosciamo tutti, si vive in famiglia, l’unico problema è il rumore dei ragazzi che giocano a calcio in strada di notte».
A Jdeida il tasso di voto si mantiene poco sotto la media nazionale (il 33%) e la lista indipendente “Il lavoro e la speranza” miete un buon successo, piazzandosi al secondo posto con cinque seggi, subito dopo Ennahdha (31%) che ne ottiene sette e prima di Nidà Tunès che con l’11% ne ottiene appena tre. Potrebbe dunque scardinare il duopolio Nidà-Nahdha ma non sarà necessariamente così e Korbaj, dopo le elezioni, è arrabbiato e deluso: «Nella nostra lista c’erano un paio di candidati che provenivano da Ennahdha, partito con il quale giuravano di non volere aver nulla a che fare. Ma adesso si preparano a dare i loro voti per il sindaco al capolista di Ennahdha».
I grandi progetti: tra il porto e il lago
Esiste infine una terza tipologia di quartieri metropolitani, quelli dalle connotazioni postmoderne sviluppatisi intorno ai “grandi progetti”, cioè quei complessi urbani pregiati – fronti d’acqua, malls di ultima generazione, parchi tematici, tecnopoli – realizzati con forti investimenti stranieri, attrattori di pubblici misti e tipici delle città globali (Cattedra 2010).
A breve distanza dal centro, Halk al Oued ovvero La Goulette è un nome che evoca un pezzo della vecchia Tunisi, pittoresco e tradizionalissimo, porto di pescatori, quartiere di operai e pescatori immigrati venuti dall’Italia e dalla Francia, dove musulmani, cristiani ed ebrei per secoli hanno condiviso i pasti conviviali che accompagnano le loro feste religiose, stazione balneare dove le sere estive famiglie di tutti i ceti affollano le trattorie, in cui si serve il pesce fritto e i brik, e i caffè lungo la spiaggia. Ma la municipalità di Halk al Oued è costituita oggi da tre quartieri: La Goulette, El Aouina e Lac 2. Al vecchio quartiere popolare sul quale la speculazione edilizia aveva già messo gli occhi ai tempi di Ben Ali si affianca così quello di Al Aouina, sorto su una zona di frutteti per fornire alloggi di edilizia residenziale abbordabile al ceto impiegatizio di stato, e quello dei nuovi centri residenziali e direzionali delle Berges du Lac, edificati sui terreni creati dalla bonifica della laguna di Tunisi, nati dal grande progetto di risanamento della laguna di Tunisi (Signoles 2006).
È proprio qui, nel complesso denominato Lac 2, che incontro Amine Riahi, candidato indipendente nelle liste di Ennahdha che ha appena 25 anni e si integra perfettamente nel paesaggio urbano post moderno di questo grande progetto fatto di grattacieli tutti vetri e specchi, brand di lusso e caffè di tendenza. Il suo ufficio è in un co-working super attrezzato che ospita business center, uffici di consulenza e startup – «Facciamo parte delle dieci top startup» mi comunica prima ancora di presentare il suo cv. Breve ma intenso: diploma in Economia industriale, specializzazione in risorse umane, master in management, impegno nella società civile a partire dal 2011 quando approfitta della ritrovata libertà di espressione per fondare l’“Associazione Tunisina dei Dibattiti” che promuove la cultura della discussione e dell’argomentazione, passione che si unisce a quella per gli sport elettronici. Ha sviluppato una rete che opera in tutto il Nordafrica e collabora con diverse università nell’ambito di competizioni di dibattito; lui stesso è giudice e rappresentante della Tunisia. Appartiene alla nuova generazione che si lascia il francese alle spalle (anche se Amine lo parla bene) privilegiando l’inglese e l’arabo letterario, competenze che ha esercitato anche nel programma “Young Arab Voices” della Fondazione Anna Lindh, volto a promuovere le capacità oratorie di giovani leader.
Il suo impegno politico è recente poiché pensa che «lo sviluppo di un giovane deve passare attraverso stadi successivi: prima quello personale, poi quello associativo, infine quello politico». Quindi «ho deciso che era tempo che mi occupassi di politica e poiché prevedo che vi saranno grossi cambiamenti a livello locale ho deciso di iniziare la mia carriera politica a quel livello. Ho cercato un partito in cui impegnarmi e la mia scelta è caduta su Ennahdha. È stata una scelta individuale, i miei genitori sono i miei consiglieri ma alla fine decido da solo. Ennahdha è l’unico partito bene organizzato, istituzionale, solido, con una democrazia interna».
A Halk el Oued ha votato circa un terzo degli iscritti e il grande vincitore è Nidà Tounès (35%) che distanzia molto Ennhdha (23%) seguito da vicino da due liste indipendenti con rispettivamente il 21% e il 15% dei voti. Ciò non turba Amine il quale non ha l’ingenuità dei giovani candidati di alcune liste indipendenti e conosceva perfettamente il contesto nel quale il suo partito lo candidava. L’esperienza della campagna elettorale per lui conta in sé stessa.
«Quando sono tornato in Tunisia dall’estero per prendervi parte ero davvero felice: fare il porta a porta, parlare con la gente, ascoltare, capire – il mercato, i prezzi, la luce, la sporcizia – è stato utile a me come a loro. Credo che una campagna elettorale si basi fondamentalmente sulle relazioni faccia a faccia, malgrado l’importanza dei media e dei social network. La gente mi conosce, sa che ho successo. La gente si fida di Ennhdha perché mette nelle sue liste persone che riescono in quello che fanno».
Tirando le fila
Cosa abbiamo appreso da questo giro nei quartieri della metropoli meno esposti ai media? In primo luogo è emersa una straordinaria somiglianza nel linguaggio dei candidati, come se tutti avessero fatto un briefing con le stesse società di formazione politica. Tutti promettono il riordino della macchina amministrativa e il reperimento di risorse aggiuntive tramite partnership pubblico-privato. Quasi tutti dichiarato che occorre «essere realisti» e «non fare troppe promesse». E quasi tutti i cittadini hanno chiesto la pulizia delle strade e lo sviluppo delle infrastrutture.
In secondo luogo è emersa una propensione al voto più alta nei quartieri di ceto medio che nei quartieri popolari della capitale. Nei primi inoltre si sono affermate le liste indipendenti mentre nei secondi tengono i partiti. In terzo luogo tutti concordano sull’importanza delle conoscenze personali. Ai fini dei risultati ciò che conta è quanto i candidati sono conosciuti e ciò che hanno alle spalle: partiti, reti, esperienza. In quarto luogo le elezioni, grazie ai meccanismi fondamentali della parità tra i sessi e delle quote giovani nella formazione delle liste, nonché del proporzionale puro nel sistema elettorale, sono state la palestra di una nuova classe politica in formazione fatta di donne e giovani alla loro prima esperienza. Infine le relazioni faccia a faccia sono state al cuore della campagna elettorale malgrado l’importanza dei media e dei social network.
Oggi che la metropoli tunisina corre il rischio di trasformarsi da città in conurbazione, e di veder scavare ulteriormente le fratture sociali, il compito di “fare città” appare affidato ai quartieri, soprattutto quelli che hanno conservato un’anima popolare o residui di solidarietà sociale. Le elezioni municipali saranno in grado di far rivivere queste due componenti essenziali della civitas, affinché non si riduca a urbs? Se uno cerca su internet notizie dei quartieri si imbatte in annunci di promotori immobiliari. Una narrazione dei quartieri che oggi manca potrebbe sorgere dall’intreccio di microstorie che hanno prodotto i primi comuni democratici nella storia del Paese.
Nota
Riceviamo da Guido Viale e e pubblichiamo lo scritto inviatoci dall'autore uscito in formato ridotto su il manifesto di oggi. Due tragedie, che Viale connette in un unico discorso, centrali per la nostra sopravvivenza. (e.s.)
Che cosa ci siamo dimenticati? Chiedeva Urbi et orbi, a Roma e al mondo, the Young Pope di Sorrentino. Ci siamo dimenticati i cambiamenti climatici e la conversione ecologica.
I cambiamenti climatici provocati dai combustibili fossili colpiscono tutto il pianeta. Ma devastano di più i paesi fragili ed esposti, quelli da cui proviene la maggioranza dei profughi e dei migranti odierni, per lo più sfuggendo a guerre e conflitti innescati da una riduzione delle fonti di sopravvivenza e dall’appropriazione da parte di alcuni, o di pochissimi, delle terre e delle risorse ancora disponibili. Sono guerre e conflitti in gran parte alimentati anche da diversi Governi dell’Occidente e non, che hanno trasformato in rapina economica e degrado ambientale il controllo diretto che esercitavano quando quei paesi erano ancora le loro colonie.
I cambiamenti climatici in corso si possono ancora frenare, e in parte anche invertire; le terre che ne vengono devastate si possono bonificare e recuperare; i profughi ambientali e di guerra costretti ad abbandonarle potrebbero, e in molti vorrebbero, tornare da dove sono partiti per ricostruire i loro paesi e rigenerare le loro terre e le loro comunità, se solo ne avessero la possibilità; e molti altri loro connazionali potrebbero a loro volta partire alla volta dell’Europa, decisi a fare ritorno, dopo aver lavorato qualche anno con noi, se avessero la possibilità di farlo per vie sicure e legali. Niente di ciò che sta trasformando l’Europa in una caserma, il Mediterraneo in un cimitero e la Libia in un Lager è irreversibile, ma non c’è più molto tempo. Tra breve quei processi diventeranno irreversibili: il pianeta Terra si trasformerà in un habitat insopportabile per la maggior parte dei suoi abitanti, compresi quelli che oggi si sentono al sicuro; le persone costrette ad abbandonare il loro paese per cercare di sopravvivere si conteranno a centinaia di milioni; il falso benessere che molti di noi (in realtà sempre meno) pensano di poter difendere con barriere sempre più alte intorno al proprio paese, affidando a politici menzogneri il compito di costruirle, è destinato a dissolversi nel giro di pochi decenni. Ne beneficeranno solo i ricchissimi: sempre di meno è sempre più ricchi, come già sta succedendo da tempo sotto i nostri occhi.
Per anni i padroni del petrolio e quelli delle industrie che ne dipendono, corrompendo studiosi, politici e giornalisti, hanno cercato di negare il pericolo mortale dei cambiamenti climatici e loro cause, pur sapendo benissimo quanto quel pericolo fosse invece reale; anche i militari lo sapevano benissimo e si preparavano da tempo a combattere non più il comunismo, il narcotraffico o il terrorismo (tutte cose con cui hanno giustificato in passato la necessità di armarsi sempre di più), bensì le ondate migratorie che avrebbero investito le cittadelle ricche dell’Occidente quando gli effetti dei cambiamenti climatici cominceranno a farsi sentire in modo diffuso e profondo: lo testimonia un documento del Pentagono di 15 anni fa.
Oggi non si nega più niente di tutto ciò; semplicemente lo si ignora: lo fanno politici, media, giornalisti, intellettuali, solo flebilmente contraddetti dal grido di quegli scienziati che vedono avvicinarsi la notte per la vita umana sul nostro pianeta. Il problema al centro della politica, in Europa come negli Stati Uniti, è ormai solo come fermare i profughi ai confini esterni o interni degli Stati, come se i migranti si materializzassero improvvisamente ai bordi del Mediterraneo o alla frontiera con il Messico, senza preoccuparsi né del prima né del dopo.
Il “prima” è la devastazione delle terre, la rapina delle risorse, le guerre e la vendita di armi che hanno costretto tanta gente, e continueranno a costringerla, a fuggire. Il dopo, se un dopo ci potrà ancora essere, non è certo “la crescita”, i pochi punti o decimali di punto di aumento dei PIL, purchessia, che economisti, politici e banchieri si affannano a inseguire come se fosse quella la chiave della salvezza per tutti (lo è solo, e per poco tempo, per alcuni di loro). Il vero “dopo”, se sapremo costruirlo, è quello che può offrire terra, casa, lavoro a tutti, migranti e nativi, anche a chi si ritrova sempre più ai margini di una società che non offre e non promette più niente, se non rinunce e sacrifici; e proprio mentre fa balenare davanti agli occhi di tutti i lussi sfrenati dei pochi che possono permetterseli. Quel futuro per tutti c’é solo nella conversione ecologica, nella cura della casa comune, nella salvaguardia della Terra; cioè nell’abbandono in tempi rapidi di tutti i combustibili fossili, nella riconversione delle industrie inquinanti e delle fabbriche di armi, nella chiusura di tutti i cantieri delle “Grandi opere” che devastano il territorio e non creano né occupazione né benessere, nell’arresto del saccheggio delle risorse, nell’abbandono della cultura e dell’economia dello scarto, che trasforma uomini e cose in rifiuti nel più breve tempo possibile, nella lotta alla povertà e allo sfruttamento garantendo a tutti, migranti e nativi, un reddito sufficiente a vivere, ma anche la possibilità di studiare, imparare e trovare un lavoro che valorizzi le capacità di ciascuno.
Sono le cose che tutti (tranne chi vive dello sfruttamento altrui) sognano, ma che sono riusciti a farci credere che siano irraggiungibili perché il problema vero sarebbe la crescita che non porta più nessun vantaggio se non a chi ha già tutto e vorrebbe avere sempre dì più. Sono le uniche cose di cui dovrebbero parlarci i partiti politici, invece di impegnarsi in una corsa cinica, crudele e mortifera a chi fa di più e meglio per respingere i migranti che cercano di raggiungere l’Europa: pochissimi, finora, rispetto ai tanti costretti ad abbandonare le proprie terre. Così la politica è avvizzita e si è incrudelita; e invece di capire, studiare e spiegare come tutti quegli obiettivi, e altri ancora, si potrebbero ricondurre a un unico grande programma per rimettere in sesto il nostro pianeta, articolandolo paese per paese, città per città, quartiere per quartiere, azienda per azienda, campo per campo - e che senza l’arrivo di nuovi migranti e senza dare loro la possibilità di tornare per risanare le terre e le comunità che hanno lasciato - nessuno di quegli obiettivi potrà mai essere raggiunto (e le nostre condizioni peggioreranno sempre più), ci si accanisce lungo una spirale che ci sprofonda nella miseria.
Ma chi potrà fare quello che finora nessuno ha fatto? Possiamo cominciare con le associazioni, i comitati, i gruppi impegnati sul terreno della solidarietà e dell’accoglienza, che sono tanti ma non hanno voce né peso, soffocati da un dibattito insulso che parla d’altro e si svolge altrove. Di lì possono nascere e crescere le forze in grado di misurarsi con ciò che il nostro tempo mette all’ordine del giorno.
«E se qualcuno sostiene che la pianificazione non occorre, sono costretto a ricordargli che non occorre alle classi dirigenti, ma alle altre sì». Lo diceva, già nell’’85, Italo Insolera per sottolineare come all’establishment, quello in grado di contrattare direttamente con i cacicchi dei partiti le proprie varianti urbanistiche, fosse addirittura di imbarazzo uno strumento urbanistico.
Deve essersene convinto anche Renato Soru se, nella recente intervista rilasciata a Luca Rojch della Nuova Sardegna, ha sostenuto l’urgenza di disporre di una nuova legge sul governo del territorio, proprio per incentivare la redazione dei piani urbanistici comunali e degli strumenti sottordinati, in coerenza con gli indirizzi e gli obiettivi del Piano Paesaggistico Regionale.
Per Soru, il Ddl va dunque approvato rapidamente, ma non proprio così come è stato licenziato dalla Giunta, tutt’altro. Dovrebbero infatti essere cancellati l’articolo 43 - quello, per intenderci, che consente l’approvazione in deroga al PPR dei progetti “di grande interesse” - e l’allegato A4, che incrementa surrettiziamente il dimensionamento dei piani comunali. Anche il famigerato articolo 31 dovrebbe essere riscritto in modo da limitare gli aumenti di cubatura dispensati a pioggia, magari trasformandolo in un “articolo ad hoc per l’adeguamento delle strutture esistenti”. Ma non basta. E’ l’intero corpus normativo che - parola di Soru - ha bisogno di una radicale cura dimagrante: “113 articoli sono un’esagerazione” – afferma – e il testo deve essere semplificato per renderlo comprensibile a tutti, e non solo ai soliti sacerdoti di regime, gli unici in grado di capirlo e, dunque, di piegarlo ai propri interessi.
Insomma, sembra proprio che, anche per Soru, il Ddl, così come proposto, non sia potabile e che, dunque, debba essere rivisitato integralmente, sia per emendarlo degli “errori” più macroscopici che per mutarne radicalmente struttura, lessico e obiettivi.
Quando poi, però, Rojch gli chiede se - come sostiene qualcuno (più d’uno in verità) - la legge dovrebbe essere “buttata via e riscritta”, Soru ripiega su un “no” secco. Poi cambia discorso e ribadisce con diplomazia che è necessario dare piena attuazione al PPR attraverso “una legge urbanistica compiuta”.
Insomma, una stroncatura in politichese. Diplomatica quanto si vuole, ma radicale e senza appello.
A parte i tatticismi politici e alcuni aspetti di merito (l’improponibile conservazione dell’art. 31), come dargli torto? Per quanto non lo dica chiaramente, Soru dimostra di aver ben colto la differenza che intercorre, o che dovrebbe intercorrere, tra legge urbanistica e piano, tra regole e loro attuazione, tra strumenti normativi e trasformazioni del territorio. Differenza sostanziale, ben nota a chiunque mastichi appena di urbanistica ma che, a partire dal tristemente noto “piano casa” Berlusconi – peraltro più volte ispiratore di opinabili leggi della regione Sardegna – si è attenuata, fino a quasi scomparire del tutto. Si è così aperta la strada a leggi-provvedimento che esorbitano dalle competenze regionali, violano il principio di sussidiarietà ed esautorano i comuni dalle loro funzioni più caratterizzanti, specifiche e delicate, quali quelle che attengono all’assetto e all’utilizzazione del proprio territorio.
Ed è proprio qui uno degli aspetti più critici del Ddl: anziché definire le regole chiare perché il Piano Paesaggistico Regionale - la cassaforte del patrimonio sardo - possa velocemente essere esteso alle aree interne e declinato negli strumenti urbanistici sottordinati, pone sullo sfondo questi irrinunciabili obiettivi strategici e - in assenza di qualsiasi pianificazione - determina direttamente rilevanti modifiche della parti più sensibili del territorio, in barba alla competenza dei comuni.
Si dirà – e lo ha detto più volte il presidente Pigliaru - “ma le strutture ricettive non sono competitive, devono essere adeguate agli standard internazionali”. Bene, forse è un problema reale, o forse no. Ma il rimedio, in quanto suscettibile di produrre danni incalcolabili e irreparabili, non sarà peggiore del male? E davvero temi così complessi possono essere affrontati con la filosofia del “liberi tutti”, “ognuno è padrone a casa sua” e altre menate di matrice berlusconiana che, nei fatti, assecondano e legalizzano il trend naturale dell’abusivismo edilizio? E, allora, perché non affidare alla pianificazione comunale l’individuazione delle possibili soluzioni, coerenti al PPR e, dunque, almeno astrattamente compatibili con la tutela di un bene irriproducibile?
Purtroppo, sembra proprio che l’assessore Erriu ritenga normale, addirittura auspicabile che una legge modifichi il regime dei suoli, distribuisca volumetrie e rendite fondiarie a casaccio o preveda pericolosissimi e discrezionali percorsi di deroga, con il rischio fondato che l’interesse pubblico, rappresentato e garantito dal PPR, venga subordinato a quelli privatissimi di chi è nelle condizioni di negoziare deroghe e varianti ad libitum.
C’è da sperare che il Legislatore regionale non subisca il fascino della soluzione a portata di mano, insomma, che non voglia sostituire al sistema delle regole uno sbrigativo “controsistema” di deroghe, tale da consentire direttamente, senza valutazioni strategiche, senza i lacci e lacciuoli del PPR e senza la redazione di piani ad esso adeguati, di scaricare altro cemento sulle coste dell’Isola.
Se così fosse, non si incentiverebbe certamente la pianificazione comunale. Ma, dopotutto, forse è proprio quello che si vuole. Già nella Napoli di Achille Lauro, quella mirabilmente affrescata da Rosi nel suo film capolavoro, sembra si dicesse “il piano regolatore serve a chi non si sa regolare. A noi, no. Noi ci sappiamo regolare”. Ancora meglio se c’è la copertura di una legge.
Grazie all’autore pubblichiamo il testo integrale dell’articolo inviato al quotidiano “La Nuova Sardegna” e ivi pubblicato in edizione ridotta.
il Manifesto, 8 luglio 2018. Chiunque vive a Kibera viene ancora considerato un abusivo. Molto conveniente in quanto permette di sfrattare gli abitanti per fare posto alle infrastrutture e case per una città di "prima classe". Con commento (i.b.)
La Costituzione del Kenya del 2010, una delle più avanzate costituzioni sinora redatte nel mondo, sancisce il diritto alla casa come uno strumento per l'implementazione dei diritti socio-economici. Si pensava che questo avrebbe facilitato il riconoscimento dei quartieri informali e finalmente e definitivamente fermato gli sfratti di migliaia di persone da quartieri come Kibera.
Ma il neoliberalismo e voglia di modernità non si fermano neanche davanti alla costituzione. Kibera è troppo vicina al centro della città per lasciarla abitare dai poveri, e allora si invoca l'abusivismo, l'occupazione illecita di suolo pubblico. A Nairobi gli abitanti abusivi rappresentano ancora la stragrande maggioranza della popolazione, ma occupano uno spazio assai risicato della superficie della città. Fintanto che si trovano ai margini e in terre che non interessano alla speculazione i loro diritti vengono rispettati, ma se si trovano su suolo appetibile anche la Costituzione viene ignorata.
Vi rimando ad alcune pagine di diario che ho tenuto nel 2010, quando sono stata a Nairobi per condurre il lavoro sul campo della mia tesi di dottorato: "La Nairobi che ricordavo" e "Nairobi città divisa".
Per coloro invece che preferisco un testo scientifico e in inglese vi rimando a un articolo scritto nel 2015: "Production of Hegemony and Production of Space in Nairobi". (i.b.)
A Nairobi lo slum di Kibera sotto sfratto. Un’altra volta
di Fabrizio Floris
Per gli abitanti della grande baraccopoli di Kibera a Nairobi si torna a parlare di sfratto. L’avviso è stato affisso mercoledì e dà ai residenti 12 giorni di tempo per liberare lo spazio per la costruzione della Kibera-Kungu-Lang’ata, una strada che dovrebbe alleggerire il traffico sull’affollatissima Ngong Road.
Secondo il responsabile del settore infrastrutture Nyakongora, «sono presenti strutture illegali che devono essere rimosse. Pertanto abbiamo dato il preavviso dopodiché procederemo con la rimozione coatta».
Già all’inizio di giugno centinaia di famiglie sempre di Kibera sono rimaste senza casa per la costruzione della ferrovia. Può sembrare una questione semplice e lineare: c’è da costruire un’infrastruttura utile una strada o una ferrovia, un bene pubblico, che deve avere la priorità su interessi «privati», quindi deve avere spazio; inoltre in tale spazio c’è chi ha edificato abusivamente quindi non può avere nulla da eccepire. Ma non è così semplice.
In primis si tratta di abitazioni, ma dove non c’è una divisione tra spazio domestico e luogo di lavoro, nelle case si cuce, si produce, si cucina, lo spazio adiacente è il luogo di vendita: con la demolizione non si priva solo la gente della casa, ma anche del lavoro.
Secondo, non è l’abusivismo «italiano»: qui le persone sono arrivate prima delle infrastrutture. Kibera deriva da kibra che in arabo significa foresta: il terreno su cui sorge venne consegnato dall’esercito inglese ai Nuba che avevano servito la corona britannica.
Gli African King’s Rifles ricevettero agli inizi del secolo scorso i 250 ettari di terra dove vivono oggi i circa 800mila abitanti di Kibera, ma tuttora i certificati di proprietà sono incerti: nell’Africa orientale e in generale in tutta l’Africa subsahariana, nonostante le rilevanti differenze esistenti tra le popolazioni, la proprietà della terra si basava sul concetto di proprietà comune. Inoltre, nel periodo coloniale non era permesso agli africani di essere proprietari di terreni né di costruire case.
Nelle città gli africani non potevano essere proprietari dell’abitazione così che una volta terminato il periodo di lavoro si fosse sicuri che sarebbero ritornati al villaggio. I residenti in città potevano possedere un permesso di occupazione del suolo per un tempo definito, un permesso di abitazione revocabile in ogni momento non trasferibile o ereditabile con cui era possibile costruire con materiale non permanente.
Nacquero così gli speciali «insediamenti indigeni», diventati oggi gli slums. Con la fine dell’epoca coloniale c’è stata una fortissima pressione migratoria verso le città perché lì tutti gli investimenti pubblici si sono concentrati puntando sulla presunta vocazione industriale dell’Africa
Sono arrivate migliaia di persone, senza un posto di lavoro ad attenderle; sono nate città che nel loro perimetro hanno case di fango e grattacieli, campi da golf e interi quartieri senza una pianta, buchi per le strade, nei bilanci, nei canali fognari e negli acquedotti, nelle mani dei donatori internazionali e nelle vene dei malati di Aids così come nella cultura: incapace di creare una sintesi tra istanze differenti.
Ma il «buco» più vistoso è nella storia. Si è pensato di far crescere questa città, modificarne cultura e tradizioni come un bambino che tira una pianta per farla crescere più in fretta. La terra, la sua distribuzione, la proprietà, la città di diritto e la città di fatto sono rimaste un nodo psicologico ed economico che impedisce alla vita di scorrere.
Tratto dalla pagina qui raggiungibile.
La città invisibile, 12 luglio 2018. Un altro servizio per il consumatore globale, e un altro passo verso la trasformazione di Firenze da città a Mall. (i.b.)
Firenze. Cinquantotto corse dirette collegano giornalmente la stazione ferroviaria di Santa Maria Novella con il centro commerciale The Mall, il «luxury outlet» (nel comune di Reggello) che conta più di due milioni e mezzo di visitatori l’anno.
Il servizio è garantito da due società di trasporti, che operano in concorrenza. L’una (più o meno) pubblica: BuSitalia Sita Nord (del gruppo FS). L’altra privata: Firenzi Servizi. Sì, avete letto bene: Firenzi. Un bel gioco di rimandi: Fi come Firenze, Renzi come Renzi. Un’assonanza (del tutto casuale, ci mancherebbe) che riporta alla mente le indagini giudiziarie che vedono coinvolti i Renzi, genitori di Matteo da Rignano, in una vicenda di fatture false, inerenti proprio al centro dell’outlet di lusso, nato sotto le insegne di Gucci.
Vediamo da vicino le due “offerte” ai plotoni di turisti, pazzi per il made in Italy.
1) La società del gruppo Ferrovie dello Stato, BuSitalia – attiva anche nel turistico City Sightseeing con bus rossi a due piani – impiega, esclusivamente per la tratta in questione, quale «servizio a mercato», una flotta di pullman neri col logo del Mall a caratteri cubitali. Propaganda su gomma. Dal canto suo, Trenitalia fornisce, sul sito ufficiale, il “servizio integrato” di vendita del biglietto (7 euro) unitamente a tratta ferroviaria. 17 corse al giorno in andata e 19 di ritorno. Nell’orario estivo si contano 36 corse in totale dalla stazione Santa Maria Novella a quella “Firenze The Mall” (così nel sito di Trenitalia). La fermata Firenze The Mall è in località Leccio, a due chilometri e mezzo dalla stazione ferroviaria di Rignano sull’Arno. Poteva dunque bastare una navetta. E invece si è preferito investire nell’acquisto di pullman lussuosi, «al top dell’offerta nella categoria in termini di comfort». Così nel febbraio 2016 BuSitalia Sita Nord acquista – per lo svolgimento di questo servizio – cinque mezzi Setra, 14 metri, due piani, 84 posti a sedere, «tetto panoramico». Costo totale 2,2 milioni di euro.
2) L’offerta ad uso esclusivo degli shopping tourists è raddoppiata dalla Firenzi Servizi S.r.l., «da anni nel settore trasporto di persone», al servizio dei «moderni touristic trend». Dal gennaio 2016 il servizio è attivo, autorizzato dalla Città Metropolitana presieduta da Dario Nardella, sindaco di Firenze. Gli autobus sono bianchi, privi stavolta del logo, ma con esplicite iscrizioni sulle fiancate, in inglese, giapponese e cinese. 22 corse in totale (biglietto a 5 euro, 2 in meno del servizio “pubblico”) partono e arrivano a piazzale Montelungo, a 100 m dalla stazione di SMN dove gruppi di giovani hostess propongono, sorridenti, un viaggio che promette sicura soddisfazione ai fanatici dell’acquisto. La Firenzi offre anche un servizio navetta che recupera i più pigri direttamente in albergo.
Un impeccabile – e iperdimensionato – servizio al consumatore globale. Un altro passo verso la trasformazione della città in un gigantesco centro commerciale, la cupola brunelleschiana ridotta a immagine pubblicitaria al centro di una rete di terminal del consumo, dai Gigli al the Mall. E un’insostenibile aggiunta di carico per una città già asfissiata dal traffico su gomma e dai pulmann a servizio del turismo globale.
Per i “cittadini” vale sempre di più il vecchio detto: Lavora Consuma Crepa.
Tratto dalla pagina qui raggiungibile.
La storia ci conferma che per molti secoli è stato così: sembra che l’uomo avesse imparato a consumare ciò che era strettamente necessario alla sua esistenza (sia pure con gigantesche disuguaglianze tra chi consumava molto e moltissimo, e chi poco o pochissimo). Poi è successo qualcosa, una sorta di virus si è impadronito degli umani. Lo abbiamo chiamato “sviluppismo”, e abbiamo inventato, predicato e praticato i modi per vincerlo, o almeno miticarne gli effetti; si parlava di “lotta al consumo di suolo”, di “urbanistica”, di “pianificazione territoriale”. Lo ricorda Giorgio Nebbia, in questo articolo di cui raccomandiamo la lettura. (e.s.)
«Le tre alternative ai disastri ambientali: rassegnarsi, adattarsi, pianificare. La terza soluzione significa darsi l’obiettivo di non occupare nuovi spazi»
«L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per distruggere la Terra»: queste parole furono pronunciate da Albert Schweitzer, il grande pensatore premio Nobel per la pace, nel 1953, quando le bombe atomiche esplodevano nell’atmosfera.
Esplosione che stavano diffondendo atomi radioattivi e cancerogeni su tutto il pianeta. Nei decenni successivi l’umanità ha conosciuto un aumento dei consumi e dell’uso dell’energia e delle risorse naturali, accompagnato da un corrispondente aumento della diffusione nel pianeta di rifiuti solidi e liquidi e di gas come anidride carbonica, metano, composti clorurati, eccetera, che stanno modificando la composizione chimica dell’atmosfera con conseguente aumento della temperatura media del pianeta.
Tale aumento provoca alterazioni nella circolazione delle acque e le conseguenze si vedono sotto forma di più frequenti violente tempeste o lunghe siccità, di avanzata dei deserti in alcune zone, di frane e allagamenti in altre.
Gli effetti negativi dei cambiamenti climatici potrebbero essere contenuti attraverso una limitazione delle attività umane inquinanti, ma qualsiasi tentativo in questa direzione è finora fallito perché danneggia potenti interessi economici, gli affari, le finanze, le imprese, i produttori di petrolio e di energia o gli sfruttatori delle terre agricole e delle foreste.
Già novanta anni fa i biologi matematici Volterra e Kostitzin avevano spiegato che l’intossicazione dell’ambiente dovuto ai rifiuti delle attività dei viventi porta ad un inevitabile sofferenza e declino delle popolazioni che tale ambiente occupano, tanto più rapido quanto maggiore è la produzione di rifiuti. E quarant’anni fa Commoner («Il cerchio da chiudere») aveva scritto che i guasti ambientali sono proporzionali al “consumo” procapite di merci e risorse naturali e alla conseguente produzione di scorie. Temi poi ripresi dal libro sui «Limiti alla crescita». Tutte cose ridicolizzate o dimenticate o ignorate dal potere economico e dalle autorità politiche perché disturbano il ”normale” andamento delle cose.
Che fare per, almeno, attenuare costi e dolori? Ci sono varie alternative: quella attuale è andare avanti come al solito ignorando il fatto (certo) che ci saranno sempre più frequenti disastri ambientali come quelli che hanno devastato la bella Nuova Orleans, o le Filippine, o le fortunate isole e coste turistiche, e rimediando i danni con i soldi. In Italia si invoca lo stato di calamità naturale che consiste nel chiedere soldi pubblici per risarcire chi perde la casa, e i beni o i raccolti, o i macchinari delle fabbriche, o per ricostruire strade e ferrovie e scarpate e ponti travolti dalle intemperie o dalle frane e alluvioni. Soldi che vengono poi spesi in genere per ricostruire negli stessi posti che saranno di sicuro devastati da eventi futuri.
Lo stesso vale per i disastri mondiali per i quali le comunità locali o internazionali spendono soldi per risarcire i danni che le persone hanno subito, per l’imprevidenza dei loro governi i quali non hanno preso le precauzioni — tanto per cominciare la limitazione delle emissioni di gas serra — che avrebbero salvato vite e beni; poco conta se aumentano i dolori umani e le morti che non entrano nelle contabilità nazionali e aziendali, poco conta se l’agire “come al solito” provoca migrazioni di masse umane in fuga dall’avanzata dei deserti, dalle zone devastate da cicloni e frane, provoca conflitti senza fine fra popoli che si contendono terre in cui vivere.
La seconda alternativa È offerta dalla recente invenzione della resilienza, cioè dell’adattamento alle prevedibili catastrofi senza fare niente per prevenirle. Si sa che le tempeste tropicali e l’aumento del livello degli oceani potranno danneggiare le strutture costiere: pensiamo allora a costruire edifici su piloni, barriere nel mare per proteggere le rive; si sa che le più frequenti e intense piogge provocano frane e alluvioni: pensiamo a costringere i fiumi dentro canali e argini artificiali. la fantasia dei resilientisti è senza fine nel suggerire come adattarsi alla ”cattiveria” della natura e del pianeta senza ricorrere a divieti che rallenterebbero il glorioso cammino della crescita economica.
Ci sarebbe un’altra soluzione; dal momento che si può interrogare la natura e prevedere come circoleranno le acque e le masse d’aria in conseguenza di quello che stiamo facendo al pianeta e dal momento che non sembra ci sia nessuna ragionevole possibilità di frenare le modificazioni in atto, cioè di consumare meno energia o di rallentare i consumi, si potrebbe cercare almeno di non occupare gli spazi, pure economicamente appetibili, dove si manifesteranno le forze distruttive della natura.
La chiamavano pianificazione territoriale ed era insegnata anche in cattedre universitarie ed era stata raccomandata e spiegata da studiosi, ed era perfino stata ascoltata, se pure non attuata, da alcuni uomini politici illuminati e presto spazzati via. Perché perfino il minimo rimedio della pianificazione presuppone lo “sgradevole” coraggio di dire di no, di vietare la presenza umana nelle zone ecologicamente fragili ed esposte a frane, marosi, tempeste e ad altri eventi catastrofici.
Il divieto di costruire opere permanenti, ad esempio a meno di cento [trecento- n.d.r] metri di distanza dalla riva del mare o dei fiumi, per permettere alle onde e alle acque di recuperare i propri spazi naturali, una minima azione di prevenzione, priva l’uso delle zone più appetibili e ne danneggia i proprietari; un divieto inaccettabile perfino allo stato che, teoricamente, sarebbe il proprietario di parte delle coste e rive, come dimostra la frenesia di vendere le spiagge ai “concessionari”, dopo che essi hanno già devastato le zone ricevute in affitto.
La pianificazione e la prevenzione non rendono niente ma anzi costano e disturbano la proprietà (privata ma anche pubblica); poco conta che tali costi permettano “ad altri” di risparmiare costi futuri. nessuna ragionevole persona, nella società del libero mercato, deve spendere neanche un soldo pensando “ad altri”, non al prossimo vicino e tanto meno al prossimo del futuro. Quando ci fanno vedere alla televisione le file di cadaveri, le persone disperate nel fango, al più rivolgiamo un pensiero a “quei poveretti”, fra una forchettata e l’altra. E così, con allegra incoscienza e ignoranza di singoli e di governanti, si corre spensieratamente verso un ancora più sgradevole futuro.
Wu Ming, 2 luglio 2018. Sulla nefasta convergenza tra pubblico e privato nella città per la "creative class" che nel Student Hotel trova una perverso modello di estrattivismo - sottrazione di risorse materiali e sociali per il profitto di pochi - replicabile in ogni città. (i.b.)
«Everybody should like everybody».
La scritta inizia in via Fioravanti, poi gira l’angolo e si conclude in via Tiarini. È una frase tracciata sul muro, a lettere enormi, di fronte al municipio di Bologna, senza pietà alcuna per la graffitofobia degli amministratori.
È dagli anni zero di Cofferati che ogni giunta dichiara l’allarme «tag» e predispone «task force» per mettere a tacere i muri. A breve la squallida crociata verrà condotta sfruttando il lavoro forzato — pardon, il «volontariato» — dei richiedenti asilo.
Ma la scritta che correrà lungo The Student Hotel non turba gli assessori, e non sarà cancellata. Essa è propaganda del capitale, è marketing, e quindi è legale, bella, e non fa «degrado».
E poi, diciamocelo, che male può mai fare un così bel messaggio, un così innocuo appello all’amore (o al piacionismo?) universale? Così universale e seriale da essere lo stesso —identico — che orienta i passanti a Groningen, lampeggiando dall’alto del mastodontico Student Hotel della città neerlandese.
È da lì, dai Paesi Bassi, che The Student Hotel (da qui in poi: TSH) inizia nel 2012 la sua espansione, che oggi raggiunge Barcellona, Dresda, Parigi, Firenze e, con apertura programmata nel 2019, Bologna. Il progetto è quello di 10 strutture in Italia entro i prossimi cinque anni: a Roma, Torino, Milano, Venezia, Napoli, poi di nuovo Roma e Firenze; e poi Madrid, Berlino, Porto, Vienna…
«In tutto, TSH, che a oggi conta 4.400 stanze in 11 località, prevede di avere 65 proprietà operative, in costruzione o pianificate nelle città europee nei prossimi cinque anni. “Presto” anche negli Stati Uniti, Canada e Asia.» (Corriere Fiorentino, 7 giugno 2018)
TSH è uno studentato ma è anche un hotel. Questa sua duplice natura, invece di essere giustificata con la semplice necessità di non lasciare mai camere vuote, diventa essa stessa veicolo di propaganda:
«Ai fondatori di The Student Hotel venne in mente che se le esigenze di alloggio degli studenti, giovani professionisti e giovani viaggiatori fossero state unite sotto lo stesso tetto, si sarebbe potuto creare un ambiente vibrante sorprendente che avrebbe ispirato tutti. » (Comunicato stampa TSH)
Al fondo di questa scelta ibrida in realtà ci sono esigenze materiali, e nulla, proprio nulla, di quel «vibe» che pervade tutto il marketing attorno a TSH è casuale. Ma di questo parleremo più avanti: iniziamo, invece, con lo scomporre il generico «everybody» in soggetti reali; e vediamo quindi cosa effettivamente «piace» a TSH, e a chi «piace» questo brand in rapidissima ascesa.
Annunciando il proprio arrivo a Bologna, TSH scrive di aver acquisito «vacant» l’edificio di via Fioravanti 27, dove un tempo si trovavano uffici della Telecom. Vero. Talmente vero che quando l’ha comprato (nella prima metà del 2016) la sua vacuità era diligentemente preservata da un presidio 24 ore su 24 di guardie giurate.
Ciò che TSH omette è che l’ex- Telecom era diventata «vacant» a suon di manganellate, pochi mesi prima, quando le trecento persone che l’avevano occupata con Social Log e l’abitavano erano state sbattute in strada dalle forze dell’ordine. Accadeva il 20 ottobre 2015: la «legalità», ovvero la speculazione immobiliare, era ripristinata.
In realtà TSH conosce benissimo la storia dell’ex-Telecom. Charlie MacGregor, fondatore e amministratore delegato, dichiara in conferenza stampa:
«Non solo ne eravamo al corrente, ma diciamo che questo è quasi il motivo principale per il quale abbiamo scelto proprio quella location […] conosciamo la brutta storia [ dell’ex-Telecom ] ma non ci interessa, ci interessano di più le potenzialità per il futuro […] L’edificio di per sé è bellissimo, si vede che è stato occupato e abusato, ma con un buon lavoro di restauro e design certamente diventerà un importante elemento di riqualificazione dell’intero quartiere.» (Radio Città del Capo, 27 giugno 2016)
L’occupazione è una «brutta storia», un «abuso», ma anche, in modo sibillino, «il motivo principale» per la scelta della «location». Di queste ambiguità è piena, come vedremo, tutta la comunicazione di TSH. Cominciamo con la prima.
TSH fa costante professione di multiculturalismo: «la nostra community: multiculturale, cosmopolita»; oppure: «Join our warm, welcoming multicultural community». Sempre nel sito TSH la Bolognina (il quartiere in cui si trova l’ex-Telecom) viene descritta come «multiculturale, cosmopolita, pop, creativa, divertente» e TSH ci si sente «come a casa».
Ebbene: il multiculturalismo che si trovava all’ex-Telecom occupata, quello dei suoi abitanti cinesi, marocchini, italiani, palestinesi e cubani che si riunivano in una meticcia assemblea di autogestione, è stato manganellato e sgomberato. Al posto di quel multiculturalismo dal basso arriva quello dei nuovi padroni della città, che indossano un vestito variopinto ma sono, come scrive Saskia Sassen, portatori di una sostanziale omogeneità :
«piuttosto che […] includere persone dalle molte estrazioni e culture, le nostre città globali espellono persone e diversità. I loro nuovi padroni, spesso abitanti “part-time”, sono molto internazionali – ma questo non significa che rappresentino diverse culture e tradizioni. Ciò che rappresentano è, invece, la nuova cultura globale del successo – e in questo sono straordinariamente omogenei, non importa quanto diversi siano i loro paesi di nascita e le loro lingue. Essi non sono il soggetto urbano che le nostre città – grandi ed eterogenee – hanno storicamente prodotto. Essi sono, più di ogni altra cosa, un soggetto “aziendale” globalizzato.»
Una conferma involontaria, e quasi caricaturale, dell’uniformità culturale dei futuri ospiti dello studentato ci viene dal già citato comunicato stampa di TSH:
«The Student Hotel offre qualcosa di veramente unico: una scena sociale precostituita e un network all’interno della comunità di giovani con le stesse idee.»
Scrive TSH presentando lo studentato bolognese:
«Portiamo il nostro stile fuori dagli schemi nel Quartiere Navile, meglio conosciuto come Bolognina o la piccola Bologna, un quartiere che ben rispecchia la nostra community: multiculturale, cosmopolita, pop, creativa, divertente. Questa è una zona di Bologna che storicamente ospita una scena underground, tutta graffiti, musica punk rock e anticonformismo artistico applicato in ogni forma d’avanguardia. Chissà perché ci sentiamo come a casa…»
Il fatto che in realtà nessuno abbia mai chiamato «piccola Bologna» la Bolognina è indicativo di quanto tra marketing e realtà i nessi siano labili, e di come non si proceda neppure a una reale conoscenza del territorio tanta è la fretta di metterlo a profitto. In ogni caso se la Bolognina è «storicamente» legata all’underground è grazie a realtà autogestite che sono già state spazzate via dalle trasformazioni urbane e – guarda un po’ – proprio dalla messa a profitto del territorio.
L’unica di queste che sopravviva ancora in Bolognina è Xm24, a cui il Comune non rinnova una convenzione firmata nel 2013 (dopo 11 anni di occupazione) senza alcun valido motivo, salvo misteriosi progetti su quell’edificio e la sottostante voglia di liberarsi del centro sociale. Nonostante la gran pletora di spazi sottoutilizzati, le fantasie dell’amministrazione Merola si riversano fatalmente sugli spazi di Xm24: prima quella di farci una caserma, poi una casa della letteratura, poi un progetto segreto scritto forse con l’inchiostro simpatico… Che altro? Quale associazione, realtà o categoria sociale il Comune utilizzerà contro Xm24 promettendole proprio quello stabile – come se non ce ne fossero altri?
Xm24 in quartiere fa iniziativa politica (spesso proprio sui temi della trasformazione urbanistica) e, sul punto della produzione culturale, dà fastidio perché è un impedimento a che «graffiti, punk rock and all forms of avante-garde artistic rebellion» (così la versione inglesedel sito TSH) possano essere integralmente depoliticizzati e diventino così un’innocua «controcultura» depurata da avversario e conflitto. La cancellazione del murale di Blu, che invece andava proprio nel segno della ripoliticizzazione della street art, non è mai stata digerita dai piddini locali, che ancora la rimproverano a Xm24 . Senza capire che il loro rimprovero è la conferma della necessità e politicità di quel gesto.
Proprio come la «controcultura» diventa generica vivacità, allo stesso modo un vago genius loci «anticonformista» rimpiazza la realtà sociale dei luoghi. Sotto questa ambigua luce un luogo cool come il TSH finisce per essere considerato una naturale evoluzione dell’occupazione che è stata sgomberata per fargli posto:
«ci siamo ritrovati a cenare con degli amici nella palazzina occupata dell’ex Telecom, di fronte alla nuova sede del Comune, che ho scoperto da poco sarà recuperata in un modernissimo studentato della catena The Student Hotel. La città è in continuo fermento!» (Eva Laudace, qui)
Lo scimmiottamento dell’underground operato da TSH è perfettamente in linea con il substrato ideologico degli interventi urbanistici del Comune. Non a caso è una seriosa pagina della Fondazione per l’Innovazione Urbana del Comune di Bologna a ospitare il già citato comunicato stampa di TSH dai toni forzatamente giocosi, tutto centrato sull' «ambiente vibrante sorprendente che [ispira] tutti» e sull’invito a «lascia[r] vivere per sempre lo studente che è in te!»
Le premesse delle due operazioni convergenti (quella pubblica e quella privata) sono facilmente riconducibili alla pseudo-teoria della «creative class» di Richard Florida, sviluppata negli Stati Uniti nei primi anni di questo millennio. Secondo Florida la chiave per vincere la competizione tra città e attrarre capitali è nell’essere accoglienti per la cosiddetta «classe creativa» composta da scienziati, docenti universitari, designer, architetti, scrittori… e dai professionisti che applicano quanto da loro ideato. Per ingolosire questa «classe» le città dovranno sostenere le «3T» (Tecnologia, Talento e Tolleranza), e offrire servizi «plug and play», proprio come è lo Student Hotel.
Di questa teoria bisogna dire almeno due cose, in premessa:
1. L’idea stessa che le città debbano essere in concorrenza tra loro è aberrante, e ha vistose conseguenze sulla vita reale delle persone che le abitano. Una politica ispirata alla teoria di Florida non metterà infatti quelle persone al centro, ma le proiezioni immaginarie dei «creativi».
2. Quella della «creative class» non è che la declinazione urbana della più generale «trickle-down theory», la teoria reaganiana secondo cui se i ricchi sono sempre più ricchi qualche goccia colerà giù verso i poveri, e dunque non serve nessuna misura di redistribuzione. C’è questa «teoria dello sgocciolamento» al fondo della flat tax e dei tagli al welfare. Nel mondo di lingua inglese, con una certa efficacia, circola il motto: «the rich pissing on the poor, that’s trickle-down theory».
Ciò detto, è necessario aggiungere che quella della «creative class» è una teoria totalmente screditata in accademia, e pure tra quelle basate sulla «creatività» vince certamente la palma della più farlocca. La teoria di Florida prospera ormai solo tra amministratori che vi cercano una pezza d’appoggio per ciò che hanno già deciso di fare, ovvero privatizzare e svendere la città pezzo a pezzo.
In una pagina un po’ istituzionale un po’ no che si presenta come « blog della Rete Civica Iperbole», ovvero della rete telematica del Comune di Bologna, la teoria di Florida viene esplicitamente richiamata:
«La creatività come motore generale del cambiamento non solo negli stili di vita o nella gestione del tempo libero, ma anche nelle attività produttive e nel lavoro. […] Linea guida è quella delle élites della città creativa, basata sulle 3T di Richard Florida ovvero Tecnologia, Talento e Tolleranza»
Essendo la pagina un po’ ufficiale e un po’ frufru è difficile dire sic et sempliciter che il Comune di Bologna si riconosce nella teoria di Florida e nelle «3T». Forse lo scopo ultimo di questa forma di comunicazione dallo statuto incerto è precisamente quello di non assumersi la responsabilità di concetti che, pure, si è deciso di far circolare. E poi quanto è ridicolo parlare di «3T» proprio a Bologna?
In ogni caso il dialogo tra TSH e l’istituzione sembra sposare in pieno le fantasie di Florida:
«Vogliamo sostenere – ha detto il fondatore [di TSH] Charlie McGregor – la comunità di Bologna nella sua ambizione di diventare un’area a livello mondiale per l’innovazione e il talento».
A cui risponde il Comune:
«La partenza del progetto rappresenta “l’inizio di qualcosa di meraviglioso”, sottolinea Osvaldo Panaro, direttore del settore Marketing e Turismo di Palazzo D’Accursio: ”The Student Hotel” porta in città “una ventata di aria fresca ed un nuovo modo di investire”.» (Rcdc)
TSH likes Comune, Comune likes TSH
Nel 2016, inaugurando le telecamere di sorveglianza (sic!) del mercato di via Albani, a due passi dall’ex-Telecom, il sindaco Merola dichiara:
«Ieri ho avuto un incontro con una società internazionale scozzese, The Student Hotel, che vuole realizzare nell’ex Telecom uno studentato con 300 camere a prezzi contenuti e servizi per gli studenti, così come stanno facendo in molte altre città europee».
[Il prefisso «Mac» nel cognome dell’amministratore delegato ha confuso il sindaco: la compagnia è neerlandese, non scozzese. Poco male. È la svista sui «prezzi contenuti» che, invece, suona meno innocente.]
L’anno successivo l’assessora all’urbanistica Orioli tiene una conferenza coi progettisti del TSH alla fiera mondiale della speculazione immobiliare, il Mipim di Cannes. Al Mipim i privati vendono progetti immobiliari, gli amministratori si vendono le città.
Nello stesso 2017 TSH chiede di sopraelevare lo stabile di un piano, ma senza mettere a disposizione il maggior numero di parcheggi e il verde pubblico che — da standard urbanistici — sarebbero conseguenti all’aumento di cubatura. Con la delibera 199479/2017 il Comune risponde affermativamente: dichiara TSH «edificio di interesse pubblico», concede la sopraelevazione e accoglie la proposta di «monetizzare » gli standard urbanistici, quantificati in 500mila euro.
Invece quindi di far valere gli standard di verde e parcheggi — pensati a tutela della qualità della vita dei residenti — il Comune ne accoglie la loro trasformazione in denaro. Denaro che userà per imporre la propria idea di città, come vedremo.
La «monetizzazione degli standard urbanistici» è una delle più diffuse e perniciose prassi antiurbanistiche. Nel nostro caso, su proposta dell’Unità di Governance per l’Immaginazione Civica (sic), i 500mila euro di TSH vengono destinati alla ristrutturazione della pensilina (tettoia) Nervi, struttura che verrà utilizzata «anche per eventi ad elevato affollamento, con la possibilità di creare sinergie anche con la stessa struttura ricettiva [cioè il TSH] per la rivitalizzazione del Quartiere».
Tradotto:
1. I soldi di TSH, che arrivano al Comune in cambio della rinuncia all’urbanistica di quest’ultimo, alimentano quello stesso mondo di eventi che è il cuore pulsante del marketing di TSH stesso;
2. Con la pensilina Nervi TSH avrà a disposizione un enorme dehors per feste, eventi, apericene ad alto tasso di hipsterismo (questo significa infatti «creare sinergie anche con la stessa struttura ricettiva»);
3. il Comune prende i soldi dei gentrificatori non quindi per lenire le ferite della gentrificazione, ma per gettarvi sale producendo ulteriore gentrificazione. Anzi: più che gettarlo, lo distribuisce con cura come sull’orlo di un Margarita. Da sorseggiare sotto la tettoia Nervi.
4. Il quartiere, svuotato dalle vite di sgomberati e sfrattati, viene rivitalizzato dall’alto, con l’allegria monetizzata dei gentrificatori.
Notevole infine un passaggio della stessa delibera, assunta il 19 giugno 2017, che per giustificare le concessioni a TSH parla della «necessità di mantenere il livello di “città accogliente” che connota Bologna a livello internazionale». Cinque mesi dopo il Comune emetterà i primi Daspo urbani nei confronti di persone «sdraiate su materassi e accerchiate da numerose masserizie », insomma poveri che dormivano in strada. La parola «accoglienza», quando esce dalla loro bocca, ha il tanfo del marcio.
TSH likes gli architetti di chi conta
Il progetto della ristrutturazione dell’ex-Telecom è dell’architetto Matteo Fantoni. La tag cloud che nel suo sito accompagna i disegni del TSH restituisce i soliti specchietti per allodole à la Florida: «vibrant», «young», «innovative» «emotional» «dynamic» «hip» e, naturalmente, «cool».
Non posso fare a meno di chiedermi quali fossero le parole chiave di un altro suo progetto, il Billionaire di Malindi, in Kenya (di cui Briatore, peraltro, sta cercando di liberarsi).
La progettazione strutturale, il coordinamento, la direzione lavori eccetera del TSH bolognese è invece affidata a Open Project, società di architetti che frequenta le stanze dei committenti più importanti. Ha ristrutturato o edificato per CCC, Comune di Bologna, Coop… Anche il centro commerciale Minganti, in Bolognina, è un suo progetto, peraltro premiato al Mapic di Cannes (la fiera sorella di Mipim dedicata agli insediamenti commerciali). Nonostante il premio, il centro Minganti è desolatamente vuoto solo dodici anni dopo l’inaugurazione, abbandonato dal supermercato Coop e anche dalla superstite palestra Virgin.
Di Open Project, infine, è anche il progetto che esibisce l’eccitazione capitalistica della «cooperazione rossa»: il priapico grattacielo Unipol.
TSH ed estrattivismo #1: CDP
La gentrificazione è estrattivismo al quadrato. Non solo, infatti, viene estratto valore dalla società e dalla cultura (o «controcultura») dei quartieri da gentrificare, ma il più delle volte i capitali e gli immobili attraverso i quali avviene l’estrazione hanno una storia di privatizzazione alle spalle, e dunque sono stati — a loro volta, in precedenza —estratti dalla ricchezza sociale.
A Firenze TSH ha aperto nel «Palazzo del sonno», che fino al 2004 era di proprietà del gruppo (pubblico) FS, ed è stato venduto in occasione delle «cartolarizzazioni» dell’allora ministro Tremonti.
Un altro TSH fiorentino verrà costruito nell’ambito dell’enorme operazione sull’ex Manifattura Tabacchi, un’area che ha un passato statale (prima del Monopolio, poi dell’Ente Tabacchi) e un presente privatissimo, nelle mani del fondo Perella Weinberg(che, guarda caso, è anche finanziatore di TSH). A traghettare tra privato e pubblico c’era Cassa Depositi e Prestiti (CDP).
A Roma lo studentato per ricchi aprirà «in un’emergente zona popolare con artisti, artigiani, scrittori, intellettuali e attori» , come la descrive, senza timore del ridicolo, un comunicato congiunto di TSH e CDP. Si tratta dell’area della dogana di San Lorenzo, un tempo demaniale e oggi di una società immobiliare di cui CDP detiene il 75%.
«L’operazione tra Cdp e il gruppo alberghiero è in una fase preliminare che verrà perfezionata in seguito al verificarsi di alcune condizioni come la bonifica, la realizzazione delle opere di urbanizzazione finalizzate alla trasformazione urbana e la definizione di tutti i permessi necessari. Se ne occuperà una joint-venture tra il gruppo alberghiero e l’Area Group Real estate di Cassa depositi e prestiti. Al termine di questa fase preliminare, verrà perfezionata la vendita al gruppo olandese.» (Romatoday, 3 marzo 2017)
Secondo l’urbanista – ed ex assessore della giunta Raggi – Paolo Berdini il prezzo concordato è conveniente soprattutto per TSH:
«Se gli oneri di Cassa Depositi e Prestiti sono la bonifica e i permessi, 90 milioni di euro sembrano un po’ pochi […]. Se questi sono i soldi, vorrei capire cosa si intende per valorizzazione» (Il Fatto, 27 novembre 2017 )
CDP era statale fino alla trasformazione in società per azioni nel 2003, e ancora oggi è all’86% in mano pubblica (che pure la gestisce in senso privatistico). Storicamente CDP raccoglieva il risparmio postale dei cittadini e lo usava per finanziamenti a tasso agevolato agli enti locali, e oggi potrebbe mettere a disposizione risorse per calmierare il mercato immobiliare, sostenere la messa in sicurezza del territorio eccetera… Invece, al contrario, opera sistematicamente a favore della «penetrazione dei grandi interessi finanziari nella società» , finanziando «la svendita del patrimonio pubblico dei comuni e la privatizzazione dei servizi pubblici locali», come scrive Marco Bersani.
È ancora la «tentacolare» CDP a gestire il bando ministeriale per la realizzazione di residenze studentesche per «studenti capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi finanziari». Il bando non può interessare TSH, essendo riservato a onlus, enti locali e soggetti no profit; nondimeno, come dice l’assessora Orioli in un’intervista che parte dalla pensilina Nervi e dal TSH bolognese, «il tema degli studentati è sotto i riflettori». E, aggiunge Orioli, «soggetti, anche internazionali, hanno già manifestato il proprio interesse intercettando i finanziamenti statali disponibili per queste iniziative». Che non ci sia un nesso tra quel bando e TSH è evidente; ma è altrettanto evidente che per Orioli, e per chi pensa come lei, un TSH ha davvero a che fare con le (reali) esigenze di alloggio degli studenti, e questo è già – di per sé – preoccupante.
TSH ed estrattivismo #2: ABP
Nel 2015 TSH riceve un finanziamento di 100 milioni da ABP, fondo pensionistico neerlandese (il conferimento avviene tramite il gestore APG). Quanti sono 100 milioni nell’economia di TSH? Non pochi: per lo studentato bolognese una stima (ormai datata) dell’investimento è di 30-35 milioni di euro, per il «Palazzo del sonno» fiorentino è di 40 milioni.
Lo «Stichting Pensioenfonds ABP» è il quinto fondo pensionistico al mondo. È paradigma d’estrattivismo finanziario: i «suoi» soldi sono quelli degli accantonamenti per pensione di 2,8 milioni di dipendenti pubblici dei Paesi Bassi. Soldi dunque di provenienza pubblica, spediti nell’iperspazio della finanza speculativa.
Ma non basta: ABP stesso era ente pubblico fino al 1996, quando è stato privatizzato. La retorica per far passare la privatizzazione è stata, lassù, la stessa che abbiamo ben conosciuto qui da noi: il «baraccone di stato» doveva diventare una «macchina di gestione finanziaria guidata dal mercato».
[Ovviamente la contrapposizione tra pubblico e «libero mercato» è pura propaganda. Il «libero mercato» ha bisogno della ricchezza pubblica come il vampiro ha bisogno del sangue del la sua vittima; e sempre gli servono politici che indichino bene il punto in cui mordere – anzi, che ci facciano proprio un bel circoletto attorno con il pennarello. L’attuale presidente di ABP, Corien Wortmann-Kool, è una ex parlamentare europea di centro-destra. Qui si può leggere un suo breve intervento contro l’introduzione di clausole sociali nella legislazione comunitaria.]
Una macchina «guidata dal mercato» va dove la porta il cuore, cioè il profitto. Nel dossier «Dirty & Dangerous» l’organizzazione Both ENDS analizza gli investimenti di ABP nei combustibili fossili. E scopre – nonostante le promesse green di ABP e la contrarietà di gruppi di dipendenti pubblici, involontariamente implicati – che nel 2015 e 2016 gli investimenti di ABP in «Gas, oil & coal» sono cresciuti di valore.
Nel 2017, mentre Both ENDS chiudeva il suo dossier, il Comune di Bologna riconosceva a TSH di aver privilegiato «la mobilità sostenibile ed alternativa dotando ciascun posto letto di una bicicletta, progettando perciò 626 posti bici», e usava, il Comune, anche questo pretesto per incassare la «monetizzazione degli standard urbanistici» (si veda al capitoletto TSH likes Comune).
Uno degli impianti a carbone in cui investe ABP è quello (enorme) in costruzione a Batang (Java, Indonesia), da tempo al centro di critiche locali e internazionali. Pescatori e agricoltori che temono per le proprie fonti di sostentamento, durante una protesta, hanno composto sul terreno la scritta
«FOOD NOT COAL!»
La scritta è un appello disperato di povera gente travolta dalla grande opera inquinante. Eppure, in virtù della doppiezza costitutiva del «capitalismo green», quella stessa frase non stonerebbe affatto sul muro dell’area lounge di un TSH, pure finanziato dalla stessa ABP.
Ancora: secondo il network di giornalisti Danwatch, «il fondo pensionistico neerlandese Stichting Pensioenfonds ABP ha 97 milioni di euro in tre banche israeliane» che a loro volta hanno interessi nei territori palestinesi occupati. Gli investimenti europei nei territori occupati, ricorda Danwatch, allontanano la possibilità della soluzione pacifica «a due stati», che è quella ufficialmente auspicata dai paesi UE.
Ma tranquilli, nessun allarme: nei TSH di tutta Europa si tengono i Bed Talks, conferenze di tizi che indossano calze rosse e parlano restando sdraiati a letto. Ascoltando i creativi rossocalzati sarà possibile scoprire, nientemeno,
«COME ANDARE A LETTO CREERÀ LA PACE NEL MONDO […] condivide[ndo] idee per superare le ingiustizie o missioni per pareggiare gli squilibri mondiali, per risolvere, tanto per fare qualche esempio, la crisi dei migranti, per creare macchine in grado di trasformare i rifiuti umani in energia, per sfruttare lo sport c[ome] veicolo di pace nel mondo» (TSH, Bed Talks)
TSH likes prezzi alti
A Dario Nardella, sindaco di Firenze, scappano spesso le parole di bocca. Egli è, in qualche modo, il giullare di se stesso, il fool che dice ciò che un sindaco del Pd non dovrebbe dire, ma che pure un sindaco del Pd profondamente pensa. Ebbene, il 7 giugno scorso dichiara a La Nazione:
«Questo non è uno studentato. È un’offerta nuova che intercetta la classe dirigente di domani. Un segmento di clientela internazionale che prima da Firenze non passava neppure per sbaglio. E poi qui si ha una stanza con 750 euro mensili, comprensivi di utenze, di palestra e di molto altro ancora. Un prezzo in linea con gli standard europei. Fossi uno studente ci verrei subito».
Non uno studentato, dunque, ma un luogo in cui la classe agiata riproduce se stessa. I prezzi poi, verificati sul sito TSH meno di una settimana dopo le dichiarazioni di Nardella, vanno dai 970 ai 1164 euro al mese. Non sono affatto «in linea» con i prezzi fiorentini (per una singola, generalmente, si pagano 350-450 euro al mese), e neppure con «gli standard europei», se non nel senso che anche ad Amsterdam TSH costa molto di più di una normale stanza in affitto. Lo standard europeo di TSH, insomma, è proprio questo eccedere gli standard locali.
Anche le fantasie del suo collega Merola sullo «studentato con [….] camere a prezzi contenuti» saranno smentite non appena TSH Bologna aprirà le prenotazioni. TSH è un albergo-studentato d’élite, che turisti e wannabe possono assaggiare per qualche sera, ma in cui solo veri benestanti passeranno un intero anno accademico. La storica dell’architettura Roos van Strien descrive in questo modo la «comunità» di TSH:
«Con i suoi servizi condivisi, i party organizzati e l’idea generale di avere tutto sotto un solo tetto, TSH si presenta come “comunità completamente connessa”. Ma forse sarebbe più preciso dire che è una moderna e anonima “gated community”. Anche se non ci sono cancelli o barriere fisiche che interdicono l’ingresso a ospiti indesiderati, e se la hall dell’albergo è in effetti accessibile a tutti, TSH è accessibile solo a pochi […] nuove barriere vengono erette dalle sue caratteristiche lussuose ed esclusive, che recintano la “comunità” separandola da chi ne è fuori.»
TSH avrà un effetto dopante sugli affitti per studenti, generando ulteriori difficoltà per normali studenti e studentesse che cercano una casa a prezzi tollerabili – come se non bastasse la pressione dei flussi turistici a far crescere i prezzi. E, a proposito di turisti, l’impasto tra questi e gli studenti ricchi, cifra di TSH che i media italiani hanno rilanciato del tutto acriticamente, è illustrato nelle sue ragioni materiali ancora da van Strien:
«Ottenendo una licenza come hotel, [TSH] ha trovato una scappatoia nel sistema di valutazione della proprietà, sulla base del quale viene fissato il massimale dell’affitto [nella legislazione dei Paesi Bassi]. Un hotel – quali che siano le dimensioni della stanza – può richiedere qualsiasi prezzo. Inoltre, non è vincolato a un contratto [di locazione] e può sfrattare le persone quando più lo ritenga opportuno.»
Per il suo comportamento da «cowboy» nel mercato degli affitti di Amsterdam, l’attivista studentesca Lisa Busink propone di «vietare The Student Hotel».
«Everybody should like everybody», reprise
Pensavo, in chiusura, di proporre una lettura diversa dello slogan che sarà tracciato sul muro del TSH. Non un appello all’amore universale, ma l’istanza di chi sa che sarà odiato, e sa pure perché, e si gioca in anticipo una carta vittimista: «Dovremmo piacervi, perché non vi piacciamo?» Questo pensavo, ma forse le cose non stanno così.
Quando ho pubblicato dei tweet a proposito delle iniziative su TSH di Xm24 e di Cua Firenze (che ha ridicolizzato i Bed Talks mettendo in scena i Bad Talks, un bagno di realtà contro le favole in calzetti rossi), mi ha più volte risposto Cecilia Sandroni, la PR italiana di TSH. Le sue parole dimostrano che non c’è la minima consapevolezza del fatto che possa esistere – e del perché esista – una critica alle loro operazioni: «Lusso?» «Fuffa? Informatevi meglio»
Segue un classico (anche farinettiano): l’«invito».
«se volete visitarlo di persona Benvenuti. Credo che prima di contestare serva sempre valutare sperimentare. Buona giornata ragazzi da una ex studente non facoltosa.» «[…] Se poi vi innamorate del progetto come ho fatto io che sono arrivata a Firenze da studente lavorando e studiando che si fa? ♥»
E infine l’apoteosi, con foto di Charlie MacGregor:
«vi auguro di diventare a 40 anni come lui. Impegnato socialmente, educato, incredibilmente gentile, dalla grande visione e con un infinito ottimismo e fiducia nei giovani. Nato in Scozia vive in Olanda. E pure bello! ;-)»
Il loro non è vittimismo dunque, ma la sincera convinzione di piacere a «everybody». La classe dirigente del capitalismo hip, a furia di essere blandita da istituzioni, media… praticamente da chiunque, neppure immagina un’opposizione. Massimo massimo concepisce una pernacchia. Inevitabilmente, li stupiremo.
Privilegio. Questa la sensazione che si provava l'altra sera sull'Appia antica. Era una delle serate del Festival che da alcuni anni Rita Paris, direttrice del Parco Archeologico, organizza a luglio: "dal tramonto all'Appia" (segue)
In particolare, l'altra sera, il concerto della straordinaria Thana Alexa, una delle anime canore del movimento "me too", è stato preceduto da una breve conversazione sulla Roma di Antonio Cederna.
Eravamo a pochi passi dal luogo che dal 2008 ospita l'archivio del giornalista, donato dalla famiglia all'allora Soprintendenza Archeologica - quella di Adriano La Regina, per intenderci - ed ospitato a Capo di Bove, una villa privata che la Soprintendenza è riuscita ad acquisire tramite prelazione, compiendo scavi che hanno dato risultati scientifici straordinari e restituendo alla pubblica fruizione uno dei siti dell'Appia ora più amati dai cittadini romani.
Tutto bene, dunque? Non proprio.
Se l'Appia continua ad essere spazio di infinita suggestione e a interpretare nel migliore dei modi quel concetto di "valorizzazione" così abusato, o meglio asservito alla prostituzione in tanti altri contesti, lo si deve solo all'opera dell'attuale direttrice. E si tratta di una situazione ora più che mai in precario equilibrio (1).
Come noto, l'Appia è, da un anno e mezzo, uno dei siti resi autonomi dalla così detta riforma Franceschini e di quella riforma rappresenta esemplarmente tutte le criticità e lo strabismo di visione. A partire dallo stesso concetto di Parco Archeologico che è al più esercizio retorico se applicato ad un contesto come quello: area al 95% privata e gravata da centinaia di abusi edilizi susseguitisi nei decenni e a cui amministrazioni comunali di ogni colore hanno opposto solo indifferenza, quando non connivenza vera e propria.
Un'area, quella del Parco Archeologico dell'Appia, che solo un novello Procuste, ignaro delle più elementari capacità di lettura topografica, ha potuto staccare dal resto della città, per sovrapporla poi a quella del già esistente Parco regionale perpetuando e anzi aggravando le ambiguità in termini di competenze fra le due istituzioni, ambiguità ostative per l'esercizio delle primarie funzioni di tutela del vastissimo patrimonio archeologico, come pure per l'efficacia e la trasparenza dei servizi al cittadino (2).
Non bastasse questa genesi a dir poco distorta, il neonato Parco, uno dei siti di eccellenza della new wave franceschiniana, è stato dotato di risorse insufficienti non solo a garantire un rilancio in termini di dotazione di servizi e ampliamento - in qualità e quantità- della fruizione, ma persino per l'espletamento di livelli decorosi di manutenzione (dalla messa in sicurezza dei monumenti, alla cura del verde).
A tutt'oggi l'istituzione Parco dell'Appia è priva di una sede adeguata, è stata gravemente carente per molti mesi sul piano del personale e continua a non avere archivi fotografici o laboratori di sorta, affidandosi, per le imprescindibili attività di tutela e gestione quotidiane, alla disponibilità di altre istituzioni dell'ex Soprintendenza Archeologica.
Eppure, nonostante questo, l'attuale direzione ha saputo sinora garantire non solo tutela e fruizione del patrimonio esistente, ma ha potuto concludere, con finanziamenti pregressi, progetti di scavo e ricerca che hanno condotto a risultati scientifici straordinari (come ai Quintili) ed è riuscita ad elaborare un progetto complessivo in cui vengono affrontati i problemi, gravissimi, semplicemente ignorati al momento della creazione del Parco, a partire da quello del traffico privato, sempre più invadente e coniugato ad una desolante carenza di trasporti pubblici.
Ma non solo, attraverso una trattativa non semplice, la direzione ha potuto proporre nei mesi scorsi al Ministero, l'acquisizione su prelazione, dell'importantissimo sepolcro di Sant'Urbano, che diventerebbe così, dopo anni di abusi da parte della proprietà privata, bene pubblico. E di recente, il Demanio ha offerto alla stessa direzione dell'Appia la cessione a titolo gratuito di un altro complesso storico di grande impatto architettonico, il Casino di caccia alla volpe situato sulla via Appia a poca distanza dall'aeroporto di Ciampino in uno dei luoghi più affascinanti.
Ci credereste? In entrambi i casi il Ministero ha di fatto sinora impedito le acquisizioni per asserita mancanza di risorse.
Poiché stiamo parlando, per Sant'Urbano, di costi equivalenti a quelli di un monolocale in centro storico, e per quanto riguarda il casino di caccia, di spese di manutenzione che verrebbero ampiamente recuperate tramite la messa a reddito dell'immobile (affitti) è evidente che si tratta non di problema economico, ma politico.
Appiattiti sui numeri di una redditività turistica di pronto riscontro e immediata spendibilità mediatica, gli inquilini del Collegio Romano ritengono evidentemente troppo faticoso invischiarsi in programmi di ampiezza men che lillipuziana.
Dunque, la regina viarum, uno dei luoghi di eccellenza del nostro patrimonio culturale, è stata di fatto abbandonata dai responsabili politici del Ministero che non ne sanno garantire condizioni di operatività adeguate alla sua importanza culturale e sociale e che si ritraggono di fronte all'opportunità di ampliare lo spazio del bene pubblico.
Eppure qui, sull'Appia, il luogo a difesa del quale Cederna tuonò per 40 anni contro abusi e speculazioni di ogni tipo, un'operazione di questo genere segnerebbe un'inversione di tendenza di grandissima importanza, rispetto a quella fin troppo prolungata fase di dismissione, in termini di competenze e di risorse, che ha caratterizzato il Ministero dei Beni Culturali (e la pubblica amministrazione centrale in generale). (3).
Un simbolo - e di quale potenza - della capacità di una pubblica istituzione del pieno esercizio delle proprie prerogative costituzionali.
In virtù dei molti e reiterati errori del suo predecessore, al neo responsabile del Ministero si offre ora un'occasione imperdibile per ribadire quelle prerogative e imporre un deciso cambio di rotta.
A partire proprio qui, dall'Appia, sinora protetta dallo spirito di Cederna e dalla passione di colei che non per caso, ma per destino, nel 1996 ne ereditò il testimone.
Se tutto rimarrà come ora, anche l'Archivio Cederna che fino a poco fa aveva perseguito una virtuosa e lungimirante politica di diffusione dei materiali in deposito attraverso la loro completa digitalizzazione, nel giro di pochi mesi sarà costretto a interrompere ogni attività.
E molte altre attività del Parco saranno gravemente compromesse.
Ma davvero il neo ministro dei beni culturali intende correre il rischio di essere ricordato come il becchino dell'Appia Antica?
Greeenreport.it, 6 luglio 2018. Le regioni non possono sminuire l’efficacia anche deterrente del regime sanzionatorio dettato dallo Stato. La Campania ci ha provato, ma la Corte l'ha censurata. (m.b.)
Con la sentenza N. 140/18 depositata ieri (si può scaricare qui, nella pagina delle notizie del sito regioni.it - ndr), la Corte Costituzionale stabilisce che «Gli immobili abusivi, una volta entrati nel patrimonio dei comuni, devono essere demoliti e solo in via eccezionale, attraverso una valutazione caso per caso, possono essere conservati». Una sentenza che «Alla luce di questo principio fondamentale del “governo del territorio”, contenuto nel Testo unico sull’edilizia, ha dichiarato «incostituzionali le disposizioni della legge della Regione Campania n.19/2017 sulla conservazione degli immobili abusivi acquisiti al patrimonio dei comuni, là dove consentivano ai comuni stessi di non demolire questi immobili – in particolare locandoli o alienandoli anche ai responsabili degli abusi – senza attenersi al principio fondamentale del Testo Unico sull’edilizia».
Infatti, secondo la Corte, «Il legislatore statale, “in considerazione della gravità del pregiudizio recato all’interesse pubblico” dagli abusi urbanistico-edilizi, ne ha imposto la rimozione – con il conseguente ripristino dell’ordinato assetto del territorio – “in modo uniforme in tutte le Regioni”. Quanto alla possibilità di locare o alienare gli immobili acquisiti al patrimonio comunale a seguito dell’inottemperanza all’ordine di demolizione – qualunque sia il soggetto destinatario (occupante per necessità oppure no) –, l’articolo 2, comma 2, della legge Campania n. 19/2017 la rendeva un “esito normale”, ma così facendo violava il principio fondamentale della demolizione nonché quello della conservazione, in via eccezionale, soltanto se, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, vi sia uno specifico interesse pubblico prevalente rispetto al ripristino della conformità del territorio alla normativa urbanistico-edilizia, e sempre che la conservazione non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico».
Nella sentenza si legge anche che «Il “disallineamento” della disciplina regionale rispetto al principio fondamentale della legislazione statale (che individua nella demolizione “l’esito normale” dell’edificazione di immobili abusivi acquisiti al patrimonio comunale) finisce con intaccare e al tempo stesso sminuire l’efficacia anche deterrente del regime sanzionatorio dettato dallo Stato all’articolo 31 del Dpr n. 380/2001” incentrato sulla demolizione dell’abuso, “la cui funzione essenzialmente ripristinatoria non ne esclude l’incidenza negativa nella sfera del responsabile”».
La Corte Costituzionale ha fatto notare che «L’effettività delle sanzioni risulterebbe ancora più sminuita nel caso di specie, in cui l’interesse pubblico alla conservazione dell’immobile abusivo potrebbe consistere nella locazione o nell’alienazione dello stesso all’occupante per necessità responsabile dell’abuso. In tal caso, l’illecito urbanistico-edilizio si tradurrebbe in un vantaggio per il trasgressore».
Esulta Il Wwf che aveva immediatamente contestato la legge regionale 22 giugno 2017, n.19 ritenendola «un pericolosissimo passo indietro sul cemento illegale». L’Associazione ambientalista evidenzia che la sentenza della Corte Costituzionale che «ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme campane che consentivano ai comuni di non procedere alle demolizioni e di affittare o addirittura alienare l’immobile abusivo allo stesso costruttore abusivo, non solo rappresenta un successo per tutti coloro che si battono contro l’abusivismo edilizio e per curare le ferite del territorio ma è una vittoria della legalità e del buon senso. La sentenza della Corte Costituzionale conferma e rafforza un elemento di chiarezza sull’abusivismo edilizio che, in quanto reato penale, riguarda tutti i cittadini di tutte le regioni, senza alcuna distinzione. Ne consegue, quindi, che la competenza sull’abusivismo edilizio non può che essere statale come il Wwf aveva segnalato nelle argomentazioni inviate prima alla Regione Campania e poi al Governo per chiedere che fosse impugnata la legge regionale».
Il Wwf è convinto che le norme della Regione Campania dichiarate incostituzionali «rischiavano di essere un pericolosissimo precedente dando un possibile avvio a sanatorie regionali “fai da te”, incentivando inevitabilmente nuovi abusi per dinamiche a tutte note e stradocumentate. Con la sua decisione, la Corte Costituzionale non solo ha introdotto un elemento di tutela per il territorio campano, già ampiamente devastato dal cemento illegale e criminale ma lancia un forte monito per tutte le altre regioni rispetto alla gestione del territorio e alla necessità di azioni di contrasto all’abusivismo “in considerazione della gravità del pregiudizio recato all’interesse pubblico”»
il Salto, 4 luglio 2018. Due sindaci che prendendo sul serio il loro lavoro, dichiarano di voler restituire le città agli abitanti, combattendo la speculazione e la gentrificazione. Occhi aperti su Londra e Barcellona. (i.b)
«Rivendicare il diritto alla città significa rivendicare una forma di potere decisionale sui processi di urbanizzazione e sul modo in cui le nostre città sono costruite. […] Solo quando si sarà capito che coloro che creano la vita urbana hanno, in primo luogo, il diritto di far valere le loro rivendicazioni su ciò che essi hanno prodotto, e che una di queste rivendicazioni è il diritto a costruire una città più conforme ai loro intimi desideri, solo allora potrà esserci una politica urbana che abbia senso».
Leggendo le parole che, a quattro mani, la sindaca di Barcellona Ada Colau e il primo cittadino di Londra, Sadiq Khan, hanno consegnato alle pagine del Guardian il primo pensiero non può che essere un banale ‘Harvey aveva ragione’. Ne Il capitalismo contro il diritto alla città, era il 2012, spiegò come il diritto alla città è, in realtà, il diritto a cambiare noi stessi cambiando la città, «in modo da renderla conforme ai nostri desideri più profondi».
E di un «diritto collettivo» parlano Ada Colau e Sadiq Khan, gettando le basi di un pensiero che in Italia è ancora sepolto in un sonno profondo. Già il titolo, City properties should be homes for people first – not investments, mostra il cambio di passo che i due amministratori locali, visto che ancora non possiamo dire le due città, stanno cercando di portare avanti, forti delle spinte dal basso che Barcellona, già da tempo, e Londra, dal momento dell’elezione del sindaco laburista, stanno esprimendo.
«Le città non sono semplicemente una collezione di edifici, strade e piazze. Sono anche la somma della gente che le vive» perché «sono loro che aiutano a creare legami sociali, costruiscono comunità e si evolvono nei luoghi in cui siamo così orgogliosi di vivere» scrivono i due sindaci. Interessante il punto di partenza di questo ‘manifesto per il diritto alla città’: gli speculatori vedono l’abitare nelle città come una risorsa da cui trarre profitto e non case per le persone. In molti casi gli speculatori prendono decisioni sul futuro di palazzi, quartieri, pezzi di città da migliaia di chilometri di distanza «ma l’impatto delle loro scelte sulla vita e l’anima delle nostre città le vediamo molto da vicino».
E il risultato di queste decisioni sono le stesse, a Londra come a Barcellona, notano i due sindaci, ma noi potremmo dire a Roma come a Firenze: i centri urbani svuotati delle comunità, negozi chiusi e costo delle case che aumenta. Per anni l’abbiamo chiamata gentrification, oggi dovremmo pensare a un nuovo modo per raccontare un fenomeno che non si limita a espellere gli abitanti storici ma a sovvertire completamente la ‘funzione’ del centro storico o di un quartiere diventato di moda. Perché, ma ce ne accorgiamo sempre troppo tardi, quando iniziamo a parlare di gentrification come ‘rischio’, parliamo di qualcosa che in realtà è già avvenuto perché è già stato deciso, magari – come dicono Colau e Khan – «a migliaia di chilometri di distanza».
Per questo i due sindaci non si limitano ad analizzare il ruolo che la finanza ha assegnato alle città, ma chiedono un aiuto. Richiesta che parte dal basso, «dalle comunità locali e dai municipi», da chi fa dell’impegno civico la propria vita quotidiana: «Sono stati loro a metterci in guardia dai rischi che queste pratiche comportano per la stessa sopravvivenza delle nostre città». Ed è per questo ai sindaci servono «maggiori poteri e maggiori risorse». Per fare cosa? Non per disegnare città 2.0, creare grandi eventi o portare a compimento progetti faraonici «ma per aumentare le ‘scorte’ di alloggi popolari, ad affitto sociale e calmierato», per «rafforzare i diritti degli inquilini». Un ragionamento così semplice da sembrare, in questa fase storica, rivoluzionario.
«Per questo stiamo costruendo case popolari». Sì, avete capito bene: i sindaci di Barcellona e Londra parlano – sul Guardian – di case popolari. E per questo stanno «reprimendo» – traduzione letterale – le «cattive pratiche degli sviluppatori e dei proprietari». Sviluppatori. Perché così amano farsi chiamare i ‘nostri’ palazzinari/costruttori. E loro così li chiamano, per nome. E non hanno paura a combatterli. O almeno a provare a farlo. Come? Immettendo ‘sul mercato’ nuovi alloggi popolari, a canone sociale o calmierato. Insomma, abbassando i prezzi degli affitti con l’unico strumento a disposizione di un’amministrazione: l’edilizia pubblica.
Il problema, però, è che «ci mancano i poteri e le risorse che ci consentirebbero di regolare adeguatamente il mercato immobiliare» per «proteggere i diritti degli inquilini di rimanere nelle loro case». Perché «nel frattempo i nostri governi nazionali sembrano felici di abbandonare le città al loro destino». Ed è a loro che si rivolgono chiedendo, semplicemente, risorse. Perché – pensate alla situazione italiana e vi renderete conto di come le parole che leggerete possano sembrare rivoluzionarie – «le città globali stanno affrontando un’emergenza abitativa: se non assicuriamo che lo scopo degli alloggi sia, prima di tutto, fornire case ai nostri cittadini e non ‘beni speculativi’ faremo fatica a costruire città vivibili per i nostri cittadini e per le generazioni future».
E allora benvengano provvedimenti come quello varato recentemente dal Comune di Barcellona che ha stabilito per ogni nuova costruzione o intervento di rigenerazione di destinare il 30 percento del costruito ad abitazioni ‘protette’, a prezzi accessibili. Una misura che, secondo le stime, garantirà ogni anno 400 alloggi ‘popolari’. Inoltre al Comune è assegnato un diritto di prelazione in caso di vendita, in futuro, di questi alloggi. E non a canone di mercato. Ma questa, come ha detto la stessa sindaca, è solo una goccia nel mare.
Il vero problema, nel caso di Barcellona, è che per ogni 100 euro investite dal Comune in politiche abitative, la ‘generalitat’ ne mette 23 e lo Stato meno di 10. Bastano questi numeri per capire come le risorse messe a disposizione dei sindaci siano assolutamente inadeguate non per garantire lo ‘sviluppo delle città’, come sentiamo dire qui in Italia, ma per garantire il ‘diritto alla città’.
Vi lasciamo con le parole con le quali Ada Colau e Sadiq Khan chiudono la loro dichiarazione ‘di guerra’ alla speculazione edilizia: «Sindaci e governi locali delle città in diverse parti del mondo stanno lavorando – insieme – per condividere conoscenze e trovare soluzioni all’emergenza abitativa. […] Potremo dire di aver vinto solo quando saremo in grado di garantire che tutti, nelle nostre città, possano avere accesso a una casa decent, secure and affordable». Tre aggettivi che, messi insieme parlando di abitare, sono veramente rivoluzionari: dignitosa, sicura ed economica.
Emergenza cultura, 1 luglio 2018. L'Appia Antica è sia un'area archeologica sia un'area naturale protetta. La Regione Lazio sta per approvare il piano del parco naturale, ma senza coordinarlo - come invece dovrebbe - con il piano paesaggistico. (m.b.)
Non siamo contrari al Piano d’Assetto del Parco dell’Appia Antica. Siamo contrari alle modalità con le quali è stato condotto il processo della sua approvazione. Senza il necessario adeguamento al Piano Territoriale Paesaggistico Regionale (PTPR), che secondo il Codice dei Beni culturali è sovraordinato, con il rischio di sovrapposizioni, conflitti di competenze, contenzioso con i privati che non può che danneggiare un bene collettivo unico al mondo. Un luogo straordinario che abbiamo ricevuto in prestito grazie all’impegno di tante persone che si sono battute prima di noi, a partire dal grande Antonio Cederna, che dobbiamo proteggere e conservare per chi verrà dopo di noi.
Ai primi di luglio 2018 arriverà in Consiglio regionale del Lazio una Proposta di Deliberazione per l’ “Approvazione del piano del Parco naturale Appia Antica – Roma di cui all’art. 26 della legge regionale 6 ottobre 1997, n. 29 «norme in materia di aree naturali protette regionali» e successive modifiche ed integrazioni“. Una Proposta che a molti può sembrare un’iniziativa senza controindicazioni, anzi virtuosa, dato che riguarda un atto di pianificazione di un bene pubblico, un Parco naturalistico che contiene uno dei più grandi e importanti Parchi archeologici del mondo. O, meglio, un Parco archeologico che è anche un Parco naturale. Ed è proprio qui che sta il punto, quello che dovrebbe consigliare a degli amministratori scrupolosi che abbiano a cuore l’interesse pubblico di rimandare l’approvazione di questo Piano di Assetto. Perché nello stesso spazio insistono due realtà diverse e divise, dal punto di vista delle competenze e soprattutto delle responsabilità decisionali: il Parco dell’Appia Antica – l’ area archeologica, gestita dalla Soprintendenza, cioè dallo Stato, il Ministero dei Beni culturali – che chiameremo “Parco archeologico” – e il Parco naturalistico – gestito dalla Regione Lazio attraverso l’Ente Gestione Parco – che chiameremo “Parco regionale”. Una dicotomia che si rispecchia negli strumenti della pianificazione territoriale: da un lato il Piano Territoriale Paesaggistico Regionale (PTPR) , adottato nel 2007 e non ancora approvato (2), ma del quale è già stato approvato nel 2010 il Piano Territoriale Paesistico (PTP) di Roma 15/12 “Valle della Caffarella, Appia Antica e Acquedotti”, dall’altro il Piano di Assetto dell’Ente Parco, adottato nel 2002.
Una sovrapposizione che, per il raggiungimento dell’obiettivo comune della migliore tutela e organizzazione del Parco dell’Appia Antica, richiederebbe una più chiara divisione dei compiti e degli ambiti di intervento, con la tutela del patrimonio paesaggistico e archeologico da un lato, e quello dell’ecosistema naturale dall’altro, conformati tra loro nella pianificazione e con una gestione attraverso organismi e strumenti armonizzati e condivisi. Tuttavia va detto che il Codice dei Beni culturali del 2004 ha stabilito che il Piano Paesaggistico è sovraordinato al Piano d’Assetto del Parco e tale assunto è ormai suffragato dalla giurisprudenza costituzionale. Invece, drammaticamente, assistiamo ancora oggi al tentativo – che purtroppo andrà a buon fine tra il tripudio di chi non ha approfondito tutte le implicazioni della Proposta – di ignorare quanto stabilito dal Codice – una conquista per la difesa del il patrimonio storico e il paesaggio – approvando un Piano di Assetto non armonizzato al Piano Paesaggistico.
Continuando a perpetuare incroci di ambiti e competenze, con due Piani – Paesaggistico e d’assetto – che, come scrive nel 2014 Luca De Lucia, “perseguono finalità sostanzialmente simili, fannno riferimento a identici valori storici e culturali e possono incidere sugli stessi beni e attività“. In pratica “due piani generali di area vasta con finalità di tutela ambientale e paesaggistica” che possono creare “potenziali incertezze (e dunque motivi di conflitto) nei rapporti tra le amministrazioni preposte alla gestione dei diversi vincoli, ma soprattutto per i cittadini e gli operatori economici (e quindi motivi di contenzioso innanzi al giudice amministrativo), al quale è rimesso il compito di risolvere le antinomie tra i due strumenti di pianificazione“.
E non si tratta di una semplice questione burocratica o del solito tignoso confitto di poteri tra enti. Basti pensare alle differenze tra i due Piani, a partire dai criteri e dal disegno della zonizzazione: infatti, a parità di scala, mentre il PTP (Piano Territoriale Paesistico) traccia una rappresentazione assai particolareggiata, con prescrizioni dettagliate e differenziate per singole sottozone, la pianificazione adottata dal Piano del Parco Regionale individua cartograficamente le aree di maggiore interesse naturalistico-ambientale- archeologico -insediativo con una zonizzazione a maglia più larga nelle zone di protezione.
Luca De Lucia propone, per superare le ambiguità e “garantire l’attuazione dei principi di semplificazione e di coerenza dell’azione amministrativa… di integrare il Piano paesaggistico con i contenuti del piano per il parco sopprimendo le funzioni pianficatorie oggi imputate all’ ente di gestione [regionale]” ridisegnandone contemporaneamente le attribuzioni, affidando all’Ente Parco un ruolo più tecnico, legato all’ecosistema, per le informazioni, il monitoraggio, la promozione, e soprattutto la gestione e la protezione dell’habitat. In pratica, “mentre Comune, Regione e Stato, in questo campo, dovrebbero agire essenzialmente secondo le forme dell’attività amministrativa autoritativa (pianificazione, autorizzazione, ordini ecc) gli enti parco sarebbero invece chiamati a gestire la complesità naturalistica“. E conclude Luca De Lucia: “non è dalla rivalità tra paesaggio e ambiente, o dal semplice ritorno al passato, che possono derivare soluzioni ottimali ai problemi di tutela di rilevantissimi interessi pubblici”.
E il sospetto che il Piano d’Assetto del Parco regionale dell’Appia Antica che sta per essere approvato vada invece all’indietro, cioè all’era precedente al Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, è alimentato anche dal fatto che ci risulta essere stato redatto senza la necessaria armonizzazione con il Piano Paesaggistico e senza nemmeno la necessaria e costante intesa con la Soprintendenza.
Già nel 2002 l’allora Soprintendente Adriano La Regina, in un documento indirizzato all’allora Presidente Regionale Storace, ribadiva la sua contrarietà al Piano di Assetto, nel metodo e nel merito. A distanza di 15 anni – maggio 2017 – ci risulta che i rappresentanti della Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Ministero, dopo aver partecipato a numerose sedute del “tavolo tecnico” incaricato del “procedimento di conformazione ed adeguamento del Piano d’Assetto del Parco alle previsioni del Piano Territoriale Paesistico di Roma 15/12 Valle della Caffarella, Appia Antica e Acquedotti“, abbiano inviato una nota all’Assessore regionale all’urbanistica – allora Michele Civita – e alla Direzione Territorio, Urbanistica e Mobilità del Lazio, in cui specificavano che “il pronunciamento circa la verifica di avvenuto adeguamento del Piano di Assetto ai sensi dell’art. 145 del Codice non potrà che avvenire successivamente alla stipula di detto accordo [citato nell’ art.143 del Codice secondo il quale “...il Piano è oggetto di apposito accordo tra pubbliche amministrazioni … che stabilisce altresì i presupposti, le modalità ed di tempi per la revisione...” NDR] e concludevano con la richiesta di “attivare con ogni possibile urgenza, un confronto con il coinvolgimento dell’Ente Parco al fine di pervenire, oltre che alla definizione di un perimetro del territorio ….congruente con quello del PTP (Pianto Territoriale Paesistico) 15/12, alla definizione di opportune forme di coordinamento delle procedure tecnico-amministrative per la gestione della tutela nel rispetto delle specifiche e rispettive competenze“ . A quanto pare, a tale richiesta non è stato poi dato seguito, visto che la vecchia (e nuova) Giunta Zingaretti ha poi proseguito nell’approvazione del Piano di Assetto, facendo anzi un nuovo passo che ha spinto il Ministero dei Beni Culturali a chiedere immediate precisazioni: infatti il 13 febbraio 2018 , pochi giorni prima delle elezioni, viene approvata la Legge Regionale n. 2 che modifica una legge regionale del 1998 con due articoli che sembrano comprimere ulteriormente il ruolo dello Soprintendenza e mettere a rischio le tutele. Il Fatto quotidiano dedicherà un articolo dal titolo “Due cavalli di Troia e la regione Lazio svende il territorio” in cui si parla di “rischio condono mascherato” e di “ristrutturazioni disinvolte, aperture di nuove attività, stravolgimento di manufatti storici che saranno più semplici, anche in aree delicatissime”. Il Presidente Zingaretti risponde al Ministero che le modifiche hanno introdotto una disciplina transitoria che vale solo fino all’approvazione definitiva del PTPR, che non si pone in contrasto con le disposizioni contenute nel PTPR, e impegnandosi a introdurre un’integrazione a dette modifiche “ai fini di assicurare la piena compartecipazione paritaria degli organi ministeriali nei procedimenti di aggiornamento del piano adotattato”.
Resta il fatto che la Giunta del Lazio porta oggi in Consiglio – il motivo della fretta sarebbe il rischio di un commissariamento per dare seguito a una sentenza del TAR sull’ampliamento di un struttura sportiva – un Piano di Assetto non conformato al PTP e al PTPR.
E il tema avrebbe richiesto un più allargato e informato dibattito pubblico, che per l’ennesima volta sembra risolversi con slogan trionfalistici riportati sui giornali che nulla dicono della complessità che dovrebbe essere affrontata con serietà e trasparenza.
L’ennesima occasione mancata, non solo per il centrosinistra del Presidente Zingaretti, ma, questa volta, anche per l’opposizione pentastellata “di lotta e di governo”, che appoggia la zoppicante maggioranza della Pisana. Come già per il Piano casa e per lo Stadio della Roma, il vero problema è che le vicende troppo complesse non trovano facilmente cittadini, giornalisti, consiglieri, disposti a fare uno sforzo per comprenderne a fondo la portata.
Anna Maria Bianchi Missaglia
Per osservazioni e precisazioni: laboratoriocarteinregola@gmail.com
nota
Sul sito dell'associazione Carteinregola e su emergenza cultura è possibile consultare il testo annotato, con i richiami alle leggi e alle delibere.
Internazionale, 29 June 2018. Le contraddizioni dell'Italia: l'indiscussa accoglienza di masse di turisti e il respingimento di coloro che scappano cercando una vita migliore da parte dei nostri governanti e la solidarietà della gente ordinaria. (i.b.)
O forse, se fossimo a Hollywood, avrebbe detto qualcosa tipo: “Alla vostra sinistra potete osservare la casa di Rosa Anna Valtellina, la zia del regista italiano Andrea Segre. Proprio quella con l’uomo dalle fattezze arabe che fuma sul balcone. L’area sotto la casa è il posto in cui Segre ha girato molte scene del film Sono Li. Se percorrete a piedi la stessa strada, troverete il bar in cui lavorava nel film. Durante le riprese hanno cambiato il nome del bar, ma il proprietario ha deciso di mantenerlo anche dopo.
Qualunque cosa stesse raccontando loro la guida turistica, sono sicuro che non era ciò che mi ha detto Pietro la prima volta che sono saltato a bordo della sua barca a Venezia: “Non buttare niente in acqua, soprattutto i mozziconi delle tue sigarette: le spegni e le butti lì”, e ha concluso la frase indicando una piccola pattumiera in un angolo della barca. La seconda cosa che mi ha detto era: “Qualunque cosa succeda, non tenerti al bordo della barca con le mani, se proprio ti devi aggrappare a qualcosa, afferra questa”, e mi ha mostrato una corda.
Mi ha dato quel consiglio come se sapesse che avrei fatto proprio quello. Non avevo nemmeno declamato la mia famosa frase per queste occasioni: “Non sono bravo a nuotare, salvami se cado”. Ho smesso di pronunciarla un po’ di tempo fa, non solo perché era imbarazzante visto che sono nato e cresciuto vicino al mare, a Tripoli, “la sposa del Mediterraneo”, ma anche perché chi è pronto a salvare gli africani che annegano lo farebbe anche senza sentirselo chiedere, e continuerà a farlo anche se qualcuno gli dicessero di non farlo, cosa che sta succedendo adesso; mentre chi non li vuole salvare non lo farebbe nemmeno se gli venisse chiesto.
Pietro non mi ha mai spiegato perché non dovevo tenermi ai bordi della barca, ma mi ha detto che sarebbe necessario un gran talento per annegare in quel canale poco profondo o qualcosa del genere. Il motivo l’ho scoperto poco dopo, e nel modo peggiore, perché per poco non ho perso le dita quando la nostra barca ne ha sfiorato un’altra mentre cercavamo di schivarla. A quel punto lui mi ha sorriso: “Adesso sai perché, e non lo dimenticherai”. In quel momento il dolore alle dita mi ha insegnato due cose: primo, lui aveva ragione, secondo dovrei imparare più parolacce in italiano.
Pietro è per definizione un vero veneziano, pilotava la sua barca come non avevo mai visto fare prima, oscillando e manovrando negli stretti canali affollati come se stesse guidando un’automobile sportiva in un’autostrada vuota. Conosceva la storia di ogni crepa di ogni palazzo, muro o ponte nella città. Era affascinante osservare il modo in cui viveva. Credo che se il mondo dovesse trovarsi davanti a uno scenario da apocalisse, con la terra sommersa dall’acqua, i veneziani sopravviverebbero e dominerebbero il mondo postapocalittico, e forse Pietro sarebbe il presidente del nuovo mondo d’acqua.
Prima di conoscere Pietro a Venezia avevo trascorso qualche giorno a Chioggia, la versione meno turistica di Venezia, e quando non me ne stavo sul balcone a fumare e salutare i turisti mi godevo la compagnia di Rosa. Avevo portato ad Andrea un abito tradizionale libico, e mentre se lo stava misurando lei ha detto che le ricordava un elegante signore libico che aveva conosciuto in Libia e che le aveva detto con gentilezza che avrebbe dovuto aspettare un po’ perché il suo volo era stato cancellato. Quando ormai stava per arrendersi e andarsene, lui le ha parlato in italiano e si è offerto volontario per tradurle ciò che non capiva.
Questa storia mi ha incuriosito. Le ho chiesto quando avesse visitato la Libia, e lei mi ha risposto che il suo viaggio risaliva al 2003, quando era andata a fare visita a sua sorella Franca (la madre di Andrea). Le ho chiesto se avesse qualche foto della Libia e lei mi ha portato tante scatole con decine di foto e mi ha invitato a scavarci dentro.
Ci ho messo diverse ore per guardare tutte le foto. Ho scoperto che Rosa era un’avventuriera di prima classe che ha cominciato a viaggiare attorno alla metà degli anni sessanta, prima in Italia e poi in Europa, Africa e America. Si è accampata nel deserto con i beduini e li ha accompagnati sul dorso di un cammello in luoghi in cui le automobili non potevano arrivare con facilità, ha percorso a piedi le montagne nevose dell’Europa orientale e la sua ultima destinazione è stata Cuba, dove era stata pochi mesi prima che la conoscessi. Non parlava inglese, ma questo non le ha impedito di viaggiare. Ha raccontato che all’inizio usava il latino per comunicare: in ogni parte del mondo c’è sempre un prete e loro parlano tutti latino. “Anzi, in Norvegia parlano latino molto meglio di me”, ha raccontato.
Ho guardato le foto che aveva scattato in Libia, le strade di Tripoli, i mercati, la piazza dei Martiri, l’ingresso della città vecchia, Sabratha e le rovine greche e romane della Cirenaica. Ho provato invidia per lei, perché nei suoi ricordi quei luoghi resteranno per sempre belli, mentre oggi faticano a sopravvivere. Il caos fa dimenticare la ricca storia della Libia e di Tripoli, in pochi hanno voglia di preservare i suoi siti storici. Una di queste persone è Hiba Shalabi, una fotografa libica che ha lanciato sui social network la campagna #SaveTheOldCityTripoli.
Hiba ha cominciato a condividere foto che documentavano la distruzione degli edifici storici e ha chiesto alla gente di Tripoli di unirsi a lei. Ultimamente ad aggravare il livello di distruzione sono intervenuti i progetti edilizi deregolamentati avallati dalle autorità libiche che non solo non si curano della manutenzione di questi edifici, ma hanno cominciato a legalizzare questa distruzione concedendo ai costruttori il permesso di raderli al suolo a prescindere dal loro valore storico. All’inizio non sono stati in molti a sostenere Hiba. Poi l’ambasciata italiana in Libia ha sostenuto la sua campagna e nel giro di poco tempo diverse televisioni e giornali europei hanno condiviso la sua storia e a quel punto finalmente anche i giornali locali se ne sono occupati.
Mentre la città vecchia di Tripoli, come tante altre città storiche in Libia, sta morendo, trascurata e dimenticata dal resto del mondo, Venezia affronta il problema opposto. “Venezia è una vera città”: questa frase era scritta su striscioni verdi attaccati ai balconi delle case che si affacciavano sui canali.
Gli striscioni facevano parte di una campagna lanciata in occasione della Regata storica del 2017 e “ideata per contrastare la tendenza prevalente dei politici locali, regionali e nazionali a rendere prioritario il turismo a Venezia, come se la città non fosse altro che un limone da spremere. Sostenendo i residenti, le loro necessità e la loro qualità di vita con strategie di lungo periodo, Venezia potrà essere invece conservata e nutrita in quanto città viva, ed essere attraente per i turisti senza le tossine del turismo di massa”.
L’altra cosa che al Lido mi ha fatto tornare in mente Tripoli erano i posti di blocco. Il primo giorno del festival e prima di ricevere le mie credenziali sono stato fermato da ogni poliziotto a ogni posto di blocco e controllo di sicurezza. Questo mi ha fatto sentire a casa, con la differenza che ai posti di blocco di Tripoli i miliziani a volte indossano passamontagna neri e alcuni calzano sandali infradito. Controllavano il mio zaino, facevano tripli controlli sul mio passaporto.
La cosa divertente era che alcuni si ostinavano a volermi fermare sebbene avessero chiaramente visto che ero stato controllato al posto di blocco precedente, che si trovava lì vicino. Avevano qualche difficoltà ad accettare l’idea di un libico invitato al festival, forse a causa della dichiarazione del sindaco di Venezia che aveva detto che in cima agli edifici ci sarebbero stati dei cecchini pronti ad abbattere chiunque avesse gridato Allah akbar.
Quando stavo con Pietro non avevo bisogno di tirare fuori di continuo il mio passaporto. Di giorno lavorava in un bar e io me ne stavo seduto lì cercando di non dare fastidio. La mattina non è per me il momento migliore per fare conversazione, soprattutto con lui. Per qualche ragione mi capiva meglio di sera quando, dopo un paio di bicchieri di vino, il suo inglese diventava fluente. Stavo per lasciare il bar dopo un caffè e più o meno cinque sigarette quando è entrata una donna africana. Sembrava in difficoltà e parlava un italiano stentato. Lui le ha offerto una sedia, un caffè e due orecchie disposte ad ascoltarla. Ha capito che per qualche ragione aveva dovuto lasciare casa sua. Pietro ha telefonato alla polizia e ha fatto da traduttore. Le hanno dato qualche indirizzo dove avrebbe potuto alloggiare un po’ prima di capire cosa fare. Finita la telefonata, le ha disegnato una mappa e le ha spiegato come poterci arrivare.
Non gliel’ho detto subito, ma ho pensato a cosa potrebbe succedere se si estendesse l’accoglienza dimostrata ai turisti a tutte quelle persone per le quali lasciare le loro case è l’unica scelta possibile. E se addirittura queste persone avessero il permesso di viaggiare non finirebbero per diventare migranti irregolari, come vengono definiti. Mi chiedo cosa dicono loro quando li fanno salire a bordo delle imbarcazioni sulle coste libiche.
Forse qualcosa del tipo: “Tenetevi stretti ai bordi della barca, se il viaggio procede senza infiltrazioni d’acqua e guasti al motore, e se il tempo sarà abbastanza clemente, qualcuno di voi potrebbe avere davvero la possibilità di arrivare. Ma non vi ingannate, questo non è il purgatorio, perché anche se alcuni di voi vengono da posti peggiori dell’inferno, la destinazione verso la quale siete diretti non è il paradiso”.
Se fossi uno di loro, di sicuro non direi “Non sono bravo a nuotare, salvatemi se cado”, non solo perché chi è disposto a salvare gli africani che annegano lo farebbe anche senza sentirselo chiedere, ma anche perché preferirei annegare piuttosto che essere salvato dalla guardia costiera libica.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa).
comune-info.net, 27 giugno 2018. Anche i campi nomadi sono forme di "apartheid". In italiano si traduce in "separazione", ed è appunto quello che facciamo con gli "zingari" e con tutti quelli diversi che non riusciamo a ridurre uguali a noi. (i.b.)
Si parla e si scrive di loro, “gli zingari”, ogni volta che rientrano nelle “preoccupazioni” di chi parlando di altre cose e portando avanti altri interessi, indica gli “zingari” come una criticità incancrenita, perenne e da “risolvere” con mezzi drastici e con l’uso di una certa violenza. Una violenza alla quale siamo “costretti”, vista l’impossibilità di risolvere la loro immodificabilità e adeguamento sociale.
Il campo “nomadi” di per sé è violenza. La sua istituzionalizzazione e permanenza è violenza. Si tratta di una particolare ed esclusiva abitazione pubblica che genera esclusione, stigma, separazione, povertà relazionale, razzismo e razzismo istituzionale differenzialista. Il campo “nomadi” in tutte le sue formerappresenta l’apartheid destinato agli “zingari”, divide e disgiunge persone, famiglie e comunità rom dalle comunità e società circostanti. Scompone e spezza relazioni, possibilità e opportunità di chi ne è collocato, cristallizzando in forme folcloristiche chi, per appartenenza, è indentificato come nomade. Il binomio Zingaro uguale Nomade ha impostato, guidando, le politiche e le politiche sociali per decenni. L’Italia è il Paese dei campi, e con questa caratterizzazione è indentificata a livello internazionale ogni volta che si approcci alla questione “zingara”. Ovviamente si tratta di una caratterizzazione piena di aporie, stupore e in netta contrapposizione con i processi di deistituzionalizzazione, come per esempio quelli avuti luogo in ambito psichiatrico e con le disabilità e che, all’estero (forse più dell’Italia), si conoscono, si studiano e si ripropongono.
I campi “nomadi” sono stati creati in situazione di povertà economica e relazionale da una piccola parte della popolazione romani e successivamente sono stati istituiti e ufficializzati dagli Enti Locali, accompagnati con la costruzione di Leggi Regionali fondate sulla tutela del nomadismo, inteso come caratteristica prioritaria e unica di quella popolazione chiamata “zingara”. Il campo è un terreno alla periferia della città, dotato di opere urbanistiche e servizi igienico-sanitari per poter essere abitato da persone in stato di povertà e di cultura differente. È una situazione abitativa particolare per dare risposte istituzionali di domicilio a un bisogno di tipo abitativo espresso da persone che sono concepite a partire non dalla considerazione delle loro somiglianze ma dalla considerazione delle loro differenze. Nel campo la povertà relazionale ed economica colloca famiglie, gruppi e individui in una condizione di estremo degrado, nonché di estremo bisogno. Condizione che si autoalimenta poiché l’eccezionalità del campo è la sua “eterna provvisorietà”.
L’interiorizzazione dello sguardo altrui
Un campo concentra una categoria di persone. Il criterio omologante è quello della categoria etnica: Il campo è omoetnico. Un campo “nomadi” nella sua modalità è di fatto un campo di concentramento. Il campo è una situazione eccezionale, straordinaria ed è concepito per dare risposte a una categoria inventata: i nomadi.
Il campo “nomadi” genera etichettamento per lo “zingaro” e passa soprattutto dal suo risiedere nel campo, stigma al quale si aggiunge l’auto-stigmatizzazione, l’interiorizzazione dello sguardo altrui, che lo giudica e lo fa sentire inadatto, inadeguato al mondo.
Abbiamo un deficit di conoscenza, che non ci permette leggere una situazione difficile e complessa, i campi “nomadi”. Conoscenza intesa come relazione diretta con chi collocato nei campi li abita e come processo di indifferenza che avvolge, travolgendo, le interazioni sociali e si estende, caratterizzandola, all’azione pubblica, alle sue politiche sociali, abitative, occupazionali e scolastiche. Abbiamo un deficit di conoscenza che non affrontiamo e che rafforza un’intenzionale ignoranza, eremica, attorno all’apartheid dei campi.
I termini che usiamo, “aree sosta” “micro aree”, “campi rom”, ecc. e il pensiero, meglio dire il non pensiero, dentro al quale nascono e di cui diventano piena espressione, nascondono abilmente costruzioni sociali e istituzionali prive di riscontro nelle “soluzioni”, che di volta in volta affiorano e che si propongono come la soluzione definitiva, descritte come La Soluzione Finale, di una criticità–problema che si ingrandisce con il passare degli anni, nelle “retoriche” securitariste e del ricercato consenso dei politici. Contribuendo così alla stabilizzazione del problema stesso, il “problema” si istituzionalizza. Il suo perdurare richiede continuamente interventi sugli interventi precedenti, non si risolve, si prolunga e diventa pretesto nonché motto perpetuo di repressioni “giustificate” Il “problema” consolida l’allontanamento dall’idea che si potrà, forse, affrontare anche istituzionalmente le differenze sociali e culturali senza l’apartheid, con proposte di eguaglianza non omologanti, non soffocanti le differenze stesse. Certamente il posizionamento istituzionale sui temi della convivenza interculturale si estende dai campi “nomadi” e diventa proprio delle realtà di “proposta” trattamento e affronto delle migrazioni e delle profuganze, delle migrazioni forzate ovvero verso a tutte le realtà che, con la loro presenza, contribuiscono e di fatto hanno strutturato, in questo Paese, una realtà multi-culturale.
Nomade è chi risiede in un campo “nomadi”
Abbiamo un deficit di conoscenza che non ci permette, e non ci permette pure istituzionalmente, di capire e comprendere che il “problema” è aggrovigliato dentro un paradosso ossimoro: Nomade è chi risiede in un campo “nomadi”. Abbiamo un deficit di conoscenza che diventa arroganza, insolenza, autoreferenzialità che condiziona la conoscenza, spesso è paura e le paure condizionano maggiormente la conoscenza. Gli “zingari” in situazione di campo sono considerati dalle istituzioni come “nomadi” solo quando perdono la capacità e la possibilità di spostarsi, cioè il loro “nomadismo”, esasperando analisi e prassi della contraddizione, Nomadismo/Stanzialità che fa cambiare e forse miracola i nomadi, gli “zingari”, silenziando ogni ricerca, segno e sapere che cerca di problematizzarlo, ogni domanda, dubbio e costatazione che potrebbe incrinarlo. Soffermarsi e spiegare La contraddizione si scopre che il nomadismo rom storicamente e attualmente, è prassi di resistenza, della loro resistenza per evitare la violenza subita da parte del bianco, dell’europeo. Violenza estrema, omologatrice e fisica, spesso violenza finalizzata all’eliminazione e allo sterminio. In questo va cercata la prospettiva che, rovesciando le letture ne crea altre reimpostando la contraddizione Nomadismo/Stanzialità e trovando significazione in quella di Fuga/Tregua. Ci si ferma se la violenza del bianco è gestibile, di basso profilo oppure nulla, ci si sposta anticipandola, per non subirla. Una resistenza, r-esistenza.
Abbiamo un deficit di conoscenza che non ci permette di affrontare lo straordinario che nasce generando odio e decliniamo spesso questo nostro opporsi in spettacolo, cronaca effimera, dicotomia. Il deficit di conoscenza è un deficit di progettualità, è un andare contro che pur avendo bisogno di trovare le sue forme e risultati, andrebbe rivisto. I riferimenti alla Costituzione, alle Leggi, all’Etica che trovano spazio esclusivo nell’emergenza, limitano gli orizzonti del resistere, affaticano il divenire progetto. Non è lo straordinario che certamente combatto che mi preoccupa, ma l’ordinario che lo nutre e lo tesse e che lo porta ad essere una espressione eccezionale, una emergenza, creando quel consenso che permette la devastazione.
Abbiamo un deficit di conoscenza e non siamo in grado di fare politica, affermare la pluralità delle esistenze umane e la progettazione della loro possibile convivenza nelle differenze. Non siamo in grado di fare politica impostando relazioni che disconfermano, non il conflitto, ma la violenza.
E’ dimostrato che il MoSE (il meccanismo di dighe fisse e paratie mobili) progettato per difendere Venezia dalle alte maree non funzionerà e comunque, col climate change non servirebbe a nulla. Eppure continuano a progettare camuffamenti dette "opere di inserimento paesaggistico". Oltre al danno la beffa. (a.b.)
Resoconto di un rapporto sullo sfruttamento della foresta pluviale ad opera di una rete complessa di aziende europee con la complicità sia del governo congolese che di due agenzie europee per l'aiuto allo sviluppo. (i.b.)
Il 26 giugno 2018 è stato pubblicato un rapporto del Global Witness (1) sullo sfruttamento della foresta pluviale del bacino del fiume Congo ad opera di una rete complessa di aziende europee con la complicità sia del governo congolese che di due agenzie per lo sviluppo europee. Ci è sembrato importante riportarne una sintesi; non solo perchè questa foresta è un bene comune di carattere planetario per il ruolo che svolge nella salute del pianeta, ma anche per mettere in evidenza come il continente africano continua ad essere sfruttato da capitalisti occidentali, che spesso operano con il supporto delle cosiddette agenzie di cooperazione allo sviluppo, ovvero quelle agenzie che dovrebbero "aiutarli a casa loro".
La foresta pluviale del bacino del fiume Congo, che ricade prevalentemente nel territorio della Repubblica Democratica del Congo (RDC) è un fondamentale regolatore del clima e ha un importantissimo ruolo nell'assorbimento delle emissioni di CO2. E' anche uno dei più importanti ecosistemi del pianeta per la sua biodiversità, ospita più di 600 specie di alberi e 10.000 specie animali. Non solo, la ricchezza naturale di questa foresta fornisce riparo, cibo, acqua e mezzi di sussistenza a decine di milioni di persone ogni giorno.
A differenza della foresta Amazzonica, la foresta della RDC, sino alla fine del secolo scorso, era una delle foreste a più basso tasso di deforestazione, ma una serie di studi recenti hanno messo in evidenza come la situazione sia cambiata. Un studio di Global Forest Watch, Blue Raster, Esri e l'Università del Maryland completato nel 2017, ha rivelato che la RDC era una delle tre foreste dove la deforestazione stava peggiorando, soprattutto a causa della scarsa applicazione da parte del paese delle sue normative ambientali. Dal 2000 al 2014, la RDC ha perso una media di 0,57 milioni di ettari di foresta all'anno, e il tasso di perdita di foresta tra il 2011 e il 2014 è aumentato di 2,5 volte.
La Global Witness ha invece condotto un indagine (2) per comprendere chi sono i responsabili della deforestazione. La principale responsabile di questa colossale ed estremamente lucrativa operazione è la società europea Norsudtimber - il più grande proprietario unico di concessioni di disboscamento - che attualmente detiene venti concessioni di disboscamento per un totale di 40.000 km2 di foresta pluviale. Sono tre le società che controllano la Norsudtimber:
Complici sono innanzitutto le consociate di Norsudtimber, che scambiano il legname in tutto il mondo attraverso transazioni segrete in giurisdizioni segrete, generalmente paradisi fiscali. Queste aziende servono anche per incanalare il denare che serve per corrompere i funzionari e politici congolesi. A seguire le aziende che comprano il legname, Global Witness ha individuato compratori in tutto il mondo. Indispensabili complici sono i politici congolesi, facilitati alla corruzione dalla perenne instabilità politica del paese. Il ministro dell'Ambiente Amy Ambatobe Nyongolo è stato già accusato di assegnare illegalmente concessioni di disboscamento, ma non accenna a interromperle.
Nonostante sia risaputo che il disboscamento non solo sta avvenendo a discapito delle popolazioni e della salute del pianeta, ma anche attraverso concessioni illegali, sia il governo francese che quello norvegese usano i loro fondi per dare supporto ad aziende come la Norsudtimber per espandersi in DRC. Queste azioni sono guidate dalla Central African Forest Initiative (CAFI), un ente finanziato a maggioranza dall'International Climate and Forest Initiative (NICFI) che appartiene alla Norad, l'agenzia governativa norvegese per la cooperazione allo sviluppo. L'Agenzia governativa francese per lo sviluppo (AFD) è anch'essa membro della CAFI.
La Norsudtimber sta operando illegalmente sul 90% dei suoi siti. Per esempio la maggioranza delle concessioni non hanno implementato il richiesto piano di gestione di 25 anni entro i termini imposti dalla legge nonchè evidenti segni di attività di disboscamento al di fuori dei perimetri autorizzati. Secondo la legge della RDC, ciò dovrebbe comportare la cancellazione dei contratti di concessione, ma la legge viene ignorata, con la complicità del governo della RDC. Ovviamente gli introiti re-investiti o destinati allo "sviluppo delle comunità locali" sono bassissimi, tra 1,49 e 4,79 dollari per abitante all'anno.
Tra i danni ambientali planetari dovuti alla riduzione della superficie forestale sono ingenti. Per esempio, l'espansione del disboscamento industriale sostenuta dall'Agenzia di sviluppo francese (AFD), potrebbe comportare quasi 35 milioni tonnellate di emissioni di CO2 in più rilasciate all'anno, o l'equivalente di altre 8 centrali a carbone. Questo è equivalente alle emissioni di carbonio della Danimarca per il 2014.
Note
(2) Il rapporto "Total System Failure" della Global Witness è qui scaricabile integralmente.
Internazionale, 22-29 giugno 2018. Altre vittime dello sviluppo: le dighe, la pesca intensiva e i cambiamenti climatici stanno distruggendo il lago Tonle Sap mettendo a rischio la sopravvivenza dei suoi abitanti. (i.b.)
Andrea Frazzetta ha fotografato i villaggi galleggianti sulle rive del lago Tonle Sap. Dove la pesca intensiva e i cambiamenti climatici spingono gli abitanti a trasferirsi sulla terraferma.
È un tardo pomeriggio e Reth Roth scuote il figlio. “È ora di alzarsi!”, gli grida all’orecchio. Suo marito Cheng Chak è già vestito e sta radunando telefoni, sigarette, un fornelletto da campeggio. Il figlio dorme come un sasso, immobile, poi improvvisamente si alza in piedi. Il sole invade i lati aperti della casa, tagliando il pavimento nudo e spazioso. Il ragazzo batte le palpebre, confuso, poi comincia a preparare le provviste.
Chong Khneas: uno dei villaggi galleggianti quando il fiume è in piena Chong Khneas: uno dei villaggi galleggianti
quando il fiume è in secca
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Il lago Tonle Sap, che si estende sul territorio cambogiano come un 8 allungato, è il piùgrande bacino d’acqua dolce di tutto il sudest asiatico. Nella stagione secca è costeggiato da strade rosse e foreste. Quando arriva la pioggia, l’acqua inonda le pianure, le foreste e le risaie che lo circondano. Al culmine della stagione delle piogge, il Tonle Sap raggiunge un’estensione di 16mila chilometri quadrati, moltiplicando di sei volte le sue dimensioni. I pesci migrano e si riproducono, il riso germoglia.
Gli scienziati le chiamano pulsazioni di piena, i poeti le paragonano al battito cardiaco. Uno dei primi romanzi moderni la Cambogia s’intitola Le acque del Tonle Sap e molti proverbi alludono al movimento dell’acqua. Quando le piogge finiscono e il livello dell’acqua del Mekong cala, il lago si getta nel fiume Tonle Sap e poi nel Mekong. Nella stagione delle piogge le nevi sciolte che arrivano dal Tibet e i monsoni che si abbattono sulla Cambogia e più a monte gonfiano il Mekong. Allora il corso del fiume Tonle Sap s’inverte. L’unico fiume al mondo a fare una cosa simile, ogni anno, regolarmente. “Il doppio movimento del lago, la pulsazione annuale di questo cuore gigantesco legato alle migliaia di arterie del Mekong, è la vita dei pescatori”, rifletteva nel 1871 il tenente Jules Marcel
Brossard de Corbigny.
In tutto il pianeta, solo una manciata di paesi – tutti molto più grandi della Cambogia – possono vantare maggiori risorse ittiche nelle acque interne. E nessuno conta sui laghi nella stessa misura della Cambogia. Il pesce sfama la nazione e rappresenta la principale fonte di proteine per l’80 per cento della popolazione. Sfama anche i vicini della Cambogia, che ne importano migliaia di tonnellate ogni anno. E sta scomparendo.
Solo il Rio delle Amazzoni ha più specie di pesce d’acqua dolce del Mekong, mentre il lago Tonle Sap è il terzo più ricco di specie del mondo. Ma in meno di vent’anni la pesca qui è radicalmente cambiata.
Uno dei problemi del cambiamento climatico sono gli eventi atmosferici estremi: piene più piene e secche più secche. Nei prossimi anni si prevede che siccità e alluvioni peggioreranno. Con l’aumentare del riscaldamento climatico, aumenterà anche la temperatura dell’acqua. E questi cambiamenti hanno un effetto devastante sul modo in cui i pesci migrano e si riproducono.
Place. 13 giugno 2018. Lungo il confine tra USA e Mexico vivono due dozzine di tribù di indiani d'America. Il muro di Trump, oltre a non essere la risposta all'immigrazione, è un attacco ai diritti e sovranità di questi popoli, a cui è impedito l'accesso alla loro terra ancestrale. (i.b.)
AMERICAN INDIANS FEAR US-MEXICO
BORDER WALL WILL DESTROY ANCIENT CULTURE
Ellen Wulfhorst
EL PASO, Texas - To the Ysleta del Sur Pueblo Indians, the water of the Rio Grande that divides the United States and Mexico sanctifies religious rites and purifies their hunts.
Indian communities living miles away use the river to send messages to fellow tribes downstream, tribal chief Jose Sierra told the Thomson Reuters Foundation.
"They put messages in the river that come to us through the water."
Rene Lopez, a member of the Ysleta Traditional Council, said if the chief asked tribal members to knock down the wall, "we'll do it. That's how deeply it means to us."
For while Trump and his supporters say a security wall is necessary to stop drug smuggling and illegal immigrants from Mexico, Indian leaders say otherwise.
"Back off, Trump. Let us be," said Sierra, whose ancestors settled in Texas in 1682 after being forced out of New Mexico during violent conflicts with Spanish settlers.
But experts say the likelihood of stopping the wall with claims of Indian sovereignty or freedom of religion is unlikely, even though for some its impact could be dramatic.
Cut off from land
The Tohono O'odham people in southern Arizona live on a reservation that straddles the border and would be cut in two.
"It would be just devastating," said Verlon Jose, vice chairman of the Tohono O'odham, told the Foundation.
"Walls are not the answer to the issues that we face ... Walls have never solved problems, whether that's in terms of immigration, in terms of militarization."
Border security could be boosted with more hi-tech tower systems that provide long-range surveillance, tracking and detection and by immigration reform allowing more migrants to work temporarily in the United States without having to sneak in, Jose said.
Native people globally have been blocked from sacred grounds, burial places and ancestral migration routes by borders and walls, said Christopher McLeod, director of the California-based Sacred Land Film Project who has documented sacred sites.
A study by U.S. geographer Reece Jones from the University of Hawaii found that in 1990 there were 15 border walls in the world — but now there are almost 70.
"When people are cut off from their land, from their sacred lands and their ceremonies, then the culture dies. Their spiritual vitality is weakened," McLeod told the Foundation.
"A border and a wall are not just symbols. They're very physical insults."
Many Ysleta, a tribe of about 4,200 members, live in low mudbrick houses on a dusty west Texas reservation, already rankled at needing the U.S. government's permission to visit the river.
Fencing guarded by U.S. Border Patrol agents divides Ysleta land from Mexico and from the river bed, and agents must unlock secured gates to let tribal members through. The fencing dates back to a previous U.S. border security effort in 2006.
"We've been doing that for 350 years, and now they want us to ask for permission? It's like you asking permission to go to church," said Sierra.
But arguments of religious and cultural freedom are not likely to hold much weight against the wall, said Gerald Torres, an expert on federal Indian law and a professor at Cornell Law School in Ithaca, New York.
Legal rights
A 1988 Supreme Court ruling allowed the U.S. Forest Service to build a paved road on land that had historically been used by American Indians for religious rituals, Torres said.
The ruling said the government could not operate if it had to "satisfy every citizen's religious needs and desires."
"Tribes' interest in religious ceremonies can't be used to stop the federal government from pursuing its objectives," Torres told the Thomson Reuters Foundation.
Some advocates have argued that Indian tribal rights under the 2007 United Nations Declaration on the Rights of Indigenous Peoples would be violated.
Members of other border-area tribes - such as the Cocopah, the Fort Mojave and the Pasqua Yaqui in Arizona and the Kickapoo who run a casino in Eagle Pass, Texas - have also spoken out against the wall.
Even the Carrizo/Comecrudo tribe, which has neither a reservation nor official recognition, says it would be harmed.
Carrizo/Comecrudo members lived at the river centuries ago before they were dispersed by war and forced migration, Tribal Chairman Juan Mancias told the Foundation.
"We have songs we sing to that river," said Mancias, who lives 200 miles northeast of the river in Floresville, Texas.
"With the border wall, they're disrespecting who we are."
About 700 miles of fencing and wall exist, built as part of the 2006 Secure Fence Act under former President George W. Bush.
But so far no funding for the entire wall is in place. A measure by Congress two months ago provided $1.6 billion for six months work on the wall. Trump asked for $25 billion.
The Trump administration has waived two laws concerning American Indians so it can build part of the wall in California.
One law protects the rights of tribes to human remains, sacred burial objects and other historic items, and the other law protects their religious and cultural practices.
Javier Loera, who holds the title of Ysleta War Captain, said the river has sustained his people for centuries.
"The river is like the veins of our mother earth. Sever those veins, and it's catastrophic", he told the Thomson Reuters Foundation.
[Funding for this story was provided by the International Women's Media Foundation].
VALORI. 13 giugno 2018. Tutti i nodo vengono al pattine, gli errori svelati, i colpevoli additati. Intervista a Paolo Berdini sulla lunga e tortuosa vicenda dello stadio della Roma oggi sotto i riflettori della giustizia. Con riferimenti (e.s.)
«L'intervista a Paolo Berdini, urbanista ed ex assessore della Giunta Raggi: “Lo stadio a Tor di Valle è un progetto che sfama solo interessi privati”»
Probabilmente saranno i 9 arresti legati alla costruzione dello stadio della Roma a determinarne lo stop. Ma in Campidoglio era arrivata anche una pila di ricorsi e atti di opposizione: 31 in tutto. Si sono opposti i comitati di pendolari e residenti, preoccupati per la viabilità che andrebbe in tilt, gli ambientalisti in allarme per l’Ecomostro e il rischio speculazione, il Codacons che giudica l’operazione “illegittima”, i Radicali. E ancora gruppi di ingegneri e architetti, compreso Paolo Berdini, urbanista di fama internazionale, assessore all’Urbanistica e Lavori Pubblici per 8 mesi durante la giunta Raggi, che ha spedito in Comune un suo documento per chiedere di fermare l’approvazione della variante urbanistica.
«Sulla questione “stadio della Roma calcio” i Cinquestelle e Virginia Raggi hanno cancellato le promesse fatte in campagna elettorale. Una inversione a U rispetto alle posizioni nettamente contrarie all’opera espresse quando Roma era guidata da Ignazio Marino».
Professor Berdini, il suo è stato uno dei soli quattro nomi di assessori rivelati dalla Raggi prima delle elezioni. In teoria avrebbe dovuto essere fra gli inamovibili. Che è successo invece?
È successo che ho dovuto osservare un progressivo cambio di rotta rispetto a quanto i Cinquestelle hanno sempre affermato quando erano all’opposizione, sia a Roma sia a livello nazionale.
Quando ha iniziato a collaborare con loro?
Ho iniziato nel 2013 con il gruppo 5 Stelle alla Camera per scrivere una legge per bloccare il consumo di suolo. Quel testo fu trasformato in una proposta di legge e pubblicizzato in giro per l’Italia. Poco dopo, i 4 consiglieri pentastellati al Comune di Roma (tra i quali la stessa Raggi), all’opposizione della giunta Marino, mi chiesero di collaborare alle azioni contro il progetto stadio. Nel programma quindi la loro posizione era chiarissima.
Poi con la vittoria alle elezioni comunali di giugno 2016, il cambio di rotta…
Sono stato scavalcato nella ricerca di un compromesso con Pallotta e soci. Una cosa molto grave, soprattutto perché dopo mesi di lavoro era arrivato il parere negativo dagli uffici dell’assessorato Urbanistica contro quello sciagurato progetto. E invece si riapre il “tavolo di confronto” con la speculazione fondiaria.
Non la stupisce che una forza politica di rottura, come affermano di essere i 5 Stelle, nonostante una clamorosa vittoria elettorale, abbia accettato quel progetto?
Ovviamente. Si avvertiva in città una tensione positiva enorme: dopo gli scandali dell’amministrazione Alemanno e Mafia capitale, governava Roma una forza pulita libera da interessi oscuri. Forse è mancata quella indispensabile cultura politica che può permettere di affrontare le sfide più difficili. Sullo stadio si sono spaventati di una eventuale richiesta di risarcimento da parte dell’AS Roma. Qualcosa di simile era già accaduto nei mesi scorsi per il progetto di recupero del compendio immobiliare dell’ex Fiera di Roma di via Cristoforo Colombo, ma in quell’occasione nella mia posizione ero stato spalleggiato da Marcello Minenna e Carla Raineri (assessore al Bilancio e capo di gabinetto, dimessisi a settembre in polemica con Raffaele Marra, ndr).
Ha ricevuto pressioni di gruppi finanziari per un via libera al progetto?
Personalmente no. Ma è evidente che importanti istituti bancari hanno interesse a poter finanziare un progetto faraonico come questo. E alla stessa Unicredit conviene se Parnasi, che è un importante debitore della banca, si rafforza economicamente.
E i 5 Stelle che vantaggio traggono?
Avevano già detto no alle Olimpiadi – secondo me a torto perché avrebbero potuto dimostrare all’Italia intera come si può trasformare un grande appuntamento spesso segnato da sprechi e scandali in un’opportunità di rilancio per la città. Ma non hanno accettato la sfida. Eppure si trattava di un progetto pubblico interamente finanziato dallo Stato. Il paradosso è che hanno rifiutato un’opera pubblica come sarebbero state i Giochi olimpici e invece hanno detto sì a un progetto che soddisfa esclusivamente appetiti privati. Forse qualcuno all’interno di quel movimento pensa che per arrivare al governo nazionale qualche prezzo vada pagato…
Dal punto di vista tecnico, che ne pensa dell’accordo trovato tra il Comune e la AS Roma?
Ho sempre detto che nell’area di Tor di Valle, a forte rischio idrogeologico e completamente avulsa dal tessuto urbano della città, anche costruire un solo metro cubo di cemento è un errore. E ho al contrario sempre perorato l’ipotesi di costruire il nuovo stadio altrove, dove sarebbe potuto diventare un’opportunità di sviluppo di una periferia, come nella zona di Torre Spaccata, nella periferia sud-est di Roma. Solo per aver espresso la mia opinione sono stato vergognosamente accusato di favorire interessi di altri proprietari terrieri. La macchina del fango si era messa in moto.
A Roma c’è lo Stadio Olimpico. Poi c’è il Flaminio, considerato un gioiello di architettura ma che cade a pezzi abbandonato. Ma serve davvero un terzo stadio?
Quelle due strutture esistenti andrebbero profondamente rimaneggiate per renderle adeguate alle attuali esigenze ma sono intoccabili perché sottoposte a vincolo monumentale. Forse si sarebbe potuto avviare – come è stato fatto per lo stadio del tennis del Foro italico – un serio rapporto con le Soprintendenze per permettere mutamenti rispettosi delle caratteristiche dei manufatti così da evitare di avere zone abbandonate in piena città. Ma ho accettato pure la sfida di un altro stadio, se collocato in un luogo che potrebbe trasformarlo in un beneficio per l’intera comunità. Del resto, la legge sugli stadi è in vigore e chi amministra deve rispettare le leggi dello Stato.
Quindi esistono grandi opere compatibili con l’interesse collettivo?
Sì. A patto che sia il potere pubblico, a partire dall’amministrazione comunale, a guidare i giochi, decidendo dove vanno fatte e in che modo. Altrimenti è solo un favore ai poteri forti. E purtroppo la storia urbana di Roma negli ultimi venti anni, e cioè da quando trionfa l’urbanistica contrattata, è un ignobile campionario delle più spregevoli speculazioni immobiliari.
A proposito dei poteri forti: questa vicenda dimostra che essere onesti non basta. Che cosa serve per contrastarli davvero?
Bisogna essere preparati e aver studiato. Tanto.
Sull'argomrnto eddyburg ha pubblicato tra l'altro gli articoli di Piero Bevilacqua, Uno stadio salverà Roma, di Vezio De Lucia Stadio della Roma: tutti d'accordo, pagherà Pantalone , di Salvatore Settis, Come uno zombie riemerge dal passato, di Annamaria Bianchi, Il nuovo stadio della Roma. Eddyburg aveva raccolto numerose adesioni a un appello dell'ottobre 3016 , Appello Lo stadio come cavallo di Troia:
opendemocracy.org. 9 June 2018. L'importanza della qualità dello spazio, e di come povertà, stigmatizzazione e ghettizzazione sono responsabili nello scatenare forme di trasgressione, anche di fanatismo religioso. (i.b.)
THE JIHADOGENOUS URBAN STRUCTURE
Farhad Khosrokhavar
These individuals feel coerced by the predicament of being neither French nor Arab, neither Pakistani nor English... they bear the stigma of double ‘non-identity’.
By jihadogenous urban structure I mean an urban setting that is the venue for jihadist callings, at a much higher rate than in the other districts of the city.
In Europe, one of the significant and even essential factors of jihadist radicalization is the city. Not any city. But a type of district within the city that we may call the jihadogenous urban structure.
In almost all European countries there are neighborhoods where the number of young people leaving for Syria (foreign fighters) as well as the number of followers of internal jihadism (homegrown jihadists) are much higher than the national average. The trial of the survivors of twenty young people who joined Syria between 2013 and 2015 from the southern French town of Lunel is a case that is replicated in other European countries in more or less similar forms. In Lunel, it is the social housing district of Abrivados, in which a significant number of young people were indoctrinated by the extremist Islamic holy war ideology.
Jihadist concentration in some neighborhoods may be due to two distinct types of effects:
- because, within these neighbourhoods, young people have known each other through formal or informal networks, friends, or members of the same family and their ties; the district may be that of the middle classes, without any apparent sign of disadvantage among candidates for the holy war; this type of neighborhood and the calling of the middle classes towards Jihadism are largely in a minority in Europe.
- because of the specificity of the urban structure: the concentration of young people of similar ethnic origin (in France, North Africa, Great Britain, Pakistan and Bangladesh, in Belgium, Morocco ...) in areas with the following characteristics: stigmatization and anger among a part of the population; ghettoisation and the development of an underground economy (which attracts a part of the youth and predisposes them towards any form of transgression in contrast to the norms in force); a much higher unemployment rate than the national rate (in Lunel, around 20% and double this rate for young people of immigrant origin); a very high school drop-out rate; a delinquency rate well above the national average; a feeling of high stigmatization among young boys, mostly of immigrant origin; a fragmented family structure: decapitated patriarchal families, single-parenthood and family instability, with the development of violence within the family and the children's homes (the Merah and Nemmouche families in France shared these characteristics); a strong sense of stigma, largely based on everyday life experience, amplified by the "aggressive" behavior of excluded youth who feel themselves victims of society; the isolation of the neighborhood which is more or less separated from the city for objective reasons (the absence of subway or bus lines) and partly imaginary (a line of mental demarcation often separates the stigmatized neighbourhood from other areas awakens in these young people the feeling of a dichotomous humanity where communication between the two is impossible).
This type of urban structure shapes the identity of those who are socially excluded, and culturally stigmatized. They internalize social exclusion and make it an identity principle as well as a way of life. In turn, victimization accentuates exclusion and becomes an aggravating factor insofar as the individual separates himself from society and no longer tries to enter it through normal channels.
In the majority of cases, this type of individual is of immigrant origin with a background that makes him a social reject or someone who suffers from "relative deprivation" (especially in the Scandinavian countries) or poverty and is at the same time treated as culturally inferior. They are often economically marginalized, and they internalize this predicament and define themselves in an antagonistic manner towards society. To ensure their social promotion they become deviant, members of gangs or more or less outlaw groups. In France, most of these districts are in the suburbs and are called “(poor) suburbs” (banlieues). Sometimes, the segregated district is not outside the city but part of it (like the “Northern districts” that are part of the city of Marseille or Neuhof, part of Strasbourg).
The suburban structure or that of isolated, poor and "segregated" neighborhoods within the big city (as in Waltham Forest in London) or in the small town where exclusion and stigmatization are even more accentuated (Lunel) in many cases promotes jihadism. This model is not only French. It is less common, it is true, in Germany (one finds it in the Lohberg district of the city of Dinslaken), Sweden (Malmö in his district of Rosengärd ...), Belgium (Molenbeek and Vilvoorde ...), Denmark (in Copenhagen the district of Mjolnenparken and Norrebro...), in Holland (in Amsterdam, Omertoomseveld district ...) ...
Non-citizenship
In everyday language a whole vocabulary is found in Europe to emphasize the non-citizenship of these sons or grandsons of immigrants (girls and granddaughters are perceived differently and generally behave differently): they are modestly called in Sweden "non-ethnically Swedish" individuals, much like the "French on paper" in France, "Passdeutschen" in Germany (those who have a German passport – but are not genuine Germans) and even more pejorative in England the "Pakis" (of Pakistani or more largely Southeast Asian origin, with a strong depreciative nuance), in Denmark the "Perker" (with the same pejorative as the Paki in English), "Arab", "Bougnoul", "Bicot", "Beur”, pejorative expressions in France...
Mirror game
These individuals feel coerced by the predicament of being neither French nor Arab, neither Pakistani nor English... they bear the stigma of double “non-identity” (in France they are “dirty Arabs”, in Algeria, they become “dirty, arrogant Frenchmen”). They find a substitute identity in Islam, and by espousing it they put an end to their dual non-identity.
In response, they develop characteristics that accentuate their non-citizenship through aggression, a gesture perceived as threatening by others, ways of being that are considered provocative. In terms of language they develop their own slang about the locals they do not belong to as "babtou" (the white), "gaouri" in France ... Racism and counter-racism inextricably mix in a mirror game. The transition to jihadism of a small minority of them restores, on the imaginary plane, pride, even dignity in opposition to society, legitimizing blind violence against it.
Hotbeds
Poor districts in a large global city can become “hotbeds” (1) of Jihadism: East London, in which Tower Hamlets, Newham and Waltham Forest have concentrated half of Jihadists in London is a case in point.
On the whole, in Great Britain, more than three quarters of the jihadist acts have been perpetrated by individuals coming from poor districts and almost half of the jihadist acts have been committed by people living in the poor districts (2).
Sometimes the association of two cities or a city and an agglomeration in another city promotes jihadism : one can quote several cases of this nature in France like Toulouse-Artigat and Cannes-Torcy.
Often the proximity of a poor and a rich neighborhood can give rise to forms of frustration and indignation favoring jihadism. There is certainly no strict causality, but this urban phenomenon is found in many European cities where jihadism has developed. This is the case of North Kensington, where Grenfell Tower caught fire on June 14, 2017, causing at least 79 deaths. This district is part of the 10% of the poorest neighborhoods in England but at the same time rubs shoulders with wealthy neighborhoods where luxury hotels are bought up by foreign owners who rarely live there. This is also the case of social housing in Parisian districts in the process of gentrification, such as the nineteenth district, where members of the network of Buttes-Chaumont also live, for the most part in public housing areas. This is also the case of the young people of Molenbeek in Belgium: in this district, poverty is adjacent to other neighborhoods in the process of gentrification. We find these same phenomena in the city of Nice in France (the district of Ariane).
The history of the last half a century can also play a significant role. In Nice, the establishment of the members of the FIS (Islamic Salvation Front) and, later, the GIA (Armed Islamic Group) in the 1990s after the military coup in Algeria that ousted the Islamic group, the Islamic Salvation Front, had a significant impact on the indoctrination or even the radicalization of a part of the population of immigrant origin in the following decade.
Even if the city does not explain everything, most European jihadists come from areas, cities or regions relatively well circumscribed in space, mostly poor, stigmatized and inhabited by sons and grandsons of immigrants.
jihadists can also be recruited in middle-class neighborhoods, but here it is the malaise of middle-class youth, the absence of utopia, the fear of social downgrading and an often atomized and anomic individualism that are at the origin of radicalization for a youth that can no longer refer to the ideals of the extreme left. In the latter case, the urban structure does not play the same role as in the case of poor neighborhoods. Still, the latter case is by far the majority among European jihadists.
In short, Europe is sick of its enclaved and impoverished neighborhoods where young people, mostly of immigrant origin and economically marginalized, are locked up. Not knowing how to integrate them, and as long as this urban structure is not challenged, we can expect either jihadism or a frenzied delinquency in an enclosed environment where at the same time we have the development of a puritanical and sectarian religiosity, a pietist Salafism.
10 giugno 2018. Il padiglione di Israele alla Biennale di Architettura non solo solleva indignazione per l'arrogante e propagandistico occultamento dello spazio negato ai palestinesi, ma anche per il consenso che la Biennale sembra esprimere. (i.b.)
«Free space» è il titolo quest'anno per la 16° mostra internazionale di architettura La Biennale di Venezia. Nell'intenzione dei curatori spetta all'architettura progettare lo spazio libero e gratuito, lo spazio della condivisione e della socialità. Essa è «espressione della volontà d'accoglienza» - scrive il direttore Paolo Baratta - «progetto ispirato da generosità (…) la quale non può essere solo auspicata (..) ma promossa». Bellissime parole che incoraggiano il visitatore alla riflessione e all'esplorazione dei singoli padiglioni.
Grande è stata la mia sorpresa entrando nel padiglione di Israele. Gli architetti israeliani propongono come esempi di condivisione le città occupate dal loro esercito. Sogno o son desta?
Gli esempi di questa «splendida condivisione» si riferiscono tutti a città palestinesi: Al -Kalili (Hebron), Betlemme, Gerusalemme est. Ma perché non condividiamo Tel Aviv o Haifa dove ai Palestinesi è negato l'accesso? - mi domando - Sono forse entrata nel padiglione palestinese?
No, mi trovo nel padiglione di uno stato colonialista che considera sua proprietà un paese che non gli appartiene.
Salendo al piano superiore scopriamo cosa è successo là dove sorgeva la Tomba di Rachele presso la città palestinese di Betlemme. Un santuario venerato da tutte e tre le religioni «negli ultimi tempi è stato drasticamente trasformato» scrive la didascalia. Certo: qualcuno gli ha costruito attorno un muro alto 8 metri, ha incorporato i terreni palestinesi circostanti, ha tagliato le strade di accesso e vietato l'ingresso ai non ebrei: «il sito mostra come il paesaggio divenga mezzo di scambio tra il territorio e gli eventi che lo modellano» ci spiegano gli architetti. Parole vuote per nascondere la violazione del diritto. Il muro dell'apartheid lungo 800 km, in costruzione dal 2002, è dichiarato illegale dall'ONU.
Sulla strada per la Tomba di Rachele. Foto di Gili Merin. [presa dal dépliant del padiglione] |
Un altro paradigma affascinante di free space è illustrato dal caso del quartiere arabo di Al-Buraq, raso al suolo in una sola notte nel giugno del 1967 per permettere agli ebrei di accalcarsi numerosi sotto il Muro del Pianto. Non che prima fosse inagibile tale muro, ma serviva più spazio. «Una tabula rasa aperta all'interpretazione» così scrive il testo sotto la foto di una ruspa che demolisce case palestinesi. Ed ora sotto il Muro del Pianto c'è così tanto spazio (a percorrerlo sembra un parcheggio) che da 50 anni si discute che farne senza sapersi decidere: tali incertezze riflettono – scrive il depliant del padiglione – «il conflitto per la definizione del carattere e dell'identità nazionale nello stato di Israele post-1967».
Demolizione del quartiere dei Mugrabi. Giugno 1967. Foto di David Rubinger. [presa dal dépliant del padiglione] |
La mostra prosegue con altri edificanti esempi del genere, tutti comunque incentrati sui luoghi di culto; la propaganda nazionalista israeliana preferisce presentare la guerra contro i palestinesi come una guerra di religione e tace dell'esproprio di terra, risorse idriche e sbocchi commerciali ai danni del popolo autoctono. Tace delle demolizioni di case e quartieri arabi, tace della costruzione di migliaia di alloggi per soli ebrei su terreno palestinese. Abbiamo provato a sollevare qualche dubbio con la vigile guardasala ma lei, in tutta tranquillità, ci ha risposto: «la Palestina non esiste: che problema c'è?». Insomma i lavori esposti nel padiglione di Israele sono un'offesa all'intelligenza dei visitatori, nonché un insulto all'istituzione stessa de La Biennale.
Un'istituzione culturale che si professa libera, aperta e all'avanguardia, che si offre come laboratorio di idee innovatrici e democratiche, e che invita artisti ed architetti a porre le proprie opere al servizio del benessere dell'umanità, non dovrebbe accettare nei suoi spazi opere di pura propaganda.
«In Statu Quo» è il titolo del lavoro esposto nel padiglione: la politica dello status quo è quella che permette al governo israeliano di mantenere da decenni una delle più brutali occupazioni che la storia ricordi senza rendere conto a nessuno dei suoi crimini. Infatti come sottotitolo a «In Statu Quo» troviamo la definizione «Structures of Negotiation», quando è palese a tutti che le negoziazioni sono ferme da decenni e che questa situazione di stallo giova solo a Israele che espande sempre più i suoi confini in terra palestinese. In calce al titolo, i curatori citano Giulio Cesare, l'autore della frase latina che in italiano si legge: «nello stato in cui le cose erano prima della guerra». Ma di quale guerra stiamo parlano? La Grande Guerra che vide crollare l'impero ottomanno? Oppure quella del 1948 dopo la proclamazione dello stato di Israele, o quella del 1967 che ha prodotto l'invasione della Cisgiordania? O forse di quella permanente che sconvolge la Palestina da quando ha preso forma il progetto di insediamento coloniale ebraico? Da quale status vogliamo partire per ricostruire la pace?
The conversation. 7 maggio 2018. Un altro dato allarmante sulla turistificazione: il turismo globale produce complessivamente circa l'8% delle emissioni globali di gas serra. (i.b.)
The carbon footprint of tourism is about four times larger than previously thought, according to a world-first study published today in Nature Climate Change.
Researchers from the University of Sydney, University of Queensland and National Cheng Kung University – including ourselves – worked together to assess the entire supply chain of tourism. This includes transportation, accommodation, food and beverages, souvenirs, clothing, cosmetics and other goods.
Put together, global tourism produces about 8% of global greenhouse gas emissions, much more than previous estimates.
Tourism is a trillion-dollar industry, and is growing faster than international trade.
To determine the true emissions produced by tourism, we scanned over a billion supply chains of a range of commodities consumed by tourists. By combining a detailed international trade database with accounts tracking what goods and services tourists bought, we identified carbon flows between 160 countries from 2009 to 2013.
Our results show that tourism-related emissions increased by around 15% over that period, from 3.9 gigatonnes (Gt) of carbon-dioxide equivalent (CO₂-e) to 4.5Gt. This rise primarily came from tourist spending on transport, shopping and food.
We estimate that our growing appetite for travel and a business-as-usual scenario would increase carbon emissions from global tourism to about 6.5Gt by 2025. This increase is largely driven by rising incomes, making tourism highly income-elastic and carbon-intensive.
In the study, we compared two perspectives for allocating responsibility for these emissions: residence-based accounting and destination-based accounting. The former perspective allocates emissions to the country of residence of tourists, the latter to the country of destination. Put simply, are tourism-related carbon emissions the responsibility of travellers or tourist destinations?
If responsibility lies with the travellers, then we should identify the countries that send the most tourists out into the world, and find ways to reduce the carbon footprint of their travel.
On the other hand, destination-based accounting can offer insights into tourism spots (like popular islands) that would benefit most from technology improvements and regulations for reducing the carbon footprint of tourism.
Tracking emissions under destination-based accounting over a specific period could help researchers and policymakers to answer questions about the success of incentive schemes and regulations, and to assess the speed of decarbonisation of tourism-related sectors.
So how do countries rank under the two accounting perspectives? The United States is responsible for the majority of tourism-related emissions under both perspectives – many people travel both from and to the US – followed by China, Germany and India.
But on a per-capita basis, the situation looks rather different. Small island destinations have the highest per-capita destination-based footprints. Maldives tops the list – 95% of the island’s tourism-related emissions come from international visitors.
Tourists are responsible for 30-80% of the national emissions of island economies. These findings bring up the question of the impact of tourism on small island states.
Small islands depend on income from tourists. At the same time, these very tourists threaten the native biodiversity of the islands.
Small island states typically do not have the capacity to embrace technology improvements due to their small economies of scale and isolated locations.
Can we lend a helping hand? Directing financial and technical support to these islands could potentially help with efforts to decarbonise their infrastructure. This support would be a reflection of the share of consumer responsibility, especially from developed nations that are “net travellers”.
Maldives, Mauritius and other small islands are actively exploring ways of building their renewable energy capacity to reduce the carbon intensity of local hotels, transport and recreational spots.
We hope that our study provides a starting point for conversations between the public, companies and policymakers about sustainable tourism.
Ultimately real change will come from implementing regulations and incentives together to encourage low-carbon operations. At a personal level, though, it’s worth looking at the carbon-cost of your flights, choosing to offset your emissions where possible and supporting tourism companies that aim to operate sustainably.
11 giugno 2018. Contributo di eddyburg alla "Marcia per la dignità di Venezia", una città che come molte altre è stata ridotta a macchina per il profitto perdendo il suo originario ruolo di spazio per la vita.
Venezia non è solo l’espressione di una comunità locale, ma un esempio emblematico di un modello di sviluppo e di governo tipico di questa fase del capitalismo, finalizzato all’estrazione di profitto e mercificazione di ogni componente della nostra vita. Questo modello ha delle caratteristiche urbane specifiche, le principali possono essere così schematizzate:
Bisogna, di nuovo rivendicare il diritto alla città, cioè difendere la città come spazio vitale. Venezia non è più, come tanti altri insediamenti nel mondo, uno spazio adatto alla vita umana, ma si è trasformata in una macchina per il profitto, il profitto di pochi. Rivendicare la città e tutti gli insediamenti, periferie, villaggi, quartieri, paesi come spazio vitale significa:
1. Riappropriarsi dello spazio fisico, dagli spazi pubblici a tutti gli spazi e servizi utili alla vita quotidiana; spazi salubri e accessibili a tutti. Il diritto a un alloggio dignitoso a un prezzo commisurato al reddito.
2. Riconquistare lo spazio delle relazioni sociali, schiacciate e impoverite dalle disparità create dal capitalismo, che ci frammenta e divide e sprona all’individualismo attraverso l’esaltazione della concorrenza. Dobbiamo mettere al centro cooperazione, solidarietà e mutualismo.
3. Ricostruire lo spazio della politica, oggi connotato da autoritarismo, maschilismo, personalismo e tifoseria acritica. Significa rivendicare il diritto di partecipazione di tutti alle decisioni che riguardano la vita di tutti. Significa anche riportare la politica al suo originale mandato, quello di riconoscere un problema comune e risolverlo nell’interesse di tutti.