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». Millennio urbano, 3 marzo 2015


Svante Myrick aveva 24 anni quando è stato eletto alla guida dell’amministrazione di Ithaca, una città dello stato di New York che deve la propria notorietà alla Cornell University che qui ha sede. Cresciuto senza il padre (nero), dalla madre (bianca) tra mille difficoltà economiche, il quasi ventottenne of color deve molto del proprio impegno politico alla lettura dell’autobiografia di Barack Obama.

In una lunga intervista recentemente apparsa sul Washington Post, Myrick ha elencato le linee guida del proprio mandato, giunto quasi al termine, dalle quali si può desumere un’idea piuttosto chiara di città, che passa anche da piccole ma significative rivoluzioni in campo urbanistico. Esse riguardano sostanzialmente i cambiamenti che vanno intrapresi in relazione al flusso in controtendenza che dal suburbio americano sta convogliando nuovi abitanti nelle aree urbane centrali. Il tutto si traduce in più densità edilizia anche a costo di derogare le regole sui posti auto, una presenza che dal secondo dopoguerra è diventata dominante non solo nelle città americane.

Myrick , da Millennial qual è, vede nell’urbanistica non solo un argomento di tendenza, «una moda passeggera buona per gli hipster», ma il punto centrale del proprio operato di sindaco. Se la sua generazione sta tornando a far crescere la popolazione delle città («Quante persone conoscete che sono desiderose di vivere in un sobborgo?» si chiede) la risposta non può che essere un tessuto urbano più denso, che consenta alle persone di camminare anziché usare l’auto e che faccia del parcheggio una presenza tendenzialmente inutile nel paesaggio urbano. Egli è convinto che la sostituzione del paradigma suburbano dipendente dall’auto con uno stile di vita basato sulla connettività del tessuto urbano «sia un cambiamento permanente. Al contrario penso che ciò che abbiamo vissuto negli ultimi 50 anni sia stato un passaggio temporaneo. Le città europee, che ammiriamo e dove amiamo andare in vacanza sono piene di persone e di luoghi, non di parcheggi».

Il giovane sindaco crede innanzitutto al potere dell’esempio: appena entrato in carica ha venduto la sua auto e da allora si reca ogni giorno nel suo ufficio a piedi o con l’autobus compiendo un viaggio di oltre tre chilometri tra andata e ritorno. «E’ importante che la gente mi veda sull’autobus o a camminare con il mio zaino sulle spalle da e verso il municipio, davanti al quale c’è un posto auto a me riservato.»

Myrick decise ad un certo punto di trasformare il parcheggio più ambito della città in qualcosa d’altro. «Abbiamo preso alcune panchine da uno dei nostri parchi cittadini e abbiamo utilizzato un albero che doveva essere abbattuto per farne delle fioriere. Abbiamo aggiunto un cartello che diceva “e amici.” Così la scritta ora è “per il sindaco e amici”. Abbiamo trasformato il parcheggio riservato al sindaco nel più piccolo parco nella città. E’ davvero molto piccolo, ma è stata la prima di altri grandi cambiamenti che abbiamo introdotto.» aggiunge, riferendosi alla diminuzione del tasso di disoccupazione – il più basso di tutto lo stato di New York – e al miglioramento del bilancio municipale.

Il simbolico mutamento del parcheggio in un piccolo spazio per la sosta delle persone, anziché delle auto, ha innescato una riflessione nella cittadinanza sul modo in cui ci si muove in città. Myrick sottolinea come lo spazio pubblico sia stato progressivamente dedicato alle auto anziché alle persone: « E’ dal 1950 che togliamo spazio alle persone per darlo alle auto. Così lo spazio per i parcheggi è andato crescendo tra un edificio e l’altro, al punto che ora, se si vuole andare a fare la spesa, si deve guidare, perché andarci è troppo lontano da raggiungere a piedi».

I vantaggi che una città più densa e percorribile a piedi può garantire sono anche di tipo economico. A differenza di un edificio, un parcheggio non genera entrate per le casse comunali, mentre se si tratta della sede di un’attività economica la convenienza nel fare a meno dello spazio dedicato alle auto passa anche dall’incremento delle prospettive occupazionali.

Insomma il «ragazzo del parcheggio», come lo chiamano amichevolmente i suoi concittadini, a partire da un gesto simbolico e dal proprio esempio ha dimostrato cosa vuol dire amministrare una città di trentamila abitanti (la cui significativa particolarità è di avere una popolazione studentesca pari ai due terzi i propri residenti) ribaltando il paradigma dominante basato sul mezzo motorizzato individuale. Un’idea di città calibrata dagli spostamenti a piedi del giovane sindaco, cresciuto in un villaggio rurale dove ci sono più mucche che abitanti, le cui gambe riescono a concretizzare la «misura d’uomo» di tradizione europea a cui egli si ispira.

Riferimenti
J. Guo, The future of urbanism according to the 27-year-old mayor of Ithaca
, The Washington Post, 27 febbraio 2015.

Forse è giunta l'ora di affidare ai privati, per project financing, la realizzazione e gestione delle istituzioni, fino a oggi attribuita al popolo dalla costituzione della Repubblica italiana. Il Sole 24ore, "Edilizia e Territorio", 3 marzo 2015

Per la prima volta un carcere in project financing. Accadrà a Bolzano: la Società Italiana per Condotte d'Acqua – in raggruppamento temporaneo di imprese con Inso (società controllata dal Gruppo Condotte) – si è aggiudicata la gara della Provincia autonoma (il bando era del 15 luglio 2013) per la progettazione, la costruzione e gestione della nuova casa circondariale della città altoatesina.
Il valore complessivo della gara è di 54 milioni di euro, il 67% dei quali a carico del privato (36,18 milioni) e il rimanente 33% (17,82) a carico del pubblico. La durata della concessione sarà di 18 anni, di cui due anni e tre mesi previsti per la realizzazione dell'opera. La struttura – che sorgerà nella zona sud di Bolzano, vicino all'aeroporto, su un'area di 18mila metri quadrati – potrà ospitare 220 detenuti, 100 operatori di polizia penitenziaria, con 30 posti per agenti in caserma e 25 unità di personale civile. Fuori dalla cinta muraria – precisa una nota di Condotte – sono previsti il controllo accessi, la direzione e i relativi alloggi e la sezione dei detenuti semiliberi. All'interno, invece, oltre alla sezione di reclusione, saranno ricavati l'infermeria, gli spazi per il lavoro, una sala polivalente, un campo da calcio a sette, una palestra, la cucina e la lavanderia.
La fase gestionale prevede più servizi: la manutenzione ordinaria e straordinaria, la gestione delle utenze, i servizi mensa, lavanderia e pulizia, nonché la gestione delle attività sportive, formative e ricreative. «È una novità assoluta in Italia – commenta Duccio Astaldi , presidente di Condotte – e ci affascina l'idea di essere pionieri in questo settore, come ci è più volte capitato nella nostra storia in mercati e Paesi diversi. L'eterogeneità dei servizi previsti dalla gara non è un problema, ma al contrario esalta la nostra natura di general contractor».

Quelli che Condotte gestirà per la nuova casa circondariale di Bolzano sono servizi che il terzo general contractor italiano già svolge in altre situazioni. Nel caso specifico del carcere di Bolzano, sono richiesti protocolli di sicurezza molto stringenti. I detenuti, oltre a essere impiegati in alcuni servizi interni (mensa, pulizia), saranno coinvolti in laboratori teatrali e musicali e in corsi professionalizzanti. Ora è solo questione di tempi: si parte dalla conferenza dei servizi per poi giungere all'approvazione del piano esecutivo definitivo.

Il capitale punta sugli italiani ricchi e spendaccioni. Intanto, chi paga è il territorio. Il Sole-24 Ore, 2 marzo 2015

I centri commerciali scommettono contro la crisi e proseguono nei loro piani di sviluppo con oltre venti progetti. Nel prossimo triennio sono in arrivo circa un milione di metri quadri di spazi commerciali che avranno un valore a portafoglio tra i 4 e i 5 miliardi
«Sono ripartiti i cantieri e il 2015 sarà l' anno della svolta», dice Massimo Moretti, presidente del Consiglio nazionale dei centri commerciali. Un piano da circa un milione di metri quadri di spazi affittabili. I centri commerciali scommettono contro la crisi e inseguono lo sviluppo del comparto con 22 nuovi progetti in essere, di cui nove in fase di costruzione e i restanti allo stato progettuale.
Operazioni che una volta ultimate avranno un valore finale a portafoglio tra i 4 e i 5 miliardi.

Questa la stima di Massimo Moretti, presidente di Cncc, il Consiglio nazionale dei centri commerciali, che raggruppa anche i parchi commerciali e i factory outlet, commentando l' elenco dei progetti: «Negli ultimi due anni sono ripartiti i cantieri e il 2015 sarà l' anno della svolta, con l' inaugurazione di importanti centri, in uno scenario ben intonato». È l' atteso rimbalzo dopo il tracollo subìto all' inizio della crisi, quando il comparto ha accusato le conseguenze del credit crunch.
Quando questa ondata di nuovi shopping center sarà ultimata il settore supererà i 18 milioni di metri quadri di superfici disponibili con un aumento del 6 per cento. La maggior parte delle operazioni sono promosse da capitali esteri. «L' 80% degli investitori sono stranieri, anche se fanno fatica a muoversi tra le autonomie locali e le leggi regionali del commercio che frenano lo sviluppo - aggiunge Moretti -.Per operare serve maggiore omogeneità».

Tra tutti i progetti spiccano due mall che si preannunciano colossali. Il primo è il Westfield Milan, promosso da Arcus Real Estate (controllata da Stilo immobiliare finanziaria, holding delle attività immobiliari di Percassi) e il colosso australiano Westfield. Sorgerà a pochi chilometri dall' aeroporto di Linate e inizialmente si svilupperà su una superficie di circa 170mila metri quadri, che diventeranno circa 250mila nella fase 2. Nel complesso un progetto da 1,3 miliardi di euro: un villaggio del lusso con circa 50 boutique, oltre al department store Galeries Lafayette, il primo in Italia. C' è poi il centro commerciale Pescaccio a Roma, oltre 135mila metri di spazi commerciali, a cui si aggiungeranno un cinema multisala e aree multifunzionali. Nella capitale si lavora anche al Centro commerciale Laurentino e all' area di Selva Candida.
Nei dintorni di Milano sono in fase avanzata i lavori dell' Arese shopping center, progetto del Gruppo Finiper di Marco Brunelli, che sorgerà negli spazi della ex fabbrica dell' Alfa Romeo. Un investimento da oltre 300 milioni per creare un polo dello shopping con 200 negozi e un tratto distintivo forse unico al mondo: un circuito automobilistico storico. «A maggio verrà inaugurato il tracciato della pista di collaudo» anticipa Francesco Ioppi, direttore real estate del Gruppo Finiper. Lo shopping center verrà invece inaugurato nel primo semestre 2016.
«La fase di prenotazione degli spazi è avanzata e prevediamo di chiuderla a giugno - continua Ioppi -. Ci saranno brand innovativi, non ancora presenti in Italia». Oltre a riqualificare un' area industriale il mall avrà un bassissimo impatto ambientale «grazie alla certificazione Leed gold».
Anche nel Mezzogiorno si stanno sviluppando diverse iniziative, ma di dimensioni inferiori, in media tra i 30 e i 45mila metri di spazi commerciali. Due i centri in Puglia, a Bari e a Foggia; in Campania è previsto il Policentro Afragola, nei dintorni di Napoli, mentre a Catanzaro è prevista La Perla shopping center. È entrato nella fase 2 il Sicilia outlet village (Gruppo Percassi), che così raggiungerà i 145 store.
Altri centri commerciali sono previsti a Trento, a Faenza, in provincia di Ravenna, e ben tre nei dintorni di Verona. Come in una partita a dama il commercio moderno sta conquistando tutte le province della penisola.


«Non è la prima volta che gli amministratori della Val di Susa invitano gli altri comuni d’Italia a sfilare al loro fianco. Ma oggi la valle che resiste chiede agli extravalligiani di andare oltre la semplice condivisione di uno striscione in un corteo. Chiede atti veri, chiede UGO! l’Unica Grande Opera». Il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2015

Se vi capita di partecipare ad un’assemblea di uno qualsiasi delle migliaia di comitati in difesa del territorio che esistono ad ogni latitudine del nostro paese, ad un certo punto dell’incontro sentirete sicuramente qualcuno degli attivisti pronunciare la frase: “Dobbiamo fare come in Val di Susa!”. Chi si oppone alla cementificazione, chi resiste a una grande opera, chi protesta per difendere il paesaggio, negli ultimi anni ha quasi sempre fatto riferimento, in piccola o in grande parte, al movimento che in Val di Susa ha lottato e lotta contro il TAV. Dall’altra parte della barricata, il partito dei politici, degli immobiliaristi e dei lobbisti delle grandi opere, hanno sempre accusato i movimenti ambientalisti di essere soltanto “quelli del no”, di non avanzare proposte, di saper fare solo proteste. Sabato 21 febbraio 2015, si è svolta a Torino l’ennesima manifestazione Notav.

Questa volta però non è stata la solita manifestazione. Il serpentone non ha solo manifestato solidarietà ai 48 militanti Notav che sono stati condannati ad oltre 140 anni di carcere (130 anni in più degli autori della strage del Vajont) e al risarcimento di 131.140 euro. Non c’erano solo i cartelli “Je suis Erri!”. Accanto all’indignazione per l’aggressione al territorio della Valle lunga e stretta già abbondantemente sventrata c’era un pezzo in più. C’era la risposta a chi dice che chi si oppone non è propositivo. C’erano tante belle delibere di Consiglio Comunale. Delibere piene zeppe di proposte concrete per uscire dalla crisi. Proposte per curare il paese e creare veri e duraturi posti di lavoro. Delibere che invitano il Governo ad azioni responsabili.
Non è la prima volta che gli amministratori della Val di Susa invitano gli altri comuni d’Italia a sfilare al loro fianco. Ma oggi la valle che resiste chiede agli extravalligiani di andare oltre la semplice condivisione di uno striscione in un corteo. Chiede atti veri, chiede UGO! Chi è UGO? Non è il nome del figlio immaginario del caro Massimo Troisi. UGO è l’Unica Grande Opera di cui il paese ha una necessaria e improcrastinabile esigenza: la messa in sicurezza del suo fragile territorio. La delibera che chiede UGO è semplice. Prende le mosse dalla situazione di difficoltà e di precarietà finanziaria che tutti i comuni vivono quotidianamente da almeno vent’anni. Ma la proposta va anche oltre UGO. Perché con i soldi risparmiati se si rinunciasse definitivamente al TAV si potrebbero anche mettere in sicurezza tutte le scuole, si troverebbero le risorse per la sanità, per le bonifiche delle terre dei fuochi, per la giustizia, per i tanto reclamizzati processi rapidi e sicuri che dovrebbero incentivare maggiori investimenti dall'estero, per l'Università, per la ricerca e per la formazione, per la lotta all'evasione fiscale, per la manutenzione e il potenziamento dei 5.000 km di ferrovie per i pendolari che rappresentano il 90% degli utilizzatori dei treni.

Se lo chiedesse la maggioranza dei comuni d’Italia? Se UGO nascesse davvero? Sarebbe un’altra Italia.

Postilla
E se insieme chiedessimo ( e magari ottenessimo) l'eliminazione delle spese per le guerre della NATO? Forse le istituzioni potrebbero aiutare il risveglio del pacifismo in Italia

Il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2015

Santa Margherita (Genova). Non è sufficiente il no di Renzo Piano. Non conta il parere di migliaia di cittadini, la battaglia di comitati e associazioni ambientaliste. Non importa neppure se milanesi e torinesi sono pronti ad abbandonare in massa le seconde case in Riviera. Insomma, non basta che questa politica folle si sia dimostrata un fallimento, per l’ambiente, ma anche per l’economia, per le tasche della gente.

Una nuova colata di cemento è pronta a scendere sul Monte di Portofino: nuovi moli e costruzioni a Santa Margherita. Mentre a Camogli si annunciano altri box per le auto. Se ti fermi a guardare questa terra dal mare – come fece Truman Capote e, prima di lui, Guy de Maupassant – vedrai ancora mulini e frantoi. Muretti a secco che sfidano le leggi di gravità. Sentieri che tagliano ulivi e orti terrazzati. Sì, li vedrai, ma sempre meno.

Per scoprire la Liguria di oggi e domani devi osservare i rendering (si chiamano così le simulazioni al computer degli architetti). Allora troverai cemento, posti auto, terreni da sbancare. Certo, nelle immagini taroccate dei progettisti sembrano sempre belli, poi nella realtà è tutto diverso. Nemmeno questo paradiso naturale noto in tutto il mondo è risparmiato. Con la complicità delle istituzioni, come accade da decenni in Liguria. E dietro ai progetti si ritrovano nomi di imprenditori cari alla politica e perfino alla Curia.

A Santa Margherita se ne sono accorti nel febbraio 2011, quando viene presentato il progetto del nuovo porticciolo. Un investimento da 70 milioni che prevede moli, bagni extralusso, centri benessere, oltre a 250 posti auto interrati. La firma è dello studio Gnudi di Milano, a commissionarlo la Santa Benessere & Social Srl e il suo presidente Andrea Corradino, fedelissimo del senatore Luigi Grillo (Pdl), in seguito arrestato per lo scandalo Expo 2015. E dietro c’è un po’ di tutto. Persino una società anonima lussemburghese (a sua volta controllata da società delle isole Vergini e di Panama), la Rochester Holding, che fa capo a Gabriele Volpi. Un self-made man che dalla tuta blu da metalmeccanico è passato ai pozzi petroliferi nigeriani. È qui che costruirà il suo impero, forse grazie anche all’amicizia con l’ex vicepresidente Atiku Abubakar, escluso nel 2007 dalla corsa alla presidenza perché accusato di corruzione. A dirlo non è qualche fanatico oppositore, ma il Comitato Permanente per le Investigazioni del Senato americano.

Volpi è un Berlusconi in salsa ligure: jet privato, patrimonio forse a nove zeri. Consenso guadagnato grazie allo sport: la stellare Pro Recco di pallanuoto come il Milan di Sacchi. Poi lo Spezia calcio. E, si sussurra, anche la Sampdoria: è lui il finanziatore dietro a Er Viperetta? Volpi smentisce.

Di fronte a un simile quadro - e a un progetto che promette di gettare migliaia di metri cubi di cemento sulla riva del mare – i sammargheritesi alzano la voce. Si costituiscono nel comitato “Difendi Santa”. E, alla fine, convincono il Comune a tornare sui suoi passi, forti anche di uno sponsor d’eccezione come Renzo Piano. “Qualsiasi nuovo intervento potrebbe compromettere l’intera marina” tuona l’archistar genovese. Tutto rientrato? Nient’affatto. Perché sei mesi dopo spunta un secondo progetto, presentato dall’A.T.I. Porto Cavour, un consorzio che raduna un pool di operatori portuali decisi a proseguire sul solco tracciato dalla Santa Benessere. “Parliamo di un piano meno invasivo rispetto al precedente, ma che andrebbe ad alterare in modo sensibile e permanente l’intero complesso, toccando sia il porticciolo che il retroporto” denuncia Marco Delpino del Comitato “Difendi Santa”.

Ma chi c’è dietro questa cordata nata all’improvviso che s’ispira al conte di Cavour (“il primo a voler realizzare il porto a Santa Margherita” spiegano i promotori) e ripropone, con qualche lieve modifica, un restyling già bocciato in giunta? Cambiano i nomi, si sprecano i paragoni illustri, ma le facce - e i portafogli - potrebbero essere sempre gli stessi, in una sorta di Gattopardo in salsa ligure. Il giudizio definitivo su entrambi i progetti è atteso per il prossimo 11 marzo dalla Conferenza dei Servizi. Ma la partita potrebbe proseguire ad oltranza con il ricorso al Tar e, infine, al Consiglio di Stato. “Il porto qui ha una funzione strategica cruciale - spiega Delpino - Se dovesse finire nelle mani di pochi privati, potrebbe diventare il trampolino di lancio per impadronirsi, un domani, dell’intera città”. Mentre Bruxelles impone l’azzeramento del consumo di suolo entro il 2050, la Liguria consuma fino all’8,4% di suolo (contro il 7,3% nazionale, dati Ispra). Senza contare il record di case non occupate (332mila su un milione).

Un quarto d’ora di auto al di là del promontorio ed ecco Camogli, su cui incombe un maxi-progetto per la realizzazione di due autosilos da quasi 500 posti totali, tra box e posti auto pubblici e privati, oltre a una sessantina di posteggi in superficie. Approvati dal Comune e ora al vaglio della Conferenza dei servizi, i due parking dovrebbero sorgere sull’area dell’ex scalo ferroviario, la cui riqualificazione è affidata allo Scalo Srl, una società partecipata al 51% dal Comune e al 49% dalla Novim Srl di Lecco, a sua volta controllata dalla Colombo Costruzioni.

In principio si era parlato anche di alcune palazzine residenziali, poi scongiurate dalla precedente giunta. Restano i parcheggi. Con numeri da far tremare i polsi: 4 piani interrati, 70mila metri cubi di terra e roccia movimentati, per cui saranno necessari non meno di 3 anni di lavori. “Una follia urbanistica – la definisce Stefano Massone del Comitato Scalo ferroviario Camogli – che avrebbe gravi ripercussioni non solo sul piano ambientale, ma costerebbe a Camogli anche anni di blocco della circolazione, una preoccupante riduzione dei parcheggi e un drastico impatto sul turismo, oltre a tutte le incognite idrogeologiche e di assetto territoriale”. E, infine, l’affondo. “Concediamo al privato un’area pubblica per realizzare una speculazione da oltre 6 milioni di euro stimati, senza alcun vantaggio concreto per il paese”.

Il 7 marzo centinaia di cittadini scenderanno in piazza contro il progetto più pesante degli ultimi 150 anni. Ma per centinaia di liguri che manifestano, molti altri tacciono. E magari si preparano a votare per la stessa maggioranza di centrosinistra - prima guidata da Claudio Burlando, ora da Raffaella Paita - che ha puntato sulla politica del cemento. Con i risultati noti a tutti: la Liguria è la regione del Nord con i più alti tassi di disoccupazione.

La nuova “rapallizzazione“

C’è perfino una parola apposta: rapallizzazione. Fu coniata nel secondo Dopoguerra per indicare uno sviluppo urbanistico selvaggio. Un vocabolo che nacque proprio dalla cittadina ligure di Rapallo. Oggi sono passati più di cinquant’anni, ma la Liguria si trova di nuovo minacciata dal cemento. La breccia è stata aperta dalla legge sui porticcioli voluta dall’allora ministro Claudio Burlando. Poi arrivarono i piani regionali. Memorabile una frase di Burlando pronunciata nel 2005: “Un mio amico di Bologna (Prodi, contrario alla cementificazione, ndr) si è augurato di vedere sulle nostre spiagge più ombrelloni e meno porticcioli. Io invece dico: più ombrelloni e più porticcioli”.

E così è stato, grazie anche all’appoggio del centrodestra, soprattutto di Claudio Scajola, padrino del nuovo porto di Imperia. Operazione finita con costi lievitati e moli mezzi vuoti. Così in pochi anni i posti barca sono passati da 14mila a quasi 24mila. E dovevano arrivare a 30mila. Intorno immancabili operazioni immobiliari, magari firmate da architetti amici della sinistra. Un altro porto da mille posti doveva nascere a Marinella, alle foci del fiume Magra, noto per le alluvioni. Progetto lanciato da un’impresa della banca rossa Mps. Nella società sedeva il tesoriere della campagna elettorale di Burlando. La crisi della banca ha fatto arenare il porto.

Ma la scommessa sul cemento continua. La Regione di Burlando ha varato un piano casa che gli ambientalisti Angelo Bonelli e Roberto Della Seta hanno definito “il più devastante d’Italia”. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: l’economia ligure è al collasso. Anzi, rischia di essersi mangiata la sua più grande ricchezza: l’ambiente che garantisce il 20% del pil con il turismo.

Una replica e un'integrazione all'articolo del manifesto sulle elezioni amministrative. È possibile un'alternativa alla vecchia politica politicante dominata dal renzusconismo? c'è chi dice di si

L’articolo di Canetta e Milanese che il manifesto di ieri ha dedicato a Venezia e al Veneto alla vigilia delle elezioni amministrative offre, come abbiamo scritto presentandolo, una panoramica interessante sulla situazione pre-elettorale. Ma lo sguardo è rivolto quasi esclusivamente all'universo dei partiti e partitini che costituiscono i frammenti grandi e piccoli della sinistra storica, e la figura che emerge con maggiore evidenza come potenziale (e auspicabile) sindaco della città capoluogo è Felice Casson. Mi propongo di esporre le ragioni per cui non condivido una parte dell’analisi del manifesto.

Il racconto di Canetta e Milanese registra unaprima, indiscutibile realtà: nel Veneto la destra è in frantumi, per la primavolta i degradati eredi della Balena Bianca (Forza Italia e la Lega) rischianodi perdere il dominio del Veneto. A Venezia, il recente lungo periodocommissariale, consentito se non addirittura promosso dal PD per concludere leoperazioni immobiliari e mrcantilistiche avviate dalle giunte di centrosinistra, ha reso più acuta la crisi dellacittà e meno sopportabile il disagio di vaste porzioni dellacittadinanza. Quale migliore occasione per cambiare, per costruire un altroVeneto e un’altra Venezia? A metà maggio si voterà per la Regione e per ilComune capoluogo, pochi giorni ci separano dalla presentazione delle listeelettorali. Il flusso degli eventi pre-elettorali scorre, ancora torbido eindecifrabile, tra due sponde.

Da una parte il vecchio sistema dei partiti,attentamente esplorato da Canetta e Milanese. Nell’area che si oppone aifrantumi della destra domina la formazione maggiore: il vecchio centrosinistra(ma si può definire tale un raggruppamento nel quale di alternativo alrenzusconismo manca del tutto?). Accanto ad esso i brandelli delle residueformazioni della sinistra storica, SEL e PRC, che sembrano preferire la renditaconsentita dal vassallaggio al PD al rischio comportato dallosciogliersi e di contribuire così alla formazione di un’alternativa radicaleal renzusconismo. Infine il M5S, cui Grillo comunicheràall’ultimo momento che fare.

Elemento di rilievo ancora ambiguo in questo quadro è la figura di Felice Casson, cui giustamente l’articolo del manifesto dedica particolare attenzione. Si tratta certamente di persona che - per la sua storia, le sue idee e iniziative politiche e culturali - sarebbe degna di rappresentare e governare, primum inter pares, la città. ma come hanno scritto Canetta e Milanese, si presenta «sotto il gazebo PD»: ha scelto di scendere in una competizione tutta interna allo stagno di quel partito infettato da troppi scandali e dal default del Comune (salvato solo dalle lotte dei suoi dipendenti). Lo si teme troppo caratterizzato per la sua partecipazione alle primarie sostanzialmente governate dal Pd) e ci si domanda quali prezzi dovrà pagare, o ha già pagato, in termini di programma e sua implementazione, o di posti di governi e sottogoverno.
Sull’altra sponda si oppone o resta ancora incerto a imbarazzato il variegato fronte costituito dai comitati, movimenti, associazioni che hanno formato l’opposizione più consistente ai danni che il dominante sistema di potere ha provocato al territorio e all’ambiente, alle condizioni di vita, ai patrimoni comuni e ai diritti personali e sociali. Un fronte ancora disunito ma rappresentato da un amplissimo numero di gruppi (il comitato No grandi navi, citato nell’articolo del manifesto, è tra i più significativi ma non è certamente l’unico). Un fronte che ha manifestato la sua consistenza in alcuni grandi eventi regionali, come quello del 30 novembre 2013 che ha visto manifestare a Venezia migliaia di persone in rappresentanza di quasi 200 comitati e gruppi d’ogni pare del Veneto, o nel contributo di massa e di creatività che il Veneto e Venezia seppero dare ai grandi eventi nazionali in tema di energia e di acqua.

L’articolo di Canetta e Milanesi dà scarso rilievo ai tentativi, in atto su questa sponda, volti a costruire un’alternativa reale al renzusconismo: a quella nefasta ideologia e prassi, squallida espressione italiana della globalizzazione del capitalismo neoliberista. Il renzusconismo ha palesemente a Venezia e nel Veneto la sua punta di lancia nella candidatura veneziana di Nicola Pellicani: uomo sponsorizzato da un pacchetto ricco di supporters che va da Massimo Cacciari a Giorgio Napoletano, dal mondo della finanza a quello dal padronato industriale, e che ha avuto un robusto sostegno dal segretario-premier del Partito della Nazione con l’obolo del “salvavenezia”.

Le due iniziative alternative più promettenti, e più "pulite" dalle compromissioni col sistema di potere dominante sono quella veneta, promossa dall’”Ecoistituto del Veneto Alexander Langer” e dall’associazione “Altra Europa-Laboratorio Venezia”, e quella veneziana di “Venezia cambia2015”, espressioni la prima di numerose iniziative politiche e sociali per la difesa del territorio e della democrazia, quella veneziana meno nota, caratterizzata da un ampio lavoro di analisi e proposta compiuto da un gruppo di intellettuali e di militanti nei movimenti di base.

Esse non hanno ancora trovato lo slancio necessario per raccogliere la maggioranza dei consensi che l’area del disagio sociale e morale e della diffidenza per la politique politicienne potrebbero esprimere. Sono di intralcio, soprattutto a livello regionale, le resistenze a impegarsi subito nella tenzone elettorale, in attesa delle decisioni dei frammenti della vecchia sinistra. Ma senza rompere i gusci delle vecchie formazioni della vecchia politica, e senza liberare i cittadini che vi sonoracchiusi, sarà difficile costruire un’alternativa vincente al renzusconismo.

Ecco per chi appesantiamo le nostre città, devastiamo i nostri paesaggi, peggioriamo le nostre condizioni di vita , cediamo i nostri poteri di decisione, rendiamo più amaro il future dei nostri figli (e nipoti). La Repubblica, 27 febbraio 2015

La Hines sgr, guidata da Manfredi Catella, ha annunciato la transazione: passa di mano il 60% dei nuovi palazzi che costellano la zona tra il quartiere Isola e la nuova sede di Unicredit. Il valore commerciale dell'area è di 2 miliard

I grattacieli di Milano passano in mano agli emiri: il fondo sovrano del Qatar diventa il proprietario unico di Porta Nuova, l'area del capoluogo lombardo dove sono sorti numerosi nuovi grattacieli. Lo ha annunciato in conferenza stampa Manfredi Catella, a capo di Hines sgr. "È il padrone di casa", ha aggiunto, spiegando che il fondo controllava il 40% ed è salito al 100%. "Una delle transazioni più importanti degli ultimi tempi", l'ha definita ancora Catella.

Il fondo emiratino subentra quindi agli investitori iniziali: Hines, Unipol Sai, ed i fondi Mhrec, Hicof, Coima e Galotti. L'entità dell'investimento non è stata resa nota: l'area oggetto del progetto di riqualificazione comprende tutta l'area attorno a Porta Garibaldi, e nel suo complesso i 25 edifici hanno un valore di mercato di oltre 2 miliardi. "Gli investitori in Porta Nuova hanno guadagnato il 30%", ha detto Catella. "E' una delle transazioni più importanti a livello europeo - ha infatti aggiunto - ci sarà in futuro la possibilità di un ingresso di altri fondi sovrani in posizione di minoranza


Porta Nuova comprende 25 edifici tra cui la torre che ospita la sede di Unicredit, ed il cosiddetto 'Bosco Verticale' che è già stato venduto al 65%. La parte residenziale di Porta Nuova comprende 380 unità abitative in 13 edifici. Tra le società che già hanno scelto Porta Nuova come sede ci sono: Nike, Google e molte griffe della moda. Hines Italia Sgr continuerà a gestire i fondi d'investimento di Porta Nuova, property e project management invece sarà gestita da Coima della famiglia Catella.

«Il condono compie 30 anni. Cresme: dal ’94 a oggi costruiti 362mila nuovi alloggi. Il 70% fuori dalle aree più popolate. E sui Comuni pesano oneri doppi di quanto lo Stato riesce a incassare». Il Fatto quotidiano, 27 febbraio 2015

A trent’anni dal primo condono edilizio, i conti non tornano. Né dal punto di vista ambientale né da quello economico. Tre sanatorie, la prima nel 1985, le altre nel 1994 e nel 2003, hanno portato allo Stato solo 16 miliardi di euro, facendo sempre registrare entrate al di sotto delle aspettative. Nel 1985 l’erario ha riscosso il 58% del gettito previsto, nel 1994 il 71%, nel 2003 addirittura il 34%.

Ad ogni costo


Ecco una delle sorprese che spunta da un rapporto del Cresme, il Centro Ricerche Economiche Sociali di Mercato per l’ Edilizia e il Territorio, sui condoni varati per sanare l’abusivismo edilizio. Un rapporto ricco di cifre e curiosità che offre anche uno spaccato impietoso sui costi che l’Italia ha dovuto sopportare in termini economici e di devastazioni ambientali. Si scopre per esempio che ammontano a circa 362.000 le case abusive realizzate dal 1994 ad oggi. Di queste, solamente il 30% è stato costruito in aree densamente edificate e già attrezzate da un punto di vista urbanistico. Il restante 70% si è sviluppato invece in aree di scarsa densità e prive dei servizi necessari. Da qui un duro salasso per le casse pubbliche. La spesa media che glienti locali hanno dovuto affrontare per i costi di urbanizzazione (fogne, acqua, strade, eccetera) è stata infatti di 24.000 euro per ogni abitazione, per un totale di 8,7 miliardi di euro a fronte dei 4 miliardi di oneri pagati dai proprietari. Chi decideva di mettersi in regola, infatti, sosteneva in media una spesa che si aggirava intorno agli 11.000 euro. Si è avuto, dunque, undisavanzo per alloggio pari a 13.000 euro per un totale di 4,7 miliardi. Ma non basta. Dallo studio si scopre pure che se lo Stato, invece di condonare, avesse semplicemente proceduto multando gli abusivi e abbattendo le costruzioni irregolari avrebbe facilmente e semplicemente incassato 5,1 miliardi di euro.

Colata a picco


Anche nel 2003 il condono edilizio si è rivelato un pessimo affare per i Comuni: a fronte di un importo medio di 15 mila euroversato per il singolo abuso, gli enti locali ne hanno spesi in media 100 mila per portare strade, fognature e altre infrastrutture. Questo per i condoni storici. Ma attenzione, anche successivamente gli italiani hanno continuato a costruire illegalmente. Tra il 2003, anno dell’ultima sanatoria, e il 2011, il Cresme ha censito la cifra record di 258 mila nuove case abusive, per un giro di affari illegale che, secondo una stima di Legambiente, si aggira intorno ai 18,3 miliardi di euro. Arrivando a tempi più recenti, nel 2013, tra case realizzate ex novo e ampliamenti di volumetria in immobili preesistenti, sono stati invece calcolati 26 mila nuovi abusi. Una cifra che rappresenta oltre il 13 per cento del totale delle nuove costruzioni. A questa colata di cemento fuorilegge si deve poi sommare il vecchio abusivismo, quello precedente al 2003 e non più condonabile.

Cemento selvaggio


Altra pagina inquietante del rapporto Cresme -che verrà presentato oggi in un convegno promosso dal Movimento 5 Stelle(“Trent’anni dal primo condono, un anno di sblocca Italia: che fare?”) -quella relativa ai cosidetti “condoni dimenticati”, ossia i casi legati a tutte le pratiche giacenti negli uffici tecnici dei Comuni italiani e in attesa ancora di essere esaminate. Sommando le tre sanatorie (1985, 1994 e 2003) nei capoluoghi di provincia italiani sono state depositate 2.040.544 domande di regolarizzazione, di cui ben il 41,3% risulta ancora oggi inevaso. Con il rischio che finiscano sul mercato, in vendita o in affitto, abitazioni che potrebbero, invece, essere destinate all’abbattimento. “L’Italia è l’unico Paese in Europa che ha miseramente delegato al privato il governo del territorio con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti -accusa Claudia Mannino, deputata del M5S -Purtroppo si è fatto ricorso ai condoni soprattutto per fare cassa”. Con un ultimo rimpianto della portavoce grillina: “Perché il governo di Matteo Renzi non ha approfittato del semestre europeo per rilanciare la grande partita della salvaguardia del suolo?”.

Gli emendamenti contro il Piano Paesaggistico della Toscana rappresentano un attacco gravissimo a danno di uno strumento di pianificazione urbanistica regionale che non ha precedenti negli ultimi 20 anni. Le associazioni di tutela ambientale - CAI, FAI, Italia Nostra, Legambiente, LIPU, Mountain Wilderness, ProNatura, Rete dei Comitati per la Difesa del Territorio, Slow Food Toscana, WWF – riunite oggi a Firenze, tutte concordi difendono il testo originario del piano dai continui emendamenti che, per come concepiti, appaiono chiaramente suggeriti da alcune lobby e che mirano a distruggerlo. Le associazioni vigileranno con molto scrupolo l’iter in corso per evitare che ciò accada. Il Piano che, per la prima volta, prende in esame il territorio nel suo insieme di natura, storia, società civile, è frutto di una straordinaria concertazione e co-pianificazione con il MiBACT che ora la politica, con un atto di arroganza, intende calpestare annientando quattro anni di lavoro di quanti, a questo strumento, hanno sapientemente lavorato con capacità, professionalità e rigore.

Gli emendamenti presentati in consiglio regionale dalla stessa maggioranza che lo scorso anno approvò il Piano, puntano, dunque, a stravolgere e demolire quella rete di protezione disegnata con
intelligenza e responsabilità. Il contenimento al consumo di suolo, di coste, di spiagge, le limitazioni all’estrazione del marmo, alla distruzione dei monti, la regolamentazione dell’agricoltura, così come posti nel testo originario, esprimono una gestione intelligente del territorio il cui sviluppo è possibile e sostenibile solo andando oltre lo sfruttamento di risorse ambientali. Un disegno che può diventare motore di sviluppo e dare ulteriore valore alla Toscana, con una visione strategica che non risponde più solo ad interessi e aspettative di breve respiro. “Se il piano dovesse passare snaturato rispetto alla sua origine, chiederemo al MiBACT di non approvarlo” dichiarano le associazioni.

“Con la nostra azione compatta abbiamo già ottenuto un primo importante risultato: il ritiro del maxi-emendamento del PD” afferma Fausto Ferruzza, Presidente Legambiente Toscana. “Chiediamo all’assessore Marson che non si dimetta e che combatta fino in fondo - sostiene il presidente di Italia Nostra -. Renzi difenda il piano della sua Regione e intervenga sul suo partito in Toscana perché lo conservi così come licenziato dalla giunta Rossi, in ragione della co- pianificazione avvenuta proprio fra Regione e MiBACT. Non immaginiamo che possa accettare un piano dannoso per il paesaggio, per l’agricoltura e per i beni culturali della Toscana e, quindi, per la sua immagine”.
Il FAI ha sottolineato l’importanza della difesa delle coste. “Vigileremo sull’iter di approvazione affinché non venga stravolto” ha detto Mountain Wilderness ribadiscono “l’assoluta necessità di difendere la tutela delle montagne e delle acque”. Mauro Chessa, presidente della Rete dei Comitati per la difesa del territorio ha ricordato Daniela Burrini, Lipu Toscana. CAI, ProNatura e come, “a fronte di tanta distruzione, la realtà è che il 50% delle cave è detenuto dalla famiglia di Bin Laden che controlla anche il 70% della produzione totale del marmo”. “A quanti ci accusano di mettere a rischio tanti posti di lavoro – afferma Antonio Dalle Mura, presidente Italia Nostra Toscana – si deve dire che i moderni metodi di lavoro, con l’uso di lame diamantate e alta tecnologia dei macchinari, permettono di velocizzare i processi di lavoro aumentando le quantità estratte ed escludendo di fatto molta manodopera. A questo si aggiunga che la maggior parte del marmo non viene lavorato in loco, ma trasportato all’estero con un danno economico sia per la comunità locale che per il fisco”.
Dichiara Marcello Demi, delegato WWF Toscana:“Il WWF ribadisce che ulteriori modifiche al piano, peraltro già fin troppo smussato nella fase delle osservazioni, ne inficerebbero i contenuti innovativi. Ricordiamo che oltre al paesaggio toccano il piano tutela ambienti unici come le Apuane e la biodiversità regionale nel suo complesso, capitale naturale sul quale si dovrebbe fondare l’economia di una Toscana sostenibile. E’ compito delle associazioni ambientaliste dare voce a chi voce non ha, ed è compito della politica ascoltarla e considerarla alla pari delle altre. Non verremo mai meno al nostro dovere, che la politica faccia altrettanto”. “Sosteniamo questo piano – dichiara Stefano Beltramini di Slow Food Toscana– a maggior ragione dopo aver manifestato già a Natale quando il Consiglio dei ministri ha impugnato la legge regionale toscana 65/14 dichiarando che alcune norme di indirizzo sui centri commerciali medio grandi contravverrebbero ai principi della libera concorrenza, in pratica sostenendo che la media e grande distribuzione sarebbe stata minacciata dalla tutela paesaggistica e ambientale della stessa legge”. Il Piano paesaggistico della Toscana coinvolge città storiche e periferie, pianure e rilievi con un assetto del territorio in cui la storia si connette al lavoro, alla cultura e alla natura. Le ragioni della tutela si affiancano alle istanze del lavoro e della sicurezza, l’agricoltura incide sull’economia e quindi sulla società e la cultura è volano del turismo. E sì che le scelte di Piano avevano trovato il loro fondamento e la loro legittimazione in un quadro conoscitivo ben impostato, dettagliato e approfondito, articolato in 20 “ambiti di paesaggio”.

6 febbraio 2015
Una risposta all'intervento di Paolo Costa, ex rettore di Ca' Foscari, ex sindaco, ex ministro dei Llpp, oggi governatore dell'Ente porto, il quale sostiene che il crocierismo non fa male alla città.
Nel suo intervento su Il Gazzettino di domenica 22 febbraio (Il crocierista non è turista) il presidente dell’Autorità Portuale, Paolo Costa, conferma già nel titolo ciò che sostengono da tempo quanti in città si oppongono a un modello di crocerismo incompatibile con la città e con la laguna: e cioè che l’apporto delle grandi navi all’economia turistica veneziana è veramente scarso.

Commercianti, esercenti, in parte gli albergatori, gli operatori del comparto che si stracciano le vesti solo all’idea di cambiare questo modello, dovrebbero ascoltare le parole di Costa, che però non fa il passo in più, per sostenere invece devastati progetti di nuovi scavi di canali marittimi: navi più piccole in Marittima, della filiera del lusso, e se necessario un nuovo attracco fuori dalla laguna (ci sono due progetti nella bocca di porto di Lido), garantirebbero un indotto generale certamente più alto dell’attuale e un indotto turistico superiore al presente, ma con meno disagi.

Certo, le navi di lusso bisogna conquistarsele, senza lucrare sulle rendite di posizione e non adattandosi passivamente alle politiche delle grandi compagnie da crociera, destinate a una clientela di massa e improntate a un gigantismo kitch sempre meno tollerabile, come viceversa ha fatto fino ad oggi la Venezia Terminal Passeggeri.

Sull’indotto generale, decantato come un mantra da quanti sostengono l’attuale crocerismo, ci sarebbe molto da discutere, e per questo rimando ai tanti articoli e ai lavori del prof. Giuseppe Tattara e al libro bianco da lui scritto assieme al prof. Gianni Fabbri (Venezia, laguna, porto e gigantismo navale, Moretti&Vitali editori), ma come mai Costa si preoccupa tanto di negare il peso turistico del crocierismo?

Il fatto è, come spiega egli stesso, che Venezia sta morendo di troppo turismo, e dunque il presidente dell’Autorità Portuale cerca di difendere le grandi navi dall’accusa di essere corresponsabili di tanto scempio.

Ma davvero il crocierismo è innocente? Davvero il crocierismo non pesa sul turismo veneziano, anche se “il crocierista non è un turista”? La macchina turistica si alimenta dell’immagine della città, ma a sua volta la pompa per continuare a garantirsi la “benzina” che fa girare il motore. Dunque, qualsiasi attività che giochi sul nome di Venezia, e che contribuisca a diffonderne sempre di più il fascino attrattivo, in realtà è complice del degrado progressivo, a prescindere dal numero dei turisti che quella stessa attività genera. E qualcuno può davvero pensare che nel boom del crocierismo lagunare non abbia pesato il richiamo di Venezia? O che le compagnie non abbiano giocato sul suo nome, per attirare più clienti, contribuendo così a propagandarne in assoluto il richiamo?

Per salvarsi, Venezia dovrebbe essere dimenticata per un po’ di anni, mentre è interesse di tutti coloro che girano nella sua giostra, comprese le crociere, far sì che la sua immagine pervada i più sperduti angoli del mondo.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente al Gazzettino

Silvio Testa è autore dei saggi E le chiamano navi e Invertire la rotta, della Collana Occhi aperti su Venezia, editore Corte del Fontego

Se gli emendamenti proposti in Commissione Ambiente dal PD al Piano Paesaggistico della Regione Toscana fossero approvati nella loro maggiore qualificata parte dal Consiglio Regionale ci troveremmo di fronte ad un altro Piano Paesaggistico rispetto a quello predisposto dall’Assessore all’ambiente Marson.

Un Piano Paesaggistico notevolmente diverso, anzi, addirittura ad una norma non cogente per le rispettive amministrazioni comunali e non condiviso con il Ministero dei Beni Culturali, con tutte le possibile conseguenze del caso. Impressiona l’emendamento che permetterebbe di non ritenere vincolanti le osservazioni tecnico-scientifiche da parte delle amministrazioni locali, in spregio al ruolo ed al valore delle competenze specialistiche ed al coinvolgimento dell’intellettualità.

Si perderebbe altresì ogni ruolo di indirizzo e controllo dell’Ente Regione, proprio quel ruolo alto della politica che si vorrebbe recuperare a fronte dei particolarismi territoriali e degli interessi spesso scarsamente preveggenti di gran parte degli imprenditori privati, soprattutto di quanti godono di rendite di varia natura.
Come CGIL Toscana abbiamo espresso in tutte le sedi di confronto - Tavolo regionale di concertazione ed Audizioni della Commissione regionale – il nostro parere positivo e favorevole al Piano proposto dall’Assessore Marson, punto avanzato di sintesi tra esigenze del lavoro, dell’ambiente e di un concetto alto di paesaggio e di beni culturali, frutto di un impegno di anni che ha coinvolto le migliori intelligenze e passioni sul tema.

Siamo di fronte al fondato rischio che gli interessi corporativi di potentati economici locali rompano tale equilibrio, non a favore del lavoro a fronte dell’ambiente sia chiaro: ai lavoratori ed alle lavoratrici da tali emendamenti nulla verrà, né dal punto di vista delle condizioni di lavoro e salario, né come cittadini che vivono e animano i luoghi soggetti alle minor tutele.
La norma che imporrebbe infatti che una quota significativa del marmo estratto venga lavorato in loco verrebbe infatti differita in un lontano ed imprevedibile futuro.
Non gli interessi generali, ma gli interessi particolari di proprietari di pubbliche concessioni come quelle delle cave e dei bagni.
Come CGIL Toscana riteniamo che l’attuale Piano Paesaggistico sia il punto più avanzato di sintesi tra lavoro ed ambiente e che gli emendamenti in questione ne stravolgano, ove accolti, il senso ed il valore. Il valore di uno sviluppo basato sul rispetto e la valorizzazione del nostro straordinario territorio, che sia lungimirante e non predatorio, che redistribuisca la ricchezza prodotta ai lavoratori ed alle lavoratrici, ai territori direttamente interessati, che non distrugga irreparabilmente l’ambiente ed i beni culturali.

Che indichi una via alta dello sviluppo, basata sul riconoscimento dei diritti dei lavoratori e del diritto a tutti i cittadini del godimento di beni comuni come ambiente e beni culturali.
Una via diversa da quella indicata dal Governo Nazionale con l’approvazione del Jobs Act e dei decreti attuativi, diversa ma possibile. Diversa, migliore ed auspicabile.

Maurizio Brotini, Segretario CGIL Toscana
Roberto Bardi, Dipartimanto Ambiente e territorio CGIL Toscana


Rimpianto per l'epoca della ricostruzione, quando pareva ancora possibile che l'urbanistica si inserisse in un progetto sociale e politico più ampio per lo sviluppo del paese. Corriere della Sera, 25 febbraio 2015

Se Matera è stata scelta come capitale europea della Cultura per il 2019 lo deve ad Adriano Olivetti e alla pattuglia di intellettuali e professionisti che negli anni Cinquanta lo accompagnò nella realizzazione di un’apparente utopia: fare di Matera, la città considerata «la capitale dell’Italia contadina», un’altra Ivrea. Replicare, nel Mezzogiorno d’Italia, ma senza colonialismi né forzature, ciò che era avvenuto nel Canavese di Olivetti, cioè creare una «comunità di persone» che lavorano e vivono in armonia tra loro e con l’ambiente che li circonda, perché «ricostruite» anche moralmente ed «educate a pensare».

Era da poco finita la guerra, l’Italia viveva degli aiuti americani del Piano Marshall e negli Stati Uniti era esplosa la curiosità di conoscere il nostro Sud e, in particolare, le due facce di quella città, Matera, raccontata da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli come un unicum trogloditico (i Sassi) abbandonato alla miseria e all’arretratezza, ma anche come «una città bellissima, pittoresca e impressionante».

Olivetti era amico di Levi e durante i suoi viaggi negli Usa si rende conto dell’interesse suscitato anche lì dai temi di quel libro, che per lui erano stati illuminanti. Così nel 1947, diventato commissario dell’Unrra-Casas (l’organismo delle Nazioni Unite per la ricostruzione dei Paesi danneggiati dalla guerra e per il soccorso ai senzatetto), e poi nel 1950 presidente dell’Inu (l’Istituto nazionale di urbanistica), Olivetti «recluta» un giovane professore americano dell’Arkansas, Friedrich Friedmann, e gli affida la direzione di una commissione di studio sui Sassi. Nello stesso tempo, chiede a un gruppo di urbanisti, architetti e sociologi guidati da Ludovico Quaroni di progettare, alle porte di Matera, un villaggio modello che si chiamerà La Martella («l’altra Ivrea»), in cui sarebbero andati ad abitare una parte dei 16 mila contadini stipati nelle 3 mila grotte dei Sassi. Risanare i Sassi, dunque, per non abbandonarli al degrado. Ma dimezzarne la popolazione — costretta a vivere insieme con le bestie e a morire di malaria — trasferendo l’altra metà, assegnataria di terre coltivabili grazie alla Riforma agraria, a La Martella, dove avrebbe abitato case degne e ritrovato la dimensione comunitaria dei Sassi senza patirne i guasti.

Questa formidabile avventura, cominciata nel 1950, l’anno in cui Olivetti lancia la macchina per scrivere Lettera 22, è raccontata in un libro altrettanto formidabile, Matera e Adriano Olivetti. Conversazioni con Albino e Leonardo Sacco, di Federico Bilò e Ettore Vadini (edito dalla Fondazione Olivetti, pp. 278). Il volume è arricchito da una conversazione inedita tra la figlia di Adriano, Laura, e Friedmann, il quale, per far capire bene chi era e come ragionava Olivetti, racconta che «tra le cose che mi fecero una certa impressione a Ivrea, c’era un concorso mensile riservato agli operai, che dovevano recensire un libro: i vincitori venivano mandati a spese dell’azienda in una scuola di formazione tecnologica». Il libro di Bilò e Vadini è indispensabile per capire i Sassi, Matera, il Sud e l’entusiasmo di quei giovani, tra i quali i fratelli materani Albino e Leonardo Sacco, che vi si dedicarono con tutta l’anima.

Al punto che oggi, un giovanotto di 91 anni qual è Leonardo Sacco — amico fraterno di Levi e Olivetti — ha avuto l’idea di cedere alla Regione Basilicata i suoi diecimila volumi al prezzo simbolico di un euro affinché a La Martella e a Matera sorgano due biblioteche intitolate ad Adriano Olivetti. E tuttavia, nonostante l’accordo firmato e i mille discorsi (infarciti di molto inglese inutile) sulla capitale europea della Cultura che deve tutto a quel signore di Ivrea, per le biblioteche il treno si è fermato. Di nuovo a Eboli?

«Ad oggi le aree di Bagnoli sotto sequestro della magistratura si estendono per 120 ettari, e riguardano la colmata, i siti del Parco dello Sport e del Turtle Point (entrambi ultimati con risorse pubbliche e mai inaugurati)». Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2015

Napoli. L’atteso accordo di programma per far ripartire la bonifica di Bagnoli prende forma: il custode giudiziario dell’area industriale dismessa, Maurizio Pernice, ha definito un testo che ha inviato al Comune di Napoli.

L’accordo in realtà si attiene - come spiega Pernice che è anche dg dell’Ambiente - alle indicazioni della Procura della Repubblica in seguito al sequestro delle aree per irregolarità della bonifica finora eseguita. In pratica, si vuole rendere più efficiente la messa in sicurezza della barriera e della falda acquifera nell’area della colmata. A questo scopo sarà commissionato a Sogesid un progetto per mettere successivamente a gara gli interventi previsti. In secondo luogo, si dà il via alla caratterizzazione dei terreni: il piano verrebbe affidato a Ispra e la caratterizzazione a Sogesid. Per tutte queste attività, che sono di preparazione alla bonifica vera e propria, verrà utilizzata una parte (si spera piccola) dei 48 milioni, unica dote di Bagnoli da tempo nei cassetti e non ancora spesa.

Ad oggi le aree di Bagnoli sotto sequestro della magistratura si estendono per 120 ettari, e riguardano la colmata (su cui vi è una dura vertenza tra Comune e Fintecna oggi al Consiglio di Stato dopo il ricorso del Comune), i siti del Parco dello Sport e del Turtle Point (entrambi ultimati con risorse pubbliche e mai inaugurati). Mentre sono stati dissequestrati circa 60 ettari. Interessa un’area di 20 ettari il recente decreto per risanare i siti inquinati da amianto che ha destinato a Bagnoli un finanziamento di 20 milioni, affidati al Comune.

Intanto, si anima la discussione “commissario sì, commissario no”. Il governo Renzi, nello Sblocca Italia che si occupa anche di Bagnoli, ha di fatto esautorato il Comune, a seguito peraltro del fallimento della Stu Bagnolifutura e ha previsto la nomina di un commissario ad acta e di un soggetto attuatore. Ma dalla data dell’annuncio, ad agosto, ad oggi nessuna nomina è andata in porto. Nel frattempo il Comune non perde occasione per chiedere di rinunziare alla nomina del commissario.

Nomina che ieri invece è stata sollecitata da un esponente dello stesso governo Renzi, il sottosegretario Umberto Del Basso De Caro: «I tempi sono più che maturi - ha detto - all’approvazione dello Sblocca Italia a novembre e alle polemiche del sindaco di Napoli, penso sia giusto far seguire il nome di un commissario».

Riferimenti
Su eddyburg ampia rassegna su Bagnoli. Si veda, tra gli altri, di Vezio De Lucia Bagnoli negata e la raccolta Bagnoli: i molti veleni della colmata, di Giovanni Losavio, Bagnoli. Due profili d'illeggitimità

«Prima deturpa il territorio, poi intasa le aule dei tribunali. “Bisogna dare ai Comuni un tempo limite”». Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2015



È un’emergenza silenziosa, trascurata, ma imponente, che prima deturpa il territorio, poi intasa le aule dei tribunali: Tar, magistratura ordinaria e persino la scrivania del Capo dello Stato. A distanza di oltre 12 anni dall’ultimo condono edilizio, si continua a costruire abusivamente (26mila nuovi immobili l’anno, stima 2013 del centro studi Cresme), mentre poco o nulla si abbatte (500 demolizioni in media all’anno nei capoluoghi di provincia, stima Legambiente). L’associazione ambientalista ha calcolato che solo una su dieci delle ordinanze di demolizione di immobili abusivi va effettivamente a buon fine: delle 46.760 ordinanze emesse dal 2000 al 2011 (ultimo censimento disponibile) nei capoluoghi di provincia solo 4.956 sono state portate a termine.

E non per un problema di mezzi: i soldi non mancano. Alla Cassa depositi e prestiti risulta utilizzato solo per il 55% il Fondo per la demolizione delle opere abusive. Dal 2004 a disposizione dei sindaci ci sono 50 milioni, su un Fondo rotativo che anticipa tutte le spese con commissioni minime da restituire al recupero dei costi o comunque entro cinque anni. «Dopo un primo rodaggio, ora lo strumento è conosciuto - sottolineano da Cdp - e utilizzato soprattutto dai piccoli Comuni del Sud, per un importo medio di 509mila euro». Ma in proporzione rispetto al fenomeno i numeri sono infinitesimali: solo 120 domande nel 2014, la metà l’anno precedente.

A mancare non sono neanche gli uomini: risale al lontano 2009 la convenzione tra ministero dei Beni culturali e della Difesa per usare l’esercito nella lotta all’abusivismo. Ebbene, a distanza di sei anni dall’intesa - fanno sapere dai Beni culturali - «non si è ancora data concreta attuazione, sebbene sia formalmente in essere». Come dire: neanche un mattone è stato portato via dai nostri militari. Ma sempre il Mibact si difende: «A bloccare non è l’inerzia del ministero, bensì i tempi dei procedimenti giudiziari». S

piega Francesco Scoppola, a capo della direzione Belle arti e paesaggio: «Le demolizioni sono molto rare, non tanto perché mancano i fondi o i mezzi, quanto perché non è facile giungere fino all’esito giudiziario definitivo». E aggiunge: «La materia, infatti, è giuridicamente molto complessa, con tante strade processuali a disposizione di chi ha commesso gli abusi e vuole resistere all’applicazione delle norme di tutela».

I ricorsi

In effetti a portata di mano dell’abusivo ci sono più percorsi, fuori e dentro i tribunali. Oltre ai Tar (si veda l’articolo a fianco) e alla magistratura ordinaria, c’è anche l’insolita strada del ricorso straordinario al Capo dello Stato che, visti i numeri, di straordinario non ha più nulla. Basta infatti un’istanza in carta semplice al presidente della Repubblica per mettere in moto una complessa macchina amministrativa e giudiziaria e tenere in scacco le ruspe per anni. Lo hanno capito in molti: a oggi sono più di 13mila i ricorsi straordinari censiti nel Conto annuale delle infrastrutture, relativi al condono edilizio. Tremila solo negli ultimi tre anni. Una valanga che ha travolto gli uffici del ministero delle Infrastrutture: basti pensare che per vagliare la legittimità di ogni domanda occorre svolgere un’istruttoria in contraddittorio con il Comune, preparare una relazione firmata da un sottosegretario e inviarla al Consiglio di Stato.

Quest’ultimo, a sua volta, emette un parere che il presidente della Repubblica recepisce formalmente con un decreto. «Per definire una pratica servono anni», spiegano dalle Infrastrutture. Tempo prezioso per ogni abusivo, che nel frattempo vede sospesa la demolizione.

Del resto, per bloccare gli abbattimenti basta la semplice domanda di condono, che rende anche il peggiore degli abusi potenzialmente sanabili fino al “no” (di fatto non basta il silenzio assenso). «In attesa di esame formale c’è ancora il 60% dei 2 milioni di istanze di condono presentate - spiega Laura Biffi, responsabile dell’Osservatorio legalità per Legambiente. Che propone: «Bisogna dare ai Comuni un tempo limite». Scadenze certe e sanzioni che possono arrivare fino allo scioglimento del Comune che non rispetta il piano di demolizioni annuali sono il perno del disegno di legge sulla demolizione presentato nel 2013 dal presidente della Commissione ambiente della Camera, Ermete Realacci. Ma il Ddl non è mai stato esaminato.

Nella sola Milano sono in vendita immobili per una superficie fondiaria equivalente a cento campi da calcio. E così a Roma, Firenze, Torino e Napoli. Ecco la mappa degli sprechi. Il Fatto quotidiano, 23 febbraio 2015

Nella sola Milano sono in vendita immobili per una superficie fondiaria equivalente a cento campi da calcio. A fronte di tanto patrimonio in eccesso, si spende un milione di euro l’anno per ospitare il "rappresentante del governo" nel prestigioso Palazzo Diotti. E così a Roma, Firenze, Torino e Napoli. Ecco la mappa degli sprechi

Nella sola Milano il governo conta di vendere caserme per unasuperficie fondiaria equivalente a cento campi di calcio. E tuttavia, a fronte di tanto patrimonio in eccesso, non rinuncia a spendere un milione di euro l’anno per affittare Palazzo Diotti, il monumentale edificio in Corso Monforte che nel 1803 fu scelto da Napoleone in persona per insediare il suo Regno D’Italia. Cortile d’onore, giardino gentilizio, i colonnati e gli affreschi dell’Appiani ne fanno uno fra i più prestigiosi del centro storico. Da 156 anni questo gioiello è il “Palazzo del Governo”, la sede della locale Prefettura. E da lì, nessuno la schioda. A Roma, del resto, sono sei le caserme oggetto di “valorizzazione” a fronte di quattro milioni di euro che ogni anno vengono versati per affittare due immobili in centro con la funzione di uffici territoriali del governo. Città che vai, paradossi che trovi.

Se però si prende l’elenco dei beni pubblici in vendita (scarica) e lo si incrocia con la lista dei 150 che il governo affitta a privati(scarica), il paradosso diventa un assegno da 30 milioni di euro che ogni anno vola letteralmente fuori dalla finestra delle Prefetture. Quasi mai per motivi logistici e funzionali, quasi sempre con la causale della “rappresentanza di governo” che tiene fuori dai portoni la “razionalizzazione” della spesa e pure il buon senso dell’uomo comune, quello che ha portato il 78,2% delle famiglie italiane a fare enormi sacrifici per avere una casa di proprietà anziché buttare i soldi in un affitto. Ecco, lo Stato fa l’esatto contrario: pur avendo patrimonio da vendere ne affitta altro, a peso d’oro.

Guai poi a chi alza la testa e mette il dito nella piaga. Se un sindaco prova a sfrattare il prefetto fa subito notizia. Succede a Grosseto, dove il primo cittadino, ormai “commissario liquidatore” della Provincia, ha proposto di salvare i conti dell’ente vendendo lo storico palazzo in piazza Fratelli Rosselli. Potrebbe fruttare sei milioni di euro, se solo prefetto e funzionari si “accontentassero” del nuovo e grandissimo palazzo della Questura, che appartiene al Tesoro e dunque non richiederebbe alcun affitto. L’epilogo è tutto da scrivere, ma Grosseto potrebbe diventare un caso di scuola e l’occasione per mettere in discussione la pretesa dei prefettizi di stare in centro a carico dei contribuenti italiani che varcano quei portoni solo per gentil concessione il 2 di giugno, in occasione della Festa della Repubblica. Firenze, Milano, Torino, Roma e Napoli. Ecco una carrellata di situazioni surreali.

Caserme, riparte il carosello della vendita
La premessa è che sono 25 anni che governi d’ogni colore carezzano l’idea di fare cassa col mattone, a partire dalle fantomatiche caserme che l’abolizione della leva e la riduzione dei corpi militari ha reso gusci vuoti dentro le città. A ogni curva di finanziaria l’esecutivo di turno rimette in ballo una giostra di liste e ambiziosissimi programmi di vendita, con risultati finora alquanto modesti. Anche il governo Renzi ci prova con 1.500 immobiliritenuti non necessari dai quali prevede di incassare 220 milionidi euro quest’anno e 100 nel 2016. L’operazione è affidata alle cure del ministro della Difesa Roberta Pinotti che ha istituito una task force e predisposto un decreto per facilitare il processo di dismissione in tutto il Paese. Da allora sono partite girandole ditavoli tecnici e si sono sottoscritti protocolli d’intesa con cinque grandi comuni italiani. Come andrà a finire si vedrà. Ma quel che è certo è che se si prende l’elenco delle dismissioni annunciate e gli si sovrappone quello dei canoni di locazione pagati dal Viminale nelle stesse città, ci si rende conto della contraddizione di questo Monopoli che si gioca con soldi veri e pubblici.

Il paradosso parte proprio da Firenze
E’ simbolicamente partita da Firenze, manco a dirlo, l’operazione del governo Renzi. Già da sindaco premeva per vendere le caserme dismesse ma diventato premier ha premuto l’acceleratore. Così il 3 aprile 2014, a pochi giorni dall’insediamento, il ministro Pinotti, il neo sindaco Dario Nardella e l’Agenzia del Demanio hanno sottoscritto un apposito protocollo d’intesa. Ancora non si è venduto nulla, ma quel che conta è che tra i contraenti non ha trovato posto l’idea di tenersi un angolo del patrimonio per metterci gli uffici del Prefetto. Eh sì, perché la Prefettura di Firenze di sedi ne ha due:dal 1876 l’ufficio di gabinetto è ospitato nello storico Palazzo dei Medici Riccardi, gli uffici amministrativi sono in via Antonio Giacomini. Per le due locazioni lo Stato ogni anno paga, rispettivamente, 883mila euro e 435mila. E dire che le 15 caserme fiorentine non sono poi da buttare: alcune sono sottoposte a vincolo della Soprintendenza ai Beni Culturali perché dichiarate di pregio storico e architettonico. Redi, San Gallo, Perotti, Ferrucci e Cavalli… ce ne sono anche certe dislocate nel cuore della città. Ma neppure questo basta a far scattare la scintilla dell’opzione più economica: un trasloco negli stabili di proprietà al posto di un affitto che costa 1,3 milioni di euro l’anno.

Milano, si diceva. A novembre si è svolto l’ultimo tavolo tecnico ministero-comune-Demanio per mettere a punto il piano che dovrebbe portare alla cessione di tre caserme: due sono a Baggio, zona sud, la terza è la storica “Mameli” nell’area nord del capoluogo. Insieme fanno una superficie fondiaria di 720mila metri quadri equivalente a 50 volte Piazza Duomo, cento campi da calcio. Vuoi non trovare uno spazio per metterci gli uffici della locale Prefettura? Nessuno, a quanto pare, ci ha pensato. E così mentre la Difesa dismette, il Viminale spende. Fino all’anno scorso erano due milioni di euro per affittare sia il cinquecentesco Palazzo Diotti al 31 di Corso Monforte, proprietà della Provincia, sia il civico 27 di proprietà di un privato. “Due mesi fa abbiamo dato la disdetta dal 27 e il personale si è trasferito tutto nella sede principale”, fanno sapere dalla Prefettura. A conferma del fatto che di spazio, forse, ce n’era in abbondanza. Ma da quanto c’era la doppia sede? “Da quando sono qui c’è sempre stata”, dice la funzionaria. Difficile allora calcolare per quanti anni l’assegno è stato doppio.

Più paradossale ancora la situazione nella Capitale. Il 7 agosto 2014 è stato sottoscritto il protocollo tra gli enti interessati. L’elenco mette insieme tre caserme (Ulivelli, Ruffo e Donato) lo Stabilimento Trasmissioni Polmanteo, la Direzione magazzini del Commissariato, la Forte Boccea e l’area adiacente. Ma sempre a Roma il Ministero guidato da Alfano affitta come sede prefettizia il sontuoso Palazzo Valentini di via IV novembre alla modica cifra di due milioni di euro l’anno. A incassarli è la Provincia di Roma che ne è proprietaria dal 1873. Una partita di giro tra amministrazioni. Ma c’è anche l’Ufficio territoriale del governo divia Ostiense che fa sempre capo alla Prefettura e che in locazione costa all’amministrazione degli Interni un altro milione e mezzo di euro. Perché non usare le caserme vuote che non si riescono a vendere e magari liberare i ben più prestigiosi e appetibili gioielli di famiglia? L’opzione avrebbe tanto più senso considerati i costi di affitto che il ministero di Alfano sostiene per gli uffici dell’amministrazione centrale: i più costosi sono quelli di via Cavour 5 e 6 che costano 7 milioni di euro l’anno. Ma chi l’ha detto che si debba stare a due passi dal Colosseo e dai Fori imperiali? A seguire quelli al civico 45/a di via De Pretis che vien via, si fa per dire, a 1,6 milioni.

Passiamo a Torino. Nel paniere delle vendite sono finite le casermeCesare di Saluzzo, La Marmora, la Sonnaz, il Magazzino dell’artiglieria e difesa chimica. A novembre si è svolta la conferenza dei servizi per la verifica di assoggettabilità alla Valutazione ambientale strategica (Vas) dei sedimi militari. Ma nessuno che abbia alzato un dito per prospettare il trasferimento in uno di quegli edifici degli uffici della Prefettura che in locazioni bruciano oltre400 mila euro l’anno per garantire un affaccio in Piazza Castello e via del Carmine.

Si poteva fare di più o diversamente? Sì, e lo dimostra il casoNapoli. Nel capoluogo campano tutti i soggetti interessati sono finiti al tavolo del Monopoli. Il risultato è un incastro un po’ complicato che attesta, quantomeno, lo sforzo comune di ridefinire la destinazioni d’uso secondo una logica funzionale. Il Comune di Napoli riceve a titolo di permuta il trasferimento in proprietà dell’edificio residenziale di via Egiziaca a Pizzofalcone, che appartiene allo Stato. In cambio, lo Stato riceve la caserma “Nino Bixio” di proprietà del Comune che veniva utilizzata dal ministero degli Interni per ospitare il IV Reparto mobile della Polizia di Stato. Il Ministero dell’Interno, a sua volta, riceve ad uso governativo la caserma “Boscariello” finora usata dall’Esercito e lì metterà i reparti della “mobile”. Infine, la Difesa si prende la Bixio per aumentare lo spazio della Scuola militare “Nunziatella”. Manca qualcuno? Sì, la Prefettura che non tocca palla. Nel 2014 ha pagato1,3 milioni di euro per stare ai civici 8 e 22 della centralissimaPiazza del Plebiscito che è una delle più grandi e belle d’Italia. Difficile, del resto, trovare una location altrettanto prestigiosa per onorare il rappresentante del Governo.

«L'equivoco sta nel fatto che la crociera è turismo, la forma oggi più dinamica di turismo i cui clienti crescono del 7% medio annuo da oltre un ventennio senza conoscere crisi, ma è un turismo che impiega sempre più il suo tempo libero in nave e, comunque, lontano da Venezia». Il Gazzettino, 22 febbraio 2015

Nell'immaginario di molti interlocutori, anche autorevoli per il ruolo ricoperto, è radicata la convinzione del tutto infondata che le navi da crociera siano uno dei tanti mezzi come treni, autobus, le automobili e aerei. (...) Mezzi che scaricano su Venezia quei volumi di visitatori che le hanno fatto perdere ogni connotato di "città o centro storico" per trasformarla in " quartiere storico" consegnato solo al turismo. L'equivoco - che si può perdonare a tutti, ma non a chi ha responsabilità decisionali in materia - sta nel fatto che la crociera è turismo, la forma oggi più dinamica di turismo i cui clienti crescono del 7% medio annuo da oltre un ventennio senza conoscere crisi, ma è un turismo che impiega sempre più il suo tempo libero in nave e, comunque, lontano da Venezia.

A Venezia il 91% dei crocieristi del 2015 si imbarcherà all'inizio della crociera e vi sbarcherà alla fine. Per la città e il suo porto il crocierista passa, come ogni altra "merce" in partenza o in arrivo. Con in più il fatto che a Venezia le navi caricano le provviste per l'intera crociera e vi acquistano i servizi e le manutenzioni. Se si ferma negli alberghi di Venezia il crocierista lo fa prima o dopo la crociera e a prescindere da questa. Nel 2015 resterà, è vero, un 9% di "crocieristi giornalieri" sbarcati da navi di passaggio, quelle partite dal Pireo o da altri porti del Mediterraneo orientale, ma si tratta di poco più di 150.000 visitatori anno: briciole nei confronti dei 24 (27?) milioni o più dei visitatori annui di Venezia e, queste sì, briciole alle quali si può facilmente rinunciare per concentrare tutto sulle funzioni di porto crociere capolinea. Un equivoco, quello che confonde i crocieristi con i turisti che visitano Venezia, che ha conseguenze perniciose se non drammatiche. I crocieristi, incolpevoli, fungono da capro espiatorio di chi, giustamente preoccupato per l'eccesso di pressione turistica su Venezia, sbaglia completamente obiettivo. Quand'anche eliminassimo l'intero comparto crocieristico a Venezia - con conseguenze drammatiche per l'economia della città e per l'intera crocieristica italiana ed adriatica - la pressione turistica su Venezia non diminuirebbe in nessuna misura apprezzabile.
Per contro mentre i salotti buoni e i sedicenti paladini della difesa di Venezia e delle sue tradizioni artistiche e culturali si lavano la coscienza urlando contro le grandi navi (e contro le soluzioni utili a contemperare salvaguardia paesistica di Venezia con la sua eccellenza portuale crocieristica) cresce il ticchettio delle case che gli "amanti di Venezia" trasformano in bed and breakfast, dei palazzi una volta grandi residenze o centri di servizi professionali o finanziari che i veneziani trasformano in alberghi, dei laboratori artigianali trasformati in ristoranti e delle latterie in negozi di maschere. Con un ritmo che ha superato ogni ragionevole sostenibilità e ucciso non solo la città che Venezia storica non è più da tempo, ma anche il quartiere centrale di una più grande città che poteva/doveva essere la chiave della salvaguardia culturale della Venezia che fu. Ma l'importante è che le navi da crociera non giungano in Marittima neanche dalla bocca di Malamocco. Porto e mare hanno, forse, avuto un ruolo nella storia veneziana?

«Da Istat e ministero delle Finanze identikit delle abitazioni: 116 metri quadri, quattro stanze, 80% di proprietà. Spazi più ampi e confortevoli rispetto a dieci anni, famiglie meno numerose. Per chi non può permettersi proprietà né affitto privato, un’altra storia». La Repubblica, 22 febbraio 2015

La casa degli italiani - la casa privata, di proprietà - è sempre più grande e confortevole. E ha sempre meno cucina: deve lasciare spazio al soggiorno, nuovo centro del vivere interno. Per i fornelli è sufficiente un angolo cottura, in cucina non serve più abitarci. Soprattutto, le abitazioni (private) degli italiani sono in continua crescita. I “730” del 2013, ultimi analizzati dal ministero delle Finanze, dicono che a catasto sono inserite più unità immobiliari di quanta popolazione sia iscritta all’anagrafe: 60 milioni e 217mila pezzi quando i residenti, in Italia, nel 2012, erano 59 milioni e 394 mila. Di questi accatastamenti (cinque milioni in più in cinque anni), 33 milioni e 481mila sono abitazioni a uso residenziale, uno stock impressionante. Il resto, sono box e pertinenze. Il rapporto numerico dice che c’è un appartamento intero a disposizione di ogni italiano virgola 56. In un anno - 2011 su 2012, piena crisi economica - sono state costruite o sono emerse un milione e 100mila abitazioni in più. Gru e impastatrici non si fermano, e così l’anelito degli italiani: la casa.

Ecco, il 76,6% delle famiglie vive in un’abitazione di proprietà, dice il Mef. Al Sud si supera l’82 per cento. E l’abitazione in media, sorprendente, è larga 116 metri quadrati. Nell’immaginario immobiliare italiano ci sono i bilocali metropolitani per coppie, o per famiglie con un bambino: tutti stipati in un fazzoletto, ci si racconta. Ma i dossier statistici dicono che nell’Italia delle città medio-piccole, della provincia, delle molte seconde case, in verità le metrature si allargano.
In Umbria le abitazioni arrivano - è la media - a 133 metri quadrati, in Friuli e Veneto a 132. Visto che le nostre famiglie si assottigliano ma in cifra generale aumentano (sono passate da 21 milioni e 811mila nel 2001 a 26 milioni e 612mila nel 2011), cresce anche lo spazio a disposizione di ogni persona: 40,7 metri quadrati. Era di 36,8 metri dieci anni prima. Il dato che fa comprendere come gli italiani a casa loro stiano larghi è questo: su oltre 12 milioni di edifici residenziali quelli con un solo numero interno (uno stabile, un appartamento) sono più della metà: 6 milioni e 300mila. Quelli con più di dieci interni sono solo 455 mila, meno del 4 per cento. Significa che villette e appartamenti unici sono dodici volte più diffusi dei grandi palazzoni metropolitani.
I dati dell’Agenzia delle Entrate, presentati alla Camera la scorsa settimana, s’incrociano e incontrano con quelli prodotti tra giugno e agosto del 2014 dall’Istat con un ponderoso lavoro di tre anni sul censimento 2011 della popolazione (e delle sue case). Si scopre che un terzo dei cittadini italiani vive in quattro stanze, un quinto in cinque stanze, un sesto in appartamenti con più di sei stanze. Ecco, sono solo il 12 per cento i residenti compressi in mono e bilocali.
Gli studi certificano, poi, che la civiltà ha raggiunto davvero tutti. Il 99,9% delle case ha almeno un gabinetto: sono rimaste fuori solo 33mila residenze. Il 99,4% accoglie almeno una doccia o una vasca. Il 98,3% è servito dall’acqua potabile (si scende di cinque punti nelle Isole), il 96,8% è raggiunto dalle tubature di un acquedotto. Sì, il 99% delle abitazioni italiane conosce l’acqua calda, anche in campagna, anche in montagna. Sette volte su dieci con lo stesso impianto si possono riscaldare sia le camere che i rubinetti (si sale all’85,6% nel Nord-Est, si crolla al 35,5% nelle Isole). Sei residenze su dieci hanno un solo gabinetto, ma la quota di appartamenti con il secondo e terzo bagno è cresciuta del 27,1% sul 2001 (+29,6% al Sud).
Dicevamo la cucina, segno delle scelte architettoniche e di comfort degli italiani. È vero che tre quarti delle abitazioni del paese hanno una cucina abitabile, ma sono 2,3% in meno rispetto al 2001. Anche il cucinino, sottrazione per le case più piccole, è in decrescita dell’1,9% negli ultimi dieci anni. Poiché far da mangiare è necessario, si abolisce il vecchio schema per insediare un angolo cottura (+7,9%) che consente al soggiorno di avanzare nelle case moderne. In Valle d’Aosta e nella Provincia di Trento un quarto delle case è ormai dotato solo di angolo cottura, elemento che invece non decolla in Sicilia (5,3%), Puglia (7,5%) e Calabria (8,2%).
Dal 1971 al 2011 le abitazioni occupate sono passate da 15 milioni e 301mila a 24 milioni e 141mila per crescere ancora l’anno successivo. Le costruzioni non si fermano, e questo nonostante il 22,7% degli appartamenti sia vuoto o occupato da non residenti. Il fenomeno non può che svalutare il patrimonio degli italiani. Oggi una casa in Italia ha un valore medio di 181 mila euro, 1.560 euro a metro quadrato, l’1,8% in meno sul 2011. Un box vale in media 20mila euro, una soffitta di pertinenza 5.400 euro. A Roma un’abitazione viene prezzata 380mila euro, 800 mila nelle zone pregiate. A Milano 250mila euro, 700mila per i quartieri migliori. A Napoli 300mila nella media.
Poi ci sono quattro milioni e mezzo di affittuari, e sono l’11,2% in più in due anni. Nel Centro Italia guadagnano in media 11.500 euro l’anno, al Nord 10mila, al Sud e nelle Isole 7.500. Infine l’esiguo stock delle case popolari, per chi non può permettersi una proprietà, né un affitto privato. Ma questa è un’altra storia, di disponibilità, di metrature, di decenza. Lì - Milano e Roma l’hanno fatto vedere di recente - per ottenere e poi conservare un appartamento si fa la guerra.

L'Unità online, blog "Città e città", 20 febbraio 2015

Cosa vuol dire “cambia verso”, il fortunato slogan del premier Renzi? Pian piano cominciamo a capirlo.

Vuol dire annunciare una cosa e fare l’esatto contrario. Il lavoro a tutele crescenti sarebbe un bel progresso, soprattutto se di parla di lavoro giovanile. Peccato che nel jobs act le tutele siano calanti, e che la licenziabilità sia a discrezione totale del datore di lavoro almeno per tre anni. E uno.

Il decreto legge “Misure urgenti per l’emergenza abitativa” invece di occuparsi di dare casa a chi non ce l’ha, come pure annuncia, prevede la vendita del grande patrimonio pubblico di case popolari, e per chi occupa c’è il divieto di allacciamento di acqua e luce, o di avere un certificato di residenza. Né documenti né condizioni di vita decenti, come stare sotto i ponti. E due.

Il decreto “Sblocca Italia” consegna alla finanza la gestione della realizzazione delle grandi oopere, con i project bond, più sconti fidcali, più allargamenti della platea dei beneficiari, i cartelli dei grandi costruttori. E tre.

Il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi ha presentato una proposta di legge per contrastare la diminuzione del valore degli immobili, prodotto dalla crisi mondiale ma anche dall’enorme stock di costruito e invenduto in tutte le città italiane. E la ricetta sarebbe l’abolizione degli standard: la quantità di verde, scuole, servizi sanitari e amministrativi decente perché un quartiere sia vivibile. Per dare valore alle case degli italiani – d’accordo una bella fetta di Pd – basterebbe abolire gli spazi a verde e servizi e incrementare ancora il costruito, complimenti. Quartieri senza servizi che valgono di più: in quale mercato? E quattro.

La quinta storia è semplicemente incredibile. Avviene che nella civile regione toscana un assessore, Anna Marson, abbia presentato – unico esempio in Italia, le altre regioni sono inadempienti – il piano paesaggistico della Toscana. Un piano rigoroso, anche se contemperato con le esigenze delle escavazioni sulle Alpi Apuane, e con quelle di agricoltori e allevatori. Grande dibattito, tante discussioni e incontri con i cittadini. Alla vigilia dell’approvazione definitiva in consiglio regionale ecco una raffica di emendamenti che lo demoliscono, articolo per articolo. E non è solo l’opposizione a farlo, come è comprensibile. Il lavoro sporco lo fa il Pd, nella persona del consigliere Ardelio Pellegrinotti ma a nome di tutto il partito. Un partito che non si è neppure degnato di accettare la riunione chiesta con insistenza dall’assessore che sembra pronta a dimettersi se passeranno quegli emendamenti demolitori. In sostanza, resterebbero inviolabili solo le vette oltre i 1.200 a patto che non siano già state intaccate dalle cave. Per il resto, dall’ampliamento alle discariche di cava, via libera all’escavazione: che serve un piano paesistico se non incrementa la demolizione delle montagne?

Il paesaggio è cosa delicata, coinvolge la vita e la sua qualità. Sarà forse per questo che è così complesso varare un piano paesistico. Quello della Regione Toscana è d’avanguardia, e per i contenuti oltre che per i tempi. Certo, se si cancella dal testo anche l’obbligo di salvaguardia della «qualità percettiva dei luoghi» e l’obbligo di evitare «l’impermeabilizzazione permanente del suolo», consentendo di adeguare e ampliare ogni struttura turistica esistente, forse quel piano diventa inutile. Inutile anche un assessorato all’ambiente, in una regione che pure su ambiente e cultura basa la sua fortuna. E una discreta rendita economica.

La Repubblica, ed. Firenze 22 febbraio 2015

NELLA reprimenda che Enrico Rossi ha riservato al migliore dei suoi assessori, Anna Marson, si legge che il presidente toscano si adopererà «per trovare le soluzioni più avanzate per conciliare ambiente e lavoro». Rossi ce l'ha già in mano quella soluzione: è l’avanzatissimo Piano Paesaggistico, che il suo partito sembra deciso a inabissare.

Perché è importante chiarire un punto. Non siamo di fronte a uno scontro tra ambientalisti radicali e uomini di governo, o tra tecnici e politici. Siamo di fronte allo scontro tra una politica che crede in uno sviluppo sostenibile, e una politica che vuole perpetuare in eterno l'insostenibile stato delle cose. Come ha scritto lo stesso Enrico Rossi (nel suo Viaggio in Toscana), «il Piano offre una cornice di regole certe, finalizzate a mantenere il valore del paesaggio anche nelle trasformazioni di cui esso è continuamente oggetto». È verissimo: il Piano non avrebbe l'effetto di imbalsamare il paesaggio toscano, ma darebbe finalmente gli strumenti per governarne la trasformazione in modo responsabile. La sua approvazione sarebbe la vittoria di chi crede che il paesaggio non si salva con i vincoli, cioè con le (pur necessarie) proibizioni delle soprintendenze, ma con la capacità di immaginare un futuro condiviso. Sarebbe il successo di una democrazia matura: il Ministero per i Beni culturali ha accettato di rinunciare a una serie di vincoli perché convinto della qualità del Piano.

Ma ora tutto questo rischia di saltare, perché il pacchetto di emendamenti presentato dal Pd svuota il Piano al punto tale da renderlo inerte. Basterebbe questo comma: «Le criticità contenute nelle schede di ambito costituiscono valutazioni scientifiche non vincolanti a cui gli enti territoriali non sono tenuti a fare riferimento nell’elaborazione degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica». Se il Piano non è vincolante, se i Comuni non sono tenuti ad osservarlo: ebbene, quello non è più un piano, ma un auspicio. E il Mibact non lo firmerebbe. Insomma, il Piano morirebbe prima di nascere.

La cosa inquietante è che negli emendamenti di Forza Italia troviamo non solo la stessa volontà, ma le stesse identiche parole presentate dal Pd: «Le criticità contenute nelle schede di ambito costituiscono valutazioni scientifiche non vincolanti a cui gli enti territoriali non sono tenuti a fare riferimento nell’elaborazione degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica ». Siete capaci di trovare una sola virgola diversa dal testo del Pd?

E non è la sola convergenza letterale. Quando si parla dell'enorme problema della distruzione delle Apuane, Pd e Forza Italia piantano gli stessi paletti, con le stesse parole: «Salvaguardando, comunque, le cave esistenti e il loro futuro sviluppo». E si potrebbe continuare a lungo, purtroppo. Siamo evidentemente di fronte al tentativo di imporre a Rossi uno Sblocca Toscana, perfettamente allineato a quell'asse Renzi-Lupi che ha partorito lo Sblocca Italia, che è un triplo salto mortale nel passato, con il ritorno ad un consumo di suolo senza freni, e ad un totale asservimento dell'interesse pubblico agli interessi privati di lobbies industriali, edili ed estrattive.

Se i toscani fossero chiamati a un referendum, il Piano Marson passerebbe con l'80% dei voti. Mentre rischia di cadere in un Consiglio regionale in cui il peggio di vecchie stagioni, locali e nazionali, e il peggio del renzismo sono ormai indistinguibili. Se giovedì prossimo il Piano cadesse davvero, il finale di queste interminabili 'cinquanta sfumature di Rossi' sarebbe un monocolore senza sfumature. Grigio: come il cemento.

I fatti.

Nel corso della discussione in commissione regionale del piano paesaggistico regionale i consiglieri del PD preannunciavano la presentazione di una proposta di modifica la cui approvazione lo avrebbe radicalmente trasformato in un ennesimo libro dei sogni.

In alcuni articoli pubblicati o ripresi in eddyburg il 1, il 15 e il 20 febbraio (vedi i riferimenti in calce), avevamo denunciato la minaccia del PD toscano al piano paesaggistico, individuandone due principali componenti: (1) la pesante riduzione della tutela delle Alpi apuane, cedendo alle pretese delle imprese cavatrici con l’assicurare ulteriori possibilità di escavazione anche in aree a forte valenza paesaggistica e rischio geologico; (2) la trasformazione di tutte le “direttive” rivolte agli enti locali in “indirizzi”. Abbiamo osservato che quest’ultima proposta coincide con la delega piena di cospicui interessi pubblici all’imperio delle convenienze private; in definitiva, ridurre i “comandi” che la Regione trasmette ai comuni in semplici suggerimenti significherebbe annullare del tutto l’efficacia del piano.

Pochi giorni fa i consiglieri del PD presentavano l’insieme delle loro proposte Queste venivano illustrate in un ampio servizio del Corriere della sera del 21 febbraio. Nel servizio, oltre a descrivere i numerosi elementi delle modifiche proposte (una vera e propria riscrittura del piano), si dava conto ampiamente delle critiche del presidente del FAI, Andrea Carandini, e raccoglieva alcune valutazioni di Anna Marson, assessore all’urbanistica e promotrice del piano.

Marson affermava di trovare «sorprendente che il più grande partito di maggioranza si comporti come quello di opposizione, nella forma e nella sostanza. Evidentemente - proseguiva - le elezioni regionali vicine hanno scatenato comportamenti anomali e trasversali e mi sembra di vedere un partito del mattone e della pietra che cerca di affermarsi».

Dopo aver riportato il parere fortemente critico di Salvatore Settis l’articolo del Corriere cosí concludeva: «L'assessore Marson non esclude di lasciare l'incarico se il suo piano dovesse essere stravolto. “Prima dirò che cosa penso in Consiglio dice lei poi ci penserà qualcun altro a dimissionarmi” ».

Stranamente repentina la reazione di Enrico Rossi alle dichiarazione del suo assessore. Le denunce della manovra dei consiglieri del PD l’avevano visto silenzioso. Alle parole di Marson rispondeva poche ore dopo averle lette.

«Anna Marson è un grande tecnico che ha dato un contributo fondamentale sulla svolta attuata in Toscana nelle politiche per il governo del territorio. Ma quando esprime giudizi politici compie scivoloni pericolosi. Respingo quindi con fermezza le sue dichiarazioni sul ruolo del Pd dipinto in un intervista al Corriere della Sera in modo grottesco, come un partito antiambientalista, asservito ad interessi particolari».

«Occorre chiudere la legislatura con il lavoro straordinario che è stato fatto sul piano del paesaggio e con la nuova legge sulle cave. Esasperare i toni e le polemiche è il miglior regalo che può essere fatto a coloro che vogliono far fallire questi obiettivi» prosegue il Presidente. E cosí conclude: «Invito quindi a lavorare seriamente in commissione confrontandosi con posizioni anche diverse ma legittime e ricercando soluzioni avanzate per conciliare ambiente e lavoro».

Il commento

La vicenda è ancora aperta. Il voto del Consiglio regionale è previsto per il 10 marzo prossimo. Quel giorno si vedrà se l’intervento del presidente Rossi nel contrasto tra l’assessore Marson (un assessore non è solo un “tecnico”, presidente!) e i consiglieri del PD sia solo un buffetto dato a Marson per placare i falchi del PD, oppure se corrisponda a un deciso cambiamento di rotta rispetto al Rossi che avevamo conosciuto.

Se cosí fosse, sarebbe una profonda delusione per quanti, come noi, l’avevano considerato un personaggio anomalo nel mondo dei politici-politiciens di oggi: una persona capace di valutare il merito delle scelte, di decidere privilegiando l’interesse collettivo e di ispirare le sue azioni a una visione di lungo periodo.

Ma sarebbe anche una sconfitta per quell’ Enrico Rossi che abbiamo conosciuto. Quello che ha seguito con attenzione, e comprensione anche “tecnica”, gli sforzi per restituire alla Toscana il primato del saggio governo delle trasformazioni del territorio e del paesaggio, minacciato sempre più pesantemente dall’erosione del suolo e dalla devastazione del paesaggio, dalla sovra-infrastrutturazione d’ogni costa e d’ogni fondo valle e dallo svillettamento a go go. Quell’Enrico Rossi da cui abbiamo sentito pronunciare l’appassionato intervento a difesa della nuova legge urbanistica regionale, matrice del piano paesaggistico oggi minacciato dal partito di Renzi. È quell’Enrico Rossi che sarebbe tradito, e sconfitto, da un cedimento sui contenuti e sull’efficacia del piano paesaggistico.

Arrivederci al 10 marzo.

Riferimenti

Si vedano su eddyburg i seguenti articoli: Paolo Baldeschi, Dario Parrini: doctor Jeckill e Mr Hyde, Edoardo Salzano, Da che parte sta il PD toscano Mauro Bonciani (Corriere della Sera), La spallata del PD a Marson. Il piano del paesaggio azzerato

Corriere di Firenze, 20 febbraio 2015, con postilla

A due settimane dal voto in Consiglio regionale, fissata per il 10 marzo, il Pd riscrive il piano del paesaggio. E lo fa con un maxi-emendamento presentato in commissione che ammorbidisce vincoli e prescrizioni, riduce le criticità ad elementi conoscitivi e non facenti parte della programmazione urbanistica e territoriale, rivede quasi completamente la disciplina delle cave della Apuane. Il testo coordinato dal gruppo Pd insomma riscrive la riscrittura del Pit del paesaggio fatta dall’assessore all’urbanistica Anna Marson e dall’assessore all’agricoltura Gianni Salvadori a dicembre ed ha fatto arrabbiare Marson, che praticamente dall’inizio della legislatura subisce stilettate e attacchi dem. E che si trova davanti ad un documento che non considera più suo proprio a due passi dal traguardo della legge più rilevante di tutta la legislatura-Rossi.

Il governatore ad inizio della scorsa settimana è stato informato dal Pd della volontà di presentare l’emendamento diretto in particolare alle cave e che sosta l’equilibrio di nuovo verso i Comuni rispetto alla pianificazione regionale, e se è vero che c’è tempo fino a lunedì per depositare gli emendamenti (e quindi limare anche quello predisposto dal gruppo) e che gli emendamenti possono essere ritoccati o ritirati anche in aula, sarà decisiva la riunione della maggioranza fissata giovedì 26 e la parola dello stesso Rossi per capire se si arriverà alla rottura con Marson. Il governatore ha sempre difeso l’assessore da lui scelta in quota Idv, definendo il piano del paesaggio, assieme alla riforma delle Asl, l’atto più importante da portare a casa prima della fine del suo primo mandato. Rossi dovrà fare i conti con il gruppo Pd, espressione anche dei sindaci e delle associazioni che hanno chiesto la modifica del Pit, – «senza i nostri voti il piano non si approva», dice un consigliere dem nei corridori di Palazzo Panciatichi – con Marson che se non sarà convinta del testo finale dell’emendamento lo farà presente a tutti, e con gli alleati: e trovare una sintesi non semplice.
il nostro commento,
Intanto il maxi emendamento è stato presentato nella commissione ambiente presieduta da Gianfranco Venturi. spiegato il consigliere Giovanni Ardelio Pellegrinotti. «Il Piano è un atto complesso e condizionerà la vita dei cittadini toscani per i prossimi vent’anni. Non ci possiamo permettere di sorvolare su alcun punto. La nostra preoccupazione – spiega Ardelio Pellegrinotti, Pd, che ha coordinato il testo e che ha escluso altri emendamenti– è che il piano del paesaggio non ingessi troppo l’attività e lo sviluppo della Toscana anche attraverso indicazioni, prescrizioni e direttive che possono più o meno incidere e condizionare a seconda di come vengono declinati i singoli termini». «Prendo atto che il Piano non c’è più – è i commento di Monica Sgherri, Prc – I crinali delle Apuane, ad esempio, in forza del documento avanzato oggi, potranno essere modificati». Nicola Nascosti (Fi) ha annunciato la presentazione di 200 emendamenti: «Le criticità vanno cancellate, non si può ingessare tutto – spiega – e va riscritta tutta la parte delle cave, ma anche rivista quella del settore agricolo e balneare».

postilla
L'avevamo temuto, e raccontato, si veda l'"opinione" di Paolo Baldeschi, Dario Parrini: dottor Jeckill e mr Hide , il nostro articolo Da che parte sta il PD toscano nel conflitto tra tutela e distruzione del paesaggio. Adesso è almeno stracciato il velo dell'ipocrisia

Cifre e qualità di una ripresa economica “miracolosa” che però a ben vedere trova anche spiegazione in un fenomeno specificamente urbano, che l'articolo non sa o non vuole sottolineare. Corriere della Sera, 20 febbraio 2015, postilla (f.b.)

Quattrocentoventicinquemila posti di lavoro creati a New York, una città di poco più di otto milioni di abitanti, dall’uscita dalla recessione (fine 2009) ad oggi. Con una retribuzione media (oltre 87 mila dollari l’anno) elevata e in ascesa. Nella ripresa economica degli Stati Uniti, oggi l’unica vera «locomotiva» mondiale, New York cresce a velocità più che doppia rispetto al resto del Paese. Non era scontato dopo il crollo di Wall Street che ha provocato la più grande distruzione di ricchezza della storia universale e l’implosione di un settore, la finanza, che era la spina dorsale dell’economia della città.

Un miracolo frutto delle caratteristiche inimitabili della «capitale del mondo» o un recupero che può ispirare anche altri? I numeri dicono che a creare nuovo lavoro sono stati soprattutto sanità, ristorazione e servizi come alberghi e negozi. Impieghi che spesso non offrono retribuzioni elevate, ma che sono molto numerosi. E questo grazie a una crescita formidabile del turismo, attratto da una città che in questi anni è diventata molto più sicura, pulita e verde, coi nuovi arredi urbani e i milioni di alberi piantati dall’amministrazione Bloomberg.

 Certo, la ripresa immobiliare trainata dalla costruzione di torri per i super ricchi è un fenomeno che non si può replicare in Italia (e che anche il sindaco de Blasio cerca di contenere, per non alimentare ulteriormente le sperequazioni nella distribuzione del reddito). Ma, oltre alla cura per la sicurezza e l’ambiente, ci sono altri fattori che possono ispirare o far riflettere: gli investimenti nell’istruzione che non solo hanno fatto di New York una città accademica per eccellenza (Columbia, NYU, Fordham, Baruch, cento altri college, e presto la grande università tecnologica della Cornell che sorgerà su Roosevelt Island), ma hanno portato a Manhattan e Brooklyn molte aziende tecnologiche a partire da Google e Facebook.

Decine di migliaia di posti di lavoro dell’economia digitale ad alto reddito, una concentrazione — la «Silicon Alley» — ormai seconda solo alla Silicon Valley californiana. Ma le caratteristiche di fondo della città restano la flessibilità e la creatività che hanno consentito a New York di cambiare pelle già varie volte: da città portuale a metropoli industriale a polo di finanza e assicurazioni. E, ora, la New York dei servizi, dell’arte, di tv e cinema, dell’istruzione, e delle mille piccole attività manifatturiere, dalle fabbriche di stampanti 3D ai produttori artigianali di birra.

postilla
Come hanno osservato moltissimi commentatori americani, ma a quanto pare il corrispondente ha deciso di non rilevare, il boom economico di New York spicca soprattutto proprio per quest'ultimo aspetto soprannominato Silicon Alley, letteralmente il vicolo del silicone, versione rigidamente urbana del più noto distretto tecnologico californiano. Per usare come metafora il titolo di un noto best-seller di settore, questo è davvero un “Trionfo della Città”, del tutto in linea con le migliori tendenze di urbanizzazione planetaria, che spesso leggiamo descritte solo in termini di problemi ed emergenze. Quando si parlava mesi fa delle manifestazioni di San Francisco contro i Google-bus e l'impennarsi dei prezzi delle abitazioni, ci si scordava di menzionare come alla base di tutto ci fosse il ritorno in città di tantissime imprese di punta, che abbandonavano la dispersione nei campus suburbani, quelle impattanti e autoritarie cattedrali sul modello della sede Apple fortemente voluta sul modello classico anni '60 da Steve Jobs in persona. Il caso di New York conferma da un lato il potenziale trionfo del modello urbano su quello disperso, dall'altro l'importanza di enfatizzare gli aspetti propositivi di sviluppo e stimolo alla complessità, da affiancare o addirittura premettere alle politiche ambientali di contenimento del consumo di suolo e tutela di paesaggio e superfici agricole produttive. Quando si dice che la città moderna contiene sia le malattie che la loro cura, in fondo si intende soprattuto questo (f.b.)

Una bandiera di Forza Italia su un cantiere edilizio abusivo: è una metafora dell'Italia di ieri e di oggi. Forse al vecchio Duce le cose andavano un po' meglio. Il manifesto, 19 febbraio 2015

Qual­che volta capita di vedere una ban­diera ita­liana sopra una casa in fase di costru­zione. Sta ad indi­care in pri­mis l’orgoglio degli ope­rai per essere arri­vati all’ultima «get­tata», quella che cor­ri­sponde, di solito, alla coper­tura del tetto, senza alcun inci­dente nel can­tiere. Secondo poi indica che quell’edificio è stato rego­lar­mente auto­riz­zato. Que­sta con­sue­tu­dine è stata arro­gan­te­mente umi­liata alcuni mesi fa in un can­tiere situato a Borgo Piave, all’ingresso di Latina. Al posto del tra­di­zio­nale tri­co­lore è stata appo­sta una ban­diera di Forza Ita­lia. Sem­brò appa­ren­te­mente una goliar­data del costrut­tore, tale Vin­cenzo Mal­vaso, ori­gi­na­rio di Ser­rata (Reg­gio Cala­bria), che nel capo­luogo pon­tino è anche con­si­gliere comu­nale e pro­vin­ciale per conto di quel par­tito. Ma l’umiliazione con­si­steva, e con­si­ste ancora, nel fatto che i lavori erano molto lon­tani dalla fase in cui è «ammessa» quell’esposizione; il can­tiere non era ancora ulti­mato e pro­ba­bil­mente non lo sarà più. Da alcune set­ti­mane infatti l’edificio è stato posto sotto seque­stro dalla locale pro­cura della Repub­blica attra­verso gli ispet­tori del nucleo inve­sti­ga­tivo del Corpo fore­stale dello Stato, a causa delle gravi irre­go­la­rità emerse per la con­ces­sione del per­messo a costruire. A dimo­stra­zione dell’insopportabile «sgarro», il con­si­gliere Mal­vaso si sarebbe con­trad­di­stinto per una minac­cia diretta all’ispettore del Corpo fore­stale che stava appo­nendo i sigilli. Gli avrebbe infatti rivolto frasi del tipo «ti ricor­de­rai di me, ti ricor­de­rai bene di me», e ancora «così vi sputo addosso».

Nella città voluta dal Duce il Piano Rego­la­tore attual­mente vigente è stato com­ple­ta­mente stra­volto con cuba­ture che sono già in eccesso per il dop­pio rispetto alla popo­la­zione resi­dente. È usanza inol­tre sfrat­tare i pove­racci ma non i «came­rati» men­tre può capi­tare, come nel 2007, di vedere sotto inchie­sta (giu­dice Lucia Aielli, recen­te­mente desti­na­ta­ria di gravi minacce pub­bli­che di morte) la pro­prietà della società Key a seguito della ven­dita ad una casa­linga e ad un pen­sio­nato, entrambi cam­pani e quasi nul­la­te­nenti, ad un prezzo rite­nuto troppo basso (2,5 milioni di euro), di un grat­ta­cielo in pieno cen­tro. Si con­ti­nuano però ad edi­fi­care palazzi che restano vuoti. Segno evi­dente che chi inve­ste soldi in tal modo non ha urgente biso­gno di un ritorno eco­no­mico da tale investimento.

Nella Pia­nura Pon­tina si sta deva­stando l’intero ter­ri­to­rio, com­preso il Parco nazio­nale del Cir­ceo, in nome di un’economia che potremmo defi­nire malata di «cemen­ti­smo». Per non finirla qui, nella terra che doveva essere «sol­cata dagli ara­tri e difesa con le spade» fatte con lo stesso acciaio, ormai comanda solo quello che tutti chia­mano il «par­tito dei palaz­zi­nari». Guarda caso, tra i tanti edi­fici rea­liz­zati di recente c’è n’è uno dove l’attuale sin­daco Gio­vanni Di Giorgi avrebbe com­prato un appar­ta­mento di più di cento metri qua­dri da una società di cui è socio pro­prio Vin­cenzo Mal­vaso, ad un prezzo par­ti­co­lar­mente con­ve­niente. Il con­di­zio­nale è pre­sto spiegato.

Su richie­sta del pm Gre­go­rio Capasso è stata la gip del tri­bu­nale di Latina, Mara Mat­tioli, nella suo ordi­nanza di seque­stro, a met­tere in rela­zione il pre­sunto acqui­sto dell’appartamento da parte del sin­daco con la variante con­cessa al con­si­gliere for­zi­sta; variante che in realtà nascon­de­rebbe il gigan­te­sco abuso edi­li­zio, visto che vi è stato inse­rito un enorme pre­mio di cuba­tura rite­nuto ille­git­timo. L’ordinanza aveva posto pesanti dubbi sull’effettivo acqui­sto e spe­ci­fi­cava che comun­que que­sto è avve­nuto «a cavallo tra la prima deli­bera della giunta numero 359/2012 (quando la giunta comu­nale ha appro­vato la variante del Ppe di Borgo Piave) e la seconda deli­bera n. 3/2013 (appro­va­zione defi­ni­tiva della variante)». Incal­zato dall’opposizione, Di Giorgi si è giu­sti­fi­cato dicendo che per com­prare quell’appartamento avrebbe con­tratto un mutuo con una banca di Milano e che sta­rebbe rego­lar­mente pagando le rate di 1.350 euro al mese. Aldilà degli aspetti eco­no­mici, dalla let­tura dell’atto nota­rile risulta che l’edificio dove abita il sin­daco di Latina ha otte­nuto il cer­ti­fi­cato di abi­ta­bi­lità dallo stesso Comune per silen­zio assenso. Tra l’altro è stato costruito su un ter­reno appar­te­nuto ad altri costrut­tori molto vicini a Fi con il solito mec­ca­ni­smo delle pere­qua­zioni: cioè cedendo al mede­simo Comune le aree sotto le quali i pri­vati hanno rea­liz­zato i par­cheggi a ser­vi­zio del con­do­mi­nio. Le pere­qua­zioni infatti rap­pre­sen­tano una sorta di buli­mia cemen­ti­fi­ca­to­ria nel capo­luogo pon­tino. Coe­rente con tale impo­sta­zione Di Giorgi dice che anche per quanto riguarda il seque­stro dell’immobile a Borgo Piave sarebbe tutto a posto: la cuba­tura con­cessa, anche in que­sto caso con il mec­ca­ni­smo delle pere­qua­zioni, è in linea con la legge sul Piano casa. Una legge che per la verità aggiunge cuba­tura soprat­tutto la dove ce n’è già tanta. In defi­ni­tiva nelle ex paludi pon­tine ormai l’urbanistica è diven­tata nient’altro che un indi­stinto assem­blag­gio di edi­fici ano­nimi, costruiti spesso a disca­pito del verde pub­blico, senza alcun governo del ter­ri­to­rio e con lo scopo unico di fare soldi: un luogo insomma dove ti per­met­tono di costruire in libertà quello che ti pare. E se ogni tanto ti scappa di issare un bef­fardo sim­bolo di Fi dove stai costruendo più o meno legal­mente, magari nell’imminenza di una cam­pa­gna elet­to­rale, va anche meglio. Tanto chi lo sa cosa signi­fica met­tere in quel posto la ban­diera che iden­ti­fica una nazione chia­mata Italia?

«Il degrado urbanistico dei comuni italiani è dovuto a leggi scellerate volute con accordo trasversale sia dal centro destra che dal centro sinistra». .Da un numero monografico della webzina di Attac, Granello di sabbia, 17 febbraio 2015

Dal mese di aprile 2014 Roma è sostanzialmente fallita. La capitale dello Stato italiano ha accumulato un debito insostenibile di 22 miliardi quantificati dalla relazione di lavoro iniziata nel 2008 del commissario governativo e presentata al Parlamento. Se ne sono accorti in pochissimi. La notizia era così grave che renderla pubblica avrebbe provocato un terremoto sui mercati finanziari e molti investitori avrebbero preferito abbandonare un paese che vede la sua capitale portare i libri contabili al tribunale fallimentare. Ma gli economisti liberisti, il cui credo domina il mondo, trovarono una soluzione geniale: trattare la capitale d’Italia come una qualsiasi azienda decotta. Come già sperimentato con l’Alitalia, l’obiettivo fu quello di creare una bad company in cui far confluire tutti i debiti ed una nuova società pulita da affidare agli amici del cuore (nel caso di Alitalia, ai capitani coraggiosi guidati da Roberto Colaninno). E così è stato anche per Roma. L’amico del cuore stavolta rispondeva al nome di Gianni Alemanno, da pochi mesi eletto sindaco. Inizialmente ebbe poteri speciali in materia di bilancio e poi nel 2011 gli fu affidata una nuova creatura istituzionale pronta per l’uso: la vecchia Roma se n’è andata in pensione portando con sé 22 miliardi di euro di deficit.

Il caso del debito di Roma non è un’eccezione. Alessandria nel 2011 è stato il primo capoluogo di provincia ad essere portato al fallimento. Napoli è in fase di pre-dissesto. Parma è stata lasciata dalle amministrazioni di centro destra e cento sinistra con 850 milioni di deficit. Reggio Calabria è fallita. La quasi totalità delle amministrazioni locali è indebitata. Nel luglio 2014 sono stati complessivamente 180 i comuni italiani in default. Le cause sono sempre quelle elencate: opere pubbliche insensate, espansioni urbanistiche e utilizzo del comparto delle società di erogazione dei servizi come finanziamento occulto per il famelico mondo della politica.

Questo disegno scellerato si è servito anche dell’urbanistica, o meglio della sua distruzione. Dal 1994, anno dell’uscita del paese dalla crisi provocata da Tangentopoli, si è assistito ad una serie ininterrotta di provvedimenti legislativi e di concrete politiche che hanno cancellato le regole di governo del territorio per sostenere il comparto delle costruzioni. Questa scelta è stata sostenuta da un espediente retorico di grande efficacia: lasciando libera la proprietà fondiaria di disegnare le città si sarebbe avuta una nuova fase della vita urbana senza il ristagno dell’economia provocato da un’urbanistica accusata di non cogliere le ragioni del mercato. Le città sono diventate uno dei tanti segmenti dell’economia. Ma esse non sono meri settori produttivi: sono i luoghi in cui si vive, si lavora, ci si incontra, in cui ci sono le scuole per i giovani e i servizi di assistenza per gli anziani.

Grazie alla disarticolazione della legislazione di tutela e alla cancellazione dell’urbanistica si è prodotta la più grande espansione edilizia dal periodo dell’immediato dopoguerra. Nel 2013 l’Ispra, Istituto superiore di studi per l’ambiente, ha confermato quanto una parte degli urbanisti e delle associazioni aveva denunciato in quegli anni. Afferma l’Ispra che a fronte di un consumo di suolo medio europeo del 3,2% sul totale della superficie, in Italia il valore è pari a 6,2%, poco più del doppio. A parità di popolazione insediata e di luoghi per la produzione industriale o terziaria, in Italia abbiamo cementificato il doppio dei paesi che hanno invece mantenuto il controllo del territorio. La cancellazione delle regole ha prodotto un’esplosione edificatoria gigantesca, una frammentazione edilizia cui la mano pubblica deve fornire comunque i servizi e garantire il soddisfacimento dei bisogni primari, dalla mobilità, all’istruzione e all’assistenza sanitaria. Roma e tutte le città italiane pagano con un indebitamento crescente le politiche urbane che hanno dominato l’Italia per venti anni.

La diffusione urbana è così evidente da essere notata anche da un autorevole membro del neoliberismo. Nel giugno 2014 Carlo Cottarelli, chiamato dall’ottobre 2013 (governo Letta) quale commissario alla Spending Review, dopo anni di attività nel Fondo monetario internazionale, scopre dall’esame delle immagini satellitari notturne che la struttura territoriale italiana presenta anomalie rispetto all’Europa del nord poiché è più frammentata e dispersa, ulteriore conferma che abbiamo costruito troppo. La soluzione proposta da Cottarelli è coerente con i dettami del liberismo. Non chiede infatti di fermare la folle macchina del cemento. Afferma che il rimedio è quello di spegnere l’illuminazione pubblica in modo da spendere di meno.

Abbiamo il doppio dell’urbanizzato e conseguentemente spendiamo il doppio per far funzionare le città. I comuni italiani sono stati infatti costretti a inflazionare il cemento e l’asfalto perché così ha deciso l’economia dominante. Il principale responsabile di questo disastro è senza dubbio Franco Bassanini (Pd), Ministro della Funzione pubblica (2001, governo Amato), che in quel ruolo decise che gli oneri di urbanizzazione che i costruttori versano ai comuni per costruire servizi, potevano essere utilizzati anche per la spesa corrente e tutti le amministrazioni locali hanno fatto ricorso a quel cespite di finanziamento. Del resto, sono stati praticati da anni tagli lineari dei trasferimenti statali che hanno portato all’attuale generalizzata bancarotta. Per capire l’ammontare della manovra, basti dire che nei sei anni dal 2008 al 2013 sono stati tagliati 17 miliardi di euro, oltre 2 miliardi e mezzo all’anno.

Il degrado urbanistico dei comuni italiani è dovuto a leggi scellerate volute con accordo trasversale sia dal centro destra che dal centro sinistra. Domina però tutto il quadro la figura di Franco Bassanini, come abbiamo visto. Ed è forse per il grande merito di aver distrutto le amministrazioni locali che – ancora con accordo bipartisan – nel dicembre del 2008 fu nominato dal governo Berlusconi a capo della Cassa Depositi e Prestiti. E questa è una vicenda nota ai lettori della rivista perché Attac e Marco Bersani ne hanno fatto una meritoria battaglia.

Articolo tratto dal granello di sabbia di gennaio/febbraio 2015 "Enti locali: cronaca di una morte annunciata", scaricabile qui

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