Il manifesto, 15 aprile 2015
L’Italia è un paese dove non si smette mai di stupirsi. In bene, in male. Oppure, più semplicemente, per la sorpresa di accorgerci all’improvviso di quanto fino a quel momento non avevamo neanche sospettato. Faccio due esempi concreti, che riguardano da vicino il mondo dell’ambiente e del territorio, di cui da qualche anno ci occupiamo.
Si tratta di Enrico Rossi, presidente della regione Toscana; e di Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del consiglio, e ora, da pochi giorni, ministro delle Infrastrutture, al posto di quel Lupi, defenestrato da una (tutto sommato) modesta intercettazione.
L’uno, si dice, esponente della vecchia guardia postcomunista; l’altro, si dice, esponente dell’ala del Pd più vicina a Renzi. Ma queste differenze, ora, ai fini del nostro discorso, contano poco (mi pare).
Poco tempo fa, il manifesto ha pubblicato (il 2 aprile) un articolo, “I nazareni della Toscana”, in cui riassumevo le vicende relative all’approvazione in quella regione di un fondamentale Piano paesaggistico, considerandola (ad onta di qualche attenuazione in corso d’opera) «una grande vittoria». Appena qualche giorno dopo (5 aprile), interviene sul manifesto Enrico Rossi, appositamente (si direbbe) per condividere questo punto decisivo: «Anch’io sono d’accordo che la sua adozione sia stata una grande vittoria…».
Rossi sorvola (non a caso, purtroppo) sul fatto che quell’adozione sia il frutto del lavoro lungimirante e prezioso della sua assessora all’Urbanistica, Anna Marson, e che in seno al Consiglio le opposizioni più feroci a quell’approvazione siano venute da esponenti del suo partito, il Pd, spesso coalizzati con le forze di opposizione al suo governo regionale. Ma riconosce che una parte non irrilevante del merito sia di quelle forze ambientaliste, che hanno posto «al centro del dibattito e della ‘questione democratica’ i temi della partecipazione, della rappresentanza e [addirittura] dei beni comuni».
Veniamo al secondo caso.
Graziano Delrio è ministro delle Infrastrutture da un paio di giorni. Acquisto in edicola la Repubblica. In prima pagina uno strillo di notevoli dimensioni: «Delrio: basta Grandi opere. Solo lavori utili». Sospetto che si tratti di una di quelle amplificazioni giornalistiche, che servono solo a lanciare improvvidamente un caso. No: nell’intervista il concetto è ripetuto più volte, quasi a volerlo sottolineare, e in maniera inequivoca. Per fare un solo esempio: «…la nostra strada [rispetto al passato] è un’altra, con noi finisce l’era delle grandi opere e si torna a una concezione moderna. Dove le opere [non necessariamente grandi, come si vede] sono anche la lotta al dissesto idrogeologico, la mobilità urbana, le scuole».
Ohibò, che il ministro Delrio si sia iscritto nottetempo alla Rete dei comitati per la difesa del territorio, e io non ne abbia saputo nulla?
Il discorso sarebbe lungo, — mi piacerebbe, ad esempio, sapere quale senso attribuire alla definizione di «concezione moderna», cui Delrio si richiama, — ma io mi propongo qui di tracciarne solo alcuni lineamenti fondamentali.
La mia prima reazione, sulla base di una lunga esperienza, sarebbe: chiacchiere. Tanto più che in Toscana pendono sulla testa degli attori politici le imminenti elezioni regionali (31 maggio), e si sa che per qualche voto in più si è disposti a fare le affermazioni più sfrenate. Propongo per questa volta di seguire la strada opposta.
Pesano sul destino della Toscana (mi limito a questo ambito, che conosco meglio, ma non sarebbe difficile allargare la rassegna a una dimensione nazionale) almeno due “grandi opere”, da intendersi nel senso più classico ed esecrando del termine, esattamente quello che il ministro Delrio sembrerebbe aver esorcizzato in due parole nel corso della sua intervista: e cioè il Sottoattraversamento ferroviario di Firenze e la seconda pista dell’aereoporto fiorentino di Peretola.
Ambedue distruttive, inutili, dispendiose, fonte (come già si è dimostrato, e meglio si potrebbe dimostrare) di corruzione e persino di pesanti affarismi politici. La Rete dei comitati per la difesa del territorio possiede le competenze per dimostrare inequivocabilmente tutto questo, e persino per indicare, — e in molti casi ci sono, — soluzioni alternative. E non ho alcun dubbio che le altre Associazioni ambientaliste, a fianco delle quali è stata condotta la battaglia a sostegno del Piano paesaggistico, sarebbero ben liete di apportare il loro contributo a un’ipotesi del genere.
Invito il ministro Delrio, il presidente Rossi e, of course, il ministro Franceschini e il sottosegretario ai Beni Culturali Borletti Buitoni, ad un confronto faccia a faccia su queste tematiche e, più in generale, su questo indirizzo di governo: naturalmente pre-elettorale, perché questo gli conferisce un’importanza e un’autorevolezza, che in caso contrario si perderebbero.
In Toscana (come ovunque, del resto) le tematiche alternative sono altrettanto rilevanti di quelle due oppositive, su cui in precedenza mi sono soffermato: per esempio, il dissesto idrogeologico (appunto); una diversa impostazione della questione geotermica; le condizioni del trasporto ferroviario locale, che sono penose, e che il Sottoattraversamento di Firenze peggiorerebbe ancora.
C’è materia non solo per evitare errori clamorosi, anzi catastrofici. Ma anche per ridisegnare le caratteristiche di un diverso sviluppo regionale con “opere” (non necessariamente “grandi”) avvedute, sensate e lungimiranti.
Se è vero, come scrive Rossi, che «al centro della questione democratica ci sono i temi della partecipazione e dei beni comuni», è qui ed ora che lo si prova
Laggiù qualcosa si muove. mette le radici. Cresce. Dall'emarginazione nascono nuove centralità, germogli d'un possibile mondo nuovo. Comune.info, 11 aprile 2015
Le attrezzature di cucina sono arrivate grazie ad alcune fondazioni bancarie, lo stabile, con affaccio sul grande parco della Villa comunale, è stato assegnato in comodato dal Comune, il mobilio è stato realizzato in autoproduzione con fantastici materiali di riciclo. Al Chikǔ ha sede anche l’associazione di promozione sociale Chi rom e… chi no, che si occupa di ricerca e formazione sui temi dell’educazione rivolta all’infanzia, agli adolescenti e adulti rom, italiani e stranieri. Ha realizzato un piccolo abbecedario italiano/romanes con le parole degli affetti e dell’accoglienza, illustrato da bambini. É in funzione anche uno sportello legale per la tutela dei diritti. Di tutti.
Paolo Cacciari è autore di articoli e saggi sulla decrescita e sui temi dei beni comuni. Questo articolo è stato pubblicato anche su Left. Il nuovo libro di Paolo Cacciari, Vie di fuga (Marotta&Cafiero) – un saggio splendido su crisi, beni comuni, lavoro e democrazia nella prospettiva della decrescita – è leggibile qui nella versione completa pdf (chiediamo un contributo di 1 euro).
Il Sole 24 Ore, supplemento culturale, 12 aprile 2014
Benedetto Croce chiamava i loro paesaggi “il volto amato della Patria”, ma a noi che in Abruzzo andavamo a sostenere, in pochi, i soliti pochi (Antonio Cederna, Mario Fazio, Salvatore Rea, chi scrive e qualche altro) le battaglie di Michele Cifarelli presidente del Parco Nazionale e di Franco Tassi sagace direttore, rinfacciavano di essere “amici del lupo e dell’orso, non dell’uomo”. Eppure quel Parco e l’altro del Gran Paradiso esistevano dal 1922 e li avevano voluti Croce quale ministro della Pubblica Istruzione e il sottosegretario Giovanni Rosadi. Unitamente alla legge, pure del 1922, sulle “bellezze naturali”. Il fascismo ne aveva aggiunti due: Circeo, dalla storia travagliata, e Stelvio. Poi più nulla per settant’ anni. E anche quel poco che c’era sovente a rischio. A Pescasseroli patria di don Benedetto alcuni avvocati dello Stato avevano per primi costruito residences abusivi. Il senatore Mario Spallone, aveva proposto una sorta di autostrada urbana nel Parco da intitolare all’amico Palmiro Togliatti. Di parchi regionali neppure si parlava anche se Italia Nostra presieduta dallo scrittore Giorgio Bassani e il Wwf fondato da Fulco Pratesi stavano rilanciando alla grande le aree protette.
Nell’estate del 1972 ci trovammo, sempre con Bassani, Cederna, Bernardo Rossi Doria, Paolo Ravenna alla splendida Abbazia di Pomposa per un convegno sul Parco del Delta ancora sulla carta. Lì ci fu annunciata una marcia, non proprio pacifica, degli aspiranti lottizzatori di Goro, i quali reclamavano una strada litoranea che consentisse di far proseguire i Lidi ferraresi a nord tranciando il Boscone estense della Mesola. Dovette mettersi in mezzo il presidente della Regione Guido Fanti per fermare fisicamente e politicamente il corteo. Purtroppo si riuscirono a realizzare, anni dopo, dal Polesine al Ravennate, soltanto due Parchi regionali dalla vita piuttosto mediocre. Eppure allora la spinta politica c’era se un modesto quanto appassionato artigiano, l’assessore Germano Todoli, chiuse alla caccia la storica Pineta comunale di Cervia, provocando un terremoto. “E’ tornata a cantare l’upupa”, mi annunciò un giorno emozionato. Tornata anche ad essere - come canta Eugenio Montale - ilare “nunzio di primavera”. Poi la grande crescita, negli anni ’80 e ’90, a partire dall’Aspromonte, di sempre nuovi Parchi Nazionali e regionali, i primi in specie coi ministri Ruffolo, Spini e Baratta. Fino a raggiungere quota 23, più il Parco del Gennargentu per il quale purtroppo non si è mossa foglia. Siamo così passati dalla miseria di un 3 % di territorio protetto dai Parchi Nazionali al 10,5. Circa 1 milione e mezzo di ettari. Oltre 3 milioni se sommati a parchi regionali, oasi, riserve naturali. Una quota inimmaginabile anni fa e che ha certo concorso, con questi poderosi “polmoni” di verde, a migliorare la qualità della natura e quindi della vita di tutti. Purtroppo i fondi destinati ai Parchi nazionali si sono fatti sempre più avari. Nel 2012 appena 63 milioni di euro, 42 per ettaro, 20 % in meno della media europea. Mentre soltanto di tasse lo Stato ne ricava 300 milioni, e i visitatori assommano a 34 milioni, con un giro d’affari della “economia dei parchi”, sostenibile, biologica, superiore al miliardo.
Inoltre i criteri di nomina dei responsabili degli Enti sono sempre meno tecnico-scientifici e sempre più circoscritti: ex sindaci (magari, come per le Foreste Casentinesi, mirabile parco storico-naturalistico, ex presidenti dei cacciatori), ex assessori, sostenitori di ski-lift e sciovie a tutto spiano, rappresentanti di interessi corporativi e/o localistici. Con la tendenza ad “aprire” gli stessi consigli ai rappresentanti di attività incompatibili. Si pensi alle accese polemiche dei cavatori industriali dei marmi delle Apuane contro il Piano paesaggistico appena approvato dalla Regione Toscana. Addirittura si tende a smembrare i grandi Parchi Nazionali. Ne è minacciato da anni il più antico, il Gran Paradiso, ma ancor più il Parco dello Stelvio a ottant’anni dalla sua istituzione: pochi giorni fa la Commissione dei Dodici ha deciso il trasferimento delle competenze dallo Stato alle due Province Autonome di Trento e Bolzano e alla Regione Lombardia. Tocca al governo perfezionare ora con decreto quello che la fondatrice del FAI, Giulia Maria Mozzoni Crespi, definisce “un gigantesco passo indietro, una scelta senza precedenti in Europa”. Uno “spezzatino” che già nel marzo 2011 il presidente Napolitano, va ricordato, si rifiutò di firmare.
iC’era una volta un economista molto attento ai temi ambientali. E c’erano anche - queste per la verità ci sono ancora - persone molto distratte. Per l’esperto, dunque, non era facile far comprendere - neppure ai propri studenti - l’importanza, soprattutto economica, dell’uso conservativo delle risorse naturali. Il professore, però, non si arrendeva e continuava a ripetere che “i grandi investimenti immobiliari lungo numerosi tratti delle coste sarde sono interventi irreversibili e consumano in modo definitivo e particolarmente alto la natura nella quale si situano”. Per il bene comune era troppo importante che tutti capissero come “ogni investimento effettuato per aumentare il grado di sfruttamento turistico della risorsa (strutture ricettive, per esempio) ne determini un “consumo” irreversibile, e di conseguenza la qualità ambientale, l’attrattività del suo scenario naturale diminuisca”.
In principio l’economista provò con la metafora del pastore: un esempio utile per tutta la popolazione visto che le pecore in Sardegna sono di casa da molto più tempo dei turisti. Richiamando la nota analisi di Hardin, identificò la proprietà comune di una risorsa naturale con un pascolo a disposizione delle greggi di tutti i pastori, ognuno con gli stessi diritti. E’ ovvio, ha spiegato l’economista, che tale situazione risulta sostenibile solo se le pecore consumano una quantità di erba pari al suo livello di crescita: in questo modo, non si impoverisce il pascolo e non si intacca il foraggio per il futuro. Se le greggi consumassero una misura superiore di erba, viceversa, la disponibilità diminuirebbe con un grave e irreversibile impoverimento del pascolo.
Ma perché questo dovrebbe accadere? Non dovrebbe essere nell’interesse di tutti comportarsi in modo da evitarlo? Nella risposta a questa domanda - avverte il professore - c’è l’essenza di quella che viene chiamata la “tragedia dei beni comuni”. Guardiamo la situazione con gli occhi di un singolo pastore, ha poi spiegato. Per lui portare qualche pecora in più al pascolo significa guadagnare di più, perché poche pecore trovano maggiori quantità di erba. Anche nel caso in cui il nostro pastore fosse meno egoista - ha osservato lo studioso - potrebbe comunque, convincersi che qualche altro lo sarà e quindi, tanto vale comportarsi nello stesso modo. Il pastore, dunque, aumenterà i propri benefici, creando un effetto negativo per gli altri pastori. Tale effetto negativo si chiama esternalità - ci insegna l’economista - perché i costi così provocati ricadono sugli altri e non sono pagati da chi li causa. Portando al pascolo più pecore per guadagnare di più il singolo pastore crea una situazione che da sostenibile diventa insostenibile, ma in assenza di un’autorità regolamentatrice nessuno può imputare al responsabile il costo causato da questa azione. Così ognuno verrà condotto ad agire in modo egoista, portando alla rovina collettiva: tutti aumenteranno lo sfruttamento e il pascolo sarà consumato completamente. Questo esempio, conclude l’esperto, “ha diverse applicazioni in molti campi dell’economia ambientale, compreso quello dello sviluppo turistico di una località dotata di particolari bellezze naturali e consente di individuare i meccanismi politico affaristici che spesso, in Sardegna, hanno permesso la realizzazione di interventi simili all’eccessivo sfruttamento del pascolo, in nome di una loro ipotetica (e quasi sempre del tutto ingiustificata) capacità di contribuire a risolvere il problema della disoccupazione”.
Il discorso è logico, la metafora chiarissima, eppure niente da fare, nessuno comprende, le vie Gluck si moltiplicano e tutti continuano a costruire case su case. E non lasciano l’erba. Peggio molto peggio delle pecore del pastore egoista.
Ma il professore, tenace, non si arrende e confidando in un risveglio degli intellettuali ricorda “un risultato classico dell’economia dell’ambiente [Krutilla e Fisher (1975)], non sempre” -sottolinea - “tenuto nella dovuta attenzione dalle autorità competenti in materia di sviluppo turistico”. Da tale studio emerge che “quanto più si hanno motivi per ritenere che le preferenze dei consumatori premieranno in futuro l’alta qualità ambientale del prodotto turistico, tanto più diventa necessario essere estremamente prudenti in materia di sviluppi turistici ad alto consumo irreversibile della risorsa ambientale”. Il turismo sardo degli ultimi decenni, viceversa, “basato in gran parte sulla costruzione di seconde case spesso con alto impatto paesaggistico negativo, ha ignorato troppe volte ogni ragionevole criterio basato su qualche definizione chiara e riconoscibile di sostenibilità economica. E ci sono casi in cui la miopia o un alto tasso di sconto di rendimenti futuri possono indurre allo sfruttamento eccessivo della risorsa anche imprenditori seriamente intenzionati ad associare i propri destini economici con quelli della località turistica in cui decidono di investire”.
Questa è l’ultima spiaggia, ha decretato, infine, in un saggio di successo l’economista e “l’unica soluzione è che esista una autorità riconosciuta, che sia capace di coordinare le azioni degli individui, offrendo incentivi e impartendo sanzioni per coordinare il comportamento di ognuno in modo da ottenere l’uso ottimale aggregato della risorsa”.
Questa volta il professore, seppure dopo molti anni e a prezzo di diversi piani casa, non è rimasto inascoltato. Alcuni cittadini, che nel frattempo avevano imparato la lezione, hanno avuto un sussulto e l’hanno eletto presidente della regione, riconoscendo proprio in lui l’autorità che deve garantire “l’uso ottimale aggregato della risorsa”, l’unica che possediamo. Con la nascita del politico, però, l’economista è rimasto vittima di uno strano sortilegio e ha perso completamente la memoria. Non solo. E’ stato invaso da una vera e propria smania di consumo. E ha deciso che subito, immediatamente, qui e ora, si deve consumare tutta, ma proprio tutta, quella risorsa ambientale che per anni aveva difeso in modo strenuo e disperato. Inutilmente abbiamo cercato di fargli comprendere, usando le sue stesse parole, che “il risultato delle analisi di Krutilla e Fisher è fondamentale, perché conferma che - nell’alternativa tra conservare una risorsa naturale con valore ambientale in sé o invece usarla come input di un processo produttivo che la consuma - l’incertezza sulle preferenze delle generazioni future, aumenta la possibilità che la scelta economica ottimale per l’intera società sia quella a favore della conservazione della risorsa naturale”.
E che proprio questo “è il motivo per cui imprenditori anche molto “avidi”, anche molto poco sensibili alle bellezze naturali, possono scoprire la convenienza economica di preservare la qualità della risorsa che attrae i turisti e che non è rinnovabile”.
Ancora increduli gli abbiamo ricordato di quando sosteneva che “le analisi di tipo “costi-benefici” utilizzate in Sardegna per decidere il rendimento di un investimento di sviluppo turistico hanno ignorato questo fondamentale risultato, con la conseguenza che è stata spesso data via libera a progetti che si sono dimostrati economicamente insostenibili”. Non c’è stato verso. Questi progetti “economicamente insostenibili” devono crescere fino al 25 per cento. Un quarto del volume esistente. Non solo alberghi, resort, prime, seconde e terze case, ma anche capannoni industriali e in misura minore, centri commerciali. Centinaia e centinaia di milioni di metri cubi. E poco importa se si trovano in centro storico, in area vincolata o all’interno dei 300 metri dal mare o dagli stagni. E se sono incostituzionali e contrari all’ottimo Piano Paesaggistico. Così sarà. Lo stabilisce un disegno di legge su un nuovo Piano casa che avrà durata illimitata, ed è in corso di approvazione nel Consiglio regionale.
Abbiamo cercato di fermare questa folle frenesia, ricordando la presenza di leggi europee e nazionali che impediscono la realizzazione di un numero imprecisato di interventi senza calcolare gli effetti che questi produrranno sull’ambiente. Esiste una procedura obbligatoria - valutazione ambientale strategica (VAS) - abbiamo scritto, che impone di determinare in anticipo l’impatto delle nuove opere sul territorio. Nessuno ha risposto.
E la settimana prossima milioni di metri cubi di cemento sommergeranno per sempre la nostra ultima spiaggia.
La Nuova Sardegna, 10 aprile 2015
Il piano paesaggistico della Toscana è stato approvato. Dopo uno scontro che rispecchia lecontrastanti opinioni nel PD su questi temi. In una temperie sfavorevole alla custodia di valori screditati dalla crisi, e da provvedimenti come “SbloccaItalia”. Anna Marson è l'assessore all'urbanistica che si messa in mezzo, per impedire il tiro a segno di emendamenti allo strumento frutto di un lavoro accurato. Con l'obiettivo di non disperdere la ricchezza di una regione speciale, azionista essenziale dell'iconografia italiana celebrata nel Mondo. Il paesaggio conta. E a proposito di ricchezza è normale chiedersi se senza l'armonia che distingue le campagne tra Firenze e Siena ci sarebbero ad esempio quei vini preziosi.
Ci sono analogie con la Sardegna. Anche contro il piano paesaggistico voluto dal governo Soru ci sono state e ci sono ostilità. In fondo pesa il disorientamento nel dibattito a sinistra.
In effetti, in entrambi i casi si è configurato contro il piano un blocco bipartisan. In Sardegna ciò ha provocato addirittura la caduta di Soru. In Toscana sia l'ampia mobilitazione a livello sociale e culturale che l'intervento del Mibact, hanno consentito un recupero in extremis. L'argomento pretestuosamente usato in entrambi i casi è stato quello della contrapposizione tra tutela e sviluppo, mentre anche il caso sardo - raccontato di recente nel bel libro a cura di Edoardo Salzano, «Lezioni di piano» - evidenzia con chiarezza come ciò che si intendeva perseguire bloccando l'ulteriore edificazione della costa fosse un diverso modello di sviluppo, capace di mettere in valore lo straordinario patrimonio insediativo esistente nelle aree interne.
È possibile spiegare in sintesi perché il piano della Toscana può servire a consolidare la ricchezza di una regione già molto fortunata?
Anche la Toscana condivide la situazione di crisi in cui si trova oggi l'Italia, ed è oggetto di diverse acquisizioni da parte di gruppi finanziari globali. Decidere come comunità regionale ciò che si può fare perché qualifica il paesaggio e valorizza il territorio con ricadute positive, è in questo momento fondamentale. E va fatto con le regole e con l'esempio.
Le richieste di accomodamenti sono sembrate lontane dalla saggezza antica che ha originato il paesaggio toscano - il Buon governo negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti - e pure dal rigore della scuola urbanistica fiorentina.
L'affresco che illustra gli effetti del Buon governo rappresenta in realtà un progetto (a fronte di pratiche che anche allora non sempre erano virtuose), una sorta di "norma figurata", diremmo noi oggi, un progetto retto dai princìpi rappresentati nell'Allegoria: Giustizia, Sapienza, Concordia, Saggezza, Magnanimità ...e così via. Il Comune di Siena è rappresentato come il Bene Comune, dunque l'essenza dell'interesse collettivo. Interrogarsi su ciò dovrebbe essere sforzo costante delle istituzioni pubbliche.
C'è chi ha pensato di influenzare il dibattito per perpetuare privilegi nello sfruttamento di risorse che dovrebbero stare fuori dal mercato. C'è il tema delle cave ma non solo.
Certo, e questo atteggiamento è stato rafforzato dalla prossimità con le elezioni. Però la CGIL si è schierata dalla parte del piano. La CGIL sulle cave si è schierata con il piano condividendo il tentativo di garantire quanto più possibile la lavorazione in loco del materiale estratto, a fronte dell'esportazione di gran parte dei blocchi grezzi. Negli ultimi decenni i rapporti tra quantità estratte e posti di lavoro sono andati divaricandosi. Il tentativo con il piano del paesaggio è stato quello di socializzare almeno parte dei guadagni, riducendo i costi ambientali e paesaggistici. La Fillea ha condiviso l'ipotesi di evitare il consumo di suolo per promuovere la riqualificazione delle aree urbanizzate con interventi capaci di coniugare una maggior qualità dell'abitare con la qualità del lavoro impiegato per realizzare le opere.
Nel PD affiorano posizioni distanti dalla cultura ambientalista. Non è una novità che nella Toscana rossa si manifestino propensioni a ridurre le tutele del territorio, penso alla speculazione Fiat-Fondiaria a Firenze impedita da Occhetto nel 1989. Ecco l'utilità di sguardi vicini e lontani che si intrecciano. In questo caso l'intervento dello Stato attraverso il Mibact è servito a contenere lo stravolgimento del piano.
L'intervento del ministro, e della sottosegretario Borletti Buitoni, è stato decisivo. Nella mia esperienza il fatto che i livelli di decisione siano diversi è fondamentale per dare corpo ai principi di adeguatezza, interesse collettivo e sussidiarietà.
Come intuiscono alcuni urbanisti, la cosiddetta crisi delle periferie deriva da distorsioni novecentesche, come quella di avere privilegiato aspetti fisici su alcuni obiettivi sociali che ne avrebbero modificato gli equilibri. La Repubblica Milano, 9 aprile 2015, postilla (f.b.)
Il modello milanese di “scuola aperta” da esportare negli istituti di tutta Italia. Con le aule dove di mattina studiano i bambini messe a disposizione la sera per incontri culturali e cineforum, le palestre che accolgono lezioni di danza e yoga, e le biblioteche che diventano un luogo di studio anche per i più grandi. Sarà ascoltato oggi alla Camera, in commissione Istruzione, Giovanni del Bene, l’ex preside del comprensivo Cadorna ora a capo dell’ufficio “Scuole aperte”, il quartier generale nato l’anno scorso a Palazzo Marino in collaborazione con l’Ufficio scolastico regionale con l’obiettivo di aiutare asili, elementari e medie a organizzarsi per trasformare i propri spazi in luoghi di incontro per la città quando gli alunni non sono in classe.
Un progetto nato nel 2012 che ora potrebbe diventare un esempio da estendere a livello nazionale. A oggi, a Milano, sono una trentina gli istituti coinvolti: oltre alla Cadorna — che ha fatto da apripista per tutti con le sue aule aperte da anni fino a tardi, anche durante le vacanze di Natale, per attività di ogni tipo — ci sono per esempio la Rinnovata Pizzigoni e la Calasanzio, la Casa del Sole e il comprensivo Mameli. «Non esiste un modello unico in questo momento — spiega Del Bene — ma l’obiettivo per tutti è diventare un punto di riferimento per la vita del quartiere». Dietro al progetto, l’assessorato al Benessere e al Tempo libero di Chiara Bisconti in collaborazione con quello all’Istruzione di Francesco Cappelli. «Abbiamo deciso di partire dal basso, andando a studiare quelle scuole che già in città sono sinonimo di apertura quasi permanente, per poi introdurre un cambiamento culturale che renda loro repli- modelli culturali in altri plessi scolastici », spiega la Bisconti in un documento che verrà letto oggi alla Camera. Fra i Comuni che hanno già manifestato interesse per seguire le orme di Milano, quello di Roma.
Per le scuole milanesi, il passo successivo è un “patto territoriale” che coinvolga i presidi delle scuole, i consigli d’istituto, le associazioni del terzo settore, e i Consigli di Zona per stabilire insieme i bisogni del singoli quartieri. «Un attore fondamentale, poi, sono i genitori — precisa Del Bene — che possono costituire associazioni legalmente riconosciute e diventare un partner privilegiato per la promozione di queste attività: in questo modo l’utenza può affiancare la scuola e creare un valore aggiunto, sia come risorsa di carattere materiale, sia come ampliamento dell’offerta formativa». Per coinvolgere gli istituti che ancora non si sono mossi, poi, il Comune pubblicherà a breve un bando che utilizza parte dei fondi ministeriali della legge 285 per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, per aiutare le scuole elementari e medie ad aprirsi al territorio.
postilla
Come forse qualcuno si ricorderà, le scuole aperte sono una delle idee di punta del programma presentato alle primarie da sindaco di Stefano Boeri, nella cui biografia oltre ai noti progetti da archistar ci sono anche anni da redattore di “Urbanistica”, e certamente un’ottima cultura internazionale sul tema del quartiere. Cultura che in un modo o nell’altro ricorda quanto il concetto di Unità di Vicinato, alla base della conformazione fisica di gran parte delle periferie contemporanee, vede al centro (fisico, funzionale, identitario) proprio la Scuola, intesa non solo come fabbrica part time di istruzione dell’obbligo, ma vero e proprio nodo sociale, attorno al quale ruotano spazi e tempi della città. Era l’idea fondatrice delle teorie di Clarence Perry, e speriamo che possa resuscitare, dopo tanti decenni di abbandono o quasi (f.b.)
Discussione apparentemente surreale sulla necessità di mantenere la competitività della metropoli, e vaghe tendenze autoritarie tecnocratiche, non dissimili da quelle nostrane. La Repubblica, 7 aprile 2015, postilla (f.b.)
Come i chief executive, le star del calcio o i direttori d’orchestra. Anche il mestiere del sindaco diventa transnazionale, intercambiabile su un mercato cosmopolita. Ne sono convinte le due capitali della globalizzazione, New York e Londra. I giornali delle due metropoli si appassionano per un presunto scoop: Michael Bloomberg, tre volte sindaco della Grande Mela, starebbe sondando la possibilità di candidarsi a governare Londra. Bloomberg ha lasciato un ricordo eccellente dei suoi 12anni alla guida di New York: un periodo segnato dalla grande crisi di Wall Street nel 2008, ma anche da straordinari cambiamenti nell’urbanistica, il crollo della criminalità, gli investimenti nell’arte, i miglioramenti ambientali. Non stupisce che Londra possa corteggiarlo. L’importazione di politici stranieri diventerebbe una regola, visto che l’attuale sindaco della capitale inglese, Boris Johnson, è nato a New York 50 anni fa. E finora ha la doppia nazionalità. A quella americana ha detto di voler rinunciare, solo di recente, per ragioni fiscali e forse per puntare alla poltrona di premier. In quanto a Bloomberg, la nazionalità britannica non ce l’ha, ma potrebbe chiederla... “honoris causa”? Investitore emerito, Bloomberg ha creato a Londra la seconda sede della sua fondazione filantropica, che elargisce donazioni pari a 460 milioni di dollari all’anno.
A dare credibilità a Bloomberg come suo successore, è stato proprio Johnson. Nella sua column sul Daily Telegraph , ha spezzato una lancia in favore di un “secondo” sindaco americano (lui, Johnson, comunque non si ricandiderà al termine del suo mandato l’anno prossimo). Lo ha fatto col suo solito stile: ironico, eccessivo, sopra le righe. Ma al di là delle provocazioni e del patriottismo municipale – “caro Mike, vecchio amico, solo la guida di Londra per te sarebbe una vera promozione” – il commento di Johnson è davvero istruttivo. Nell’elencare le qualità delle due metropoli anglosassoni, coglie un tratto distintivo del nostro tempo. Tra i punti di forza che hanno in comune, il sindaco di Londra enumera una lista che include “musei e gallerie d’arte; sale di concerti; università di eccellenza mondiale”. Aggiunge il fatto che “sia New York sia Londra possono vantare una straordinaria diversità etnica, con circa 300 lingue parlate dai loro abitanti”. Esalta le strategie comuni alle due metropoli per allargare il verde pubblico, le piste ciclabili; la fioritura di start-up tecnologiche nel tessuto dell’economia urbana. Ricorda il fenomenale crollo della criminalità. Naturalmente Johnson promuove la sua Londra dandole voti superiori (“per la prima volta abbiamo scavalcato New York e Parigi come destinazione del turismo mondiale”). E tuttavia il suo elenco è un riassunto perfetto di ciò che distingue le nuove tecnopoli del terzo millennio. Le città che hanno più successo, che creano più ricchezza e posti di lavoro, hanno queste caratteristiche: investono molto nell’università e nella cultura; sono multietniche e associano i grandi flussi d’immigrazione con un calo evidente dei reati. Non a caso, città come queste eleggono dei sindaci sui generis. Imprenditore post-politico, visionario, audace, Bloomberg è un miliardario liberal, che non ha dimenticato le sue origini povere, ed era democratico fino a quando il suo partito rifiutò di dargli la nomination. Avendo costruito la più grande agenzia d’informazione finanziaria del mondo, e una fortuna personale di oltre 36 miliardi, è il 13esimo uomo più ricco del pianeta. Ma ha messo il suo patrimonio al servizio di cause progressiste: la lotta contro la lobby delle armi, il cambiamento climatico, i danni sociali del junk-food. Johnson, ex giornalista, in parte ha cercato di assomigliargli: ha unito posizioni liberiste in economia, e progressiste sui temi valoriali.
Il tormentone a favore di una candidatura Bloomberg a Londra è anche strumentale. Johnson nell’incoraggiare l’amico americano lo “avverte” che Londra rischia di diventare inospitale qualora il Labour vinca le prossime elezioni nazionali. Come se Barack Obama avesse impaurito gli investitori esteri allontanandoli dall’America... In quanto al New York Post di Rupert Murdoch, che avalla questa storia: non perde mai un’occasione per rimpiangere Bloomberg e attaccare l’attuale sindaco “socialista” di New York, Bill de Blasio. Accusato di occuparsi troppo delle categorie meno abbienti. Johnson vanta che Londra ha superato New York per il numero di addetti alla finanza (320.000). Non è un buon segno: gli inglesi hanno attratto speculazioni ad alto rischio, che le nuove regole americane mettono al bando.
postilla
Forse non sfugge, al lettore attento, la sottile analogia fra le forme sovranazionali di questo abbastanza surreale dibattito sul governo delle aree metropolitane, e certe nostre riforme nella stessa materia. Là dove i conservatori neoliberali puntano esplicitamente verso una sostituzione della classica rappresentanza locale con una maggiore importanza delle imprese e del capitale nella gestione delle gradi città (di fatto Bloomberg sarebbe un manager nominato, non certo un sindaco eletto, salvo referendum confermativo), le città metropolitane italiane in quanto enti di secondo grado, rispondono ai medesimi criteri di massima, salvo l’intermediazione dei partiti, che potrebbero localmente decidere anche di passare a forme di partecipazione più diretta dei cittadini. Insomma un dibattito certo da non perdere di vista, questo sulla efficienza e competitività metropolitana, perché ci interessa tutti molto da vicino (f.b.)
«Appalti. Nasce la "coalizione sociale" Cgil-Cisl-Uil, Libera e Legambiente, con tanto di richieste al neo ministro: «Legalità e contratti». Separare controllante e controllato. Aumentare i poteri dell’Anac, agenzia guidata da Cantone. Incentivare chi rispetta i diritti del lavoro e stop al massimo ribasso». Il manifesto, 4 aprile 2015
Aneddoti a parte, essendo stato chiamato dal premier Matteo Renzi a “moralizzare” il ministero dopo gli ultimi scandali, Delrio potrebbe decidere di confrontarsi con una nuova “coalizione sociale”, nata giusto sul tema degli appalti: non l’ha lanciata Maurizio Landini, ma anche lui in qualche modo ne fa parte. Stiamo parlando dell’arco di sindacati e associazioni — Cgil, Cisl, Uil, Libera e Legambiente — che qualche giorno fa ha presentato un Decalogo per una riforma degli appalti pubblici: regole per far sì che siano trasparenti, pienamente legali, rispettosi dell’ambiente, dei contratti e della sicurezza sul lavoro.
D’altronde una decina di giorni fa, anche il governo ci aveva messo del suo: il ministero dell’Economia aveva siglato una sorta di protocollo con l’Anac (l’agenzia anticorruzione diretta da Raffaele Cantone), volto a bonificare gli appalti. Si rischia il catalogo delle buone intenzioni, certo, mentre magari le mazzette e le irregolarità continuano a fiorire indisturbate, ma intanto dalla Cgil spiegano che non solo fare cultura su questo tema può essere utile per riformare le leggi e i comportamenti, ma che sempre più spesso — è già accaduto in diversi territori — si riescono a firmare accordi con le istituzioni locali per migliorare concretamente la gestione delle opere pubbliche.
Basta deroghe per urgenza
Il primo articolo del Decalogo chiede di «rendere più efficace il quadro normativo»: tra i punti più interessanti c’è la richiesta di snellire il codice dei contratti per evitare il ricorso alle deroghe per urgenza; assegnare gli appalti sempre con gare di evidenza pubblica; ridurre il numero dei centri decisionali.
Il secondo articolo chiede di «assegnare appalti, servizi e concessioni pubbliche solo attraverso gare standardizzate»: e cioè abolire la trattativa privata; standardizzare e semplificare contratti del medesimo genere, prevedendo l’indicazione in fase di gara del contratto applicato per profilo merceologico prevalente, con il sostegno dell’Autorità nazionale anticorruzione e l’utilizzo del documento di gara unico europeo; attivare concorsi per tutte le opere pubbliche.
Il terzo articolo del decalogo della speciale “coalizione sociale” sugli appalti chiede di «rafforzare i corpi tecnici dello Stato per eliminare il ricorso a professionisti esterni inprogettazione e direzione lavori»: perciò, tra le altre cose, abolire l’istituto del general contractor», prevedere subappalti controllati, per cui la parte che va in subappalto debba essere dichiarata in sede di gara; stabilire il divieto di attribuzione del subappalto a imprese che hanno partecipato alla gara.
Premiare chi è in «white list»
Il quarto articolo chiede di «affidare i lavori solo sulla base di progettazione esecutiva», e di avviare gli appalti solo a fronte di coperture certe. Al quinto punto, si chiede di «implementare e migliorare il sistema delle white list», e cioè: premiare nelle gare le imprese che non siano coinvolte in vicende di corruzione e di mafia; rendere obbligatorio, per le categorie di lavori sensibili, l’iscrizione alle white list; preferire le imprese che hanno buoni e certificati risultati in precedenti attività contrattuali, controllando certificazioni fiscali e contributive.
Dal sesto punto in poi si chiede il miglioramento dei sistemi di controllo: «ampliare i poteri di intervento, vigilanza e sanzione dell’Anac». Settimo articolo: «Rendere efficace il controllo tecnico per ogni appalto», ad esempio scegliendo «collaudatori indipendenti sulla base di criteri definiti dall’Anac e solo alla fine dei lavori, per evitare conflitti di interesse».
Il punto otto evidenzia l’importanza dell’informazione: «adottare il Freedom Of Information Act anche in Italia», «introdurre il Debat Public per le opere pubbliche».
Il punto nove è per l’ambiente: «Valutazione di impatto ambientale sul progetto preliminare, con verifiche nelle fasi successive»; «Utilizzo di materiali provenienti dal recupero nei capitolati di appalto». Il dieci, infine, chiede di «tutelare i lavoratori»: «contrastare la pratica del massimo ribasso; reintrodurre il rispetto della clausola sociale vincolante nei campi di appalto; escludere le imprese che abbiano violato gli obblighi contrattuali verso i lavoratori; rendere obbligatorio il pagamento diretto del subappaltante da parte della stazione appaltante e, in caso d’inadempienza dell’impresa appaltatrice, il pagamento diretto dei lavoratori da parte della stazione appaltante».
La stessa Cgil ha lanciato la raccolta firma per una sua proposta di legge sugli appalti: contro il massimo ribasso, per la trasparenza e legalità e per la clausola sociale.
Il manifesto, 5 aprile 2015, con postilla
Ho letto con interesse il recente articolo di Asor Rosa (I nazareni della Toscana), che ricostruisce le ultime fasi d’approvazione del nostro piano del paesaggio. Anch’io sono certo che la sua adozione sia stata una grande vittoria; una scelta lungimirante, che ha messo al sicuro la Toscana e che rappresenta un passo avanti esemplare nella tutela dei beni culturali e paesaggistici, in grado di segnare la rotta per il resto del paese.
Asor Rosa intesta — con buoni argomenti — una parte del successo alla pressione mediatica e sociale. Petizioni, appelli di autorevoli intellettuali, interventi sulla grande stampa di associazioni come Italia Nostra, Fai, Legambiente e altri. Tutto vero e utile. Io stesso ho risposta a oltre 5mila lettere di cittadini preoccupati, che chiedevano garanzie e rassicurazioni. Tutto questo ha prodotto un concorso di idee e passione civile che ancora una volta pone al centro del dibattito e della «questione democratica» i temi della partecipazione, della rappresentanza e dei beni comuni.
Tuttavia un fatto resta indiscutibile: siamo l’unica Regione ad aver approvato il piano del paesaggio, in un dibattito a tratti aspro, ma con uno sforzo collettivo capace di andare fino in fondo.
E questo dopo un lavoro lungo quattro anni, che ha visto integrarsi università, uffici regionali, politica e rete dei comitati, in un inedito sforzo di ricomposizione tra quelli che Gramsci chiamava «intellettuali» e «popolo».
Avevamo anche il dovere di copianificare tutto con il Ministero e non ci siamo sottratti. Per me è stato un onore scrivere un emendamento che è stato condiviso dal Ministero e votato dal Consiglio regionale. Quello che sembrava un cortocircuito tra federalismo e centralismo si è rivelato un successo istituzionale, rispetto al quale i retroscena sui ’nazareni’ e le ’larghe intese’ appaiono davvero irrilevanti.
Il nostro piano rappresenta la conclusione di un percorso di leggi e interventi di governo del territorio, che hanno reso la Toscana una delle regioni più protette d’Europa. Leggi discusse e approvate nello stesso Consiglio ingiustamente messo in ombra dalle cronache. Mi riferisco allo stop all’edificazione in tutte le aree a rischio idraulico, al consumo zero di suolo, alla ripubblicizzazione delle cave Apuane, alla messa in sicurezza del sistema idrogeologico. Piuttosto che «relazioni pericolose» tra maggioranza e opposizione, nel corso dei mesi ho assistito a opposti estremismi: quello di chi voleva continuare ad avere le mani libere e di chi invece quello di chi voleva frenare ogni sviluppo.
Un paesaggio che è nato da secolare armonia tra lavoro e elementi naturali, vive e si rigenera solo nella salvaguardia di questa relazione, non nella sua scissione e separazione. D’altro canto la dialettica e la sintesi restano a mio giudizio la principale risorsa della politica. Una Toscana imbalsamata finirebbe per perdere la capacità di emancipazione e avanzamento sociale, che viene dai distretti produttivi, dalle reti infrastrutturali e dalla valorizzazione del capitale umano.
Nella nostra regione ci sono circa 200 mila disoccupati e ogni anno 6.500 ragazzi abbandonano gli studi. Dobbiamo costruire le condizioni per incentivare opportunità di lavoro e investimento produttivo. Non si può chiedere tutto alla rendita immobiliare o al turismo: sarebbe insostenibile anche sul piano ambientale. Occorrono lavoro, formazione, ricerca e produzioni di qualità. Come stiamo cercando di fare con infrastrutture e bonifiche sulla costa, da Piombino a Livorno fino a Massa.
Seguo e osservo con grande interesse quello che accade nella sinistra italiana e sono certo che la crisi dei corpi intermedi e dei partiti impone il dovere di allargare lo spettro della rappresentanza, della discussione e della decisione politica. Sono grato ai comitati di cittadini impegnati da anni nelle battaglie ambientali e civili.
Asor Rosa ha scritto che il voto è uno strumento di influenza democratica e dovrà essere usato con intelligenza, indirizzandolo verso i problemi e le soluzioni concrete. Credo che con il Piano del Paesaggio anche in Toscana possiamo contribuire alla ricomposizione delle forze progressiste e delle culture della sinistra. Ci sono tutte le premesse. Tra le molte possibilità anche il voto disgiunto, consentito dalle regole e dall’offerta politica. Esso rappresenta un’opportunità per tutti coloro che sono disposti a superare gli steccati davanti alla concretezza delle sfide.
postilla
Il presidente della Toscana ha indubbiamente svolto un ruolo di eccezionale rilievo nel «percorso di leggi e interventi di governo del territorio, che hanno reso la Toscana una delle regioni più protette d’Europa», e - secondo le cronache - è stato decisivo nel condurre il piano paesaggistico fuori dalle secche in cui i rappresentanti del "partito unico del cemento" lo avevano condotto. Benché zoppicante e reso più fragile il piano é stato approvato con la sua paziente mediazione. Ha ragione di essere soddisfatto del suo lavoro. Tuttavia il suo intervento contiene una inesattezza e una forzatura. Come "persona informata dei fatti" devo fare due osservazioni. Non è esatto affermare che quello della Toscana è il primo piano paesaggistico approvato. Nel 2006 è entrato in vigore (e lo è tuttora) il piano paesaggistica della Regione Sardegna, grazie all'iniziativa e alla costante azione del suo presidente Renato Soru. Ed è secondo me una forzatura affermare che nella vicenda del piano toscano si siano manifestati due «opposti estremismi», uno dei quali sarebbe «quello di chi voleva frenare ogni sviluppo». Eddyburg ha seguito con molta attenzione la vicenda, ma posizioni che volessero frenare "ogni sviluppo" non le abbiamo trovate. (e.s.)
Il debutto alle Infrastrutture: “Cambiare il codice degli appalti”. E si tiene la struttura di missione. Un buon inizio. Ma per farci credere che sia vero non dovrebbe rimangiarsi lo Sblocca Italia e cancellare la "Legge obiettivo". Altrimenti è ennesimo tweet. La Repubblica, 3 aprile 2015
ROMA . Parte in bici da Palazzo Chigi, ormai suo ex luogo di lavoro, dove ha appena incontrato Matteo Renzi per decidere le prime mosse da ministro delle Infrastrutture. Grazie alla pedalata assistita Graziano Delrio - come documentano le foto che lui stesso posta su Twitter - sale facilmente fino a Porta Pia, dove per la prima volta entra al suo ministero. Ci resterà tutto il giorno impegnato a prendere contatto con i dossier più urgenti, per poi allontanarsi sempre in bici, portata fuori dal portone da un ufficiale e da un commesso, imboccando un pezzo di Nomentana contromano.
Già al primo giorno da ministro Delrio - successore di Lupi, costretto a lasciare per lo scandalo Incalza-Grandi Opere - cerca di lasciare il segno.
Un'altra delle micidiali formule inventate per trasferire, con la copertura della legge, risorse pubbliche a rapaci mani private è una legge non solo criminale ma generatrice di crimini. Si provvederà finalmente a cassarla? Lupi non lo avrebbe fatto. Vediamo il suo successore. Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2015
Il presidente dell’Anac Cantone ha definito criminogeno l’istituto contrattuale utilizzato per realizzare le grandi opere della legge obiettivo. Una magra consolazione per chi ne ha descritto questo carattere fin dalla sua codificazione nel 2002. Dopo i recenti arresti e le sciocchezze sciorinate sul tema dal ceto politico che, dopo 13 anni, scopre che il contraente generale produce quello che fin dall’inizio era del tutto evidente, merita comunque chiarire bene il punto.
La definizione è stata data con la legge obiettivo (443/2001) in questo modo: “Il contraente generale è distinto dal concessionario di opere pubbliche per l’esclusione della gestione dell’opera eseguita”. Nella relazione introduttiva al decreto legge 190/2002, con il quale si è dato corpo alla definizione, si arriva addirittura a sostenere che questa nuova figura è espressamente prevista nelle direttive europee. Una pura e semplice invenzione.
Nelle direttive i contratti tipizzati sono il contratto di “appalto” e quello di “concessione”. Della concessione è data una definizione inequivocabile: “La concessione di lavori pubblici è un contratto che presenta le stesse caratteristiche dell’appalto a eccezione del fatto che la controprestazione dei lavori consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera o in tale diritto accompagnato da un prezzo”. La differenza fondamentale con il contratto di appalto è data dalla “controprestazione” offerta al contraente. Nell’appalto è un “prezzo”, mentre nella “concessione” consiste “nel diritto di gestire l’opera”. La definizione del contraente generale ci propone invece un soggetto per il quale l’oggetto del contratto è quello della concessione mentre il corrispettivo è esattamente quello dell’appalto. La stessa definizione era già stata sperimentata negli Anni 80 e, a fronte dei fallimenti registrati, indusse il Parlamento ad intervenire con la sua cancellazione, considerando proprio questa come uno dei pilastri fondamentali di tangentopoli. Le funzioni affidate dalla legge obiettivo al contraente generale sono esattamente quelle che il legislatore definì nel 1987 con la legge n. 80 (Norme straordinarie per l’accelerazione dell’esecuzione di opere pubbliche).
A proporre la norma fu il ministro dei Trasporti dell’epoca (Claudio Signorile, tecnico di fiducia Ercole Incalza) con l’esplicita motivazione di utilizzare tale procedura per le infrastrutture per il Treno ad Alta velocità. I contratti erano definiti dalla legge “concessioni di progettazione e sola costruzione” con l’esplicita esclusione della gestione.
Concessioni analoghe furono adottate anche nella sanità. In questo caso gli analoghi compiti affidati ai contraenti generali assumevano la forma della cosiddetta “concessione di committenza”. Su queste concessioni il Parlamento intervenne con una legge ad hoc, la 492/1993, con la quale si stabiliva addirittura l’annullamento retroattivo delle concessioni che il ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino, di concerto con quello della Sanità Francesco De Lorenzo, aveva affidato a tre general contractor. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nella relazione al Parlamento sui meccanismi di Tangentopoli (luglio 1992), proprio in relazione alle distorsioni della concessione, scriveva: “La pratica degli affidamenti in concessione per l’esecuzione di opere pubbliche si è sviluppata in aperto contrasto con le norme comunitarie (e con la stessa normativa nazionale di recepimento) che limitano la figura della concessione ai soli contratti nei quali il corrispettivo delle attività svolte dal concessionario è rappresentato, in tutto o in parte, dal diritto di gestire l’opera realizzata. In base a tali norme, quindi, tutte le diverse forme di concessione a costruire, non accompagnate dalla gestione dell’opera, devono ritenersi equiparate all’appalto e come tali regolate”. Non a caso, nel complessivo riordinamento della materia, con l’emanazione della legge quadro sui lavori pubblici anti-tangentopoli (l. 109/94), furono espressamente soppresse sia la concessione di committenza che quella di sola costruzione.
La legge obiettivo per le grandi opere ha semplicemente resuscitato queste concessioni anomale attribuendo al contraente generale una condizione di assoluta libertà prevedendo espressamente che il contraente generale: “Possa liberamente affidare a terzi l’esecuzione delle proprie prestazioni”. Può affidare a trattativa privata qualsiasi attività come e a chi vuole.
La non responsabilità sulla gestione dell’opera determina una assenza di interesse anche sulla qualità e affidabilità dell’opera. Mentre nel caso dell'appaltatore questi esegue l’opera sulla base di un progetto esecutivo ed è sottoposto a un controllo costante del committente in fase di esecuzione attraverso il direttore dei lavori, nel caso del contraente-generale invece il controllo della esecuzione è in capo a esso stesso con tutte le conseguenze ovvie di tale paradossale situazione.
Nei casi delle opere nelle quali i contraenti generali hanno affidato la direzione dei lavori alla società dell’ing. Perotti tutti questi caratteri anomali della relazione contrattuale si ritrovano interamente e puntualmente. Come si ritrovano puntualmente ed inevitabilmente fenomeni di relazioni corruttive. A oltre 12 anni dalla introduzione nel nostro ordinamento di un istituto contrattuale palesemente criminogeno, non solo le forze politiche e le associazioni di rappresentanza delle imprese e dei lavoratori, ma addirittura l’Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici prima e l’Autorità per Vigilanza sui contratti pubblici dopo non si sono mai espresse in merito consentendo l’applicazione di una norma palesemente criminogena che ha già prodotto enormi danni erariali, ambientali e sociali. Già nel 2006, nel programma elettorale del centrosinistra, vi era l’impegno a cancellare questa norma. Rimase lettera morta. Chissà se questa sarà la volta buona.
Il manifesto, 15 marzo 2015
Le vicende che hanno portato in Toscana all’approvazione, quanto mai difficile e tormentata (nel penultimo giorno utile della legislatura!) del cosiddetto Piano paesaggistico regionale, meritano una riflessione che travalica i confini del caso specifico e s’allarga inequivocabilmente a una dimensione nazionale.
In estrema sintesi (quindi, anche con qualche inevitabile imprecisione). Il Piano paesaggistico è lo strumento che disciplina il governo del territorio: proteggendo più o meno caratteri e morfologia del paesaggio e dell’ambiente; disciplinando in forme più o meno chiare e definite il consumo del suolo, problema divenuto in questi anni in Italia drammatico, anzi, ormai sull’orlo della catastrofe.
Nel governo regionale toscano, a maggioranza Pd, e sotto la presidenza di Enrico Rossi, l’assessorato all’urbanistica, ricoperto da Anna Marson, tecnico di valore, docente nella facoltà di architettura di Venezia, ha iniziato da subito un minuzioso lavoro di studio e di definizione (con l’ausilio anche delle competenze espresse dalle principali università toscane), il quale ha portato più o meno nell’estate scorsa ad un testo giudicato unanimemente di grande valore ed efficacia. La supremazia decisionale della Regione sulle singole rappresentanze locali e un sistema di regole chiare e ineludibili ne costituivano il tessuto culturale e politico.
In questa lunga fase i rapporti fra la presidenza Rossi e le istanze ambientaliste sono state generalmente (anche se non uniformemente) buoni. La Rete dei comitati per la difesa del territorio, che allora presiedevo, ha avuto numerosi incontri con Rossi e la sua Giunta, credo con reciproco vantaggio. Tutto ciò si è allentato, fino a scomparire del tutto, dal momento in cui Rossi si è ricandidato alla presidenza della Regione con l’esplicito avallo di Matteo Renzi (ma non intendo stabilire rapporti troppo stretti da causa ed effetto tra le varie vicende narrate, le quali invece, come vedremo, si prestano a molteplici e contraddittorie interpretazioni).
Vengo rapidamente al dunque. Il Piano, dopo aver ricevuto numerosi riconoscimenti e approvazioni da parte delle forze che compongono l’attuale maggioranza, entra nella fase di discussione consiliare e del voto.
Emergono a questo punto le resistenze più acri e selvagge. A parte l’ostilità delle opposizioni in Consiglio, Fi e altri, in qualche modo scontate, gli interventi più distruttivi in materia di disciplina ambientale e regole e tutela del paesaggio, si manifestano tra le file del Pd. In numerose occasioni Pd e Fi ragionano e votano in maniera sorprendentemente identica.
Due concezioni dell’ambiente e del territorio, ma ancor più, due modi d’intendere la politica e la società (come ebbe a dire più tardi l’assessore Marson) si fronteggiano con dura chiarezza: non , come pretenderebbero gli avversari del Piano, fra una “idea di sviluppo” e “una che rifiuta lo sviluppo”, facendosi carico di un improbabile ritorno all’indietro; ma fra una politica sfacciatamente ancorata agli interessi privati e una che assume come proprio punto di riferimento gli interessi collettivi e i bisogni della cittadinanza; e dunque, a ben vedere, tra un modello di sviluppo ormai sterile e autodistruttivo e un diverso e innovativo modello di sviluppo (che è poi ovunque, e sempre di più, la vera posta in gioco dello scontro).
La battaglia è durissima, e a un certo punto sembra perduta. Rossi, inaspettatamente, la porta a Roma, dove trova un sostegno nel Mibact, e più precisamente nelle persone del ministro Franceschini e, in modo particolare, del sottosegretario Borletti Buitoni. Ma il Mibact non fa parte del governo di Matteo Renzi, i cui pasdaran nel consiglio regionale toscano hanno azzannato il Piano come lupi affamati? Mah… sì. Evidentemente non tutto corrisponde ancora a una logica rigidamente formale (questa considerazione determinerà una parte delle conclusioni).
Il Piano, ferito in più punti ma non svuotato, viene riportato in Consiglio regionale e approvato. Io la considero una grande vittoria, e vorrei che questo, nonostante tutto, sia posto alla base del ragionamento futuro.
Le considerazioni che vorrei fare sull’accaduto sono le seguenti.
La mobilitazione a difesa del Piano è stata imponente. Quando tutte le associazioni ambientaliste, talvolta divise da quisquilie o da ragioni di bandiera, si coalizzano, com’è accaduto prontamente questa volta, è difficile per chiunque far finta di niente. Questa unanimità di propositi ha trascinato con sé anche la grande stampa nazionale, oltre che i giornali amici per definizione come il manifesto. Questo spirito di coalizione (per restare nel vocabolario di questi giorni) andrebbe secondo me coltivato sempre di più.
Se si mette in campo un fronte come questo, nessuna battaglia ambientalista può esser considerata perduta in partenza. Vale per il presente, ma anche per il futuro. Lo dico per i molti compagni buoni combattenti ma troppo scettici.
L’amara lezione della serrata discussione sul Piano è che il Pd toscano sembra perduto a qualsiasi possibile motivazione di etica ambientalista e territoriale. Non solo, infatti, singoli consiglieri regionali iscritti a quel partito si dedicavano alle furibonde scorrerie di cui abbiamo detto. Ma nessuno degli organismi istituzionali di tale partito è mai intervenuto, come avrebbe facilmente potuto, per impedirle o almeno sedarle. Questo, di conseguenza, rappresenta il principale problema politico oggi in Toscana.
Prima, durante e dopo la fase di discussione delirante, di cui abbiamo parlato, il ruolo dell’assessore Marson è apparso decisivo. Nell’intervento pronunciato dopo il voto di approvazione, Anna Marson ha dimostrato di essere in grado di trasferire la propria sapienza tecnica e disciplinare in quel che lei stessa ha giustamente chiamato un atteggiamento «diversamente politico». Bisogna dire fin d’ora, con chiarezza e onestà intellettuali e politiche, che, se l’approvazione del Piano paesaggistico ora non è una burla, il ruolo dell’assessore all’urbanistica nella giunta regionale di domani, quale che essa sia, non può esser messo in discussione.
Infine. In Toscana si vota per le elezioni regionali a maggio. Dunque, esiste un corto circuito ravvicinatissimo fra gli avvenimenti che hanno riguardato l’approvazione del Piano in consiglio regionale e il voto del prossimo maggio. La Rete dei comitati non ha mai preso posizione a favore di questa o quella formazione politica in sede di voto, e penso che debba continuare a farlo (o non farlo, a seconda dei casi). Ma non riterrei disdicevole oggi che essa esprima una preferenza di massima a favore di tutte quelle formazioni che oggi si dichiarino per i valori del territorio e della salvaguardia e dello sviluppo dei beni ambientali. Constato che c’è in giro, in Toscana, sia a livello regionale sia a livello locale, una buona aria di lotta e di riscatto, che va aiutata e confortata.
Le questioni ancora pendenti sono del resto numerose e talvolta sull’orlo della catastrofe. Si pensi, per fare un esempio eclatante, alla sciagurata intrapresa, per dimensioni ed esiti, del sottoattraversamento ferroviario di Firenze, risolvibile in tutt’altro modo, come ormai tutti sanno, con spesa infinitamente minore e senza l’inevitabile debito contratto con la corruzione. Si voti per chi è contrario al sottoattraversamento. O contro la seconda pista all’aereoporto di Firenze. O è per la ragionevole soluzione dei problemi geotermici regionali, ecc. ecc. ecc.
Invece di chiacchiere, impegni concreti e facilmente individuabili e definibili. Se così accadesse, invece di una campagna elettorale a senso unico, — come sempre, dall’alto verso il basso, — ce ne sarebbe una bifronte. Si voti per chi s’impegna a fare le cose che noi chiediamo. Nessun impegno, niente voto. Così un eventuale Piano paesaggistico, o quant’altro di simile, correrà la prossima volta all’approvazione trionfalmente, senza gli ostacoli che ora abbiamo conosciuto, e come avrebbe meritato che anche questa volta accadesse.
Sul punto Pellegrinotti aveva pure presentato un’interrogazione a cui Marson ora risponde pubblicamente: «La Regione », dice, «non è mai ricorsa a consulenze esterne per il Pit. Il rapporto di collaborazione è stato instaurato con il Centro Interuniversitario di Scienze del Territorio, che grazie a un accordo tra gli atenei toscani coordinato da Firenze ha attivato 25 assegni di ricerca, quattordici borse di studio e dieci incarichi messi a concorso con bandi pubblici e quattro borse del fondo “GiovaniSì”. I docenti non hanno avuto un soldo. Del milione e 124.400 euro di costi del Piano, oltre 1 milione è andato ai ricercatori».
Oltre che per la faccenda dei soldi Marson ammette di essere «molto amareggiata e affaticata» per la reazione suscitata nel Pd dal suo ultimo intervento in consiglio regionale. «Ho detto e ripeto che mentre noi e i tanti che hanno sostenuto il Piano eravamo impegnati per il bene collettivo chi ha osteggiato il nostro lavoro era mosso da interessi privati. Non è facile approvare un piano alla vigilia di una campagna elettorale, ci sono consensi da raccogliere nei territori e io questo lo capisco».
Lei, al contrario, non vede per se stessa un orizzonte politico. «Per ora nessuno mi ha chiesto niente», confessa. «Ho il mio lavoro di insegnante a cui tornare per fortuna, un lavoro che mi piace». Con Rossi giura che il rapporto si sia chiuso bene. «Si è impegnato molto e mi ha difesa, anche se è stata dura. Io però non credo di avere nulla da rimproverarmi, al di là dei miei difetti ce l’ho messa tutta».
Intervistata da Raffaele Palumbo a Controradio ieri Marson fa un bilancio del Piano “riveduto e corretto”:« Newsweek ha scritto che rispetto alla versione originale le regole sono state “watered”, un po’ annacquate e forse è vero. Ma restano comunque regole e tra pochi giorni arriverà la validazione del ministero dei Beni culturali. E avere regole certe fa comodo a tutti, ai cittadini e agli operatori delle imprese. A questo punto dobbiamo solo monitorare come il Piano sarà applicato. Intanto ringrazio chi lo ha votato anche senza far parte della maggioranza».
A illustrazione dell'articolo di Paolo Baldeschi inseriamo la commovente lamentazione di un autorevole rappresentante del PD toscano. Questa critica da destra dell'operato di Marson ci sembra interessante perché esprime bene l'ideologia (post-berlusconiana, si potrebbe dire) di quella parte politica. Il Tirreno, 31 marzo 2015
La Marson non è stata un buon Assessore. E’ stata artefice in 5 anni di due atti importanti come la modifica della Legge 1/2005 sull’urbanistica, (ora Legge 65 del 2014) e del Piano Paesaggistico. La prima è stata in gran parte modificata e il secondo è proprio lei a riconoscerlo parzialmente. La proposta di legge sull’urbanistica, ex 1/2005 era infarcita di principi ideologici e di complicazioni tali da far impazzire tecnici comunali, professionisti e tutta la gente normale, rendendo quasi impossibili le programmazioni urbanistiche locali e la realizzazione delle cose più semplici. Solo grazie agli emendamenti presentati dal Pd e dalle minoranze in commissione, è stato possibile approvare quel testo, rendendo gestibile nella pratica quella legge, che continua ad avere difetti proprio per l’impostazione con cui era partita. Sulle attività temporanee siamo dovuti ri-intervenire con una proposta di legge di cui io sono stato il primo firmatario, per raddoppiare i tempi delle concessioni e consentire di ampliare le stagione turistica per i balneari, e per le attività turistiche in genere.
Ardelio Pellegrinotti è segretario della 6ª Commissione Ambiente Regione Toscana
L'approvazione del Piano paesaggistico della Toscana è stata subita dal Pd, stretto tra l'intervento del Ministro Franceschini e dal Mibact e l'impossibilità di sfiduciare Rossi senza bruciarne la candidatura alle prossime elezioni regionali. Che sia stata subita 'obtorto collo', lo dimostra la valanga di recriminazioni, quando non di veri e propri insulti, che hanno seguito la dichiarazione in aula di Anna Marson, (pubblicata da eddyburg). Frasi come «lei sarà solo un brutto ricordo» , o «lei vincerebbe il nobel della stupidità politica» di tal Gianluca Parrini (da non confondersi con l'omonimo Dario) la dicono lunga sull'insofferenza e il rancore che covano nelle file della maggioranza. Sulla stessa linea (anche se con meno volgarità) Dario Parrini, segretario regionale del Pd, che ha imputato all'assessore Marson «accuse infondate e scomposte». In realtà l'intervento finale dell'assessore all'Urbanistica era stato intelligente, preciso e circostanziato quando aveva accusato una parte del Pd di avere continuamente tramato tranelli e imboscate e di avere più spesso tutelato gli interessi privati (aggiungo: i più retrivi) a scapito di quelli collettivi.
Ciò che colpisce nelle - queste sì scomposte - reazioni degli esponenti Pd è il fatto che invece di opporre a quelli dell'assessore argomenti nel merito, si sia scelta la strada delle urla e delle offese. Ma vi è una ragione in tutto ciò. Il Pd, nella sesta commissione regionale aveva sistematicamente, pervicacemente e in perfetto accordo con Forza Italia, demolito il Piano. Basta ricordare solo una delle tante modifiche proposte dalla commissione: «le criticità segnalate nel Piano sono valutazioni scientifiche di cui i Comuni possono non tenere conto». Vale a dire che se il Piano segnalava un'area come esondabile e con alto rischio per gli abitanti, di tale criticità i Comuni potevano infischiarsene, si intende per continuare a urbanizzare e piangere i morti. In effetti è difficile ribattere nel merito e difendere simili enormità, molto più facile la strada delle polemiche e delle invettive, tra cui spicca per originalità l'accusa rivolta agli intellettuali di tutta Italia intervenuti a favore di Marson di essere "ambientalisti in cachemire" e "a difesa del paesaggio cartolina".
Vi è tuttavia un disegno evidente nelle infondate reazioni dei maggiorenti o delle pedine dell'ex partito dei lavoratori, ex almeno in questo caso, come dimostra la 'battaglia' delle Apuane, dove la Cgil si dichiarava a favore del Piano e Ardelio Pellegrinotti (consigliere del Pd) si schierava, senza se e senza ma, con le ditte di escavazione - non un cenno critico sul clima di illegalità in cui queste hanno continuamente operato.
Le intenzioni per il futuro sono, come si evince dalle interviste rilasciate dal segretario Parrini, di nominare una giunta 'renziana', perché «il Pd non è quello di 5 anni fa». Rimane l'incognita di cosa significhi una giunta e un governo 'renziano', al di là della propensione irresistibile degli aspiranti consiglieri di saltare, salvo qualche lodevole eccezione, sul carro del vincitore. L'impressione è che Renzi stia trasformando il Pd in un "catch all party" (come era la vecchia DC), dove le realtà regionali agiranno e si comporteranno non in base a valori , bensì secondo le convenienze e le opportunità del momento e del luogo. Ma, comunque, attente a favorire uno 'sviluppo arretrato', fatto di grandi opere (non importa se inutili o dannose) e di sfruttamento delle 'risorse' qualunque esse siano o siano ritenute tali, dovunque esse siano - anche nei parchi e nelle riserve naturali, vedi appunto le Apuane.
Succubi di una politica europea e nazionale volta sistematicamente ad arricchire i già ricchi impoverendo gli altri (e i posteri), insistono nel tentativo di far cassa liquidando il prezioso patrimonio collettivo e abbandonando al degrado della privatizzazione un bene culturale prezioso. Il manifesto, 31 marzo 2015
Un Hotel de charme? Una esclusiva scuola di danza classica? Un circolo ippico che riporti il fasto sabaudo della Cavalleria Savoia o appartamenti di lusso? Quale sarà il futuro della Cavallerizza Reale di Torino, splendido complesso barocco nel cuore della città, oggetto di incuria e abbandono per molti anni ma in procinto di nuova «valorizzazione» da parte dei privati? Dell’ostello per i giovani traccia non v’è più, se non in qualche sparuta dichiarazione stampa per rasserenare gli animi dei circa diecimila torinesi che, firmando un appello solo pochi mesi fa, hanno chiesto agli attuali amministratori comunali di non vendere surrettiziamente la Cavallerizza, patrimonio della città e quindi di tutti.
Ma le linee guida dell’operazione, condotta senza soste dall’assessore al Bilancio Gianguido Passoni e da tutta la giunta di centrosinistra torinese, pare che preveda come architrave fondante l’investimento di sostanziosi capitali privati, indispensabili per dar fiato alle boccheggianti casse comunali, ancora in difficoltà nonostante le massicce vendite di immobili e partecipate.
C’è chi dice che potrebbe essere della partita addirittura un emiro del Qatar. L’allegro debito contratto nell’era Chiamparino è appena sceso sotto quella che viene definita dallo stesso Passoni «la soglia psicologica» di tre miliardi di euro ma, nonostante questo risultato, l’immensa volumetria della Cavallerizza rimane strumento d’eccezione per raggranellare utili fondi.
Pare che i tempi siano molto stretti: ieri mattina si sono riunite le commissioni congiunte di Comune e Regione a porte chiuse, senza ammettere pubblico, in cui è stato presentato un misterioso «Protocollo di Intesa» che coinvolge anche i privati.
Il protocollo prevederebbe una sostanziale libertà di azione per gli investitori. Del famoso processo partecipato che doveva coinvolgere anche soggetti culturali istituzionali e cittadini, che da circa un anno stanno portando avanti un lavoro di riqualificazione sociale del complesso dopo l’abbandono, rimangono solo vaghi ricordi.
È il processo partecipato modello Val Susa: si partecipa solo quando c’è da dire «sì», commentano alcuni membri dell’Assemblea Cavallerizza 14.15. «In sostanza nessuna delle richieste sino a ora avanzate dalla cittadinanza (no alla vendita, destinazione e fruizione pubblica, unitarietà dell’insieme e progettualità partecipata, ndr), con il supporto di oltre 10 mila firme della popolazione torinese, viene accolta dalle istituzioni, neanche negli intenti. La progettazione — aggiungono gli attivisti — non coinvolgerà direttamente i cittadini né, aspetto inquietante, passerà neanche attraverso il Consiglio comunale, palesando come le decisioni rispetto a una questione così delicata e strategica vengano a formarsi fuori dai luoghi che dovrebbero garantire la democrazia.»
Oggi, dalle ore dodici, in concomitanza con l’approvazione in Giunta Comunale del «Protocollo di Intesa» vi sarà un presidio in piazza Palazzo di Città indetto dai protagonisti dell’Assemblea Cavallerizza.
Venezia: il candidato sindaco che voglia i nostri voti si impegni formalmente a difendere la Laguna, adoperando gli strumenti e le persone adeguate a questo compito. La richieste di una importante rete di associazioni veneziane. Il Gazzettino, 30 marzo 2015
«La Laguna va vincolata contro lo scavo del canale Contorta» «La laguna di Venezia è ufficialmente vincolata, salvaguardata e tutelata, ma dal Mose al progetto di scavo del canale Contorta, soggetta a scempi inenarrabili. Al nuovo sindaco chiediamo un cambiamento radicale e l'impegno di non comportarsi come il suo predecessore. E sollecitiamo la liberta di ricerca: per porre fine a un sistema che al di la dei casi di corruzione e concussione ha goduto dell'appoggio di certa scienza, e perché a dettare le scelte d'ora in avanti non sia più il business».
Prosegue indefessa la ricerca per rafforzare la "infrastruttura globale" rete di siti d'eccellenza e connessioni veloci materiali e immateriali, costruita per i pochi che detengono potere e ricchezza, e i loro servi più prossimi. Servizio di Sergio Pennacchini e commento di Michele Smargiassi, la Repubblica, 29 marzo 2015
Da Los Angeles aSan Francisco in quarantacinque minuti e, in futuro, dalla Grande Mela fino a Pechino (passando dall’Alaska) in due ore e mezza. In treno, o qualcosa di molto simile. Ecco il sogno di Elon Musk, imprenditore seriale americano con una passione per la tecnologia e un sogno nel cassetto: costruire un treno capace di muoversi a una velocità di oltre mille chilometri orari, con la promessa in futuro di arrivare fino a cinquemila chilometri all’ora. Il vulcanico Musk, “il Tony Stark d ei nostri tempi” secondo il Time , dopo aver rivoluzionato i pagamenti con PayPal, scosso l’industria dell’automobile con l’elettrica Tesla e siglato un accordo con la Nasa per portare astronauti nello spazio con il suo razzo SpaceX, potrebbe stravolgere il modo in cui ci spostiamo con Hyperloop, un treno a levitazione magnetica che viaggerà dentro un tubo di vetro a bassa pressione, senza la resistenza dell’aria. Sembra fantascienza o una boutade per farsi un po’ di pubblicità. Ma Musk ha intenzioni serissime.
«Per velocizzare lo sviluppo di Hyperloop, costruiremo un tracciato di prova» ha twittato il presidente di Tesla. Verrà realizzato vicino alla cittadina di Quay Valley, negli Stati Uniti, e sarà lungo circa otto chilometri. Servirà a mettere alla prova l’idea dell’imprenditore americano. Il treno è composto da capsule capaci di trasportare ventotto persone, che siedono quasi sdraiate. Sui tubi saranno installati dei pannelli fotovoltaici. Il convoglio accelera lentamente per arrivare alla velocità di crociera, in modo da proteggere al massimo il comfort dei passeggeri. I “binari” saranno costruiti all’interno di speciali tubi di vetro a bassa pressione: l’assenza quasi totale dell’aria annullerà la resistenza aerodinamica e permetterà a Hyperloop di raggiungere velocità da fantascienza. Le carrozze si muoveranno grazie alla levitazione magnetica, una soluzione importante anche per la sicurezza perché garantirà sempre la giusta posizione della capsula all’interno del tubo, impedendole di toccare le pareti.
Hyperloop Transportation Technologies, la società fondata per portare a compimento la visione di Elon Musk, conta di completare il tracciato e il primo test entro il 2018. E non è l’unica a credere nel treno “sottovuoto” come il mezzo di trasporto più rapido del nostro futuro. Negli Stati Uniti infatti c’è chi promette di raggiungere velocità ancora superiori: la ET3 sta sperimentando una soluzione simile a quella di Hyperloop, con l’obiettivo di raggiungere una velocità di seimila e cinquecento chilometri orari. Quanto basta in teoria per coprire la distanza dagli Stati Uniti alla Cina in meno di due ore con un progetto che è per il momento solamente teorico, che prevederebbe il passaggio attraverso un tunnel di novantuno chilometri sullo Stretto di Bering tra Alaska e Russia fino all’Asia.
Entrambi questi progetti sfruttano la levitazione magnetica. Una tecnologia che elimina l’attrito che si crea tra le ruote e i binari creando un campo gravitazionale che di fatto solleva il treno e lo fa scivolare in avanti. L’assenza di attrito con i binari permette di raggiungere velocità nettamente superiori rispetto ai sistemi tradizionali. Una soluzione antica, sperimentata già a inizio Novecento negli Stati Uniti, ma che fino a oggi non ha trovato molte applicazioni. Sono poche le tratte commerciali in cui già si usa, e sono tutte molto brevi, come la linea che collega l’aeroporto internazionale di Pudong con Shanghai: circa trenta chilometri a levitazione magnetica per il treno più veloce del mondo con quattrocentotrentuno chilometri orari di velocità di crociera. «Il problema della levitazione magnetica è che oltre certe velocità la resistenza dell’aria si fa troppo forte e il sistema diventa poco efficiente», scrive sul suo blog il dottor Deng Zigang dell’università di Jiaotong, in Cina. «A quattrocento all’ora l’ottantatré per cento dell’energia prodotta viene sprecata per colpa dell’aria che diventa sempre più densa». Il dottor Zigang sta lavorando a un progetto simile a quello di Hyperloop, denominato Super-Maglev, che si pone come alternativa per il trasporto del futuro. «Per essere davvero efficienti e commercialmente vantaggiosi, i treni a levitazione magnetica devono poter raggiungere velocità molto superiori e l’unica strada possibile è ridurre al massimo la resistenza dell’aria viaggiando dentro tubi a bassa pressione», conferma il dottor Zigang.
In Giappone, però, non sono d’accordo. La Central Japan Railway Company ha da poco concluso i primi test del nuovo Shinkansen a levitazione magnetica, trasportando cento persone su un tracciato di ventisette miglia alla velocità di oltre cinquecento chilometri orari. L’obiettivo è collegare le città di Tokyo e Nagoya entro il 2027, per poi allargare la rete “maglev” a tutto il paese sostituendo le linee esistenti e, di fatto, accorciando i tempi di percorrenza del quaranta per cento. Quando entrerà in servizio, sarà il treno più veloce del mondo con una velocità di crociera di cinquecentotré chilometri orari. Il Giappone potrebbe essere la prima nazione ad adottare la levitazione magnetica anche sulle lunghe distanze. Eppure, secondo Zidang, il punto non è tanto unire Roma e Milano, per questo tipo di distanze il treno è già oggi una valida alternativa all’aereo. «Quello che noi vogliamo fare è creare un treno in grado di connettere continenti in poche ore, di viaggiare a velocità supersoniche per arrivare dal centro di New York al centro di Londra. Con un mezzo di trasporto che è più veloce, economico e rispettoso dell’ambiente rispetto agli aerei», conclude. «Ci vorrà del tempo, ma ci arriveremo».
Intanto toccherà accontentarsi del treno su binari. Per ora il più veloce del mondo è l’Agv della Alstom, lo stesso utilizzato dalla compagnia italiana Italo. Raggiunge i trecentosessanta orari. Ancora pochini...
di Michele Smargiassi
BEH, CERTO, PIACEREBBE ANCHE A ME f re l’esperienza del trenosiluro, scivolare in quei tubi senza attrito come una supposta di glicerina hi-tech, farmi risucchiare come uno stantuffo in un concerto di fruscii dentro una capsula di posta pneumatica... Se una cosa del genere si può ancora chiamare treno, avrei pure qualche prelazione da vantare: secondo i miei calcoli prudenziali, ormai ho viaggiato in treno per l’equivalente di sette giri del mondo, tra casa e università, poi tra casa e lavoro. Ecco, sarebbe meglio se il fantatreno, invece di scarrozzarmi da New York a Pechino, tratta che diciamo frequento un po’ poco, mi portasse semplicemente al lavoro, ogni giorno, lungo quei 40 chilometri che conosco a memoria. Ci metterebbe 28,8 secondi. Suvvia, gliene concedo anche 30, per far cifra tonda. Ma questi sogni non possiamo permetterceli noi pendolari, sono roba da trascontinentali, da ceto globale business class. È per loro che il mondo viene deformato nelle sue relazioni spazio-temporali, avvicinando New York a San Francisco più di Modena a Bologna. Un mappamondo ridisegnato secondo i tempi di viaggio non sarebbe più una sfera ma una mostruosità bitorzoluta dove gli spazi corti sono i più lunghi e quelli lunghi si contraggono fin quasi a sparire. Li voglio vedere, però, i businessmen appena scesi dai loro proiettili prendere un taxi a Pechino e accorgersi che ci vuole più tempo a raggiungere l’albergo nell’ora di punta che a fare il giro del mondo. Chissà poi se si può leggere un libro, dentro la pallottola-treno, non saprei, se si può sonnecchiare guardando il panorama dal finestrino, direi di no, chissà se l’ansia dell’ipervelocità lascia il tempo di godersi quel tempo inutile del viaggio, quello che gli ingegneri cercano affannosamente di far implodere, credendo di farci un favore, per liberarci dal peso dell’inazione, mentre noi che ne abbiamo perso tanto, di tempo, sui treni, abbiamo imparato che il tempo inutile del viaggio è un tempo diversamente utile, guadagnato, strappato all’agenda, un tempo che siamo costretti a dedicare a qualcosa che nel tempo utile-utile non abbiamo il tempo di fare: anche solo parlare un po’ con noi stessi. Ma no, lasciatemelo allora, questo tempo obbligato e liberato, non li voglio i vostri 28,8 secondi, mi accontento dei 28 minuti da tabella dei miei “regionali veloci” (che soave ossimoro), ecco, mi basterebbe che fossero davvero quelli, e non diventassero 38, o 48, o 58, come accade quasi tutti i giorni. “Trenitalia si scusa per il disagio”, mi basterebbe trovare un posto a sedere in carrozze pulite, con bagni funzionanti e porte che si aprono. Lo so, lo so, è fantascienza. Ma lasciateci sognare, noi pendolari incalliti, mentre sonnecchiamo con la fronte appoggiata al finestrino di un treno superlento.
Riferimenti
A proposito del nuovo assetto del'habitat dell'uomo vedi gli scritti di Saskia Sassen e di David Harvey raccolti in eddyburg, inserendo i nomi degli autori nel "cerca in cima alla pagina. Vedi anche nella cartella "città quale futuro?", nel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg. Vedi anche l'articolo di E,. Salzano "Il territorio globale".
L'attenzione alla vita quotidiana e lo spirito critico sono due buoni punti di partenza per scoprire le magagne della città e della società, e intravedere i modi per la loro neutralizzazione. La Città Conquistatrice, 29 marzo 2015
Stanotte in Europa abbiamo tirato avanti le lancette degli orologi, inaugurando tecnicamente e ufficialmente l’offerta primavera-estate del nostro sistema socioeconomico. Sui giornali a questo proposito leggiamo che la European society for biological rithms (Esbr) ha promosso un appello per l’abolizione dell’ora legale, che come dimostrato da anni e anni di ricerche sconvolge il nostro orologio biologico, con gravi ripercussioni sulla salute. Facilmente immaginabile però, lo si precisa, non è tanto la questione dell’ora legale in sé ad essere dannosa, ma lo sfasamento artificialmente indotto fra ritmi biologici rigidamente individuali, e quelli massificati altrettanto rigidamente alieni imposti dalla civiltà industriale.
Cronaca di una fotocopia annunciata
Ieri due donne sono state falciate da un’auto nel centro della carreggiata, in cima a un cavalcavia di Milano. L’automobilista si è immediatamente fermato a soccorrerle, ma non c’è stato niente da fare. Di sicuro qualsiasi polemica e discussione pubblica sull’evento si esaurirà una volta verificato se ci sono o meno estremi di colpevolezza per il conducente riguardo alla velocità, che essendo la strada urbana è di 50kmh.
Aboliamo l’ora legale dell’automobile
E viene per l’ennesima volta da chiedersi: si poteva evitare? O meglio, si potrebbe evitare, sempre, di mettere le condizioni per cui si sviluppano tutte le situazioni di contesto in cui aumenta la probabilità di un incidente simile? C’è una carreggiata larghissima, un dislivello (nel primo caso un cavalcavia, in quello precedente un sottopassaggio a svincolo) che fa crollare la visibilità degli automobilisti, e due fermate del mezzo pubblico sui due lati della stessa carreggiata, carreggiata che in un modo o nell’altro le auto interpretano come prolungamento della non lontana corsia autostradale, anche se siamo in pieno in un quartiere urbano.
mettete un Mi Piace sul profilo Fb La Città Conquistatrice
qui in Eddyburg l'incidente citato di qualche anno fa è descritto in Città: coraggio, fatti ammazzare
«Il Consiglio regionale approva dopo una seduta rovente il provvedimento che regola spiagge, vigneti e territorio. L’accordo raggiunto grazie al ministero dei Beni culturali». La Repubblica, 28 marzo 2015
Quello delle cave era il punto esemplare della controversia. Da una parte chi difendeva il paesaggio delle Apuane. Dall’altra chi tutelava gli interessi di imprese e lavoratori che estraggono il marmo (ma la Cgil si è schierata per il piano). Nelle ultime settimane, sostenuti dal Pd e in particolare dall’ala renziana, sono stati approvati emendamenti favorevoli ai cavatori. Il presidente Enrico Rossi ha cercato di mediare, poi la trattativa si è spostata al ministero per i Beni culturali che deve ratificare il piano. Più volte la sottosegretaria Ilaria Borletti, che ha la delega sul paesaggio, ha avvertito i consiglieri toscani: se il piano non è conforme al Codice dei beni culturali, non l’approviamo.
Tre giorni e tre notti di discussione al ministero fra l’assessore, i tecnici regionali e i dirigenti del ministero (il direttore generale Francesco Scoppola, il capo dell’ufficio legislativo Paolo Carpentieri e Ilaria Borletti): ne è sortito un maxi emendamento che ripristinava — in parte — la versione originaria del piano. Oltre le cave un’altra questione controversa: gli interventi sulle coste e sulle spiagge. Alla fine si è stabilito che entro i 300 metri dalla battigia saranno ammissibili solo strutture mobili. Niente piscine («lasciatele alla Riviera romagnola», ha detto Rossi). Nella zona retrostante si potranno ampliare gli edifici esistenti del 10 per cento, solo per servizi alberghieri e turistici.
«Sul piano non c’è stato conflitto fra sviluppo e ambiente», ha detto Marson dopo il voto, suscitando l’ira di molti del Pd, «ma tra interessi collettivi e interessi privati». Marson, che ha denunciato “imboscate” durante il percorso del piano, ha ricordato di essere stata accusata di voler espiantare i vigneti (il piano cerca di limitare le grandi estensioni e tutelare le piccole) e di aver dato una consulenza al marito (Alberto Magnaghi, urbanista di fama, ha collaborato al piano gratuitamente come altri professori di tutte le università toscane). Ma il punto, ha insistito, è che il piano incarna un diverso modo di intendere lo sviluppo, al centro del quale c’è «la valorizzazione del patrimonio territoriale e paesaggistico nella costruzione di ricchezza durevole per la comunità». Ora il testo torna al ministero per il parere definitivo.
Il manifesto, 28 marzo 2015
Il via libera è arrivato all’ora di cena. Insieme alla certezza che il Piano del paesaggio della Toscana è tornato sui binari originari. Con un impianto all’avanguardia e di esempio per l’intero paese, studiato con certosina pazienza in quattro lunghi anni di lavoro dall’assessora Anna Marson, nella consapevolezza di dover comunque governare i fisiologici cambiamenti operati sul territorio dalla mano dell’uomo. “Il Piano – ha certificato Enrico Rossi — intende offrire una cornice di regole certe, finalizzate a mantenere il valore del paesaggio anche nelle trasformazioni di cui è continuamente oggetto”. Il consiglio regionale lo ha approvato con il sì dei 32 consiglieri di centro e di sinistra, e il no dei 15 di centrodestra.
Quanta fatica però. Anche se il ricandidato presidente regionale del Pd ne ha rivendicato la paternità (“è il mio piano, non quello del governo”), è fuor di dubbio che un intervento decisivo per sbloccare una situazione diventata kafkiana sia arrivato dal ministero dei beni culturali. La cui firma sul provvedimento è obbligatoria – già una volta il piano era stato rinviato al mittente – e che ha svolto, insieme a Rossi e alla stessa Marson, una vera e propria riscrittura del Piano. Mossa obbligata, dopo lo stravolgimento operato in commissione da parte di un ampio pezzo di Pd che non si rassegnava allo stop di consumo del suolo. Uno stop che peraltro era stato già deciso nel Piano di indirizzo territoriale, di cui il Piano paesaggistico è una integrazione.
Emendamento su emendamento, le originarie norme di salvaguardia elaborate da Anna Marson, docente di tecnica e pianificazione urbanistica all’ateneo veneziano, erano state progressivamente stravolte. Su tutti, avevano fatto inorridire gli emendamenti che facevano ripartire le escavazioni del marmo sulle Apuane in maniera pesantissima (via libera alla riapertura di cave dismesse, cave secolari, anche cave su vette e crinali ancora integri), e quelli che nei fatti riaprivano all’edificazione costiera anche sul lungomare, e perfino sugli arenili.
Le polemiche che ne sono seguite, e che hanno portato il ministro Franceschini a prendere pubblicamente le difese dell’assessora Marson (“lei è stata capace di mettere d’accordo Asor Rosa e Settis, Repubblica e Corriere della Sera…”), hanno riportato il Piano toscano del paesaggio alle sue coordinate originarie, grazie a un super-emendamento coordinato in sede ministeriale. “Il testo che emerge dopo la presentazione del maxi emendamento è un buon risultato – certifica Monica Sgherri di Rifondazione — perché riporta il piano sostanzialmente a quanto adottato nel luglio scorso. Quindi cancellando quello stravolgimento, soprattutto in tema di escavazione sulle Apuane e di salvaguardia delle coste, perpetrato in commissione”.
Il risultato è stato l’ok al Piano anche di Sel, Prc e Pcdi, che pure corrono alle elezioni regionali in alternativa al Pd e a Enrico Rossi, sostenendo l’ottima candidatura di Tommaso Fattori. Sul fronte opposto, il ritardo nel via libera è stato provocato dall’ostruzionismo di Forza Italia e Fdi, che hanno deposto le armi solo dopo aver ottenuto di veder monitorati gli effetti del Piano sulle attività estrattive. A cose fatte, Enrico Rossi ha ricordato: “Non è vero che discutere col ministero è stato umiliante, il paesaggio è un bene tutelato dall’articolo 9 della Costituzione, che rende necessaria la copianificazione. E’ la nostra identità, il nostro marchio nel mondo, bellezza che si è prodotta anche attraverso il lavoro. E con il piano siamo riusciti a ricostruire l’equilibrio necessario”
Tra i grattacieli fortemente voluti da Maurizio Lupi, venduti alla famiglia reale del Qatar, un progetto di landscape per Expo calato dall'iper-uranio della globalizzazione, e del tutto surreale in una città a cui si vorrebbe far perdere la memoria. Corriere della Sera Milano, 28 marzo 2015, postilla (f.b.)
Spunta a Milano un progetto di «arte ambientale» promossa dall’artista americana Agnes Denes. Titolo: Un campo di grano tra i grattacieli di Porta Nuova. Saranno utilizzati quasi 15.000 metri cubi di terra, 1.250 chili di sementi e circa 5 mila chili di concime (ovviamente chimico e inodore) poiché quello naturale sarebbe disdegnoso per l’inevitabile olezzo. E così, nel giubilo per la novità dell’arte ambientale si trascurano memorie di esperienze fallimentari già compiute.
Estate 1941. L’Italia è in guerra. La propaganda del regime fascista ogni giorno preannunciava imminenti clamorose vittorie e poi, puntualmente, venivano rinviate a un futuro incerto fino a lasciarle dissolversi nel silenzio della dimenticanza. E allora bisognava creare distrazioni per fare da compensazione. Tra le varie trovate una di queste fu il grano fascista. A Milano, prossimi all’autunno, gli operai del Comune cominciarono ad arare tutti gli spazi destinati a giardini e aiuole. Il fronte della guerra era ancora lontano e alla fine di giugno del 1942, puntualmente, anche il grano seminato in città venne a maturazione. Ma, ahimè, al momento del raccolto venne alla luce quel che fino ad allora era rimasto nascosto nel folto delle spighe, che man mano crescevano ne impedivano la vista. Poi con il campo rasato dalla mietitura era comparsa, come scaturita da sottoterra, una inspiegabile presenza di sassi bianchi, opachi come lo sono le cose morte che sfacciatamente si sovrapponevano al brume del terreno.
Certo: i pareri erano diversi. Ognuno diceva la sua. Infine venne la sentenza condivisa da tutti. Quei «sassi» non erano altro che cacche di cane rinsecchite e cementificate dalla lunga stagionatura. Io ne sono stato testimone, avevo dieci anni e ricordo tutto con la lucidità della memoria infantile che a quell’età rimane viva per sempre. E per noi ragazzi quelli furono momenti davvero eccitanti, perché non era più un gioco ma una guerra vera, quella che fanno i grandi e si muore davvero. Quando si gonfia la forma perché la sostanza è debole, si è dalla parte sbagliata. Ho saputo della adesione a Expo da parte di Coca Cola e Mc Donald. Alla faccia della genuinità e sacralità del cibo…
postilla
Fra i tanti, e probabilmente davvero troppi, sintomi di una Expo nata e cresciuta nel segno fortemente ideologizzato di una agricoltura e idea di territorio sostanzialmente inaccettabile e dominata dalla lobby agro-industriale, spicca anche questo assurdo decorativo stupido campo di grano scaraventato sulla città. Olmi con la sua sarcastica citazione di Mogol-Battisti ne rileva uno degli elementi di maggior stridore: Milano è stato uno dei luoghi simbolo della Battaglia del Grano del fascismo, circolano ancora sul social network le vecchie foto delle spighe in Piazza del Duomo: perché non evitare di richiamare così goffamente quelle immagini? Macché: la memoria è nulla, di fronte a decisioni meccaniche per cui si importa a scatola chiusa un progettino, esattamente col medesimo criterio con cui gli edifici che stanno lì attorno vengono da lontanissimi e alieni tavoli di progettazione. Che ci sarebbe voluto, per importare il “format” ma adattarlo al contesto, storico geografico e colturale (una risaia? un orto? Qualcos'altro?). Se questi sono i personaggi che vorrebbero nutrire il pianeta, forse è davvero meglio iniziare a pensare, molto seriamente, a organizzarsi da soli un percorso alternativo, perché quando all'arroganza si unisce in modo tanto spudorato un'allegra imbecillità, non c'è davvero scampo (f.b.)
1. Il voto di approvazione di un piano paesaggistico ancora definibile tale, intervenuto oggi nel penultimo giorno utile della legislatura dopo un lunghissimo dibattito dentro e fuori le sedi istituzionali, è l’esito di un assai ampio coinvolgimento pubblico nel merito delle scelte che la Regione Toscana si apprestava a compiere, e di una straordinaria mobilitazione culturale e sociale in difesa del Piano paesaggistico.
Le prove che questo piano ha dovuto affrontare, nella sua natura di strumento portatore di innovazione culturale e normativa, non sono state facili.
Anche se la portata storica dell’evento è chiaramente incommensurabile, mi permetto di richiamare le parole di Calamandrei sull’esito della scelta repubblicana dell’Italia (Il Ponte, luglio-agosto 1946), sul cui cammino «non sono mancati i diversivi che miravano a mandare in lungo la partita, i tranelli preordinati a far perdere la serenità al giocatore meno esperto, e qualche svista pericolosa e, purtroppo, qualche tentativo di barare…Proprio di queste vicende bisogna tener conto per comprendere quanta fermezza e quanta resistenza morale sono state necessarie …per conseguire questa vittoria e per apprezzarne il valore... [in questo caso si è] dovuto superare imboscate e tradimenti che l’osservatore superficiale nemmeno sospetta».
Nel caso del piano paesaggistico le “imboscate” non sono derivate da un conflitto fra ambiente e sviluppo, come molti hanno sostenuto, ma tra interessi collettivi e interessi privati.
Ciò è testimoniato dal fatto che chi si è mosso a difesa del piano, come le associazioni ambientali e culturali, e molti autorevoli studiosi, non rappresenta in questa vicenda interessi particolari o privati. Mentre tutti coloro che a vario titolo hanno sollevato richieste di modifiche del piano l’hanno fatto mossi da interessi privati finalizzati al profitto, mascherato da occupazione e sviluppo.
Ritengo quindi utile ripercorrere, sia pur in grande sintesi, alcuni dei passaggi salienti del percorso di piano che portano ulteriori evidenze a questo riguardo.
2. La procedura del piano e le imboscate subite
Il presidente della Commissione consiliare nel citare gli emendamenti apportati in commissione ha più volte parlato di «grande lavoro rispetto cui non si può tornare indietro».
Che dovremmo allora dire relativamente al lavoro di costruzione del piano, alla lunga e continua contrattazione istituzionale e sociale - anche in un clima di linciaggio personale di cui sono stata ripetutamente oggetto (1) - al lavoro di controdeduzione alle osservazioni presentate per arrivare a un testo equilibrato nel tenere in conto i diversi interessi legittimi?
La formazione del piano e' stato un atto quanto mai collettivo. Il piano cosiddetto “Marson” è infatti frutto:
a) di un atto di indirizzo approvato dal consiglio regionale nel 2011;
b) di una approfondita fase di elaborazione scientifica affidata al Centro Interuniversitario di Scienze del Territorio delle 5 principali università toscane anziché a una ditta privata o a una elaborazione interna dei soli uffici (che non avevano le forze per condurre un compito di questa portata, anche in seguito alla soppressione del settore paesaggio all’inizio della legislatura e alla sua lenta e faticosa ricostituzione nel corso dei successivi tre anni);
c) di uno straordinario impegno dei funzionari del settore paesaggio, anche con molte ore di lavoro non retribuite, nel costruire la proposta di piano;
d)di numerose assemblee pubbliche di approfondimento e discussione che hanno accompagnato le fasi di formazione del piano nei diversi ambiti del territorio toscano;
e) di una lunga e ripetuta concertazione con attori pubblici (ANCI, Consiglio autonomie, comuni, sovrintendenze, Ministero) e del confronto con attori privati (ordini professionali, associazioni sindacali e imprenditoriali, ecc) ;
f) di una validazione tecnica preliminare da parte del Mibact sul lavoro complessivo (dicembre 2013);
g) di due successive proposte di piano approvate dalla giunta (gennaio e maggio 2014);
h) di un esame in sede di più commissioni consiliari (ne ricordo almeno cinque) che ha portato all’adozione, con emendamenti, il 2 luglio 2014;
i) del lavoro di controdeduzioni che ha portato al voto unanime della Giunta il 4 dicembre 2014.
Sfido tutti coloro che hanno dichiarato in aula, rivolti alla giunta, che «s’è perso tempo», a trovare un esempio di piano paesaggistico regionale copianificato con il Mibact che abbia concluso questo percorso in un tempo più rapido.
E ciò nonostante – per non citare che i due esempi più significativi - una ricerca di regole condivise con i sindaci delle Apuane interessati dalle attività di escavazione durata più mesi, e un tavolo con i rappresentanti di categoria delle associazioni agricole protrattosi con incontri quasi quotidiani per settimane.
Se nel caso delle associazioni agricole ciò a portato, pur con perdite significative dei contenuti del piano (quali la sparizione di gran parte dei riferimenti alla “maglia agraria”, di ogni citazione della parola “vigneti”, e di tutti i riferimenti al “mantenimento delle attività agrosilvopastorali montane per arginare i processi di abbandono”), a una sostanziale condivisione del testo, nel caso delle Apuane sia la modifica della prima proposta di giunta che gli emendamenti introdotti dal consiglio in fase di adozione non hanno sancito la fine delle ostilità né delle interferenze anche pesanti rispetto ai contenuti del piano e alla procedura istituzionalmente definita per la sua approvazione.
Abbiamo così assistito, in commissione consiliare, al voto di emendamenti non coerenti con i contenuti propri di un piano paesaggistico, a diverse e articolate trattative politiche non con le rappresentanze istituzionali delle imprese ma con alcune imprese, alla partecipazione di consulenti delle imprese del marmo alla scrittura degli emendamenti nelle stanze del Consiglio regionale, alla sparizione dal Piano di tutti i riferimenti alle criticità di luoghi specifici che disturbavano qualcuno che aveva modo di far sentire la propria voce, e così via. Tutte le tipologie degli emendamenti proposti in commissione sono state ispirate a un unico principio: depotenziare l’efficacia del piano.
- nelle Apuane sono state cancellate tutte le criticità relative a specifiche aree interessate dalle escavazioni;
- molte criticità paesaggistiche evidenti sono state trasformate in forma dubitativa;
- un emendamento si proponeva addirittura di specificare che le criticità costituivano valutazioni scientifiche delle quali i piani urbanistici “non dovevano tenere conto”;
- nelle spiagge si intendevano ammettere adeguamenti, ampliamenti, addizioni e cambi di destinazione d’uso;
- la dispersione insediativa, anziché da evitare, era al massimo da limitare o armonizzare;
- la salvaguardia dei varchi inedificati nelle conurbazioni andava cancellata, o anch’essa “armonizzata”;
- le relazioni degli insediamenti con i loro intorni agricoli sono state soppresse;
- l’alpinismo in Garfagnana andava soppresso;
- gli ulteriori processi di urbanizzazione diffusa lungo i crinali non erano da evitare bensì da armonizzare;
e così via.
Soltanto la verifica in extremis con il Mibact, con il quale il piano va necessariamente copianificato anche per dare attuazione alle semplificazioni che da esso discendono, dovuta anche alla luce del verdetto ricevuto a suo tempo sull’integrazione paesaggistica del PIT adottata dalla Regione Toscana nel 2009, ha portato con un grande sforzo da parte di tutti i soggetti coinvolti, e del Presidente Rossi in prima persona, a recuperare almeno in parte alcuni dei contenuti essenziali che permettono di qualificare questo piano come “piano paesaggistico”.
Non posso che concordare con chi ha definito questa retromarcia imbarazzante. Lo è senza dubbio per l’immagine arretrata, riflessa da alcuni rappresentanti eletti, della società toscana (smentita invece dalla moltitudine di cittadine e cittadini che si sono espressi in difesa del piano). Lo è per chi, come me, ha creduto nel federalismo, non quello della riforma del Titolo V della Costituzione operata all’inizio del nuovo millennio oggi peraltro ripudiata dagli stessi autori, ma quello auspicato da Carlo Cattaneo e da Silvio Trentin.
In questo caso devo tuttavia riconoscere che l’intervento del Ministero ha contribuito a salvare parti significative del piano.grazie in particolare all’impegno della sottosegretario Borletti Buitoni, oltre a quello del ministro Franceschini intervenuto anch’esso in prima persona.
3. Due concezioni dello sviluppo contrapposte. Chi è passatista?
I soggetti presi a riferimento non sono certo i viticoltori artigiani di qualità, piuttosto che le botteghe di trasformazione artistica del marmo, per non citare che due esempi fra i molti possibili, in una “compressione della rappresentanza” rispetto alla complessità crescente del mondo produttivo. La rappresentanza dei grandi interessi finanziari, travestiti da interessi per lo sviluppo, è l’unica ad essere di fatto garantita.
Ma questo modello di sviluppo non è forse alla base della crisi economica che stiamo vivendo?
Il tentativo di affossamento del valore normativo del Piano paesaggistico è peraltro coerente con l’ideologia che esalta i processi di privatizzazione e centralizzazione dei processi economici e politici, in molti casi peraltro sostenuti da finanziamenti pubblici, come unica via d’uscita dalla crisi.
In questa monodirezionalità degli emendamenti votati in commissione è stato peraltro negato lo spirito stesso del Codice.
Laddove il Codice richiede che il Piano si interessi di tutto il territorio regionale, si chiede infatti, di conseguenza, un cambio dalla centralità dai vincoli (prescrizioni che riguardano i soli beni paesaggistici formalmente riconosciuti) alle regole di buon governo per tutto il territorio, compresi quindi i paesaggi degradati, le periferie, le infrastrutture, le aree industriali, gli interventi idrogeologici, gli impianti agroindustriali, ecc); dunque regole per indirizzare verso esiti di maggiore qualità le trasformazioni quotidiane del territorio, e non solo preservare i suoi nodi di eccellenza.
La stessa cura a migliorare la qualità paesaggistica di tutto il territorio regionale è richiesta come noto dalla Convenzione europea del paesaggio, che parla di «attenzione ai modi di vita delle popolazioni».
I piani paesaggistici di nuova generazione fanno dunque riferimento a un diverso e innovativo modello di sviluppo che vede la centralità della valorizzazione del patrimonio territoriale e paesaggistico nella costruzione di ricchezza durevole per le comunità. Non certo per rinunciare al manifatturiero, e nemmeno all’escavazione del marmo, ma per far convivere queste attività con altre possibilità imprenditoriali, a partire da un patrimonio territoriale che ne renda possibile e realisticamente fattibile lo sviluppo.
Come ha scritto recentemente un ex sindaco, Rossano Pazzagli, a proposito delle prospettive dell’attività turistica, «fare turismo…è perseguire un turismo non massificato, di tipo esperienziale…Chi vuole riaprire le coste alla cementificazione…finirà per danneggiare lo stesso turismo balneare, che va in cerca di paesaggio, di spiagge, di pinete e di sole, non di qualche pezzo di periferia urbana in riva al mare».
Non solo le Apuane, uniche al mondo, ma lo stesso marmo apuano, meriterebbe di essere a tutti gli effetti considerato come una risorsa preziosa, e valorizzato di conseguenza restituendo alle comunità locali gran parte del valore aggiunto che va invece ad arricchire singoli individui, distruggendo per sempre le montagne.
Sono soltanto alcuni esempi, che tuttavia testimoniano come il piano ponga le basi per rendere possibile un diverso sviluppo, basato non sulla distruzione del patrimonio regionale ma sulla sua messa in valore sostenibile per la collettività e il suo futuro. Il Presidente Rossi ha dichiarato che sarei “un grande tecnico… che quando esprime giudizi politici compie scivoloni pericolosi”.
Da questo punto di vista io rivendico invece il mio agire “diversamente politico”, in quanto non guidato dal desiderio di mantenere un incarico di assessore, né dall’obbligo di restituire favori e accontentare interessi specifici. In questi anni ho cercato di garantire nel modo più degno possibile, nel ruolo che ho avuto l’onore e l’onere di ricoprire, la straordinaria civiltà tuttora profondamente impressa nel paesaggio toscano, pur nella complessità delle sfide sociali, economiche e politiche che hanno interessato nel passato e interessano ancor più oggi questa regione.
4. Un sentimento contraddittorio
In conclusione è con un sentimento contraddittorio che accolgo questo voto del Consiglio:
-da una parte la soddisfazione per il fatto che il proposito di rendere inefficace un progetto assai avanzatoper la a Toscana futura abbia dovuto in parte rientrare grazie alla forte mobilitazione culturale e sociale in difesa del piano, e per il ravvedimento finale del principale partito di maggioranza;
-dall’altra il rammarico per il fatto che il percorso di questo piano sia stato costellato da cedimenti, contraddizioni, indebolimenti che hanno ovviamente lasciato il segno nel corpo del piano stesso.
Non mi sento pertanto di fare alcuna celebrazione clamorosa, né retorica, di questo esito. Raggiungere questo risultato è stato difficile e aspro, né sono state risolte tutte le contraddizioni.
Spero tuttavia che l’alto livello di mobilitazione attivatosi a livello regionale e nazionale intorno a questo piano e all’allarme sul rischio del suo annullamento, serva a mantenere alta l’attenzione intorno all’interpretazione che quotidianamente, nei giorni e negli anni a venire, sarà data del piano stesso e dei suoi contenuti.
E a favorire la realizzazione di un Osservatorio regionale del paesaggio, già previsto dalla LR65/2014 e da attivare nei prossimi mesi, che sappia garantire una forte partecipazione sociale, facendo entrare il paesaggio a pieno titolo fra gli obiettivi dello sviluppo regionale volti ad aumentare il benessere delle popolazioni presenti sul territorio.
Repubblica.it, 27 marzo 2015
Fra i più esaltati sacerdoti del culto del Privato va annoverata la presidente di Confcultura, Patrizia Asproni, per la quale il modello ideale sarebbe quello in cui «il privato presenta un progetto per cui si assume l'onere del finanziamento a fronte di una gestione complessiva di un bene culturale. Il project financing prevede un promotore il cui progetto viene messo a gara, in una procedura concorrenziale e trasparente. Il privato avrebbe quindi il compito della gestione, mentre resterebbe in capo allo Stato sia la proprietà che la tutela». Di fatto si tratterebbe di una superconcessione pluridecennale chiavi in mano in cambio di un finanziamento: una società per azioni paga la conclusione dei lavori degli Uffizi, e se li prende per vent'anni.
Che ci sarebbe di male? – dirà qualcuno. Per capire cosa può voler dire, in concreto, si può prendere l'esempio della Fondazione Torino Musei (che è l'ente di diritto privato cui il Comune di Torino ha conferito i musei civici, istradandoli verso future, più sostanziali, privatizzazioni): anche perché a guidarla è proprio Patrizia Asproni.
Ebbene, la Fondazione ha appena deciso che la principale biblioteca d'arte di Torino (quella della Galleria d'Arte Moderna) – cito un bellissimo post di Gabriele Ferraris – «d'ora in poi sarà aperta soltanto il venerdì dalle 10 alle 17 e il sabato dalle 10 alle 14. Avete letto bene: si passa da 5 giorni (ovvero 35 ore) di apertura settimanale a due giorni (per un totale di 11 ore)». Perché? Per «ottimizzare le risorse», ha risposto Asproni a Ferraris. Che, tradotto, vuol dire: per spendere quei soldi in mostre ed eventi. A chi interessa più nulla delle biblioteche, infatti?
Oggi «i docenti di storia dell’arte dei dipartimenti di studi storici e umanistici dell’Università di Torino, i funzionari storici dell’arte delle Soprintendenze piemontesi, gli studiosi di storia dell’arte, le associazioni culturali e le istituzionali museali presenti sul territorio piemontese, in risposta alla grave contrazione dell’orario di apertura della Biblioteca di storia dell’arte della Gam di Torino» hanno rivolto «alla Fondazione Torino Musei un addolorato e appassionato appello perché non svigorisca una delle più importanti strutture di studio e di ricerca di storia dell’arte cittadine, costruita e a lungo diretta con sapienza e attenzione, vero patrimonio culturale della città».
Ma il punto è proprio questo: quel patrimonio non è ormai più «della città», ma della «Fondazione Torino Musei». Che non è una fragile utopia, ma una solida realtà.