loader
menu
© 2024 Eddyburg

La Repubblica Milano, 17 maggio 2015, postilla (f.b.)


Alleggerire l’anello trafficato più vicino alla città. É la sfida lanciata dalla Tangenziale Est esterna di Milano, inaugurata ieri. Trentadue chilometri tra Agrate Brianza e Melegnano, 2,2 miliardi (dei quali 330 milioni pubblici), la Teem scommette di attirare 55mila auto. Automobilisti che vanno convinti, però, a spendere almeno 4,76 euro, il 50 per cento in più rispetto a oggi, e non è banale. Solo così la nuova superstrada non rischierà di fare la fine della Brebemi. «Un esempio di opera senza ritardi né sprechi», definisce la Teem il ministro alle Infrastrutture, Graziano Delrio. È proprio a lui che il governatore lombardo Roberto Maroni ha consegnato ieri un dossier per chiedere a Roma impegni soprattutto finanziari per tutte le 37 infrastrutture che la Regione vuole realizzare nei prossimi anni. Ci sono le tre tratte ancora scoperte della Pedemontana e un raccordo per la Brebemi, ma anche progetti meno noti come la Cremona-Mantova e la Varese- Como-Lecco. In tutto, si chiedono finanziamenti e impegni per 320 chilometri di nuove autostrade, senza contare le corsie in più da aggiungere a quelle già esistenti e arterie più locali. Autostrade, ma anche potenziamenti ferroviari e persino interventi per migliorare la navigabilità del Po. Per gli ambientalisti è «un libro dei sogni che non è sostenibile economicamente, non si giustifica sotto il profilo trasportistico e dannoso per l’ambiente: va privilegiata la mobilità ferroviaria».

Ci sono i completamenti di opere già avviate, che altrimenti resterebbero per buona parte incompiute: è il caso delle tre tratte della Pedemontana che da sole valgono 44 chilometri su un totale di 67 di tutta l’infrastruttura. Ma anche progetti tutti nuovi, per i quali non c’è un euro stanziato, sono poco noti e quindi via con la corsa a batter cassa al governo: è il caso della Cremona- Mantova e della Varese-Como-Lecco. Nel dossier consegnato al governo, la Regione chiede a Roma finanziamenti e impegni per accelerare l’approvazione di 320 chilometri di nuove autostrade. Ci vogliono miliardi. In tutto, una lista di 37 progetti, non solo d’asfalto, che si punta a realizzare in Lombardia nei prossimi anni.

Il governatore lombardo Roberto Maroni ha approfittato della visita, ieri, del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio per consegnargli la lista dei desideri delle opere che vorrebbe realizzare o portare a termine in Lombardia. Autostrade, ma anche potenziamenti ferroviari e persino interventi per migliorare la navigabilità del Po. «È uno strumento programmatico - spiega Maroni - che sintetizza tutte le opere che vanno completate o realizzate in ambito viario a cominciare dalla Pedemontana, nel campo ferroviario e in quello della navigazione». Ma cosa c’è dentro le 45 pagine di dossier? In cima la Regione batte cassa per i 44 chilometri previsti per finire la Pedemontana, le tratte B2, la C e la D fino a Osio Sotto. Non solo. Sempre nello stesso territorio ci sono da completare anche la tangenziale di Varese (6 chilometri per 340 milioni) e quella di Como, il cui progetto negli ultimi mesi è stato rivisto e dovrebbe costare meno (si spera) dei 690 milioni inizialmente previsti per seimila metri d’asfalto. C’è spazio anche per la Brebemi,nel dossier a Roma. Dopo l’iniezione di 300 milioni di denaro pubblico per salvare i conti di un’opera che doveva essere l’esempio del project financing puro ma tant’è, aperta meno di un anno fa e sottoutilizzata, si torna a chiedere altri impegni: per dare ossigeno alla strada mezza vuota, ora è il turno di un nuovo raccordo autostradale con la A4 a Brescia Castegnato. Anche qui, milioni sul piatto.

Ma nell’elenco del Pirellone ci sono anche progetti nuovi dei quali poco si parla e dei quali non tutti proprio convidono l’utilità. C’è l’autostrada regionale Cremona-Mantova, 60 chilometri «per alleggerire la A4 verso l’Adriatico» ma anche i 37 chilometri per la Varese-Como-Lecco per meglio collegare la fascia pedemontana (e la Pedemontana?), ma si legge, anche per «meglio collegare Malpensa con la rete autostradale nazionale ». Non solo. Nuove autostrade ma anche nuove corsie, come per la Milano-Meda, la quarta per la Tangenziale Ovest e la Milano- Lodi. Oltre a nuove strade «della rete viaria complementare», come una tranche della Tangenziale Ovest Esterna così osteggiata dal territorio che il progetto oggi (mai finanziato) si è rimpicciolito nella Magenta- Abbiategrasso-Vigevano. Ce n’è davvero bisogno di nuovi 320 chilometri solo di autostrade? Gli ambientalisti parlano di «libro dei sogni senza corrispondenza con la realtà - critica Dario Balotta, esperto di trasporti di Legambiente - . L’unica opera che serve davvero sarebbe una vera tangenziale Nord da Agrate a Pero, tutto il resto è contorno inutile. Non è bastato il flop della Brebemi e il primo mezzo flop dell’arco Teem con soli 8mila passaggi al giorno? Nell’anno dell’Expo quando si prende atto che non c’è più suolo necessario per i beni primari, insistiamo su un capitolo chiuso da anni in tutta Europa anzichè su snellire i “colli di bottiglia” del traffico».

Secondo gli ambientalisti insomma questo dossier «non è sostenibile economicamente, non si giustifica sotto il profilo trasportistico e assolutamente dannoso sotto il profilo ambientale: la logica va capovolta». Più ragionevole sarebbe la parte dei rafforzamenti ferroviari. Dieci interventi su 37 richiesti, nemmeno un terzo. Da tempo è atteso il quadruplicamento della Rho-Gallarate, il terzo valico dei Giovi, il raddoppio della Milano- Mortara. Per il Pirellone «è necessario anche realizzare un intervento specifico su Orio al Serio, potenziando il nodo ferroviario di Bergamo- dice l’assessore lombardo Alessandro Sorte - . Va realizzata la linea Seregno- Bergamo e l’innesto sulla Bergamo-Treviglio. Serve il completamento della linea Malpensa-Lugano; il potenziamento della Rho-Gallarate e il quadruplicamento della Milano-Pavia, ma l’elenco non finisce qui». Chiude la lista, il Po, un generico «interventi per la navigabilità del fiume».

postilla
Visto che alla noia di chi legge si affianca ahimè anche quella di chi scrive, pare giusto e opportuno, davanti a questa specie di replica del dramma «Il Verme Trionfante» di Edgar Allan Poe, in cui si scambia la realtà per la rappresentazione, infilandosi in bocca al mostro, rinviare almeno a tre articoli scritti qualche tempo fa, e che già provavano a delineare a spezzoni il disegno. Si tratta, inutile dirlo, esattamente delle medesime opere e idee descritte dall’articolo, ma lette sullo sfondo dell’animalesco istinto che le sottende: rivolgersi al grande e piccolo elettore leghista-forzista, rancoroso e asserragliato dentro la villetta e in capannone, a loro volta dentro la maglia autostradale che tutto riassume. Ciò premesso c’è da chiedersi se abbia qualche senso parlare di mezzi pubblici come fanno alcuni, senza prima discutere il modello territoriale e ambientale. Comunque si provino a rileggere:

Cremona Mantova Express: un esperimento di federalismo asfaltato

Autostrada della Lomellina: la fabbrica dello sprawl

I Capannoni della Zia T.O.M.

Bre.Be.Mi. e mutazione genetica (f.b.)

Qualche considerazione attorno a una tesi per nulla peregrina: molti dei problemi di gestione dell'evento milanese, e in prospettiva del dopo-evento, derivano dal modus operandi del Bureau International, che ha imposto un modello da centro commerciale extraurbano. La Città Conquistatrice, 13 maggio 2015

«Se non riuscite a dormire di notte per quello strano rumore che sale dalla strada, sappiate che è solo il fruscio del vostri soldi aspirati lontano». Così qualche anno fa il presidente di una associazione commercianti americana riassumeva a modo suo uno dei tanti impatti negativi dell’insediamento di un gigante big-box nel suo territorio. L’efficace per quanto assai parziale metafora, evidentemente un po’ troppo appesa per ovvi motivi alla corda del portafoglio e agli istinti localisti, coglieva però molto bene l’effetto risucchio-svuotamento da sempre caratteristico dell’insediamento commerciale suburbano, almeno sin da quando si era perfezionato il modello architettonico-urbanistico e il relativo modus operandi (di cui quel modello fisico è solo una delle tante conseguenze), che presiede le strategie degli operatori. Non è certo un caso se, quasi subito e contemporaneamente, circa a metà del XX secolo, il cosiddetto inventore dello shopping mall introverso moderno, l’architetto Victor Gruen, cercava in un articolatissimo saggio sulla Harvard Business Review di uscire dalla trappola in cui in pratica si era cacciato da solo, proponendo di spostare il medesimo metodo alle aree urbane, che ne sarebbero così state beneficiate non solo riequilibrando i conti col suburbio, ma anche innestando virtuosi processi di riqualificazione. Il povero Gruen con tutta la sua innocente boria da progettista demiurgo di era razionalista, ma allevato da sempre nel vivaio degli interessi commerciali, non aveva proprio capito il suo vero contributo allo scatenamento del mostro-aspiratutto territoriale.

Il parco a tema fiera della pappatoria moderna

Venendo ai nostri giorni, in effetti pare adesso un po’ esagerato stupirsi per l’effetto risucchio, e di proporzioni piuttosto giganti, che sta avendo il sito Expo, sia sul tessuto socioeconomico della regione urbana milanese, sia sui temi fondativi dell’evento. Per provare strumentalmente una lettura «alla Gruen» proviamo a riassumere in poche battute la vicenda del piano urbanistico e tematico. In principio era l’Orto Planetario, proposto dal gruppo internazionale di architetti-urbanisti e in sostanza anche dal comitato scientifico, che avrebbe dato un senso coerente sia di contenitore all’area scelta e necessariamente dedicata agli eventi centrali (questo è da sempre il modus operandi delle esposizioni universali), sia di fatto qualificando il resto dell’area metropolitana, con le sue varie eccellenze ambientali e di produzione-proposta alimentare. In pratica pur accettando come era inevitabile le infinite spinte di interessi particolari che si focalizzano su un evento del genere, quel fare dell’area un puro contenitore di spunti culturali, magari marginalmente guarnito di servizi commerciali e non all’utenza, provava molto seriamente a evitare l’effetto aspirapolvere. Che invece, con le scelte piuttosto ottuse e speculatrici messe in campo sin dall’inizio e con premeditazione ultraconservatrice, sia da parte delle autorità locali di centrodestra che da parte del BIE («un orto di melanzane non interessa a nessuno» così riassumevano i giornali le dichiarazioni di un alto esponente), ha finito per prevalere. Oggi, come osserva anche da molto lontano certa attenta stampa internazionale, l’effetto lustrini e insegne sfavillanti tipico dei centri commerciali e dei parchi tematici suburbani, con le scelte architettoniche e urbanistiche messe in campo scatta inevitabile.

«Ascoltate il fruscio del temi Expo che vengono risucchiati lontano»

Ultimo piccolo ma significativo simbolo, di questa logica concentratrice micidiale imperante da retailtainment suburbano postmoderno, la decisione dell’ente di prolungare gli orari serali di apertura visto l’enorme successo delle attrazioni «secondarie» commerciali e spettacolari. Vivamente contestato dalle amministrazioni locali che ovviamente rappresentano gli interessi di tutte le altre attività analoghe, ovvero quelle che avevano considerato e considerano Expo e il suo sito dedicato alla stregua di un «volano», magari da manovrare a piacere. Per intenderci, un po’ come se Disneyland si facesse condizionare nelle sue scelte di fondo dall’associazione titolari di chioschi di bibite accampati tra i parcheggi, sempre che ne siano ammessi. Diciamo che stanti come stanno le cose, la posizione degli oppositori è analoga a quella dei preti e dei conservatori in genere, quando ritengono che le aperture domenicali dei negozi rubino clientela alle loro iniziative religiose o familiari tradizionali, e si lanciano in disquisizioni piuttosto ridicole sulla sacralità della festa (poi massicciamente smentite dalle preferenze della stragrande maggioranza della popolazione, che ha poco senso liquidare come ipnotizzata da compulsivo consumismo). Posto che questo è il pasticcio, sia funzionale che tematico, perché la stessa cosa vale anche per il dibattito sull’alimentazione del pianeta e la produzione agricola globale, ridotti a una specie di angolo o chiosco specializzato dentro il grande baraccone, va detto che esistono almeno due percorsi per provare almeno a esorcizzare il rischio peggiore.

Il parco a tema diffuso

Il primo passo sta proprio nel riconoscere che non aver davvero considerato – prima e poi – le vere potenzialità del progetto Orto Planetario, sia per il sito in sé che per le tematiche dell’evento, ha condotto quasi fatalmente alla situazione attuale. Che riproduce per filo e per segno le infinite vicende locali/globali della grande distribuzione-erogazione di servizi extraurbana, finendo per polarizzare spazi, polemiche, e mettendo in luce una spesso patetica guerra tra poveri, mentre i grandi interessi si fregano le mani disinteressandosi dei territori che stanno prosciugando. Una volta compreso questo errore di polarizzazione, che dovrebbe quantomeno indurre a riconsiderare anche in positivo tutto il successo mediatico del divertimentificio, sempre che si possa almeno un po’ integrare in quanto veicolo di divulgazione dei temi centrali, si tratterebbe di recuperare il metodo sotteso all’idea originaria, che considerava quel luogo, insieme all’idea dell’alimentazione globale, solo e coerentemente in funzione strumentale. Ovvero, scavalcata concettualmente la logica monofunzionale specializzata del polo di qualsivoglia eccellenza, per quanto apparentemente auspicabile, e recuperando il vero respiro almeno «locale» dell’idea di integrazione, seguire la logica strategica di chi per il dopo Expo prova a indicare qualcosa che va al di là dell’ennesima cittadella tematica (che su un altro piano riprodurrebbe risucchi analoghi). Ovvero, invece di un progettone pubblico-privato per valorizzare quel rettangolo tra le autostrade dove ora si celebra la fiera della pappatoria e della movida notturna internazional-popolare, svuotando di senso territorio e dibattito, un piano di scala metropolitana che pure senza schivare la questione di quelle aree ricomponga il complesso mosaico delle evoluzioni in atto. Senza negare che ci sono degli interessi belli grossi in campo e in gioco, ma mettendo sul tavolo delle trasformazioni e delle aspettative anche quella collettività, composta non dimentichiamolo anche dagli operatori piccoli, medi e grandi non monopolisti, sempre evocata oggi solo come pubblico pagante.

Riferimenti

Oliver Wainwrigh, Expo 2015: what does Milan gain by hosting this bloated global extravaganza? The Guardian, 12 maggio 2015. Le citate riflessioni vintage di Victor Gruen, piuttosto interessanti per conto loro, disponibili in italiano, nella sezione Antologia de la Città Conquistatrice, Il metodo del centro commerciale nella riqualificazione urbana (1954)

I documenti "green" dell'Expo 2015: ottime intenzioni, ma preoccupa l'assenza di un'analisi e una denuncia delle cause che hanno determinato la crisi mondiale dell'alimentazione: dal colonialismo allo sporco ruolo delle multinazionali. Comune.info, 14 maggio 2015
Terra Viva – Il nostro suolo, i nostri beni comuni, il nostro futuro. Una nuova visione per una cittadinanza planetaria. È il titolo del rapporto a cura di Navdanya International, Banca etica e Cascina Triulza, presentato il 2 maggio a Milano. Vandana Shiva ha coordinato il lavoro di un gruppo internazionale di esperti che hanno delineato i problemi e le sfide riguardanti il suolo, l’agricoltura, i rapporti tra finanza, economia e cibo, la democrazia. Diversi capitoli per approfondire da un lato i limiti e le contraddizioni del modello attuale, dall’altro esponendo possibili alternative, sia a livello teorico sia menzionando buone pratiche già esistenti.

Il manifesto è stato presentato nello spazio in Cascina Triulza, il padiglione della società civile, nel tentativo di aprire uno spazio di discussione e un dibattito intorno a questioni non più rinviabili, ma che purtroppo faticano enormemente a trovare la giusta collocazione nel dibattito pubblico, e ancora di più tra le istituzioni e i decisori politici. Per avere conferma di questa situazione, è sufficiente leggersi la Carta di Milano e il Protocollo di Milano, due documenti elaborati proprio in vista di Expo e che, secondo i promotori, avrebbero dovuto mettere sul tavolo le principali questioni da affrontare in materia di cibo e agricoltura.

Peccato che, se le premesse e le introduzioni dei due documenti sono sicuramente condivisibili, l’analisi è a dir poco debole su diversi aspetti di importanza fondamentale. In molti casi sembra mancare la volontà di individuare le cause profonde dei problemi esposti e il coraggio di avanzare possibili soluzioni. Vengono evidenziati alcuni inaccettabili paradossi, come lo spreco di alimenti a fronte delle centinaia di milioni di persone denutrite; il ruolo dell’agricoltura sostenibile mentre una parte crescente dei raccolti è destinata alla produzione di biocarburanti; la coesistenza tra obesità e fame su scala mondiale. Nel momento in cui si identificano tali priorità, colpisce ancora di più l’assenza di un’analisi più specifica.

Se ci sono delle disparità, anzi dei “paradossi” così macroscopici e inaccettabili, non sarebbe forse il caso per lo meno di interrogarsi su quale modello commerciale e di distribuzione del cibo si è affermato negli ultimi trent’anni? Nei due testi, invece,non vengono mai menzionati la Wto o gli altri accordi di liberalizzazione del commercio, e il loro impatto in ambito agricolo. La parola “commercio” compare un’unica volta nella Carta, per promuovere un “commercio aperto”, e un’unica volta nel Protocollo, quando si afferma “l’impossibilità per molti paesi poveri di trarre correttamente e sufficientemente beneficio dal commercio”. Come dire che non è sbagliato il modello attuale, ma il problema è che non tutti riescono a fruirne in modo “corretto”.

Ancora, non vengono mai menzionati gli oligopoli e i giganteschi problemi lungo tutta la filiera, dove a fronte di miliardi di piccoli produttori e di consumatori, spesso pochissime multinazionali controllano i prezzi e la distribuzione.Incredibilmente, di filiera e di distribuzione si parla unicamente nella parte relativa alla riduzione degli sprechi. È possibile trattare i problemi dell’agricoltura e dell’alimentazione senza menzionare il fatto che 5 multinazionali controllano il 60 per cento del mercato mondiale delle sementi? 6 imprese il 76 per cento di quello dei pesticidi? 3 sole multinazionali si spartiscono oltre il 6 per cento del mercato del cioccolato? È possibile trascurare del tutto l’impatto della grande distribuzione che si accaparra quote crescenti di mercato, troppo spesso spazzando via sia i mercati locali sia i piccoli contadini che non possono garantire tempi, prezzi e modalità di produzione imposte da tali giganti?

Perplessità simili sorgono analizzando la parte dedicata alla speculazione finanziaria su cibo e materie prime. Nella Carta di Milano non compaiono mai né la parola “finanza” né “speculazione“. Almeno il Protocollo di Milano accenna a tali questioni, anche se colpisce che meccanismi che hanno impatti devastanti tanto sui consumatori quanto sui produttori vengano relegati al punto f) del punto vii) del secondo impegno, quello sull’educazione. Davvero la speculazione finanziaria è considerata una cosa tanto marginale e unicamente una questione di “educazione”? Nel merito, i firmatari chiedono “la sensibilizzazione delle banche, dei fondi pensione e delle assicurazioni sulla questione, affinché possano gradualmente astenersi dallo speculare sulle materie prime alimentari”.Complimenti per la delicatezza con la quale cortesemente si chiede, se non arreca eccessivo disturbo, di astenersi gradualmente dal ridurre alla fame milioni di persone scommettendo sulla loro possibilità di sopravvivere.

L’elenco potrebbe continuare. A volere proprio vedere il bicchiere mezzo pieno, se non altro alcuni degli attuali problemi vengono inquadrati e si ipotizzano delle prese di posizione. Di fatto, si potrebbero però rispettare alla lettera tanto la Carta quanto il Protocollo e continuare a scommettere sul prezzo del cibo esattamente come fatto negli ultimi anni. Così come non vengono rimessi in alcun modo in discussione i sistemi di brevetti sui semi e le conoscenze contadine, gli oligopoli e i disastri dell’attuale modello distributivo, il fallimento degli accordi commerciali, le vergognose disuguaglianze su scala globale. Sono questi i motivi che rendono ancora più importante la scrittura e la diffusione di un documento come Terra Viva. Non basta dire genericamente che riguardo cibo e agricoltura esistono alcuni problemi e ineguaglianze.

Servono coraggio e visione per un radicale cambiamento di rotta in materia finanziaria, economica, commerciale, ambientale. Come dichiarava Vandana Shiva “Expo avrà un senso solo se parteciperà chi s’impegna per la democrazia del cibo, per la tutela della biodiversità, per la difesa degli agricoltori e delle loro famiglie e di chi il cibo lo mette in tavola“. In caso contrario, “l’Expo rischia di trasformarsi in
una fiera della colonizzazione finanziaria e industriale dei campo piuttosto che un’occasione di risposta alle vere cause della fame”. Due modelli a confronto. Occorre scegliere da che parte stare.

«Immediata risposta dell’ing. Luigi D’Alpaos: non barricarsi dietro a inutili “no” e non perdere questa straordinaria occasione di riportare dei sedimenti in una laguna "che è già mare e che perde 500.000 metri cubi di sedimenti all’anno"». La Nuova Venezia, 15 maggio 2015 (m.p.r.)

Venezia frena sull’idrovia. La grande opera, del valore di 700 milioni di euro tutti da trovare, metterebbe di certo al riparo da alluvioni il territorio padovano, ma non darebbe ancora garanzie sicure sull’impatto dello scolmatore sulla laguna. È questa la preoccupazione di comitati e associazioni, espressa ieri nel Palazzo Grandi Stazioni di Venezia all’assessore all’Ambiente Maurizio Conte, all’ingegnere Luigi D’Alpaos e al dirigente Settore Suolo della Regione Tiziano Pinato. Immediata la risposta dell’ingegnere padovano che replica ai veneziani di non barricarsi dietro a inutili “no” e di non perdere questa straordinaria occasione di riportare dei sedimenti in una laguna «che è già mare e che perde 500.000 metri cubi di sedimenti all’anno».
Dopo l’aggiudicazione definitiva del bando di gara europeo al padovano Beta Studio e alla società milanese Technital s.p.a. per l’«affidamento del progetto preliminare per il completamento dell’idrovia Padova Venezia come canale navigabile e scolmatore», ieri si sono ribadite ai progettisti le criticità: i comitati chiedono uno studio di impatto ambientale, costi e benefici del progetto e trasparenza sugli effetti nella laguna. Alessandro Campalto, presidente della Conferenza dei sindaci della Riviera, composto da dieci Comuni padovani e veneziani, ha ribadito il loro unanime sì, ma verificando che sia un progetto che porti benefici a tutti. Si è parlato poi del ruolo strategico che potrebbe avere il Porto Off Shore per favorire l’attività industriale di Padova e della necessità di pensare alla navigazione con chiatte e non con navi. Nel progetto è inserito anche lo studio della possibilità di utilizzare l’idrovia come scolmatore del Bacchiglione e non solo del Brenta. Per adesso non ci sono fondi, il Piano Dissesto del premier dirà se ci sono soldi per il Veneto.

In padania, come altrove, chi pedala rischia, ma pare che l’unica risposta delle istituzioni per ora sia solo burocratica e pure un po’ ottusa: facciamo piste ciclabili, a caso e dove capita. Corriere della Sera Lombardia, 15 maggio 2015, postilla (f.b.)

Più piste ciclabili: 283 chilometri ultimati nel 2014 in Lombardia, con una spesa di 31,2 milioni di euro della Regione, che ha investito anche su bike sharing e posteggi ad hoc per le biciclette. Più soldi ai Comuni per la mobilità dolce: 3 milioni di euro concessi quest’anno dal Pirellone per finanziare 37 progetti, in aggiunta ai 3,5 milioni erogati a 13 comuni nel 2014.
È una doppia mossa quella della Regione per sostenere la sfida dei ciclisti a traffico e smog, dopo che il dossier su biciclette e incidenti stradali, realizzato (su dati Istat) dal Centro di monitoraggio per la sicurezza stradale insieme a Éupolis, ha scattato una fotografia da allarme rosso per la Lombardia: un ciclista morto ogni settimana, 12 feriti in media ogni giorno e 12 incidenti ogni ventiquattr’ore con una bicicletta coinvolta.

Cifre impressionanti che spingono il Pirellone ad accelerare su nuovi progetti per tutelare gli amanti del pedale. Spiega l’assessore alla sicurezza, Simona Bordonali: «È quasi pronta la mappa delle strade regionali in base all’incidentalità. Questa classificazione ci servirà per capire quali sono quelle più pericolose e poi intervenire. Inoltre, in collaborazione con Inail e Aci, stiamo organizzando una serie di iniziative ed eventi sulla sicurezza stradale rivolti ai lavoratori». Ma, nonostante gli sforzi fatti negli ultimi anni dal Pirellone, per le biciclette le nostre città rimangono ancora delle trappole mortali: infatti nel 2013 su 49 ciclisti morti in incidenti stradali, 32 (il 65%) hanno perso la vita sulle arterie urbane dei centri abitati, laddove è accaduto anche il 92% dei sinistri (pari a 4.268), contro i 345 verificatisi fuori dai centri abitati, dove le vittime sono state diciassette.

È vero che nelle nostre città l’indice di mortalità per i ciclisti negli ultimi quattro anni è in continuo calo: dallo 0,81% del 2010 si è scesi allo 0,75% del 2013. Ma è altrettanto vero che la sicurezza per le biciclette è una strada ancora tutta in salita. Anche perché in Italia, come sottolinea Giulietta Pagliaccio, presidente della Fiab (Federazione italiana amici della bicicletta), «non c’è mai stato un governo che abbia dettato una politica nazionale per lo sviluppo della bici come mezzo di trasporto». Di conseguenza, ciascun ente locale ha sempre fatto da sé. Con il risultato che, da un lato, i Comuni si dividono sul 30 all’ora in città, con alcuni (Lecco, per esempio) che dicono sì al traffico slow, mentre altri (Varese, in testa) bocciano la riduzione della velocità in centro perché «è una misura inutile». Dall’altro, le piste ciclabili (2.800 chilometri totali in Lombardia) sono state costruite a macchia di leopardo, tanto che non mancano casi in cui i percorsi protetti terminano o contro un muro, o nel deserto.

postilla
Se non altro (e non era scontato) giusto alla fine dell’articolo si ricorda il fatto, innegabile, che tutti i soldi sinora spesi per le famose piste dedicate sono stati sostanzialmente buttati nel lavandino. L’equazione tra soldi investiti, chilometri realizzati, e sicurezza, per non parlare della qualità urbana ignorata da tutti, pare una specie di fede cieca burocratica e ottusa: da un lato morti, feriti, paura, difficoltà, dall’altro questo flusso automatico di denaro e progettini tecnici, con o senza cordolo di cemento, con o senza fondo rossastro, ma puntualmente pronti a svanire nel nulla vuoi per difficoltà finanziarie, vuoi quando si arriva a quegli ostacoli concettualmente insormontabili che sono un confine comunale, o un semplice incrocio, ovvero nei punti in assoluto più pericolosi, che alimenteranno fatalmente le prossime statistiche ospedaliere e cimiteriali. Un bel circolo vizioso, se non si inizia a prendere la cosa da un verso meno burocratico, schizofrenico e sostanzialmente senza obiettivi salvo quello di dimostrare attivismo (f.b.)

La Repubblica, 14 maggio 2015

PERDERE anche solo pochi centimetri della Deposizione Borghese di Raffaello sarebbe perdere una parte di noi stessi: come se un terribile alzheimer colpisse la memoria collettiva dell’umanità. Eppure potrebbe succedere per una banale, italianissima storia di climatizzatori senza manutenzione: conseguenza della meno banale storia del malgoverno (anzi: non governo) del nostro patrimonio culturale. Già un anno fa Repubblica si era occupata del problema: ottenendo la promessa di una sollecita soluzione. Ora arriva la denuncia, allarmatissima e autorevole, di Kristina Hermann Fiore, già direttrice della Galleria: «a distanza di un anno non risulta purtroppo alcun intervento, e l’aria del parco non ha protetto la Deposizione di Raffaello e altre tavole pregiate. Il calore eccessivo, drammaticamente connesso all’umidità insufficiente (che è a livelli dimezzati rispetto a quelli utili) determina il rischio macroscopico di un collasso del capolavoro del sommo pittore, ed è d’altra parte sotto gli occhi di tutti che l’opera si sia talmente incurvata ai due lati da lasciar vedere non soltanto l’interno della cornice, ma addirittura il muro retrostante. Osservando in controluce da sinistra si constata, poi, che anche tra la parte inferiore e superiore del quadro si è creata una estesa area rigonfiata ». Tra 2005 e 2014 le «curvature laterali della tavola» sarebbero passate da «1,5 a circa 12 cm». Secondo l’ex direttrice bisognerebbe agire subito: «in emergenze del genere l’opera andrebbe immediatamente tolta dalla posizione verticale e posta in orizzontale, per non aggravare ulteriori movimenti di contrazione delle fibre del legno, e lasciata in questa posizione per molto tempo».

Ma come ha fatto la Deposizione ad arrivare al nostro tempo sana e salva, attraversando centinaia di torride estati romane senza climatizzazione artificiale? Semplice: in quelle epoche si seguivano i principi elementari della conservazione, e le finestre della Borghese erano protette da pesanti imposte, sempre chiuse durante le ore di insolazione estiva. Imposte eliminate alla riapertura della Galleria nel 1997, quando tutto fu affidato all’impianto: se questo non funziona, Raffaello muore.

L’attuale direttrice, Anna Coliva, ha ripetutamente chiesto alla Soprintendenza di manutenere o sostituire gli impianti: invano. Evidentemente la priorità è l’organizzazione di mostre, spesso mediocrissime. Mentre i musei non si son mai visti conferire gli introiti dei loro biglietti, promessi un anno fa da Dario Franceschini: e ora non riescono più a fare nemmeno la manutenzione ordinaria. Nella fatale attesa che sia scelto il superdirettore previsto dalla riforma Franceschini, la Borghese fa capo al Segretariato regionale dei beni culturali, retto da Daniela Porro: la quale ammette che l’impianto «non ha mai funzionato» (aggiungendo che solo ora «si sta dando avvio alla sostituzione dei macchinari », anche se presto si dovrà pensare ad una «completa sostituzione dell’impianto»), e dichiara che in base al costante monitoraggio si è sicuri che, per ora, il colore non è saltato via dal legno. Per ora. Finché la manutenzione non passerà dall’annuncio alla realtà, tutte le tavole della Borghese sono in pericolo, e viene in mente il disastro di quelle della Galleria Sabauda di Torino: rovinate nel 2012 dal malfunzionamento della climatizzazione. Allora, Enrico Castelnuovo invocò un’«associazione per i diritti delle opere d’arte». Quell’associazione sarebbe il Ministero per i Beni culturali: se non fosse un corpo morente da anni, che rischia di ricevere il colpo di grazia dalla caotica applicazione di una riforma che punta tutto sulla “valorizzazione”. Ma quale fantomatico manager potrà mai “valorizzare” un Raffaello distrutto?

La città invisibile, maggio 2015

Due dispositivi legislativi: la legge regionale toscana per il governo del territorio impugnata dalla presidenza del Consiglio e, da mesi, ferma in palazzo Chigi, e un disegno di legge nazionale per il contenimento del consumo di suolo, in discussione alla Camera. Due leggi che, pur proclamando di perseguire lo stesso obbiettivo – il blocco della cementificazione dei terreni fertili –, hanno opposta natura antropologica.

La legge nazionale

Partiamo dal DdL C 2039 (Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo), che raccoglie in un testo unificato gli undici precedenti disegni depositati alla Camera. Presentato alla comunità scientifica a un convegno organizzato a Milano dall’Ispra (6 maggio 2015), il DdL è frutto del lavoro dei ministeri di agricoltura e ambiente; nei fatti, tuttavia, possiede la fisionomia di una legge urbanistica. Definisce il consumo di suolo come «incremento annuale netto della superficie oggetto di impermeabilizzazione» da ridurre progressivamente fino al consumo zero imposto dall’Europa per il 2050: i tecnicismi sul calcolo incrementale, funzionali forse ad alimentare la ricerca scientifica, ma senza dubbio fuorvianti rispetto agli obbiettivi, non garantiscono alcun risultato a breve nella realtà peninsulare.

«Un testo sbagliato – affermava Vezio De Lucia all’assemblea della Rete dei comitati per la difesa del territorio (Firenze, 9 maggio) – complicatissimo, di ripetute e concatenate scadenze, denso di concerti, di diffide e di labilissimi poteri sostitutivi, di improbabili divieti e incentivazioni di nuove inverosimili nomenclature, anche perché non usa la lingua dell’urbanistica ma quella dell’agricoltura: viene da piangere pensando alla lingua limpida e lucida della legge del 1942».

Si tratta in effetti di una normativa che non promette niente di buono. Innanzitutto per il meccanismo a cascata nel quale il Ministro dell’agricoltura, di concerto con quello dell’ambiente, stabilisce le quote annuali di suolo ancora edificabile («la riduzione progressiva, in termini quantitativi, di consumo del suolo a livello nazionale», art. 3, c. 1); tali quote sono poi ripartite tra le regioni, le quali a loro volta le suddividono (come?) tra i comuni. A questo punto sono passati tre anni. E se le regioni non sono riuscite a rendere cogente la «ripartizione» sarà il presidente del consiglio dei ministri a provvedere d’imperio alla spartizione del bottino (art. 3, c. 2).

Ma cosa succede intanto in questi tre anni? Le norme transitorie ricordano lugubremente l’ “anno di moratoria” post Legge Ponte (1967) che costò all’Italia milioni di metri cubi di cemento: l’art. 10 del DdL, pur affermando che non sarà consentito nuovo consumo di suolo, fa salva una serie di interventi, di procedimenti in corso e di strumenti attuativi «adottati» prima dell’entrata in vigore della legge (e un’adozione, si sa, non si nega a nessuno).

Il DdL agro-ambientale si permette continue incursioni in campo urbanistico: la priorità del riuso edilizio è sancita all’art. 4, dove si legge che le regioni si impegnano a dettare disposizioni per orientare i comuni verso strategie di rigenerazione urbana mediante l’individuazione «degli ambiti urbanistici da sottoporre prioritariamente a interventi di ristrutturazione urbanistica e di rinnovo edilizio», ivi compresi (poiché non esclusi) i centri storici. Del resto la presidente dell’INU, al convegno milanese, affermava ambiguamente che il suolo già edificato sarà la «grande risorsa del futuro».

Se non si salvano i centri storici, non va meglio al territorio rurale. I «compendi agricoli neorurali periurbani» (avete letto bene, “compendi”, forse dall’inglese “compound”, recinto), previsti nell’art. 5, sono incentrati sulla trasformazione dell’edilizia rurale (fino alla sua demolizione e ricostruzione) di cui è previsto, in conformità con gli strumenti urbanistici, il cambio di destinazione d’uso (comma 5) in servizi turistico-ricettivi, medici, di cura, ludico-ricreativi etc. Da una legge dei ministeri di agricoltura e ambiente ci si doveva aspettare invece la definizione dell’estensione e dell’uso dei terreni coltivati dal detto “compendio”, di quale tipo di agricoltura vi dovesse essere esercitato. Perché il consumo di suolo si attua anche attraverso la monocoltura agroindustriale, le piscine o i campi da golf, che costituiscono la negazione della neoruralità che l’articolo afferma di perseguire. La neoruralità, l’accesso universale alla terra e il suo uso rispettoso necessitano invece di misure che favoriscono l’agricoltura contadina, e di una sapiente ripartizione del demanio agricolo, non della sua vendita al miglior offerente.

La legge regionale


Unica regione in Italia, la Toscana ha varato viceversa in questo campo una buona normativa grazie alla tenacia di Anna Marson, assessore all’urbanistica. Filosoficamente ecologista, la legge 65/2014 (Norme sul governo del territorio) contrappone la cultura del progetto al calcolo ragionieristico; anziché attardarsi nel quantificare il disastro perpretrato nei confronti del suolo, conferisce dignità al «patrimonio territoriale» da tutelare e di cui garantire e sostenere con norme specifiche la riproduzione. Un patto generazionale evolutivo che evita lo scivolamento nel divieto autoritario centralizzato (vedi supra art. 3, c. 2). Facendo seguito a sperimentazioni internazionali, la L. 65/2014 traccia (per mano dei comuni) una linea rossa tra aree urbanizzate e aree rurali, e ne impedisce il superamento da parte di nuove edificazioni: nessun nuovo edificio residenziale su terreni fertili, né centri commerciali o capannoni che vìolino i principi del grande piano regionale (PIT): violazione o compatibilità saranno certificate da una «conferenza di copianificazione» in cui il parere sfavorevole della Regione è vincolante (art. 25). L’impugnativa governativa afferma che proprio quest’ultima norma contravverrebbe al principio costituzionale di libera concorrenza. Difesa renziana del capitalismo bieco e cieco.

A livello nazionale si ignora o volutamente si trascura l’esempio toscano che, quanto al blocco del consumo di suolo, dimostra una potenziale efficacia, esposta tuttavia al rischio di essere travolta: qualora infatti il DdL agro-ambientale fosse approvato, la ridefinizione in corso dell’art. 117 della Costituzione (e in particolare del terzo comma che norma la competenza legislativa concorrente tra Stato e regioni) «obbligherà la Toscana al rispetto di quelle inconcludenti e devastanti procedure» (De Lucia).

Solo un colpo di reni da parte della politica potrebbe stavolta smentire il peninsulare destino che fa prevalere, nella molteplicità delle soluzioni

Riferimenti

Vedi qui la snella ed essenziale proposta legislativa di eddyburg.Un più ampio panorama della posizione di eddyburg sull'argomento è in questo articolo.

Il significato autentico di un documento che esprime il contrario del mondo e dell'ideologia che l'Expo milanese vuole celebrare. Il manifesto, 12 maggio 2015

Cronaca e commenti sull’inaugurazione di Expò e gli scontri del 1° maggio hanno offuscato non solo la partecipazione di massa al Mayday, ma anche il lato grottesco di una manifestazione svoltasi il 2 maggio, alla presenza di Maurizio Martina, ministro dell’Expò e, in subordine, dell’agricoltura, alla cascina Triulza (il green washing dell’Expò) con la presentazione di Terra Viva: un manifesto messo a punto dall’associazione Navdanya di Vandana Shiva, cui hanno collaborato, tra gli altri, anche Andrea Baranes e Piero Bevilacqua.

Perché grottesco? Quel manifesto è la negazione plateale di tutto quanto l’Expò rappresenta: “far nutrire” il pianeta dalle multinazionali dell’agrobusiness, degli OGM, della chimica, del petrolio, dell’industria alimentare e della Grande Distribuzione; ma anche spreco di suolo, profusione di asfalto e cemento, stravolgimento dell’assetto urbano, degrado del lavoro, economia del debito, corruzione e, soprattutto, una concezione dello “sviluppo” che ha da tempo portato il suo focus sull’economia dello spettacolo e della promessa: in questo caso con una infilata senza fine di ristoranti etnici, accompagnata da edifici costosi e caduchi e da una coreografia in gran parte virtuale. Espediente a cui è stato affidato il compito di far uscire l’Italia dalla crisi, di rilanciare la crescita, di restituire spirito di cittadinanza e di appartenenza a una comunità fondata su sfruttamento e speculazione. Terra Viva si sviluppa lungo tutt’altri temi:

invece di un’economia “lineare”, fondata sull’estrazione di sempre nuove risorse da trasformare in rifiuti, un’economia “circolare”, fondata sulla Legge del Ritorno: la restituzione a società e ambiente (che sono un tutt’uno) di ciò che vi è stato prelevato: “La civiltà industriale ci ha distolti dal considerare un valore la nostra relazione con il suolo, in virtù della convinzione arrogante che più siamo in grado di sottomettere la natura, maggiore è il nostro sviluppo”;

invece di un’agrobusiness estensivo e monocolturale fondato su petrolio e chimica, un’agricoltura basata su aziende piccole, biologiche, di prossimità, multicolturali e multifunzionali: “Il secolo scorso è stato dominato da un modello uscito dall’industria bellica e incentrato sull’uso di sostanze chimiche e sui combustibili fossili. Tale modello ha distrutto il suolo, sradicato gli agricoltori, generato malattie, creato rifiuti e sprechi a tutti i livelli, compreso quello del 30% del cibo”;

invece del potere delle multinazionali, una democrazia partecipata, e inclusiva: “La partecipazione delle persone alle decisioni esige un decentramento del potere e del processo che lo produce, insieme al rafforzamento dei diritti comunitari”;

invece di mercificazione di tutto l’esistente, cooperazione e condivisione: “assicurare che tutti gli esseri umani siano in grado di partecipare a questa economia vivente come creatori, produttori e beneficiari”;

invece dei grandi impianti centralizzati, il decentramento produttivo e la riterritorializzazione dei mercati: “Una Nuova Economia basata sul suolo è necessariamente locale. Essa promuove la produzione locale e riduce i trasporti”;

invece delle megalopoli, città sostenibili: “L’inclusione della città nell’economia circolare dipenderà dalla sua capacità di autoproduzione delle risorse, quelle culturali - dalle competenze pratiche a quelle linguistiche, dalle risorse morfologiche alla tutela e alla produzione dei saperi e così via - e quelle energetiche, agricole, demografiche etc.”;

invece della corruzione sempre più compenetrata all’economia “legale”, una legalità legittimata da consenso e coinvolgimento; invece della privatizzazione, i beni comuni: “I contrasti maggiori del nostro tempo - sul piano intellettuale, materiale, ecologico, economico, politico - riguardano la mercificazione e la privatizzazione di risorse di tutti, l’appropriazione privata dei beni comuni. Una risorsa è un bene comune quando esistono sistemi sociali che la utilizzano in base a principi di giustizia e sostenibilità”;

invece dell’incombente catastrofe climatica, il riassorbimento dei gas di serra: “I suoli rappresentano il più grande bacino per l’assorbimento del carbonio e contribuiscono a mitigare il cambiamento climatico”;

invece di una concezione del suolo come mero supporto di ogni speculazione, una concezione dell’unità tra umanità e ambiente, tra cultura e natura, sintetizzata dalla simbologia della Madre Terra: “Questa nuova democrazia va al di là dell’antropocentrismo. È una democrazia della vita intera. La nostra esistenza dipende dalla rete della vita, e i nostri diritti e le nostre libertà scaturiscono dai diritti e dalle libertà della Terra e delle specie non umane”.

Che cosa hanno in comune, allora, due approcci all’agricoltura, all’economia, alla società e alla vita così diametralmente opposti? L’essere promossi come le due facce dello stesso business: uno in pompa magna, con grande dispendio di mezzi; l’altro come legittimazione “sociale” del primo, lasciandolo il più possibile nell’ombra. E che cosa resterà dell’uno e dell’altro, una volta chiusi i cancelli dell’Expò? Da un lato un deserto di cemento pieno di edifici insensati da demolire; il bisogno di fare altri debiti per trovargli una nuova destinazione; il degrado irreversibile del lavoro consolidato nel Jobs act; tante autostrade vuote costruite su montagne di rifiuti tossici e una città trasformata ancora di più in un in circo. Dall’altro, convegni e incontri usati per dare un fugace senso di protagonismo proprio alle persone e alle idee contro cui viene giocata la grande partita dell’Expò. Quella manifestazione grottesca con il ministro Martina ci insegna che le parole, da sole, non contano niente: ciascuno può usarle tutte e il loro contrario per portare avanti il proprio business. Renzi è maestro in questo campo.

Ma Terra Viva è il nostro manifesto, quello in cui possono riconoscersi tutti coloro che nel XXI secolo si battono in modo radicale per “abolire lo stato di cose presente”. Non è il programma di una società rurale che reclama un suo posto nell’economia globalizzata, ma il progetto di una radicale conversione ecologica di un intero assetto produttivo e sociale e, prima ancora, una cultura radicalmente “altra”. Ora deve trovare forza e gambe per uscire da quel (costoso) recinto dell’Expò dei popoli, per riprendersi strade, piazze, campi, fabbriche e uffici. Ma può contare solo su pratiche, sia quotidiane che straordinarie, capaci di costituire una alternativa reale sia al discorso mainstream veicolato dall’Expò, sia alla sua traduzione in cemento, asfalto, debito, tangenti, sfruttamento e nell’“economia della promessa”.

Questo significa continuare a sviluppare quelle alternative sia attuali che di prospettiva su cui hanno lavorato per anni i comitati e la rete No-expò e su cui si sono incontrate e riconosciute le tante realtà diverse che hanno preso parte al corteo del 1°maggio. Occorre prendere atto, e far prendere atto, del fatto che contro quella miseria infinita di cui l’Expò è il simbolo più vistoso ed esaustivo si può aggregare una pluralità di iniziative e di forze ancora assai eterogenee: uno schieramento potenzialmente maggioritario, in barba a quei sondaggi, che, come tutti i media di regime, ci raccontano di una popolazione planetaria che non desidera altro che immedesimarsi con quella simbologia fasulla. E’ uno schieramento che ha ancora bisogno di molte articolazioni e mediazioni, ma che ha dimostrato, nonostante la torsione che i guastatori del “blocco nero” hanno cercato di imprimergli, di avere un propria identità e di poter marciare sulle proprie gambe. Ora è la volta di iniziative capaci superare pregiudiziali e false identità, per portare in piena luce la solidità di una cultura politica radicalmente alternativa, come quella sintetizzata dal manifesto Terra Viva, che davvero ci può riaggregare tutti.

Un'analisi veloce ed efficace delle politiche e della gestione della città di Firenze, che da anni gioca un ruolo di laboratorio sperimentale per il grande cantiere nazionale di rottamazione della civiltà delle città e del territorio. La città invisibile, 11 maggio 2015

Il Piano Strutturale fiorentino e l’appena approvato Regolamento Urbanistico, in linea con la gestione delle città globali, rispecchiano il paradigma neoliberista che vuole l’1% arricchito sulle spalle del 99%. Paradigma che spazialmente produce un “centro” (un luogo di potere) sempre più piccolo e fortificato, e “periferie” sempre più grandi e lontane dai luoghi della politica [1].

La politica neoliberista produce una polarizzazione delle risorse economiche nell’1% dello spazio urbano, tirato a lucido. L’esempio più classico è quello della via Tornabuoni e della sua recente riqualificazione di segno renziano: la realizzazione del nuovo volto del salotto cittadino viene finanziata con debiti a lunga scadenza che rompono il patto generazionale (nel progetto, i previsti “sbuffi di profumo” sono evitati grazie all’opposizione in consiglio comunale). Ma rientrano nella stessa logica anche:

- i parcheggi interrati, funzionali all’1% della popolazione e alla trasformazione borghese (gentrificazione) dei quartieri storici, che si realizza attraverso la formula: rinnovamento dei settori urbani = rinnovamento dei residenti;
- i servizi pubblici mercificati e privatizzati che drenano enormi ricchezze sono un altro aspetto della detta polarizzazione: forniscono servizi peggiori ai cittadini più “periferici” mentre costituiscono uno dei favoriti «finanziamenti occulti della politica» (P. Berdini).

Gestire la città secondo i principi neoliberisti, comporta lo svuotamento di senso pianificatorio di progetto, di disegno del PS e RU, che eludono la materia, girano intorno ai temi fondanti senza mai stringere; zeppi di proclami ma vuoti di strumenti/soluzioni/idee/progetti che possano veramente contribuire al governo della città o a disegnare la città futura. I due atti urbanistici ripetono come un mantra la triade mixité sociale-governance-sviluppo sostenibile. Triade che, valida per lenire tutti i mali della città globale, si declina localmente in:
1) “mix di funzioni”, ripetuto incessantemente, ma che sarà il privato a determinare poiché il RU abdica alla determinazione degli usi della città;
2) pseudo-partecipazione, risolta nella farsa dei facilitatori del consenso;
3) ammiccamenti a una “natura in città” in disegnini a margine dell’articolato (quando poi è previsto, tra l’altro, la copertura del canale Macinante con una strada a quattro corsie che, come una vecchia “penetrante”, condurrà i cosiddetti “city users” dall’aeroporto fino al cuore del consumo turistico).

Inutile sottolineare il ricorso asfissiante alla metafora della smart city: la città intelligente che, come un automa, si autoregolerebbe buttando al macero urbanisti e piani. E poi, le politiche del “brand” messe in atto in una logica di competizione internazionale tra città, che si risolvono:
- nella mercantilizzazione della città e della sua immagine. Pro domo sua (del sindaco) ovviamente: l’affitto del Ponte vecchio ad un sodale politico, prima dell’arrampicata a palazzo Chigi, passa come atto di normale amministrazione;
- e nella logica degli eventi, ognuno singolarmente, ognuno alienato dal contesto: la pedonalizzazione di piazza del Duomo e la cantierizzazione tuttora irrisolta del servizio di trasporto pubblico che prima vi transitava, ne sono l’emblema.
Vediamo quali sono i caratteri della città dell’1%, del centro (o centri), delle eccellenze. Tutto si gioca sull’espulsione/occultazione alla vista dei residenti. Il centro da offrire ai media come immagine del successo del sindaco, o della riuscita della città nella competizione mondiale (le città competitive...), deve essere sterilizzato: via le persone, via i mercati e anche le macchine (oggi – è duro ammetterlo – l’espulsione si attua anche attraverso la pedonalizzazione, in specie se non seguita da buon servizio di mezzi pubblici).

Progetti, politiche e misure sono quindi mirate ad eliminare dagli spazi pubblici la presenza fisica (o prendendo a prestito dal lessico femminista, i corpi e le pratiche). Soprattutto la presenza fisica attiva, della cittadinanza che si autodetermina. È significativo in tal senso il mercato centrale trasformato in una batteria di ristorantini bobó (bourgeois bohémiens), nel cuore di un quartiere che avrebbe invece un bisogno impellente di luoghi di assemblea e di riunione. La città di Renzi-Nardella è sempre più avara di sale per riunioni pubbliche (viene in mente la trasformazione della sala Est-Ovest di palazzo Medici Riccardi, trasformata in galleria di passaggio da un Renzi allora ventenne presidente provinciale).

La città pubblica (lo spazio urbano, le strade, le piazze) è interpretata e gestita come proprietà privata, come prodotto da valorizzare nel senso più feroce del termine, anche con i metodi più classici della produzione capitalista. Perciò procede senza arresto la vendita/svendita del patrimonio pubblico, patrimonio che, come da anni avverte Paolo Maddalena, costituisce l’osso della società civile, la speranza per la sua rifondazione civile. La vendita a Firenze stenta a decollare, il maggior aquirente è una connivente Cassa Depositi e Prestiti Spa, e assume i toni grotteschi dell’operazione “Florence, city of the oppurtunities” nella quale il sindaco Nardella si trasforma in piazzista (di edifici pubblici, ma anche privati) presso le fiere internazionali della speculazione immobiliare. Se ciò da un lato rappresenta la delega al privato del disegno della città, dall’altro è la parodia di un governo della città che si sovrappone al mercato immobiliare, e con esso coincide.

Il valore d’uso dello spazio è, in quest’ottica, l’ultimo elemento ad esser preso in considerazione nel piano e nelle trasformazioni urbane. Potremmo dire che anzi non viene preso in considerazione. Le centinaia di schede del RU lasciano, edificio per edificio, aperte tutte le possibilità al mercato. L’esempio che pare più espressivo è quello della scheda dell’area su cui ora insiste il centro sociale autogestito “nextEmerson”, e per la quale il RU presenta già un rendering con villette a schiera sul sedime della fabbrica da demolire. L’urbanistica neoliberista cala la maschera: nel voler cancellare un’esperienza pluridecennale di pratiche di appropriazione collettiva e di uso di un luogo oggi appetito, mostra le sue fattezze autoritarie. La legalità del piano urbanistico nega la legittimità di un uso pluridecennale a servizio di un quartiere di periferia povero di spazi di aggregazione.

Nelle aree periferiche la risposta risiede inoltre nell’adozione di soluzioni securitarie: l’illuminazione carceraria (via Palazzuolo-via Panicale) e le videocamere periferizzano anche alcuni settori della Firenze duecentesca.

Nel corso del lavoro collettivo di lettura e interpretazione dei documenti del piano, come laboratorio politico abbiamo più volte denunciato che il PS non ha un’idea di città, che cioè non ha un’idea condivisibile di città. Perché la sua idea invece l’ha, e ben chiara: quella di una città mercantil-proprietaria in cui prolifera l’individualismo.
Ci chiediamo invece se è ancora possibile progettare una città della gioia, una città felice. Quali sono le vie da percorrere? Come intraprendere la formazione di nuova comunità, che dia spazio al mutualismo, ma anche al conflitto? Come rafforzare le comunità possibili, ricostruire il legame sociale indebolito?

È sicuro che vanno nella direzione opposta i parcheggi (che esasperano l’uso dei mezzi individuali), il “banchetto infrastrutturalista” del PS e le grandi opere (che sottraggono risorse alla cittadinanza).

Tantomeno è risolutiva l’ultima chicca dell’amministrazione che si impegna a «valutare entro 3 mesi dall’entrata in vigore del Regolamento Urbanistico la possibilità di istituire un Registro dei Crediti edilizi finalizzato alla commercializzazione degli stessi, così come richiesto dalla Consulta Interprofessionale di Firenze» (delibera 27 marzo 2015). Insomma, un’accelerata (con i metodi della speculazione finanziaria, del mattone di carta) verso l’ “urbanistica tossica” che crea titoli e crediti, che nega il futuro, che relega a periferia il 99% della popolazione e del territorio urbano e rurale, per molti anni a venire.

Ecco, non è questa la nostra idea di città


[1] Intervento letto all’assemblea della “ReTe deicomitati per la difesa del territorio”, Firenze, 9 maggio 2015. Corre l’obbligo diricordare un bel convegno romano, appena svoltosi, organizzato dal corso didottorato diretto da Enzo Scandurra (La Sapienza) col titolo Gli angeli non abitano più qui, in cui siè discusso sulla permanenza – oggi – del binomio dialettico centro-periferia esul dilagare del modello periferico anche nel centro città: da quel consessonascono alcune delle considerazioni che seguono.

Forse non ci voleva tutta questa ricchezza di prove scientifiche per confermare il fatto, piuttosto ovvio, che anche noi siamo parte dell’ambiente naturale, ma qualche riflessione sulla città si evoca comunque. La Repubblica, 12 maggio 2015, postilla (f.b.)

“Tutti i giorni per almeno un’ora, meglio se di mattina presto e in pianura”: è la prescrizione che potrebbero farci in futuro medici di base, specialisti e pediatri. La cura in questione è fatta di “bagni di natura”, e la prescrizione prevede esposizione costante e prolungata a luce naturale, alberi, fiori e tutto ciò che rende la natura una forza in grado di guarire. Trascorrere del tempo in mezzo al verde aiuta ad allentare lo stress e a rilassarsi. Il motivo è stato studiato da alcuni ricercatori giapponesi che hanno indagato sul cosiddetto metodo shinrinyoku («bagno nella foresta») scoprendo che i vari elementi di un bosco, come l’odore del legno, il suono dell’acqua che scorre e, più in generale, il paesaggio, donano una sensazione di rilassamento e riducono lo stress. Nei partecipanti allo studio si è verificato un abbassamento dei livelli di cortisolo (l’ormone associato allo stress), una riduzione della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna.

«La natura provoca effetti opposti a quelli causati dallo stress - conferma David Lazzari, presidente della Società Italiana di Psico Neuro Endocrino Immunologia - influendo direttamente su parametri come pressione sanguigna, battito cardiaco, glucosio e cortisolo. Questi effetti sono potenziati e amplificati se il tempo trascorso in mezzo alla natura è costante e di qualità». Molti, infatti, restano connessi a telefonini e simili. «In un parco, in mezzo ad un bosco, in montagna o al mare — prosegue Lazzari — senza rendercene conto facciamo anche cromoterapia ed aromaterapia perché i colori e gli odori delle piante contribuiscono a farci star meglio».

Ma la natura non agisce solo come anti- stress. Demenza, Alzheimer, depressione, diabete, asma: anche in questi campi la natura ha dimostrato di avere un effetto terapeutico. Ben diciassette studi hanno evidenziato che la presenza di spazi verdi nelle case di cura può aiutare a gestire meglio i sintomi di demenza. Di recente i ricercatori dell’università di Exeter hanno scoperto che i giardini naturali riducono l’agitazione di questi pazienti, incoraggiando e promuovendo invece il rilassamento. Anche i ricercatori dell’università del Michigan hanno scoperto che la memoria a breve termine può essere migliorata del 20% stando a contatto con la natura o anche solo guardando immagini di paesaggi naturali. E ancora, uno studio condotto dall’università dell’Essex, nel Regno Unito, ha dimostrato che fare attività fisica in campagna riduce la depressione in circa il 70% dei casi mentre i ricercatori dell’università dell’Illinois hanno rilevato che tra 400 bambini con diagnosi di Disturbo da Deficit di Attenzione/ Iperattività (ADHD), quelli che abitualmente giocavano all’aperto avevano una migliore concentrazione, oltre ad essere più calmi, rilassati e felici.

La natura può essere prescritta anche per alleviare i sintomi dell’asma. A dirlo sono i risultati di uno studio condotto dalla Portland State University che hanno dimostrato che gli alberi svolgono un ruolo fondamentale nel ridurre i livelli di biossido di azoto, un inquinante che irrita le vie respiratorie. Insomma, la scienza conferma che la natura può essere terapeutica. Ma attenzione a cosa si intende per “natura”. «Camminare all’aria aperta o in un parco cittadino non sempre è l’ideale se il livello di inquinamento è alto — avverte Antonio Maria Pasciuto, presidente dell’Associazione Italiana Medicina Ambiente e Salute — perciò, prima di correre su un viale alberato o in un parco cittadino meglio chiedere al Comune i dati sulla qualità dell’aria». Il problema sta proprio nell’accessibilità ad una “natura sana” visto che, secondo le statistiche, nei prossimi anni il 70% della popolazione mondiale vivrà in città.

Ecco perché ora gli scienziati stanno lavorando per arrivare a capire qual è la “giusta dose” di natura che i medici potrebbero prescrivere. In una ricerca che sarà pubblicata sul numero di giugno della rivista BioScience, un gruppo di biologi e medici dell’American Institute of Biological Sciences tenterà di studiare gli effetti dell’esposizione alla natura utilizzando il metodo dose-risposta a cui si ricorre per studiare gli effetti dei farmaci. In pratica, i ricercatori vogliono capire che “dose” di natura serve ad un paziente per ottenere un effetto sulla salute. Solo così si potrà passare da un generico invito ad una vera e propria prescrizione in cui indicare tempi, modalità e frequenza. Con un’unica avvertenza: «Chi soffre di stress cronico e iperattività — conclude Lazzari — ha difficoltà a rilassarsi e vive in un continuo stato di tensione, per cui quando si trova in mezzo alla natura sta male, diventa insofferente. E poi c’è chi ha paura degli animali o una vera e propria fobia per i luoghi non controllati». Anche la natura può avere controindicazioni. Il suono dell’acqua che scorre e l’odore del legno sono ottimi alleati A giugno sarà reso noto uno studio che ne misura la quantità necessaria.

postilla
Forse non è noto a tutti che, a fianco di queste (piuttosto diffuse da tempo anche dalla stampa di informazione generale internazionale) ricerche sul rapporto tra frequentazione del verde e benessere psicofisico, ce ne sono altre, altrettanto sistematiche, sul rapporto con alcune forme urbane, che in buona sostanza riguardano disponibilità di spazi verdi, qualità di questi spazi, e effettiva accessibilità e fruibilità. A questo proposito potrà forse suonare strano, ma torna in campo l’antica intuizione della cosiddetta Cité Jardin Vertical corbusieriana, e in genere l’idea razionalista di sviluppare gli spazi privati degli alloggi in verticale, per lasciare la maggior parte possibile di spazio pubblico e a verde disponibile. Il fatto che ciò poi coincida con la formazione delle famigerate «periferie disumane» non dovrebbe di per sé spingere, come invece di fatto è avvenuto, proprio a quella revisione dei rapporti fra edificato e spazi aperti, magari addirittura a favore di quei «quartieri giardino immersi nel verde» forieri di tanti altri guai, ambientali e sociali. Speriamo piuttosto che le nuove ricerche sui rapporti ottimali fra i vari tipi di spazio verde e naturale, possano dare indicazioni più precise anche per nuove forme urbane, sostenibili e abitabili, oltre quell’antica vaga intuizione novecentesca (f.b.)

Un artista trasforma (temporaneamente) una chiesa cattolica in una moschea islamica: provocazione utile per stimolare un ragionamento serio e utile sul riuso del patrimonio inutilizzato. La Repubblica, 12 maggio 2015

RASFORMANDO in moschea — sia pure solo per il tempo della Biennale — una chiesa di Venezia inaccessibile dal 1969, l’artista svizzero Christoph Büchel ha fatto tre volte centro.

Di fronte alle opere esposte in Biennale la domanda rituale è: «Perché è arte?». Se ci spostiamo dallo scivoloso piano della definizione a quello della funzione, possiamo rispondere che la metamorfosi di Santa Maria della Misericordia è arte perché ci obbliga a pensare. Tutto fa tranne che intrattenerci, o distrarci: ci ricorda che, per millenni, l’arte è stata un potente strumento per cambiare il mondo, non un irrilevante altrove di comodo in cui fuggire. Ci dice ancora, Büchel, a cosa può servire il nostro patrimonio artistico: non è vero che le uniche alternative siano la chiusura, o la messa a reddito commerciale. Una chiesa antica che non diventa resort a 5 stelle, ma una moschea, rende chiaro il nesso fortissimo, e quasi sempre eluso, tra cultura ed eguaglianza, tra articolo 9 e articolo 3 della Costituzione.

Perché - e questo è il terzo, e più importante, successo - l’opera è tutta giocata sul corto circuito tra finzione e verità, nella più alta tradizione dell’arte occidentale. Nella “moschea” pregano veri fedeli, guidati da veri imam: il che ha comprensibilmente turbato una parte dei veneziani. Più curiosamente, il Comune di Venezia ha provato a fermare il libero gioco dell’arte con la carta moschicida della burocrazia: ieri ha chiesto di avere, entro il termine perentorio del 20, i documenti che dimostrano che la chiesa è stata sconsacrata, e ha surrealmente imposto che la chiesa ospiti un luogo di culto solo “per finta” (e che, dunque, non si sia per esempio obbligati a togliersi le scarpe).

Ma la questione sollevata da Büchel va esattamente nella direzione opposta: perché non offriamo alle comunità islamiche, cui non abbiamo permesso di avere un dignitoso luogo di culto, alcune chiese storiche che non usiamo più?

Un simile passo si collegherebbe a una storia lunga e terribile, cambiandone il segno. Conquiste e riconquiste hanno mutato molte chiese in moschee, e viceversa: il Partenone di Atene è stato consacrato alla Vergine cristiana, per poi essere islamizzato. Il Duomo di Siracusa è passato da tempio di Atena a chiesa della Madonna, a moschea: e quindi ancora a chiesa. Così è successo alla cattedrale di Cordova, prima chiesa, poi Grande Moschea poi definitivamente chiesa: ma nel 2007 i musulmani spagnoli hanno chiesto di poter tornarci a pregare. Non mancano esempi di (almeno temporanea) convivenza: la Grande Moschea degli Ommayadi, a Damasco è un tempio costruito dagli Amorrei intorno al 2500 circa a. C., rinnovato dai romani, trasformato in santuario cristiano da Teodosio alla fine del IV secolo, e poi in moschea dopo la conquista araba del 661: quando musulmani e cristiani poterono pregare, fianco a fianco, intorno alla testa del Battista.

Oggi sono l’immigrazione musulmana in Europa e la contrazione del numero di cristiani praticanti a far sì che la più grande moschea di Dublino sia un’ex chiesa presbiteriana, e che simili trasformazioni si contino a migliaia in Inghilterra (dove dal 1960 ad oggi sono chiuse 10mila chiese), a centinaia in Olanda, a decine in Francia. Da noi l’opera veneziana fa rumore perché c’è un solo caso: quello della chiesa storica di San Paolino, nel centro di Palermo, donata nel 1990 alla comunità musulmana dal cardinale Pappalardo, e oggi moschea amministrata direttamente dal governo tunisino. Non poteva che venire da Palermo questo segno profetico di accoglienza: e sarebbe importante che un’altra città aperta all’Oriente, Venezia, facesse per sempre ciò che l’opera di Büchel fa per qualche giorno. Una chiesa che diventa moschea, per amore e non per forza, in una città chiave dell’identità culturale europea: la migliore risposta a ogni intolleranza.

Qualche anno fa mi capitò di proporre che una chiesa storica del centro di Firenze diventasse moschea: perché è profondamente incivile che i compagni di scuola dei nostri figli non abbiano nemmeno un luogo di culto, in una città che trasforma le chiese antiche in sedi espositive, o location per sfilate. Il sindaco di allora — si chiamava Matteo Renzi — rispose che «era una bella sfida»: ma niente si è fatto, e anche l’ultimo piano urbanistico non prevede spazi per la moschea.

E quando la politica non raccoglie le vere sfide, la parola torna all’arte: capace di vedere più lontano, di costruire più futuro. Di svegliare, prima o poi, la politica stessa.

«Protesta colorata e pacifica: 70 associazioni e quattro candidati sindaci. Ottavia Piccolo sul palco di Sant’Angelo: "Non danno retta ai cittadini che protestano da anni" 120 mila firme raccolte contro lo scavo del canale Contorta». La Nuova Venezia, 10 maggio 2015 (m.p.r.)

VENEZIA Colorati, pacifici. E più numerosi di sempre. Settanta comitati, oltre tremila persone, hanno sfilato ieri in corteo per due ore da Santa Margherita a Sant’Angelo, passando per le Zattere e

il ponte dell’Accademia. Palloncini colorati, striscioni, musica e slogan. Giovanissimi in prima fila con le lettere colorate: «No grandi navi». Dietro i giovani e i meno giovani del Comitato che ha organizzato la giornata. «Basta con la cricca delle grandi opere», dice il portavoce Tommaso Cacciari, «non diciamo no alle crociere ma non vogliamo in laguna navi troppo grandi e incompatibili. Le soluzioni alternative ci sono, il governo decida». Tra le alternative i comitati escludono lo scavo del nuovo canale Contorta Sant’Angelo. Proposta dell’Autorità portuale, 145 milioni di spesa per approfondire il piccolo canale Contorta e portarlo a dieci metri e mezzo. «Rimedio peggiore del male».

Poche centinaia di metri più in là ci sono i rimorchiatori con i colori elettorali di Luigi Brugnaro, ex presidente di Unindustria, che rilancia la “solidarietà alle navi”. Devono arrivare in Marittima, dicono gli operatori. Ma anche Brugnaro è contrario al Contorta e spinge per il Vittorio Emanuele, così le navi potranno arrivare in Marittima. Minicorteo di quattro rimorchiatori che la Questura all’ultimo momento ha fatto deviare, vietando l’autorizzazione al passaggio in canale della Giudecca. «Sarebbe stata una provocazione», racconta Tommaso Cacciari, «abbiamo assicurato alla Questura che il nostro corteo sarebbe stato pacifico, ma abbiamo chiesto di non essere provocati. Città spaccata in due? Ma non siamo ridicoli, loro erano in venti noi siamo migliaia».
Tanti movimenti, comitati e qualche politico al grande corteo di ieri. In campo Santa Margherita, dietro gli striscioni colorati, si vedono anche alcuni candidati sindaco, i comitati e i centri sociali, singoli con la bandiera, Armando Danella già dirigente della Legge speciale in Comune, i circoli del Pd in fondo al corteo. Ci sono anche i “dissidenti” della Sinistra, espulsi da Rifondazione perché appoggiano in Regione la candidata del Pd Alessandra Moretti: Pietrangelo Pettenò e Sebastiano Bonzio. Maria Rosa Vittadini e Carla Bellenzier di Venezia Cambia. Italia Nostra e Lipu, ma anche comitati venuti da lontano come quelli che combattono in Lombardia gli emungimenti dal sottosuolo che causano terremoti, i vicentini, il comitato contro l’autostrada Orte-Mestre. E poi i “NoMose”, Ambiente Venezia. In tutto le adesioni superano le 70 unità. «Abbiamo raggiunto quota 120 mila con le firme raccolte in rete contro lo scavo del Contorta», dice Luciano Mazzolin.
Intasamento in calle dei Carmini. Da campo Santa Margherita, dove i manifestanti si sono radunati intorno alle 15 crescendo di numero fino a superare le tremila unità. «Siamo tanti, vogliamo che il governo ci ascolti», dice Marco Baravalle di Sale Docs. Si va alle Zattere, poi al ponte dell’Accademia per il rio Terà di Sant’Agnese. Musica e slogan contro le grandi navi, ma anche contro la corruzione e la “cricca delle grandi opere”. A Sant’Angelo sul palco concerto dei “Tre allegri ragazzi morti”. Poi parla Ottavia Piccolo. «Non danno retta ai cittadini, devono mettersi in testa che Venezia le grandi navi non le vuole a San Marco. E che il Contorta è una grande opera che fa male alla laguna. Siamo qui anche per lottare contro la corruzione che spesso si nasconde dietro le grandi opere».
Parlano i candidati sindaci. Un acquazzone improvviso e breve non scoraggia i manifestanti. A sera, chiusura in allegria della protesta. Due anni fa era andata peggio, con gli scontri con la polizia in canale della Giudecca e l’arrembaggio alle barchette con tanto di elicottero a bassa quota. E poi con il “tuffo” alla Giudecca. Proteste per cui molti degli organizzatori hanno ancora pendente un procedimento penale. Tre anni dopo, il corteo è imponente. «Sono passati tre anni dall’incidente della Costa Concordia», dice un esercente di campo Santa Margherita, «e nulla è stato fatto per togliere le grandi navi dal bacino San Marco». Fino al 31 dicembre potranno passare in Bacino solo le navi inferiori alle 96 mila tonnellate di stazza. Ma dopo, senza alternative, la situazione potrebbe peggiorare.
Due testi "ambiziosi" di uno studioso che ha lavorato e sta lavorando instancabilmente per inserire criticamente i temi dell'ambientalismo nella consapevolezza della cultura e del popolo.


Giorgio Nebbia, La contestazione ecologica. Storia, cronache e narrazioni, a cura di Nicola Capone, Napoli, La scuola di Pitagora, 2015, € 13

Grazie ai tipi della casa editrice La scuola di Pitagora la Società di Studi Politici di Napoli ha avviato la pubblicazione di due eleganti collane di “piccoli classici” dell’ambientalismo: “Pan-Paesaggio ambiente e natura” e “Qua.Ed.Am-Quaderni di educazione ambientale”.

Sotto la direzione di Salvatore Settis sono già usciti o sono in uscita due testi di Antonio Cederna, due dello stesso Settis, uno di Elena Croce, uno di Paolo Maddalena, uno dello stesso Maddalena in collaborazione con Franco Tassi e infine due di Giorgio Nebbia: la “Breve storia della contestazione ecologica” del 1994 e “Per una definizione di storia dell’ambiente” del 1997.

La riedizione di questi due ultimi saggi, parallela peraltro alla pubblicazione di una più ampia antologia di scritti storici in forma digitale già segnalata su eddyburg”, è un’operazione meritoria e soprattutto utile. Si tratta in effetti di testi importanti nonostante la loro circolazione, al pari di alcuni altri scritti impegnativi di Nebbia, non sia stata all’altezza dei loro meriti.

Uno loro pregi principali è anzitutto la precocità, in quanto alla metà degli anni Novanta il panorama italiano di testi dedicati alla storia dell’ambientalismo era desolante. Nonostante tale filone di ricerca fosse ormai non solo consolidato ma addirittura istituzionalizzato sin dagli anni Sessanta negli Stati Uniti e dagli anni Settanta in Germania, nel 1994 in Italia si poteva contare solo qualche pionieristico saggio sull’attività protezionistica della Società Botanica Italiana di Franco Pedrotti e una buona storia di Pro Natura di Walter Giuliano mentre era in via di pubblicazione la bella tesi di Edgar Meyer sull’associazionismo italiano del secondo dopoguerra fino al 1970 (entrambe queste opere erano peraltro prefate proprio da Nebbia).

Rispetto a quanto era già uscito fino a quel momento nel nostro paese i due testi si segnalavano inoltre per ambiziosità, in due sensi.

Essi tentavano anzitutto di fornire una panoramica esaustiva (nel tempo, nello spazio e nelle tematiche) della contestazione ecologica e dei possibili oggetti della storia ambientale. Alla loro base stava infatti il desiderio di fornire un affresco quanto più completo e chiaro possibile. In secondo luogo, questo ampio sforzo descrittivo si appoggiava su un indispensabile lavoro tassonomico e teorico: un censimento, cioè, delle varie forme prese storicamente dalla contestazione ecologica nella storia e una ricognizione preliminare dei vari possibili oggetti della storia ambientale. Vista la solitudine in cui si muoveva Nebbia in Italia all’epoca ciò può apparire a prima vista straordinario, ma a uno sguardo più ravvicinato la cosa sorprende meno perché si era trattato in sostanza di mettere in ordine i tanti tasselli di una riflessione sui vari aspetti della storia dell’ambiente e dell’ambientalismo che era iniziata una trentina di anni prima ed era andata avanti alacremente nel mezzo di un intenso lavoro teorico, politico e giornalistico.

I due scritti si segnalano infine per originalità. Come per tutte le discipline quando noi parliamo di storia ambientale parliamo anzitutto di un canone: i libri che hanno impresso una direzione e uno stile alla disciplina, le tematiche, il linguaggio, gli approcci metodologici, contenuti e toni del dibattito mainstream. Alla fine degli anni Ottanta, quando Nebbia ha cominciato ad abbozzare questi due saggi, un canone del genere esisteva già a livello mondiale, in larga parte dominato dagli studiosi e dalle studiose statunitensi. Come la maggior parte di coloro che si sono occupati sino a tempi recenti di storia ambientale in Italia Nebbia non era uno storico, sapeva poco di quel canone e soprattutto aveva interesse a fare un discorso suo, coerente con certe premesse culturali e politiche ed efficace nei confronti di un pubblico di militanti e di opinione pubblica colta, non certo nei confronti dei colleghi italiani o stranieri appartenenti a uno specifico ambito disciplinare. Queste circostanze hanno contribuito a generare due testi che facevano un ampio uso di un’aggiornata bibliografia internazionale in larga parte sconosciuta in Italia ma la utilizzavano in maniera estremamente libera e creativa, incanalandola in un ragionamento poco accademico e molto politico. Mi viene da pensare che se mettessimo una laureanda o un laureando di oggi con un impeccabile bagaglio di letture di storia ambientale a confronto con questi testi essi rimarrebbero al tempo stesso disorientati e affascinati da una scrittura al contempo così ambiziosa e documentata e così fuori squadro rispetto al canone storiografico corrente (aggiungo peraltro che se insegnassi in un corso universitario di storia ambientale, ma anche in una scuola superiore, non esiterei ad adottarli come testi di primo orientamento).

Questa originalità si manifesta già nella terminologia scelta da Nebbia. Faccio un esempio che mi consentirà di focalizzare il mio intervento su un tema già trattato da Marco Armiero nell’introduzione.

A pochi sarebbe infatti venuto in mente a metà anni Novanta, e ad ancor meno verrebbe oggi, di utilizzare un’espressione come “contestazione ecologica”. Il termine “contestazione” appartiene infatti a un periodo ben circoscritto della storia recente, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, e si riferisce al tempo stesso a un insieme di movimenti sociali specifici (soprattutto studenteschi) e a un atteggiamento di rifiuto non solo politico ma anche e forse soprattutto culturale degli assetti di potere esistenti. La scelta di questa espressione è stata però quasi certamente consapevole ed è anzi a mio avviso molto felice in quanto definisce in modo preciso la scelta analitica di Nebbia.

Ciò che infatti Nebbia pone a oggetto della propria analisi è proprio una sequela storica di movimenti sociali che condividono una critica radicale ai guasti e all’ingiustizia di un assetto di potere specifico: quello del capitalismo industriale e finanziario. L’ambientalismo, e ancor prima la scienza ecologica che lo sottende (e Giorgio non ha mai smesso di sottolinearlo, come si vede bene dall’intervista di Sergio Messina che accompagna il testo), sono infatti intrinsecamente eversivi in quanto un’economia e una società realmente rispettosi degli equilibri ambientali non sono possibili rimanendo all’interno del ciclo denaro-merce-denaro, cioè della logica capitalistica globalmente dominante la cui unica finalità è un profitto che per definizione non conosce limiti. Non solo quindi i movimenti ambientalisti ma la logica stessa che sottende il sapere ecologico sono strutturalmente in contraddizione con il modo di produzione capitalista, e a maggior ragione con la sua attuale forma industriale avanzata, finanziarizzata e globalizzata.

Qui sta a mio avviso uno dei motivi che non solo non fa invecchiare questi testi pubblicati vent’anni fa ma al contrario li rende sempre più attuali. È vero infatti che progressivo trionfo del capitalismo - oggi sempre più finanziarizzato, sempre più globale e sempre più pervasivo anche della sfera politico-istituzionale - rende ancor più che in passato trasparente il fatto che l’unica logica che sottintende l’economia mondiale è la valorizzazione del capitale. Il che per l’ambiente costituisce una pessima notizia.

E questo è anche il motivo per cui l’ambientalismo, talvolta anche quello più rotondo e programmaticamente inoffensivo, è per lo più visto con sospetto e spesso aspramente combattuto dalla cultura e dalla politica mainstream.

Nebbia tutto questo lo sa bene, lo ha sperimentato in prima persona sin dai primi anni Settanta e non ha mai mancato di sottolinearlo, di studiarlo e di domandare che fosse studiato. Questo corpo a corpo (Nebbia lo ricorda anche nell’intervista a Sergio Messina) è stato risolto in genere con successo dall’establishment capitalista che è riuscito volta a volta a silenziare la contestazione ecologica oppure a far propri in modo solo apparente alcuni suoi obiettivi per depotenziarli e aggirarne così le eventuali conseguenze. È questa tutta la ricca e complessa storia di fenomeni come il negazionismo ambientale, il greenwashing, le tecniche di disinquinamento utilizzate come business che non impedisce il mantenimento delle stesse tecnologie inquinanti, l’uso strumentale e distorto o semplicemente propagandistico dei processi produttivi “sostenibili” che informa tra l’altro una parte cospicua dell’attuale “green economy”. Trattandosi dell’altra faccia della contestazione ecologica questa è una storia che Nebbia ha sempre cercato (coerentemente e pressoché in solitudine in Italia) di esplorare e che ha sempre invitato in modo pressante a esplorare, finora con scarso successo.

Partendo proprio da qui, cioè da questo continuo stimolo di Nebbia verso lo studio della storia dell’ambientalismo e dell’ambiente e dai risultati tutto sommati un po’ magri di questo sforzo, veniamo a un secondo punto: quello riguardante lo stato della storia ambientale in Italia.

Nebbia, come si è visto, fa parte di un ristretto manipolo di studiosi che hanno praticamente inventato la storia dell’ambientalismo in Italia senza esserne pressoché consapevoli in quanto non erano mossi da un interesse accademico-disciplinare e che hanno in seguito continuato a studiare, a scrivere e a pubblicare spinti essenzialmente da moventi politici e civili. È questa la storia di Nebbia, di Franco Pedrotti, di Valter Giuliano, di Edgar Meyer e di altri, ed è vero più in generale che tutte e tutti coloro che fanno ricerca nel campo della storia ambientale e dell’ambientalismo in Italia o fanno mestieri non accademici oppure insegnano discipline diverse: chi storia economica, chi storia contemporanea, chi botanica, chi merceologia, eccetera. Come se ciò non bastasse bisogna riconoscere che alcune delle persone che hanno provato con maggiore impegno e serietà a costruire una carriera accademica nel campo della storia ambientale alla fine hanno dovuto andar via dall’Italia.

Poco male, si potrebbe dire. Ma non è proprio così.

È vero infatti che non è necessario stare in cattedra in un preciso ambito disciplinare per scrivere cose buone in quell’ambito, e quanto ho detto finora credo lo dimostri, ed è anche vero che non basta stare in cattedra in un preciso ambito disciplinare per scrivere cose attendibili e solide. E tuttavia il fatto che non si sia riusciti a mettere efficacemente in rete tutte queste esperienze, a farle riconoscere reciprocamente, a farle fruttificare in modo più ampio, a trovare dei punti di coagulo che fossero riviste, cattedre o associazioni è stato dannoso, ha indebolito tutti: gli storici ambientali in quanto tali, gli studi sull’ambiente e sull’ambientalismo e quindi anche il loro possibile ruolo di ispiratori e di stimolatori del movimento ambientalista.

Certo, questo non può sorprendere in un paese in cui la presa della sensibilità e della cultura ambientale si è rivelata col tempo più superficiale che altrove, peraltro con un forte effetto retroattivo: ambientalismo debole > studi deboli e studi deboli > ambientalismo debole. Ma ci sono state anche responsabilità di tutti noi e potrei fare un malinconico elenco di fallimenti dovuti a scarsa visionarietà, a scarso dinamismo, a scarsa elasticità mentale, a un’attenzione eccessiva al proprio piccolo orto individuale o di gruppo: insomma a scarsa generosità.

Ma proprio a quest’ultimo proposito va precisato che Nebbia ha costituito sempre e continua a costituire un’eccezione, o una delle pochissime eccezioni: instancabile nello studio e nella scrittura, generoso e protettivo verso i giovani, stimolatore e promotore continuo di nuovi cantieri, disinteressato. Se dovessi indicare dove può stare il futuro degli studi di storia dell’ambiente e dell’ambiente in Italia lo indicherei proprio nell’esempio che continua a dare il suo esponente anagraficamente più anziano.

Ma, sempre per rimanere al “che fare”, io vedo anche come inaggirabile il tentativo, enunciato da Nicola Capone nell’introduzione al libro, di stimolare attivamente una convergenza delle culture protezioniste italiana di ispirazione paesaggista, ambientalista e di giustizia ambientale. Ciascuna di queste culture ha in Italia una sua storia (quale lunga, quale breve), un suo seguito (quale piccolo quale grande), un suo linguaggio e suoi obiettivi specifici, anche molto diversi tra loro, ma tutte hanno punti in comune e comuni avversari. Secondo me è quindi corretto pensare che dalla lunga crisi dell’ambientalismo italiano si può uscire soprattutto se queste ispirazioni e queste energie riescono a trovare la volontà e i mezzi per fare massa critica. Alcune condizioni perché ciò avvenga ci sono già oggi come ci sono già alcuni utili e intelligenti luoghi di aggregazione (penso, per fare un esempio che ho molto caro, al sito “eddyburg”) ma bisogna fare molto di più e ogni contributo ben intenzionato e ben impostato, anche se di nicchia, è assolutamente prezioso.

E la riedizione di questi due saggi di Nebbia, vecchi solo anagraficamente, arricchiti dalle introduzioni di Marco Armiero e di Nicola Capone e dall’intervista curata da Sergio Messina, è senz’altro un contributo di questo tipo.

Giorgio Nebbia, La contestazione ecologica. Storia, cronache e narrazioni, a cura di Nicola Capone, Napoli, La scuola di Pitagora, 2015, € 13

E verrebbe proprio da dire, a certi affabulatori a vanvera del cosiddetto sviluppo del territorio: eccotela qui la tua città infinita, pietrificata e morta. Corriere della Sera Milano, 10 maggio 2015 (f.b.)

MILANO - La provincia più cementificata d’Italia. E’ un triste primato quello della provincia di Monza e Brianza. Dagli anni 50 a oggi, il Monzese ha consumato il 34,7% del suo territorio. Oltre 14 mila ettari di terreno impermeabilizzato artificialmente e quindi non più recuperabile. Un problema che sta diventando emergenza, e non solo in Lombardia, quello del consumo di suolo. Basti pensare che, in Italia, per colpa della cementificazione, si è perso il 20% delle coste: oltre 500 chilometri quadrati, l’equivalente dell’intera costa sarda.

A lanciare un nuovo allarme è l’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale (Ispra) che, nel convegno scientifico «Recuperiamo terreno», organizzato con il Forum Salviamo il Paesaggio e con Slow Food, ha diffuso il «Rapporto sul consumo di suolo 2015»: una cartografia a altissima risoluzione, disponibile sul sito www.consumosuolo.isprambiente.it

Maglia nera, quindi, alla provincia di Monza, dove si trovano anche i due comuni più cementificati della regione: Lissone con il 64 % di suolo consumato e Sesto San Giovanni, con il 56 % . Milano si ferma, invece, al 47,8%, mentre l’area della nuova Città metropolitana ha già consumato il 26% del suo territorio. Terza, poi, si piazza Varese con il 18 % del suolo usato.

La Lombardia si conferma così la regione più «consumata» d’Italia, con il 10,4% di suolo impermeabilizzato. Una percentuale bassa, ma in grado di alterare direttamente o indirettamente il 58% del suolo lombardo: un’infrastruttura che spezza la continuità di un’area agricola, ad esempio, la modifica nel suo complesso e non solo per la parte cementificata.

Questoconsumo disordinato espone i centri abitati al rischio di alluvioni, frane,esondazioni e poi provoca degrado ambientale, perdita di terreni agricoli eaumento dell’inquinamento atmosferico. E’ urgente, quindi, una legge a tuteladel territorio, che non è un bene inesauribile e, una volta modificato, non puòtornare come prima. Un disegno di legge sul consumo di suolo è all’esame degliemendamenti nelle Commissioni Ambiente e Agricoltura, ha spiegato al convegnoChiara Braga, deputato e responsabile Ambiente del Partito democratico:«Occorre la strumentazione giuridica che possa davvero salvaguardare il suolonel suo valore agricolo e ambientale, perché non si continui solo a pensarlocome bene economico da sfruttare». Ma contro la nuova legge sono già statipresentati 400 emendamenti.

«L’establishment invoca "tolleranza zero" contro gli occupanti. Ma il bene pubblico si tutela salvando edifici così importanti dalla speculazione». Il manifesto, 10 maggio 2015

Una dimen­ti­cata norma della Costi­tu­zione, l’articolo 9, pre­vede che la Repub­blica «tutela il patri­mo­nio sto­rico e artistico».
Per dare effet­ti­vità a que­sta norma alcuni gio­vani hanno occu­pato due sto­rici monu­menti tori­nesi (il com­plesso della Caval­le­rizza, dichia­rato patri­mo­nio dell’umanità dall’Unesco, e la caserma di via Asti, luogo di tor­tura di anti­fa­sci­sti e par­ti­giani) per i quali si pro­fila un futuro di spe­cu­la­zione e, nell’attesa, un cre­scente degrado. In via Asti la tutela si coniuga con la sua resti­tu­zione alla città anche attra­verso una desti­na­zione sociale (aper­tura di aule stu­dio e di una mensa popo­lare e riqua­li­fi­ca­zione per far fronte a un disa­gio abi­ta­tivo sem­pre più pesante).
Le due ini­zia­tive tro­vano con­senso e soste­gno tra i cit­ta­dini, nel mondo asso­cia­tivo e sin­da­cale, negli ambienti cul­tu­rali. Gli occu­panti chie­dono alle isti­tu­zioni l’apertura di un con­fronto pub­blico sul futuro degli edi­fici.

Nel suo blog sul Cor­riere della Sera Tomaso Mon­ta­nari sot­to­li­nea come la cir­co­stanza che, nell’inerzia (o peg­gio) delle isti­tu­zioni, siano i cit­ta­dini a «pren­dersi a cuore il loro ter­ri­to­rio e i loro monu­menti» risponde esat­ta­mente al pro­getto costi­tu­zio­nale che ha voluto respon­sa­bi­liz­zare non un astratto «Stato» ma la «Repub­blica» in tutte le sue com­po­nenti e articolazioni.

Un gruppo di intel­let­tuali (primo fir­ma­ta­rio Gustavo Zagre­bel­sky) fa appello al Comune per­ché sopras­sieda dal pro­getto di alie­na­zione e smem­bra­mento della Caval­le­rizza e apra una sta­gione di «pro­get­ta­zione par­te­ci­pata» sul suo futuro utilizzo.

Un vec­chio par­ti­giano, l’avvocato Bruno Segre (già dete­nuto in via Asti), nel corso della ceri­mo­nia con cui gli viene con­se­gnato il «sigillo civico» dichiara che gli occu­panti della caserma meri­tano l’appoggio della città. Per l’establishment tori­nese è dav­vero troppo. Così ieri inter­viene la sco­mu­nica di Repub­blica che, con un arti­colo dell’avvocato Vit­to­rio Baro­sio, pub­bli­cato in prima pagina nella cro­naca cit­ta­dina, non si limita a espri­mere il pro­prio (legit­timo) dis­senso rispetto alle occu­pa­zioni ma invoca al riguardo «tol­le­ranza zero» e chiede espres­sa­mente una «azione esem­plare» della magi­stra­tura per­ché la vio­la­zione della lega­lità in atto «non può essere tollerata».

Gli inte­ressi in gioco sono evi­den­te­mente assai forti! Ma c’è, oltre agli inte­ressi, una cul­tura che va con­tra­stata in radice. Nel sistema dise­gnato dalla nostra Carta fon­da­men­tale, infatti, la lega­lità – come ha inse­gnato Piero Cala­man­drei nella indi­men­ti­ca­bile arringa in difesa di Danilo Dolci del lon­tano 1956 – è esat­ta­mente l’opposto del lega­li­smo con­for­mi­sta, che tende alla pura con­ser­va­zione dell’esistente, ed è fatta anche di «strappi» e di disob­be­dienza civile (di cui ci si assume, ovvia­mente, la respon­sa­bi­lità) per rea­liz­zare il dise­gno costi­tu­zio­nale. Del resto Anti­gone – mito della tra­ge­dia greca e sim­bolo, nei secoli, di libertà e di lotta con­tro il sopruso – per dare sepol­tura al fra­tello, disob­be­dendo alla legge di Creonte, non disco­no­sce il signi­fi­cato della legge e non pre­dica l’illegalità ma si fa por­ta­trice di una legge supe­riore (il «diritto degli dei») e accusa il sovrano di illegalità.

E, poi, è inu­tile occul­tare che l’invocazione della «tol­le­ranza zero» è una opzione solo e tutta poli­tica. Viviamo in un Paese in cui le leggi sono tanto nume­rose quanto vio­late. Per­se­guire la lega­lità signi­fica dun­que, ine­vi­ta­bil­mente, defi­nire gerar­chie di valori e prio­rità di inter­venti. Non tutto si può fare con­tem­po­ra­nea­mente e con lo stesso impe­gno di risorse e intelligenza.

Occorre sce­gliere.

Si può comin­ciare lot­tando con­tro le mafie o libe­rando le città dalla pre­senza «fasti­diosa» di accat­toni e lava­ve­tri, con­tra­stando la spe­cu­la­zione edi­li­zia e l’inquinamento ambien­tale o per­se­guendo chi pro­te­sta (magari con qual­che eccesso) a tutela della salute pro­pria e dei pro­pri figli, impe­gnan­dosi per eli­mi­nare (o con­te­nere) l’evasione fiscale oppure sgom­brando edi­fici abban­do­nati occu­pati da «con­te­sta­tori» e via elen­cando. Inu­tile dire che la defi­ni­zione del calen­da­rio degli impe­gni (e la con­nessa mobi­li­ta­zione dell’opinione pub­blica) è scelta poli­tica e non un vin­colo giuridico.

Ma c’è di più. Anche le moda­lità dell’intervento teso a ripri­sti­nare una lega­lità che si assume vio­lata non sono auto­ma­ti­che. La corsa di ciclo­mo­tori in una strada urbana si può con­tra­stare con multe pesan­tis­sime, con un con­trollo del traf­fico da parte di vigili in divisa, con la pre­di­spo­si­zione sulla car­reg­giata di appo­site bande tese a impe­dire una velo­cità ecces­siva; lo sgom­bero di barac­che abu­sive e peri­co­lose si può effet­tuare con le ruspe o con i ser­vizi sociali, con la poli­zia in assetto di guerra o pre­di­spo­nendo solu­zione abi­ta­tive alter­na­tive; la lega­lità può essere impo­sta con la forza o per­se­guita con il con­fronto e la trattativa…

Ancora una volta non si tratta di auto­ma­ti­smi giu­ri­dici ma di scelte poli­ti­che. Ed è que­sta – non altra – la que­stione aperta, oggi, a Torino

«All'assemblea della Rete dei comitati per la difesa dell'ambiente, Vezio De Lucia denuncia: "Il governo lavora a una legge che bypassi le normative regionali". A rischio gli innovativi provvedimenti della Regione Toscana. Asor Rosa: "Si restringono gli spazi di democrazia, a tutti i livelli"». Il manifesto, 10 maggio 2015

Quello che è uscito dalla porta può rien­trare dalla fine­stra. E deve pre­oc­cu­pare la pro­spet­tiva che la legge urba­ni­stica e il piano del pae­sag­gio della Toscana, salu­tate da gene­rali apprez­za­menti e segna­late anche da New York Times e New­sweek, rischino di diven­tare let­tera morta. L’allarme arriva da Vezio De Lucia, che all’assemblea della Rete dei comi­tati per la difesa del ter­ri­to­rio e dell’ambiente avverte del peri­colo: “In com­mis­sione alla Camera c’è una nuova legge sul governo del ter­ri­to­rio che, su input del governo, dovrà essere giu­ri­di­ca­mente sovraor­di­nata alle nor­ma­tive regionali”.

La rive­la­zione dell’esperto urba­ni­sta strappa il velo dell’ipocrisia di un Pd che, fino all’ultimo, aveva cer­cato di ste­ri­liz­zare le pre­scri­zioni adot­tate da Anna Mar­son per tute­lare “dina­mi­ca­mente” la carta d’identità pre­sen­tata dalla Toscana nel mondo. “Noi abbiamo apprez­zato le novità legi­sla­tive appor­tate dalla giunta di Enrico Rossi gra­zie al lavoro dell’assessore Mar­son – tira le somme Alberto Asor Rosa – ma la legge urba­ni­stica in discus­sione a Mon­te­ci­to­rio nega i risul­tati otte­nuti, anche gra­zie al lavoro fatto dai comi­tati, dai prov­ve­di­menti regionali”.

Que­sto basta e avanza, osserva Asor Rosa, per denun­ciare il pro­gres­sivo restrin­gi­mento degli spazi di demo­cra­zia, a tutti i livelli. E per riven­di­care l’importanza del neo ambien­ta­li­smo non di élite intel­let­tuali ma che parte e si svi­luppa “dal basso”. Nelle forze vive di una cit­ta­di­nanza attiva che si mobi­lità, appro­fon­di­sce, segnala le cri­ti­cità, e pro­pone solu­zioni alter­na­tive per una vivi­bi­lità sem­pre da ricon­qui­stare, di fronte alla filo­so­fia delle “grandi opere inu­tili” ter­ri­bil­mente impat­tanti per l’ambiente e per la salute dei cittadini.

A riprova, la Rete con­ti­nua a denun­ciare alcune “cri­ti­cità epo­cali”. Dal nuovo aero­porto inca­strato tra Firenze e altre città come Prato, Sesto Fio­ren­tino e Campi Bisen­zio, impo­sto per com­pia­cere inte­ressi pri­vati e sotto la regia del brac­cio destro di Mat­teo Renzi, Marco Car­rai. Poi un sot­toat­tra­ver­sa­mento fio­ren­tino dell’alta velo­cità “assur­da­mente inu­tile”, dai costi che volano nel silen­zio delle isti­tu­zioni; con rischi ambien­tali altis­simi, e con con­ti­nue tra­ver­sie giu­di­zia­rie che ne evi­den­ziano i limiti. E ancora un’autostrada tir­re­nica che impat­terà pesan­te­mente sul ter­ri­to­rio marem­mano, ancora in equi­li­brio fra ambiente e ope­ro­sità dell’uomo. Infine il maxi ince­ne­ri­tore di Case Pas­se­rini alle porte del capo­luogo, con­te­stato da anni ma sem­pre difeso prima da Ds e Mar­ghe­rita, poi dal Pd.

Gra­zie ai con­tri­buti di Clau­dio Greppi e Alberto Magna­ghi, di Ila­ria Ago­stini e della stessa Anna Mar­son, di Paolo Bal­de­schi, Gian Luca Garetti e Tiziano Car­dosi, l’assemblea della Rete ha offerto una nitida pano­ra­mica dello stato delle cose. Il tutto alla vigi­lia di ele­zioni regio­nali che, osserva Asor Rosa, stanno evi­den­ziando anche fatti sin­go­lari: “Come l’ultimo arti­colo sul mani­fe­sto di Enrico Rossi, che chiama al voto disgiunto”.

Un solido contributo di conoscenza e di proposta al drammatico problema del turismo a Venezia: problema ben più drammatico e distruttivo dell'acqua alta. .VeneziaCambia, 8 maggio 2015

A Venezia il turismo è un problema assai più che altrove. I risultati delle ricerca CENSIS-Mercury- CISET di Ca’ Foscari, commissionata dall’Osservatorio Nazionale del turismo (presidenza del Consiglio) che risale al 2009 comparano 11 città molto differenti, ma tutte a forte presenza turistica (Barcellona, Londra, Parigi, Istanbul, Vienna, Praga, Firenze, Roma, Venezia, Bruges, Siviglia) dicono che:

Tutti i protocolli e le proposte di coordinamento tra città d’arte hanno avuto grandi difficoltà e non hanno approdato ad alcun risultato. Proposte come

sono oggi improponibili o molto timidamente applicate (vedi Dlgs 23 2011 art.4 sul federalismo fiscale che permette ai comuni capoluogo e alle città d’arte di istituire una tassa di scopo sul turismo solo sui pernottanti, ovvero quelli che già pagano un contributo alle casse pubbliche attraverso l’IVA)

Qualche coordinamento a livello nazionale è stato messo in atto per gestire il flusso dei pullman turistici con l’istituzione di ZTL, tariffe di entrata differenziate per luogo di accesso, stagionalità e prestazioni ambientali dei veicoli. Venezia ha una delle ZTL più costose d’Europa e più rigide, da momento che non prevede alcun incentivo alla permanenza per più giorni, ad esempio attraverso la riduzione della tariffa giornaliera in base ai giorni di permanenza. Misura che sarebbe senz’altro utile.

I proventi derivanti dalla tassa d’ingresso non hanno una destinazione specifica connessa alla copertura dei costi del turismo, ma vanno nel calderone del bilancio. Sarebbe necessario invece mirar bene. Ai proventi da tariffa della ZTL si aggiunge la tassa di scopo (imposta di soggiorno) pagata da quelli che pernottano in strutture alberghiere nel territorio comunale, istituita nel 2011 come previsto dal Dlgs 23 2011 sul federalismo fiscale. A Venezia il Regolamento per la sua applicazione è stato più volte modificato: l’ultima volta con la delibera del Commissario Zappalorto del 1 agosto 2014. La modifica stabilisce che non è compito degli albergatori assicurare la riscossione della tassa né pagare al posto degli eventuali turisti renitenti. L’unico obbligo è di informare il Comune che provvederà al recupero delle somme dovute. E’ evidente che tradurre in entrata per le casse comunali l’imposta di soggiorno sarà tutt’altro che facile. La tassa di soggiorno è fissata al massimo previsto dalla legge (5 euro a notte per persona).

Per quanto riguarda in particolare il problema del trasporto.

Secondo il Piano Urbano della Mobilità (PUM 2008 aggiornato al 2013) a Venezia arrivano le quantità di persone rappresentate nella seguente tabella. Occorre notare che si tratta di tutti gli arrivi, lavoratori pendolari e turisti compresi. Occorre notare anche che si tratta di dati vecchissimi. Un problema centrale incredibilmente sottovalutato è dunque sapere quanti sono e chi sono. C’è da sospettare che non si voglia sapere.

In sostanza non si sa quanti sono turisti, quanto escursionisti, quanto visitatori di Venezia per lavoro e studio, quanto abitanti di Venezia e delle sue immediate vicinanze.

I mezzi con i quali si arriva a Venezia sono per lo più fuori dalla competenza comunale ad eccezione del trasporto pubblico locale. Ferrovia, aeroporto, crocierismo, automobili private, pullman turistici. Tutti questi approdano alle diverse porte di Venezia: piazzale Roma (auto private e servizi di trasporto pubblico, in prospettiva tram), Tronchetto (bus turistici e automobili, raccordato a piaz.Roma da people mover e direttamente servito dai vaporetti di linea e da motonavi per il Lido), Tessera e Fusina (terminal serviti da Alilaguna via acqua e bus per piaz. Roma via terra), la Marittima per le grandi navi da crociera (servite da grandi capacità di parcheggio connesse al terminal crociere e da servizi di bus per piazzale Roma). Tutto senza alcun coordinamento nè di tariffe (emblematico il caso della mancata integrazione tariffaria tra servizi bus-tram ACTV e servizi ferroviari -SFMR -sulle stesse tratte) nè di orari e tantomeno di quantità di arrivi.

Sicuramente nel tempo vi è stata una riduzione degli arrivi in automobile (parcheggi assai costosi) e un trasferimento di utenza dai pullmann turistici, che presuppongono l’intermediazione di un operatore turistico, alla ferrovia che risponde con più immediatezza alla auto-organizzazione del viaggio resa possibile dalla diffusione e dall’uso massiccio di tablet e mobile phone.

La situazione attuale soffre di una crescente inconoscibilità dei numeri e impossibilità di controllo degli accessi. Un possibile sviluppo potrebbe essere l’istituzione, in occasione della città metropolitana, di una Authority dei trasporti, sul modello di quelle tedesche, entra la quale stabilire regole di accesso con tutti gli operatori per controllare e gestire il n max di arrivi.

Operazione 1: fissare il limite di presenze turistiche ammissibile, con priorità ai pernottanti e ai visitatori non occasionali. Operazione da fare (anche rapidamente) ma attraverso un percorso realmente partecipato, con gli operatori, gli albergatori, i servizi e le associazioni dei cittadini. Valutando gli effetti economici e sociali. Con una particolare attenzione alla possibile formazione di nuovi posti di lavoro connessi ad una organizzazione del turismo più complessa e più ricca di offerte differenziate.

Operazione 2 Controllo dell’accesso per strada
Tiket costoso per il passaggio sul ponte della liberta. Cartelli informativi sulla rete autostradale con tariffe differenziate (e crescenti) a seconda del grado di occupazione dei parcheggi. L’informazione tiene conto delle prenotazioni che, in quanto tali hanno entrata assicurata e tariffe definite. Se park full il non prenotato non entra.

Operazione 3 Incanalamento dei flussi per la distribuzione urbana
Da Piazzale Roma incanalamento dei flussi turistici pedonali per l’accessibilità acquea dai margini esterni (terminal di S. Giobbe con nuovo ponte delle vacche per margine nord: fondamente nuove, isole e lido; terminal sud S.Basilio per Giudecca e S.Marco e poi S. Elena e Lido). Fortissimo alleggerimento del Canal Grande anche da taxi e trasporto merci (contingentamento di orari e di mezzi) libere gondole e trasporto pubblico lento. Tariffe elevate per turisti. Turisti e cittadini insieme (la specializzazione dei mezzi, sperimentata, non ha dato buoni risultati).

Operazione 4 ZTL e pullman
Pullman turistici solo ai terminal (Tessera, Fusina e Tronchetto). Anche qui con cartelli a messaggio variabile d’avviso con tariffe crescenti in base alla saturazione dei posti. Tariffe differenziate decrescenti in base al n. di giorni di permanenza alla stagionalità e alle prestazioni ambientali dei veicoli. I prenotati entrano sicuramente, gli altri no. Dai terminal servizi acquei con distribuzione ai margini esterni dei turisti come al punto precedente.

Operazione 5 Ferrovia
Informazione a bordo dei treni sui tiket d’ingresso alla città, variabili in relazione al raggiungimento del n. max di presenze. I prenotati entrano sicuramente con tariffe fisse da accessi riservati. Gli altri fanno coda per entrare pagando (o in alternativa pagano sul treno a controllori comunali) . Comporta residenti e lavoratori muniti di pass. (servizio on line) e accessi riservati.

Operazione 6 Crocierismo
Distribuzione degli arrivi delle navi in tutti i giorni della settimana e limitazione delle punte in relazione all’insieme delle altre presenze prenotate. Se il numero di presenze ammesse è raggiunto i passeggeri non prenotati restano a bordo. Anche i crocieristi pagano l’entrata (se vengono dall’esterno) o la visita a Venezia (se sono già a bordo).

La Card di prenotazione e vendita dell’accesso (Venice Card ?), attraverso il centro prenotazioni gestito direttamente dal comune, diviene il principale strumento di controllo del n max. di presenze, di incentivazione alla visita di luoghi, monumenti attrattive meno conosciute, strumento di promozione dell’arricchimento non solo monumentale dell’offerta turistica di Venezia (la laguna, le isole minori, il cibo, le produzioni tipiche, ecc.)

Questa prospettiva appare più realistica, dal punto di vista dei comportamenti indotti, di quella di contingentare la solo piazza S. Marco: operazione certo più semplice da punto di vista dell’organizzazione fisica degli ingressi, ma enormemente più debole dal punto di vista dei controlli, dello sviluppo di economie parallele di elusione delle regole e della effettiva risposta dei turisti.

«Sembra che, almeno finché l'atmosfera culturale non cambierà, nessuno parlerà seriamente di salvare Venezia come città dall'eccesso di affollamento». Italianostra-venezia.org, 8 Maggio 2015 (m.p.r.)

Il Corriere del Veneto riferisce l'essenziale di una riunione di esperti del turismo tenutasi ieri 9 maggio presso l'Università di Ca' Foscari, sotto la direzione del professor Jan van der Borg, docente di economia del turismo e autore di uno studio, presentato per l'occasione, sulla gestione dei flussi turistici a Venezia. Il professor van der Borg ha ripetutamente sostenuto, nella sua ventennale carriera di docente, che il numero di turisti a Venezia è largamente eccessivo. Nel 1988 era stato co-autore (assieme all'allora collega Paolo Costa) di uno studio che identificava in sette -dieci milioni l'anno

il numero ottimale di visitatori per una città delle dimensioni di Venezia. Ancora nel 2011 pubblicava un articolo, nel quale denunciava che a Venezia vi sono "dieci milioni di turisti di troppo". Tuttavia non di questo si è parlato (se non proprio di sfuggita) nel convegno di ieri. Gli interventi si sono concentrati sui modi per gestire la massa enorme di visitatori, non sui modi per limitarla. Sembra che, almeno finché l'atmosfera culturale non cambierà, nessuno parlerà seriamente di salvare Venezia come città dall'eccesso di affollamento.

Leggendo l'articolo del Corriere, che qui riportiamo, si troverà una serie di misure proposte: inserire altri terminal turistici a Marghera, a San Giobbe, a San Basilio; riprovare a progettare linee di vaporetti destinate solo ai turisti; addirittura "gestire la rabbia dei veneziani". Molti dei quali, compreso il vostro redattore, si ostinano a non andarsene a vivere altrove solo per non volersi arrendere e perché, come insegna la vita, chi abbandona il terreno rinuncia a salvare anche il poco ancora salvabile.

Leggi l'articolo sul Corriere del Veneto.

L’ambientalista indiana ha presentato il manifesto Terra Viva. In calce il link per scaricare il testo integrale

«Le multinazionali non nutrono il pianeta. Lo affamano. Dobbiamo fare di tutto per difendere un modello agroalimentare fondato sull’agricoltura familiare come quello italiano, europeo e di molti altri Paesi. Dobbiamo riaffermare l’orgoglio dei tanti piccoli agricoltori di tutto il mondo che hanno mantenuto a costo di grandi difficoltà i loro campi e che li coltivano con i metodi biologici ed ecologici». È il messaggio che emerge dal manifesto Terra Viva, che la leader ambientalista indiana Vandana Shiva (a sinistra), presidente dell’associazione Navdanya International, ha presentato nei giorni scorsi a Cascina Triulza.

Il testo è un atto d’accusa contro un sistema economico- finanziario che, oltre a spingere le specie verso l’estinzione e portare gli ecosistemi al collasso, si è posto al di sopra della società, al di fuori del controllo democratico spostando l’attenzione dalla produzione reale all’astratta moltiplicazione del capitale. Le conseguenze di questo processo sono state devastanti (perdiamo 24 miliardi di tonnellate di suolo fertile all’anno) e il futuro minaccia di essere peggiore: da oggi al 2030 è prevista una crescita dell’area urbanizzata pari a 1,2 milioni di chilometri quadrati, una superficie equivalente a quella del Sudafrica.

«La battaglia comunque non è persa», afferma Vandana Shiva. «Con l’agricoltura biologica si possono combattere l’erosione e l’impoverimento del suolo rallentando il cambiamento climatico. C’è la possibilità di recuperare 2 miliardi di ettari di terreno degradato: un’operazione che comporterebbe l’assorbimento di 3 miliardi di tonnellate di carbonio all’anno, il 30 per cento di quello emesso bruciando combustibili fossili». Ma per raggiungere questo obiettivo, secondo l’ambientalista indiana, sono necessarie due condizioni. La prima è fermare il land grabbing, l’accaparramento di suoli fertili. Le multinazionali, sostenute dai sussidi pubblici, si stanno impossessando delle terre dei piccoli coltivatori che a livello globale producono il 70 per cento degli alimenti, causando una nuova ondata di massicce spoliazioni di poveri. La percentuale di ricchezza posseduta dall’1 per cento più abbiente della popolazione mondiale è passata dal 44 per cento del 2009 al 48 per cento del 2014. Il patrimonio delle 300 persone più ricche vale più della somma del Pil dei 29 Paesi più poveri. La seconda è dare spazio alla nuova agricoltura che rovescia lo schema degli ultimi decenni: invece di consumare energia la produce, invece di contribuire alla crescita dell’effetto serra la frena. L’agricoltura biologica ha la possibilità di catturare ogni anno due tonnellate di CO2 per ettaro: una formidabile arma per centrare l’obiettivo del contenimento della temperatura entro i 2 gradi di aumento, la soglia oltre la quale il cambiamento climatico diventerebbe catastrofico.

Qui il collegamento per scaricare il testo integrale

Indubbiamente una delle questioni centrali della mobilità motorizzata è da sempre quella dell’incolumità di chi circola, ma focalizzarsi su un solo per quanto importante aspetto rischia di trascurarne altri. La Repubblica, 6 maggio 2015, postilla (f.b.)

C’è chi fa gli scongiuri, c’è chi si annoia: la sicurezza stradale è un tema difficile ma va affrontato con forza e per forza. I numeri parlano chiaro: ogni anno nel mondo muoiono per incidenti stradali qualcosa come 1,3 milioni di persone, oltre 3.000 vittime al giorno, con circa 30 milioni di feriti l’anno.
E se in Europa e negli Usa la situazione è in netto miglioramento, nel resto del pianeta i numeri sono completamente senza controllo, in forte aumento: se non si adottano subito drastici provvedimenti si arriverà a breve ad avere gli incidenti stradali come quinta causa mondiale di morte, con 2,4 milioni di vittime all’anno. Non è un caso che il 90 per cento delle vittime su strada arriva dalle nazioni più povere, dove peraltro risultano immatricolate meno della metà delle vetture circolanti nel mondo. I dati arrivano dall’Onu che così ha deciso di intervenire con “forza”: nel marzo del 2010, ha adottato la risoluzione 64/255 “Miglioramento della sicurezza stradale nel mondo” con cui ha proclamato il periodo 2011-2020 “Decennio di Azione per la Sicurezza Stradale”.

In che consiste? In una vera rivoluzione, divisa in cinque grandi settori: gestione della sicurezza stradale nel suo complesso; mobilità più sicura; veicoli migliori; automobilisti più attenti; risposta immediata agli incidenti.
Ecco in questo contesto si inserisce la famosa “Settimana mondiale della sicurezza stradale” con la quale da lunedì scorso fino a domenica le Nazioni Unite cercano di focalizzare l’attenzione sul tema. L’evento è spinto con forza anche dalla Fondazione Ania per la sicurezza Stradale che per prima ha iniziato a investire pesantemente in campagne sociali (l’ultima ispirata ai dieci comandamenti).

Il tema sul tappeto oggi punta sugli incidenti per i più giovani visto che ogni giorno sulle strade del mondo muoiono 500 bambini e adolescenti con meno di 18 anni: un totale di oltre 182mila giovani vittime della strada. Un dramma che coinvolge anche l’Italia dove, guardando al 2013, sono morti una media di oltre 2 bambini a settimana, per un totale di 123 vittime con meno di 18 anni. Di queste, ben 47 avevano meno di 14 anni.

L’obiettivo dichiarato è quello di abbattere drasticamente il numero di vittime, ed è un obiettivo realizzabile vista l’esperienza dell’Unione Europea che come dicevamo dieci anni fa si era posta l’obiettivo — praticamente raggiunto — di dimezzare le morti per incidenti stradali entro il 2010. Ecco quindi per questa settimana un sito dedicato (www. savekidslives2015. org), dal quale è possibile scaricare la “Dichiarazione dei bambini per la sicurezza stradale”, una petizione rivolta ai leader di tutti i paesi membri e un hastag #SAVEKIDSLIFE. Perché — si sa — ormai le grandi campagne sociali passano tutte per la re- te.

Il punto però è cosa fare davvero. Quali strategie — a livello globale — mettere in campo. Su questo le Nazioni Unite sembrano avere le idee piuttosto chiare visto che puntano sulla pianificazione urbana e dei trasporti, sulla creazione di autorità indipendenti in materia di sicurezza stradale per la valutazione dei nuovi progetti di costruzione, sul miglioramento delle caratteristiche di sicurezza dei veicoli e sulla promozione del trasporto pubblico.

Ma ancora non basta: è stato individuata anche la necessita di avere il controllo efficace della velocità da parte della polizia e mediante l’uso di misure per decongestionare il traffico, l’approvazione e l’osservanza di leggi che stabiliscano l’uso della cintura di sicurezza, del casco e dei seggiolini per i bambini, l’imposizione dei limiti del tasso alcolemico e il miglioramento delle cure rivolte alle vittime degli incidenti automobilistici. Sembra impossibile ma nel mondo ci sono ancora molti Paesi che non hanno normative su questi temi.

Infine, occorrerà anche porre molta attenzione alle campagne di sensibilizzazione della popolazione: tra le misure da adottare per raggiungere gli obiettivi fissati in tema di riduzione di incidenti e vittime questa è considerata una delle più importanti.

Chi crede comunque che il problema della sicurezza stradale sia “solo” (anche se basterebbe) di morti e feriti sbaglia di grosso: tutte queste iniziative se messe in pratica porteranno ad un enorme risparmio economico: è vero che la cifra da mettere in bilancio sarà di circa 200 milioni di dollari all’anno per ogni Paese, vale a dire circa 2 miliardi di dollari nell’arco di un decennio, ma è anche vero che queste campagne porteranno grandi benefici per le casse dei vari Stati visto che gli incidenti stradali valgono, da soli, dall’1 al 3 per cento del Pil di ogni Paese. Una cosa difficile da far capire a chi ci governa come è stato difficile convincere gli automobilisti a usare la cintura di sicurezza.

postilla
Forse al lettore di Eddyburg basta tornare un istante a una non lontanissima polemica di tipo paesaggistico, per cogliere la possibile parzialità e squilibrio di questa idea di sicurezza stradale, pur articolata su vari punti strutturali e comportamentali. Polemica sul paesaggio che riguardava quelle norme del Codice della Strada che, se applicate alla lettera, avrebbero eliminato virtualmente qualsiasi alberatura, in quanto ostacolo a tracciati e curvature sicure, visibilità eccetera. E del resto sempre in nome di una guida sicura vediamo tante nuove arterie realizzate in territori rurali assumere forme piuttosto surreali con opere e accessori che fanno a pugni col contesto, dai doppi guard-rail zincati, agli accessi poderali ridotti a feritoie, e via dicendo. Basta questo esempio, che riguarda appunto solo ed esclusivamente questioni estetiche e di inserimento visivo, tra le tante, per sottolineare quanto quei cinque punti citati (gestione, veicoli, comportamenti, servizi, contesti) debbano e possano evitare poi di assumere forme distorte e parziali. Come per esempio l’analoga campagna per salvare i ciclisti viene spesso rigidamente interpretata (anche ai sensi del solito Codice della Strada inadeguato) esclusivamente per promuovere opere per costosi percorsi riservati di dubbia utilità, sia per il territorio che per la sicurezza. Insomma, quando si ragiona su qualcosa, considerarne la complessità aiuta a non combinare guai, anche con le migliori intenzioni (f.b.)

Si veda in questo sito anche Antonio Cederna col suo Caccia all’Albero (1966) e relativi links

«I dati dell’Ispra smentiscono, per l’ennesima volta, la presenza di un nesso causale tra edilizia e necessità di abitazioni: in una spirale perversa le città perdono abitanti, ma guadagnano case, vuote e sfitte». La Repubblica, 4 maggio 2015

NEMMENO la grande crisi ha fermato l’unica impresa comune nella quale gli italiani delle ultime generazioni sembrano essersi coalizzati: il consumo irreversibile del sacro suolo della patria. Cioè il più evidente dei nostri vari suicidi collettivi.

È questa la più impressionante tra le moltissime notizie contenute dal rapporto 2015 sul consumo di suolo che dopodomani sarà reso pubblico dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, l’Ispra. Nel 2014 abbiamo “tombato” col cemento altri duecento chilometri quadrati di suolo: ogni giorno perdiamo 55 ettari, ogni secondo ci giochiamo tra i 6 e i 7 metri quadrati di futuro. In totale il suolo consumato in Italia è arrivato a quota 21mila chilometri quadrati, cioè il 7 per cento del territorio.
Dai numeri dell’Ispra appare consolidata la tendenza per cui, dal 2008, il Nord Ovest guadagna (cioè perde...) terreno rispetto al Nord Est. In altre parole, si costruisce di più proprio nelle regioni che negli ultimi anni hanno pagato, per il cemento, il prezzo più alto in termini di vite umane e di danni materiali: la Liguria, per esempio. I numeri del cemento vanno, infatti, incrociati con quelli del brusco cambiamento climatico e del conseguente aumento del rischio idraulico e geologico. In un convegno sul Cambiamento climatico, rischio idrogeologico e pianificazione urbanistica tenutosi recentemente all’Università di Firenze, il meteorologo Andrea Corigliano ha notato che «dei 74 eventi alluvionali totali italiani che si sono verificati dal 1951, 55 si sono manifestati dopo il 1990 e ben 26 solo negli ultimi quattro anni». In altre parole, gli effetti dell’immissione di anidride carbonica nell’atmosfera (nel 2014 la più elevata degli ultimi 800 mila anni) si stanno sommando a quelli del sigillamento del terreno: e la conseguenza sono le devastanti alluvioni urbane, che tutto sono tranne che una catastrofe naturale.
Di naturale c’è davvero poco, in questa nostra folle corsa al cemento. I dati dell’Ispra smentiscono, per l’ennesima volta, la presenza di un nesso causale tra edilizia e necessità di abitazioni: in una spirale perversa le città perdono abitanti, ma guadagnano case, vuote e sfitte. E se nel 2014 il suolo consumato per ogni cittadino italiano sembra, per la prima volta, lievemente scendere, non è perché si costruisca di meno, ma è a causa della ripresa demografica, dovuta in grandissima parte all’immigrazione. Come una specie di terribile peccato originale, i “nuovi italiani” si addossano un consumo statistico di suolo davvero impressionante: circa un chilometro quadro a testa!
E non si deve pensare che il Mezzogiorno sia esente dalla peste grigia del cemento. Dopo Lombardia e Veneto si attestano immediatamente la Campania e la Puglia.
Ed è impressionante - ma non sorprendente - vedere che la regione del Crescent (il più incredibile scempio edilizio della Penisola, che ha sfregiato la città e il paesaggio di Salerno per volontà del sindaco Vincenzo De Luca, ora candidato alla presidenza della regione) nel 2013 si è cementificata più di Toscana, Emilia Romagna, Lazio: con una percentuale che si attesta tra il 7,8 e un mostruoso 10,2 per cento del territorio.

Di fronte a queste cifre, appaiono un balsamo le parole del nuovo ministro per le Infrastrutture Graziano Delrio, il quale ha subito promesso che si costruiranno solo opere utili (ovvio? No, sarebbe rivoluzionario), e che si romperà con la legislazione d’emergenza pro-cemento made in Maurizio Lupi. Ma c’è da fidarsi?
Il disegno di legge sulla “semplificazione” presentato dal presidente del consiglio Matteo Renzi di concerto con la ministra Marianna Madia promette, al contrario, di aggravare le conseguenze del micidiale Sblocca Italia, voluto da Lupi e fatto approvare da Renzi nello scorso novembre. Si tratta di una legge delega che - se approvata - permetterà, tra l’altro, al governo di estendere il micidiale meccanismo del silenzio-assenso (già sostanzialmente dichiarato anticostituzionale nel 1986) anche «alle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico- territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini» (articolo 3). Facile immaginare cosa succederà, in un Paese che ha smantellato e reso inefficienti le sue “magistrature del territorio”: saranno più veloci i permessi alle opere inutili legate ad interessi privati. E che dire dell’articolo 2, che delega il governo a introdurre il principio della decisione a maggioranza nelle conferenze dei servizi? Gli interessi dell’ambiente e della salute dei cittadini saranno in maggioranza o, come sempre, in minoranza?
La battaglia contro il cemento si perde prima nelle leggi corrotte, e poi sul territorio: dipende dall’azione del governo Renzi ciò che leggeremo nel prossimo rapporto Ispra. O il governo invertirà la rotta, o leggeremo che ci siamo suicidati ancora un po’. La scommessa sarebbe facile: ma sul futuro dei nostri figli non si può scommettere.

«Ecco come la redazione di Milano in Movimento ha concluso la diretta sulla manifestazione del Primo Maggio». Comune-info, 1 maggio 2015 (m.p.r.)

Abbiamo iniziato la giornata raccontando una piazza che si riempiva di 50mila persone, di spezzoni pieni di gente e colori che hanno portato per le strade della città capitale della crisi le ragioni del proprio no a Expo e al modello di sviluppo che Expo mette in vetrina.

Il modello della deroga ai diritti di tutti per tutelare gli affari di pochi, il modello dei soldi pubblici finiti nelle tasche delle banche, degli speculatori, delle mafie che si aggiudicano gli appalti e finanziano il sistema, che sono parte integrante di un sistema al quale da tempo opponiamo le ragioni di un no che è fatto di contenuti, di costruzione di reti e percorsi di lotta.

Expo è stato, è e sarà per i prossimi 6 mesi la sperimentazione avanzata di quanto di peggio questo modello si sviluppo produce: nasconde dietro a un logo colorato e a un claim accattivante il finanziamento delle peggiori speculazioni, la cementificazione di ampie aree un tempo agricole a ridosso della metropoli, l’utilizzo di lavoratori sottopagati, stagisti, volontari (!), che devono lavorare in fretta perchè la grande macchina è in ritardo e lo spettacolo deve andare avanti, sacrificando i diritti, la sicurezza, le vite di fasce di popolazione che già stanno pagando duramente la crisi e la disoccupazione, la mancanza case, di lavoro e di un welfare davvero universale.

Expo finge di parlare di alimentazione sana e cibo per tutti e poi costruisce partnership con i peggiori divoratori del pianeta, con le multinazionali dell’agroindustria, le catene di cibo spazzatura, i peggiori responsabili delle disuguaglianze del Pianeta. Parla di aiutare i Paesi poveri e fortifica chi sfrutta le materie prime e i territori delle aree povere del mondo, depredando popoli e natura, salvo poi cercare di respingerli quando bussano ai nostri confini affrontando viaggi nei quali forse moriranno, perchè quel forse è tutta la speranza che gli abbiamo lasciato.

I media mainstream alimentano da mesi un immaginario di scontri e devastazioni a tutela della passerella di vip e politici piazzati nella vetrina dell’inaugurazione a chiacchierare di solidarietà abbuffandosi a spese dei soldi pubblici e dei beni comuni che diventano affari di pochi.

Noi crediamo nella contestazione, nel conflitto, nella radicalità dei contenuti e delle pratiche associati all’intelligenza, alla costruzione di consenso intorno ai contenuti. Crediamo nel conflitto agito da tanti e tante, nella costruzione quotidiana di pratiche alternative nel modo di vivere, intessere relazioni, fare politica nel territorio e nel mondo globale, costruire economie alternative e sostenibili.

Ci siamo trovati costretti, nostro malgrado, a raccontare un corteo che, bisogna che siamo sinceri, non avremmo voluto così. E ci vedremo costretti a raccontare di spazi di agibilità che si chiudono, di fermi, arresti e repressione, e questo frenerà la riflessione fra gli attori del movimento e farà sì che non ci esprimeremo, perchè di fronte alla repressione poi smettiamo anche di ragionare in nome della giusta solidarietà a chi viene colpito.

Noi crediamo però che qualche ragionamento dobbiamo pure farcelo. Perchè anni di lavoro sui contenuti, di condivisione e di lotte oggi sono stati letteralmente spazzati via dalla scena pubblica, e se la stampa e la comunicazione mainstream hanno gioco facile a far vedere colonne di fumo nero che si alzano nel cielo della città e roghi di auto e negozi, e vetrine tirate giù, beh, qualcuno ‘sto lavoro di demonizzazione glielo ha reso davvero facile, e non abbiamo davvero niente da guadagnare dal totale isolamento nel quale ci ritroveremo, da domani, a fare politica nella nostra città.

E non ci interessano i commenti dei politici di turno o delle personalità dello stato, ci interessa la distanza che con questo immaginario scaviamo fra il corpo militante e la gente comune, fra chi ogni giorno mette il suo tempo e la sua fatica al servizio della costruzione di percorsi condivisi che ambiscono a diventare maggioritari e quel pezzo di cittadinanza che continuerà a pagare il prezzo della crisi, abbandonata dalla politica istituzionale e che tuttavia non capisce il senso di certe pratiche ed è sempre più lontana dal nostro mondo.

Abbiamo ripetuto all’infinito che la politica delle alte sfere non ha niente a che fare con la vita vera delle persone in carne e ossa e continuiamo a non essere capaci di costruire la connessione sentimentale con quei pezzi del Paese e della società che dobbiamo invece imparare a capire e coinvolgere nelle battaglie che o sono di massa o sono condannate all’irrilevanza.

Non c’è riflessione a caldo che possa affrontare questi temi in modo approfondito e ampio, ma non possiamo chiudere questa diretta in un modo che sia diverso dall’esprimere la necessità di una riflessione sulle ambizioni, sulle pratiche e sugli immaginari, che già qualche tempo fa abbiamo provato a stimolare con un editoriale che aveva dato l’avvio a qualche ragionamento, e che dentro la redazione è tema di dibattito molto sentito.

Torneremo presto su questo tema con una riflessione più articolata, per oggi siamo davvero esausti, e chiudiamo qui.

Il giorno dopo i riot di Milano, il "movimento" si interroga su come gestire una delle fasi più delicate degli ultimi anni. Con la consapevolezza che d'ora in avanti bisognerà ragionare su come gestire la piazza senza trascurare il nodo del consenso». Il manifesto, 3 maggio 2015

Toc toc, c’è nes­suno? Silen­zio. Il giorno dopo tutto tace, tutti tac­ciono. Ha biso­gno di tempi più lun­ghi la meta­bo­liz­za­zione di una bella botta che costringe tutti ad un’autocritica senza peli sulla lin­gua per cer­care di rimet­tersi in piedi. La rifles­sione col­let­tiva è appena comin­ciata, ma ancora solo a micro­foni spenti. Com­pren­si­bile. Anche se un po’ stu­pi­sce que­sto silen­zio visto che le “cose” attorno cui il “movi­mento” si trova costretto a ragio­nare erano già state ampia­mente pre­vi­ste. Da tutti, nel det­ta­glio. Rispet­tiamo i tempi un po’ troppo ana­lo­gici delle litur­gie assembleari.

Dopo il primo vero “riot” della moder­nità che ha scon­volto la gior­nata inau­gu­rale dell’Expo - piac­cia o meno anche que­ste pra­ti­che di piazza rien­trano nelle sgra­de­vo­lezze della glo­ba­liz­za­zione - sul tavolo riman­gono alcuni nodi da scio­gliere piut­to­sto ingar­bu­gliati. Per il cosid­detto “movi­mento”, natu­ral­mente, ma anche per coloro che a caldo non sanno andare oltre la pre­ve­di­bile indi­gna­zione di rito, un altro modo per non inter­ro­garsi sul pro­blema reale con cui prima o poi biso­gnerà fare i conti (quella che si auto­pro­clama l’altra Milano, in testa il sin­daco Giu­liano Pisa­pia, oggi si ritrova in piazza Cadorna per ripu­lire la città sfre­giata). Gli altri, quelli che non pos­sono accon­ten­tarsi dell’analisi “sono tutti delin­quenti”, sono invece costretti a fare uno sforzo in più. Ope­ra­zione non facile per chi è diret­ta­mente coin­volto nella gestione della May­Day, dove qual­cosa evi­den­te­mente non ha fun­zio­nato come doveva.

In sin­tesi. Il cosid­detto “blocco nero” era den­tro il cor­teo (uno degli spez­zoni più nume­rosi) in mezzo agli spez­zoni più “ragio­ne­voli”. La piazza mila­nese - come nessun’altra piazza anta­go­ni­sta - non ha avuto e non ha la forza poli­tica e “mili­tare” per limi­tarne la pre­senza. Il con­flitto sem­pre più aspro espresso ieri, a tratti dispe­rato e senza pro­spet­tive, sta diven­tando la cifra di ogni mani­fe­sta­zione “con­tro”. Ad Amburgo, Fran­co­forte, Bru­xel­les, adesso anche Milano: ben­ve­nuti in Europa. Dun­que, si può con­vi­vere con leg­ge­rezza con chi non accetta media­zioni e scende in piazza solo per spac­care tutto? Evi­den­te­mente no, ma sul che fare è ancora buio pesto per gli anta­go­ni­sti che con­te­stano il modello Expo. Di sicuro, a lec­carsi le ferite, è rima­sto un “movi­mento” che rischia di non avere più spazi di agi­bi­lità per lungo tempo. Ma il pro­blema del con­senso prima o poi biso­gnerà affron­tarlo, anche per­ché mai come in que­sto momento tutti sono con­tro - si fa per gene­ra­liz­zare - quei cat­tivi dei “cen­tri sociali”. Chi invece abbozza ana­lisi non scon­tate che rischiano di essere tac­ciate di “fian­cheg­gia­mento” al blocco nero (ce ne sono) oggi non ha la forza di uscire allo sco­perto. Prima o poi potrebbe arri­vare la buriana: ieri 15 per­sone sono state por­tate in que­stura, e i cin­que arre­stati rischiano fino a quin­dici anni di car­cere per “devastazione”.

I primi a ragio­nare “nero su bianco” (il comu­ni­cato) sono i più corag­giosi nell’analisi. Con toni e accenti diversi tra loro. Pren­diamo l’area di Infoaut, il punto di vista più arti­co­lato. Il cor­teo del primo mag­gio, scri­vono, «è la prima grande pro­te­sta con­tro Renzi e il suo modello di svi­luppo, e così verrà ricor­data». Sulla que­stione che più indi­gna, “il metodo”, que­sto il ragio­na­mento: «Spac­care uti­li­ta­rie o vetrine a caso è un gesto idiota che ha senso sol­tanto per chi assume come refe­rente del suo agire poli­tico il pro­prio micro-milieu ombe­li­cale». Ma il punto è: «Con quel modo di stare in piazza biso­gna fare i conti e nes­suna strut­tura orga­niz­zata è in grado di eser­ci­tare una forza di con­trollo». Il che signi­fica: «Quella rab­bia, quella com­po­si­zione, quei sog­getti sono affare nostro e vogliamo averci a che fare, con tutte le dif­fi­coltà del caso. Chi se ne tira fuori - per cal­colo, paura o pre­sunta supe­rio­rità politico-morale - sta trac­ciando un solco tra gli alfa­be­tiz­zati della poli­tica e gli impo­ve­riti ed arrab­biati». Il nodo del “con­senso”, esi­ste, scrive Infoaut, ma non porsi il pro­blema di come dare un senso a quella rab­bia è un grosso errore. Non solo per il movimento.

Militant.blog vuole pre­ci­sare che non c’è un cor­teo buono e uno cat­tivo, anche se la rab­bia del primo mag­gio non è stata espressa nel migliore dei modi. Il pro­blema, scri­vono, «non è lo scon­tro e la deva­sta­zione» ma «è come creare con­senso attorno a pra­ti­che con­flit­tuali». Ripar­tire da qui è il punto, «tor­nando a fare poli­tica, cioè costruendo un discorso con­flit­tuale che vada di pari passo al sen­tire comune della classe. Senza acce­le­ra­zioni inu­tili o altret­tanto inu­tili atten­di­smi». Sul sito di Mila­noin­mo­vi­mento (una delle realtà più “den­tro” alla costru­zione della May­Day) si legge un primo abbozzo di auto­cri­tica: non avreb­bero voluto un cor­teo così. Il timore è che arre­sti e repres­sione impe­di­scano anche di ragio­nare, per­ché «anni di lavoro sui con­te­nuti oggi sono stati let­te­ral­mente spaz­zati dalla scena pub­blica». Il punto è che «con­ti­nuiamo a non essere capaci di costruire con­nes­sione sen­ti­men­tale con quei pezzi del paese e della società che dob­biamo invece impa­rare a capire e coin­vol­gere nelle bat­ta­glie che o sono massa o sono con­dan­nate all’irrilevanza». Vero. Le rifles­sioni dun­que sono appena comin­ciate, la Rete No Expo deve ancora espri­mersi e pro­ba­bil­mente lo farà dopo l’assemblea di oggi pome­rig­gio. Ma a poche ore dal disa­stro sem­bra che qual­cosa stia già rico­min­ciando a muoversi.

La violenza cieca delle tute nere ha finito per offuscare le ottime ragioni di chi si oppone ad un insensato baraccone in cui la retorica cerca di coprire corruzione e vuoto culturale. La Repubblica online, blog "Articolo 9", 2 maggio 2015 (m.p.g.)

La violenza criminale e demenziale di chi ieri ha sfasciato Milano rendono ancora più difficile esprimere il senso di rigetto che ingenera l'immane baraccone dell'Expo. I fiumi di retorica alimentati da presidenti, ex presidenti, sindaci, ex sindaci, giornalisti sono imbarazzanti almeno quanto il pessimo gusto della cerimonia d'apertura, o la patetica trovata dell'inno nazionale modificato.

Per chi ha a cuore il patrimonio culturale italiano e il suo significato costituzionale niente appare osceno come il Tesoro d'Italia, l'accrocco di centinaia di opere d'arte prelevate a musei e chiese pubblici (oltre che in collezioni private) e sistemate da Vittorio Sgarbi nell'immenso spazio concesso (per diritto divino e amore del premier) a Eataly. E se non bastasse l'insormontabile problema dell'uso privato e della mercificazione di queste opere mantenute a spese di tutti, giunge una dichiarazione di Sgarbi a far comprendere l'entità del disastro culturale: «La mostra è stata concepita avendo come punto di riferimento il metodo indicato nel secolo scorso dallo storico dell'arte Roberto Longhi, nato, come Oscar Farinetti, ad Alba. Da quella città partono due rivoluzioni nella considerazione di un grande patrimonio di tradizioni e produzioni variamente rappresentate». Dove viene in mente il bel titolo di un libretto dell'eroico dissidente antibarberiniano del Seicento, Ferrante Pallavicino (arso vivo per ordine di Urbano VIII): La retorica delle puttane.
Un titolo che affiora alle labbra anche quando si legge che qualcuno vorrebbe trapiantare l'imbarazzante Albero della Vita a Piazzale Loreto, in via definitiva. E uno si chiede: ma a testa in giù, forse?

Più in generale, e in modo più radicale, come è possibile ascoltare senza un moto di disgusto la retorica per cui l'Italia punta tutto sulla città effimera dell'Expo quando da sei anni non riesce (e forse mai riuscirà) a tirar su l'Aquila, una città vera e meravigliosa? Com'è possibile che questo metadone in forma di storytelling riesca a farci fuggire dalla realtà fino a darci l'ennesima grande occasione per fare tutto il contrario di ciò che dovremmo fare e sentirci pure bravi, buoni e giusti?
Sappiamo bene come il Caudillo Maleducato, e la più gran parte di coloro che prendono la parola in pubblico, replicano ai rari tentativi di tenere il cervello accesso: con l'invocazione di un malinteso e peggio indirizzato appello all'amor patrio e all'orgoglio nazionale. E con l'eterna tirata contro gufi, disfattisti, rosiconi.

Siamo solo all'inizio: buon metadone a tutti
© 2024 Eddyburg