Il Fatto Quotidiano, 10 giugno 2015
Orti e filari di vigne coltivati su terreni altamente inquinati nella zona dell’Alessandrino. Eccola la nuova terra dei fuochi. Inedita e impressionante. La fotografia emerge dalle carte della procura di Torino che due giorni fa ha eseguito 3 arresti, sequestrando 6 aziende tra cave e impianti di recupero rifiuti. Ben 65 le persone indagate per un’inchiesta nata nel 2011 su segnalazione di Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità di Genova. Tra loro c’è un imprenditore, il quale, secondo gli investigatori del Noe e della Forestale, ha riempito i terreni della Cascina Aliprandina (Tortona) con materiale contaminato, coltivandoci cavoli e uva.
Non manca poi il sospetto dell’infiltrazione della ‘ndrangheta nel grande business dei rifiuti. I magistrati lo dicono chiaramente affrontando la figura centrale di Francesco Ruperto (arrestato due giorni fa). Secondo gli investigatori l’imprenditore alessandrino assieme al figlio sarebbe uno dei dominus del traffico illecito. Fino all’operazione di due giorni fa, Ruperto aveva subito interdittive antimafia per i suoi presunti rapporti da un lato con il boss lombardo Carmine Verterame coinvolto nel maxi-blitz Infinito del 2010 e dall’altro con esponenti di rilievo della cosiddetta ’ndrangheta di Seminara. Nelle migliaia di intercettazioni messe agli atti, Ruperto risulta in contatto con Valerio Bonanno, anche lui indagato, e, secondo l’accusa, ras dei rifiuti nella zona di Alessandria con la sua Servizi ambientali piemontesi. È da una loro telefonata che emergono gli interessi nello smaltimento dei terreni provenienti dagli scavi del Terzo Valico per la linea dell’Alta velocità.
Il 6 luglio 2011, poi, il Noe esegue una perquisizione negli uffici della Soc. Torre Campi srl. Emerge che il presidente del Cda è Vittorio Piccardo, il quale risulta proprietario della Ponte X srl. Non è l’unico, oltre a lui compare anche il calabrese Gino Mamone, che, secondo informative degli investigatori, sarebbe “punto di contatto” tra ambienti ndranghetisti e politica. I fratelli Mamone sono titolari della Ecoge, anch’essa indagata nell’inchiesta. Nel novembre scorso Gino Mamone assieme a Vincenzo e Luigi è stato coinvolto nell’indagine Albatros su un giro di escort per ottenere commesse in appalti per i rifiuti. Secondo la procura di Genova, i tre avrebbero pagato cene e prostitute all’ex dirigente dell’Amiu, l’azienda municipalizzata che si occupa della gestione dei rifiuti, Corrado Grondona per ottenere appalti per loro e altri imprenditori amici. Il nome di Gino Mamone compare anche nell’indagine Pandora. Viene descritto come imprenditore amico delle cosche e amico dei politici. Intercettato dirà: “Io sono amico di tutti”.
Giovane, verde e mondana, Barcellona non è da meno. La Boqueria è l’indirizzo di punta. In una struttura in ferro battuto che risale al 1200, sulle famose Ramblas, è uno dei mercati coperti più amati in Europa. Curiosando tra i suoi stand si viene accolti da invitanti profumi di griglia e pesce fresco: se trovate un sgabello libero, provate un piatto cucinato espresso direttamente al banco, il Pa amb tomaquet, Tortilla de patatas, Botifarra, l’Esqueixada de bacalà e la Paella. Da Barcellona a Madrid il passo è breve. Il suo San Miguel è un esempio d’innovazione. Elegante, ordinato, pulito, offre ogni genere di delizia locale, è un ottimo indirizzo di gusto dove assaggiare cibo genuino, dalle tapas al Serrano. E al tramonto da non perdere l’aperitivo, con assaggi di cucina vegetariana (si vola Vueling, da 90 euro, (www.vueling.com).
Il gusto sposa la movida se siete a Berlino. Avanguardista, creativa, multiculturale, andate a Kreuzberg per perdervi tra caffè, ristoranti e locali che portano in un tour per il mondo. Fermatevi al Markthalle IX, aperto dal 1891. Occhio al giorno: è aperto il giovedì, quando le sue corsie sono piene di stand gastronomici dove gustare cucina tedesca, italiana, messicana, asiatica o spagnola, il venerdì e il sabato, con i coltivatori che espongono olio, marmellate, miele e formaggi (Soho House Berlin, da 120 euro la doppia: sohohouseberlin. com). In Italia non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Quindi, la Sicilia. A Palermo gli indirizzi di culto sono due, Ballarò è il cuore tradizionale della città, con le primizie della campagna siciliana, le urla dei venditori, la confusione allegra tra i banchi. Ma è la Vucciria oggi il centro della movida palermitana: panelle, cazzilli, crocchè e stigghiole. Dovrete farvi largo in mezzo al caos, ma avrete tutto il meglio del più autentico cibo di strada (da 238 a notte il Grand Hotel Villa Igiea, villa-igiea).
«Agricoltura. Per il G7 le associazioni per la difesa della sovranità alimentare hanno chiesto ai governi del mondo di dotarsi di una piattaforma sociale che metta al centro le organizzazioni contadine in lotta contro il land-grabbing». Il manifesto, 10 giugno 2015
Tre anni fa il Summit G8 del 2012 proclamava la nascita della «Nuova Alleanza per la sicurezza alimentare e la nutrizione». L’accordo faceva leva sulla retorica strumentale e ipocrita dell’aumento della produzione di cibo per salvare dalla povertà e dalla fame 50 milioni di persone. Il solito slogan usato cinicamente per incentivare forme di speculazione, anche finanziaria, che sembrano aver trovato un nuovo Eldorado nell’accaparramento di terra agricola in Africa, Sud America e Asia. In quell’occasione, una sorta di antipasto del Ttip, si trovarono allo stesso tavolo dieci paesi africani, non certo tra i più poveri, tra i quali Ghana, Nigeria, Mozambico, Tanzania, e centinaia di multinazionali dell’agro-industria tra cui le più grandi nella produzione di pesticidi, sementi ibride e Ogm (Yara, Cargill, Monsanto).
Più mercato, più privatizzazioni
Dietro le proclamazioni ufficiali si nascondeva in realtà, senza un velo di imbarazzo, il tentativo di aprire nuovi mercati in Africa alle imprese europee e americane che, in cambio di un impegno vago ad investire denaro contante nei dieci paesi africani interessati, ricevettero impegni precisi da parte di quegli stessi governi africani per l’avvio di processi di privatizzazione della terra. In particolare fu prevista la concessione a imprese multinazionali delle «terre comuni» utilizzate da sempre dai villaggi per il sostentamento collettivo delle comunità (land-grabbing), incluse politiche volte alla legalizzazione degli Ogm e di sementi brevettate con contestuale criminalizzazione di pratiche di scambio di sementi operate dai contadini. Prevista anche la trasformazione della produzione agricola di tipo familiare su piccola scala, che in Africa riguarda ancora il 60% dei contadini e l’80% della produzione totale di cibo, verso sistemi di produzione industriale ispirati ad un modello che nel mondo ha già mostrato i suoi limiti: inquinamento, cambiamenti climatici, problemi di obesità e malnutrizione.
I contratti imposti alle popolazioni locali prevedono, tra le altre cose, il pieno ed esclusivo utilizzo di tutte le risorse sottostanti e sovrastanti la terra acquistata. Questo significa che senza un limite contrattuale, qualsiasi sia la coltura che quell’azienda decide di coltivare, oltre al terreno può disporre di tutta l’acqua che ritiene necessaria senza versare alcun canone aggiuntivo. Le popolazioni locali dovranno lasciare quel luogo ormai non più loro, dopo di ché tutto quello che insiste su quel suolo diventa di proprietà delle aziende locatarie o dei fondi pensione occidentali che hanno avviato enormi operazioni di investimento e speculazione su quelle terre. Si consideri che negli ultimi anni sono stati accaparrati terreni per 87 milioni di ettari. Significa cinque volte la superficie arabile d’Italia, che nel suo complesso è di circa 30 milioni di ettari: si tratta del 2% delle terre coltivabili nel mondo. È lo stesso meccanismo finanziario adottato in Inghilterra dal governo della signora Margaret Thatcher circa trent’anni fa con il fallimentare slogan «meno Stato, più mercato».
Per il report dell’associazione Terra Nuova e del Transnational Institute, i benefici promessi dal settore privato e dai donatori evaporano quando le organizzazioni contadine più critiche e i loro sostenitori cercano di determinarne gli impatti. Ciò che rimane è un sistema organizzato con lo scopo di penalizzare i piccoli produttori a beneficio delle multinazionali attraverso la privatizzazione dei beni pubblici e collettivi dai quali dipendono le condizioni di vita delle popolazioni rurali. Privatizzazione infatti in primo luogo significa privare tutti di beni comuni quali il suolo agricolo e l’acqua. Privati delle terre e dei mezzi di sostentamento, le comunità rurali non hanno altra scelta che integrarsi a condizioni svantaggiose in sistemi di produzione di cui perdono completamente il controllo. L’alternativa per la sopravvivenza è migrare verso le città o altri paesi.
Giù le mani dalle sementi
È per questi motivi che in occasione del G7 le associazioni impegnate nella difesa della sovranità alimentare hanno chiesto ai Governi dei paesi che hanno sottoscritto la Nuova Alleanza alcuni impegni precisi, a partire dalla predisposizione in ogni nazione di una piattaforma sociale che comprenda i diversi attori interessati da queste politiche. Tra questi ci dovranno essere le organizzazioni contadine e gli altri gruppi emarginati, insieme a quelle che si occupano della difesa del diritto al consenso libero, preventivo e informato di tutte le comunità vittime della speculazione economica sulla terra, oltre a quelle che garantiscono la loro piena partecipazione al governo del territorio e delle risorse naturali. L’impegno continua con la richiesta di rispettare i diritti dei contadini a produrre, proteggere, utilizzare, scambiare, promuovere e vendere le proprie sementi e aumentare il sostegno al sistema delle banche contadine dei semi. Fondamentale è la richiesta dello stop con contestuale revisione di tutti i processi sulla legislazione sulle sementi basati sulla convenzione Upov del 1991. La richiesta riguarda tutti i brevetti e le leggi che minacciano i diritti dei piccoli agricoltori. Sono previste infine politiche pubbliche di sostegno per questa categoria di produttori, incluse le organizzazioni della società civile e dei consumatori a livello regionale e nazionale per sviluppare un dibattito sulla sovranità alimentare, sul diritto al cibo e sull’agro ecologia.
Le organizzazioni che hanno sottoscritto la dichiarazione a livello mondiale sono numerose e tra queste si contano oltre a Terra Nuova anche ActionAid International, Africa Europe Faith and Justice Network, Grain, Greenpeace Africa, La Via Campesina Southern and Eastern Africa, Oxfam, Transnational Institute, Unión Solidaria de Comunidades — Pueblo Diaguita Cacano, Réseau Maerp Burkina Faso, Coalition of Women’s Farmers, Cnop Mali, Global Justice Now e molte altre. Un’iniziativa che vuole unire le associazioni di tutto il mondo per combattere contro la fame, la miseria e soprattutto i grandi affari delle multinazionali, dell’agro-finanza e dei loro governi amici.
Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2015
“Non dobbiamo pensare all’area archeologica centrale come un’area deputata solo alla fruizione dell’archeologia, ma come un pezzo di città, ricco di eventi, nel rispetto dei monumenti. I luoghi dell’archeologia sono attrattivi: sfondo ideale per realizzazioni virtuali, teatro, spettacoli, musica, arte”, spiega il soprintendente speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale romano e l’area archeologica di Roma, Francesco Prosperetti. Il tema è la sorte delCirco Massimo che, dunque, sarà ancora il contenitore per tutte le occasioni. Concerti, ma non solo.
“Non sono contrario in maniera pregiudiziale ai concerti al Circo Massimo, se ci sono dei motivi ostativi, li faremo valere al tavolo permanente con il Comune”, dice ancora Prosperetti. Chiedersi quali possano essere questi motivi è naturalmente lecito. Conoscerli al momento, impossibile. Certo è che risulta già stabilito che nel 2016 nell’area suoneranno i Coldpay, nel concerto del tour di addio della band. Insomma non sembra cambiare nulla per il luogo centrale dell’archeologia romana più utilizzato. Per finalità di ogni tipo.
Condivisibile l’idea che i pezzi di città nei quali ci sono monumenti antichi debbano uscire dal ghetto nel quale sono stati lasciati finora. Che vengano finalmente legati ai contesti esterni. Che insomma tornino ad essere patrimonio di tutti. Spazi non più da osservare dall’ “esterno”, ma da vivere dall’ “interno”. Riassemblare la città, fascendo uscire dalla loro sostanziale marginalità i luoghi dell’archeologia, è un proposito legittimo. Esito di un’idea di Roma moderna, corretto. Perché mira ad includere, realmente.
Più discutibile è invece ritenere che funzionale a questa operazione di inclusione dei luoghi dell’archeologia sia il loro utilizzo. Più incerta la tesi secondo cui sia necessario che i monumenti del passato debbano essere cornice di eventi. Insomma come sostiene il soprintendente, “sfondo ideale per realizzazioni virtuali, teatro, spettacoli, musica, arte”. L’attrattiva non si incrementa riempiendo di eventi strutture antiche svuotate dell’originaria funzione e del loro significato identitario. Semmai, ci si dovrebbe spendere perché accada il contrario. Cioè perché quei luoghi, relitti del passato, diventino poli culturali, da fruire. Nelle migliori condizioni possibili. Ovunque. Non solo nel centro, ma anche più fuori, fin dove il territorio dei municipi più esterni confina con altri comuni.
Il Circo Massimo secondo la visione delineata da Prosperetti corre il rischio di continuare ad essere un luogo neutro. Una spianata nella quale l’archeologia è confinata ad un settore. Rilevantissimo, ma esiguo. Quanto l’utilizzo indiscriminato dell’arena possa portare dei benefici all’area archeologica non è chiaro. Quanto il sacrificio di quegli spazi sia accettabile, compensato da una migliore valorizzazione dei resti antichi, incomprensibile.
“I resti del grande arco realizzato per l’imperatore Tito. Straordinario rinvenimento sovrintendenza al Circo Massimo”, ha twittato alcuni giorni fa Giovanna Marinelli, Assessore alla Cultura di Roma Capitale. Una bella notizia, a metà. Dal momento che la mancanza di fondi hanno costretto a ricoprire tutto.
I colpi di coda dello scorpione: il Commissario prepara le carte per privatizzare il trasporto pubblico, l'uso delle spiagge, e quant'altro. Sarebbe bello se i candidati sindaco ci dicessero subito che cosa faranno se saranno eletti Sindaco. La Nuova Venezia, 7 giugno 2015
VENEZIA. Da quaranta a diciannove. È la «cura dimagrante» sulle aziende partecipate del Comune che il commissario Vittorio Zappalorto e il subcommissario Vito Tatò affidano - per essere realizzato - al nuovo sindaco della città (Felice Casson o Luigi Brugnaro), contenuto nel piano di razionalizzazione delle società comunali che hanno già predisposto, secondo quanto richiesto anche dal Governo e di cui si conoscono ora i dettagli. Il Piano - che se attuato dovrebbe comportare risparmi significativi per la “macchina” comunale, prevede appunto gli accorpamenti di società comunali che svolgono funzioni analoghe, la dismissione di quelle che non svolgono funzioni indispensabili per i fini di Ca’ Farsetti, il mantenimento delle partecipazioni di controllo di quelle invece essenziali, aprendone però il capitale anche ai Comuni che entreranno a far parte della Città Metropolitana. In più, coordinamento tra le varie partecipate e contenimento dei loro costi di funzionamento.
Tra le novità più importanti, la fusione di Actv nella sua capogruppo Avm, l’Azienda veneziana per la mobilità, il cui capitale, ora al 100 per cento del Comune, verrebbe aperto ai soci attuali di Actv, a cominciare dalla Provincia e dal Comune di Chioggia, che hanno chiesto di uscire da Pmv - la società patrimoniale di Actv - e riceverebbero in cambio non soldi, ma azioni della «nuova» Avm, fino a una quota del 20 per cento della società. Avm svolgerebbe così direttamente il servizio di trasporto pubblico locale per Venezia e Chioggia e nell’area extraurbana della provincia centromeridionale. L’Azienda veneziana della mobilità resterebbe anche il socio di maggioranza di Vela, la società degli eventi e del marketing del Comune.
Resterebbero invece sotto il controllo del Comune - ma aperta anche ai Comuni metropolitani, Ames (mense e farmacie), Insula (manutenzione urbana), Venis (informatica) e appunto Vela. Il Comune invece uscirà dal tutto da una controlata come Venezia Spiagge - di cui ha il 51 per cento del capitale - lasciando spazio ai privati, non appena sarà concluso l’iter di autorizzazioni per la proroga delle attuali concessioni balneari marittime sulle spiagge. Cedute anche le quote di minoranza, di abate Zanetti srl 8la scuola del vetro di Murano), Nicelli spa (l’aeroporto del Lido) e anche Promovenezia, Residenza Veneziana e Interporto di Venezia. Ive srl, l’Immobiliare veneziana diventerà l’unica società immobiliare del Comune, assumendo anche il controllo di Vega scarl (la società del Parco scientifico di Marghera).
Per Veritas si seguirà il piano di razionalizzazione già approvato dalla società multiservizi ambientali, che prevede la riduzione delle sue attuali partecipazioni societarie da 21 a 11. Per il Casinò, Zappalorto e Tatò rimandano al piano di riorganizzazione della società in discussione tra azienda e sindacati e indicano - sulla base dei primi risultati di esso - tre strade possibili al nuovo sindaco. Riprendere il progetto della cessione ai privati della gestione del Casinò. Proseguire con la gestione diretta sotto una società interamente controllata dal Comune, Oppure scegliere una strada intermedia: mantere il controllo pubblico del Casinò, ma far entrare nella società un operatore
privato in grado di rilanciarlo a livello internazionale. Per la sopravvivenza della Cmv spa, la società patrimoniale del Casinò, è invece fondamentale, per alleggerire il suo pesante indebitamento, vendere alcune delle sue proprietà immobiliari. Cominciando, forse, dai terreni di Tessera.
Italianostra-venezia.org, 5 Giugno 2015 (m.p.r.)
(Immagine: in questa forma il Fontego non sarà più visibile date le trasformazioni al tetto che ora sono state autorizzate). Il Consiglio di Stato ha respinto l'appello di Italia Nostra contro la sentenza del TAR che considerava legittima la trasfromazione del Fontego dei Tedeschi in centro commerciale e tutte le modifiche edilizie connesse all'operazione. Il nostro appello al Consiglio di Stato era l'unica arma che rimaneva per impedire che uno storico edificio veneziano venisse deformato nella sua natura architettonica e sottratto all'uso pubblico per divenire un ennesimo centro commerciale ad uso dei turisti e a beneficio delle società proprietarie.
Avremo modo nei prossimi giorni di esaminare la sentenza e di commentarla nei dettagli. Per ora riportiamo qui il comunicato stampa con il quale il Comune dà la notizia ai media, citando alcune parole dalla sentenza. Secondo quelle parole, le deroghe concesse dal Comune ai proprietari sarebbero giustificate dalla "effettiva sussistenza dell'interesse pubblico" e dagli "effetti benefici per la collettività che dalla deroga derivano". In aggiunta, il Consiglio ritiene che i sacrifici per l'immobile siano "minimi" mentre l'edificio verrebbe "restituito alla città con la destinazione originaria del 1500, che era proprio quella commerciale". La differenza tra uso di fondaco nel 1500 e uso di centro commerciale Vuitton nel 2015 è evidentemente troppo sottile per contare qualcosa. Ritorneremo presto sull'argomento con i dettagli.
Leggi il comunicato stampa del Comune.
Riferimenti
Sulla vicenda si veda su eddyburg di Francesco Erbani L’odissea veneziana del Fontego dei Tedeschi tra pubblico e privato, di Salvatore Settis Quel centro commerciale che ferisce Venezia. La strategia di occupazione concertata (con i sindaci veneziani, da Massimo Cacciari a Giorgo Orsoni) è documentatamente raccontata da Paola Somma nel saggetto Benettown, un ventennio di mecenatismo, edito da Corte del fontego editore, nella collana "Occhi aperti su Venezia". La vicenda del Fontego dei Tedeschi è narrato, nella medesima collana, dal libretto di Lidua Fersuoch, Il nostro Fontego dei Tedeschi
«Per non morire, la Serenissima si sta consegnando ai privati ed è sempre più simile a uno showroom. L’arte deve essere accessibile agli sponsor, e lo sponsor è talmente accessibile all’arte che fa come se fosse a casa sua». Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2015
Venezia. Se un pomeriggio d’estate un Visitatore entrasse alle Gallerie dell’Accademia per visitare le nuove sale appena inaugurate, potrebbe fare delle belle scoperte, la più strabiliante che il Tiepolo si è fatto lo smartphone, e ha scelto un Samsung. Ma non anticipiamo troppo. Il Visitatore ha grandi aspettative, e un po’ gli rode, visto che ha appena pagato 15 euro per il biglietto di entrata, più un euro di caparra per poter usufruire di uno dei cinquanta armadietti da palestra di periferia che sono il solo guardaroba disponibile di una delle più prestigiose raccolte d’arte al mondo. Anche l’ingresso è uno dei più cari al mondo; ma di certo ne varrà la pena, pensa il Visitatore, per farsi un’idea di questo primo assaggio del rilancio in grande stile di cui si favoleggia da anni.
Ebbene, la prima sala della nuova Accademia è davvero sbalorditiva, per un museo d’arte. Nemmeno un dipinto, solo enormi megaschermi marchiati Samsung. Che poi, spiegano i depliant, chiamarli schermi è riduttivo: si tratta piuttosto (citiamo) “di totem multimediali grazie ai quali è possibile agevolare la costruzione di un percorso di visita”. Agevoliamoci, pensa il Visitatore sentendosi un po’ capo pellerossa, e al primo sfioramento il totem lo ripaga con la visione di James Ivory, il regista di Quel che resta del giorno, che si mette a raccontare di come girò il suo primo cortometraggio proprio a Venezia, tra le sale dell’Accademia. Ci fa piacere per lui, pensa il Visitatore, ma che c’entra? Poi però Ivory viene al dunque: “L’arte deve essere accessibile a tutti”, osserva; e per questo ringrazia di cuore la Samsung per avere partecipato alla ristrutturazione dell’Accademia con un suo generoso contributo. Dopo la prima sala, che è di fatto uno showroom del leader mondiale dei media digitali, il visitatore passa alle altre quattro; si comincia a vedere qualche dipinto, e qui arriva la sorpresona: ogni quadro ha il suo tablet personale, in modo che, mentre si è davanti ai veri Hayez, Veronese o Tiepolo, si possa smanettare in santa pace sul relativo Samsung piazzato a fianco dell’opera.
A questo punto il Visitatore ha le idee un po’ confuse ma con un punto fermo; l’arte deve essere accessibile a tutti, ma soprattutto deve essere accessibile agli sponsor. Scopre che queste cinque sale costate dieci anni di riunioni, autorizzazioni, progetti e lavori (una media di due anni a sala), non si sarebbero mai potute aprire senza i 600 mila euro offerti dalla Samsung. Bel gesto, ma in cambio di cosa? Il Visitatore scopre anche che nell’allestimento degli spazi, per misteriosi “nuclei tematici”, non si è partiti dalla selezione dei dipinti ma dalle scelte dagli architetti, dai vincoli della burocrazia e forse – ma questo è solo un sospetto – dagli interessi dello sponsor. Di certo, sia questi ambienti totemici, sia l’area espositiva dell’ex Chiesa della Carità dove è allestita una brutta mostra di Mario Merz fanno letteralmente a pugni con le gloriose sale del piano nobile, dove da sempre tutto procede non per “nuclei tematici” ma semplicemente per ordine cronologico; e dove ora Cima da Conegliano, Giovanni Bellini e Giorgione creperanno di invidia. Perché Tiepolo ha il tablet, e noi no?
Finita la visita e salutati i totem, il Visitatore si sposta al ponte di Rialto; e lo trova incoronato da un enorme cartellone che pubblicizza la mostra celebrativa dei 20 anni della linea di moda Marni (socio di maggioranza, Renzo Rosso); una maniera non delle più sobrie per informarlo che il restauro appena iniziato si deve alla generosità dello stesso Rosso a seguito di un accordo firmato dall’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni. Certo che questa città rigurgita di mecenati, pensa il Visitatore; il magnate del lusso Francois Pinault che ha rimesso a nuovo Palazzo Grassi e Punta della Dogana e poi ci ha piazzato le sue collezioni d’arte private; Prada che si è presa Ca’ Corner della Regina collocando la Fondazione al primo piano e gli appartamenti privati al secondo, e ora anche lo storico patron della Diesel...
Ma forse c’è tempo per rimediare. Forse bisogna aspettare che il Fontego dei Tedeschi, sventrato delle strutture cinquecentesche, venga trasformato dalla Benetton in un centro commerciale perfino più sontuoso di quello aperto di recente nei pressi del Ponte di Calatrava; solo allora potremo godere dell’effetto sistema dell’intera zona di Rialto.
Imbarcandosi sul vaporetto nero pece brandizzato DIESELREBOOT, il Visitatore ripensa alle Gallerie dell’Accademia, e conclude che quelle nuove sale sono un’eccellente metafora di quanto sta accadendo in tutta Venezia. Per non morire, la Serenissima si sta consegnando ai privati ed è sempre più simile a uno showroom. L’arte deve essere accessibile agli sponsor, e lo sponsor è talmente accessibile all’arte che fa come se fosse a casa sua. Il privato fa il suo mestiere: se gli dai il dito lui non si ferma più, mette i telefonini nella pinacoteca e i manifesti sul Canal Grande; sta al pubblico tenere la barra dritta, vedere la differenza tra un mecenate e uno sponsor, e stabilire i limiti. Per riuscirci però ci vogliono regole certe, istituzioni sane, e soprattutto uno Stato degno di questo nome; la Samsung, la Diesel o qualcun altro si offre per ristrutturarlo?
Megastruttura di un secolo fa, nata da logica ingegneristica extraurbana, e in crisi di ruolo da decenni, fa riflettere sulla megalomania di altri impropri progetti di urbanizzazione. Corriere della Sera Milano, 3 giugno 2015, postilla (f.b.)
Via al maquillage dei Rilevati ferroviari, involucro dei Magazzini Raccordati. Opera da cinque milioni di euro, non più rinviabile. Grandi Stazioni preme sull’acceleratore ed entro l’estate, con lo scorporo dell’attività di retail, selezionerà i progetti degli investitori stranieri intenzionati allo sviluppo dei 66 mila metri quadrati. Comincia a giorni il maquillage dei Rilevati ferroviari. Superati i problemi tecnici per l’occupazione del suolo pubblico, Grandi Stazioni si prepara a dare il via ad un intervento che si configura come un restauro conservativo del manufatto.
I due chilometri di infrastruttura, che sorgono alle spalle della Stazione Centrale e portano i binari ferroviari fuori città, non sono mai stati oggetto di manutenzione. E i segni del tempo e dell’incuria sono più che mai visibili. I ferri che ne costituiscono l’ossatura, arrugginiti a causa delle infiltrazioni d’acqua, in molti punti si sono gonfiati fino a causare l’esplosione di quella copertura di conglomerato cementizio, che gli artigiani del tempo lavorarono trasformando in finto marmo e pietra.
Il recupero delle facciate dei Rilevati, sul fronte di via Ferrante Aporti e di via Sammartini, ha un costo stimato in 5 milioni di euro. Ed è solo l’inizio di una trasformazione ben più imponente. Entro luglio, infatti, la società che ha affidato allo studio Giugiaro lo studio di massima dello sviluppo del Rilevato attraverso il recupero dei Magazzini Generali, una vera e propria città nascosta, chiusi quindici anni or sono e abbandonati, esaminerà le proposte di investitori intenzionati ad acquisire quote dell’attività retail di Grandi Stazioni che sarà scorporata per consentirne lo sviluppo. I Rilevati con gli ex Magazzini Raccordati, lo ricordiamo, furono inaugurati nel 1914.
Il dossier preparato dal manager Paolo Gallo, già ex numero uno di Acea, ha acceso l’interesse soprattutto oltreconfine. E sono diversi gli operatori, a cominciare dal Blackstone Group — società finanziaria statunitense specializzata nei settori di private equity, investimenti immobiliari, hedge funds, ristrutturazione di aziende e gestione di fusioni e acquisizioni — e dai francesi Klépierre, gli specialisti europei dei centri commerciali, alla compagnia franco olandese Unibal Rodamco, di cui si attendono le proposte. Entro luglio. Da settembre partirà il confronto, promesso in un’assemblea pubblica dall’ad Gallo e ora confermata, con il Comune e le associazioni di cittadini da tempo mobilitati per il recupero dei Rilevati e dei quartieri che sullo stesso s’affacciano.
Realizzare l’imponente ristrutturazione non solo dei Magazzini Raccordati (33 mila metri quadrati) ma di una porzione altrettanto vasta di corpi di fabbrica che si sviluppano alle spalle della Stazione ha un costo stimato in 50 milioni di euro. Soldi che dovranno arrivare in parte proprio dall’ingresso dei fondi di investimento privati. Il cronoprogramma del restyling della Centrale ad oggi è stato rispettato. A cominciare dalle strutture in vetro e acciaio collocate nell’ampio spazio monumentale, la Galleria delle Carrozze, che collega le piazze IV Novembre e Luigi di Savoia. Ora tocca all’involucro esterno. Infine, entro l’anno l’aggiudicazione al privato che diventerà il partner dell’operazione di sviluppo.
È noto il progetto di Grandi Stazioni che sarà scissa in tre diverse società, Gs Retail, Gs Rail e Gs Real Estate, alle quali saranno conferiti rispettivamente gli asset commerciali, le attività infrastrutturali e alcuni immobili adiacenti alle stazioni. Oggi Grandi Stazioni è una società partecipata al 60% da FS al 40% da Eurostazioni (veicolo finanziario che mette insieme Pirelli, Caltagirone e Benetton con le ferrovie transalpine di Sncf), e ha trasformato e gestisce le quattordici principali stazioni della penisola. La gara internazionale per individuare il futuro acquirente della parte retail sarà lanciata prima dell’estate e chiusa entro fine anno, come ha confermato l’ad di Ferrovie, Michele Mario Elia.
Ad accrescere l’interesse dei grandi fondi di investimento è quel progetto che suddivide il Rilevato in sette corpi di fabbrica e la destinazione di ogni blocco ad una diversa attività — dal food market su via Sammartini al centro commerciale con ristoranti e caffè. «È importante — dice la vicesindaco Ada Lucia De Cesaris — che comincino a dimostrare di fare un lavoro di pulizia, perché anche un intervento di decoro è già una risposta importante al quartiere e ai cittadini. Ci auguriamo che si impegnino a dare le gambe al progetto che va quanto prima reso operativo, affinché quel luogo straordinario possa tornare ad essere vissuto come un luogo di qualità».
Ancora oggi praticamente non passa giorno senza che qualche architetto non presentiqui e là la sua «audace idea» di megastruttura che mescola mobilità econtenitori di residenza, produzione, servizi, sul modello del Piano di Algeridi le Corbusier, o del precedente americano Roadtown di Edgar Chambless. Ecco,forse basterebbe la complessità e sviluppo nel tempo di questa mega-digestioneurbana di una infrastruttura ingegneristica del genere, a dare il senso diquanto possano essere azzardate, o quantomeno mal poste, quelle ideeprogettuali. Il rilevato ferroviario nasce in modo evidentementeautoreferenziale, ma altrettanto evidentemente sulla traccia dei progetti diinsediamento lineare novecenteschi. Basta però un primo accenno del processo diurbanizzazione che queste macrostrutture deliberatamente inducono, per metternein crisi ruolo e impianto, trasformandole in una enorme terra di nessuno.Perché il processo di degrado che porta a questo «restyling» si può proprioriassumere così: la presenza assurda in città di un manufatto estraneo allacittà, e che dura quantomeno dalle periferie cantate nel Ragazzo della ViaGluck, via che sta giusto allo sbocco dei tunnel. Seguire l’evolversi dellalunga digestione forse è un modo per riflettere anche su altre, analoghemegastrutture che prima o poi presenteranno il conto (f.b.)
Almeno, non il Rossi in cui avevano sperato gli (ormai ex) elettori Pd che (come me) ritengono la svolta renziana una irreversibile mutazione genetica. Non il Rossi che si era presentato come un'alternativa, e che giorno dopo giorno è invece meno distinguibile dagli imbarazzanti vassalli toscani del premier-segretario.
La spia più impressionante di questa precipitosa omologazione è la trasformazione del linguaggio di Rossi, un tempo gentile e quasi timido, oggi intriso dall'inconfondibile arroganza renziana. Nelle ultime ore questa inedita violenza verbale si è appuntata su Anna Marson: sua attuale assessore e autrice principale di quel Piano del Paesaggio che è uno dei principali risultati della Giunta uscente.
La Marson ha la colpa di aver notato che il programma di Rossi è singolarmente reticente proprio sul paesaggio, e di aver dunque espresso la sua preoccupazione per ciò che succederà al Piano e soprattutto al paesaggio da lunedì in poi. Come spiega la Marson in questa nota diffusa dall'Ansa (ma ignorata dalla stampa toscana di oggi) Rossi avrebbe potuto creare subito l'Osservatorio (aperto anche alle associazioni) previsto dal Piano, ma ha preferito rimandare alla prossima legislatura: un pessimo segnale. Perché è evidente che il Pd toscano neorenziano, che ha provato in tutti i modi ad affondare il Piano (ed ha dovuto mandarlo giù solo perché Rossi avrebbe completamente perso la faccia), si appresta ora a smontarlo pezzo a pezzo. E a livello nazionale, il partito che ha varato lo Sblocca Italia ha fretta di liquidare quell' intralcio 'ambientalista' ereditato da un passato di sinistra che si vuol archiviare più in fretta possibile.
Se le cose non stessero così, Rossi avrebbe fatto di Anna Marson – cioè del suo lavoro, e del suo rapporto con le associazioni e i comitati di cittadini che lottano perché la Repubblica tuteli davvero l'ambiente (come prescrive l'articolo della Costituzione che dà il titolo a questo blog) – una bandiera elettorale. Così non è stato, perché nel frattempo – come è detto in un appello elettorale firmato anche da chi scrive – «il Pd toscano ha subìto una profonda mutazione genetica, ed Enrico Rossi non ha più alcun margine di indipendenza politica dalla linea di Matteo Renzi. Quel modello è finito».
Alla vigilia del voto, le dichiarazioni della Marson rischiano di fornire ai cittadini toscani un prezioso elemento di conoscenza: qualcosa di rivoluzionario, in una campagna elettorale singolarmente vuota di contenuti, sottotono, quasi al cloroformio. Da qui la reazione scomposta del segretario del Pd toscano (il brutale Dario Parrini), il quale si è ben guardato dal rispondere nel merito, ma ha accusato la Marson di «infelici speculazioni elettorali» (e non si capisce a pro' di chi, visto che la Marson non è candidata né sostiene alcuna lista). Ma è stato Enrico Rossi a rilasciare la dichiarazione più inquietante: «Il Piano è mio, Marson può stare tranquilla». No, caro Rossi: il Piano non è tuo. È dei toscani, è degli italiani. E dopo il «ghe pensi mi» berlusconiano, e l'uomo solo al comando renziano, in tanti speravamo proprio di non sentirti mai dire una cosa del genere.
Il programma elettorale del Pd toscano è #paesaggiostaisereno. Toscani avvisati, mezzi salvati
Come si prova - senza alcun risultato visibile a occhio nudo – ad avvertire da lustri, il modello commerciale suburbano e di libera concorrenza sul territorio lascia solo macerie ambientali economiche sociali, a brevissimo giro, altro che sviluppo. La Repubblica, 28 maggio 2015, postilla (f.b.)
MESTRE . Dal terrazzo del suo ufficio, nel parco commerciale di Porte di Mestre, Massimo Zanon vede cannibali. «Questo davanti è Auchan, centro commerciale da 39mila metri quadrati con 111 negozi, ampliato da poco più di un anno. Dall’altra parte della strada, a meno di 50 metri, hanno costruito Interspar, che vende le stesse cose di Auchan. Davanti all’Interspar sta aprendo un IperLando. Dietro quel palazzo c’è la Coop e Conforama…». Il presidente di Confcommercio Veneto li indica col dito, recitando un elenco che ormai conosce a memoria. «Decathlon, Pittarello, Mediaworld, Lidl, In’s, Obi, McDonald’s, Aumai ». Tutti qui. Troppi. «Prima hanno fatto chiudere i negozi del centro di Mestre, ora si stanno cannibalizzando tra loro. Non c’è più spazio». E, soprattutto, non ci sono più i clienti di una volta.
Caso unico in italia
Lo chiamano il “triangolo della merce”. E il parco Porte di Mestre ne è uno degli angoli. Nel raggio di dieci chilometri dall’ufficio di Zanon ci sono tre poli — a Mestre, Marghera e Marcon — sorti attorno a quattro enormi centri commerciali. Due, il Nave De Vero (55.000 mq) e il Panorama (12.000mq) di Marghera, distano duecento metri. È un caso unico in Italia. Bastano dieci minuti di macchina, percorrendo svincoli e tangenziali, per passare da uno all’altro. Attorno a questi grandi scatoloni di cemento e vetro sono spuntati una cinquantina di megastore. Altri scatoloni. Sempre le stesse 7-8 insegne delle grandi catene, sempre gli stessi prodotti. Per un bacino di utenza che non supera i 300.000 cittadini. Una densità che non ha eguali e che spinge la media veneta del consumo di superficie occupata dalla Grande distribuzione organizzata a 484,6 mq ogni mille abitanti (in Lombardia è 466,4, in Piemonte è 414,6). Dei 27.668 punti vendita italiani della Gdo (Iper e Supermercati, outlet e libero servizio) 4.791 sono in Veneto. Vanno cercate anche qui le risposte alle domande che gli operatori del settore si fanno da un paio d’anni, da quando hanno visto l’utile netto scendere sotto lo zero (—0,1 per cento nel 2013, — 0,5 per cento nel 2014): ha ancora senso aprire un centro commerciale? Quanto è grave la crisi che ha colpito il luogo simbolo del consumismo, dove si è sfogata l’ansia dell’acquisto compulsivo degli anni Ottanta e Novanta?
Negozi semivuoti
A giudicare dai corridoi semivuoti dell’ipermercato Auchan di Mestre la crisi è forte. Segna un punto di non ritorno. «Provi a contare le casse aperte», suggerisce Paolo Baccaglini, delegato Filcams Cgil impegnato in una vertenza con il gruppo francese che aveva annunciato 1.426 esuberi in 32 dei 49 centri a suo marchio, 65 dei quali a Mestre. Sono le 15 di lunedì: le casse sono 48, di cui 12 automatiche. Quelle in funzione appena 3. Il dato è suggestivo e qualche indicazione la dà. Delle due, l’una: o i clienti sono davvero pochi come sembra, oppure questo enorme contenitore di merce in vendita è fuori scala. Forse anche fuori tempo massimo, visto quello che certificano i bilanci del gruppo francese: dal 2010 al 2014 il giro di affari in Italia si è ridotto da 3,2 miliardi a 2,6 miliardi di euro. «Dopo 25-30 anni di grande sviluppo — spiega Patrick Espasa, presidente e ad di Auchan Italia — assistiamo a una fase di maturità del format ipermercato». Fuor di parafrasi, vuol dire crisi del modello centro commerciale. Dovuta a cosa? «La contrazione dei consumi, l’attacco dei punti vendita “non food”, l’esplosione degli hard discount e la diffusione della spesa via Internet». Insomma, la torta si è ridotta. E le bocche sulla piazza sono troppe.
È il cuore del centro commer- ciale a soffrire. I negozi reggono, c’è movimento soprattutto nei weekend e a pranzo e a cena nei ristoranti e nei fast food onnipresenti. «La visibilità che le mie erboristerie hanno qui — sostiene Doriano Calzavara — è dieci volte superiore rispetto a qualsiasi altro punto della città. Certo, la pago questa visibilità: 8mila euro al mese per l’affitto, la quota per l’aria condizionata, la vigilanza e la pubblicità. I centri stanno cambiando: si allargano le gallerie laterali con i negozi, si riducono gli spazi dell’ipermercato, le cassiere vengono sostituite dagli apparecchi automatici».
Accade lo stesso negli altri due poli del “triangolo della merce”. Alla Coop di Nave de Vero una cassa aperta (con sei persone in fila) su 22 totali alle 17.30 di lunedì, al Carrefour del ValeCenter di Marcon 4 casse aperte su 34 alle 18.30. Accade lo stesso un po’ ovunque, in Italia.
Lo spazio è saturo
A Cinisello Balsamo, per dire, si incontrano 17 centri commerciali in un’area che si copre in 20 minuti di macchina. Nel 77 per cento dei casi le insegne si ripetono, sono sempre le stesse: Bluvacanze, Fiorella Rubino, Intimissimi, Kasanova, Salmoiraghi, Wind, etc. Ma di clienti ce ne sono pochi in giro. Daniela Ostidich, sociologa dei consumi e dirigente della M&T, la spiega così. «Le grandi superfici di shopping funzionavano perché massificavano la merce, ma i consumatori del dopo crisi comprano solo quello che reputano giusto per prezzo, utilità e valore intrinseco: adesso vanno i mercatini online o a chilometro zero, le botteghe, i gruppi di acquisto». Dunque si frena, è inevitabile. Nel 2005 in Italia si aprivano 57 centri commerciali, nel 2014 appena 5 e siamo a quota 870. I punti vendita della grande distribuzione negli ultimi decenni crescevano sempre, sono arrivati a 29.366 nel 2011. Poi il calo, fino ai 27.668 di oggi. L’utile netto è passato dall’1,4 per cento del 2006 a - 0,1 per cento del 2013 e nel 2014 le vendite si sono ulteriormente ridotte dello 0,4 per cento. Si parla di migliaia di esuberi a Carrefour, MediaWorld, CoopEstense. «Speriamo nella ripresa. Nel Mezzogiorno per incentivare nuovi investimenti è necessario combattere la concorrenza sleale, intervenendo sull’evasione e il lavoro irregolare », è l’opinione di Giovanni Cobolli Gigli presidente di Federdistribuzione. Il format va rivisto, e alla svelta.
Sempre più grandi
Anche perché quasi mai i centri commerciali che non tirano più, chiudono. Al massimo cambiano marchio. Alle amministrazioni comunali fa comodo averli sul proprio territorio: un ipermercato di grandi dimensioni a Milano paga di Imu e tasse per i rifiuti qualcosa attorno al milione di euro all’anno. Da quando il settore è stato liberalizzato, nel 1999, le licenze edilizie sono state date a pioggia. Si è fatto costruire ovunque, anche in zone già ingolfate. E ora ci sono migliaia di contratti con i negozianti interni da rispettare. Dunque non chiudono, ma sono costretti alla metamorfosi per sopravvivere. Diventando sempre più grandi. «In futuro aumenteremo le dimensioni — è la ricetta di Patrick Espasa, numero uno di Auchan — offriremo servizi alternativi, zone wi-fi, i nostri punti vendita saranno sempre di più luoghi dove socializzare, integrandosi con lo shopping online. Non temiamo la concorrenza, ma non ci va bene la concorrenza non organizzata». Quella dei grandi scatoloni di cemento ammassati in pochi chilometri quadrati, che diventano cannibali.
Non stupiscono leattese di tutti quanti perché «una volta superata la crisi contingente» tuttotorni felice e cretinamente suicida come prima. Non stupisce, neppure, chesicuramente anche strofinando sul muso degli amministratori le centinaia diarticoli scritti tanto tempo fa, che avvertivano esattamente di questoincombente ovvio destino, la risposta sarebbe «certo all’epoca noi non potevamosapere». Quello che stupisce davvero è che non si colga – da parte di chidovrebbe rappresentarci - la logica consequenziale di un certo andamento dellecose. I pensosi manager che rispondono evasivi e settoriali alle interviste, daattenti lettori quali sono della stampa specializzata internazionale, erano benconsapevoli di cavalcare una piccola onda (quella della crescita indefinita edella polarizzazione suburbana) già ampiamente esaurita altrove, e destinata afar lo stesso anche qui. E però rivendevano ai soliti gonzi scenari di crescitainfinita, posti di lavoro a valanghe, e naturalmente un territorio dove la«esperienza dello shopping» diventava weltanschauung onnivora, sia in terminidi aspirazioni che di risorse territoriali. E poco importava che, come giàavvenuto altrove, prevedibilmente, le stesse risorse si esaurissero, in un modoo nell’altro: l’importante era incassare, e andare a raccontare ballepromozionali al prossimo sprovveduto. Tanto per timbrare il cartellinotecnico-scientifico, vorrei concludere questa postilla con lo slogan, facilefacile, del quartiere urbano multifunzionale, che è in ogni senso l’oppostoassoluto dello scatolone introverso monouso posato su spazi aperti extraurbani.Ecco: distinguere fra queste due distinguibili entità, sarebbe piccolo segno dibuona fede, perlomeno di «non potevamo sapere, ma ci siamo mossi con prudenza».Oppure avanti così, alla prossima sorpresa che non è tale, di crisi ciclica delcentro commerciale (f.b.)
Siamo tutti annichiliti dalla bestialità con cui l'Is distrugge lo straordinario patrimonio culturale dei territori che conquista. È probabilmente dalla Seconda Guerra Mondiale che l'umanità non perde monumenti così importanti.
«Esperienze esemplari e ripetibili di trasformazione nei modi di produzione e nelle relazioni all’interno degli spazi in cui si svolge la vita delle comunità». Un nuovo libro liberamente disponibile di Luca Martinelli
Dall'inedita convivenza con animali strappati al classico ruolo di produttori di alimenti e servizi alle persone, alle produzioni agricole sostenibili e integrate al territorio, per il mercato ma secondo criteri innovativi e a mille miglia dalla logica agroindustriale, alle evoluzioni di pubblica utilità e legittimazione del classico guerrilla gardening conflittuale e molto altro, il mosaico pencola però pericolosamente nel vuoto. Non tanto per l’assenza di una visione complessiva, che c’è ed è pure evidente, ma quando ribadisce l’alterità rispetto allo stato attuale delle cose, quando afferma (come nell’intervista al vegano coerente a p. 14: «Abbiamo fatto una scelta anti-economica, dettata da una spinta etica». L’ex ministro Tremonti, a gran parte del mondo insieme a lui, qui potrebbe sibilare con qualche fondamento che «la spinta etica non si mangia». E infatti ogni pagina di questi spaccati biografici e di esperienze sottende la ricerca di sostegni esterni, prive come sono le esperienze di qualsiasi autosufficienza diversa da quella culturale ed etica.
Con aspetti anche vagamente surreali, come quando l’istituzionalizzazione del guerrilla gardening si scontra giusto all’interno dell’istituzione con altre più correnti strategie di classica città giardino, ovvero dove al massimo si persegue un ragionevole rapporto fra spazi aperti verdi e edificazione, ovvero valori immobiliari e ciò che ne consente e favorisce un portato sociale e collettivo. Fine del laboratorio-museo-parco eccetera? Probabilmente, e auspicabilmente, no, sempre che gli appoggi esterni istituzionali credano nelle potenzialità di questo tipo di esperienze etico-antieconomiche (almeno nella logica attuale), e invece di mirare ad assimilarle sappiano promuoverne lo spirito sperimentale e innovativo. Come quando uno degli intervistati osserva, raccontando la vita degli animali liberati dal giogo dell’utilitarismo spinto: «Nessuna facoltà di veterinaria si è mai occupata di studiare gli effetti degenerativi della vecchiaia sugli animali, si occupano solo del loro utilizzo». Cosa possono darci, in termini di conoscenze e contributi anche attivi al progresso, questi cugini vicini e lontani? Tutto da capire ancora, ma si intuisce quanto ricche possano essere le prospettive.
Luca Martinelli, Riconversione: (ri)facciamo la pace, Altreconomia-Associazione Sabrina Sganga (pdf liberamente scaricabile) 2015
Corriere della Sera Lombardia, 27 maggio 2015, postilla (f.b.)
Da 22 mila vetture in transito domenica 16 maggio, primo giorno, alle 43.500 di picco registrato venerdì. La Teem fa il botto e dopo una settimana già mostra i suoi effetti: Tangenziale Est liberata e più 35 per cento sulla Brebemi. Partenza col botto, per la Teem: inaugurata sabato 16 maggio, è già arrivata a una media giornaliera di 40 mila veicoli che scelgono il suo asfalto e migliora via via, dando ossigeno anche alla Brescia-Bergamo-Milano. Autostrada, quest’ultima, che a un anno di vita dava ancora risultati deludenti e adesso forse prende la strada del riscatto: le ultime statistiche descrivono un aumento di traffico del 35 per cento. Risultati sopra le attese per entrambi i tracciati. La nuova Tangenziale est esterna — che collega la A4 ad Agrate e la A1 a Melegnano — puntava a 25 mila-28 mila vetture nei primi mesi e 55 mila da settembre in poi. Mentre l’obiettivo di Brebemi, che sta per inaugurare anche la bretella di collegamento tra l’area del cremasco e Romano di Lombardia (in provincia di Bergamo) era di 28 mila (dagli attuali 20 mila veicoli), con prospettiva di arrivare a 40 mila a fine 2016, se verrà completato il tratto verso Brescia.
L’area metropolitana
La sfida, per Teem, è chiara: decongestionare il traffico Est-Sud della Grande Milano intercettando i flussi di auto dell’anello più interno. Resta solo un’incognita, quella dei costi: le tariffe, come per l’autostrada che attraversa la bergamasca, sono più alte (5 euro la media «scontata», contro i 3,euro 6 della «vecchia» Tangenziale Est). E gli utenti, che per la maggior parte pagano con il Telepass, visualizzeranno la sorpresa a fine mese. Il gioco, per loro, varrà la candela? Ovvero: la maggior spesa sarà compensata dal guadagno in termini di tempo (e carburante)? I conti sono presto fatti: la vecchia autostrada, spesso congestionata, ha una percorrenza di 25-60 minuti; la nuova dovrebbe garantire lo stesso tragitto in meno di un quarto d’ora. Da qui devono partire le considerazioni. Soddisfazione, tutto sommato, per le aziende. Ma per la massa dei pendolari, principale mercato cui si rivolge la struttura? I prezzi più alti, dopo la prima fiammata, scoraggeranno gli automobilisti e avranno la meglio sui tempi di percorrenza più veloci? Il rischio c’è. Remoto però, sostiene più d’uno: si pensi all’Alta velocità ferroviaria (costi triplicati rispetto al treno ordinario, eppure linee sempre affollate).
Le analisi economiche
«È una boccata d’ossigeno per la Brebemi. Una risposta ai suoi detrattori e ai catastrofisti che in questi mesi parlavano di opera inutile», si è lasciato andare a questi primi dati l’assessore regionale alle Infrastrutture e Mobilità, Alessandro Sorte. E parole soddisfatte arrivano anche dal presidente della società inaugurata nel luglio 2014, Francesco Bettoni: «Siamo finalmente nel sistema autostradale nazionale, i dati sono estremamente positivi. Aumentano sia le auto sia i furgoni e i camion. E cresceremo ancora — è l’auspicio del manager — con l’apertura delle prossime interconnessioni. Ecco la lungimiranza del progetto Regionale di ridefinizione del sistema autostradale lombardo. A tutto vantaggio della qualità della vita per chi nel territorio vive e lavora, della sicurezza, e della competitività delle piccole e medie imprese che si trovano a sud est di Milano».
Inaugurata nel primo weekend con 22 mila veicoli, la Teem venerdì — giorno strategico anche per BreBemi — ha toccato un picco a 43.500, per poi scendere a 41 mila lunedì. Un veicolo su quattro, si calcola, è camion, furgone o tir. Per Brebemi, che conta sui sette giorni una media di 20 mila veicoli (14 mila nei fine settimana), era partita con un più 10 per cento già sabato 16 maggio. Poi, anche per lei, lo sprint: più 35 per cento. E il flusso potrebbe diventare più consistente se, come da piano, agli impiegati e ai professionisti diretti a Milano si uniranno artigiani e piccoli imprenditori.
Sui social network
Fino a dieci giorni fa tra la Brescia-Bergamo-Milano e Teem era aperto solo il cosiddetto «arco», per convogliare il traffico verso le nuove superstrade Paullese e Cassanese. Ora, l’alternativa alla «vecchia» tangenziale c’è. Realizzata in 32 mesi, nei tempi previsti, e con 2,2 miliardi di spesa, da soggetti privati, in particolare il gruppo Gavio e Intesa San Paolo, Teem oltre al tracciato principale prevede 38 chilometri di strade provinciali e comunali e altri 30 di piste ciclabili. La pubblicità, per ora, corre solo sulle emittenti locali e sulle radio. Nessun gran battage. Ma c’è il passaparola. E ci sono i social network. Su Twitter, il topic Teem è balzato in pochissimi giorni tra i primi cinque su scala nazionale.
postilla
Evaporate nel nulla, le sprezzanti critiche al sistema autostradale lombardo promosso (e spudoratamente rilanciato) dal governo locale di centrodestra? Perché come prometteva qualche mese fa Roberto Maroni, dopo aver inaugurato il tentennante segmento di Bre.Be.Mi. tanto ridicolizzato per le corsie deserte, la rete deve entrare a regime per funzionare. In questa logica, ovviamente perversa ma tant’è, tutto si tiene: centralità dei trasporti privati su gomma, e relativo «sviluppo del territorio» il quale sviluppo per inciso rafforza i poli di attrazione per il medesimo traffico, attirandone di nuovo. E figuriamoci se, come nelle implicite premesse, l’anello esterno completo accennato da Pedemontana, Teem, Magenta-Malpensa e dal vagheggiato segmento da Melegnano attraverso Binasco dovesse «entrare a regime» pure lui. In sostanza, nella famosa logica della Città Infinita avremmo un compatto (in senso edilizio) comune allargato di Milano con diversi milioni di abitanti, invivibile, insostenibile, ma perfettamente in linea con quel «trionfo della città» alla Edward Glaeser, che si legge nei bilanci economici. In tutto questo, al momento, pare tacere il pensiero progressista: che dicono ad esempio i partiti del centrosinistra, o se è per questo della sinistra sinistra? Nebbia in val padana (f.b.)
Ieri ha tagliato l’ultimo nastro a Como, per la consegna di 2,4 chilometri della nuova Tangenziale, felice come una pasqua. Qualche giorno fa, il 16 maggio, nell’annunciare il maxi piano di 37 opere prioritarie per la mobilità – dove, di nuovo, le autostrade fanno la parte del leone – ha buttato lì la battuta da bauscia, davanti al ministro Del Rio: «Visto che le cose le sappiamo fare e rispettiamo i tempi previsti ci candidiamo a realizzare altre grandi opere, come magari la Salerno-Reggio Calabria». Roberto Maroni è preda del demone autostradale.
Ovvero di quell’idea nefasta, nonché obsoleta, che il progresso di un territorio si misuri nella quantità di chilometri e corsie a disposizione del traffico privato. Il governatore leghista non ha dubbi in proposito. Anche se l’ultima creatura del partito autostradale lombardo, la sciagurata Brebemi, ha le corsie vuote e il bilancio spaventosamente in rosso. Anche se è un flop colossale costato già alle casse pubbliche 300 milioni di euro (denari della Regione dello Stato per evitarne il fallimento, appena nata), Maroni scrolla le spalle e va avanti. Il maxipiano sulle infrastrutture presentato al governo è, a proposito, un documento impressionante quanto a protervia e incapacità di visione, e di conseguenza di programmazione, sul futuro della Lombardia. Maroni batte cassa al governo per asfaltare tutto l’asfaltabile. Di più: ripresenta come opera prioritaria la più inutile e avversata delle autostrade programmate in Lombardia, la leggendaria Broni-Mortara.
E si permette di chiedere al governo di «favorire una positiva conclusione della procedura d’impatto ambientale nazionale in corso al ministero dell’ambente ». Ovvero di interferire in una procedura tecnica, cosa che un governo degno di questo nome non dovrebbe mai fare, oppure – si dovrebbe dedurre – di tacitare i noiosi oppositori della “grande opera” (praticamente tutti, da Broni a Mortara) con qualche compensazione economica. Non basta, perché se la Broni- Mortara è la più inutile autostrada dell’ Occidente, al secondo posto ecco la Cremona-Mantova. Qui, in qualche modo, l’indemoniato Maroni addirittura si supera. Perché uno dei capi della protesta contro questa “highway” della Bassa, che taglierebbe per oltre 80 chilometri una campagna straordinariamente produttiva, e ancora non sconciata, è nientemeno che il suo assessore all’agricoltura Gianni Fava.
Quarantasetteanni, leghista della prima ora, piccolo imprenditore di Viadana, deputatodimessosi per fare l’assessore con Maroni, Gianni Fava dichiara che per fare laCremona-Mantova «dovranno passare sul mio cadavere. Ho detto basta al consumodi suolo per opere inutili e la Cremona- Mantova lo è». Quel che appare certo èche Maroni nemmeno si è preoccupato di chiedere un parere ai suoi. D’altrondela testardaggine del presidente per le autostrade è tale da far pensare chenemmeno si sia accorto, ad esempio, che nelle prime tre settimane di Expo ivisitatori siano andati a Rho-Pero in metrò, treno, pullman, moto e persinobici. E praticamente mai in auto. E che nemmeno si sia accorto che in Italia,in Lombardia e a Milano si vendano e si usino sempre meno automobili. Persinomeno che nel resto d’Europa, dove hanno smesso da un pezzo di sognare nuoveautostrade.
La Repubblica, 24 maggio 2015
Sono parole che ci hanno fatto pensare che Pompei fosse un’”emergenza” (magari per giustificarne il commissariamento da parte della Protezione Civile) o un «tesoro» (che potesse legittimare faraonici progetti di luna park dell’archeologia, e speculazioni di ogni tipo). Trovare altre parole per Pompei è urgente: tanto da far accogliere con grande favore persino una mostra, nonostante che il desiderio di una moratoria assoluta delle esposizioni si faccia acutissimo nel momento in cui tonnellate (letteralmente) di opere d’arte vengono irresponsabilmente tradotte al gran bazar dell’Expo.
Ma «Pompei e l’Europa» è un’altra cosa. Perché dietro c’è un solido progetto culturale e scientifico: un primo frutto intellettuale del governo affidato al generale Giovanni Nistri (direttore del Grande Progetto Pompei) e all’archeologo Massimo Osanna, soprintendente e ora curatore di questa mostra insieme alla storica dell’arte Maria Teresa Caracciolo e allo storico dell’architettura Luigi Gallo.
La mostra non vuole sciorinare i “capolavori” restituiti dalla terra che copriva Pompei, né esserne una sostituzione, un succedaneo commerciale da far girare per il mondo (come è invece accaduto anche molto di recente). È, invece, un invito a ritornare nelle strade della città antica, o ad andarci per la prima volta: ma vedendola attraverso gli occhi dei pittori, degli architetti e degli scrittori europei che la amarono dal tempo della sua scoperta, alla metà del Settecento, fino al terribile bombardamento del 1943. Nel 1839 l’architetto tedesco Johann Daniel Engelhardt affermava che «un giovane architetto dovrebbe assolutamente visitare Pompei, anche se questa si trovasse in Giappone». Visitare la mostra significa ritrovare le parole con cui l’Europa, per due secoli, ha parlato di Pompei: per poterle ritessere in un discorso nuovo.
La prima di queste parole è «contesto». Nel 1747 fu il grande antiquario veronese Scipione Maffei a intuire perché la scoperta di Pompei fosse un evento fuori scala: «O qual grande ventura de’ nostri giorni è mai che si discopra non uno ed altro antico monumento, ma una città!». Riavere Pompei significava conoscere l’antichità non attraverso una somma di oggetti disparati, ma poter camminare, respirare in una città antica “resuscitata”. Ci volle un secolo, e il genio di Giuseppe Fiorelli, perché questo diventasse possibile: ma intanto Pompei aveva fatto capire che il patrimonio culturale è una rete di relazioni che va conosciuta tutta intera. Quando, cinquant’anni dopo, Napoleone smontò il contesto vivo dell’arte italiana per portarne il fior fiore al museo imperiale del Louvre, un grande intellettuale francese — Antoine Quatremère de Quincy — gridò che «il paese stesso è il museo... senza dubbio non crederete che si possano imballare le vedute di Roma!». Era la lezione di Pompei: una lezione che oggi abbiamo dimenticato.
La seconda parola, tutt’altro che banale, è «conoscenza». Di fronte alle lettere in cui il grande Winckelmann denunciava gli errori delle autorità napoletane, tutta l’Europa colta — la Repubblica delle Lettere, come si diceva allora — rivendicò la sovranità della conoscenza contro quella giuridica della dinastia borbonica: Pompei apparteneva a tutti coloro che la volevano conoscere. Ancora oggi è urgente chiedersi “di chi è Pompei”, e ancora oggi è rivoluzionario rispondere che è di chi la studia, aprendone a tutti la conoscenza.
Un’altra parola terribilmente urgente è «lavoro». Il 20 dicembre del 1860 il grande soprintendente Giuseppe Fiorelli (l’inventore del nuovo metodo per ottenere i celeberrimi calchi dei corpi dei pompeiani: calchi restaurati, e resi nuovamente visibili, in occasione della mostra) annota di aver scritto ai «sindaci dei comuni vicini, onde tutte le persone bisognevoli di lavoro fossero inviate agli scavi, riservandomi di determinare il numero dei lavoratori». Quella era la manovalanza degli scavi: ma quanto lavoro — a partire da quello per i nostri famosi cervelli in fuga — potrebbe oggi dare una Pompei che torni ad essere una città aperta della ricerca!
Potrà sorprendere, ma un’ultima parola che scaturisce dalla città morta è «politica». Nel 1848 «i custodi delle rovine di Pompei, usati a vivere taciturni tra gli squallidi avanzi di un popolo che da 18 secoli è scomparso dalla terra, hanno ivi giurato fedeltà al Re e alla costituzione con un grido che rimbombando fra queste solitudini troverà un’eco nel cuore di tutti gli italiani, della cui antica gloria, potere e indipendenza qui gelosamente conserviamo molte sacre reliquie».
Un caso esemplare di danni dell’imbecillità amministrativa nella gestione del territorio, ben oltre gli aspetti criminali di infiltrazione che ahimè piagano certe trasformazioni metropolitane da tempo. Corriere della Sera Lombardia, 24 maggio 2015, postilla (f.b.)
Muggiò - Un campus universitario; un parco giochi per i bambini; una cittadella dello sport; un outlet che promette di salvare pure le sale cinematografiche. Per il Magic Movie Park, la multisala più sfortunata della Brianza, un ritorno al futuro sembrava impossibile. E invece ora, sul tavolo del sindaco di Muggiò, Maria Fiorito, ci sono ben quattro progetti. «Sono uno più bello dell’altro — commenta —. E tutti offrono una certezza: riusciranno a integrare in modo armonioso un enorme “scatolone” di cemento armato di 25 mila metri quadrati con quello che lo circonda: il Parco del Grugnotorto, un’area naturale protetta. E nemmeno un centimetro in più sarà rubato al verde».
Il conto alla rovescia per la nuova asta è iniziato. E, quando tra poche settimane sarà fissata, «siamo fiduciosi — assicura Fiorito — che su uno dei capitoli più tormentati della storia recente della Brianza, si volterà pagina». Certo, guardando oggi quel che resta del Magic Movie Park, un domani che non sia la demolizione sembra impossibile. Quello che era stato uno dei multiplex più attrezzati e avanzati della Brianza, è ridotto a una «città fantasma». Faccendieri cinesi e napoletani hanno portato alla chiusura del cinema, precipitato in uno dei più rovinosi crac finanziari della Brianza. Ma ora, all’opera di imprenditori senza scrupoli si è aggiunta quella dei vandali che stanno distruggendo l’ex multisala. Sull’area all’aperto dove c’erano la piscina, i laghetti per la pesca e una palestra en plein, ora c’è una vera e propria discarica a cielo aperto. Sulle piste su cui si faceva sport all’aria aperta, ora ci sono quintali di rifiuti. Gli ampi parcheggi sono stati riconquistati dalle sterpaglie.
Ma una desolazione ancora più grande regna all’interno. Una volta c’erano 15 sale cinema, una per i film d’autore, due sale per spettacoli teatrali per corsi di recitazione, spettacoli di burattini, presentazioni di libri, ristoranti bar, sale giochi, le vetrine dei negozi. Ora ci sono solo vetri in frantumi, mobili sfondati, muri imbrattati, porte sfondate. Un vero e proprio luna park per bande di teppisti notturni, che si aggirano per gli immensi spazi vuoti, spaccando tutto quello che capita loro a tiro senza che nessuno li fermi. Le scale mobili sono distrutte, e perfino le sale cinema sono state deturpate e ridotte a tristi magazzini impolverati. Un «cimitero del cinema», abbandonato da quasi dieci anni. «Pensare a un riutilizzo per un “non luogo” come questo non è stato facile — spiegano i curatori fallimentari — . Ma non è stato possibile fare miracoli. Per attrarre operatori commerciali è stato necessario in pratica regalare l’ex cinema.
Alla prossima asta, una struttura che era costata 60 milioni sarà battuta ad appena tre milioni di euro». Una somma ridicola per una multisala da 4100 posti la cui sola area parcheggi è vasta oltre 37 mila metri quadrati. Alla prima asta, l’immobile fu proposto a 30 milioni. Risultato: zero compratori. Ora, quasi «regalandolo», si spera di trovare un acquirente. Il prezzo è ghiotto. Ma chi lo acquisterà dovrà ristrutturare da cima a fondo un immobile semi distrutto. E poi ci sono i debiti: un buco di 52 milioni di euro.
postilla
Questa vicenda, come tante altre, merita qualche complemento informativo di carattere generale che suona più o meno al solito: bastava ascoltare chi ne capisce, maledetti idioti! Perché l’operazione dai soliti contenuti di scambio urbanistici-economico-occupazionali e livello minimo pareva da subito caratterizzata anche da notevole ingenuità, come del resto tante altre legate ai grandi contenitori commerciali.
Ovvero si riponeva una disinformata fiducia (ripeto, al netto dei risvolti criminali) in questo formato rigido del multisala, analogo agli altri che si chiamino outlet, retail park e compagnia bella. Semplicemente, come indicano da lustri le tendenze dei contesti dove i grandi contenitori commerciali suburbani hanno più sedimentazione, la vita funzionale dei colossi è molto breve, bisogna da subito pensare sui tempi lunghi a funzioni e attori in grado di garantire l'inevitabile riuso evitando vuoti e degrado, e comunque nel terzo millennio della scarsità di suolo agricolo e spazi aperti puntare su nuove urbanizzazioni, in una superficie a parco metropolitano (teoricamente inclusa nella sottile delicata discontinua greenbelt settentrionale milanese), pare davvero fuori luogo. E invece, a furia di leggere i conflitti del commercio soltanto in termini di prezzi e guerre di basso profilo fra supermarket e bottegai dell’angolo, si combinano anche pasticci del genere. In cui, è il caso di aggiungere, poi gli interessi illeciti e la criminalità organizzata volendo trovano sempre il modo di inserirsi, come in tutte le strategie deboli (f.b.)
Qualche anno fa (14 agosto 2009) avevamo pubblicato su eddyburg un antico scritto di Luigi Scano che ripresentiamo adesso per la sua sconvolgente attualità. In calce, una postilla
Dall’Egitto a Venezia, proposte vecchie e nuove per governare il turismo, un fenomeno sempre più devastante
Assai recentemente, Paolo Rumiz raccontava (“Egitto, le tombe proibite”, in la Repubblica, 3 dicembre 2006) di avere visitato alcune magnifiche tombe, precluse all’accesso da molti anni, o da molti decenni, nelle Valli dei Re, delle Regine e dei Nobili, nella zona di Luxor, in concomitanza con alcune operazioni attuative di un imponente progetto di riproduzione fotografica ad altissima definizione degli interni, e soprattutto delle pitture murali, della totalità delle tombe delle suddette necropoli. Tale progetto, riferiva il giornalista essergli stato spiegato da Zahi Hawass, segretario generale del Supreme Council of Antiquities del Cairo (una specie di soprintendente archeologico nazionale, a quel che è dato capire), è parte essenziale di un più complessivo programma di riproduzione, monitoraggio, messa in sicurezza (anche attraverso la sottrazione alla fruizione turistica, e comunque generalizzata), di tutte le tombe costituenti il patrimonio archeologico egiziano.
Ciò in un Paese, l’Egitto, che, a differenza di buona parte degli altri Paesi della stessa area geografica, non possiede rilevanti risorse naturali (quali innanzitutto il petrolio), e per il quale “il turismo” costituisce non soltanto la prima “industria”, ovvero la prima (con colossali distanze da tutte le altre) fonte di valore aggiunto, e di reddito, ma addirittura l’attività decisiva allo scopo di mantenere le grandi masse popolari ivi abitanti (appena) al di sopra della soglia della più nera povertà e della fame.
Evidentemente, Zahi Hawass, e i dirigenti politici e istituzionali egiziani che gli forniscono supporto, e autorità, hanno ben inteso la “radicalità” che sarebbe pretesa da una coerente interpretazione, e applicazione, di quel principio della “sostenibilità dello sviluppo” che, al contrario, fornisce mera occasione di vaniloqui retorici, e di gargarismi demagogici, a tanta parte dei dirigenti politici e istituzionali italiani (non mi pronuncio su quelli degli altri Paesi dell’opulento Occidente), vale a dire di uno degli otto Paesi maggiormente “industrializzati” (checché ciò voglia dire) del mondo.
Per fare un esempio (tutt’altro che casuale, ma intenzionalmente e faziosamente prescelto, epperaltro, ahimé, nient’affatto connotato da eccezionalità, o da semplice rarità, neppure rispetto all’universo dagli enti locali amministrati dal “centrosinistra”) a Venezia si discetta, oramai, da qualche mese, circa le migliori soluzioni tecniche idonee a porre a carico dei fruitori turistici della città storica lagunare (direttamente, o attraverso l’incremento di talune esazioni gravanti sugli operatori del settore) una quota, più o meno consistente, dell’aumento, addebitabile ai medesimi fruitori turistici, delle spese correnti che devono essere sostenute, dal Comune e dalle aziende strumentali che a esso fanno riferimento, per l’erogazione dei più diversi servizi, e per la manutenzione urbana (per non dire di quelle riconducibili alla cosiddetta “promozione”, nell’accezione più ampia, del turismo, e pertanto interamente finalizzate a vantaggio dei turisti, o, meglio, degli appartenenti alla cosiddetta “filiera turistica”, cioè di tutti coloro che dal fenomeno turistico ricavano profitto, e senza neppure prendere in considerazione il fatto che almeno una parte delle spese per investimenti è condizionata, nella qualità e nella quantità delle opere da realizzare e dei beni da acquistare, e quindi nei costi, dall’esistenza e dall’entità del fenomeno turistico).
Ma tutto il dibattito è stato rivolto all’individuazione delle soluzioni (ritenute) più efficaci, quanto a celerità e a certezza, allo scopo di “fare cassa”, assumendo il duplice vincolo da un lato di non fare gravare troppo gli extracosti generati dal fenomeno turistico sui redditi, non derivanti dallo stesso fenomeno, di quella che, comunque e per ora, resta la larga maggioranza dei residenti nell’intero Comune di Venezia, dall’altro lato di non ledere, se non marginalmente e inavvertibilmente, gli arroccatissimi e fortificatissimi interessi delle categorie, delle sotto-categorie, dei gruppi, dei soggetti, individuali e societari, che, per lucrare sulla fruzione turistica della città storica di Venezia e della sua laguna, da anni e da decenni stanno, come locuste predatorie e voraci, sfregiando, sconciando, divorando, consumando l’una e l’altra.
Mentre si è scartata a priori la scelta di riprendere, e di approfondire, le soluzioni funzionali piuttosto (pur se comportanti anche introiti alle esangui -??? - casse pubbliche locali) a costruire un complesso sistema di regolazione della fruizione turistica della città storica e della laguna (nel cui contesto un elemento irrinunciabile sia la regolazione programmata dell’entità dei flussi turistici, basata innanzitutto sulla possibilità/obbligo di prenotare la fruizione).
Eppure non soltanto gli ora richiamati obiettivi, ma anche le molteplici azioni, e i plurimi interventi, finalizzati al loro perseguimento, erano già, rispettivamente, proclamati e motivati (sotto il profilo dei principi universali, e sotto quello della lettura delle situazioni locali), ed esposti e specificati, nel progetto di “piano comprensoriale” della laguna e dell’entroterra di Venezia varato all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, e integrato dalle osservazioni del Comune di Venezia votate circa un biennio appresso, nonché, con ulteriori specificazioni, nel “piano programma 82/85” dello stesso Comune di Venezia, fortissimamente voluto, e capillarmente curato, dall’allora vice-sindaco Gianni Pellicani (che gli attuali amministratori comunali tanto più trasformano in quel “santino” ch’egli assolutamente non era, quanto più ne tradiscono gli ideali, i principi, le convinzioni).
Eppure, dopo di allora, l’entità e la tipologia della fruizione turistica della città storica e della laguna si sono, rispettivamente, ingigantite e pervertite oltre le più pessimistiche previsioni, sicché, tanto per dirne una, il numero medio giornaliero di presenze nella città storica è oramai poco meno che doppio rispetto a quello che era stato stimato rappresentare il limite di soglia della “sostenibilità socio-economica” negli studi commissionati dal Comune di Venezia all’Università di Ca’ Foscari, alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, per valutare gli impatti prevedibili dell’ipotesi di realizzare nell’area veneziana l’”Expò 2000”.
Eppure le opzioni da assumere, e le politiche (di lunga lena, certamente) da attuare, per preservare, nell’interesse dell’intera umanità, presente e futura, il patrimonio costituito dall’integrità fisica e dall’identità culturale della laguna veneziana e dei suoi insediamenti umani, urbani ed extraurbani, sarebbero (per ora) estremamente meno drastiche di quelle che si accingono a intraprendere i responsabili tecnici e i decisori politici egiziani. A Venezia, infatti, nessun sito dovrebbe essere totalmente precluso, mentre di molti (e quindi della città nel suo complesso) si dovrebbe “prenotare” la fruizione: avendone, in contraccambio, la possibilità di fruire dei suoi autentici valori di “bene posizionale”, e non del loro squallido surrogato (con un potenziale slogan pubblicitario: la possibilità di fruire di Venezia e della sua laguna, se non proprio come Johann Wolfgang Goethe, almeno come il Gustav von Aschembach di Thomas Mann).
Ciononostante: nulla. Un intero gruppo dirigente comunale, appecoronato davanti agli interessi delle locuste, predica (e, quel che è peggio, pratica) la crescita illimitata della fruizione turistica. Cioè la distruzione, prima o poi anche materiale, del capitale fisso sociale su cui si basa una rilevantissima attività economica (la riduzione, e quindi l’annullamento, dei valori su cui si fonda la produttività del medesimo capitale interverrebbe assai prima). Si tratta del cieco inseguimento di un necessario suicidio di massa, come nel modello comportamentale dei lemming scandinavi? ma vogliamo scommettere che, alla fine, le locuste non si getteranno nel mare?
P.S. Poiché, parlando delle locuste, ho fatto d’ogni erba un fascio, mi sembra doveroso ricordare, con immenso rimpianto, l’albergatore, e per molti anni presidente degli albergatori veneziani, Ugo Samueli, che perorava le mie stesse finalità di razionamento programmato della fruizione turistica di Venezia, e che funere mersit. Per il vero, ricordo la condivisione delle medesime posizioni anche da parte di qualche altro soggetto, ma poiché si tratta di viventi, non vorrei esporli alle ritorsioni dei predetti appartenenti alla famiglia degli acrididi.
postilla
Non sappiamo se questo testo sia stato pubblicato o no. L'avevamo trovato, qualche anno fa, nell'archivio personale di Gigi, ma senza indicazioni sulla sua pubblicazione cartacea. Neppure abbiamo trovato testi suoi che illustrino la sua proposta, cui fa cenno nel suo scritto del 2006, che definiva "razionamento programmato dell'offerta turistica".
Una interpretazione economica e post-crisi della ripresa automobilistica lascia forse troppo poco spazio al vero spunto nuovo, sociale e tecnologico, così importante per le discipline urbane. La Repubblica, 21 maggio 2015, postilla (f.b.)
Sarà connessa, economica, automatica. Soprattutto utile. La crisi ha cambiato il nostro rapporto con le quattro ruote. Oggi che le vendite tornano a salire anche in Italia (segno di una piccola ripresa dopo la crisi) scopriamo che nulla sarà più come prima. Che l’auto-identità, l’auto simbolo di benessere, l’auto che ti colloca in un preciso scalino della piramide sociale, sta lentamente tramontando. Finisce un’epoca e se ne apre un’altra: quella dell’auto “prendi e lascia”, dell’auto strumento e non oggetto di desiderio. Fino alla clamorosa scomparsa del volante, scenario non più tanto futuribile che cambierà per sempre il senso del verbo guidare: da attivo a passivo. Sarà l’auto che si guida da sola. Nel futuro sparirà anche la patente?
I dati del mercato italiano parlano di una ripresa impetuosa delle vendite. Sono salite del 24 per cento ad aprile, erano cresciute a due cifre anche nei mesi precedenti. La rincorsa italiana era iniziata nella seconda metà del 2014. L’anno nero è stato il 2013: 1,3 milioni di auto immatricolate, quasi la metà del livello del 2007 che aveva portato l’asticella a 2,5 milioni, l’anno. Un vero exploit che aveva fatto a pezzi i precedenti record degli anni 60 e 70, quelli del boom economico, della Fiat 500, della motorizzazione di massa. Poi, dopo la vetta, il precipizio. Gli impiegati di Lehman Brothers impacchettavano i loro scatoloni e i concessionari hanno cominciato ad abbassare le saracinesche. La crisi ha colpito tutti, privati e enti pubblici. Tra il 2007 e il 2013 le vendite di camion e autobus si sono ridotte da 283 mila all’anno a 117 mila. Anche i Comuni hanno finito i soldi e i mezzi pubblici non sono stati sostituiti. Il quadro generale dei sette anni di vacche magre lo propone Gian Primo Quagliano, presidente del Centro Studi Promotor: «Gli italiani hanno risparmiato tenendo le auto in garage. Ma non le hanno vendute. Hanno scelto di usare un po’ di più i mezzi pubblici. La riprova? In tutto questo periodo, mentre crollavano le vendite di auto nuove, il parco circolante italiano è rimasto praticamente intatto tra i 36 e i 37 milioni di autovetture ».
Vecchia, tossicchiante e magari più inquinante di un tempo, ma la cara auto di proprietà ha resistito. E anche quelle recenti sono state utilizzate con grande parsimonia. Un’auto nuova acquistata nel 2000 percorreva in media 12.800 chilometri nel primo anno se alimentata a benzina e 25.400 se diesel. Nel 2013 l’auto a benzina nuova percorreva nel primo anno 9.900 chilometri e quella diesel 19.100 Eppure, anche oggi che le vacche magre sembrano alle spalle, qualcosa è cambiato per sempre. La modifica più vistosa è l’uso che delle automobili fanno le nuove generazioni. I dati dell’Unrae, l’associazione dei costruttori stranieri in Italia, dicono che negli ultimi anni i giovani e i semigiovani hanno significativamente ridotto l’acquisto di auto nuove. «I giovani - dice Quagliano - sono stati più colpiti dalla disoccupazione e dalla precarietà del lavoro. Spesso non possono permettersi di comprare l’utilitaria a rate perché nessuno fa credito a chi non ha una busta paga sicura. Così capita che si intesti l’auto ai genitori o addirittura ai nonni». Risultato: nel 2005 i ragazzi tra i 18 e i 29 anni acquistavano il 13,8 per cento delle vetture nuove mentre gli over 65 comperavano il 9,4 per cento. Nel 2014 i ruoli si sono invertiti: i giovani hanno acquistato l’8 per cento delle auto nuove e gli anziani il 15,8.
Oltre all’effetto precarietà, interviene sulla scelta dei ragazzi quella che Vanni Codeluppi, so- ciologo dei consumi, chiama «la perdita del ruolo identitario dell’automobile. Nonostante gli sforzi delle case per rendere comunque appetibili i loro nuovi modelli, è passata nelle giovani generazioni dell’Occidente l’idea che l’auto è un mezzo di trasporto non ecologico e molto dispendioso dal punto di vista energetico. I ragazzi hanno oggi una idea profondamente diversa della mobilità. Vivono in un mondo connesso in cui è sempre meno necessario recarsi fisicamente in un luogo per agire e comunicare. E anche quando la Rete non è più sufficiente e bisogna davvero spostarsi fisicamente, ci sono molti modi alternativi all’auto, soprattutto nelle grandi città. L’auto è stata uno status symbol tra gli anni 60 e 80 in Italia. Poi è diventata un prodotto maturo e oggi direi che è ormai più che maturo, destinato a un lento declino ». Eppure le cifre del mercato sembrerebbero dire il contrario. Non tanto per i dati della ripresa europea, che sta sostanzialmente recuperando, e solo in parte, il terreno perduto negli anni bui della crisi. Ma per quello che accade a livello mondiale dove il totale delle auto vendute (siamo intorno gli 80 milioni) è in continua crescita, soprattutto per effetto dell’espandersi dei nuovi mercati. «Questo è vero - ammette Codeluppi - ma dobbiamo considerare che i cinesi stanno vivendo ora la fase in cui l’automobile è il simbolo del risveglio dell’economia, della nuova ricchezza di chi la possiede. Diciamo che nei Paesi emergenti si sta verificando sul piano simbolico ciò che da noi era accaduto nella seconda metà del Novecento».
Se c’è un nuovo modo di considerare l’auto, il mercato sta adattandosi rapidamente. Il primo segnale di cambiamento è quello della scelta dei carburanti. Il passaggio dalla benzina al diesel era già avvenuto negli anni 90 quando era stata ridotta la tassazione sul gasolio e aveva motivazioni essenzialmente economiche. Oggi nella scelta pesa ancora il ragionamento sui costi ma incide anche una diversa coscienza ecologica. Dal 2011 al 2014 tra le nuove auto vendute, quelle diesel sono rimaste ferme intorno al 55 per cento del mercato. E’ invece crollato il numero di vetture nuove a benzina, passate dal 39 al 29 per cento, è triplicato il numero delle auto alimentate a gpl (dal 3,2 al 9,2) ed è raddoppiata la percentuale del metano (dal 2,2 al 5,3). «Va osservato - dice Quagliano - che le auto ad alimentazione alternativa hanno una tassazione sui carburanti molto bassa o addirittura inesistente. Se il trend proseguirà, lo Stato dovrà risolvere il problema delle minori entrate». Troppo virtuosi? Secondo i dati del Centro Promotor, sui 62,5 miliardi di carburante spesi dagli italiani nel 2014, 36,1 sono finiti nelle casse del Tesoro. Nel futuro senza benzina e gasolio una buona fetta di quei 36 miliardi rischia di andare in fumo.
La seconda rivoluzione è quella della connettività e del servizio. L’auto fa da sola sempre più cose: ti dice con una telecamera se stai parcheggiando bene, ti avvisa nella nebbia se un veicolo precede, ti legge gli sms in arrivo. Sempre più cambia le marce da sola, rompendo l’attaccamento molto italiano alla cloche. E sempre più non è la tua. E’ in affitto. Per tre anni, con l’auto a noleggio ora accessibile anche ai privati: basta un canone mensile e si paga solo il carburante. Al resto pensa la società di noleggio. O anche in affitto per poche ore: car sharing soprattutto nella versione a parcheggio flessibile, raggiungibile con le mappe degli smartphone. «In sostanza, il car sharing è una sorta di taxi fai da te», sintetizza Quagliano. Il futuro è oltre. E’ nell’auto che si guida da sola, in sostanza l’autista robot. Mercedes ha presentato un prototipo al Salone di Ginevra. Si sale e si continua a lavorare sul computer mentre l’automobile si muove nel traffico. I vantaggi? Ci sta pensando una società come Uber che starebbe lavorando con Google per l’auto-auto. Taxi senza conducente insomma: niente licenza e niente polemiche con i tassisti tradizionali. Semplice no?
postilla
Insomma, alla fin fine le «cattive» Uber e Google parrebbero virtuosamente alleate in una joint venture destinata a dare una mazzata finale a un paio di cose novecentesche che parevano immortali: il culto dell'auto proprietaria e identitaria, il suo mercato compulsivo e attorno al quale ruotava praticamente tutto, dall'energia alle guerre all'organizzazione della città e del territorio. Se si colgono queste potenzialità, invece di straparlare a vanvera di sharing economy quando qualcuno ti affitta la camera online senza pagare le tasse, magari ci portiamo avanti. Per portarsi avanti aiuterebbe, anche, provare a superare certi schematismi novecenteschi rispetto al ruolo maledetto dell’auto privata nel plasmarsi un universo a propria immagine e somiglianza, e alla natura di antidoto rappresentata invece dal mezzo pubblico su rotaia o dalla ciclabilità in sede propria. Anche chi lega la crisi dell’auto ad una ipotetica crisi del modello suburbano, forse sarà obbligato a ricredersi, almeno in parte. Insomma c’è molto da riflettere, e sarebbe meglio iniziare a farlo in fretta (f.b.
Spreco e povertà, i due poli del pianeta Terra oggi. E quelli che fuggono dalla miseria del Terzo mondo per raccogliere un po' delle briciole del Primo, l'Europa concorde offre barriere invalicabili o cannonate. La Repubblica, 20 maggio 2015
Lei parte dal ricordo del Biafra.
«Quei bambini con le mosche negli occhi e le pance gonfie furono per noi, generazione degli anni Sessanta, la prima immagine concreta di cosa fossero la fame e lo strazio di un popolo decimato dalla carestia. Siamo cresciuti con quelle immagini. Ma la fame poi continuavo ad incontrarla ovunque, in tutti reportage che facevo, la fame era sempre dietro, sotto, dentro ogni storia. Come un basso continuo. Qualcosa di irreversibile, anche senza carestie e inondazioni. Di fronte ad una tale vergogna le strade sono due: o il silenzio o la denuncia ».
Dal Niger il suo viaggio si snoda attraverso il Madagascar, l’India, il Sudamerica e approda tra i mendicanti di Chicago.
«Si dice sempre che in Niger la mancanza di cibo è strutturale. Un paradigma della fame inestirpabile. La terra è arida, l’acqua non c’è, il miglio non cresce. È vero, ma il Niger ha anche immensi giacimenti di uranio, il cui sfruttamento potrebbe garantire benessere ad un enorme numero di nigerini. Peccato però che tutte le miniere siano in mano a corporation cinesi e francesi, e alle popolazioni locali non resti nulla. Dunque la fame del Niger nasce da cause ben precise di sfruttamento coloniale e non dall’aridità del Sahel».
Una sorta di “land grabbing”, cioè rapina di territori.
«Così come accade in molte parti dell’Africa e del mondo. Il Madagascar, ad esempio, è una nazione fertile, ma gli abitanti sono stati espropriati delle loro terre da multinazionali straniere. E oggi lavorano con paghe irrisorie nelle coltivazioni che un tempo gli appartenevano, per produrre cibo che vola verso paesi ricchi. Una rapina».
Nel libro li chiama “Appropriatori di terre dell’altro mondo”.
«Un nuovo schiavismo, sotto forma di industrie di cibo Ogm, e di produzioni di biocombustibili».
Il cibo appunto. Il cuore dell’Expo italiano.
«Francamente a me sembra una beffa crudele che si possa utilizzare una gigantesca fiera del business, per discutere della tragedia di un miliardo di esseri umani. Sono proprio i paesi presenti all’Expo i responsabili di questa vergogna. È un controsenso».
Ma anche molte nazioni “povere” sono a Milano...
«Non è uno stand con un gruppetto di funzionari governativi che può cambiare le cose. Ma destinare i miliardi dell’Expo ad un programma di aiuti per il Sahel avrebbe potuto, invece, avere un senso».
Eppure lei è molto critico sui progetti umanitari.
«Al di là dell’effetto momentaneo non agiscono sui meccanismi che producono la fame».
“La Fame” è un saggio ma anche romanzo di vite e storie.
«Volevo descrivere quant’è breve l’orizzonte di chi passa l’esistenza chiedendosi se il giorno dopo sfamerà i propri figli. Dove l’unico sogno di Aisha è di avere due vacche, mentre Ai spera che il suo bambino non muoia di dissenteria. Senza cadere però nella “pornografia della miseria”. Non volevo commuovere, volevo far arrabbiare».
Ci sono tante madri nel libro. Ultime tra i derelitti.
«Donne la cui vita è una ininterrotta ricerca di cibo, di gravidanze e di figli che muoiono. Perché esiste la fame e la “fame di genere”. Quando c’è poco per tutti, sono le donne a rinunciare anche alle briciole».
Lei parla anche di una nuova forma di “rapina”.
«Nei paesi della fame migliaia di ragazze per sopravvivere affittano il proprio utero a ricche coppie occidentali. Alcune fanno anche cinque, sei gravidanze per altri. Subito i neonati vengono loro tolti e consegnati a chi li ha comprati... Una nuova ed estrema forma di sfruttamento ».
Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2015
Sabato mattina intorno a Castel Sant’Angelo a Roma: mucchietti di spazzatura dispersi dai gabbiani, pantegane che saltellano e spaventano i passanti, gazebi sventrati e non ancora smontati. Per sei giorni e sei notti, le mastodontiche tribune per inaugurare la Mille Miglia hanno occupato oltre mille metri quadri in un luogo che è tappa obbligatoria per i turisti. Nonostante la rievocazione della mitologica corsa sia finanziata da multinazionali col fatturato miliardario (Mercedes, Banca Ubi, Alfa Romeo), la società ha saldato un conto più che modesto: 14.100 euro. Il sindaco Ignazio Marino ha ottenuto in assemblea un aumento tariffario, ma ancora il prezzo è molto abbordabile e accessibile per eventi
meno blasonati del transito di macchine d’epoca. Con Gianni Alemanno, per lo stesso periodo, Mille Miglia ha lasciato una mancia di 2.553 nel 2013. Marino ha ricalibrato le tariffe per sedare la polemica dopo lo scandalo degli 8.000 euro chiesti ai Rolling Stones per il concerto al Circo Massimo. La questione non è soltanto ospitare e chiedere un obolo per le Mille Miglia, ma garantire poi la pulizia e il decoro per i turisti. Non è accaduto. Quest’episodio non è l’ultimo e neanche il più eclatante: è l’Italia intera, dagli scavi di Pompei al museo degli Uffizi, a mettersi in affitto per custodire l’immenso patrimonio culturale che viene ignorato dai governi. Per restare ancora a Roma, però, va citata la moda degli
“aperitivi archeologici”. Esiste un portale che, per circa venti euro, propone ai turisti assaggi di cucina locale nei luoghi più suggestivi (e vincolati) di Roma, niente coratella o pajata, bensì stuzzichini che si possono consumare nei sotterranei domiziani di Piazza Navona, nella rinascimentale Cappella del cardinale Bessarione o nei ruderi romani al Celio.
Il circus Agonalis, lo stadio di Domiziano che risale al I secolo, fu restaurato da un mecenate che donò 1,5 milioni di euro al Campidoglio dell’allora sindaco Gianni Alemanno e così, per nove anni, lo gestisce come se fosse di sua proprietà.
La cappella e i ruderi, invece, ricadono nella giurisdizione della sovrintendenza: anche lì s’è preferito adibire i siti per visite e spuntini. Sui tavoli della chiesetta di piazza Santi Apostoli, che ospita dipinti del ’400 e conserva impronte bizantine, gli avventori possono trovare la famosa “torta alla bisbetica” che forse piaceva al cardinale. Chissà. Sempre venti euro a coperto. Ai privati. Non al pubblico, non per le casse dello Stato che mette in affitto se stesso.
I beni culturali pubblici possono essere “prestati” ai privati per merito della legge Ronchey del 1993 e del Codice dei beni culturali (2004). “Il ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali – si legge – possono concedere l’uso dei beni culturali che abbiano in consegna, per finalità compatibili con la loro destinazione culturale, a singoli richiedenti”. Unica condizione: un “canone dovuto”. Quali siano “finalità compatibili” e “canone dovuto”, si decide di volta in volta. Per esempio, sabato 29 giugno l’allora sindaco Matteo Renzi concesse per un’intera serata il Ponte Vecchio di Firenze alla festa privata della Ferrari. In cambio – disse – di 120 mila euro. Anche stavolta l’erede Dario Nardella ha aumentato le tariffe per l’occupazione delle aree di interesse artistico (il costo giornaliero per metro quadro per alcune piazze storiche di Firenze è quintuplicato). Il comune ha anche reso pubblico il tariffario dettagliato dei suoi pezzi pregiati. Per organizzare un concerto nella galleria degli Uffizi, per esempio, servono 15 mila euro, per presentare un libro nello splendido museo di Orsanmichele ne bastano appena 500, mentre un convegno nella Sala Bianca della Galleria Palatina costa 2 mila. Altrove i prezzi non sono noti. Ma si affitta di tutto. Nell’estate del 2013, l’anfiteatro di Pompei è stato concesso per la modica cifra di 20.000 euro alla cena degli agenti di Fondiaria Sai. L’estate successiva la villa di Poppea di Oplontis – stessa area archeologica – è stata “prestata” a un’azienda privata per una festa con 2 mila invitati. Prezzo? Appena 5.000 euro. Il tariffario – conferma la Soprintendenza – nel frattempo non è cambiato.
Non è cambiato nemmeno quello dell’area archeologica di Segesta: il tempio del V secolo a.C. è stato concesso per alcune serate a un gruppo di facoltosi privati statunitensi. Prezzo, anche qui: 5 mila euro a sera. Il direttore Sergio Aguglia promette una gestione più sobria: “Tendenzialmente non lo concediamo”. Ma “tendenzialmente” la tariffa resta quella. Nord, centro e sud. Si affitta ovunque: il Castello mediceo di Ottaviano, ex feudo del boss Raffaele Cutolo,oggi si apre a matrimoni e mercatini invernali, i musei della Fondazione Torino – si legge sul sito – mettono a disposizione di tutti “angoli di charme per momenti indimenticabili”. E ancora: la Reggia di Venaria, la Villa Reale di Monza e così via. Basta aprire il portafogli.
Con tutte le particolarità di una visione specifica e professionale, anche il gruppo responsabile dell’idea di Orto Planetario stronca la «filosofia» BIE dell’evento, del supermercato globale La Repubblica Milano, 19 maggio 2015
Ancora insieme, come all’inizio dell’avventura. Quando Jacques Herzog, l’architetto che con il suo studio Herzog & De Meuron ha firmato progetti in tutto mondo, e Carlo Petrini, il maestro del gusto e del legame con la terra e la sapienza contadina, vennero chiamati per “inventarsi” una nuova Expo. Entrambi, nel tempo, hanno preso le distanze dall’evento. Ma le loro strade sono tornate a incrociarsi anche con quelle dell’Esposizione. Lo hanno fatto nel padiglione di Slow Food, che Herzog ha plasmato realizzando in qualche modo il suo piano originario per tutte le strutture dei Paesi. Un sogno che non si è realizzato. Lì, insieme al commissario Giuseppe Sala, oggi inaugureranno lo spazio. Ripartendo dal valore della biodiversità.
Lei è uno degli architetti che ha firmato il primo masterplan di Expo: riconosce ancora le sue idee nel progetto?
«Il nostro masterplan era basato su due elementi. Il primo: l’estrema semplicità del concept urbanistico, un giardino planetario strutturato come la griglia di un’antica città romana, con il cardo e il decumano come riferimenti spaziali per tutti i padiglioni e gli eventi. Il secondo: una visione per riuscire a reinventare il concetto di Esposizione mondiale: invece di avere forme individuali, i padiglioni dei Paesi avrebbero dovuto essere strutture temporanee standardizzate. Avrebbero dovuto differenziarsi attraverso i contenuti, non attraverso queste ridicole capriole architettoniche che si possono trovare in qualsiasi rivista di design. La prima parte è stata realizzata, perché il cardo e il decumano sono la spina dorsale urbanistica, ma la seconda no. Questo significa che la vera visione dietro il nostro masterplan, il ripensamento radicale di Expo, non è stata portata a compimento».
Nel 2011 ha deciso di lasciare Expo. Perché?
«Abbiamo lasciato proprio perché a questa idea radicale non è stata data un’opportunità. Le Esposizioni sono un format datato e piuttosto noioso, la loro innovazione culturale, tecnica e politica è scaduta con la fine della modernità, intorno al 1960. Da quel momento sono diventate puro intrattenimento e uno spreco di soldi e risorse. Ma il tema di questa Expo che ruota attorno a come nutrire il pianeta era davvero una fantastica opportunità per rompere le regole e innovare il concetto stesso di Esposizione mondiale: ogni Paese partecipante avrebbe avuto uno stesso “peso” e sarebbe stato percepito solo attraverso il proprio contributo alla sfida di produrre cibo in modo sostenibile a livello mondiale».
Il suo giudizio sugli organizzatori?
«Non vogliamo accusare gli organizzatori e i progettisti di Expo per questa occasione mancata, semplicemente perché non abbiamo ancora capito perché e chi ha bloccato questa iniziativa. La politica? Gli interessi commerciali? Onestamente, non lo so. Le forze dietro la routine sono state ovviamente più forti dell’energia necessaria a lavorare in una direzione contraria».
Pensa che questa Expo sia differente da quelle del passato?
«Probabilmente no».
Fin dall’inizio ha detto che l’incontro con Carlo Petrini è stato l’unico momento ispiratore sul versante dei contenuti. È per questo che ha deciso di disegnare il padiglione di Slow Food?
«Sì, Carlo Petrini è un uomo molto interessante, un ispiratore. Inoltre, è in grado di mettere il gusto del cibo come concetto base della sua filosofia, cosa che apprezzo molto. Slow Food è ovviamente in forte conflitto con le grosse compagnie dell’agroalimentare. Io non sono per niente ideologico su questo argomento, ma è uno degli interessanti potenziali di questa Expo: avere la possibilità di discutere differenti concetti controversi della produzione agricola. Carlo Petrini e Slow Food ci hanno chiesto di progettare il loro spazio. Abbiamo accettato perché ci piaceva il contenuto, la loro volontà di riutilizzare la struttura. Abbiamo potuto realizzare quel genere di padiglione prefabbricato e standardizzato che in origine avevamo pianificato per tutti i Paesi e i partecipanti di Expo».
Vedi anche La trappola filosofica di Expo Theme Park
«Gli 11 chilometri del litorale romano soffocano tra stabilimenti e strutture fuorilegge, inclusi i parcheggi di Esercito e Finanza. Ma l’assessore alla legalità della capitale, l’ex pm Sabella, annuncia il via libera all’iter per revocare le licenze». La Repubblica, 18 gennaio 2015
È il corpo di reato più lungo di Roma, 11 chilometri e 300 metri. Fatto di cemento, a tratti è decorato da un filo spinato come le torrette delle prigioni. Dietro il grande muro di Ostia c’è un mare che non si vede mai.
È sempre troppo alto o sempre troppo grosso, impasto di calcestruzzo e malaffare, questo recinto senza fine l’hanno tirato su corrompendo e calpestando leggi, decreti, normative, codici, regolamenti. Un muro che è diventato deposito di illeciti accumulati nel tempo con il silenzio complice di giunte, vigili urbani, presidenti e consiglieri municipali, uffici tecnici e giudiziari. Sono abusivi perfino i parcheggi di Esercito e Finanza. Abusiva è la Caritas nell’ex colonia fascista per bambini Vittorio Emanuele, abusiva è la moschea, i chioschi, la grande libreria al Pontile della Vittoria, abusive sono birrerie e paninerie, palestre e scuole di danza. Tutto sprofonda sul mare e nel mare di Ostia. E tutto è appuntato e protocollato nelle carte del Comune di Roma.
Eccolo il grande muro circondato da quella che è una città nella città, un bastione che ci ricorda con le sue vedette sul territorio e le sue sanguisughe la Brancaccio palermitana degli anni ’80, con i suoi roghi la Gela degli anni ‘90, con la sua paura certi paesi della Calabria di oggi. Ma Ostia è solo Ostia, costola di Roma Capitale e di Mafia Capitale, sfregiata e sottomessa ai padroni del lungomare che l’hanno fatta brutta. Per non far bere l’acqua dalle fontanelle qualcuno le ha interrate, così la minerale si compra per forza nei loro bar. Undici chilometri e 300 metri e il mare lo devi sempre immaginare, c’è ma è oltre quella case e quei casotti a volte colorati e a volte grigi, incastrati uno all’altro che sottraggono alla vista sale da gioco e cabine trasformate in mini residence (antenne satellitari e condizionatori e bombole di gas nei box de Le Dune per cambiarsi un costume?), gabbie di ferro, cubi, lussi e volgarità architettoniche che si mischiano, 11 chilometri e 300 metri dove a ogni passo si inseguono sempre gli stessi nomi. Quelli dei Fasciani, degli Spada, dei Triassi, usura e ricatti, droga e delitti. E quelli dei Balini e dei Papagni, gli affaristi più presentabili, porto e lidi, appalti e poltiglia politica.
Ostia di Levante e Ostia di Ponente, 100 mila abitanti che diventano mezzo milione quando è estate, un lungomare che comincia alla rotonda e finisce dove - sempre chiuso con catene – c’è il cancello del parco che ricorda il luogo dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Ecco il Kursaal con il suo famoso trampolino, l’Hibiscus Beach, poi gli storici stabilimenti come il Battistini e poi ancora l’Hakuna Matata affidato in gestione dal presidente del porto Mauro Balini a Cleto Di Maria, uno che vent’anni fa l’hanno preso in Brasile con un carico di stupefacenti. Ecco il chiosco delle suore di Vito Triassi, il Village che era dei Fasciani, un po’ più indietro l’Orsa Maggiore dove erano soci gli Spada. Sono 71 gli stabilimenti, uno per uno censiti in queste settimane dall’assessore alla legalità del Comune di Roma Alfonso Sabella, voluto dal sindaco Ignazio Marino commissario ad Ostia dopo i primi scandali. Il quartiere generale di Sabella, magistrato del pool antimafia di Palermo con una spiccata attitudine nella caccia ai latitanti, è in una delegazione sulla strada verso la tenuta presidenziale di Castelporziano che ha una sigla apparentemente incomprensibile (Uoal, Unità organizzativa ambiente litorale) dietro la quale sono nascosti gli interessi più indicibili di Ostia. L’anno scorso, a ottobre, qualcuno ha dato fuoco ai locali per ridurre in cenere i documenti che registrano ufficialmente gli imbrogli. Sabella quei documenti li ha recuperati, fotocopiati e inviati a una ventina di destinatari. La prudenza non è mai troppa. Dice: «Ormai solo Nerone, incendiando tutta Roma, potrebbe farli sparire».
Lungomare Amerigo Vespucci, lungomare Lutazio Catulo, lungomare Duilio, di fronte a Le Dune di Paolo Papagni c’è quel capolavoro che è il Polo Natatorio costruito per i Mondiali di Nuoto del 2009, progettista Renato Papagni, fratello di Paolo e presidente di Federbalneari. È un altro ammasso di cemento costato tre volte in più di quanto doveva costare (13 milioni di euro), le piscine sono 5 cm in meno di quelle regolamentari. Possono fare tutto certi personaggi qui ad Ostia. I Papagni e poi quegli altri come Mauro Balini, uno immerso – testuale dall’ordinanza di custodia cautelare di una delle tante operazioni antimafia ad Ostia, «in un ambiente economico finanziario inquietante ». Balini tratta con i signorotti locali e con colossi come le coop rosse. Un piede di qua e uno di là, commercio clandestino e buone entrature per gli affari che contano.
Nella città della città dove il mare non si vede mai ci spingiamo fino nel regno degli Spada, piazza Gasparri, via Forni, via degli Ebridi. Intorno tappezzerie e bische che passano di mano in mano, la comparsa di un certo Armandino che alza le corna per comandare, il traffico di compravendita di case popolari curato da Salvatore I, gli Spada «cucinati » che insultano via Facebook, la ciurma che inneggia sempre ai «miti» vivi o morti di questa Ostia lercia, nomi di battaglia «Baficchio» e «Cappottone », «Maciste», «Sorcanera». E voci che si accavallano. Come quelle su alcuni funzionari dell’ufficio tecnico – ce le racconta uno del ramo molto informato – che hanno un tariffario estorsivo: 300 euro per un inizio lavori per un tramezzo, 1000 euro per sanare una veranda, 10-15 mila euro per avere la licenza di costruzione di una villetta. Il muro di Ostia non finisce mai.