Il Laboratorio PerUnaltracittà sottopone a Icomos le principali criticità che coinvolgono siti Unesco di Firenze (e non solo Firenze). perUnaltracittà online, 21 giugno 2017 (c.m.c.)
Il Laboratorio PerUnaltracittà esprime in 12 punti la sintesi delle principali criticità da sottoporre all’attenzione di Icomos (Consiglio Internazionale dei Monumenti e dei Siti) nella convinzione che occorre mettere a punto una diversa politica di piano sostenuta da una nuova e diversa cultura del progetto capace di coinvolgere le periferie nella salvaguardia della Città antica e del suo patrimonio collinare. Se la periferia diventa la città, si potrà allentare l’assedio al nucleo storico da parte della speculazione e dell’attuale eccedenza turistica.
1. L’alienazione del patrimonio edilizio storico monumentale pubblico/privato: alle vendite viene garantito il cambio di destinazione per usi alberghieri o residenze di lusso e si garantisce la realizzazione di garages sotterranei, situati nella falda freatica.
2. L’escavazione di 21 parcheggi sotterranei in area urbana, di cui ben 6 in zona Unesco, tra cui il parcheggio sotterraneo di Piazza Brunelleschi. L’ulteriore escavazione di parcheggi sotterranei nell’area di Via Tornabuoni, in particolare sotto il giardino di Palazzo Antinori, a ridosso della Prima e della Seconda cinta muraria di Firenze.
3. La realizzazione del nuovo aeroporto intercontinentale di Peretola, con la buffer zone e traiettorie degli aerei sulla verticale di ambedue i siti Unesco: Centro storico e Ville Medicee. Previsto il raddoppio dei passeggeri in transito di circa 4,5 milioni/anno (vedi punto 6).
4. La realizzazione di una linea tramviaria nel sottosuolo del Centro storico, che metterebbe a rischio la stabilità degli edifici del Sito Unesco e l’integrità dei reperti archeologici sotterranei.
5. Gli scavi dei tunnel nell’area Fortezza da Basso/Santa Maria Novella: per l’Alta Velocità, sotto la Fortezza da Basso e Piazza della Libertà; per la nuova stazione ferroviaria AV, sotterranea e a ridosso del torrente Mugnone; per le varie gallerie veicolari utili al transito in superficie della tramvia.
6. L’insostenibilità acclarata della pressione del turismo sul Sito Unesco: oltre 9 milioni/anno le presenze, occasione di sviluppo di bassa qualità e causa di forte degrado strutturale e di allontanamento dei fiorentini dal Centro storico della loro città (vedi punto 10).
7. L’utilizzo improprio delle Piazze del centro storico in occasione di manifestazioni varie e mercatini con allestimento di strutture temporanee fortemente invasive, fuori scala rispetto all’equilibrio architettonico degli spazi, costruite con materiali incompatibili esteticamente con l’ambiente (in particolare Santa Croce e S.S. Annunziata) e penalizzanti per la vita dei residenti rimasti nel Centro storico (vedi punto 10).
8. La privatizzazione degli spazi pubblici della città per organizzazione di eventi riservati: Ponte Vecchio, Forte Belvedere, Accademia ecc. e soprattutto Palazzo Vecchio che ospita un numero esorbitante di iniziative con ingresso ad invito per cene servite nel Salone dei Cinquecento o in altri ambienti del percorso museale per centinaia di persone con allestimenti incongrui alla rilevanza del bene culturale.
9. La perdita dei significati storici e identitari del Sito Unesco. Evidenti i fenomeni di gentrification urbana e trasformazione della città in una Disneyland del Rinascimento: sostituzione delle botteghe artigianali e del piccolo commercio di prossimità con catene commerciali internazionali che omologano il Centro storico a una qualunque altra città. Ristorazione selvaggia e finta locale.
10. La progressiva ed inesorabile espulsione delle famiglie residenti nel centro storico a favore di turisti mediante trasformazione degli immobili in residenze temporanee (spesso al nero) con conseguente desertificazione del tessuto urbano centrale per quanto riguarda i servizi rivolti ai cittadini in favore del commercio per i non residenti (vedi punto 9).
11. Lo storno di risorse economiche dal pubblico al privato che pregiudica la sicurezza del Centro storico: il caso più eclatante è quello della voragine di Lungarno Torrigiani, crollo dovuto alla mancata manutenzione dell’acquedotto. Gli utili netti di Publiacqua spa non sono state destinate alla manutenzione ma suddivise come dividendi degli azionisti.
12. La realizzazione di mostre in luoghi chiave del Centro storico in cui può esporre chi paga, senza nessuna Commissione di valutazione sul valore delle opere. Un modo semplice, per chi ha i denari (collezionista/produttore) per alterare le quotazioni del mercato dell’arte utilizzando uno scenario unico al mondo.
«Le prese di posizione dei due maggiori partner dell’Accordo di programma sugli ex scali ferroviari milanesi nei confronti del dibattito che si è svolto in questi ultimi due mesi si possono sintetizzare in quattro parole: colpevoli silenzi e fumo negli occhi», arcipelagomilano.org, 20 giugno 2017. Con riferimenti
Le prese di posizione ufficiali dei due maggiori partner dell’Accordo di Programma sugli scali nei confronti del dibattito – politico ma anche tecnico – che si è svolto in questi ultimi due mesi si possono sintetizzare in quattro parole: colpevoli silenzi e fumo negli occhi. I silenzi, inaccettabili, si riferiscono alla impermeabilità alle considerazioni critiche, in punta di diritto e di economia, che sono state rivolte da varie parti alla procedura e alle clausole del vecchio Accordo di Programma, che convergono su una evidentissima sproporzione fra il vantaggio di FS Sistemi Urbani in termini di valorizzazione delle aree di proprietà (pura rendita o, tecnicamente, valore di trasformazione) e il Comune, che dovrebbe essere il custode dei vantaggi pubblici.
Sordi alle indicazioni di vizi giuridici rilevantissimi, i due partner persistono nel mantenere immutati i termini del vecchio accordo. Il fumo negli occhi si manifesta invece nella proposta, da parte del Comune, di modifiche non essenziali e finanche peggiorative ai contenuti urbanistici del programma, nonché nel computo di vantaggi pubblici (spesso inesistenti) che dovrebbero dimostrare l’attenzione della Giunta al bene della città. Vorrei indicare rapidamente i punti che mi paiono più importanti, anche se sono stati già sottolineati (si vedano i recenti articoli di Camagni e Roccella su ArcipelagoMilano del 26 aprile e del 12 aprile 2017, e molti altri). Sui colpevoli silenzi sembra cruciale evidenziare (soprattutto al Comune che è la parte penalizzata e stranamente consenziente) i punti seguenti:
A- Le plusvalenze che FS realizzerebbe dall’Accordo di Programma, che configura una variante di piano, sono sottoposte a partire dal 2014 alla nuova disciplina nazionale del “contributo straordinario” in aggiunta agli oneri tradizionali (come integrati all’art. 16 comma 4 del TU sull’edilizia): il “maggior valore generato […] da interventi in variante urbanistica” sono ripartiti fra il proprietario e il Comune “almeno” al 50%. La Regione Lombardia non ha ancora legiferato al proposito, come hanno fatto altre Regioni, per cui la legge nazionale è direttamente applicabile.
B- Il “maggior valore generato da interventi in variante urbanistica” non è quello definito dalle clausole del vecchio Accordo di Programma, che già appariva contra legem nel 2015: non è la differenza fra il valore netto di trasformazione delle aree (dato dai ricavi prevedibili di vendita al netto dei costi e di un adeguato margine di profitto per la funzione del developer) e il valore delle aree a bilancio di FS (che può essere cambiato in ogni momento dalla società) (1), come proprietà e Comune si ostinano a sostenere.
Il “maggior valore” previsto dalla legge nasce dalla differenza fra il primo valore (generato dalle nuove volumetrie assegnate in variante) e il valore di mercato che le aree hanno nella attuale definizione degli usi consentiti dal piano (e cioè “servizi ferroviari”), un valore dunque pari a zero. Le aspettative di rivalutazione non sono la realtà, come la bocciatura dell’accordo in Consiglio ci ha dimostrato. Se anche attribuissimo un puro valore agricolo alle aree, esso sarebbe più che annullato dai costi prevedibili di bonifica. Eppure i fatidici 222 milioni in bilancio FS continuano a essere presentati – in riduzione della plusvalenza – anche da parte del Comune in occasioni formali (come nella riunione delle Commissioni Consiliari urbanistica e mobilità del 12 giugno scorso).
C- Nel documento presentato dal Comune alla suddetta riunione delle Commissioni Consiliari, si va anche più oltre nel defalcare costi e oneri in riduzione della plusvalenza realizzabile. Si deducono le imposte che FS deve (dovrà?) pagare, con la dizione “fiscalità 2015”. Quale fiscalità? Sembra di capire quella nazionale, forse sulla rivalutazione dei cespiti: ma perché mai dovrebbe essere addossata al programma? Inoltre, si sottraggono le “anticipazioni per la C-line” e cioè i 50 milioni promessi al Comune. Ciò è contabilmente un errore: i 50 milioni fanno parte della plusvalenza realizzata, che andrà successivamente divisa al 50% fra FS e Comune.
A quanto ammonterebbe il maggior valore, tecnicamente la “rendita” generata dall’Accordo di Programma in capo al proprietario delle aree, valutando il tutto in senso cautelativo e accettando tutti i veri costi previsti dall’accordo nella misura ivi indicata?
Partirei dalle valutazioni di Gabriele Mariani esposte nell’articolo del 31 maggio su ArcipelagoMilano, assai analitiche, fedeli ai valori esposti nell’Accordo di Programma e non viziate da duplicazioni di costi. Le completerei aggiungendo una valutazione del profitto lordo da attribuire alla figura del developer nonché proventi e costi dell’edilizia sociale (che Mariani teneva separati).
Ipotizzerei di includere a pieno titolo nell’ambito privato l’edilizia convenzionata (89.000 mq di slp), che ha una sua profittabilità, mentre lascerei alla diretta responsabilità del Comune la costruzione e gestione dell’edilizia a canone concordato e agevolato, le due fattispecie a maggiore interesse sociale, da finanziare direttamente attraverso le entrate della fiscalità comunale generata dal programma. Quest’ultimo valore è quello che la nuova legge impone di tassare e suddividere fra pubblico e privato, tassando la pura rendita (e non i profitti imprenditoriali di costruttori e developer) (3), mentre il plusvalore complessivamente generato dal programma si conferma sul valore di 1 miliardo di euro, già variamente evidenziato nel dibattito.
Ipotizzando una ripartizione al 50% del valore di trasformazione, come vuole al minimo la legge dello Stato, al Comune toccherebbero 352 milioni, con cui si potrebbero realizzare non solo i lavori per la Circle Line (i famosi 50 milioni previsti dall’accordo), la parte più seria dell’edilizia sociale prevista (a canone concordato e agevolato, con un costo prevedibile di circa 100 milioni), magari con un aumento assai desiderabile della componente agevolata (che qui, come tradizionalmente a Milano, è ridotta ai minimi termini) e altri possibili interventi a vantaggio collettivo, anche sulle infrastrutture di mobilità.
Dunque, si tratta di un valore molto differente da quello stimato negli scenari pubblicamente presentati dal Comune, che prevedono un ventaglio da 54 a 86 milioni. A FS toccherebbe la stessa cifra, al netto di tutti i costi (smantellamento binari, bonifiche, interessi e comunicazione) che verrebbero “socializzati” nel programma complessivo. Ma veniamo al fumo negli occhi:
1- I vantaggi per il Comune sarebbero questi che ho indicato, che derivano da una valutazione delle plusvalenze coerente con la nuova legge e con la dottrina estimativa e non basata sulle clausole fantasiose (e giuridicamente rischiose se accettate dalla parte pubblica) del vecchio accordo. Basterebbe solo che la politica si impegnasse in questo senso, con determinazione e fantasia. E non sono certo i vantaggi che ci si ostina a indicare, come nel documento già citato, rappresentati dagli oneri ed extra-oneri urbanistici.
Questi servono infatti per realizzare le infrastrutture che consentono l’utilizzazione civile e l’accessibilità delle aree e degli immobili prodotti e sono in conseguenza sempre pagati dai costruttori/developer: banalmente, servono per poter usare nelle case i servizi igienici, per non arrivare a casa su uno sterrato, per avere un poco di verde condominiale e spazi per servizi di base ad uso dei nuovi quartieri; non costituiscono un regalo alla città, come si vuole far credere!
2 – Il recente aumento della quota di spazi ceduti al Comune per realizzare verde (dal 50 al 66%), introdotto fra le clausole dell’accordo, sembra un messaggio per generare facile consenso, ma contiene molti possibili effetti perversi. Innanzitutto si lascia credere che tale clausola avvantaggia i cittadini a scapito del proprietario delle aree, mentre così non è, poiché i volumi costruiti restano gli stessi ma sono solo compattati in altezza, e quindi resta immutato il valore economico del programma. In secondo luogo, densità edilizie eccessive possono squalificare l’intervento, riducendone l’appetibilità e quindi il prezzo di vendita. In terzo luogo, occorre dire chiaramente che non abbiamo bisogno né di foreste urbane (comunque artificiali!), né di grandi estensioni di verde difficili da gestire e da securizzare, ma di parchi e giardini ben fruibili e diffusi anche a livello di vicinato.
3 – Il rafforzamento delle quote previste per edilizia a scopo sociale sarebbe una buona cosa se non si abbandonasse quasi totalmente la possibilità di realizzare edilizia pubblica e non si privilegiasse la componente dell’edilizia convenzionata, ormai da considerare ampiamente inutile per finalità sociali. Nel caso degli scali, i prezzi di vendita, scontati e convenzionati, sarebbero pari in media a 2.700 euro/mq, con punte fino a 3.700 (stime di Mariani): non si tratta certo di un’edilizia per gli esclusi dal mercato abitativo, in uno scenario verisimile di aumento della povertà urbana e di crescente difficoltà per giovani coppie e classi a reddito medio-basso.
In conclusione: precipitarsi a firmare un accordo fotocopia del precedente quanto a condizioni economiche – e anzi per altri versi peggiorato – senza soffermarsi a considerarne criticamente alcune clausole palesemente contra legem sarebbe colpevole e irresponsabile nei confronti della cittadinanza; si sprecherebbe l’ultima grande occasione per ripensare un pezzo importante di città con un approccio finalmente moderno ed europeo, che realizza un bilanciamento fra gli interessi pubblici e quelli privati.
(1) Il valore delle aree iscritto a bilancio ha un puro valore civilistico e semmai concerne la sola eventuale tassazione nazionale del capital gain.
(2) I valori di costo e di ricavo per le diverse fattispecie di edilizia convenzionata e agevolata sono state stimate da Mariani, che ringrazio.
(3) Il profitto riconosciuto al developer può dipendere da molte circostanze (condizioni del mercato, rischi, forza contrattuale delle parti). Se il proprietario riconoscesse un profitto pari al 30% dei costi, tale profitto del developer sarebbe di 421 milioni, il valore incassato dal proprietario (valore di trasformazione) si ridurrebbe a 635,3 milioni (il gioco è a somma zero) e la quota del Comune a 318 milioni.
Riferimenti
Per un inquadramento della vicenda si veda su eddyburg Scali ferroviari a Milano - Storia, progetto, conflitto.
«A volte si ha l’impressione che a frapporsi tra l’ordine e il caos ci sia solo un robusto tedesco di 51 anni, Kilian Tobias Kleinschmidt. È un tecnico dell’espropriazione, non uno psicologo. Costruisce e amministra città per la gente perduta». Questa è la descrizione che David Remnick, il direttore del New Yorker, dava di Kilian Kleinschmidt dopo averlo incontrato nel campo profughi di Zaatari, in Giordania (Internazionale 1018), dove all’epoca vivevano 120mila siriani che avevano dovuto abbandonare il loro paese.
Da allora il numero di ospiti di Zaatari è sceso a 80mila, Kleinschmidt di anni ne ha compiuti 53 e non è più il “sindaco” di quel germoglio di città sviluppatosi nel deserto giordano. L’esperto di interventi umanitari ha lasciato le Nazioni Unite per aprire a Vienna la sua agenzia, Switxboard, e dedicarsi a progetti più “dirompenti”, come ha dichiarato in un’intervista al sito d’architettura Dezeen.
Il 29 giugno Kleinschmidt sarà a Venezia per parlare di “Città in esilio-città del futuro” il cui tema quest’anno è la Siria, la distruzione delle sue città e le opportunità della ricostruzione.
Andare avanti o restare fermi
«Dovremmo cambiare il modo in cui parliamo e guardiamo ai profughi», dice al telefono da Vienna. Si tratta di 65,6 milioni di persone: «Non vengono da Marte né vanno visti come una specie a parte». Kleinschmidt conosce bene il presente, ma ha anche lo sguardo rivolto al passato: da secoli gli esseri umani si muovono da una parte all’altra, e il mondo di oggi si è costruito intorno a quegli spostamenti. Le ragioni sono state varie: guerre, persecuzioni, ma anche la ricerca di opportunità economiche. In una recente visita a Berlino, racconta, ha visto lo scavo archeologico di un insediamento di ugonotti scappati dalla Francia: anche loro erano rifugiati, e hanno contribuito a creare la città. Molte grandi città europee di oggi, afferma, sono sorte da campi di coloni, da insediamenti nati in funzione difensiva o altro ancora.
Negli ultimi settant’anni, però, i rifugiati sono stati trattati in modo diverso. Se da una parte gli è stato riconosciuto uno status che li tutela, sono diventati anche “ostaggi” della situazione in cui si sono venuti a trovare: ostaggio degli aiuti umanitari, dei governi che li ospitano – e che non gli riconoscono gli stessi diritti degli altri cittadini – o dei movimenti politici che li rappresentano. Quando ne hanno la possibilità, afferma Kleinschmidt, i rifugiati fanno quello che fanno tutti: vanno avanti. Senza scordare da dove vengono, si confrontano con la nuova realtà dell’esilio e, di conseguenza, cambiano le loro ambizioni e aspirazioni.
Progetti innovativi
Mi fa l’esempio di esperienze di successo come quella di Mobisol, un’azienda tedesca che offre sistemi per la produzione di energia solare alle famiglie di paesi in via di sviluppo, che restituiscono il prestito man mano che l’investimento si rivela proficuo, o Africa Greentec, che costruisce piccole centrali solari in Africa grazie al crowdfunding. O quello di un’azienda di Nairobi che ha installato delle stazioni di rifornimento di acqua fresca e pulita negli slum, a prezzi più bassi di quelli dei venditori informali. In definitiva queste imprese danno alle persone quello che gli serve a prezzi accessibili. Niente di particolarmente complicato, no?
«Il Tribunale Internazionale degli Sfratti - nato ormai da alcuni anni - ha scelto di riunirsi a Venezia anche perchè il 2017 è l'anno dedicato al turismo e la relazione tra i due fenomeni in laguna per quanto riguarda l'emergenza abitativa è particolarmente forte». la Nuova Venezia, 15 giugno 2017
Il Tribunale Internazionale degli Sfratti - nella sua sessione dedicata al turismo - si riunirà quest'anno a Venezia dal 28 al 30 settembre con alcune sessioni in cui saranno discussi e giudicati casi di sfratti internazionali e anche locali con le raccomandazioni in merito che poi saranno inviate ai Comuni e ai Governi interessati, oltre che alle Nazioni Unite. Invitati anche i sindaci di Barcellona e di Seoul (Corea Sud), città che stanno affrontando seriamente il problema delle emergenze abitative legate anche alla pressione turistica. Una giuria composta da rappresentanti della società civile, organizzazioni internazionali ed accademici sceglierà i casi e valuterà i ricorsi. Il Tribunale Internazionale degli Sfratti - nato ormai da alcuni anni - ha scelto di riunirsi a Venezia anche perchè il 2017 è l'anno dedicato al turismo e la relazione tra i due fenomeni in laguna per quanto riguarda l'emergenza abitativa è particolarmente forte. Le sessioni del Tribunale si svolgeranno in Sala San Leonardo ed è prevista anche l'inaugurazione di un monumento-murales dedicato agli Sfratti Zero. Le sessioni sono appoggiate dall'Alleanza Internazionale degli Abitanti assieme al Comitato oreganizzatore locale, formato dalle principali associazioni impegnate a Venezia nella lotta per il diritto alla casa, come unione inquilini, Assemblea Sociale per la Casa, Eddyburg, Venessia.com, Generazione 90 e Garanzia Civica.
Un'analisi "sfogo" e una ricetta sicura per vincere la depressione relativa alle vicende degli scali ferroviari dismessi di Milano, Arcipelago Milano, online, 13 giugno 2017 (m.c.g.)
Pare che la depressione colpisca sempre di più, (Organizzazione Mondiale della Salute – aprile 2017), e che sia una della principali cause di suicidio, 780.000 casi nel mondo l’anno scorso, perché una causa della depressione è la mancanza di “speranze”: la Hopelessness Depression (HD). Pensando agli scali mi deprimo ma non mi suiciderò, ho trovato l’antidoto, pare sia un “classico”: l’incazzatura.
Sono incazzato perché vedo che per gli scali le cose vanno avanti come se nulla fosse sebbene una parte non trascurabile dell’opinione pubblica “avvertita” cerchi di raddrizzare le gambe al cane.
M’incazzo perché penso che tutto sia cominciato quando si poteva fermare e non lo si è fatto. Poco dopo l’elezione di Pisapia a sindaco, il Piano di Governo del Territorio, quello voluto dal duo Moratti Masseroli, un piano vecchio stile all’insegna dell’ossequio agli interessi immobiliari e del tutto indifferente al bene comune della città, s’incagliò per un errore procedurale. C’era l’occasione di mandare a monte tutto ma si preferì mandarlo in porto per non dare l’impressione di voler fermare tutto, si sarebbe detto: arriva la sinistra nemica di quelli che chiama “speculatori”, un suo vezzo demagogico. Fu rielaborato un piano modificato per quel poco che si poteva accogliendo le osservazioni disponibili utili a smorzarne gli effetti più dirompenti. Tanto l’edilizia si era fermata.
Pensavo che la politica urbanistica del duo Pisapia De Cesaris fosse una svolta. Non lo era. Semplicemente la pressione degli operatori immobiliari si era arenata nelle secche di un mercato inesistente. Ma sottotraccia un operatore immobiliare che guardava lontano c’era: un Ligresti vestito da pubblico, le Ferrovie dello Stato. Il pelo cambia ma il vizio resta.
Poi l’Accordo di Programma che poteva sancire la sconfitta del bene comune, la subordinazione della città e del suo patrimonio agli interessi immobiliari – a un nuovo Ligresti -, questa volta si arena nelle secche di un Consiglio comunale che si scopre scavalcato, ridoto a ruolo di notaio delle decisioni della Giunta.
M’incazzo a posteriori con me stesso: quando l’assessora De Cesaris disse di aver raggiunto il miglior accordo possibile con le Ferrovie dello Stato, e lo portò in Consiglio, me ne rallegrai invece di mettermi un nastro nero al braccio come si faceva una volta per mostrare il lutto: lutto per la morte della speranza di una nuova urbanistica. La fortuna mi ha consolato: l’accordo non è stato ratificato, è ancora lì, speriamo.
M’incazzo perché quando nel programma di Sala ho visto che al primo punto c’era la sistemazione degli scali ferroviari ho sperato che avesse riflettuto sul problema e su quello che era successo in Consiglio comunale. L’Accordo di Programma poteva essere ben diverso da quello bocciato dal Consiglio: sostanzialmente è ancora quello. L’eredità della vecchia Giunta pesa ancora.
M’incazzo perché vedo un assessore all’urbanistica, digiuno della cultura necessaria, gestire il futuro di Milano e che dichiara di aver aperto le porte alla partecipazione dei cittadini senza nemmeno saper bene che cosa sia la partecipazione: dire, come dice, che molte migliaia di persone hanno “partecipato” solo perché erano a un convegno o a una riunione, compresi coloro che hanno “visto “ i progetti sugli scali, le Visioni dei cinque studi di architettura, vuol dire non aver capito nulla. Noto tra l’altro che in molti incontri ai quali ha partecipato l’assessore, le voci di dissenso sono state parecchie, inutili, non se ne troverà traccia nel nuovo Accordo di Programma.
M’incazzo quando sento il consigliere Monguzzi dire che la nuova “mozione” di indirizzo sugli scali è “un segnale contro la speculazione” semplicemente perché avendo aumentalo l’altezza degli edifici residenziali previsti e quindi riducendo la loro superficie al piede ci sarà più verde. La storiella dell’edilizia convenzionata poi, che si fa solo quando quella libera si muove, non la beviamo più.
Ma m’incazzo soprattutto quando vedo che tutto si muove senza che vi sia stata una seria “analisi dei bisogni” della città, che avrebbe potuto evitare in futuro almeno clamorosi errori come quelli fatti in passato quando il Comune non ci pensò nemmeno di offrire alternative migliori all’Istituto Europeo di Oncologia di Veronesi purché non andasse a collocarsi in fondo a via Ripamonti, lontano da qualunque mezzo pubblico. E l’Humanitas? Ed Expo? E poi e poi ….
M’incazzo quando vedo che si convocano dei tavoli “tecnici”. I tecnici servono per dar corpo a un progetto a valle dell’analisi dei bisogni, analisi che prelude a ogni decisione “politica” che va comunque fatta: i tecnici sono la foglia di fico di chi non sa fare scelte politiche, tecnici che per quanto capaci non sostituiscono la politica.
M’incazzo perché, ingenuo, non ho ancora capito che l’analisi dei bisogni non si fa perché, se fosse fatta nell’interesse pubblico, molto ma molto difficilmente coinciderebbe con i “bisogni” degli operatori immobiliari.
M’incazzo ma non mi uccido perché ho ancora qualche speranza. Vedo passare il tempo a chiudere grossolanamente e a posteriori le falle più vistose dell’elaborazione e della partecipazione, dando spazio a ogni tipo di opposizione. C’è ancora tempo per fare un’analisi dei bisogni – i dati già raccolti non mancano – e a valle di questa rileggere tutto il prezioso lavoro fatto tra tavoli, e commissioni e convegni: ritrovare la razionalità. Lo scontro politico vero si può fare solo sui bisogni, la loro valutazione e le priorità. Chi vuole qui potrà ritrovare destra e sinistra. Dopo ma solo dopo sugli strumenti.
Ebbene sì, vinco la depressione incazzandomi. “M’incazzo ergo sum” (Suivant Descartes, 2017).
Il dibattito sugli Scali Ferroviari su arcipelagomilano.org
«Il Progetto Rebeldìa ha presentato alcuni emendamenti imprescindibili al Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani di Pisa». perUnaltracittà online, 13 giugno 2017 (c.m.c.)
Dopo il rifiuto da parte della prima commissione consiliare di ascoltare le associazioni del territorio, il Progetto Rebeldìa ha presentato alcuni emendamenti imprescindibili al “Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani di Pisa”. Nonostante le nostre proposte siano il frutto di riflessioni ed esperienze accumulate negli ultimi anni insieme ad altre realtà cittadine, non possiamo nascondere che il tempo definito per la proposta di modifiche è stato poco e di facciata.
Il testo approvato in giunta è lacunoso, come fin dalla sua pubblicazione abbiamo provveduto a far notare, cercando invano un’interlocuzione. Abbiamo dunque elaborato alcune proposte di modifica illustrate e accompagnate da una relazione che ne motivi le ragioni. L’intervento massiccio e sostanziale si è reso necessario per l’evidente inadeguatezza di un regolamento che sulla carta dovrebbe ispirare un percorso per la gestione condivisa dei beni comuni, ma che nella sostanza invece è ben accorto a ledere il meno possibile lo status quo, nell’ottica di fornire a chi detiene il potere uno strumento ben ‘temperato’ per tessere e rinforzare nuove e vecchie clientele.
Basti scorrere le lacune per le quali gli emendamenti proposti rappresentano appena un lenitivo per cogliere appieno la sostanza difettevole del Regolamento:
La tutela delle generazioni future, obiettivo fondante di qualsiasi cura dei beni comuni risulta completamente assente e va ricompresa e valorizzata in maniera esplicita; antirazzismo, antisessismo e antifascismo dovrebbero essere alla base delle relazioni di condivisione, ma sono totalmente dimenticati;nessuna attenzione all’autogestione dei Beni comuni, con una evidente svalutazione del meccanismo assembleare e delle forme di consenso democratico che virtuosamente superano i meccanicismi del voto nella gestione di un patrimonio fondamentale come i Beni comuni.
Nessuna valorizzazione sostanziale della soggettività autonoma, individuale e collettiva delle persone, ridotte nel regolamento alla categoria di “cittadini”, da tempo svuotata da una sua valenza attiva e pervasa da un’ambiguità che poco giova a un discorso che voglia essere veramente inclusivo; nessuna valorizzazione dei temi della condivisione e della fiducia reciproca tra individui, a vantaggio di una generica collaborazione di cui i contorni rimangono grigi;
Oltre alle evidenti lacune concettuali, vi sono anche le contorsioni procedurali, come quelle che attribuiscono un potere sbilanciato alla Giunta e non al Comune (inteso come l’insieme degli apparati che lo compongono) nelle gestione dei Beni Comuni. Il Progetto Rebeldia ha avanzato anche emendamenti che ripensino e riformulino l’iter procedurale affinché:
sia evidente la centralità della riflessione politica in consiglio Comunale, prima del vaglio tecnico e delle delibere di giunta;
sia esplicita la certezza dei tempi, che faccia da deterrente alle deviazioni della burocrazia comunale.
Sia ridimensionato il ruolo oggi centrale dei CPT, organi di nomina politica, che per questa loro genesi non inglobano la fondamentale componente studentesca e migrante e non possono avere poteri di censura.
sia istituito un fondo di bilancio apposito per supportare e finanziare le attività di cura e di rigenerazione dei beni comuni.
In ultimo gli emendamenti del Progetto Rebeldìa sono stati attenti a superare un manchevole coraggio amministrativo, innanzitutto con la proposta di introdurre esplicitamente tra i beni che possono essere oggetto di patti di condivisione anche i beni in alienazione. Allo stesso tempo è necessario rompere il tabù della proprietà privata, che pesa come un macigno in un percorso di condizione che sia sostanziale e non di facciata. Se oggi si arriva a trattare il tema dei beni comuni è anche grazie alle molteplici esperienze già esistenti a Pisa nel tessuto sociale. Siamo fortemente preoccupati che un regolamento così ordito non ne tenga esplicitamente di conto, e che sia solo un atto preliminare a un’eliminazione di queste dal panorama cittadino.
L'incredibile abilità del sindaco Brugnaro a coniugare cemento, affari e turismo per distruggere la città diventata "sua". Articoli di Mitia Chiarin e Elisa Lorenzini, la Nuova Venezia, e Corriere del Veneto 13-14 giugno 2017 (m.p.r.)
la Nuova Venezia, 13 giugno 2017
COLPO DI VANGA
Mestre. Primo, simbolico, colpo di vanga da parte del sindaco Luigi Brugnaro, del progettista Luciano Parenti e di Delf Stueven, legale rappresentante e socio della austriaca MTK Ca’ Marcello srl, per il grande cantiere da 75 milioni di euro che entro il 12 aprile 2019, tra meno di due anni, vedrà la realizzazione di quattro grandi alberghi, per 750 camere e 1. 900 posti letto e che intende rivoluzionare il panorama, finora desolato, di via Ca’Marcello, tra via Torino e la stazione.
Anzi, gli investitori austriaci guardano già oltre: l’architetto Parenti spiega di aver inviato all’esame della giunta Brugnaro una proposta di riqualificazione dell’area della stazione di Mestre, dal vecchio parcheggio Touring al palazzo Ex Poste dell’immobiliare Favretti con una soluzione per la piastra di collegamento tra Mestre e Marghera, in linea con le decisioni del sindaco che ha cancellato il vecchio masterplan. Se questo progetto è il futuro, l’oggi è il via ai cantieri che impegneranno 450 operai della azienda Setten e della Di Vincenzo di Pescara.
Nei quattro alberghi andranno a lavorare 250 persone. Ieri l’inaugurazione del cantiere, a cui ha partecipato mezza giunta comunale e i rappresentanti dei gruppi alberghieri che qui si verranno a insediare tra due anni. Tutti hanno grande interesse per investire a Mestre, per la sua vicinanza a Venezia, “gioiello” del settore turistico mondiale.
Per gli ostelli Wombat’s c’era il cofondatore Sascha Dimietrievich; per il colosso cinese Plateno il vicepresidente del settore sviluppo Europa Bastian Erfurth; per Staycity che sceglie Mestre per il suo sbarco in Italia c’era Markus Beike, responsabile Sviluppo Europa mentre per Leonardo, della israeliana Frattal, è intervenuta la responsabile per l’Italia Linda Mariotti. Investimenti che parlano straniero e soprattutto austriaco e Gregor Postl, responsabile Sviluppo economico della ambasciata Austriaca a Padova spera siano i primi di una lunga serie di investitori in città.
Il sindaco, ovviamente, ringrazia: «È un progetto che ci piace molto, di qualità e coinvolge prestigiosi gruppi internazionali. Non ha solo una valenza economica in ambito ricettivo, creando centinaia di posti di lavoro, ma anche sociale, riqualificando un’area degradata. Guardandosi attorno è difficile fare di peggio. Ci sarà anche un ostello, utile visto che qui vicino c’è l’università», dice il sindaco che torna anche sul tema, caldo, del turismo a Venezia.
«Abbiamo fatto il blocco dei cambi d’uso automatici ed è stata polemica ma si è visto chi ci guadagna. Delocalizzare strutture come queste a Mestre significa dare una risposta e un futuro alla terraferma. E mi viene voglia di ricandidarmi tra tre anni».
Il progetto comprende una piazza interna e due autosilos parcheggi per 500 auto. Le vie interne sono ad accesso controllato con ampi spazi pedonali. La vicina ferrovia sarà protetta da recinzioni e un lungo marciapiede per i clienti degli alberghi porterà direttamente al binario uno della stazione ferroviaria.
Nella riqualificazione vi è anche la riorganizzazione della viabilità lungo via Ca’Marcello, ristudiata in relazione alle recenti trasformazioni dei trasporti di Mestre e che vedrà davanti al complesso, sulle ceneri dell’ex Demont dove si spacciava, ricorda il commissario Vomiero che ha portato i saluti del questore, nuovi marciapiedi con dissuasori per le auto per ridurre la velocità a 30 chilometri orari, una nuova pista ciclabile e fermate per il trasporto pubblico.
la Nuova Venezia, 14 giugno 2017
ALBERGHI PER 75 MILIONI
E ALTRI INVESTIMENTI IN VISTA
di Mitia Chiarin
«Chi fa investimenti così importanti non li fa mica rischiando. Il trend di sviluppo del settore ricettivo consente una ampia garanzia di copertura della nuova domanda turistica e il programma di sviluppo prevede ulteriori investimenti in provincia di Venezia. Di cui potremo parlare quando saremo autorizzati». L'architetto Luciano Parenti, progettista dei quattro alberghi di via Ca' Marcello difende il progetto da 75 milioni di euro dalle perplessità di quanti considerano questo investimento nel settore ricettivo della austriaca Mtk come un altro colpo alla gestione dei flussi turistici a Venezia.
Corriere del Veneto, 14 giugno 2017
Venezia. Non solo isole, Lido e Giudecca. I cambi d’uso in alberghi saranno possibili anche in quelle aree soggette a piani particolareggiati. Il capogruppo M5s Davide Scano li elenca: Tronchetto, Marittima, stazione ferroviaria, Piazzale Roma, ex Piazza d’Armi a Santa Marta, Scalo di Santa Marta e di San Basilio, ex Orto Botanico, San Pietro di Castello, Arsenale, ex cantieri Actv, Giardini della Biennale ex cantieri Celli a Sant’Elena, area Muner. «A dirlo sono le norme tecniche richiamate in delibera - spiega il consigliere - sono tutte aree assoggettate a piano particolareggiato che vengono escluse. Per alcune di queste i progetti in accordo con i privati sono già stati fatti ma per altre no». Troppe eccezioni e troppo poche regole certe. Alle opposizioni la delibera della giunta comunale per bloccare cambi d’uso e nuovi albergo in centro storico non piace, tanto che sono pronti una raffica di emendamenti nel consiglio comunale di domani.
A partire proprio dal Movimento Cinque Stelle. Ma forti critiche arrivano anche dal Partito democratico che nei mesi scorsi si è già visto bocciare una mozione in cui proponeva la possibilità del cambio d’uso solo per quegli immobili catalogati in un ristretto numero di tipologie. «L’obiettivo è giusto, bloccare i nuovi alberghi - dice il capogruppo pd Andrea Ferrazzi - ma pone un problema di legittimità perché istituzionalizza la deroga per interesse pubblico come strumento di pianificazione urbanistica che unito al precedente creato dal caso Locatelli aprirà le porte a una moltitudine di ricorsi».
Il punto debole è quel «interesse pubblico» declinato come qualità della struttura, capacità di rivitalizzare un’area e di creare posti di lavoro, che lasciano qualche dubbio. «Chi decide se una struttura è di qualità?» domanda il consigliere fucsia Paolo Pellegrini chiedendosi anche quanti consigli comunali dovranno essere convocati per affrontare ogni specifico caso. Ma poi aggiunge: «Comunque meglio così piuttosto che lasciarla all’arbitrio che ha regnato negli ultimi trent’anni». La nuova delibera non trova il favore nemmeno della Municipalità di Venezia che oggi in consiglio voterà un pacchetto di osservazioni, non vincolanti «Siamo contrari perché lo strumento della deroga alle aperture di nuovi alberghi vanifica i vincoli esistenti – spiega il presidente Giovanni Martini – di fatto in questo modo la trasformazione di un immobile in albergo sarà ancora più a discrezione dell’amministrazione».
Proprietario dell'area acquistata con poco perché inquinata, proprietario della squadra di pallacanestro per cui è necessario fare il nuovo impianto, da sindaco decide cosa si può fare in quell'area e stringe accordi col governo per fare le bonifiche, che non pagherà lui. Articoli di Mitia Chiarin e Alberto Vitucci, la Nuova Venezia, 10-11 giugno 2017 (m.p.r.)
la Nuova Venezia, 10 giugno 2017
NUOVO PALASPORT DA 10 MILA POSTI F
RONTE LAGUNA
di Alberto Vitucci
Il sindaco Brugnaro rompe gli indugi e avvia la procedura per il “blind trust” sui terreni a Marghera di sua proprietà.
Marghera. Un nuovo palasport da 10 mila posti ai Pili. Se ne parla da anni, tra smentite e conferme. L’ultima durante la finale europea a Tenerife, dove la Reyer ha dovuto accontentarsi del quarto posto, raggiungendo comunque un risultato storico. Là il sindaco e proprietario di Umana Luigi Brugnaro aveva rilanciato l’idea. Adesso fa un passo avanti. E annuncia di aver pronta la procedura di blind trust, cioè dell’affidamento della gestione delle sue società a soggetti esterni, come previsto dalla legge 215 del 2004. I nuovi gestori avrebbero l’incarico di vendere la gran parte dei terreni dei Pili e con il ricavato finanziare la costruzione del nuovo palazzetto dello sport da 10 mila posti.
Una strada quasi obbligata per le squadre come la Reyer che dovranno partecipare il prossimo anno all’Eurolega, perché la Federazione europea ha imposto condizioni ultimative. Il Taliercio, uno dei più bei palazzetti d’Italia, non basterà più con i suoi 4 mila posti. Nemmeno per i play-off, per cui la Federazione italiana pallacanestro ha messo limiti altrettanto severi. Le deroghe saranno concesse soltanto a chi ha già presentato un progetto per una nuova struttura.
Dunque, occorre far presto. E il sindaco ha annunciato nelle ultime ore l’intenzione di procedere. Una mossa che potrebbe anche rafforzarlo sul piano politico. Dopo l’accordo per lo stadio con l’americano Tacopina e la promozione di Venezia e Mestre, adesso il nuovo palasport. Pochi giorni dopo aver incassato il rinvio dell’Unesco sulle proposte per le grandi navi e il turismo. Un “poker” a cui potrebbe aggiungersi presto, anche se l’interessato non ne vuol sentir parlare per scaramanzia – un possibile scudetto, il primo della Reyer nel Dopoguerra.
Nuovo palasport, dunque. La prima proposta risale al 2008, presentata alla giunta Cacciari. Il progetto operativo, firmato dall’attuale vicecapo di Gabinetto allora amministratore della società “Porta di Venezia” Derek Donadini è della primavera 2015. Prevedeva oltre al palasport parcheggi e servizi nell’area dei Pili, all’imbocco del ponte della Libertà. Bloccato dal commissario perché il presidente di Umana era allora candidato sindaco. «Se sarò eletto non si farà nulla», aveva annunciato allora in campagna elettorale.
Adesso evidentemente, spinto dai nuovi eventi sportivi, ha cambiato idea. Si alza il fuoco delle critiche dalle opposizioni e da chi lo accusa di conflitto di interessi. «Sì, ma contro i miei interessi», risponde Brugnaro, «in ogni caso il “blind trust” risolverà tutto». Blind trust. Secondo la Treccani è la «forma di trust con la quale chi ricopre incarichi pubblici affida il suo patrimonio a una gestione fiduciaria, rinunciando a tutti i diritti di gestione, salvo quello a ricevere la comunicazione delle scelte effettuate. L’obiettivo è quello di prevenire i conflitti di interesse». Materia regolata dall’Agcom, l’Autorità per la concorrenza e il mercato, che dovrebbe mettere al riparo dalle polemiche.
Al di là del proprietario, la scelta dei Pili come luogo di palasport e parcheggi appare dal punto di vista urbanistico quasi ideale. Facilmente raggiungibile da Venezia (4 chilometri da piazzale Roma) ma anche da Mestre e dalla terraferma. Una struttura di cui si discute da anni. Ma c’è il problema delle bonifiche. Comune e ministero per l’Ambiente hanno siglato l’accordo di programma per Marghera e per la pulizia delle aree inquinate. Ma nel febbraio scorso la società di Brugnaro ha presentato ricorso al Tar. Contro l’accordo e l’obbligo di bonificare i terreni, dunque anche contro il Comune e la Città metropolitana guidate dall’imprenditore. Gli avvocati Federico Peres, Luciano Butti e Alessandro Kiniger sostengono che quell’atto non è valido. Perché in base alla legge 152 del 2006 deve pagare chi ha inquinato. E l’acquisto dei terreni di Umana è successivo a quella data.
la Nuova Venezia, 11 giugno 2017
PALAZZETTO DELLO SPORT AI PILI
È BAGARRE
di Mitia Chiarin
Il Taliercio è un catino incandescente e la Reyer una squadra da scudetto e sfide internazionali, che necessita di spazi a norma: su questo, tutti concordano. A Venezia e Mestre serve perciò un nuovo palazzetto dello sport, come già lo stadio: e anche su questo sono tutti d'accordo. Provoca, però, variegate reazioni critiche l'annuncio fatto nei giorni scorsi dal sindaco Brugnaro di essere ormai pronto a spogliarsi del controllo delle società della galassia Umana, affidandole a un blind trust (come previsto dalla legge 215/2004) per evitare accuse di conflitto di interesse. Soluzione già promessa, accompagnata però dal contemporaneo annuncio del sindaco di voler rimettere in moto il progetto urbanistico per realizzare il nuovo palazzetto da 10 mila posti ai Pili: un impianto nel quale far giocare la sua Reyer, costruito su terreni di proprietà e progetto della "sua" Porta di Venezia, società che pure con il blind trust non gestirà più.
la Repubblica, 9 giugno 2017
Piove sulla testa del ministro Dario Franceschini e sulla sua riforma dei Beni culturali ma ancora di più rischia di diluviare nel prossimo futuro. Si attende per giovedì la decisione del Consiglio di Stato sulla richiesta di sospendere le sentenze del Tar che hanno defenestrato cinque direttori di musei. E già da lì potrebbero arrivare acuti dolori per il ministro. Ma il nuovo pronunciamento del Tar di mercoledì, che ha annullato il Parco archeologico del Colosseo, dei Fori, del Palatino e della Domus Aurea trasforma la falla che si era aperta nella riforma in un pericoloso squarcio che potrebbe far affondare l’intero impianto voluto da Franceschini.
Il Colosseo è pur sempre il Colosseo e alla sua autonomia erano affidate molte delle chanche di buona riuscita della riforma. Ma la sentenza di mercoledì può anche trascinare con sé altri ricorsi sia contro singoli direttori sia contro la procedura in sé che ha portato loro ed altri al vertice dei musei nella seconda tranche del concorso (per la prima i termini sono chiusi). Da più parti infatti si sente dire che sarebbero in arrivo ricorsi collettivi.
Al ministero la replica è compatta: abbiamo ragione e faremo appello al Consiglio di Stato anche contro quest’altra sentenza. Dario Franceschini è intervenuto ieri a un convegno sulle periferie al quale ha partecipato anche il vice sindaco di Roma Luca Bergamo, firmatario del ricorso al Tar, ma della sentenza sul Colosseo il ministro non ha fatto parola. Nel frattempo, però, al ministero si studiano le conseguenze che avrà la sentenza: chi governerà il Colosseo e l’area archeologica centrale di Roma? In attesa che il Consiglio di Stato confermi o smentisca il Tar, tutto torna nella competenza della Soprintendenza guidata da Francesco Prosperetti. Ma contemporaneamente risorge o no anche l’altra Soprintendenza, quella che curava il patrimonio fuori le Mura Aureliane, sparita dopo la nascita del parco del Colosseo? Non è questione da poco: in ballo, per esempio, c’è il vincolo sull’Ippodromo di Tor di Valle, che potrebbe far saltare la costruzione dello stadio della Roma. Chi deve confermare la procedura avviata dall’allora soprintendente Margherita Eichberg e per la quale stanno scadendo i termini?
Sono comunque i beni culturali romani e il loro assetto fissato dalla riforma l’epicentro del terremoto provocato dalla sentenza di mercoledì. Un terremoto che scuote strutture indebolite nel tempo e che ancora faticano ad assorbire le trasformazioni imposte dalla riforma. E che sembra non finiscano mai. È infatti possibile che i direttori di altri musei della capitale siano oggetto di nuovi ricorsi. E questo mentre la riorganizzazione voluta dal ministero incontra inciampi di diversa natura.
Il Parco archeologico dell’Appia Antica, per esempio, ha una direttrice, Rita Paris, ma non ancora una sede. La pianta organica, poi, è tutta sulla carta, non essendoci una dotazione di personale ed essendo bloccata la mobilità interna. La conseguenza è che per qualunque esigenza ci si appoggia alla Soprintendenza sia per gli archeologi impegnati negli scavi, sia per gli amministrativi, i quali s’incaricano di stilare il bilancio.
Un’altra conseguenza, sempre ammesso che il Consiglio di Stato ribalti la decisione del Tar, è che il concorso per la direzione del Colosseo venga comunque rinviato. Per questo incarico erano arrivate oltre ottanta domande, una quindicina delle quali dall’estero. Ed erano state fissate le date dei colloqui a fine giugno. Ma già le due precedenti sentenze del Tar, una delle quali aveva colpito il direttore austriaco del Palazzo Ducale di Mantova, Peter Assmann, avevano diffuso pesanti dubbi sulla bontà della procedura. Dubbi rinforzati dalla decisione del Tar di mercoledì.
». il manifesto,8 giugno 2017 (c.m.c.)
Il Colosseo – tra lo skyline tamarro del «divo Nerone» che staglia le sue arroganti strutture tra colonne romane (ieri, migliaia le persone in fila sulla via Sacra), l’ipotesi di finire ingabbiato da orrende cancellate anti-terrorismo, lo scapestrato restauro che ha cancellato la sua storia, riducendola a una patina televisiva – non ha pace. Ed è la spina nel fianco anche del ministro per i beni culturali Dario Franceschini. Ancora una volta l’Anfiteatro Flavio è l’ospite scomodo che sta dietro al duello fra Mibact e Campidoglio: il Tar del Lazio, infatti, ha accolto il ricorso con il quale il Comune di Roma contestava il decreto che istituiva il Parco autonomo voluto da Franceschini (che è pronto a impugnare l’atto). La motivazione della bocciatura? «Vizi di eccesso di potere del provvedimento» e anche «violazione del principio della leale collaborazione tra enti». Colosseo e area Fori, estrapolati indebitamente, toglievano alla città gran parte delle sue risorse, provenienti dalla bigliettazione. E mettevano in ginocchio così gli altri beni archeologici del Comune. È tutto da rifare; decreto annullato.
Le sentenze di accoglimento pubblicate riguardano poi le istanze di opposizione avanzate dal sindacato Uilpa-Bact, dove si definiva quel Parco «un’operazione arbitraria, con gravi profili di illegittimità di merito e metodo».
La sindaca Raggi ha esultato, cinguettando con un tweet dai toni populisti: #Colosseo. Hanno vinto i cittadini, bene Tar. Sconfitto tentativo Governo. Roma resta di tutti. Secondo il Campidoglio, infatti, il «progetto Colosseo» era lesivo degli interessi di Roma Capitale, dato che sottraeva un bene alla Soprintendenza speciale e alla città – circa 40 milioni di euro i ricavi – e immetteva in circuito patrimoni di serie A e altri di serie B. Anche per il vicesindaco Luca Bergamo quella del Tar è «una decisione positiva e importante che consente di riprendere il discorso su una visione unitaria e integrata del patrimonio culturale della città. Che non può essere visto semplicemente come asservito al turismo».
Dopo lo stop e la caduta delle nomine di alcuni nuovi direttori di musei, tra cui gli «stranieri» (per l’impossibilità di valutare un concorso avvenuto a porte chiuse, con criteri fumosi, che non rispettava la norma cui si sono sottoposti, negli anni passati, gli altri candidati alle cariche dirigenziali), Franceschini è apparso stavolta più smaliziato di fronte la notizia del nuovo fallimento: «Non posso dire che sono stupito. È lo stesso Tar, stessa sezione della sentenza sui direttori stranieri. Fatico però a capire perché 31 musei e parchi archeologici autonomi, dagli Uffizi a Pompei, vadano bene e il 32esimo, il Parco del Colosseo, giuridicamente identico a tutti gli altri, invece no».
La verità è che la riforma del Mibact, fiore all’occhiello del governo Renzi, è allo sbando e paga l’improvvisazione dei suoi «piloti» che hanno forzato la mano, imponendo decisioni dall’alto e squassando un sistema perfettibile certo, ma non smantellabile del tutto. Non è questione solo di cavilli burocratici, in campo entrano metodi e visioni. La brama dell’immediato far cassa attraverso i «monumenti-re» è cosa di breve respiro, non rispetta l’unità del centro storico, chiave concettuale per la sua giusta tutela. Così il Colosseo non può essere scippato né spremuto come un limone per ammucchiare soldi. Ha tutti i connotati, invece, per essere un magnifico testimonial di quel parco senza soluzioni di continuità che auspicava Antonio Cederna e che avrebbe dovuto suturare la ferita inferta dal fascismo all’assetto urbanistico della capitale. Era quello un modo di chiudere i conti con una stagione di sventramenti propagandistici per aprire la porta a un’altra stagione, in cui si riconsegnava la città ai suoi abitanti e – perché no – anche ai turisti.
Disattenzione e buona fede in un documento generoso nelle intenzioni, condivisibile in molte sue parti, ma negativo nei potenziali effetti su un punto decisivo. Ecco perché non aderiamo, e preghiamo molti amici di ripensarci (in calce il testo del documento). 8 giugno 2017
Abbiamo letto l'appello dal titolo Decologo per una città ecologica (riportato integralmente in calce) a cui hanno aderito personaggi caratterizzati da una intelligente attenzione alle questioni della città e del territorio, dalla critica costante alle logiche di sfruttamento economico e sociale e di degrado delle qualità culturali, naturali e sociali di ciò che resta del Bel Paese. Citiamo tra gli altri Carlo Cellamare, Paolo Maddalena, Giorgio Nebbia, Marco Revelli, Enzo Scandurra, Guido Viale, tutte persone delle quali abbiamo la massima stima; molte delle quali collaborano sistematicamente con eddyburg.
Evidentemente la fretta e la fiducia nelle persone che hanno incautamente proposto l'appello hanno prevalso sull'attenzione di un aspetto rilevante dell'appello. In esso infatti sostanzialmente si condivide il disegno di legge governativo sul consumo di suolo (ex Catania) già approvato dalla Camera dei Deputati.
Ci permettiamo di ricordare ai nostri amici il giudizio che più volte abbiamo espresso a proposito di quel documento, riproducendo qui di seguito integralmente il contenuto del nostro Eddytoriale n.168 del 11 dicembre 2015. (e.s.)
È ferma in Parlamento la proposta di legge sul consumo di suolo. Non ne siamo affatto dispiaciuti. Prima si mette una pietra su quel documento meglio è. Abbiamo apprezzato a suo tempo l’impegno dell’allora ministro per l’Agricoltura Mario Catania ad affrontare il tema con la volontà di risolverlo, sebbene ne avessimo criticato fin da allora l’impostazione. Abbiamo seguito e criticato via via le modifiche apportate e i cospicui peggioramenti del testo iniziale, e abbiamo assistito infine al suo completo stravolgimento: così evidente che il suo originario promotore ne ha preso recentemente le distanze
Quindici anni dopo
Come è noto ai frequentatori di eddyburg siamo stati i primi a sollevare, nell’ormai lontano 2005, il problema del carattere, delle dimensioni, della dinamica del consumo di suolo nel nostro paese e a indicare l’urgenza di affrontare energicamente il fenomeno per arrestarlo.
Nella società, e in alcune, pochissime, amministrazioni locali qualcosa si è mosso. “Stop al consumo di suolo” è diventato uno slogan diffuso e ha prodotto la nascita di interessanti e positive iniziative di massa, quali l’associazione e il forum promossi dal sindaco di Cassinetta di Lugagnano, Domenico Finiguerra, di cui siamo stati partecipi. La maggior parte dei comitati e dei gruppi di cittadinanza attiva impegnati nella difesa del territorio, l’ambiente, il paesaggio hanno assunto il contrasto al consumo di suolo tra i propri obiettivi.
Ma sul terreno della politique polticienne e delle istituzioni nulla si è mosso. Nessun provvedimento serio è stato preso a livello nazionale. A livello regionale una sola regione, la Toscana, ha prodotto una legge esemplare, dovuta alla sapiente determinazione dell’assessore Anna Marson e all’appoggio che per un lungo periodo le ha dato il presidente Enrico Rossi. L’espressione “consumo di suolo” ha continuato a girare nelle rotonde parole della politica e della cultura (sebbene si sia passati dallo sbrigativo “stop al consumo di suolo” al più morbido e ragionevole “contenimento del consumo di suolo”). Ma si è subito accompagnato a un’altra espressione, “rigenerazione urbana”. Espressione di per sé non disdicevole ma, come tutte le parole, suscettibile di interpretazioni diverse, e anzi opposte. Oggi, nel contesto dell’attuale discorso sul “contenimento del consumo di suolo”, è diventata la parola il cui significato concreto è “la nuova forma della speculazione immobiliare”. Vogliamo annotare subito il poderoso contributo che a questo rovesciamento di senso hanno dato l’accademia e la cultura urbanistica “ufficiale” rappresentata dall’INU, da tempo diventato il facilitatore delle fortune dei poteri immobiliari.
A che punto stanno le cose oggi?
Esiste (ancora) la proposta ferma al Parlamento nazionale. Abbiamo già detto che la sua definitiva sepoltura è del tutto auspicabile, poiché è una legge che, ove fosse approvata, non darebbe nessun risultato positivo per quanto riguarda la riduzione del consumo di suolo per le ragioni che sono state puntualmente indicate su queste pagine negli articoli di Vezio De Lucia, di Cristina Gibelli, di Ilaria Agostini. In una parola, essa prevede lo svolgersi di una tale successione di atti e di una tale concatenazione di interventi delle diverse figure istituzionali da richiedere tempi misurabili in anni se non in decenni e, soprattutto, da consentire innumerevoli interruzioni del percorso stabilito. Essa inoltre aprirebbe la strada a quella “rigenerazione urbana” speculativa cui abbiamo accennato, e su cui torneremo. Ci confortano nella nostra posizione le parole che ha recentemente espresso l’on. Mario Catania: «poi è entrata la parte della rigenerazione urbana» ha detto l’ex ministro, «e se fosse approvato sarebbe inefficace» (la Stampa, 5 dicembre2015).
La buona legge
Esiste, come abbiamo ricordato, una legge della regione Toscana, pienamente vigente. Essa ha superato un passaggio al vaglio della Corte costituzionale, che l’ha ripulita di due discutibili norme inserite nell’iter su richiesta dell’Anci, e per nulla incidenti sulla struttura della legge. È una legge di cui abbiamo ampiamente illustrato la positività, che brevemente riassumiamo.
Sulla base di una precisa definizione dei termini impiegati (in particolare la distinzione tra territori urbanizzati e territori rurali) la legge prescrive che i piani comunali delineino nettamente il confine che separa il territorio oggi urbanizzato da quello rurale. Ogni nuovo intervento di nuova edificazione o di trasformazione urbanistica deve essere collocato all’interno del territorio urbanizzato. Nel territorio rurale non sono mai consentite nuove edificazioni residenziali; sono invece possibili limitate trasformazioni di nuovo impianto per altre destinazioni, solo se autorizzate dalla conferenza di pianificazione di area vasta (alla quale partecipa la Regione, con diritto di veto) cui spetta di verificare che non sussistano (anche nei comuni limitrofi) alternative di riuso o riorganizzazione di insediamenti e infrastrutture esistenti.
Naturalmente la legge definisce con precisione ciò che i comuni possono autorizzare o non autorizzare fino all’approvazione di nuovi piani conformi alle nuove prescrizioni regionali, nonché le regole da seguire nelle trasformazioni delle aree già urbanizzate per evitarne il degrado ambientale o sociale, per rispettare il rapporto tra aree edificate e aree libere, tra volumi e spazi aperti, tra abitanti e spazi pubblici e usi pubblici e così via. Una legge, insomma, che costituisce un piccolo manuale della buona urbanistica; essa dovrebbe costituire un testo da studiare in tutte le sedi universitarie che si occupino di trasformazioni del territorio, e siano davvero orientate alla formazione di tecnici impegnati nella progettazione e realizzazione di un corretto uso del suolo, rurale ed urbanizzato, e non nella corruzione del mestiere di urbanista in quello di facilitatore delle attività immobiliari.
“Rigenerazione urbana” alla veneta
Esiste poi un progetto di legge della regione Veneto, che illustra splendidamente che cosa si intenda in quella regione (e in tutto il mondo politico e culturale che a quell’esempio si ispira) per “rigenerazione urbana” e su cui vogliamo per questo soffermarci. E il progetto di legge n. 390 «Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo, la rigenerazione urbana e il miglioramento della qualità insediativa», ed è firmata dal presidente della Regione Zaia e da un plotone di suoi seguaci.
Cominciamo col dire che il contenimento del consumo non c’è (come del resto non c’è il miglioramento della qualità urbana. Si dichiara, è vero, di assumere l’obiettivo di «evitare il consumo di suolo non urbanizzato» e quello di «invertire il processo di urbanizzazione del territorio», ma si esenta da questo “vincolo” una serie di tipologie di aree, pubbliche o private, «finalizzate all’attuazione di opere pubbliche o d’interesse pubblico».
Ne elenchiamo alcune: «edilizia residenziale pubblica o sociale», «aree pubbliche trasferite o da trasferirsi in attuazione del piano di alienazioni del patrimonio immobiliare», «aree individuate da accordi pubblico-privati» già in essere, «aree destinate a interventi di rilievo sovracomunale, previa autorizzazione della giunta regionale».
Non solo, ma nell’attesa di un successivo provvedimento regionale che stabilisca «i limiti del consumo di suolo per finalità urbanistico-edilizio» si consente comunque ai comuni di «individuare nei “piani degli interventi” vigenti fino al 50% delle superfici corrispondenti al carico insediativo aggiuntivo previsto dai “piani di assetto territoriale”», conservandone la capacità edificatoria. Si tenga conto che secondo stime autorevoli, i “piani di assetto territoriale” hanno generalmente convalidato le previsioni contenute nei PRG vigenti, i quali consentirebbero un aumento pari al 40% dell’attuale urbanizzato (vedi: Legambiente Veneto, Osservazioni al progetto di legge della Giuntaregionale del Veneto n. 390. Un parere molto critico lo ha formulato anche il Dipartimento di Progettazione e Pianificazione in Ambienti Complessi.
Nulla, quindi, per il contenimento del consumo di suolo, ma tranquilla prosecuzione del trend che ha fatto del Veneto, come gli stessi presentatori ammettono nell’accattivante relazione, una delle regioni peggiori d’Italia. Ma vediamo in che consiste quello che è il vero obiettivo della legge: la cosiddetta ”rigenerazione urbana” .
Per cominciare si dichiara che «sono da considerarsi d’interesse pubblico anche ai fini dell’eventuale rilascio di permessi da costruire in deroga» una serie di interventi di demolizione (manufatti privi di vincoli di protezione, o ricadenti in aree soggette a rischio idraulico o geologico, manufatti degradati, o che comunque dequalificano il tessuto urbano circostante). Si prosegue dichiarando che «è consentita la riutilizzazione propria dei manufatti demoliti con destinazioni d’uso anche diverse da quelle attuali, in loco o in altra area compresa nel tessuto urbano già consolidato».
Che cosa questo c’entri con una “rigenerazione edilizia” correttamente intesa non si comprende proprio. Basta però andare al comma successivo il quale chiarisce che: «per promuovere la rigenerazione edilizia i comuni possono prevedere «anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, un incremento premiale della volumetria o della superficie utile fino al 15%», incrementabile fino al 30% se la Giunta regionale è d’accordo.
L’esame, e l’implicita denuncia, potrebbero continuare. Ma limitiamoci a tirar fuori il succo dalle disposizioni. Rigenerazione edilizia “alla veneta” significherebbe aumento indiscriminato dei volumi edificati in ogni parte del territorio già totalmente o parzialmente edificato (comprese le aeree di completamento, cioè d’espansione, previste dai piani vigenti). Significherebbe riduzione del rapporto tra aree edificate e aree libere, tra aree e volumi di proprietà e uso privato e aree e volumi di uso pubblico (e naturalmente nessuna probabilità che all’aumentato numero di abitanti corrisponda un aumento delle dotazioni pubbliche.
Nessuna garanzia di mantenimento in loco degli abitanti già insediati e anzi promozione di un’espulsione delle famiglie e delle attività più povere. Nessuna possibilità di attuare una pianificazione finalizzata ad avere un minimo di razionalità dell’equilibrio tra le diverse funzioni sul territorio) abitazioni, commercio, attività lavorative, servizi pubblici, e quindi mobilità. Il caos primigenio, qualcosa di simile agli slums e alle favelas ma con volumi eccezionalmente maggiori e assoluta irreversibilità della trasformazione
Una proposta di eddyburg
Esiste infine una proposta di legge nazionale di un gruppo di amici di eddyburg, basata sulla possibilità costituzionalmente legittima di un intervento diretto dello Stato che costituisca un vincolo insuperabile per le regioni che volessero resistere.
Già nel 2006 un gruppo di amici di eddyburg aveva presentato una proposta di legge che fu fatta propria dai gruppi parlamentari della sinistra. La XV legislatura si concluse con un nulla di fatto. Poi le varie vicende che hanno condotto alla proposta Catania e al suo progressivo indebolimento. Ci eravamo via via convinti che era illusorio basarsi su procedure che assegnassero un ruolo determinante alle regioni. Se una sola di loro aveva positivamente reagito e il suo esempio non era stato seguito da nessuna delle altre (e platealmente ignorato o contrastato dalla cultura urbanistica ufficiale) occorreva aggiustare il tiro.
Fino ad allora ci si era riferiti alla materia “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione, (una disposizione che affida la potestà legislativa alla Regioni, riservando allo Stato la sola determinazione dei principi fondamentali: un percorso - si afferma - inadatto a raggiungere risultati soddisfacenti in tempi ragionevoli).
Nella nuova proposta di legge di eddyburg si suggerisce invece di riferirsi al comma 2, lettera s) dello stessa articolo, che elenca le materie in cui la potestà legislativa è di competenza esclusiva dello Stato. In effetti, come si afferma nella proposta, la salvaguardia del territorio non urbanizzato, in considerazione della sua valenza ambientale e della sua diretta connessione con la qualità di vita dei singoli e delle collettività, costituisce parte integrante della tutela dell’ambiente e del paesaggio.
Questo cambio di prospettiva, che si traduce in una significativa compressione delle competenze legislative delle regioni, è giustificato dal valore collettivo che tali porzioni di territorio hanno assunto non solo per i singoli e le collettività di oggi ma, in una logica di solidarietà intergenerazionale
Per concludere: due modesti obiettivi
Non nutriamo nessuna speranza che l’attuale Parlamento, dominato e di fatto sostituito dall’attuale governo, possa esprimere la volontà di affrontare l’argomento nell’unico modo che ci sembra suscettibile di un risultato positivo. E ci rendiamo anche conto che non basta contenere il consumo di suolo per risolvere tutti i problemi che una effettiva riutilizzazione delle aree giù urbanizzate pone per essere diversa da quella oggi dominante. Cosa, quest'ultima, molto facie se si torna ai principi e alle pratiche della buona urbanistica
Ci proponiamo unicamente di raggiungere due obiettivi.
Il primo è denunciare il ruolo della cultura urbanistica ufficiale. Abbiamo sentito pochissime voci opporsi all’ignobile progetto Zaia (soltanto, in sede locale, quelle di Legambiente Veneto e dell’Università IUAV di Venezia). Ne registreremo volentieri altre se ci perverranno.
Ma soprattutto riconosciamo in quel progetto di legge molti dei gravi cedimenti della corretta urbanistica (un’urbanistica al servizio di tutti gli abitanti, a cominciare dai più deboli, e non al servizio degli interessi immobiliari): i premi di cubatura, le deroghe, la perversa invenzione dei “diritti edificatori”, la possibilità di modificare ad libitum le destinazioni d’uso, i crediti edilizi collocabili al di fuori di qualunque contesto pianificatorio, la scomparsa degli standard urbanistici pubblici, la tranquilla liquidazione dei patrimoni immobiliari pubblici. Ma potremmo continuare il nostro elenco.
Il secondo obiettivo è quello di richiamare l’attenzione delle forze sociali e politiche che intendono “cambiare verso” alla distruzione del territorio e alla crescita del disagio urbano, e sollecitarle ad affrontare il tema con maggiore attenzione e maggior rigore di quello finora dimostrato. Abbiamo l’impressione che - vogliamo dirlo schiettamente - la cultura urbanistica, nel senso di una vigile comprensione del modo in cui il sistema normativo si traduce in concrete decisioni incidenti sulla qualità della vita dei cittadini attuali e futuri sia del tutto assente dalla cassetta degli attrezzi dei decisori.
Comprendiamo che i tempi sono cambiati da quelli in cui campeggiavano nell’arengo politico e amministrativo personaggi come Fiorentino Sullo o Camillo Ripamonti o Aldo Natoli o Giacomo Mancini o Piero Bucalossi, ma qualcosa di più di quello che il panorama attuale presenta si potrebbe pretenderlo. Non ci riferiamo tanto alla “destra” (per i cui esponenti il “verso” attuale è più che soddisfacente e le assicurazioni tecniche della cultura urbanistica ufficiale sono largamente sufficienti per affinità ideologica) ma soprattutto a “sinistra” o dove comunque ci si ponga l’obiettivo di rendere città e territorio più idonei a soddisfare le esigenze attuali e future dei loro abitanti.
Le proposte della comunità scientifica e della società civile per un’Italia a zero emissioni e zero veleni.
Nell’ultimo secolo si è imposto e perfezionato un modello di sviluppo mirato unicamente alla crescita economica e all’accumulazione di profitto con una caratterizzazione meramente quantitativa. Ciò che conta è far crescere il Pil il più possibile, controllare il più possibile le risorse naturali, produrre in maniera intensiva abbattendo il più possibile i costi ambientali e del lavoro, consumare il più possibile, smaltire risparmiando il più possibile. Questo sistema ha determinato conseguenze disastrose per la vita del pianeta e delle comunità umane e ha inasprito le diseguaglianze concentrando la ricchezza in un sempre minor numero di mani. Il mondo appare oggi diviso in due: da un lato chi si arricchisce, appropriandosi di risorse e ricchezze senza limiti; dall’altro chi paga il conto, risultando espropriato di ogni diritto.
Alle emergenze sociali prodotte si somma una crisi ambientale globale pervasiva e allarmante: esaurimento progressivo delle risorse, cambiamenti climatici, alti livelli di contaminazione delle matrici ambientali, gravi impatti sanitari sulle comunità esposte. Tale crisi, diretta conseguenza dell’attività predatoria dell’uomo sul pianeta, è la plateale rappresentazione del fallimento delle scelte politiche dei governi a tutti i livelli: non è esternalità casuale, degenerazione di un processo virtuoso, ma diretto prodotto dell’insieme delle scelte messe in campo, del quadro delle priorità inseguite, del modello di produzione scelto.
Le politiche attualmente in campo in termini di sfruttamento delle risorse naturali, di produzione, consumo e smaltimento degli scarti sono del tutto incompatibili con ogni istanza di giustizia ambientale, sociale e democratica.
Il nostro Paese si inserisce perfettamente in questo quadro e ne è attore protagonista: nonostante gli impegni assunti dai governi in sede europea e internazionale, l’intera economia italiana risulta ancora fondata su principi di insostenibilità: il modello energetico è basato in larga parte sullo sfruttamento di fonti fossili; il modello produttivo è fondato su un sistema lineare di sfruttamento dell’uomo e della natura; il modello infrastrutturale è ostinatamente ancorato alla necessità di costruire grandi opere impattanti e dalla dubbia utilità, la cui principale ratio è la distribuzione clientelare di appalti; il modello di gestione dei rifiuti è costruito sull’assunto che l’incenerimento sia parte fondante del processo; il modello sanitario è legato a una visione in virtù della quale si cura (poco e male) chi è malato senza immaginare meccanismi di prevenzione primaria; i processi decisionali risentono di una progressiva tendenza all’accentramento, spogliando le comunità locali e i cittadini di ogni possibilità di consapevole e attiva partecipazione.
Per queste, e per molte altre ragioni, la risposta alla crisi ambientale non può e non deve essere esclusivamente appannaggio della rappresentanza politica e dei soggetti economici privati ma è necessario innescare un meccanismo collettivo di ripensamento della società nella sua integralità: c’è bisogno di un’alleanza tra società civile e comunità scientifica che si ponga l’obiettivo di immaginare un paradigma alternativo di sviluppo e di dotarsi degli strumenti per realizzarlo.
Abbiamo moltissime urgenze sulle quali lavorare, e altrettante proposte per farlo.
La costruzione di una società ecologica non è più soltanto una necessità ma un’urgenza.
I DIECI PUNTI
1) Modello energetico
La produzione energetica in Italia è ancora primariamente concentrata sullo sfruttamento delle risorse fossili, con un aumento negli ultimi anni di nuovi progetti di ricerca ed estrazione di petrolio e gas in terra e in mare. Il boom delle fonti rinnovabili, spinto dalle discutibili politiche incentivanti 2004-2013, si è arenato sotto il peso di un drastico taglio alle agevolazioni e di un quadro riferimento normativo ostile, opaco e instabile. Di contro, continuano a essere incentivate dai fondi le fonti fossili per 14,7 miliardi di euro l’anno. Inoltre, una transizione energetica orientata al contrasto ai cambiamenti climatici, alla sicurezza di approvvigionamento e alla distribuzione di ricchezza non può ragionare soltanto della fonte energetica ma deve necessariamente investire in via prioritaria il ripensamento del modello di produzione, trasformandolo da modello centralizzato e piramidale a modello “misto”, con una forte prevalenza della generazione distribuita: una reale democrazia energetica.
Per operare un profondo ripensamento del sistema di produzione energetico è fondamentale:
Approvare una moratoria sui nuovi progetti estrattivi riguardanti combustibili fossili
Abbandonare ogni progetto di estrazione non convenzionale
Procedere all’eliminazione dei sussidi pubblici alle fonti fossili (14,7 miliardi di euro annui solo per l’Italia, 5300 miliardi a livello globale)
Introdurre un sistema di fiscalità ambientale con la previsione di una carbon tax a livello nazionale, spingendo affinché sia allargata a livello europeo e globale
Sostenere interventi di efficientamento energetico nell’agricoltura, nell’edilizia, nei trasporti e nel settore manifatturiero, ecc., attraverso risorse pubbliche sottratte al patto di stabilità e un Piano Straordinario da sostenere con un Fondo ad hoc gestito, ad esempio, dalla Cassa Depositi e Prestiti, e incisive politiche di defiscalizzazione
Implementare a tappe serrate l’uscita totale dal carbone come fonte di produzione energetica entro il prossimo decennio
Adottare e implementare una road map adeguata per assicurare la completa decarbonizzazione del modello energetico al 2050
Legare l’utilizzo dell’energia da biomasse nella transizione energetica a rigidi criteri di sostenibilità ambientale e sociale, limitandosi alle sole biomasse di scarto e solo a usi complementari a quelli ottenibili con altre rinnovabili.
Promuovere un modello di produzione distribuito dell’energia, attraverso l’adeguamento e la completa digitalizzazione delle reti di distribuzione dell’energia e politiche di incentivazione ai cittadini (cd prosumer)
2) Modello produttivo
Il settore industriale italiano è quanto di più lontano ci sia da un sistema produttivo sostenibile. Un’economia basata sul consumo acritico e su un ciclo di vita lineare delle materie (estrazione, produzione, consumo e smaltimento) ha costi ambientali e sociali troppo elevati. Il combinato di crisi economica e ambientale è un segnale chiaro dell’urgenza di una svolta che deve coincidere con una radicale conversione ecologica del tessuto produttivo, del modo in cui produciamo e del modo in cui consumiamo, a favore di un’economia in grado di produrre (meno) beni e (più) servizi con modalità che rispettino l’ambiente e la salute. Gli elementi necessari a questa transizione sono il passaggio dal gigantismo delle strutture proprie dell’economia fossile alla diffusione, differenziazione e interconnessione delle attività produttive e alla diminuzione dell’orario di lavoro. Tale modello ridurrebbe al contempo le disuguaglianze economiche e sarebbe a maggiore densità di lavoro rispetto a quello attuale, creando occupazione degna e di qualità.
Affinché tale cambiamento sia possibile è necessario agire in queste direzioni:
Promuovere il riavvicinamento sia fisico (“Km0”) sia organizzativo tra produzione e consumo grazie ai rapporti diretti fra cittadinanza attiva, imprenditoria locale e governi del territorio che devono avere il controllo congiunto dei servizi pubblici e partecipare alla definizione delle risorse a sostegno della conversione ecologica
Sottrarre ai vincoli del patto di stabilità gli investimenti destinati al welfare municipale e alle conversioni produttive e ridurre il debito pregresso nell’ambito dei servizi locali in misura sufficiente a non essere di ostacolo a questi processi
Rivedere il Piano Nazionale Industria 4.0 che si limita alla mera digitalizzazione dei processi produttivi prevedendo incentivi all’efficientamento e alla decarbonizzazione e affrontando le ricadute sociali e ambientali del modello produttivo attuale.
Applicare la Direttiva Europea sull’ Economia Circolare promuovendo distretti produttivi simbiotici e rendendo obbligatorio l’uso razionale e il riuso delle materie prime e delle risorse tramite eco-progettazione (a monte), filiere sostenibili e corretto trattamento degli scarti (a valle);
Incentivare la conversione lavorativa attraverso la riqualificazione professionale e la formazione dei lavoratori affinché possano usufruire delle nuove opportunità date dai settori industriale, edile, artistico e dei servizi che usano soluzioni e tecniche di produzione ecosostenibili.
Varare politiche di inclusione sociale, favorendo l’inserimento di categorie vulnerabili e soggetti in condizioni di difficoltà e di svantaggio.
Prevedere azioni di controllo contro politiche di greenwashing, riferibili alle aziende, organizzazioni e istituzioni politiche che costruiscono un’immagine di sé ingannevolmente verde danneggiando consumatori, aziende e ambiente.
3) Modello agricolo e alimentazione
Il modello di produzione agricolo, in Italia come altrove, è sempre più basato su sistemi di coltivazione intensiva e sull’utilizzo massiccio di agrotossici. Tali pratiche impoveriscono i terreni, rendono insalubri e spesso tossici gli alimenti prodotti e contribuiscono ad alimentare un sistema di sfruttamento intensivo non solo dei campi, ma anche della forza lavoro, attraverso il ricorso al caporalato e con condizioni di lavoro inaccettabili per i braccianti. Si assiste inoltre alla progressiva concentrazione di grandi quantità di terre in poche mani. Stesse considerazioni valgono per i sistemi intensivi di allevamento zootecnico, che si traducono nella produzione di cibo di scarsa qualità, con l’aggravante del trattamento disumano degli animali. Tra le varie attività umane, il settore dell’allevamento è quello che richiede il maggiore utilizzo di terreni, e contribuisce in maniera sensibile al consumo di acqua e alle emissioni di gas climalteranti. Occorre infine considerare che in totale lo spreco alimentare domestico annuo in Italia ha un valore calcolato di 13 miliardi di euro, che corrispondono all’1% del Pil.
Per l’affermazione di un modello agricolo sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale sarebbe necessario:
Privilegiare produzioni di piccola scala, sia nelle coltivazioni che nell’allevamento di bestiame
Vietare l’utilizzo di pesticidi e sostanze chimiche e prediligere sistemi organici e biologici
Estendere in maniera capillare le maglie del controllo sullo sfruttamento dei lavoratori agricoli in modo da eradicare la pratica del caporalato
Non limitarsi a vietare l’utilizzo di sementi Ogm ma vietare altresì l’importazione e la vendita in Italia di prodotti provenienti da colture Ogm.
Non implementare colture energetiche dedicate privilegiando la produzione di cibo di qualità
Rendere accessibile il cibo di qualità attualmente proibitivo per le fasce di popolazioni più vulnerabili
Creare sistemi di tracciabilità dei prodotti in etichetta affinché sia possibile per i cittadini risalire alle informazioni relative al luogo di produzione, alle sostanze utilizzate per la produzione, alla distribuzione del valore attraverso la filiera etc.
Tutelare la diversità genetica dei semi a livello locale promuovendo e foraggiando le tecniche tradizionali di cura e rigenerazione delle sementi da parte degli agricoltori
Sottrarre alla Grande Distribuzione il monopolio del mercato del cibo, rafforzando relazioni di prossimità tra produttore e consumatore, ad esempio attraverso i Gruppi di Acquisto Solidale e la messa a sistema delle reti esistenti di distribuzione sostenibile.
Modificare le produzioni agricole per ridurre drasticamente l’impronta idrica e andare verso produzioni agricole carbon neutral incrementando il carbonio organico nei suoli.
4) Cementificazione e consumo di suolo
Secondo l’ultimo rapporto sul consumo di suolo elaborato dall’Ispra, tra il 2013 e il 2015 la cementificazione ha invaso 250 km2 di territorio, 35 ettari al giorno. In Italia si perdono circa 4 metri quadrati di suolo ogni secondo. Sebbene nel 2016 sia stato approvato un DDL sul contenimento del consumo di suolo, esso risulta parziale e poco efficace per raggiungere gli obiettivi auspicati: per rendere il provvedimento efficace occorrerebbe anzitutto includere all’interno della definizione di consumo di suolo, tra le altre, le superfici destinate ai servizi di pubblica utilità di livello generale e locale, le aree destinate alle infrastrutture e agli insediamenti prioritari, le aree in cui sono previsti gli interventi connessi in qualsiasi modo alle attività agricole. L’esclusione di tali categorie è il primo ostacolo per il raggiungimento degli obiettivi di contenimento fissati per legge.
Per tali ragioni urge:
Stabilire obiettivi di riduzione del consumo di suolo sempre più stringenti di anno in anno in modo tale da garantire il raggiungimento dell’obiettivo “consumo di suolo zero al 2050”
Promuovere e sostenere il recupero del patrimonio esistente e la rigenerazione urbana, in modo da scoraggiare il nuovo edificato su suolo vergine e mirando tali processi all’inclusione sociale e la riconversione ecologica dell’esistente.
Evitare ulteriore cementificazione degli spazi urbani e industriali da recuperare e aumentare il livello di rinaturalizzazione.
Incentivare il monitoraggio partecipativo del consumo di suolo.
Incentivare il coinvolgimento delle realtà locali nei processi di pianificazione urbana e di rigenerazione.
5) Grandi opere e infrastrutture
Il solo decreto Sblocca Italia varato nel 2014 ha sbloccato 14 grandi opere per un valore stimato di quasi 29 miliardi di euro, sostenendo uno schema di investimenti pubblici che favorisce la costruzione di infrastrutture impattanti e dalla dubbia utilità a scapito di interventi diffusi di risanamento del dissesto idrogeologico dilagante nel paese. Tale orientamento della spesa pubblica comporta una consistente diminuzione del welfare, cui si sommano, gli impatti ambientali, sociali prodotti dalle opere finanziate. Ulteriore elemento di criticità riguarda il carattere impositivo insito nella definizione e implementazione delle mega infrastrutture, che depauperano sistematicamente le comunità impattate dalla possibilità di partecipare ai processi decisionali.
Cambiare il modello infrastrutturale necessita di un profondo ripensamento, che non può non partire dal:
Ripensare le infrastrutture strategiche per il paese in un’ottica low carbon, come indicato tra gli altri dal Report della Global Commission on Economy and Climate presieduta da Nicholas Stern.
Rinunciare alla costruzione di mega infrastrutture energetiche legate all’utilizzo delle fonti fossili
Rinunciare ai progetti infrastrutturali connessi alla difesa militare, a partire da quelli stranieri e legati a servitù militari, ripristinando la sovranità nazionale sul territorio
Riorientare gli investimenti pubblici per le mega opere impattanti in investimenti per il risanamento idrogeologico del territorio. Il dissesto interessa l’82% dei comuni italiani, circa 30.000 kmq di territorio da nord a sud del paese ed è costato in termini di danni causati da calamità naturali tra il 1944 e il 2011 più di 240 miliardi di euro di fondi pubblici, circa 3,5 miliardi di euro all’anno. (Fonte: Anci-Cresme).
6) Gestione dei rifiuti
Il modello nazionale di gestione dei rifiuti è caratterizzato da gravi inefficienze e, soprattutto, dall’incapacità di costruire strategie basate sulla corretta gerarchia di gestione dei rifiuti: riduzione a monte, riuso, riciclo, recupero energetico, smaltimento. Nonostante le gravi conseguenze sanitarie e ambientali – provate da una vasta letteratura scientifica – discariche e inceneritori restano infatti i cardini della gestione rifiuti a livello nazionale. Con il decreto Sblocca Italia, il dicastero dell’Ambiente ha elevato gli inceneritori a “infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale” dichiarando di fatto una precisa volontà politica: incentivare e favorire il business dell’incenerimento dei rifiuti. L’attuazione di una gestione sostenibile dei rifiuti passa al contrario e necessariamente per l’applicazione delle direttive comunitarie (come la Direttiva 2008/98/CE), per il rispetto del principio di precauzione e per la messa a sistema di una corresponsabilità tra enti, cittadini e imprenditoria.
Per intraprendere la strada della sostenibilità occorre:
Applicare la corretta gerarchia della gestione in un’ottica Rifiuti Zero.
Dismettere gli impianti di incenerimento, eliminando gli incentivi economici pubblici per qualsiasi forma di combustione dei rifiuti e abbandonando i processi di combustione, prima causa della scadente qualità dell’aria nel nostro paese.
Abrogare l’articolo 35 del decreto Sblocca Italia e rinunciare alla costruzione della nuova impiantistica prevista dal Decreto Inceneritori.
Potenziare la raccolta differenziata porta a porta con il sistema di tariffazione puntuale.
Sviluppare strumenti fiscali per incentivare la raccolta differenziata di qualità
Sviluppare una gestione orientata alla massima efficienza economica dei servizi di raccolta e smaltimento.
Riorganizzare il sistema dei consorzi CONAI con una regolazione pubblica dei contributi per renderli inversamente proporzionale alla riciclabilità dei materiali immessi a consumo.
Promuovere e incentivare la realizzazione di impianti finalizzati al recupero di materia: impianti a freddo per il trattamento di materiali accoppiati (come il tetra-pak) e multimateriali non recuperabili con il porta a porta.
Privilegiare la realizzazione di impianti di compostaggio aerobico eventualmente accompagnato da digestione anaerobica di qualità
Incentivare e promuovere iniziative, incentivi, azioni e progetti che consentano di prevenire a monte la produzione dei rifiuti.
Incentivare buone pratiche di riuso, riciclo, riduzione come il compostaggio domestico e di comunità.
Tenere in considerazione, in fase di progettazione dei prodotti, la scomponibilità e recuperabilità degli oggetti per favorire la re-immissione dei materiali nei cicli produttivi
Disincentivare l’acquisto di prodotti non riciclabili e usa e getta.
7) Mobilità
Il modello di trasporti può dirsi sostenibile quando risponde efficacemente alle esigenze dei cittadini, riduce il traffico, migliora la qualità dell’aria, taglia i consumi energetici. Il sistema di trasporto pubblico in Italia è invece caratterizzato da gravi inefficienze, dall’insufficienza di offerta di sistemi di mobilità sostenibile (trasporti su rotaie, piste ciclabili, sistemi di car sharing etc.) e dalla netta prevalenza di sistemi di trasporto su gomma, con preminenza dei veicoli privati anche per gli spostamenti quotidiani. Altrove, la direzione verso la mobilità sostenibile ha preso da tempo la via della multimodalità: integrare modelli di trasporto diversi e a basso impatto, una direzione ancora molto lontana dal modello diffuso nel nostro paese.
Per promuovere un modello di trasporti realmente sostenibile occorrerebbe anzitutto:
Rafforzare le reti di trasporto pubblico, con preferenza per i veicoli elettrici e su rotaia in riferimento sia alle reti urbane sia alle reti extraurbane per gli spostamenti pendolari, contribuendo così a ridurre smog, rumore, ingorghi e ritardi.
Investire, dal punto di vista della politica industriale, sull’ampliamento del parco autobus elettrico.
Implementare una vasta rete per la ciclabilità urbana ed extraurbana, come risposta alle esigenze di trasporto urbano e alla domanda di turismo “dolce”
Implementare sistemi di monitoraggio della qualità dell’aria con particolare attenzione a sorgenti significative (autostrade/tangenziali) e agli inquinanti non rivelati come le particelle ultrafini (0.1 micron).
Istituire aree verdi e zone pedonali per disincentivare l’uso di vetture private nei centri urbani.
Investire nella multimodalità, prevedendo l’integrazione e l’interconnessione tra diversi sistemi di mobilità sostenibile.
Implementare e promuovere sistemi di uso condiviso, come bike sharing e car sharing elettrico, agevolandone l’utilizzo massiccio attraverso misure incentivali.
Spostare il traffico merci su ferro ed evitare la costruzione di nuove strade a larga percorrenza.
Come da indicazioni del Parlamento Europeo ridurre le emissioni di ossidi di azoto e di particolato sottile (<2.5 micron) su tutti i territori del 65% e del 50% e nelle aree ad alto inquinamento almeno del 75% (NO2) e del 60% (particolato) per ridurre la mortalità da smog.
8) Acqua e servizi pubblici essenziali
Il modello di gestione del servizio idrico e, più in generale, dei servizi pubblici essenziali, è stato oggetto nel 2011 di un referendum abrogativo che ha portato all’affermazione di un’idea di gestione pubblica e ha sancito il carattere dell’acqua quale bene comune e diritto umano universale, prevedendo peraltro che non potesse essere inserita in bolletta alcuna quota di profitto per il gestore. Da allora si è tuttavia assistito a una rinnovata strategia di rilancio dei processi di privatizzazione del servizio idrico e degli altri servizi pubblici locali. Attualmente, attraverso processi di aggregazione e fusione, quattro colossi multiutilities – A2A, Iren, Hera e Acea – già collocati in Borsa, stanno progressivamente inglobando la totalità delle società di gestione dei servizi idrici, ambientali ed energetici.
Per invertire la rotta e restituire alle autorità pubbliche e alle comunità il controllo sui servizi pubblici essenziali occorre:
Ripubblicizzare il servizio idrico favorendo la partecipazione popolare diretta alla pianificazione e gestione del servizio idrico integrato e che consenta l’accesso ai dati e alle informazioni.
Prevedere sistemi di gestione pubblica e partecipata dei servizi pubblici essenziali in generale, rafforzata dallo sviluppo di processi di partecipazione dei cittadini e dei lavoratori.
Promuovere investimenti indirizzati prevalentemente alla ristrutturazione della rete idrica, con l’obiettivo di ridurre strutturalmente le perdite di rete, e verso le nuove opere, in particolare del sistema di depurazione e di fognatura.
Garantire sistemi di controllo della qualità delle acque con accesso ai dati per la popolazione e rapidi interventi di risanamento ove necessario.
Promuovere un nuovo sistema di finanziamento del servizio idrico basato sul ruolo fondamentale, oltre che della leva tariffaria, della finanza pubblica e della fiscalità generale; in altre parole il servizio idrico deve tornare a essere una delle priorità nel bilancio statale.
9) Ambiente e diritto alla salute
L’emergenza sanitaria legata alla contaminazione ambientale in Italia è grave, conclamata e capillarmente diffusa. Tale situazione di grave violazione del diritto umano alla salute, costituzionalmente garantito, è stato indagato nel rapporto epidemiologico S.E.N.T.I.E.R.I. realizzato dall’ISS in 44 delle aree vaste contaminate identificate come SIN (Siti di Interesse Strategico Nazionale per le bonifiche) dal Ministero dell’Ambiente. I risultati del rapporto mostrano le gravi conseguenze in termini di incidenza di malattie, ricoveri e morti premature sulle popolazioni insediate. L’emergenza tuttavia va ben oltre i perimetri dei SIN ed è elevata in ogni zona che ospita impianti contaminanti, centrali energetiche, poli estrattivi, produttivi, di smaltimento, etc. Alla mancanza di politiche di prevenzione primaria si somma l’insufficienza del sistema sanitario nel garantire accesso alle cure e standard comparabili nelle varie regioni italiane.
Per garantire il diritto alla salute è dunque prioritario:
Garantire il pieno e integrale rispetto del principio di precauzione e dunque di politiche di prevenzione primaria attraverso la chiusura e la conversione in senso ecologico degli impianti gravemente contaminanti.
Garantire programmi di prevenzione e di screening (monitoraggio sanitario e prevenzione secondaria) nei territori ritenuti a rischio o già contaminati
Garantire programmi di ricerca e analisi che aiutino a individuare e prevenire le ricadute sanitarie della contaminazione.
Non soffermarsi alla previsione delle linee guida ma implementare lo strumento della V.I.S. – Valutazione di Impatto Sanitario obbligatoria per tutti i progetti di sviluppo, infrastrutturale, industriale, energetico, ecc.
Provvedere a rapidi ed efficaci processi di bonifica dei territori attraverso il coinvolgimento attivo delle popolazioni.
Garantire massima applicazione al principio “chi inquina paga”, assicurandosi che siano le stesse aziende responsabili della contaminazione a finanziare le bonifiche dei territori inquinati.
Riformare radicalmente il sistema dei monitoraggi ambientali e sanitari, sottraendo le figure apicali degli enti di controllo a procedure di nomina politica e caratterizzandone le attività per trasparenza, indipendenza, efficacia e continuatività. Le risultanze di tali rilievi devono essere recepiti senza esitazione nella formulazione di politiche a tutela della salute pubblica.
Adeguare i livelli essenziali di prestazioni in ambito sanitario alle necessità dei territori cui essi sono applicati, estendendo la gamma degli interventi di prevenzione, monitoraggio e cura delle patologie connesse all’esposizione ambientale.
10) Comunità e democrazia
Elemento dirimente per garantire una corretta e sostenibile gestione dei territori, la salubrità dell’ambiente e la tutela della comunità insediate è l’esistenza di strumenti di partecipazione popolare e di inclusione della cittadinanza nei processi decisionali. Da questo punto di vista, all’insufficienza degli strumenti esistenti si unisce la tendenza a un progressivo accentramento dei processi decisionali e di depotenziamento degli enti di prossimità, erodendo la possibilità di garantire alle comunità reale incidenza nelle scelte che riguardano il proprio destino. Ciò riduce pericolosamente lo spazio democratico favorendo un modello di delega incapace di rispondere alle istanze partecipative. Accanto a ciò, la prassi di governo continua a individuare nel ricorso a stato d’emergenza e a decretazione d’urgenza ulteriori strumenti per imporre dall’alto decisioni spesso invise alla cittadinanza.
Per colmare il gap democratico e rispondere alla richiesta di partecipazione cittadina è necessario:
Provvedere a fornire informazioni adeguate e complete riguardo nuovi progetti di sviluppo, infrastrutturale, industriale, energetico, etc. con impatti potenziali sul territorio.
Garantire in generale pieno accesso alle informazioni in campo ambientale, precondizione per esercitare a pieno le facoltà e i diritti connessi alla cittadinanza
Istituire e implementare strumenti partecipativi, soprattutto a livello locale, in merito alle politiche ambientali, garantendo la capillare partecipazione della cittadinanza e degli stakeholders sociali attraverso la previsione di strumenti deliberativi e non meramente consultivi
Garantire accesso alla giustizia per l’opposizione a progetti invisi, per la riparazione del danno prodotto e per il perseguimento delle responsabilità penali, ove presenti.
Rinunciare alla riforma nel procedimento di V.I.A. – Valutazione di Impatto Ambientale in discussione, evitandone lo svilimento e rafforzandone al contrario la funzione di garanzia di tutela ambientale e protezione delle comunità insediate.
Rafforzare anziché depotenziare il ruolo degli enti di prossimità nei processi decisionali.
Rafforzare le fattispecie di ecoreati recentemente introdotte nel codice penale per garantire una piena applicazione del principio Chi Inquina Paga.
RE.S.E.T. – Rete Scienza e Territori per una società ecologica
ADESIONI
(in continuo aggiornamento)
COMUNITÀ SCIENTIFICA
Stefania Albonetti – Dipartimento di Chimica Industriale, Università di Bologna
Leonardo Altieri – Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia Univ. Bologna
Nicola Armaroli – Direttore di Ricerca, ISOF CNR
Marco Armiero – Environmental Humanities Laboratory, KTH Royal Institute of Technology, Svezia
Lorenza Arnaboldi – Medico chirurgo, specialista in pediatria, ASL RMC Roma
Micaela Azzalli – Medico chirurgo, specialista in pediatria, PLS, Ferrara
Vincenzo Balzani – Chimico, Prof. emerito Università di Bologna
Francesco Luca Basile – Prof. associato, Dip. chimica industriale Univ. Bologna
Andrea Baranes – Presidente Fondazione Finanza Etica
Alberto Bellini – Dipartimento di Ingegneria dell’Energia Univ. Bologna
Mario Berveglieri – Medico chirurgo, specialista in Pediatria e Scienza dell’Alimentazione,
Giacomo Bergamini – Ricercatore chimico Dipartimento di Chimica Univ. Bologna
Elena Bernardi – Ricercatrice, Dip. di chimica industriale, Univ. Bologna
Enrico Bonatti – Senior Scientist, Scienze della Terra, Columbia University
Alessandra Bonoli – Professore Ass. Ingegneria delle Materie Prime, Univ Bologna
Carlo Cacciamani – Fisico, Direttore Servizio IdroMeteoClima, Arpa Emilia-Romagna
Carla Cafaro – Medico chirurgo, specialista in Pediatria PLS, Ferrara
Romano Camassi – Ricercatore INGV Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia
Daniele Caretti – Dip. Chimica Industriale “Toso Montanari”, Univ. Bologna
Thomas Casadei – Docente associato di Filosofia del diritto Univ. Modena e Reggio Emilia
Sergio Castellari – Fisico, INGV Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e CMCC
Adriano Cattaneo – Epidemiologo IRCSS materno Infantile Burlo Garofolo, Trieste e membro Osservatorio italiano per la salute globale
Daniela Cavalcoli – Prof. associato Fisica della Materia Univ. Bologna
Fabrizio Cattaruzza – Chimico, collaboratore Istituto Struttura della Materia – ISM CNR
Fabrizio Cavani – Dipartimento di Chimica Industriale Università di Bologna
Marco Cilento – Prof. Comunicazione e ricerca sociale, Univ. Sapienza Roma
Carlo Cellamare -Dip. Ingegneria Civile Edile e Ambientale DICEA, Univ. Sapienza Roma
Marco Cervino – Fisico dell’atmosfera e del clima, Ricercatore ISAC-CNR
Andrea Contin – Professore fisica, dip. di Fisica e Astronomia, Univ. Bologna
Federico Demaria – Research & Degrowth, ICTA Universitat Autonoma de Barcelona
Salvatore De Rosa – Ricercatore, Dipartimento Human Geography LundUniversity
Enzo Di Salvatore – Prof. Diritto Costituzionale Università di Teramo
Margherita Eufemi – Prof. biochimica, Dip. Scienze Biochimiche, Univ. Sapienza Roma
Maria Cristina Facchini – Dirigente di Ricerca ISAC – CNR
Antonio Faggioli – Docente d’Igiene, Univ. Bologna
Silvano Falocco – Economista ambientale, Direttore Fondazione Ecosistemi
Cristina Femoni – Prof.ssa associata dip. Chimica industriale, Univ. Bologna
Paolo Figini – Prof. Economia Politica, Univ. Bologna
Lorenzo Fioramonti – Prof. Economia Politica, Università di Pretoria, Sud Africa
Sandro Fuzzi – Dirigente di Ricerca ISAC – CNR
Enrico Gagliano – Docente Scienze dell’Amministrazione Università Teramo
Anna Rosa Garbuglia – Laboratorio Virologia, INMI Lazzaro Spallanzani, Roma
Patrizia Gentilini – Oncologa ed Ematologa, Comit. Scient. ISDE e Medicina Democratica
Antonio Giordano – Oncologo e genetista, direttore Sbarro Health Research Organization USA
Federico Grazzini – Meteorologo, Arpae -SIMC / LMU München
Michele Grandolfo – Già Dirigente di ricerca in epidemiologia e biostatistica, ISS
Luigi Guerra – Direttore Dip. Scienze Educazione, Università di Bologna
Emanuele Leonardi – Ricercatore, Centre for Social Studies, Università di Coimbra
Maria Giulia Loffreda – Public Health, Erasmus Medical Center, Rotterdam
Franco Lupano – Medico di famiglia, CISO – Piemonte
Paolo Maddalena – libero docente Diritto Romano, vicepresid. emerito Corte Costituz.
Monica Malventano – pediatra, Ferrara
Roberto Mamone – Biologo marino
Giulio Marchesini Reggiani – Prof. Dip. Medicina e Chirurgia DIMEC, Univ. Bologna
Vittorio Marletto – Agrometeorologo, Arpa Emilia-Romagna
Federico Martelloni – Prof. Associato di Diritto al Lavoro Università di Bologna
Mariacristina Martini – Medico chirurgo, Internista e Pneumologa, Primario medicina generale Ospedale Villa D’Agri
Franco Medici – Dip. Ingegneria Chimica Materiali Ambiente, Univ. Sapienza Roma
Giorgio Nebbia – Prof. emerito di Merceologia Facoltà di Economia, Univ. di Bari
Alessia Nulli – docente scienze della formazione università Bicocca di Milano
Rosalba Passalacqua – Dip. Scienze chimiche, biologiche, farmac. ed ambientali, Univ. Messina
Siglinda Perathoner – Dip. Scienze chimiche, biologiche, farmaceutiche e ambientali, Univ. Messina
Marco Revelli -storico e sociologo, docente scienza della politica, Univ. Piemonte orientale
Gianpiero Ruani – ricercatore Istituto studio materiali nanostrutturati – ISMN CNR
Gianni Ruocco – Dipartimento di Scienze Politiche, Università Sapienza di Roma
Enrico Sangiorgi – Ingegnere Elettronica, professore di Elettronica, Univ. Bologna
Enzo Scandurra – Docente emerito di Sviluppo sostenibile – Univ. Sapienza Roma
Leonardo Setti – Dipartimento di Chimica Industriale, Università Bologna
Micol Todesco – Geologa l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia INGV, Bologna
Mauro Valiani – Ex direttore dip. Prev. Empoli
Margherita Venturi – Professore ord. Chimica, Università di Bologna
Guido Viale – Sociologo e saggista
Stefano Zamagni – Economista, prof. Economia e statistica, Università di Bologna
Gabriele Zanini – Fisico, ricercatore ENEA di Bologna
SOCIETÀ CIVILE
A Sud
Abitanti Attivi – S.Maria Capua Vetere (CE)
Accademia Kronos
Acqua Alma Onlus
Acqua Bene Comune Venezia
Acqua bene comune Venezia
ACU – Associazione Consumieristica Utenti
Agenda 21 – Carditello
AIEA Onlus
Altro Modo Flegreo – Laboratorio di Cittadinanza attiva Pozzuoli
Amici della terra Lago d’Idro
Amigos MST
AMO Bologna associazione Onlus
ANPI Montirone,
Aqua Alma onlus
Arcadia – Associazione di Volontariato – Gricignano (CE)
ARCI
ARCI Bolzano
Associazione Noimessidaparte
Associazione Abruzzo Beni Comuni – Tortoreto (Te)
Associazione ambientalista e culturale Unione Giovani Indipendenti – Colleferro
Associazione Antigone Oppido Lucano
Associazione Articolo 9
Associazione BBB Spinoza – Empoli
Associazione Briganti d’Italia
Associazione Carte in regola
Associazione culturale CaTaliTe
Associazione culturale Oltre La Crescita
Associazione Il Tempio di Apollo – Arte, cultura e sociale
Associazione Noi genitori di tutti onlus
Associazione Nuovo Senso Civico
Associazione passo dopo passo
Associazione Radicali Lucani
Associazione Roverella Padenghe S G.
Associazione Terra mia – Mondragone (CE)
Associazione Un’altra Storia Varese
Attac Italia
Bici per la Città – Frattamaggiore (NA)
Borgo Solare,
Campi Aperti – Bologna
Campo de’ Fiori – Officina del Libero Pensiero, S.Maria a Vico (CE)
Caritas Parrocchiale Arienzo
Caritas per la Custodia del Creato: Parrocchia di Sant’Andrea di Arienzo (CE)
Caritas per la Custodia del Creato: Parrocchia Maria SS Assunta di S.Maria a Vico (CE)
CDCA – Centro Documentazione Conflitti AmbientaliCEAS – Centro di Educazione Ambientale Eco di Gea
Centro sociale 28 maggio
Carmine Piccolo cittadino reattivo
CETRI TIRES – Club Europeo Terza Rivoluzione Industriale
Circolo ARCI ” Montefortino “93
Città Visibile – Orta di Atella (CE)
Cittadini per il riciclaggio
CittAttivi – Frattamaggiore (NA)
Codisa
Com. Prov. Rifiuti zero
Comitato “La collina dei castagni” Castenedolo
Comitato acqua pubblica Brescia
Comitato Acqua Pubblica di Salerno
Comitato Acqua Pubblica Forlì
Comitato ambiente Brescia sud
Comitato aria pulita di Travagliato
Comitato Campagnoli
Comitato cittadini ambiente e salute Travagliato
Comitato cittadini Calcinato
Comitato carta
Comitato Cittadini Calvisano
Comitato Cittadini per l’Ambiente
Comitato di cittadini contro il collegamento autostradale delle Torricelle
Comitato di quartiere Casazza
Comitato di quartiere Chiesanuova
Comitato di quartiere Lamarmora
Comitato G.A.I.A. Gavardo
Comitato di quartiere Torrino Decima – IX Municipio
Comitato duomo Rovato
Comitato di quartiere centro storico nord
Comitato Fuochi sez. Marcianise
Comitato iolotto – Bologna
Comitato Lamarmora per l’ambiente Comitato Macogna Berlingo
Comitato Montichiari contro Green Hill
Comitato Mamme NO MUOS
Comitato Mamme Volanti di Castenedolo, Brescia
Comitato No Stoccaggio Gas Poggio fiorito
Comitato Pendolari FR8a Carrozza (Roma-Nettuno)
Comitato per la salute rinascita salvaguardia del centro storico
Comitato mamme Travagliato
Comitato porta a porta Botticino
Comitato provinciale Rifiuti Zero Brescia
Comitato Visano respira
Commissione ambiente ACLI Provinciale
Condotta Slow Food Emplese –Valdelsa
Consiglio di quartiere centro storico nord
Cooperativa Sociale ” ‘E Pappeci” – Bottega del Mondo
Coord. Comitati Ambientalisti Lombardia
Coordinamento Comitati Ambientalisti Lombardia
Coordinamento Comitati No Triv Lombardia
Coordinamento Donne per il territorio Gela
Coordinamento Nazionale No TRIV
Coordinamento No elettrodotto Villanova
Coordinamento No TAV Bs-Vr
Coordinamento Nord Sud del Mondo
COSPE Onlus
Cova Contro – Policoro (MT)
CSA Intifada – Empoli
daSud
DES Basso Garda
Donne del 29 agosto – Acerra (NA)
Eco gruppo Chiari
EHPA – Basilicata Oppido Lucano
Energia per l’Italia
Essere Animali
Ethos – Casalnuovo (NA)
Facciamo rivivere Vobarno
Gavardo in movimento
Fairwatch
Fateci Respirare – Lusciano
Fondazione Micheletti
Fondazione UniVerde
For After life foundation
Forum Ambientalista
Forum Ambientalista – Grosseto
Forum italiano movimenti per l’acqua
Forum Pontino Diritti e Beni Comuni
Gruppo empatia Brescia
Gruppo mamme di Castenedolo
Il fauno – cultura e ambiente basso Mella
ISDE – Medici per l’Ambiente
Istituto EcoAmbientale
La nostra terra – Brescia
Laboratoire Triangle-ENS Lyon
Laboratorio per Viggiano
Laboratorio progressista
Legambiente Brescia
Legambiente circolo Ancipa
Legambiente del Vercellese
Legambiente Franciacorta
Legambiente Montichiari
Montichiari SOS Terra
Lello Volpe con i bambini – Orta Di Atella (CE)
Liberacittadinanza
Link – Coordinamento Universitario
Mamme per la Salute e l’Ambiente Onlus, Venafro
Medicina Democratica
Movimento C’at accis a salute – Casalnuovo (NA)
Movimento decrescita felice Brescia
Pianeta VIOLA
Movimento NO al Carbone – Brindisi
Movimento per la Decrescita Felice – Gruppo Di Salerno
Navdanya International
No ai tralicci – Frattamaggiore (NA)
No Coke Alto Lazio
NoGrazie
Noi genitori di tutti – Caivano (NA)
Osservatorio Popolare per la Val D’Agri
Prima le Persone
Pro Loco Lusciano
Rete custodi del creato Brescia
Rete della conoscenza
Rete della Conoscenza – Acerra (NA)
Ridateci le Lucciole – Gricignano d’Aversa (CE)
Rivista Valori
ScanZiamo le Scorie
Si alle fonti Rinnovabili, No al Nucleare
SoloBio
Sottoterra Movimento Antimafie – Frattamaggiore (NA)
STOP MULTINAZIONALI
Stop TTIP Italia
Terra Nuova
Terra! Onlus
Transform! Italia
Travagliato in movimento
UdS – Unione degli Studenti
Un futuro per Ghedi
Rete Antinocività Brescia
V.IN.CI. – Volontari Interforze e Cittadini onlus – Cesa (CE)
Visano per basta veleni
Volontari Antiroghi Acerra (NA)
Piano Casa, la sanatoria è illegittima. Il giudizio insindacabile è quello della Corte costituzionale che ha preso in esame la legge regionale n. 6/2016 emanata dalla Campania. Con la sentenza n. 107/2017, infatti, il massimo organo di garanzia del nostro Paese ha bocciato senza appello il documento legislativo sul Piano Casa emanato dal Governatore De Luca: la norma sarebbe in contrasto con il Testo Unico dell’Edilizia. Il Piano Casa della Regione Campania è stato prorogato al 31 dicembre 2017, e dopo pochi mesi dalla proroga è arrivata una correzione alla normativa su ampliamenti, demolizioni e ricostruzioni. Si tratta della possibilità di ottenere il titolo abilitativo in sanatoria per gli interventi che sono stati realizzati senza permesso, ma che per le loro caratteristiche risultano conformi al Piano Casa. Questa possibilità è stata prevista dalla legge regionale n. 6/2016 (collegato alla legge di stabilità regionale) che ha introdotto anche altre modifiche. Una pronuncia, quella campana, che aveva già fatto storcere il naso al Governo, che nel giugno del 2016 aveva impugnato la legge eccessivamente “buonista”.
Ora, anche la Corte costituzionale riconosce i dubbi dell’Esecutivo: non può ritenersi fondato una normativa che trasforma in legale un intervento abusivo in quanto, nel frattempo, la giurisprudenza ha subito delle variazioni. Una sorta di “condono” che ha portato all’illegittimità costituzionale della legge campana. Anche perché il Testo unico dell’edilizia (D.P.R. n. 380/2001) prevede la doppia conformità degli interventi: per beneficiare della cosiddetta sanatoria, infatti, i lavori devono risultare conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento in cui sono stati realizzati e – naturalmente – in sintonia alla data di presentazione della domanda di regolarizzazione.
Come si evince dalla sentenza della Corte costituzionale, il Piano Casa iniziale originario (riferibile alla L.R. n. 19/2009) è stato più volte prorogato da leggi che hanno anche apportato modifiche o amplificato la portata delle deroghe. All’epoca dell’impugnativa, il Governo aveva fatto un esempio che è stato condiviso in pieno dalla Corte Costituzionale. La L.R. n. 16/2014 consentiva il recupero dei complessi produttivi dismessi, purché si mantenesse la destinazione ad attività produttive. La norma dichiarata illegittima, invece, ha reso conformi alla L.R. n. 19/2009 anche i lavori di recupero dopo i quali è avvenuto il cambio di destinazione d’uso. Una sanatoria giudicata inaccettabile e contraria al buon funzionamento della Pubblica Amministrazione.
I neobarbari al lavoro. Lotta dura per un maggiore sfruttamento della città da parte del complesso turistico-immobiliare, leader il sindaco in carica. la Nuova Venezia, 4 giugno 2017
Blocco di nuovi alberghi e bed & breakfast nella città storica con lo stop ai cambi di destinazione d'uso. Ma, caso per caso, a discrezione del Comune e con un'ampia gamma di deroghe che potranno consentire il via libera anche per "monetizzare" i permessi di costruire, a vantaggio delle casse comunali. A leggerla bene, la delibera del Comune appena licenziata e che martedì approderà in Commissione consiliare per essere discussa prima del voto in Consiglio comunale, appare molto meno "severa" di come è stata presentata anche dall'assessore all'Urbanistica Massimiliano De Martin e lascia a Ca' Farsetti un'ampia discrezionalità per dare il via libera a nuovi interventi di carattere alberghiero in città.
Passata la bufera per i 35 arrestati dello scandalo MoSe. «Tutti liberi». Ma c'è di peggio. la Nuova Venezia, 4 giugno 2017 , con postilla
Lo tsunami porta la data del 4 giugno 2014 e spazza via il mondo della politica veneta. È la terza ondata di arresti, 35, da quando è scoppiato uno dei più gravi casi di corruzione in Italia, quello sulle tangenti del Mose. Un lavoro di indagine difficilissimo - vista la dimensione dello scandalo, la durata e gli intrecci - e per il quale la Procura veneziana ha schierato i suoi pm di punta.
postilla
Eppure non è questo la scandalo più grave. Ancora più gravi due scandali neppure toccati da una indagine preliminare della magistratura. (1) Lo scandalo di aver avviato, progettato, confermato, convalidato e condotto un'operazione (Il MoSE) che fin dall'inizio si sapeva sarebbe stata inutile, dannosa, rischiosa, enormemente dispendiosa per il contribuente. (2) Aver contemporaneamente e parallelamente condotto un'operazione di coinvolgimento e corruzione della maggior parte delle istituzioni amministrative, culturali, professionali della società veneziana (e.s.)
«Le armi sono fatte per essere usate e finiscono spesso, prima o dopo, su un campo di battaglia». come sa chi ha imparato che il ventre dal quale strisciano fuori le guerre è (e rimane) il capitalismo. Corriere della Sera, 3 giugno 2017 con riferimenti
Possiamo naturalmente sperare che le armi vendute dal presidente Trump all’Arabia Saudita per 110 miliardi di dollari (350 miliardi nel corso del prossimo decennio) non vengano usate. Ma se usciranno dagli arsenali, il bersaglio sarà verosimilmente l’Iran. Non potremo proclamarci sorpresi, quindi, se l’Iran, nei prossimi mesi, rafforzerà il suo programma missilistico con nuovi esperimenti. E non potremo sorprenderci se la Cina, dopo la consegna alla Corea del Sud di un nuovo sistema antimissilistico americano chiamato Thaad, farà altrettanto.
Conosciamo il gioco e sappiamo che ciascuno di questi Paesi attribuisce sempre a un altro, senza arrossire, il suo desiderio di nuove armi, più precise e letali. Sappiamo anche che certe forniture possono avere persino qualche ricaduta positiva. Quella di Trump alla Arabia Saudita, per esempio, potrebbe convincere i sauditi a smetterla di chiudere gli occhi di fronte alle sanguinose operazioni dell’islamismo sunnita, fra cui in particolare quelle dell’Isis; o addirittura aprire la strada all’avvento di un nuovo clima fra Israele e i palestinesi. Ma le armi sono fatte per essere usate e finiscono spesso, prima o dopo, su un campo di battaglia. L’America ne vende molte. Può essere considerata, almeno in parte, corresponsabile di questi conflitti? Per rispondere a una tale domanda può essere utile rileggere il discorso televisivo alla nazione con cui il generale Dwight D. Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate durante la Seconda guerra mondiale e presidente degli Stati Uniti dal gennaio 1953, si congedò dal potere nel dicembre 1961.
Eisenhower esordì ricordando che sino alla Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti non avevano ancora una grande industria militare. Da allora, tuttavia, quella industria era andata progressivamente crescendo sino a impiegare tre milioni e mezzo di uomini e donne. Era necessaria alla sicurezza del Paese, ma stava creando quello che il presidente americano definì un «complesso militare-industriale», vale a dire una concentrazione di interessi che avrebbe potuto avere una influenza determinante sulla politica nazionale. Mai previsione è stata altrettanto giusta e altrettanto negletta. L’industria militare americana è un grande datore di lavoro, fondamentale per la vita di zone che non hanno altre attività produttive. Il suo rapporto con la pubblica amministrazione e con il Congresso è diventato sempre più intimo. Non è raro assistere al caso di ufficiali a riposo che vengono impiegati dalle ditte con cui, quando vestivano l’uniforme, hanno avuto rapporti di committenza.
Gli Stati Uniti hanno perduto, politicamente, la guerra irachena del 2003. Ma non l’hanno perduta economicamente le grandi imprese dell’Intendenza che viaggiavano al seguito delle forze armate. Il caso di Halliburton è esemplare. La grande multinazionale texana, di cui il vice-presidente Dick Cheney era stato presidente e amministratore delegato, vinse un contratto di 7 miliardi di dollari, alla fine di una gara in cui fu la sola concorrente, per i servizi logistici delle forze d’occupazione americane.
Ancora più potente l’industria militare è diventata da quando le sue ricerche per armi sempre più moderne e «intelligenti» hanno prodotto innovazioni tecnologiche sempre più utili e vantaggiose. Paradossalmente molti grandi progressi tecnologici degli ultimi decenni (fra cui Internet) nascono là dove si fabbricano armi e si preparano guerre.
Esiste ormai negli Stati Uniti un legame fra industria delle armi, economia nazionale e tecnologia del futuro che rende le guerre, in alcuni ambienti, utili e desiderabili. Barack Obama cercò di rompere questo circolo vizioso affidando a un segretario della Difesa, Robert Gates, il compito di ridurre drasticamente il bilancio militare degli Stati Uniti. Non sarà questa, verosimilmente, la politica di Donald Trump.
Riferimenti
Per il lettore giovane, e per quello smemorato, può essere utile leggere e riflettere su Guerra alla guerra: Brecht e Fortini, tratto da L'ospite ingrato, Rivista online del Centro Interdipartimentale di Ricerca Franco Fortini
Annunciato il blocco dei cambi di destinazione d'uso che hanno cambiato il volto della città di Venezia. Articoli di Leonard Berberi, Alberto Vitucci, Francesco Bottazzo. Corriere della Sera, la Nuova Venezia, Corriere Veneto, 2 e 3 Giugno 2017 (m.p.r.)
Corriere della Sera
VENEZIA
LA GUERRA DEI POSTI LETTO
di Leonard Berberi
Un passaggio della proposta di delibera dice già tutto. «Disposizioni per tutelare la città antica di Venezia dalla pressione turistica, dal proliferare incontrollato di attività ricettive e dalla perdita d’identità del patrimonio edilizio storico». Perché di questo passo, con 55 mila residenti (in calo rilevazione dopo rilevazione) e oltre 47 mila posti letto a disposizione (in crescita), tra poco finirà per esserci un materasso destinato ai visitatori per ogni iscritto all’anagrafe nel cuore del capoluogo veneto.
La giunta lagunare guidata da Luigi Brugnaro prende di mira il capitolo ospitalità e propone di bloccare sia la possibilità di trasformare gli immobili del centro in strutture ricettive, sia le richieste di ampliamento di quelle esistenti. Niente più nuovi hotel e, soprattutto, bed & breakfast. «Non ci saranno più cambi di destinazione d’uso degli stabili», spiegano dal Municipio e sottolineano come in realtà nel mirino finisca di più la micro-ospitalità come Airbnb che al 1° giugno contava 5.923 tra appartamenti e stanze disponibili sulla piattaforma.
Ogni nuova richiesta di apertura o eventuali modifiche saranno quindi valutate dal consiglio comunale. «E non si potrà fare che si propone di trasformare un appartamento in b&b perché o lo si fa per tutto lo stabile o niente». La delibera non ha effetto retroattivo ed esclude le isole, compresa la Giudecca. La proposta conta sette pagine e la «prima strategia a breve termine» si legge, ed è una citazione di un documento illustrato dal primo cittadino il 15 giugno 2016 - «è quella di contenere il fenomeno della progressiva occupazione del patrimonio residenziale cittadino da parte di attività ricettive alberghiere ed extra-alberghiere».
«Ora le attività del centro dovranno soggiacere a una politica qualitativa di ricezione», spiega Massimiliano De Martin, assessore all’Urbanistica. L’amministrazione ha già calendarizzato i passaggi. L’intenzione sarebbe anche quella di non dare la possibilità a chi esercita in modo abusivo di regolarsi prima che entri in vigore la delibera. Salvo sorprese l’ok del consiglio comunale dovrebbe arrivare a metà giugno, dopo i passaggi tecnici alla Municipalità di Venezia – Murano – Burano e alle commissioni.
Ma non c’è il rischio che lo stop a nuovi esercizi porti all’aumento dei prezzi? «Il rischio c’è, ma a Venezia i posti letto a disposizione non sono pochi», ragionano dal Comune. «E poi i prezzi degli alberghi qui sono già alti».
La delibera dovrebbe anche «accontentare» l’Unesco, l’agenzia delle Nazioni Unite che l’estate passata lanciò l’ultimatum: o entro il 1° febbraio l’amministrazione si muove concretamente per risolvere i problemi che stanno mettendo a rischio la sopravvivenza di città storica - dall’assalto dei turisti al moto ondoso, alla riduzione costante di residenti - o il capoluogo veneto sarà cancellato dai siti patrimonio dell’Umanità ed entrerà a far parte di quelli a rischio
Questo è il secondo passo di Brugnaro per contenere i flussi arrivati a livelli critici. A fine aprile la giunta ha approvato la delibera quadro sul turismo che prevede, tra le altre cose, la sperimentazione di sistemi conta-persone per regolare gli ingressi, l’individuazione di nuove aree di ristoro per i visitatori, l’avvio di una campagna di comunicazione sulle giornate di maggior afflusso e l’incremento degli agenti di Polizia locale. Su quest’ultimo punto, in Municipio fanno notare che 70 vigili verranno assunti per un anno, altri cento per i quattro mesi di picco.
la Nuova Venezia,
STOP AI CAMBI D'USO
L'ORA DELLA VERITÀ
di Alberto Vitucci
De Martin: «30 giorni per le osservazioni, vedremo chi è contro». Boato: «Ritirare le licenze illegittime»
Stelline rosse per gli hotel, palline blu per i bed and breakfast, verdi per le locazioni turistiche. La nuova pianta di Venezia brulica di segnalazioni di attività ricettive turistiche. «Non resta molto spazio per le abitazioni», commenta un dirigente dell'Urbanistica. Dopo molti anni il Comune finalmente ha avviato un «censimento» di queste attività. E ci si è accorti che la situazione è al limite. Forse oltre il limite. Ecco la delibera che blocca i cambi d'uso.
Venezia. Corsa contro il tempo per le deroghe, per evitare «l’obolo» al Comune e di passare attraverso il consiglio comunale. Qualche proprietario che oggi si trova nella condizione urbanistica di poter trasformare il suo immobile in albergo, ma che non ha ancora presentato alcun progetto a Ca’ Farsetti, è già pronto a fare ricorso contro il provvedimento dell’amministrazione che blocca l’apertura di nuovi alberghi, b&b, e l’ampliamento di quelli già esistenti. «Sapevamo di scontentare qualcuno, ma è la città che da tempo chiede un intervento per limitare le trasformazioni e i cambi d’uso», spiega l’assessore all’Urbanistica Massimiliano De Martin.
Un blocco totale - che segue quello già passato in consiglio comunale un mese fa su pizze al taglio, kebab e take-away - anche se saranno possibili deroghe, sulla base di criteri molto restrittivi, autorizzate dalla giunta e dal Consiglio e dopo il pagamento del beneficio pubblico e dello standard di parcheggio, oggi non previsto. I numeri degli arrivi e delle presenze turistiche sono già alti. Oltre 10 milioni e mezzo in centro storico nel 2016, con una permanenza media di 2,26 notti, più di tre volte dei turisti che si fermano in terraferma.
Ma è chiaro che l’incentivo alla residenzialità e il blocco delle trasformazioni dei palazzi in alberghi è fino a questo momento il provvedimento che fa più rumore. E non a caso la giunta vuole ridurre al minimo il tempo tra l’annuncio della variante (l’adozione c’è stata giovedì) e l’approvazione da parte del consiglio comunale per evitare la corsa a protocollare nuove istanze. Martedì è previsto il primo passaggio in commissione con l’auspicio dell’assessore di trovare il consenso di tutti. «Il nuovo provvedimento consolida e non blocca tutte le operazioni che sono state portate a termine in questi anni e che invece andavano fermate subito, votando la Mozione che abbiamo presentato il 2 novembre 2015 e che la maggioranza ha bocciato», dice però il pd Andrea Ferrazzi.
la Nuova Venezia, 3 giugno
POSTI LETTO(47.229) QUASI COME I RESIDENTI
di Alberto Vitucci
Le camere censite nella città storica sono 25.400. San Marco e Cannaregio ormai sature
Le palline rosse (hotel e attività ricettive) e quelle blu (extralberghiere) sono dappertutto. Un reticolo fitto fitto, che fa impressione. È l'elaborazione grafica fatta in questi giorni dall'assessorato all'Urbanistica sulle destinazioni d'uso degli edifici della città storica. Un modo per quantificare le attività a uso alberghiero ed extralberghiero, i bed and breakfast, gli appartamenti a locazione turistica. «Lavoro preliminare alla delibera, necessario per avere un quadro definito», dice il dirigente dell'Urbanistica Vincenzo De Nitto.Oggi le camere censite - e denunciate - nella città storica sono 25.400. I posti letto in totale 47.229. Una cifra enorme, e forse nemmeno definitiva, perché molte attività ancora sfuggono al controllo del Comune e del fisco.47.229. Quasi il numero degli abitanti di Venezia che sono oggi ridotti a 54 mila. Un numero, quello dei posti letto turistici, che è andato aumentando negli ultimi anni, con particolare incremento negli anni del Giubileo - dall'anno Duemila - e poi in anni recentissimi.
Tendenza di mercato che ha permesso nelle maglie di una normativa piuttosto permissiva, di trasformare case in alloggi turistici, palazzi in grand hotel. La linea rossa e blu è intensa nella «pancia» della città, tutta l'area intorno a San Marco. Stelle rosse - alberghi di pregio - sul Canal Grande a Rialto e verso Ca' D'Oro e San Marcuola, intorno a San Marco, densità notevole soprattutto per gli extralberghieri anche a Cannaregio. Ancora esente dall'occupazione turistica il sestiere di Castello, dove sono pochissimi i grandi alberghi, meno che a Cannaregio, San Marco e Dorsoduro-San Polo gli appartamenti destinati ad attività turistica. Più rada la densità delle strutture turistiche alla Giudecca e al Lido. Alla Giudecca gli alberghi si contano sulle dita di una mano, quasi inesistenti gli affitti turistici. Dunque, dal punto di vista dei numeri, ogni giorno in città ci sono quasi 50 mila abitanti in più. Il numero dei «residenti» raddoppia, anche se non si tratta di cittadini residenti ma di turisti. Il loro numero è in continuo aumento, e adesso la «mappa» elaborato dall'assessorato all'Urbanistica consente di avere una percezione esatta - ma anche visiva - dell'occupazione della città. «Fa impressione perché lo spazio libero rimasto è davvero poco», commenta amaro un dirigente del Comune. Sono un centinaio i palazzi di pregio diventati hotel negli ultimi anni.
Approvata la variante urbanistica che "congela" le trasformazioni di palazzi in hotel e appartamenti in bed and breakfast
Proseguono a go-go le privatizzazioni selvagge, promosse da quella Cassa depositi e prestiti che era nato come strumento del buongoverno comunale (quando c'era) e che oggi sono il grande motore pubblico della privatizzazione dei beni collettivi. La Nuova Venezia, 3 giugno 2017
. È il Fondo investimenti per il turismo lo strumento con cui la Cassa depositi e prestiti realizzerà l'importante investimento previsto nell'area dell'ex Ospedale al Mare del Lido, con un patrimonio di almeno 250 milioni di euro da investire nel 2017/'18 a livello nazionale e che vede nella società padovana Th Resorts guidata da Graziano Debellini uno dei partner privilegiati. Già acquistati cinque hotel da parte della Cassa da Th Resorts e da Valtur per oltre 90 milioni di euro, con una strategia che prevede che le strutture alberghiere vengano riqualificate e poi riaffittate alla precedente proprietà.
«A più di 60 anni dalla nascita del club Bilderberg e circa 40 dalla Commissione Trilaterale, non sono più necessari segretezza e silenzio intorno a questa cupola di potere: si è riusciti, a costituire un popolo complice che sostiene e difende l’élite dominante. il Fatto Quotidiano online, blog Gianluca Ferrara, 3 giugno 2017 (c.m.c.)
Nel totale occultamento dei mass media nostrani è cominciato a Chantilly, in Virginia, l’incontro annuale del gruppo Bilderberg. Fino al 4 giugno questa cupola composta da banchieri, manager, politici, militari e giornalisti discuteranno su come perseverare con quel sistema neoliberista che permette a 8 persone di possedere una ricchezza pari a 426 miliardi di dollari, una somma equivalente a quella che hanno 3,6 miliardi di persone.
Il gruppo Bilderberg, annualmente raduna, in lussuosi alberghi a porte chiuse, il gotha della plutocrazia mondiale. Il nome del club deriva dal nome dell’hotel de Bilderberg a Oosterbeek, nei Paesi Bassi dove si tenne nel 1954 la prima riunione.
Tra i 130 partecipanti di Chantilly saranno presenti il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, David Cohen ex vicedirettore della Cia, José Manuel Barroso presidente della Goldman Sachs e Christine Lagarde direttore del Fondo Monetario Internazionale. In nostra “rappresentanza” oltre al solito John Elkann ci saranno Lilli Gruber e Beppe Severgnini. Ovviamente nulla potranno riferire perché, proprio come accade con la Mafia e la Massoneria, è vietatissimo far uscire notizie; viene da domandarsi cosa ci vadano a fare dei giornalisti se poi non possono svolgere quello che dovrebbe essere il loro compito e cioè informare i cittadini. Perché i maggiori organi di “informazione” non reputano sia importante dare la notizia che gli uomini più potenti del mondo si incontreranno per alcuni giorni tutti insieme e a porte chiuse?
In questi incontri vengono stabilite le nostre sorti, quel che resta del nostro futuro di cittadini. Verranno spartite quelle poche ossa rimaste di ciò che un tempo erano gli Stati. Si pensi che le multinazionali hanno più potere degli Stati, delle prime 100 entità economiche, 67 sono multinazionali e 33 governi. Oggi questa élite transnazionale gestisce ogni aspetto delle nostra struttura sociale, controlla i mass media, l’industria agroalimentare, la stampa della moneta e purtroppo, dramma dei nostri tempi, anche la politica.
Gli incappucciati 2.0 del gruppo Bilderberg, in nome del dogma neoliberista che ha come unico fine privatizzare e liberalizzare, anche quest’anno ratificherà quel progetto sociale che causa la morte dai 30 ai 50 milioni di persone per fame. Eppure basterebbero soltanto 40 miliardi di dollari per porre fine a questo sterminio, ma i signori del Bilderberg non si incontrano per salvare vite ma proteggere e aumentare ricchezze. Ciò giustifica i circa 1800 miliardi di dollari che si investono annualmente in armamenti.
A mio avviso il vero dramma è che a più di 60 anni dalla nascita del club Bilderberg e circa 40 dalla Commissione trlaterale, non sono più necessari segretezza e silenzio intorno a questa cupola di potere. Questo perché si è riuscito, ed è tipico delle dittature, a costituire un popolo complice che sostiene e difende l’élite dominante. La vera sfida è liberare i più da questa ipnosi collettiva e riprenderci le chiavi del nostro futuro.
A rischio di scomparsa un ecosistema unico al mondo, prodotto da millenni di lavorìo assiduo della natura, l'ultimo dei quali dedicato al saggio governo delle trasformazioni compatibili con la sua conservazione. Se ne discute ma la sua difesa era stata affidata ai suoi distruttori più recenti. la Nuova Venezia, 1 giugno 2017, con postilla
«Interessa ancora a qualcuno il riequilibrio della laguna?» Lorenzo Bonometto, naturalista ed esponente di spicco della Società di Scienze Naturali, se lo chiede da anni. «Nessuno mi ha mai risposto», dice sconsolato, «si parla di grandi opere in laguna, di navi e di nuovi canali. Di erosione e riequilibrio mai». Ieri pomeriggio lo ha spiegato in sala San Leonardo, nell'ambito di un convegno promosso dalla Municipalità di Venezia alla presenza di molti esperti di temi lagunari. E per la prima volta anche del presidente del Provveditorato alle Opere pubbliche (ex Magistrato alle Acque Roberto Linetti. «Non era mai succeso», ha detto con soddisfazione il moderatore del dibattito Stefano Boato, «che un presidente del Magistrato alle Acque venisse ad ascoltarci. Ci sono fenomeni che stanno mettendo a rischio l'antico equilibrio delle lagune e che il nuovo Piano Morfologico non prevede».
Non bastava l'escavo e l'approfondimento continuo dei canali progettati e realizzati con logiche autostradali; non bastava la continua riduzione del bacino lagunare; non bastava il moto ondoso provocato da grandi navi, vaporetti, taxi acquei, motori fuoribordo piccoli, grandi e grandissimi. Non bastava tutto ciò a tramutare la Laguna, da specchio d'acqua dal profilo modificato solo dagli effetti lenti, graduali e ripetitivi delle maree in un luogo turbinoso del quale stanno velocemente scomparendo vite vegetali e animali millenarie. Bisognava anche affidare la progettazione del "piano morfologico" della Laguna allo stesso consorzio di palazzinari, pluricriminale artefice del MoSE e delle sue opere. (e.s.)
A New York ogni singolo metro quadro è prezioso. In una città dove lo spazio manca, non resta che andare in alto. Per i costruttori di grattacieli newyorkesi, l’ultima frontiera da conquistare è il cielo. Come? Comprando l’aria inutilizzata dagli edifici adiacenti alla zona in cui si intende costruire, accaparrandosi i cosiddetti air rights.
Cosa sono gli air rights
Per capire cosa sono gli air rights e come influenzano il mercato immobiliare newyorkese abbiamo contattato Artis Real Estate & Consulting, società italiana specializzata in consulenza immobiliare internazionale con sede a New York. «Gli air rights – spiega un suo portavoce – possono essere definiti come i diritti di sopraelevazione che spettano al titolare di un determinato edificio. Questi diritti possono essere venduti e comprati. Mi spiego meglio. In alcune zone della città la densità edilizia non può superare una certa quota e quindi i grattacieli sono sottoposti a un limite di altezza. Un problema, questo, che può essere risolto proprio grazie agli air rights. Non tutti gli edifici, infatti, sfruttano al massimo il loro diritto di sopraelevazione. I costruttori di grattacieli possono acquistare lo spazio inutilizzato da questi edifici, qualora fossero appunto più bassi di quanto previsto dal piano regolatore». Da qui la caccia dei magnati del cielo agli air rights.
Perché l’aria è così costosa a New York
Secondo Al Jazeera, nei soli ultimi due anni, il mercato degli air rights ha mosso 300 milioni di dollari di capitali. Ma perché anche l’aria nella Big Apple è così costosa? “A New York – afferma il consulente di Artis – il mercato immobiliare è molto competitivo, oltre che geograficamente limitato dalla scarsità di terreno disponibile per la costruzione di nuovi fabbricati. In un contesto del genere è facilmente intuibile come la possibilità di elevarsi il più possibile verso l’alto sia preziosa per i costruttori di nuove strutture edilizie. Se si considera poi il fatto che le unità ubicate ai piani più alti godono di vista e luce migliori, si capisce come il valore del mercato degli air rights sia particolarmente significato nel real estate della Grande Mela”.
The Donald, il compratore d’aria
C’è comunque un limite al mercato degli air rights. Nella maggior parte dei casi, infatti, i diritti di sopraelevazione possono essere acquistati solo dagli edifici confinanti con il nuovo immobile. Per costruire sempre più in alto, allora, non resta che comprare gli air rights dei palazzi vicini uno dopo l’altro, in fila.
Per edificare la sua Trump World Tower sulla prima strada, per esempio, The Donald ha dovuto comprare gli air rights di nove proprietà adiacenti, tra cui la Church of the Holy Family.
Miracolo sulla 57esima strada
Grazie agli air rights i costruttori possono assicurarsi ricavi da capogiro. Questo è tanto più vero in alcune zone della città. È il caso della 57esima strada, la cosiddetta Billionaires’ Row, l’ultima in cui si può costruire senza limiti di altezza. A soli due isolati da qui si trova Central Park. Va da sé che acquisire air rights in questa zona può fare veramente la differenza per le tasche di un costruttore. In alcuni quartieri gli air rights sono così ambiti da portare i costruttori a trattative estenuanti che possono durare per anni. Ecco perché nel tempo sono nate vere e proprie figure e realtà specializzate nel settore.
Costruttori a caccia di air rights per attrarre investimenti
L’aria a New York è come un terreno invisibile sopra al quale costruire ancora e ancora, fino a toccare il cielo. E non è tutto. Come fa notare il portavoce di Artis, infatti, «gli air rights non incidono solo sul prezzo finale dell’immobile, ma anche sulla possibilità di attrarre investimenti sul progetto». Quanti più air rights si avranno, tanto più si riuscirà ad attirare capitali per finanziare il proprio edificio. Chissà cosa si inventeranno i costruttori quando i volumi di aria a disposizione saranno finiti. Scriveva Pratolini: «anche l’aria e il sole sono cose da conquistare dietro le barricate». Aveva ragione.
Le città (e nelle città) sempre più alte differenza e disagio per i cambiamenti climatici. Come affrontare il problema: Legambiente propone la green economy, ci sono anche altre strade . il manifesto, 1 giugno 2017, con postilla
Non bisogna scrutare l’orizzonte con l’elmetto in testa per scorgere gli effetti dei cambiamenti climatici. Il clima è già cambiato e lo dicono i danni provocati in Italia dai cosiddetti fenomeni metereologici «estremi». Alluvioni, piogge, nevicate eccezionali, periodi di siccità e ondate di calore che rendono complicata, e in alcuni casi anche letale, la permanenza nelle città.
Si possono già contare i morti: dal 2010 al 2016 in Italia hanno perso la vita 145 persone a causa delle inondazioni. Solo l’ondata di calore del 2015 ha provocato 2.754 decessi tra la popolazione anziana di 21 città (over 65). Nello stesso periodo sono stati 126 i comuni italiani colpiti da 242 fenomeni metereologici che hanno provocato danni al territorio e – direttamente o indirettamente – alla salute dei cittadini. Questo è il quadro fotografato dal dossier Le città alla sfida del clima realizzato da Legambiente e presentato a Roma, insieme a un nuovo osservatorio on-line che dà la possibilità di raccogliere, mappare e informare sugli eventi climatici che mettono a rischio le città italiane (cittaclima.it).
Con lo sguardo rivolto agli ultimi sette anni, il rapporto registra già numeri importanti. 52 casi di allagamenti provocati da piogge intense, 98 episodi di danni provocati alle infrastrutture sempre dalle piogge, come i 56 giorni di stop a metropolitane e treni urbani nelle più grandi città (19 giorni a Roma, 15 a Milano, 10 a Genova, 7 a Napoli, 5 a Torino). Danni anche al patrimonio storico (8 episodi), 44 frane provocate da precipitazioni e trombe d’aria. E ancora: 40 esondazioni, 55 giorni di black-out elettrici (il più importante nel gennaio di quest’anno in Abruzzo, con più di 150mila abitazioni rimaste senza luce in seguito a una nevicata). Tra le regioni più coinvolte da «fenomeni estremi» c’è la Sicilia.
LE ONDATE DI CALORE, sottolinea Legambiente, sono un fenomeno sottovalutato che impatta non solo nei centri urbani (gli effetti nocivi per anziani e malati si verificano quando le temperature non scendono di giorno sotto i 35 gradi e di notte sotto i 25). La parola chiave a questo punto è adattamento ed è un messaggio rivolto alla politica, come sottolinea il vice presidente di Legambiente Edoardo Zanchini: «Questa è la vera grande sfida del tempo che viviamo, per vincerla dobbiamo rendere le nostre città più resilienti e sicure, cogliendo l’opportunità di farle diventare anche più vivibili e belle. L’esatta conoscenza delle zone urbane a maggior rischio sia rispetto alle piogge che alle ondate di calore è fondamentale per salvare vite umane e limitare i danni».
Per Edoardo Zanchini è arrivato il momento di rendersi conto che le città non possono più essere lasciate sole: «Non è più rinviabile l’approvazione del Piano nazionale di adattamento al clima, che deve diventare il riferimento per gli interventi di messa in sicurezza del territorio e dei finanziamenti nei prossimi anni, in modo da riuscire in ogni città a intensificare le attività di prevenzione, individuando le zone a maggior rischio, e a realizzare gli interventi di adattamento al clima e di protezione civile».
Il cambio di prospettiva si rende necessario per ribaltare una politica non più sostenibile e non solo economicamente, lo spiega bene un altro dato significativo: l’apertura di 56 stati di emergenza provocati da frane e alluvioni è servita ad accertare danni stimati per 7,6 miliardi di euro e a verificare che lo stato ha stanziato meno del 10% della cifra necessaria (738 milioni di euro). Oltre 1,1 miliardi di danni in Campania, 800 in Emilia Romagna e Abruzzo, 700 milioni in Toscana, più di 600 in Liguria e Marche, che sarebbero serviti per mettere in sicurezza il territorio e dare ossigeno alle attività produttive colpite.
Legambiente ha anche stilato una sorta di decalogo per avere città più resilienti. Oltre all’approvazione del Piano nazionale di adattamento al clima che deve porsi l’obiettivo di mettere in sicurezza le città più vulnerabili, servirebbe un monitoraggio degli impatti sanitari dei cambiamenti climatici sulle aree urbane. La messa in sicurezza dei fiumi che scorrono nelle vicinanze delle città, l’approvazione di linee guida per l’utilizzo di materiali progettati per ridurre l’impatto dei cambiamenti climatici nei quartieri più a rischio (per restare a Milano sono considerati isole di calore preoccupanti i quartieri Forlanini-Ortica, Corsica, Parco Lambro, Mecenate e Quarto Oggiaro). Poi delocalizzare gli edifici a rischio e tutelare le misure di vincolo per evitare la costruzione di nuove strutture in aree allagabili. Buone pratiche sono già presenti in alcune città – dice Legambiente citando il caso milanese di piazza Gae Aulenti – dunque si tratterebbe solo di replicarle per migliorare la vita dei cittadini. Con quali soldi e con quale governo, sarà l’oggetto del prossimo dossier. Forse.
postilla
Ci sono due modi per contrastare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici sull’habitat dell’uomo. L’uno è quello tipico dell’ideologia della “green economy” È quello che mira a ridurre gli effetti adoperando gli stessi strumenti che li hanno causati: nuove tecnologie, nuovi prodotti che sostituiscano sempre di più quelli naturali, regolazione artificiale della temperatura nelle abitazioni, negli uffici, nelle automobili e negli altri luoghi ove vivono i benestanti.
L’altro modo è quello di contrastare le cause dei cambiamenti climatici, a tutte le scale: alla scala planetaria, territoriale, urbana. Affrontando il problema sia nella dimensione globale che in quella locale: a livello sia delle intese interstatali (come quelle che Trump, e non solo lui, energicamente rifiuta), sia nelle politiche locali. In particolare, quelle territoriale e urbanistiche. Su questo piano sarebbe necessario e possibile realizzare un pesante riequilibrio tra suolo libero, verde, prati cespugli alberi acque correnti e ferme da una parte, e cemento, asfalto, ghiaia e ghiaietto, laterizio, lamiere dall’altra parte.
Ma la seconda strada è molto più difficile: impedisce di fare affari, di accrescere privatizzazioni e conseguenti rendite. E potrebbe perfino (udite, utile) impedire la crescita del PIL. Ecco perché gli imbroglioni e gli sfruttatori si affannano a seguire la prima strada (con il loro largo seguito di ingenui un po’ tonti) e così pochi insistono per seguire la strada giusta. (e.s.)
VENEZIA, RIEVOCAZIONI STORICHE
ROVINATE DAGLI SPECULATORI
di Dario Vianello
Domenica scorsa, Festa della Sensa, mentre le Autorità facevano notare la loro presenza nel corteo storico in altre zone della laguna e di Venezia, il traffico motorizzato impazzito metteva a dura prova la sicurezza della navigazione delle unità minori e dei passeggeri imbarcati. Barche di tutti i tipi, dai granturismo di varie dimensioni ai foranei Actv, dai motoscafi pubblici e privati finendo con la variegata numerosissima flotta diportistica, tutti a correre come pazzi tutti a produrre onde devastanti consapevoli che nessun controllo è stato disposto e li fermerà.
«Non si può rischiare di affondare per il moto ondoso durante una regata di voga: prima i taxi continuavano a passare sulla linea di partenza, dove ci stavamo riscaldando, incuranti dei richiami della Capitaneria; durante la regata, abbiamo imbarcato acqua in continuazione, tra le onde del bacino; ad un certo punto ci siamo viste arrivare addosso un ferry boat, che ha messo la retromarcia all’ultimo, facendoci quasi rovesciare, anche le due moto d’acqua delle forze dell’ordine facevano onde . Eppure durante l’America’s Cup il bacino era un olio».
Governanti servitori dello sfruttamento turistico della città: ogni mercante si prende lo spazio pubblico che vuole, e i cittadini contribuenti pagano le tasse per i turisti. Cronache di Alberto Vitucci e Roberta De Rossi, la Nuova Venezia 30 e 31 maggio 2017 (m.p.r.)
la Nuova Venezia 30 maggio 2017
CITTÀ SEMPRE PIÙ AFFOLLATA DI TURISTI
CESTINI PIENI DI RIFIUTI
DIFFICILE SVUOTARLI TUTTI»
di Roberta De Rossi
Cestini rigurgitanti immondizia già alle due del pomeriggio: sul Ponte di Rialto, in Strada Nuova, nelle calli attorno a campo San Bartolomeo.
È accaduto in un “banale” lunedì, come già si era registrato sabato e domenica. Bottiglie di plastica, carte unte, bicchieri sporchi di gelato, a mucchi, sopra e accanto ai cestini, non in grado di contenerli tutti: segno di una città sempre più affollata di turisti, non solo nei fine settimana.
«Abbiamo avuto qualche difficoltà nello spazzamento delle strade», confermano dall’Ufficio relazioni esterne di Veritas, «a causa di una quantità anomala di rifiuti, prodotti tra sabato e domenica. Certamente in centro si tratta di rifiuti collegabili al turismo, anche se c’è da dire che nelle zone più periferiche continua il fenomeno - illegale - di chi utilizza i cestini per gettare i sacchetti dell’immondizia di casa».
Fuor di metafora: non bastano gli spazzini per pulire la città da rifiuti in costante aumento. Un fenomeno non certo di questi giorni: le 51.485 tonnellate raccolte nel 2014 a Venezia, Murano e Burano, sono diventate 52.647 nel 2015, per crescere fino a sfiorare le 54 mila tonnellate nel 2016. E il trend - conferma Veritas - è in aumento anche quest’anno.
A Venezia è come se ogni abitante producesse il doppio di rifiuti: se la media veneta è di 1,8 chili a testa, a Venezia è di 2,8. Lasciti dei turisti messi (in parte) in conto ai residenti in città: il solo spazzamento delle strade, con relativa pulizia dei cestini, costa 6 milioni e mezzo all’anno. Tutti messi in bolletta ai residenti.
Per il servizio di raccolta porta-a-porta e pulizia della città e delle isole, Veritas spende 81 milioni di euro l’anno. Naturalmente, alberghi, ristoranti hanno un ricarico della Tari proporzionale alle loro attività e, quindi, contribuiscono per la loro parte alle spese di Veritas, ma per il resto ci pesano i veneziani: rincaro dei biglietti Actv e tassa di soggiorno non vengono dirottate sui conti dell’azienda.
«Il mito della Barcellona risorta con le Olimpiadi del ’92 ha indicato la strada per la rinascita alle altre città europee post industriali. Ma Barcellona è davvero un esempio da seguire?». Sbilanciamoci-info, 29 maggio 2017 (c.m.c.)
Nel capoluogo della Catalogna c’è chi, da anni, mette in discussione il suo modello di sviluppo urbano, assurto a dogma da amministratori e media mainstream e preso a riferimento anche da molte città italiane. Tra le voci critiche più interessanti, ci sono i sociologi e antropologi Giuseppe Aricò e Marc Dalmau i Torvà: il primo è membro dell’Osservatorio di Antropologia del Conflitto Urbano (OACU), il secondo, socio della cooperativa La Ciutat invisible, ha partecipato all’esperienza di Can Battló, caso esemplare di recupero del patrimonio industriale da parte della cittadinanza. E’ per conoscere il loro punto di vista che sono venuto qui. E perché la questione urbana è una delle grandi questioni del nostro tempo.
Ogni volta che torno a Barcellona sono preda di sentimenti contrastanti. Da una parte la città sembra avere tutto ciò che si possa desiderare: mare, clima, bellezza e dolce vita. Dall’altra, continua a perdere pezzi della sua identità e assomiglia sempre più ad altre città globali. Cammini a Sant Antoni, un tempo quartiere popolare, e ti sembra di stare a Shoreditch o a Williamsburg, i quartieri hipster più famosi di Londra e New York: ristoranti dalla cucina ricercata, café veg, cibi organici, succhi estratti a freddo, negozi vintage e mobili retrò. E gli affitti in zona sono schizzati alle stelle.
Trasformazioni non meno radicali hanno interessato il poco distante Poble Sec, l’ex quartiere operaio ubicato tra il centralissimo Raval e la collina del Montjuic: oggi, tra bar e ristoranti, si contano ben 45 attività commerciali lungo i circa 620 metri della sua “rambla” pedonalizzata. Processi simili, poi, sono in atto anche nel vecchio pueblo di Gracia e nel quartiere del Poblenou, simbolo del passato industriale della città. Per non parlare del quartiere marinaro della Barceloneta, dove invece degli economici chiringuitos di una volta si trovano più ambiziosi gastro-chiringuitos e si sorseggiano cocktail all’ombra di un hotel a vela che fa tanto Dubai.
Emergenza casa
Nessun quartiere viene risparmiato. Si chiama gentrification: chi più, chi meno, chi prima, chi dopo, tutti subiscono una metamorfosi identitaria, che comincia con l’impennata degli affitti e si conclude con la sostituzione di classi medio-basse e basse con classi medio-alte e alte. Idealista, portale online leader nell’ambito dell’ospitalità, sostiene che in alcuni quartieri gli affitti sono saliti addirittura del 15% rispetto ai picchi del 2007, quando si era ancora in piena bolla immobiliare. Un aumento vertiginoso, favorito anche dal proliferare di appartamenti turistici, che, secondo uno studio del comune, sfiorano le 16000 unità, di cui il 40% senza licenza. In una città come Barcellona, ormai una delle principali mete del turismo internazionale, gli affitti brevi rendono molto di più degli affitti a lungo termine e molti proprietari non si sono lasciati scappare l’occasione. Per questo, la sindaca Ada Colau ha intrapreso una battaglia legale contro Airbnb e Homeway, veri e propri colossi di internet nel settore degli affitti a breve termine.
Non è questa l’unica iniziativa dell’attuale giunta per affrontare l’emergenza abitativa, priorità assoluta per Ada Colau, che nel decennio passato è stata protagonista delle lotte per la casa, prima con il collettivo “V de Vivienda” e poi guidando la piattaforma contro gli sfratti (PAH). L’azione della sindaca si sta sviluppando in due direzioni: da una parte, ha predisposto la costruzione di oltre 2000 alloggi da destinare all’edilizia pubblica, oggi ferma all’1,5% contro il 15% della media europea; dall’altra, sta studiando come limitare i prezzi degli affitti. Inoltre, è notizia di questi ultimi giorni, l’amministrazione comunale starebbe preparando in segreto un piano contro la gentrificazione.
A ogni città i suoi palazzinari
Basterà? Secondo Giuseppe Aricò le cose non potranno cambiare in profondità senza puntare il dito contro i veri responsabili: «Un vero cambiamento non può che toccare i poteri forti della città, che hanno nome e cognome: Jose Luiz Navarro, la famiglia Sanahuja, quella Koplowitz e altri grandi grandi investitori immobiliari. Perché tutto inizia e finisce con il settore immobiliare in una città come questa».
Pensando alla grande speculazione in atto a Roma con lo stadio di Tor di Valle, verrebbe da dire: a ogni città i suoi palazzinari. Palazzinari che a Roma hanno esercitato enormi pressioni per la candidatura dell’Urbe alle Olimpiadi del 2024, sbandierandole come volano economico dai benefici universali: guardate – dicevano – le Olimpiadi di Barcellona come hanno cambiato pelle alla città e guardate Torino che ha seguito quel modello e si è rilanciata con i giochi olimpici invernali del 2006 (dimenticano però di dire che il capoluogo piemontese è così diventato la città più indebitata d’Italia, con una eredità di strutture costruite per l’occasione e costate decine di milioni di euro, oggi in stato di abbandono). I grandi eventi, quindi, vengono universalmente presentati come propulsori della trasformazione, o, come viene chiamata spesso, rigenerazione. In nome di una logica che, in tempi di crisi – soprattutto di idee – è rimasta uno dei pochi appigli a cui aggrapparsi.
Le Olimpiadi come tassello mancante di un lungo processo
Per capirne dinamiche e conseguenze, occorre ripercorrere brevemente la storia di Barcellona. A guardarla bene, emerge un quadro diverso da quello diffuso nell’opinione pubblica: le tanto celebrate Olimpiadi sono state solo un importante tassello di un processo che veniva da lontano e che rispondeva a un’ideologia precisa. «L’origine del modello Barcellona – spiega Marc Dalmau i Torvà – possiamo datarlo con la prima esposizione universale (1888), quando si decise di seguire un modello urbanistico di crescita illimitata, nonostante i limiti geografici».
Ma è circa 60 anni fa che si gettano le fondamenta dell’impianto che conosciamo oggi. Si era allora in pieno franchismo e sullo scranno più alto del governo cittadino sedeva il notaio Josep Maria de Porcioles, longa manus del regime e collante con il catalanismo. Nei suoi ben 16 anni di amministrazione, dal ’57 al ’73, Porcioles avviò uno sviluppo urbanistico senza precedenti, per fare di Barcellona una meta turistico-commerciale di fama internazionale. Come recitava uno slogan del tempo, “Barcellona, città del turismo e dei congressi”.
E’ in quest’epoca che si affermano quelle collaborazioni pubblico-private che guideranno la trasformazione olimpica della città. L’era Porcioles, infatti, sdogana la privatizzazione delle politiche comunali e arricchisce alcuni gruppi immobiliari della città attraverso grandi opere speculative e continue riqualificazioni del suolo urbano. Ritrovare i nomi delle stesse imprese nella maggior parte degli interventi cittadini degli ultimi 50 anni pone qualche dubbio sulla vulgata comune, che suddivide la storia urbanistica di Barcellona in tappe e, soprattutto, in tre fasi distinte: il periodo franchista, la transizione e, infine, l’eldorado felice dell’urbanismo democratico, condiviso per il bene di tutti e simboleggiato dalle Olimpiadi.
«Si è soliti pensare – mi racconta Giuseppe Aricò – che abbiamo vissuto un urbanismo del prima, dove non si permetteva la partecipazione cittadina, e un urbanismo del dopo, ispirato dal principio di una città aperta, una città partecipativa. Nonostante gli slogan di allora, le Olimpiadi, però, ci hanno mostrato che non è così: la collaborazione pubblico-privata è stato un trionfo non tanto del pubblico, quanto del privato, ossia degli interessi privati del mercato immobiliare».
E che un filo accomuni i diversi periodi storici lo si capisce anche dalla continuità dei piani urbanistici. Nel 1976, tre anni dopo la fine dell’amministrazione di Porcioles, fu approvato il piano tutt’ora vigente: alla sua base, l’idea di una città terziaria, fondata sul consumo e abitata in particolare da classi medie e medio alte, che non necessitino di molti servizi. Con buona pace delle classi più basse. Per trasformare i desideri in realtà serviva, però, un grande evento. Porcioles, per il suo piano Pla Barcelona 2000, presentato nel 1967 e poi naufragato in un mare di proteste, lo aveva individuato nell’Esposizione Universale del 1982. Toccherà invece alle Olimpiadi realizzare i sogni di rigenerazione urbana del sindaco franchista e dei grandi gruppi immobiliari.
Che la “riqualificazione” abbia inizio!
Sin dalla prima metà degli anni ’80, in concomitanza con il processo di candidatura di Barcellona alle Olimpiadi, fioriscono i primi interventi di “agopuntura urbana”. «Si tratta – continua Giuseppe Aricò – di micro e piccole operazioni, distribuite a pioggia. E’ nel centro che si è concentrata la maggior parte degli interventi, ma hanno subito trasformazioni anche quartieri considerati periferici, convertiti in nuove centralità». All’agopuntura urbana si affiancarono, poi, i progetti per aprire Barcellona al mare, recuperando il litorale dalla Barceloneta alla Mar Bella. «L’apertura verso il mare cancellò la storia delle popolazioni che vivevano nei quartieri lungo il litorale».
L’azione più radicale riguardò il quartiere di Icaria, che venne raso al suolo per far spazio alla Vila Olimpica (Città Olimpica), un quartiere residenziale per ceti abbienti, a due passi dal mare. «E’ il quartiere dei premi Fad, premi d’architettura e interior design, istituiti da Oriol Bohigas, il principale ideologo dei criteri di trasformazione urbanistica della Barcellona democratica».
L’impatto delle archistar si rivela spesso devastante per gli equilibri sociali delle aree in cui operano. E la Vila Olimpica non fa eccezione, incarnando ancora, a decenni di distanza, l’immagine di un “non-quartiere”: composta da blocchi di edifici, progettati da famosi architetti e cinti da giardini privati, ospita vite indipendenti, senza punti d’incontro e relazione e senza attività commerciali. Un “non-quartiere” che esprime una concezione di città esclusiva ed escludente, a scapito dei tessuti sociali pre-esistenti. Un esempio lampante di come rigenerazione non costituisca di per sé una parola positiva, ma possa rivelarsi portatrice di effetti negativi, quando non tiene in considerazione il rispetto della storia di un luogo e dei suoi abitanti.
Città imprenditoriali per un necrourbanismo
Il geografo e urbanista David Harvey, uno dei massimi studiosi di Marx, sostiene che l’urbanizzazione capitalista svolge «un ruolo particolarmente attivo (insieme ad altri fenomeni come le spese militari) nell’assorbire le eccedenze che i capitalisti producono costantemente nella loro ricerca di plusvalore». Come nota lo stesso autore, questo ruolo pare notevolmente aumentato da quando la crisi degli anni ’70 ha spinto le città a passare da una funzione manageriale, in cui gestivano le risorse fornitegli da Stati keynesiani, a una funzione imprenditoriale, in cui perseguono obiettivi di crescita e si pongono in competizione tra loro.
Il risultato di quest’ultima fase, quella neoliberista, è ciò che Marc Dalmau i Torvà definisce “necrourbanismo”. «Lo chiamo così perché è specialista nel generare spazi vivi per il capitale e per la circolazione delle merci e in cambio uccide, depreda tutti gli spazi pubblici, di convivialità, di reciprocità, di socialità, che è quello che in definitiva dovrebbe caratterizzare qualsiasi spazio pubblico». La morte della città nella sua vera essenza.
«Il capitalismo neoliberista sta uccidendo la dimensione umana delle città e sta costruendo un’altra cosa: metropoli, conurbazioni, spazi totalmente segregati, disciplinati dal perseguimento del plusvalore». Con impatti tremendi sulla vita delle persone. «La nostra vita va a rotoli. A causa di questo modello, che durante molti anni è stato premiato e preso a riferimento da altre città, veniamo espulsi dai nostri quartieri, dove coltiviamo relazioni, ci aiutiamo e ci procuriamo i mezzi di sostentamento. Per gli urbanisti e i politici responsabili di questo sviluppo può essere un gioco, ma per noi, che siamo di carne e ossa e viviamo tra le pietre del nostro quartiere, è una questione vitale importantissima, perché perdiamo i nostri riferimenti, i nostri spazi comuni e i luoghi di cui ci appropriamo quotidianamente».
C’è chi dice no
Ma Barcellona è una città tutt’altro che remissiva. Qui, le lotte non sono mai mancate. «Si è soliti pensare – spiega Giuseppe Aricò – che la protesta cittadina sia qualcosa di molto recente, relazionato, non solo qui ma in tutta la Spagna, con i movimenti del 15 maggio 2011 (giorno d’inizio delle proteste degli Indignados, che darà il nome al Movimento 15-M). Questo è un falso mito, perché le lotte hanno caratterizzato questa città sin dal principio del secolo scorso e non sono mai entrate in letargo. Piuttosto, sono state occultate». Durante le Olimpiadi, ad esempio. «Una protesta nota come l’intifada del Besos (quartiere che deve il suo nome all’omonimo fiume, n.d.r.) riuscì a paralizzare un piano di costruzione di case in vista della celebrazione olimpica».
E da lotte più recenti, alla Barceloneta, usciranno le persone che fonderanno la PAH di Ada Colau. Lotte che, nonostante qualche importante vittoria, non sono però riuscite a fermare l’onda della trasformazione neoliberista e della conseguente gentrificazione. Con qualche eccezione, come, per esempio, Can Battlò, ex fabbrica tessile ubicata a Santz, quartiere di grande tradizione operaia. Una storia che vale la pena di essere raccontata