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Scali ferroviari a Milano - Storia, progetto, conflitto
10 Febbraio 2016
Milano
Strategie per la città, oppure semplici strategie private di speculazione su un patrimonio comune il cui valore è determinato proprio da ciò che gli cresce attorno?
Strategie per la città, oppure semplici strategie private di speculazione su un patrimonio comune il cui valore è determinato proprio da ciò che gli cresce attorno?


Di cosa parliamo quando parliamo di scali ferroviari

La storia degli scali parte da lontano, dalla metà dell’800. A partire dal 1840 decine di imprese ferroviarie iniziano a realizzare linee sparse sull’intero territorio, e intorno al 1880 entrano in stato di crisi e dissesto.
Lo Stato unitario decide di intervenire: tra il 1880 e il 1905 il patrimonio viene rilevato, le società private sono indennizzate, il sistema ferroviario diventa servizio pubblico. Tutte le aree sono acquistate dallo Stato ed entrano a far parte del demanio ferroviario.
Per quasi cent’anni gli scali svolgono un servizio fondamentale per la mobilità: linea, stazione, interscambio, deposito o manutenzione.
Hanno conformazioni particolari, a volte si integrano nella città, a volte ne rimangono un po’ separati. Beneficiano anche di un involontario aumento di valore, perché situati in posizioni strategiche, all’interno di un tessuto urbano che cambia. Ma si tratta di un valore puramente nominale, perché sono scali, fatti di binari e traversine.

A metà degli anni ’80 del ‘900 inizia il nuovo processo di privatizzazione. Nel 1985 le FS da Azienda Autonoma si trasformano in Ente Pubblico dotato di personalità giuridica ed autonomia finanziaria. Con la legge del 1992 diventano Società per Azioni, e quote di capitale possono essere acquisite da privati. Tutti i beni, aree comprese, diventano patrimonio della nuova S.p.A., a cui la legge, non senza polemiche e controversie, concede di disporne nei modi previsti dal diritto privato.
L’accordo firmato tra FS, Regione e Comune di Milano nel 2007 prevede la riqualificazione di 7 scali ferroviari, pari a circa 1,1 milioni di mq, con previsione di nuove quantità edificabili pari a 845mila mq di s.l.p., e la “cessione” di 654mila mq di aree ad uso pubblico come standard.
Ma gli scali, come visto sopra, sono aree che lo Stato ha già pagato, nel 1905 e nei decenni successivi, per destinarle a servizio pubblico. E quindi sono già disponibili per usi “sociali” ed a vantaggio della collettività.

Eppure, nonostante questo, sta prendendo forza una grande mistificazione che racconta una storia diversa. Il pubblico, in questo caso il comune di Milano, si rivolge alle Ferrovie come se queste fossero un privato qualsiasi, dicendo: "Se vuoi costruire degli immobili nelle tue (mie) aree centrali (della mia città) devi lasciarmene in cambio la metà come standard, parchi e servizi. Solo così ti permetto di costruire (palazzi di lusso) e di rivendere al prezzo che vuoi (al massimo di mercato) e farci plusvalenze che potrai utilizzare per ripianare il tuo debito (dissesto), per nuovi investimenti ed in generale per il tuo profitto, visto che sei una S.p.A. e rispondi solo ai tuoi azionisti”.
Si tratta di una operazione fantastica, addirittura meglio di quella di Totò e Peppino che almeno vendevano una cosa non loro, la Fontana di Trevi, ad un turista americano. Le FS vendono ai privati le aree ricevute (gratis) dallo Stato e cedono le aree a standard … al proprietario stesso!

La dismissione della mobilità

Il procedimento di trasformazione avviato sugli scali ferroviari milanesi dice un’altra cosa fondamentale: su quelle aree non verrà più fatta ferrovia. Non sarà più possibile fare attività connesse con la mobilità e lo spostamento delle persone e delle cose.
Il modello è quello di un ottuso sprawl centripeto, teso a saturare tutti gli spazi ancora liberi per realizzare nuovi volumi, rinunciando per sempre a funzioni fondamentali per la mobilità in aree centrali e strategiche.

L’Accordo di Programma

La modifica degli scali ferroviari avviene mediante uno strumento urbanistico tipico della deregolamentazione normativa degli anni ‘80: l'Accordo di Programma (A.d.P.). Si tratta di una convenzione, ma sarebbe meglio dire un contratto, tra una parte pubblica ed una privata, per la definizione di interventi ed opere, con un programma concordato.

È l’urbanistica contrattata, quella in cui il pubblico ed il privato si mettono d’accordo per “fare”, anche in superamento della norma. Si tratta di uno strumento non del tutto trasparente, asimmetrico, giocato tra un privato forte e un pubblico debole, un luogo dove gli interessi coincidono e in cui controllore e controllato si confondono. L'AdP è quanto di più distante si possa immaginare dalla pianificazione partecipata ed in generale dal processo democratico di decisione sulla città.
Da qualche decennio, l’Accordo di Programma è lo strumento principale utilizzato per i grandi interventi di trasformazione urbana.

La valorizzazione

La valorizzazione è interpretata nel senso, grezzo, della rendita fondiaria, in cui contano solo volumi e quotazioni al metro quadro. Una visione un po’ alla Paperon de’ Paperoni: la trasformazione urbana deve essere remunerativa hic et nunc. La domanda su cosa dia valore ad una città non trova sede, perché non è ammessa al tavolo dell’Accordo di Programma.

Alcuni scali sono più scali di altri

Gli scali, secondo l’AdP, sono destinati ad una edificazione intensa, anche se la revisione della giunta Pisapia ha leggermente ridotto i numeri rispetto alla proposta Moratti. Con alcune sottigliezze importanti.

Lo Scalo San Cristoforo, un po' più periferico rispetto agli altri, e quindi con minore valore in termini di rendita, verrebbe destinato interamente a verde. L’edificazione viene condensata sugli altri scali, con meccanismo perequativo. Questo viene presentato come un esito virtuoso della trattativa Comune-FS. In realtà l'AdP sta dicendo con chiarezza che al privato non interessa realizzare case al Giambellino, dove i prezzi sono bassi e maggiori sono i problemi, importa invece il centro città, dove prevede di vendere ad un prezzo elevato.

Lo Scalo Farini, centrale e ambito, sembra destinato a nuovi grattacieli ed aree verdi. Le aree verdi sono forse dovute, ma i grattacieli? A chi servono appartamenti da 10÷12.000 euro al metro quadro? Magari la Real Estate Company non riuscirà nemmeno a vendere tutto: una parte verrà ceduta alle imprese che hanno realizzato l'intervento come pagamento del lavoro fatto, una parte residua resterà come garanzia per nuovi finanziamenti da parte delle banche.

Lo Scalo Lambrate si trova in una zona meno centrale, povera di servizi, mal collegata. Sembra destinata a diventare un altro caso Rubattino, secondo lo schema ormai consolidato dei venti megacondomini e un centro commerciale. Come se per vivere non servisse altro.

Conclusioni

Gli scali, e le ferrovie in genere, sono beni preziosi, difficilmente modificabili se non con interventi di altissima qualità urbana (ad es. la High Line a New York o la Coulée verte a Parigi…) o con estesi meccanismi partecipativi. Trasformazioni “à la carte”, in stile padano, uccidono la smart city in nome dell'edilizia, unico motore di un falso progresso.
L’intento del PGT su scali, caserme, aree dismesse, rivela l’ennesima mancanza di un disegno complessivo, e ci consegna una città in cui gli illusi aspettano i raggi verdi e le piste ciclabili mentre la finanza si mette d’accordo con i faccendieri per “valorizzare le opportunità”.

Che si aprano allora mille lotte e mille conflitti, per inventare e praticare nuove e concrete forme di partecipazione, radicalmente diverse da quelle patinate viste negli ultimi mesi a Milano. E che i progetti nascano dall’autodeterminazione, per ottenere giustizia sociale, per costruire la città vivibile ed accessibile, dell’incontro e del mix sociale.

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