Finalmente le periferie romane si fanno largo nell'immaginario cittadino. La proposta del sindaco Alemanno di demolire Tor Bella Monaca è poca cosa e strumentale. Ma permette, come ha più volte chiesto questo giornale, di porre finalmente al centro della discussione lo stato disastroso delle tante torbellamanaca che non hanno la forza di rompere il silenzio colpevole della politica.
La sfida è dunque aperta perché alle dichiarazioni del primo cittadino dovranno seguire necessariamente atti concreti e si aprirà una sfida che - nell'interesse della città - abbiamo il dovere di riempire di contenuti. Lo faremo partendo da una critica radicale dei presupposti culturali con cui il sindaco intende operare, quando parla della bontà del «modello Garbatella», e cioè della piccola borgata che all'inizio degli anni '20 del secolo scorso fu costruita dall'Istituto per le case popolari per dare alloggio agli operai della nascente zona industriale Ostiense.
Garbatella è un luogo bellissimo oggi, non quando fu costruita. All'epoca soffriva di isolamento e di mancanza di servizi pubblici che sarebbero venuti soltanto con le dure rivendicazioni degli abitanti. Un solo esempio. Nella metà degli anni '30, furono costruiti da un grande architetto come Innocenzo Sabbatini tre edifici collettivi per ospitare gli abitanti del centro storico devastato dalla follia del piccone demolitore mussoliniano. Ogni famiglia aveva una stanza, la cucina e i bagni erano in comune. Un modello la Garbatella? Ma quando mai! Lo è diventata perché tornata la libertà le famiglie hanno preteso che venisse trasformata la tipologia e venissero fatti alloggi con tutti i crismi. Chiesero poi altre scuole, giardini pubblici, servizi sociali e culturali.
È il tempo, la fatica sociale e gli investimenti pubblici che l'hanno resa bella.
Tor Bella Monaca non è degradata soltanto perchè piove dentro le case (problema verissimo, ma che si può risolvere con la manutenzione), ma perchè ha scuole con soffitti cadenti e pavimenti sconnessi. Ha parchi sporchi e disadorni che di notte diventano luoghi da malaffare. Non ha piazze. È piena di casi sociali gravi e non ha più un servizio sociale degno di questo nome per i tagli alla spesa pubblica. È piena di bambini handicappati che non hanno più l'ausilio a scuola per bontà della Gelmini. Altro che demolizione. L'unica ricetta è applicare veramente il modello Garbatella: intervenire con un paziente lavoro di costruzione della città pubblica. Investire risorse economiche.
Fare un infinito numero di piccole opere: migliorare lo stato delle scuole; creare spazi sportivi gestiti con competenza e disinteresse; creare una rete di percorsi pedonali e ciclabili protetti che permettano ai bambini di andare a scuola senza pericolo. Interrare strade pericolose. Creare servizi di trasporto moderni ed efficienti: per arrivare alla via Casilina (tre chilometri di distanza) si impiegano quaranta minuti di bus, quando passa. Insomma per cambiare le periferie occorre creare la città pubblica. La demolizione è una comoda scorcatoia che non risolve alcun problema: quattro anni fa fu sperimentata al Laurentino 38. Sono saltati tre ponti e il degrado è identico a prima.
Alemanno è costretto a percorre la scorciatoia della demolizione perchè altrimenti dovrebbe fare i conti con la cultura dominante il suo partito (ed anche del Pd, purtroppo)che ancora crede che la ricetta per risolvere i problemi urbani sia quello di affidarne le sorti ai «privati». È quanto sostiene il faro dell'urbanistica del Pdl, l'onorevole Maurizio Lupi, che da tempo ha presentato una proposta di riforma che equipara gli speculatori con le amministrazioni pubbliche. Il dibattito che si aprirà sulle periferie dovrà fare i conti con questa devastante cultura.
Vorremmo infine ricordare che la tanto osannata Garbatella è figlia del grande pensiero degli inizi del secolo scorso, incarnato meglio di chiunque altro da Luigi Luzzatti. In quel lontano periodo c'era la consapevolezza che le città erano organismi pubblici da governare con idee e lungimiranza. Oggi la politica bipartisan ha sostituito i Luzzatti con ogni sorta di guitti e speculatori. Il patrimonio immobiliare dell'Istituto case popolari di Roma è stato ad esempio affidato alla società Romeo. Non è così che si salverà Tor Bella Monaca.
L’inaugurazione della bretella di Pianzano da parte del Governatore Zaia ha riportato in auge la proposta di una legge obiettivo regionale già avanzata nell’era Galan dall’Assessore Chisso, e passata in commissione regionale col voto favorevole di tutti i partiti presenti. In breve, la fotocopia della proposta di legge regionale della Regione Lombardia, subito impugnata dallo stesso Governo Berlusconi in carica davanti alla Corte Costituzionale per i numerosi profili di contrasto con il dettato costituzionale e con la normativa di settore.
Il rispolvero di una proposta sulla quale si butta a capofitto l’ineffabile Assessore alle Infrastrutture Renato Chisso, memore degli stop imposti da CAT con l’aiuto dei cittadini ad opere come la “Camionabile PD-VE”, per il mancato rispetto di norme procedurali già edulcorate e largamente semplificate. Lo slogan è che “è tutta colpa di Roma e dei suoi funzionari” e che per il progresso del Veneto occorre semplificare e velocizzare di più, insomma “fare presto e bene”, come ripete il duo Galan-Chisso.
La nuova legge obiettivo prevede che, in caso di inerzia degli organi statali e del CIPE, trascorsi 60 giorni la Regione Veneto possa sostituirsi ad essi, esautorando così la commissione VIA nazionale; pressoché con il solo pensiero, magari dell’Assessore Chisso, di Zaia e pure della Segretaria del PD Filippin, le opere diventeranno seduta stante di reale interesse collettivo, di vera utilità, sostenibili e tranquillamente accettate dai cittadini che ne subiranno il peso in termini di salute e pure patrimoniali (per il bene collettivo magari di trasportatori e di imprenditori globalizzati con fabbrichette all’estero).
Opere che sentito l’altro slogan “Prima il Veneto” saranno certamente realizzate in finanza di progetto solo da ditte venete o vicine al sistema veneto. Come dire “sistema Galan”: Mantovani qua, studio Astaldi là, un pezzetto di Adria Infrastrutture della Sig.ra Minutillo (ex segretaria di Galan), Compagnia delle Opere dappertutto ed una spruzzatina di cooperative rosse.
Basterà che dalla Regione si dica un VORREI… e già vedremo fiorire nuove autostrade gestite privatamente per 40 anni anche trasformando strade o tangenziali ora percorribili gratuitamente, o nuovi ospedali che asciugheranno di ogni risorsa tutto il budget sanitario regionale per gli anni a venire.
La legge obiettivo varata dal Governo Berlusconi e immodificata da quello Prodi è di per se già un insulto per la democrazia, che espropria di fatto le comunità locali, i comuni, le province, dalla possibilità di minimamente incidere nel procedimento di approvazione e realizzazione di una opera infrastrutturale decisa sì, dal governo centrale, ma anche sulla base di indicazioni provenienti dalle Regioni.
Semplificare ulteriormente una procedura come la legge obiettivo che, invece, dovrebbe essere abolita, significa mettere ancor più in pericolo un territorio fortemente antropizzato come quello della Regione Veneto, che ha già perso molto, moltissimo, del suo fascino e della sua vivibilità e che non ha davvero bisogno che il buon governatore un bel giorno si svegli con l’idea di dire “bisogna fare l’autostrada Venezia-Monaco” (lungo il Piave, per Cortina, sotto le dolomiti di Fanes).
Perché, da domani, potrebbe essere già fatta!
Gli autori sono esponenti del CAT Comitati Ambiente Territorio Riviera del Brenta e Miranese. Informazioni sul CAT sono contenute, e continuamente aggiornate, sul sitoweb www.infocat.it
Nel duro scontro fra interessi privati e bene comune dei cittadini, c’è un dato da cui partire: il più robusto schieramento italiano è il "partito della Costituzione". Lo mostra l’eloquenza dei numeri: nelle elezioni del 2008, il maggior partito italiano (il Pdl) ebbe 13.629.464 voti, pari al 37,3% dei voti espressi; nel referendum del 2006, la riforma costituzionale varata dal centro-destra fu bocciata da 15.791.293 italiani (il 61,3 % dei voti espressi). La percentuale dei votanti fu assai diversa nei due casi (52,3% nel 2006, 80,4% nel 2008), ma quel che conta (anzi, conta ancor di più) è il dato in cifra assoluta: a difesa della Costituzione, contro una riforma che somiglia anche troppo all’insussistente "Costituzione materiale" invocata dall’onorevole Bianconi contro il Capo dello Stato, votarono allora oltre due milioni di cittadini più degli elettori Pdl di due anni dopo. Come ha osservato il Presidente emerito Scalfaro, i vincitori del referendum del 2006 non seppero trarre le conseguenze di quel risultato, ma è oggi il momento di ricordarsene. Oggi, mentre il Paese è in preda a una schizofrenia di cui gli osservatori stranieri sembrano accorgersi molto più di noi.
Il tema dei beni pubblici, che Rodotà ha affrontato in queste pagine il 10 agosto, è un’ottima cartina di tornasole: nella stessa Italia nascono oggi da un lato avanzatissime proposte, dall’altro sgangherate devoluzioni. L’Accademia dei Lincei ha appena pubblicato un bel volume (a cura di Ugo Mattei, Edoardo Reviglio e Stefano Rodotà) sui Beni pubblici dal governo democratico dell’economia alla riforma del Codice Civile. Sono gli atti di un convegno (aprile 2008) sui lavori della Commissione Rodotà sui Beni Pubblici, che ha lavorato dal giugno 2007 al febbraio 2008. Dato che lo statuto dei beni pubblici è «disperso in mille rivoli, in classificazioni formalistiche del Codice Civile, nonché in una miriade di leggi e leggine speciali», quella Commissione provò a metter ordine, usando come guida i valori della Costituzione, poiché «il regime giuridico dei beni pubblici costituisce il fondamento economico e culturale più importante per la realizzazione del disegno di società contenuto nella Costituzione stessa» (le citazioni da U. Mattei).
Sono state così individuate alcune categorie fondamentali, a cominciare dai beni comuni, «che si sottraggono alla logica proprietaria tanto pubblica quanto privata, per mettere al centro una dimensione collettiva di fruizione diretta di lungo periodo» e dai beni ad appartenenza pubblica necessaria, «che appartengono alla stessa essenza di uno Stato sovrano». Vi sono poi i beni pubblici sociali, «fortemente finalizzati, attraverso un vincolo di scopo, agli aspetti misti e sociali del nostro disegno costituzionale», e i beni pubblici fruttiferi, sostanzialmente disponibili, ma con «un caveat generale, molto importante»: questi beni «fanno pur sempre parte del patrimonio per così dire "liquido" di tutti noi». Tutti i cittadini italiani «sono titolari pro quota di beni pubblici», onde eventuali alienazioni comportano garanzie e compensazioni per tutti i titolari di tale portafoglio collettivo di proprietà. In luogo di questa concezione dei beni pubblici, che rispetta la Costituzione e l’interesse dei cittadini come collettività e come singoli, si è avviato un processo diametralmente opposto, che sotto l’etichetta di "federalismo demaniale" borseggia il portafoglio proprietario della cittadinanza (e di ciascuno di noi), e lo ridistribuisce a Regioni ed enti locali, utilizzandolo come una sorta di salvadanaio di terracotta, da fare a pezzi per prelevarne ogni spicciolo e gettarlo al vento.
In base alla legge Calderoli, lo Stato cede 19.005 unità del proprio demanio, per un valore nominale di oltre tre miliardi. Passano a Comuni, Province e Regioni beni del demanio idrico e marittimo, caserme e aeroporti, catene montuose, e così via. Il trasferimento comporta che una parte di questi beni diventerà immediatamente disponibile alla vendita. Un’altra porzione passerà invece al demanio degli enti locali e delle Regioni, cioè resterà inalienabile sulla carta: ma la stessa legge prevede una forma strisciante di privatizzazione, e cioè il versamento gratuito di beni pubblici (anche demaniali) in fondi immobiliari di proprietà privata (purché i privati versino nello stesso fondo beni di proprietà equivalente). Si capisce così come mai il monte Cristallo sia stato valutato 259.459 euro, e le intere Dolomiti 866.294 euro [Il Gazzettino, 4 agosto 2010]: perché sono destinate a fondi immobiliari, in cui i privati verseranno proprietà di valore "equivalente" onde assumerne il pieno controllo. Fu dunque per questo che quasi 700.000 italiani d’ogni provincia (età media 25 anni) morirono sul fronte della I guerra mondiale.
Il "federalismo demaniale" è stato reclamizzato dal presidente della Regione Veneto Zaia come la «restituzione ai legittimi proprietari» di beni indebitamente sottratti da uno Stato-ladrone: un argomento che ha convinto l’"opposizione", tanto è vero che l’Idv ha votato a favore, il Pd si è astenuto. Tanta concordia non è dovuta a distrazione: evidentemente non solo a destra si condivide il disegno di utilizzare i beni pubblici, come dice la legge Calderoli, «anche alienandoli per produrre ricchezza a beneficio della collettività territoriale», cioè non di tutti gli Italiani, nel cui portafoglio proprietario quei beni erano fino a ieri.
"Produrre ricchezza" vuol dire svendere, visto lo stato disastrato delle finanze locali (la manovra Tremonti 2010 ha tagliato a Regioni ed enti locali altri 15 miliardi nel triennio), e visto che secondo leggi recenti i Comuni devono allegare al bilancio ogni anno un «piano di alienazioni immobiliari». Come ha scritto efficacemente Galli della Loggia (Corriere della Sera, 2 agosto), «fino ad oggi gli italiani potevano pensare di essere, in quanto tali, padroni del proprio Paese. Ora non più. Dobbiamo aspettarci la rovina definitiva del paesaggio e del patrimonio naturalistico del nostro Paese, la sua totale mercificazione-cementificazione».
Contro queste ed altre schizofrenie che viviamo, contro quello che si scrive "federalismo" e si legge "secessione", contro la strategia perdente di inseguire la Lega sul suo terreno, la Costituzione è il massimo baluardo. La Costituzione scritta, quella che quasi sedici milioni di italiani difesero nel 2006 col loro voto. La sola Costituzione esistente, quella di cui il Presidente della Repubblica è e deve essere garante supremo.
la Repubblica
"Abbattere Tor Bella Monaca", a Roma è polemica
di Paolo G. Brera e Rory Cappelli
«Tor Bella Monaca? Va rasa al suolo e ricostruita». Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, dice che sarà la sua «Rivoluzione d´Ottobre» (proprio così, quella bolscevica): «Dobbiamo demolire quegli obbrobri e ricostruire sul modello della Garbatella», trasformando la più degradata e violenta delle borgate romane nello splendido quartiere d´edilizia popolare realizzato nel Ventennio, un idillio di villette con giardini che oggi costano un occhio. Addio ai casermoni di cemento e ai laghi d´asfalto, addio a sporcizia e delinquenza, promette il sindaco in un intervento a "Cortina Incontra" travolgendo la sonnolenta politica estiva capitolina. «Un piano così gigantesco non lo ha mai realizzato nessuno al mondo: costerebbe uno sproposito e non eliminerebbe il degrado», taglia corto l´urbanista Paolo Berdini, ricordando che non è proprio uno scherzetto abbattere un quartiere con 35mila residenti che sopravvivono nelle case popolari: «Praticamente una città come Velletri, ma senza servizi sociali e senza manutenzioni».
«Una boutade estiva e un´inutile propaganda», la bolla il centrosinistra ricordando che, nonostante le promesse elettorali di abbattere e ricostruire Corviale - un serpentone di degrado assoluto con 1.200 appartamenti - «a metà del suo mandato il sindaco non ha demolito e ricostruito un solo metro cubo». «Prima che ci riesca, i romani abbatteranno lui alle elezioni», chiosa Massimiliano Valeriani (Pd). E a sentire gli abitanti di Tor Bella Monaca sembrerebbe proprio così: «Qui non ci manca niente, abbiamo anche l´orto. Tutta Roma ci invidia» si fermano a dire Veronica e Perla, mentre con la spesa rientrano a casa passando nei lunghi camminamenti del retro delle "torri": la prima indossa un ciondolo d´oro con la croce celtica, la seconda una maglietta con la faccia del duce stampata sopra. «Certo, poi ci sono molti problemi» dice Perla agitando la mano avanti e indietro come un rapper newyorkese. «Per esempio la sporcizia: venisse a pulire Alemanno, invece di pensare a buttare giù le nostre case».
Sull´idea di Alemanno sono intervenuti in tantissimi: «Se una decisione del genere dovesse essere presa per un mero fatto estetico» ragiona il critico e scrittore Alberto Asor Rosa «tre quarti della Roma post bellica dovrebbe essere abbattuti». C´è anche chi plaude trovando la «proposta coraggiosa e all´altezza delle problematiche della zona» come ha detto Michele Placido, l´attore che ha legato il proprio nome alla conduzione artistica del Teatro Tor Bella Monaca. Anche l´architetto Paolo Portoghesi ha "benedetto" l´idea del sindaco spiegando che si era «partiti dall´idea di un quartiere modello: è diventato un ghetto senza vitalità. Si capisce che dietro l´idea di Alemanno c´è la scelta di imboccare la strada per cambiare la città senza commettere gli errori del passato».
E Alemanno, intanto, rilancia: «Chi parla di una boutade estiva si sbaglia: a fine ottobre presenteremo un masterplan della zona e faremo un referendum con i residenti. Il costo? Puntiamo a edificare le aree circostanti con premi di cubature da dare ai costruttori, senza esborsi per il Comune». «I conti non tornano - replica Berdini - i residenti in eccesso dove pensa di trasferirli, in una città con diecimila famiglie in occupazione abusiva?».
Corriere della Sera
Cittadini ostaggio di periferie malate
di Giangiacomo Schiavi
Ci sono posti che diventano frontiere dell’invivibilità. Milano, quartiere Corvetto: vigili accerchiati e aggrediti da giovani teppisti. Roma, Tor Bella Monaca: porto franco di illegalità. Ma i casi aumentano ogni giorno anche ai margini di altre città, dove con il degrado cresce la paura dei cittadini onesti. E se abbattessimo le periferie?, ha proposto il sindaco di Roma, Alemanno, annunciando un progetto per tirar giù le torri ghetto di Tor Bella Monaca. Tra boutade estive ed emergenze vere, con la bagarre politica si riapre la questione sicurezza. Ma non basta dire «rottamiamo i ghetti invivibili» per uscire dall’emergenza che penalizza gli abitanti dei quartieri difficili, dove rimbomba periodicamente la parola «coprifuoco» e dove la presenza delle forze dell’ordine è considerata prioritaria per garantire la vivibilità. Tor Bella Monaca, a Roma, è un’enclave malata dove i problemi irrisolti si sono accumulati negli anni insieme alle risse, allo spaccio, alle aggressioni, alle occupazioni abusive e dove gli interventi di recupero sono risultati fallimentari per l’incapacità di portare nel quartiere servizi, cultura, assistenza sociale e creare quel mix abitativo in grado di rompere l’omertà collusa sulla quale prospera l’illegalità.
È così anche a Milano, nelle zone rosse dell’emergenza abitativa, dentro gli osceni tuguri del quartiere Stadera, nell’isola della droga di via Capuana a Quarto Oggiaro, o nelle vie perdute del Corvetto, dove gli appartamenti si occupano con il passaparola mentre l’anziana titolare va in ferie, e guai a chi sgarra o denuncia, perché si bruciano le auto come niente o compaiono subito scritte minacciose sulle porte.
È da questi spazi privati di una vera socialità, in qualche caso ridotti a squallidi dormitori dall’immigrazione clandestina, che bisogna partire per chiudere la ferita aperta delle nostre periferie. Abbattere è stata una parola tabù fino a pochi anni fa, ma in certi casi oggi la richiesta la fanno le stesse Aler: i costi per rimettere a nuovo i grattacieli coi muri sgangherati e cadenti sono più alti di una ricostruzione vera e propria. Tanto varrebbe buttar giù qualche muro, cancellando così anche la vergogna dell’urbanistica sbagliata degli anni Sessanta.
Ma queste operazioni, sicuramente vantaggiose per l’edilizia e per l’estetica, necessitano di qualcosa d’altro per restituire una dignità abitativa e un’anima ai quartieri, per dare a chi ci vive onestamente la sensazione di non essere figli di un dio minore: servono negozi, scuole, asili, centri culturali, più controlli e più vigili. La parola rottamare porta con sé l’idea negativa dell’inutilità: meglio sarebbe dire salvare. Per dare davvero una mano ai cittadini che, a Roma come a Milano, chiedono di essere ascoltati e aiutati.
Corriere della Sera
«Tor Bella Monaca sarà rasa al suolo»
di Paolo Foschi
ROMA — «È solo demagogia, è il solito annuncio che non avrà alcun seguito», urlano dal centrosinistra. «No, è un progetto vero e presto lo presenteremo», replicano dal Pdl. Dopo le polemiche per la tassa sui cortei, accende il dibattito politico anche la nuova proposta di Gianni Alemanno: radere al suolo e ricostruire il quartiere degradato di Tor Bella Monaca, periferia est della Capitale.
Il sindaco anche stavolta ha lanciato l’idea dal palco della manifestazione estiva Cortina Incontra. Lo ha fatto domenica sera in pillole, annunciando solo a grandi linee il piano. E ieri ha dettato un primo embrionale cronoprogramma: «Non è una boutade estiva, ci stiamo lavorando da mesi e a ottobre presenteremo il master plan agli abitanti. Non è una questione estetica ma funzionale, in quella case piove dentro. E noi non vogliamo cacciare i residenti, ma spostarli in appartamenti di qualità. Penso a una città-giardino sul modello della Garbatella». Nel piano del sindaco invece non c’è la demolizione del serpentone di «Corviale, quello è un discorso diverso».
Due architetti di calibro, e cioè Paolo Portoghesi e Massimiliano Fuksas hanno espresso già parere favorevole, anche se condizionato. «Non vale la logica della tabula rasa - ha detto Fuksas - ma bisogna lavorare con cesello e attenzione. Abbattere alcune zone, riqualificarne altre». E Portoghesi: «È una buona iniziativa, ma poi bisogna ricostruire con qualità». Resta l’incognita dei fondi: il bilancio del Campidoglio è in profondo rosso. E il centrosinistra affonda il coltello nella piaga: «Sono progetti velleitari, la giunta Alemanno non è riuscita a realizzare un solo metro cubo di nuovi alloggi popolari», ha sottolineato Roberto Morassut, assessore all’Urbanistica ai tempi di Walter Veltroni sindaco. E dal Pd ricordano che «appena eletto Alemanno voleva spostare la teca di Meier dell’Ara Pacis a Tor Bella Monaca, ora vuole radere al suolo il quartiere. Il prossimo anno che cosa proporrà?». Stefano Pedica, segretario regionale dell’Idv, rincara la dose: «Parole, parole, parole. Dove sono i 6 mila nuovi alloggi popolari promessi in campagna elettorale?». Fra i contrari c’è anche i l critico e scritto Asor Rosa, ex dirigente del Pci: «La proposta andrebbe commentata con una risata. Perché allora andrebbero abbattuti 3 quarti della Roma post bellica. Anziché abbattere Tor Bella Monaca, il comune investa sui servizi . . . » . Rosa Russo Iervolino, sindaco di Napoli, ha invece espresso parere favorevole.
Nel centrodestra, molti i sostenitori. «Idea realizzabile e concreta», ha sintetizzato Francesco Giro, sottosegretario ai Beni culturali. Secondo Vittorio Sgarbi, «Alemanno ha ragione, ma la sua proposta rischia di restare simbolica e senza conseguenze pratiche». Vena polemica invece nelle parole di Teodoro Buontempo, assessore regionale alla casa nella giunta Polverini: «Bene, a patto che non sia solo un proclama di Ferragosto».
Corriere della Sera
Spaccio e pestaggi Il quartiere milanese dei ragazzi gangster
di Gianni Santucci
MILANO — «Se qua si mettesse una targa per ogni balordata, ormai non ci sarebbe più spazio sui muri», sorride a mezza bocca un anziano, si gira da una parte e dell’altra, poi indica e mormora: «In quest’angolo hanno massacrato una brava persona, un uomo che s’era solo lamentato per un motorino sul marciapiede». Quell’uomo aveva 52 anni, s’è fatto un mese in rianimazione e, quattro anni dopo, porta ancora addosso i danni di quel pestaggio. L’ultima targa della memoria nera del Corvetto starebbe venti metri più giù, al centro del quartiere, dove sabato sera un maghrebino s’è ritrovato con la faccia spappolata dai calci per aver oltrepassato la linea che segna spazi, regole e comportamenti dello spaccio. Si gira l’angolo e nell’altra strada, dopo la rissa dell’altra sera, un vigile è stato circondato e assalito da una ventina di persone del quartiere, che hanno «liberato» un arrestato. Ieri gli agenti sono tornati in cinquanta, in borghese, e hanno arrestato due di quelli che hanno partecipato alla rivolta. Erano rimasti nelle loro strade, all’estrema periferia Sudest di Milano. Qui dove i ragazzi che vogliono fare i gangster urlano «Corvetto comanda» (l’hanno fatto anche sabato, mentre «salvavano» il loro compagno dalle manette).
È tutto in una manciata di strade e nemmeno un chilometro quadrato d’asfalto, il Corvetto. Con una memoria criminale stratificata da decenni. Uno dei pochi posti della città dove si reagisce ai controlli e alle forze dell’ordine. Uno dei ragazzi arrestati ieri ha 25 anni, precedenti per rissa, spaccio, rapina; era agli arresti domiciliari ma sabato sera è uscito comunque a picchiare il vigile; ieri pomeriggio gli investigatori l’hanno trovato ancora in strada. Quando li ha visti s’è messo a scappare; quando l’hanno preso l’ha fissati e è rimasto muto (è in carcere anche per l’evasione). L’altro arrestato è ancora più giovane, 22 anni. Un minorenne è stato identificato e denunciato. C’era bisogno di dare una risposta immediata all’aggressione e ora il sindaco, Letizia Moratti, dice: «A Milano non ci sono zone franche».
Sembrano una sequenza di freddi dettagli di cronaca, le storie del Corvetto, ma dicono qualcosa in più: raccontano che negli ultimi quattro anni, in questo quartiere, è cresciuta una generazione di ragazzini che ha avuto il suo «battesimo del fuoco» assaltando nel 2006 il comando di zona della polizia locale. E che poi, mese dopo mese, ha picchiato, spacciato, sparato. Il Corvetto è chiuso in una ventina di strade che in pomeriggio d’agosto si percorrono a piedi in un paio d’ore e restituiscono la memoria di una violenza quotidiana: il disabile massacrato con la sua stampella in piazza Gabriele Rosa perché s’era lamentato dopo che avevano investito il suo cane; una pistola e un fucile a pompa scaricati contro un addetto alla sicurezza di una discoteca che aveva rifiutato l’ingresso nel privé (in via Fabio Massimo); gli otto motorini bruciati all’inizio di corso Lodi l’anno scorso come sfregio ai rivali di spaccio, i maghrebini di piazza Ferrara, che è a 500 metri di distanza. È anche il quartiere del «coprifuoco», dove dall’inizio di agosto un’ordinanza del Comune ha ridotto gli orari d’apertura di bar, kebab, centri massaggi: «Non risolverà tutto — spiega il vice sindaco, Riccardo De Corato — ma il nuovo provvedimento porta più presenza e attenzione su alcuni punti critici della zona. Le istituzioni devono lavorare insieme e oggi dobbiamo ringraziare la Procura che ha dedicato un magistrato alle pratiche per sequestrare le case affittate in nero a decine di immigrati clandestini». Come succede in un intero palazzo di via Bessarione, dove si dorme a turni, di giorno e di notte.
La storia criminale del Corvetto è ormai un palinsesto di livelli sovrapposti e rappresenta in qualche modo l’evoluzione della malavita al Nord. Questo quartiere, dagli anni Settanta, è stato un feudo dei clan della mafia siciliana. All’epoca, in via Romilli, per coprire i traffici di droga aveva aperto un negozio di tessuti Gaetano Fidanzati, che a Milano è stato arrestato lo scorso dicembre (era considerato l’ultimo grande vecchio di Cosa Nostra in libertà). Proprio intorno al Corvetto, poco prima dell’arresto, erano arrivati a cercarlo con una serie di blitz i carabinieri di Palermo. I vecchi clan hanno però abbandonato da anni il controllo del territorio, e la violenza di oggi sembra più sporca e più gratuita.
La notte scorsa le pattuglie dei vigili sono tornate in strada per i controlli, c’era anche il comandante della polizia locale, Tullio Mastrangelo: «Stiamo lavorando — dice — per arrivare a identificare l’intero gruppo della rivolta». I controlli stradali servono più che altrove, al Corvetto, perché il quartiere è una delle centrali di smistamento di auto e moto rubate in tutta Milano (gli italiani lavorano con i clan zingari). Nel 2006 fu proprio il sequestro di alcuni motorini a scatenare la banda del Corvetto in un pomeriggio di guerriglia. Con la violenza dicevano : « Qui c o mandi a mo noi». Alcuni di quei ragazzi allora erano minorenni, altri non furono processati perché c’era l’indulto. In questi quattro anni stanno finendo in carcere uno dopo l’altro.
La Stampa
Demolire Tor Bella Monaca
di Flavia Amabile
Forse era una provocazione ferragostana,o forse no, e l’idea di Gianni Alemanno è davvero destinata a cambiare un pezzo di Roma. «Tor Bella Monaca va demolita, rasa al suolo». L’aveva definita «una cisti urbana» e spiegato che «è necessario demolire e ricostruire ampie aree della città, recuperando anche terreno urbano». La platea ascoltava, piuttosto stupita. In molti avevano pensato ad un’esagerazione, alla voglia di catturare un titolo sui giornali.
In realtà ieri Alemanno ha confermato ogni parola e aggiunto anche qualche dettaglio annunciando un master plan e un referendum: «Sbaglia chi pensa che sia una boutade estiva: a fine ottobre presenteremo un master plan della zona e faremo un confronto diretto con i residenti, anche con un referendum, perchè vogliamo attuare una urbanistica partecipata e non calata dall’alto».
Se urbanistica partecipata deve essere, allora l’idea è già morta perché gli abitanti di Tor Bella Monaca non hanno mostrato molto entusiasmo all’idea di veder distrutte le loro case. «Invece di pensare a queste cavolate spenda i soldi per costruire dei centri a buon mercato per le famiglie che non se lo possono permettere, in modo che i ragazzi possano andare tranquillamente a fare attività sportiva e toglierli così dalla strada». E, un altro: «È tutta una speculazione per poter lavorare, prendere appalti, subappalti, sub subappalti, e i poveri disgraziati vivono sempre come vivono». Oppure: «Quando è venuto qui a prendere voti non doveva radere al suolo Tor Bella Monaca!»
Alemanno vorrebbe abbattere le torri e alcuni dei lunghi palazzi orizzontali del quartiere, e poi ricostruire non con i grattacieli ma sulla falsa riga della città giardino, modello Garbatella. «I grattacieli servono - spiega - per realizzare servizi e non residenze. Lo schema edilizio verticale è fallito. Penso per Tor Bella Monaca a case come quelle della Garbatella», cioè basse e con ampi spazi verdi.
Questione di estetica, certo, ma non solo, tiene a precisare Alemanno. «Nelle case di Tor Bella Monica ci piove dentro, la qualità di vità dei cittadini è pessima perchè spesso si tratta di prefabbricati spinti, e tra una lastra e l’altra ci sono crepe ed infiltrazioni. Forse Asor Rosa questo aspetto non lo conosce».
È stato anche affrontato il versante economico: «Puntiamo ad edificare le aree circostanti con premi di cubature da dare ai costruttori, quindi senza esborsi per l’amministrazione comunale». Diversa per il sindaco la situazione dell’altro quartiere periferico di Corviale. «Non c’è un problema funzionale, non piove dentro le case. C’è un problema di organizzazione bisogna abolire il condominio unico e crearne diversi, puntare sui servizi. Su questo sono d’accordo con Asor Rosa, non si può abbattere soltanto per un pregiudizio estetico».
Si parlava di un progetto urbanistico, di una proposta tecnica ma il mondo politico ha risposto secondo blocchi compatti e contrapposti come se già fosse in corso una pre-campagna elettorale. Il via libera govenativo arriva con Francesco Giro, Pdl, sottosegretario del ministero ai Beni Culturali.
Ma le voci a favore sono davvero tante, da Buontempo a Gramazio. E Massimiliano Lorenzotti, tessera del Pdl in tasca e presidente dell’VIII municipio, quello di Tor Bella Monaca, in totale disaccordo con i suoi amministrati, si augura che sia «un sogno che si possa realizzare» perché «Tor Bella Monaca è diventato un ghetto, un quartiere insicuro con sacche di microcriminalità, tanto che le persone per bene non riescono a viverci, non c’è più vita sociale. La manutenzione è poi difficilissima, perchè gli edifici sono vecchi e mal costruiti».
Ironia e condanna da parte dell’opposizione.«Con quali soldi fare una nuova Tor Bella Monaca?» Se lo chiede il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, segretario della Commissione affari europei e dirigente del Pd di Roma. Oppure Luigi Nieri, ex assessore alle periferie del Comune che ricorda il fascino degli sventramenti fascisti anche sulla maggioranza attuale.
ed ecco che cosa ne pensano alcuni architetti
Fra gli entusiasti innanzitutto Paolo Portoghesi che a Roma ha costruito la Moschea. «Un’ottima idea, auspicabile - commenta - Perchè Tor Bella Monaca è uno dei grandi fallimenti dell’urbanistica romana degli anni ’70/’80. Ormai è un ghetto senza vivibilità. e consuma energia in modo terribile perchè realizzato con modelli di prefabbricazione sbagliata. Costa meno abbatterlo e ricostruirlo che riqualificarlo».
Vittorio Sgarbi non è un architetto ma come esperto d’arte ha voluto dire la sua e chiesto un quartiere che sia «una seconda Eur».
Nessun architetto sosterrebbe che Tor Bella Monaca sia un capolavoro ma abbatterlo ad alcuni sembra un po’ troppo. E, senza rifiutare del tutto l’idea, propongono alternative.
Renato Nicolini, ad esempio, che quel quartiere l’ha trovato appena costruito quando è entrato nella giunta Petroselli. «Si deve seguire l’esempio francese e tedesco, costruendo sopra quello che esiste. La demolizione è impraticabile, il pubblico non ha soldi per pagarla». Per Nicolini, si può intervenire «con una finezza maggiore. Si recupera, si riqualifica, si costruisce, si trasforma. Quindi, si densifica creando spazi per la vita culturale e sociale. Ma sto parlando di un progetto da portare avanti con i privati, non con enti pubblici».
Anche Massimiliano Fuksas non è del tutto contrario. «Il quartiere di Tor Bella Monaca può essere in parte integrato, in parte abbattuto. C’è spazio per costruire nuove architetture con qualità ambientali e sociali, oltre che culturali. Fare tabula rasa è possibile, ma solo in alcune condizioni estreme. Negli altri casi, come ho verificato ad esempio durante un intervento a Marsiglia, in un grande quartiere sociale si può in alcuni casi diminuire la densità, in altri aumentarla, intervenire sull’esistente e anche abbattere gli edifici che non hanno nè qualità sociale nè qualità architettonica».
Andrea Bonessa, milanese, e idee molto diverse da quelle di Alemanno, dà ragione al sindaco di Roma. «Ma si deve avere coraggio fino in fondo e ricostruire senza più seguire la logica dei quartieri-dormitorio altrimenti è del tutto inutili abbattere».
Non è una battuta estemporanea. Con la sortita di Alemanno si è aperta una questione seria. Ne vogliamo sottolineare due elementi.
1) La proposta di Alemanno riassume tutti i connotati della politica della destra neoliberista , a proposito di residenza, di città e di società. Si distruggono le immagini di una politica volta (dal Tiburtino III al Corviale) a realizzare il diritto alla casa e alla città. Si svuota la più avanzata pratica di intervento nell'edilizia residenziale, quella avviata con la legge 167/1962 che oggi i paesi dell'Europa evoluta stanno imitando. Si demolisce patrimonio pubblico per cedere le aree alla proprietà privata, che dovrà "subire" per qualche anno qualche prezzo convenzionato per poi entrare trionfalmente in possesso di una inaspettata rendita fondiaria. Si affronta in modo meramente represssivo una questione sociale, che solo l'incuria dei governanti di ieri e di oggi ha provocato e lasciato incancrenire. Si propaganda il modello edilizio più favorevole sia al consumo di suolo che al trionfo dell'individualismo sociale. Si sprecano risorse che per anni si sono negate alla manutenzione ordinaria e, quando occorre, straordinaria. Si favorisce un pugno di imprese edilizia che da decenni hanno abbandonato ogni spirito imprenditivo per tuffarsi a capofitto nella speculazione edilizia.
2) Le risposte, possibiliste o addirittura favorevoli, di alcuni autorevoli esponenti della cultura architettonica e urbanistica rivelano a loro volta il profondo degrado nel quale, nel nostro paese, quella cultura è precipitata negli ultimi anni. L'egemonia della destra neoliberista sull'intellettualità italiana, su cui ragionava Fausto Curi sul manifesto di qualche giorno fa, sta ricevendo altre conferme. Ma su questo bisognerà tornare, riprendendo questioni che già altre volte erano emerse a proposito di periferie e "casermoni", e degli "errori" che certamente negli anni 60 e 70 sono stati compiuti, ma che sono ben diversi da quelli che permeano il senso comune (e l'ideologia di destra).
La nuova proposta choc di Gianni Alemanno è arrivata dalle Dolomiti. E cioè dallo stesso palco della manifestazione Cortina Incontra, dove appena una settimana fa aveva lanciato l’idea, poi contestata anche da una parte del centrodestra, di tassare i cortei che attraversano la Capitale. Stavolta il sindaco ha cambiato argomento: «Vogliamo demolire Tor Bella Monaca», ha detto. Un annuncio che non mancherà di scatenare polemiche. E che per adesso ha scatenato sorpresa e stupore, ma anche ironia: «Ma come? Appena eletto ha detto che voleva spostare la teca di Meier dell’Ara Pacis a Tor Bella Monaca? Adesso vuole buttare giù il quartiere? Non ha le idee molto chiare», hanno scherzato dal centrosinistra.
Il progetto Alemanno vorrebbe trovare dei terreni vicino a Tor Bella Monaca per costruire nuove abitazioni Nella foto a sinistra, Teodoro Buontempo, assessore regionale alla Casa Come riferisce l’agenzia di stampa Omniroma, il sindaco stava partecipando al dibattito «Estetica della città», quando il moderatore gli ha chiesto su quale parte di Roma si potrebbe intervenire con un drastico intervento di riqualificazione. E Alemanno, dopo averci pensato qualche secondo, ha risposto: «Sicuramente Tor Bella Monaca va demolita, rasa al suolo, non tanto Corviale, che è un altro discorso. A Tor Bella Monaca ci sono case costruite con un sistema di prefabbricazione in cui piove dentro», ha detto. E poi: «Se abbiamo terreni e aree per costruire affianco un nuovo quartiere a Tor Bella Monaca per permettere alle persone che lì abitano di spostarsi, sarebbe una scelta popolare. Chi vive dentro quelle case non vive bene e vorrebbe spostarsi».
Alemanno prima dell’annuncio choc ha affermato che «oggi con le ultime sentenze della Corte Costituzionale espropriare costa troppo. Siamo passati dall'assoluta massificazione degli anni passati a meccanismi oggi troppo restrittivi: è necessaria una nuova legge urbanistica complessiva che consenta di costruire dove c'è bisogno e non solo dove c'è interesse di privato e di società immobiliari, se no continueremo ad avere città che si espandono in zona agricola. È necessario invece demolire e ricostruire ampie aree della città, recuperando anche terreno urbano». E ancora: «A Roma ci sono molte aree delle 167 che sono autentiche cisti urbane, penso al Tiburtino 3 e altre zone». Come appunto Tor Bella Monaca.
L’idea di Alemanno, che per adesso non sembra supportata da progetti concreti di intervento, rischia di aprire un nuovo fronte di polemica interno al centrodestra. Teodoro Buontempo, grintoso assessore regionale alla Casa nella giunta guidata da Renata Polverini, appena insediato ha illustrato come uno degli obiettivi programmatici l’abbattimento del «serpentone» di Corviale e la ricostruzione di nuovo unità residenziali per gli abitanti della zona. Un progetto chiaramente in contrasto con l’idea appena annunciata dal sindaco, che ha invece escluso proprio l’abbattimento di Corviale.
Nota: si veda per un confronto la quasi contemporanea idea di "bonifica delle periferie" dell'assessore milanese Gianni Verga
Forse i Maya non erano poi così scemi: i segnali della fine del mondo si moltiplicano. La Santanché che cita Marcuse, per esempio (forse crede che sia un grossista di champagne). Oppure il topless di Marina Berlusconi, editore che edita un giornale che di lei stessa scrive: «Marina Berlusconi, selvaggia bellezza a cavallo di una tecnologica moto d'acqua, ricorda Galatea, la più bella tra le Nereidi». Che non sembri piaggeria, l'ha scritto un archeologo, ma visto il topless andava bene anche un restauratore. Tra tutte queste premonizioni di immani disgrazie, rimangono per fortuna ben saldi alcuni valori, solidi, stabili. Per esempio la leggina (ddl 40, articolo 3, comma 2 bis, votato anche dagli intrepidi finiani) con cui il governo Berlusconi, presieduto dal padrone della Mondadori, presieduta dalla di lui figlia Marina Berlusconi, ha permesso all'azienda di risparmiare qualcosa come 340 milioni di euro di contenzioso fiscale. Stiamo parlando di tasse - contenzioso su tasse evase, per la precisione - che ammetterete, dopo Galatea e le Nereidi è una bella caduta di stile. Naturalmente continueremo a sentire nei telegiornali embedded della casa reale che la lotta all'evasione fiscale continua senza soste e cedimenti. Ma del super-sconto di famiglia direttamente dal produttore (di leggi) al consumatore (di condoni) non vi diranno nulla (sacrilegio!). Per fortuna, però, come nei migliori fascismi della storia, si sta con il "popolo". Così nell'editoriale del settimanale di teoria politica del regime, Chi?, possiamo leggere la commovente lettera di Marta: «Faccio l'operaia...Con gli straordinari guadagno 1050 euro al mese... Ho iscritto mia sorella all'università, ha il libretto pieno di 30...Faccio i debiti, ma queste sono le soddisfazioni della vita. Ti scrivo per dirti che sono felice». Bello, eh? E sotto a queste righe, foto di Marina Berlusconi in moto d'acqua, a cui il papà ha appena regalato una legge da 340 milioni di euro. Scommettiamo che è felice anche lei?
CREMONA — L’estate della quercia. Sembra il titolo d’un romanzo di Arto Paasilinna. E forse ci vorrebbe la penna dello scrittore finlandese, per raccontare le cose da non credere capitate quest’estate, sotto la grande chioma di Mina, la Nonna Quercia di Castelvetro Piacentino.Era arrivata con un po’ d’anticipo, l’estate della quercia: il primo giugno. Quel giorno, sotto le fronde, spuntarono le prime tende. Ma per capire come e perché fossero spuntate, tocca tornare a inizio primavera. Fine marzo, da Centropadane arriva il progetto definitivo del raccordo autostradale tra Cavatigozzi (Cr) e Castelvetro. Mica un temporale improvviso. Di quel progetto e di un terzo ponte cremonese sul Po, si parlava da anni. Addirittura dal 1993.
Nel 2005, l’operazione Terzo Ponte era nero su bianco. Dodici chilometri d’asfalto, ponte di 200 metri e costo di 220 milioni di euro. Da allora, però, non se ne era parlato quasi più. Fino all’inverno di quest’anno. Fu allora che si cominciò a mormorare di quella quercia, piantata più di duecento anni prima, quando di qui non passavano Tir (quasi tremila al giorno, quelli che oggi ammorbano l’aria di Castelvetro, passando dal vecchio ponte in ferro per raggiungere l’area industriale di Cremona), ma carrozze e cavalli.
Dicevano ci fosse il rischio che la tagliassero, Nonna Quercia, per far spazio al nuovo raccordo a sei corsie. Il progetto definitivo, in verità, la risparmia. Ma l’ingabbia tra ferrovia e nuova autostrada. Per farla breve, e arrivare all’estate, Nonna Quercia si ritrova in trincea. A duecent’anni suonati, diventa la bandiera della guerra al Terzo Ponte. «A rischio c’è un intero territorio – spiega Carlo Baroncelli, che insegna Scienze della terra alla Cattolica di Brescia - Il ponte, per dire, poggerebbe sull’Isola del deserto, a due passi dall’Oasi di Spinadesco: due siti ambientali protetti dalla Ue».
Le tende sotto l’enorme chioma verde diventano un po’ come quegli operai che dormono sui tetti per salvare la fabbrica. Qui ci si dorme sotto per salvare la pianta. E, da quel primo di giugno, ci dormono in tanti. «In media, almeno una dozzina di persone a settimana» dice Simone Mazzata, alla testa del comitato Salviamo Nonna Quercia. I più si prenotano via Internet. Qualcuno fa un’improvvisata. Come quella coppia milanese in viaggio per le vacanze al Sud Italia, che la prima notte di ferie l’ha voluta passare sotto Mina. Una mamma cremonese s’è accampata col figlio di 4 anni: «Lui si chiama Olmo». Nomen omen, davvero. Che viavai, nell’estate della quercia. Ciclisti che se la sono fatta pedalando da Casalpusterlengo e un’agronoma-centaura modenese che va a zonzo in moto a caccia d’alberi monumentali. Giovani dei centri sociali e bimbi per la festa di compleanno.
Illustri sconosciuti e volti noti. Tessa Gelisio al battesimo delle tende. I messaggi di Licia Colò e Dj Linus. Julia Hill, la «ragazza della sequoia», che imbuca da Oltreoceano una lettera alla quercia. Un giorno capitano gli Inti Illimani (che di ribellione un poco se ne intendono), un altro i Modena City Ramblers. In queste sere, cinema sotto le ghiande. E, domani, burattini.L’estate della quercia è roba da far invidia a tante città qui attorno, appisolate nella calura della pianura. «A conti fatti, saranno passate quattromila persone» azzarda Mazzata. Il guaio è che l’estate sta finendo e quella di Nonna Quercia rischia di finir male.
Il 21 settembre (guarda il caso) è fissata la conferenza dei servizi per il via definitivo al raccordo. A meno di dietrofront clamorosi, con l’autunno non resterà che far valere i due ricorsi al Tar di Brescia, contro la Valutazione d’impatto ambientale. Intanto, quelli del comitato hanno messo online un sito con tutto quello che c’è sa sapere sul (o contro?) il terzo ponte: www.terzoponte
L'urgenza dei tempi e il rilievo delle tematiche mi inducono a riprendere e precisare il mio precedente articolo (governo di ricostruzione democratica», il manifesto, 8 agosto) , quello che una volta si definiva «esercitazione di scuola». Le «esercitazioni di scuola» venivano assegnate e discusse nelle classi medie superiori della scuola italiana tanti anni fa per mettere alla prova le capacità logiche dei ragazzi. I compagni di classe dell'individuo cui, sventuratamente per lui, era stato assegnato il compito di svolgerne una, erano invitati dai loro professori a segnalare i passaggi logici che, in quanto tali, non funzionavano nell'elaborato; venivano severamente rampognati quelli di loro che si limitavano a dire: non mi piace, non la penso come lui. Naturalmente la logica formale non è il reale: per passare dall'una all'altro (e anche viceversa) bisogna fare un'opera di trasposizione pratica decisiva, che nel caso nostro si definirebbe togliattianamente «iniziativa politica». Però, al tempo stesso, senza logica formale si va a tentoni, non si riconoscono le cose, si prendono fischi per fiaschi e in definitiva si finisce a catafascio.
In ogni «esercitazione di scuola» c'è una premessa. Se cade questa, cade tutto il resto. La «mia» premessa è: il bubbone maligno, che distrugge l'Italia, diffonde la corruzione, spazza via il gioco democratico, fa vacillare le istituzioni e le regole, distrugge l'informazione, sottomette tutti i rapporti di classe al gioco dei potenti, è Berlusconi, è il governo in mano a Berlusconi, è il berlusconismo. Se è vero questo - se cioè la premessa regge -, allora il compito politico e civile primario è trovare il modo di sbarazzarsene, altrimenti ogni altro discorso più corretto, più profondo, più giusto - persino quello riguardante un corretto conflitto politico -, non sarà più (mai più?) possibile.
Per sbarazzarcene, in Parlamento e nel paese, non ci vuole meno di un amplissimo schieramento di forze, che si riconoscano in un programma di «ricostruzione democratica» e si aggreghino per questo; e siano per ciò stesso in grado di mettere in moto un ancor più vasto schieramento di forze sociali e civili, che pure ci sono e aspettano solo che qualcuno dia loro la possibilità di mettersi direttamente alla prova. Siccome è sempre più evidente che il berlusconismo è in realtà un berlusconi-leghismo, bisognerà, per reggere il contrasto, che sarà formidabile, che ne facciano parte senza esclusioni tutte le altre forze che in questi anni non hanno avuto a che fare con l'orrida tabe o recentemente se ne siano liberate, dall'estrema sinistra all'Udc, a Rutelli, a Fini e ai finiani.
Questo bisogna non solo farlo, ma farlo presto, anzi prestissimo. Il contro-urto, infatti, è già cominciato. Berlusconi ha due strade per salvarsi nell'attuale situazione di provvisoria crisi e debolezza: o andare alle urne; o riassorbire la dissidenza. Se va alle urne con l'attuale legge elettorale, vince comunque, quale che sia la forma in cui l'opposizione si presenterà, compresa quella bipartita (centrosinistra + centro moderato), da taluni non si sa perché auspicata. E andrà alle urne legittimamente, nonostante le giuste proteste di Napolitano, se si dimostrerà che in Parlamento non c'è una maggioranza alternativa. Ma non ci sarà una maggioranza alternativa se Berlusconi riassorbirà, come sta tentando di fare, la dissidenza. Quest'ultima è la prospettiva peggiore, e attualmente non è del tutto esclusa se non si lavora tenacemente in direzione contraria. Dunque, nelle prossime settimane, si decide il nostro destino dei prossimi quindici-vent'anni: perché se Berlusconi finisce indenne la legislatura, rivince di sicuro le elezioni, va alla Presidenza della Repubblica e...
Ma perché l'«opposizione» dovrebbe presentarsi unita al voto in uno qualsiasi dei prossimi mesi, se non è in grado di creare una maggioranza alternativa in questo Parlamento? La mia proposta di un «governo di ricostruzione democratica» serve dunque a sanare contemporaneamente due punti deboli: quello dell'oggi e quello del domani, perché se non ci sarà un governo sufficientemente credibile oggi non ci sarà un voto sufficientemente forte domani.
Ecco perché il governo che ci salva non può essere un governicchio, un governo tecnico, un governo a termine, ecc. ecc. Sia perché il paese altrimenti non capirebbe il significato e l'entità della svolta; sia perché gli esitanti, numerosi e su tutti i versanti, non sarebbero abbastanza invogliati a parteciparvi. Invece debbono esserci sufficienti garanzie che si fa sul serio e che si andrà avanti abbastanza a lungo da poter esibire risultati inequivoci. Se è vero, come è possibile e anzi fortemente auspicabile per allargare le risicate alleanze in Parlamento, che esiste un'ulteriore componente del Pdl disposta a staccarsi dal bubbone, ciò potrà avvenire solo se stimolata e garantita da queste condizioni.
Entriamo un po' più nel merito. Ho già scritto di alcuni punti di programma, che potrebbero caratterizzarlo (niente d'indolore né di marginale, tutto sommato, a rileggerli oggi) e non ci torno sopra (forse qualche attenzione in più meriterebbe la figura del Presidente del Consiglio, che non dovrebbe essere partitica: ci sono candidati possibili molto autorevoli nel campo del giure e dell'economia). Ritengo invece utile precisare che un «governo di ricostruzione democratica» non è (oddio!) né di destra né di sinistra: è un governo che mira a ricostruire le condizioni minimali dell'agire democratico e dell'unità nazionale, quelle per cui tornerebbero possibili e «normali» una sinistra e una destra costituzionali ed europee; ed è perciò che sono legittimate a parteciparvi non contraddittoriamente tutte quelle forze di sinistra e di destra, che concordano sull'urgenza e l'imprescindibilità di raggiungere questo obiettivo, quello da cui dipende tutto (tutto, capito?).
Fin qui la logica formale. Proviamo a fare un passo in avanti nel mondo del reale e chiediamoci: un governo del genere è fattibile? La mia risposta, molto minimale ma anche molto concreta, è: sì, è fattibile perché nessuna delle forze che dovrebbero parteciparvi ha un futuro senza questo possibile sbocco. Vediamo.
a) L'estrema sinistra: è ridotta malissimo. Se non rientra nel gioco, e cioè, per dirla brutalmente, se non rientra in Parlamento e nel Governo, è destinata all'estinzione. Il terreno della legge elettorale è quello su cui se ne può trattare l'adesione, e se il sistema elettorale proporzionale è il grimaldello dell'alleanza, io, come ho già accennato, non avrei obiezioni di principio:
b) L'Idv: dove può andare Di Pietro da solo?
c) Il Pd: è l'ago della bilancia. Bene ha fatto Bersani a dichiarare utile e preliminare l'accordo fra tutte le forze dell'attuale centrosinistra. Ma - l'«iniziativa politica»! -, se non riesce presto, anzi subito, a promuovere lo schieramento allargato della «ricostruzione democratica», sarà sorpassato impetuosamente dalla controiniziativa altrui, rischiando la deflagrazione o il collasso;
d) L'Udc: Casini è probabilmente l'elemento tuttora più indietro. Non ha ancora scelto dove stare. Ma è troppo tempo che non sceglie, e questo potrebbe logorarlo. Tramontate però rapidamente le prospettive di un governo «che non vada contro una parte del paese» (come se ce ne fosse uno che non vada a pro' di qualcuno o contro qualcosa), dovrà in una situazione del genere scegliere. La Balena bianca non risorgerà più nel nostro paese. Il massimo che Casini può ragionevolmente sperare è un ulteriore rafforzamento del centro moderato all'interno di uno schieramento antiberlusconiano. E d'altra parte: fin quando la Chiesa di Roma riterrà componibile con i propri interessi mondani la fogna a cielo aperto in cui l'Italia berlusconiana si sta trasformando? Qualche segnale che il limite di sopportazione sia stato raggiungo c'è già stato;
e) L'Api: Rutelli è un vecchio frequentatore dei consessi di centro-sinistra; è impensabile che faccia mancare il suo apporto in una circostanza del genere;
f) Futuro e Libertà: è il discorso più complesso e forse quello decisivo. Preliminare al resto del ragionamento, che altrimenti potrebbe apparire davvero troppo procedurale: io credo che sia da prendere sul serio la cosiddetta «conversione democratica» di Gianfranco Fini. Aggiungo anche (per esaurire totalmente le mie già precarie riserve di credito) che ha giocato un ruolo positivo nelle ultime vicende il «fascismo di sinistra», cui attinge la formazione di diversi componenti del suo gruppo (non di Fini, naturalmente), e che io giudico migliore del berlusconismo (tanto è vero che non vi si è adattato). Ora Fini e il suo gruppo sono di fronte a un bivio drammatico: se accettano di farsi riassorbire - non importa in quale forma, se imperativa o contrattata, costruttiva o parzialmente consensuale -, sono destinati ad una penosa estinzione, a cominciare da quella già selvaggiamente iniziata nei confronti del loro capo, e i loro scalpi (ad eccezione di Briguglio, s'intende) verranno appesi ai banchi che occupavano, e che mai più occuperanno, in Parlamento. Imboccare l'altra strada sarà periglioso e difficile, ma non c'è scelta. E' evidente, tuttavia, che il passaggio non sarà perfezionato, se non verrà accompagnato, anzi preceduto, da parte delle altre forze politiche contraenti, da una totale garanzia di legittimità politica e costituzionale, ossia, come dire, non mi viene la parola, ah sì, dal definitivo sdoganamento democratico-costituzionale di tale forza.
Era già emerso da un paio d’anni quanto larghe fossero diventate le maglie dell’ancora mitico sistema di decisione britannico per le trasformazioni urbane e territoriali: aree classificate ufficialmente come industriali o militari dismesse che si rivelavano di fatto parchi naturali, o progetti virtuosi di densificazione urbana trasformati in palestra per archistar con emarginazione sociale. Anche il più recente e ambizioso tentativo di Gordon Brown di rilanciare il settore edilizio e la connessa ricerca climatico-energetica con le cosiddette eco-town non aveva mancato di sollevare forti contrasti, al punto che ben prima della vittoria della coalizione Tories-Libdem gran parte dei progetti era stata accantonata, fra le rivendicazioni di coerenza scientifica della TCPA e l’esultanza a singhiozzo della CPRE.
Ma nonostante qualche promettente buona intenzione del programma dei Conservatori, così come esposto in campagna elettorale, pare che alla verifica pratica le prime scelte politiche in campo urbanistico del nuovo governo stiano per peggiorare i rischi di consumo di suolo e degrado ambientale. Non ultima quella di delegare le decisioni sulla realizzazione di nuove case (la situazione abitativa del paese è piuttosto grave) alle amministrazioni locali, saltando la programmazione di scala regionale accusata di burocratismo e centralismo. Come facilmente immaginabile, le scelte locali vengono determinate da contingenze e particolarismi che spesso nulla hanno a che fare con la risposta ai bisogni abitativi, e/o con la tutela del territorio, salvo in reazione ad atteggiamenti di tipo nimby e alla sola ricerca di consensi elettorali.
Da questa emergenza nasce l’iniziativa del quotidiano, di fungere da sistematico deposito-amplificatore a scala nazionale, e raccogliere dati che spesso sfuggono ai grandi enti e associazioni (oppure che da questi non sono sufficientemente divulgati). Il meccanismo è relativamente semplice: il singolo lettore, comitato o associazione locale compila un modulo online, e quasi automaticamente la scheda si aggiunge alla banca dati pubblica, in una sorta di rapporto territoriale in continua evoluzione consultabile da tutti, senza alcun filtro se non quello redazionale. Nessuna pretesa scientifica naturalmente, ma come verificato nel caso delle eco-town solo l’osservazione puntuale e locale dei contesti è in grado di cogliere l’entità dei fenomeni, e solo una panoramica comprensiva nazionale riesce a evidenziare l’entità del problema, e stimolare consapevolezza.
Il modulo da compilare online:
nome del progetto; menu a tendina con la scelta della regione geografica in cui si localizza (Scozia, Galles, Yorkshire ecc.); tipo di progetto che si vuole realizzare; descrizione particolareggiata con particolare riguardo ai valori naturali minacciati e al tipo di tutela e riconoscimento dell’area; cosa possono fare altri lettori per collaborare; localizzazione geografica esatta della località (latitudine, per aggiungersi alla mappa in costruzione sul sito); nome del proponente il progetto di trasformazione; nome dell’amministrazione locale responsabile per il rilascio della concessione; elementi utili a contattare il compilatore della scheda.
Un impegno bi-partisan
Significativamente, all’iniziativa del Guardian aderiscono sia la responsabile Conservatrice del ministero dell’Ambiente che il suo collega Labour del governo ombra. Altrettanto significativamente, per ora tacciono dal ministero delle Aree Urbane, da cui è partita l’iniziativa delle “decisioni locali” sulla trasformazione urbanistica. Per noi, resta da chiedersi se mai sarà possibile qualcosa del genere, in un territorio dove forse più che in Gran Bretagna colpisce l’erosione determinata da dispersione insediativa e infrastrutture utili solo a chi le fa. E dove sono sicuramente più significativi gli intrecci fra ambiente, paesaggio, sedimentazioni storiche.
Sul versante bi-partisan poi, tocca accontentarsi della comune cultura con pochissime eccezioni da destra al centro a sinistra, che vede sempre e comunque in ogni mucchio di mattoni un simbolo di ricchezza e modernità. Al punto che, rimanendo in campo ambientale, suscita compiaciuto stupore anche la pietà della pur antipaticissima ministra Vittoria Brambilla per i bistrattati i cavalli del Palio di Siena. Ma lì forse c’è solo un po’ di nostalgia per certi stallieri eroi.
Una cosa è certa: visto il tipo di proprietà delle nostre testate giornalistiche, è improbabile che un’iniziativa del genere prenda piede anche da noi, almeno col respiro proposto dal quotidiano britannico. Conviene quindi seguirne direttamente l’evoluzione al sito
Piece By Piece
(su Mall anche l’articolo di Julette Jowit che raccoglie alcuni pareri sull’iniziativa)
È trascorsa ormai una intera generazione da quando, col famoso filmato delle cariche di dinamite a sbriciolare il complesso di case popolari Pruitt-Igoe di St. Louis, si sanciva il tramonto culturale di un’epoca. Non solo, come osservava il critico del New York Times, la “morte dell’architettura moderna”, ma la fine di un modello di quartiere di iniziativa pubblica, evolutosi dalla fine del XIX secolo fino ai grandi complessi standardizzati monoclasse che ancora oggi gravano di problemi (ma non solo) le banlieues di tutto il mondo.
Caratterizzato, questo quartiere, da una risposta “industrialista”, meramente quantitativa al problema sociale della casa, con unità abitative riconducibili per tipologia ai grands ensembles francesi, e soprattutto sprovviste dei servizi di quartiere e, pertanto, dipendenti dall’esterno, nonostante la declamata autosufficienza su cui si basavano all’epoca i progetti. Non a caso l’età d’oro, se mai ce ne è stata una per questi agglomerati, coincide con la fase della città industriale e del welfare tradizionale. Deindustrializzazione, globalizzazione, nuovi flussi migratori hanno in brevissimo tempo accelerato la crisi già in corso dei grandi quartieri di edilizia popolare del dopoguerra, trasformandoli via via in spazi di crisi e, in epoca molto recente, in luoghi di sperimentazione di politiche urbane volte al recupero e rilancio.
Le esperienze di recupero migliori si affidano alla formula del “mix”: mescolanza sociale, di attività, di modi di fruizione dell’alloggio, ovvero l’esatto contrario del modello monoclasse/monouso delle zone dormitorio a resilienza zero. Esistono come noto varie modalità di approccio al problema, ma ci mancava forse ancora quella squisitamente ideologica e marcatamente opportunista, così come ce la propone sottotono, approfittando anche della disattenzione estiva, l’assessore pidiellino alla casa del Comune di Milano, Gianni Verga.
Qual’è il suo modello? Sostanzialmente quello di risolvere il problema della casa pubblica trasformandola in tutto o in parte in residenza privata. Dovrebbero convincere della lungimiranza del progetto le promesse di “moderne infrastrutture”(?), un occhio particolare alle esigenze della popolazione universitaria alla disperata ricerca a Milano di alloggi a prezzi accessibili, alcune esperienze evocate a sproposito come quella dell’isolato in piazzale Dateo, in realtà riconquistato ad un uso misto dalle lotte sociali, dopo vari lustri di attesa e reiterati tentativi di privatizzazione da parte dell’amministrazione comunale.
Niente di nuovo sotto il sole, per di più ferragostano: chi governa Milano “sa orecchiare” dalle buone pratiche europee, o forse si avvale di suggeritori competenti. Ma la distanza fra Milano e altre grandi città europee appare sempre più siderale. Niente a che vedere ad esempio con Monaco di Baviera dove la mixité è un obiettivo lungimirante che sostanzia la pianificazione strategica di lungo periodo e il piano urbanistico della municipalità; e che si traduce in una prescrizione molto precisa cui gli operatori privati non possono sottrarsi; infatti, a Monaco tutti gli interventi di riqualificazione o di nuova edificazione nelle aree dismesse (anche le più centrali) devono realizzare una offerta abitativa così ripartita: 40% di edilizia sociale, 30% a prezzi di mercato, 30% destinata ai giovani e con fitto calmierato. Ma niente a che vedere neanche con la Francia, dove si riqualificano i grands ensembles attraverso demolizioni mirate per far spazio davvero a nuovi servizi di quartiere,a nuove attività economiche e a nuovi gruppi sociali.
Possiamo sperare nell’ennesimo ballon d’essai di chi sgoverna Milano, ma certamente gli abitanti del Sant’Ambrogio non stanno dormendo sonni tranquilli.
Dal sito del Comune di Milano: comunicato stampa del 18 agosto 2010
Mix sociale per il "Sant'Ambrogio"
L'assessore alla Casa Verga vuole dare un colpo di spugna ai quartieri-ghetto. La strategia di riqualificazione degli stabili di edilizia residenziale pubblica punta su infrastrutture moderne, locazioni a canone sociale, convenzionato e vendita a prezzi calmierati
Milano, 18 agosto 2010 – “Il Comune di Milano è impegnato a promuovere la creazione di mix sociali all’interno dei quartieri o dei singoli stabili per cambiare volto ai cosiddetti quartieri-ghetto”. L’assessore alla Casa Gianni Verga riassume così la strategia con cui avverrà la razionalizzazione e riqualificazione degli stabili di edilizia residenziale pubblica nel quartiere Sant’Ambrogio.
“Vogliamo infatti – prosegue Verga - che questa zona, caratterizzata dal progressivo invecchiamento della popolazione e dal declino delle funzioni commerciali, ritorni a essere un centro vitale, in cui si mescolano famiglie di ceto medio, anziani, studenti universitari”.
Il mix sociale è già stato sperimentato positivamente dal Comune nell’immobile di piazzale Dateo – in cui convivono canoni sociali, moderati, studenti, e l’AgenziaUni che sostiene gli universitari alla ricerca di un alloggio – e nelle nuove case in via Appennini, angolo via Gallarate, inaugurate lo scorso dicembre.
L’assessore Verga annuncia che Comune e Aler, rispettivamente proprietari del complesso Sant’Ambrogio 1 e Sant’Ambrogio 2, lavoreranno insieme per sperimentare un modello di recupero dell’area, in un’ottica di diversificazione e di integrazione. A questo scopo sarà costituito un gruppo di lavoro, composto da personale delle Direzioni Centrali Casa e Sviluppo del Territorio del Comune, e da rappresentanti dell’ Aler.
Nei due complessi residenziali verrà incrementata l’edilizia sociale e definito un mix abitativo attraverso l’articolazione dell’offerta di alloggi e mirate modalità di assegnazione per favorire l’ingresso di nuova popolazione, soprattutto giovani.
Saranno riqualificate le infrastrutture e studiati interventi volti al risparmio energetico e alla riduzione delle emissioni.
Gli alloggi situati nei caseggiati in condominio verranno venduti e i proventi saranno utilizzati per riqualificare l’ambito, i servizi o le infrastrutture.
I nuovi alloggi saranno:
- in parte in locazione perpetua a canone sociale
- in parte in locazione a canone convenzionato, anche con patto di futura vendita
- in parte in vendita a prezzi convenzionati.
Le risorse necessarie per realizzare l’intervento saranno reperite con la partecipazione ai programmi regionali e nazionali di finanziamento e, se necessario, mediante il coinvolgimento di risorse di altri soggetti pubblici e privati.
Il quartiere Sant’Ambrogio
L'area si trova nella periferia sud di Milano, tra l’asse di via Famagosta e il Parco Agricolo Sud, in prossimità dell’Autostrada dei Fiori.
Il complesso Sant’Ambrogio 1, di proprietà comunale, è stato realizzato tra il 1964 e il 1965 e il complesso Sant’Ambrogio 2, di proprietà dell’Aler Milano, tra il 1971 e il 1972.
La zona è accessibile grazie alla Linea 2 della metropolitana con la fermata Famagosta e con il prolungamento fino ad Assago.
A Milano Comune e Aler sono complessivamente proprietari di oltre 75mila alloggi, spesso coagulati in quartieri o ambiti di edilizia residenziale pubblica, caratterizzati dalla compresenza di patrimonio residenziale comunale e di Aler.
Spariti in un anno 800 negozi "Niente ripresa, autunno nero"
di Laura Fugnoli
Chiusi, e non solo per ferie. In un anno sono morti 824 negozi. Un’emorragia che non conosce fine, nei primi sei mesi del 2010 il saldo tra chi apre e chi chiude è rimasto negativo, con 122 imprese in meno. E oggi il mondo del commercio travolto dalla crisi rilancia un nuovo allarme per il rientro dopo le ferie: l’autunno, è la certezza, sarà duro. Altri rischiano di rimanere soffocati dall’estate afosa e per niente generosa. Troppi rischiano di non sopravvivere al secondo anno di recessione. La ripresa non si è vista, e anche «i saldi sono stati un fallimento - ammette Renato Borghi, presidente Ascomoda - i ricavi hanno avuto un incremento di un misero 3% rispetto all’anno scorso e la delusione è diffusa».
Secondo i dati della Camera di commercio, tra giugno 2009 e giugno 2010 tra quegli 800 negozi scomparsi hanno chiuso 44 macellerie (-5,9%) e 26 panettieri (-3,7%), oltre una cinquantina i negozi con articoli per la casa. Non va meglio ai ferramenta (-3,8%), ai cartolai calati del 4,5%. Nella città della moda sono 90 i negozi di abbigliamento che hanno abbandonato l’avventura 8 - 2,6%). Si inizia con la superofferta, poi la svendita totale e si approda mestamente alla chiusura definitiva. In lieve controtendenza le attività di vendita di elettronica e telefonia, le sole ad avere un saldo positivo insieme alle gelaterie, esplose nel 2010 con ben 17 punti vendita in più.
Ma adesso spaventa l’autunno. Settembre sarà un grande banco di prova. «La riapertura dopo le ferie è un momento estremamente delicato. Con l’autunno i nodi vengono al pettine», dice Simonpaolo Buongiardino, amministratore dell’Unione del commercio. Poca fortuna sembrano avere anche i temporary shop. «Sono stati pompati come segno di dinamismo e vivacità, ma ora trovano pochi occupanti», spiega Buongiardino. Cartina di tornasole sono le scarse ristrutturazioni estive: «Questo è il tipico momento in cui chi ha un negozio in genere rinnova i locali e chiama imprese e muratori - dice Giorgio Montingelli dell’Unione Commercianti - ma ora di restyling non se ne vedono. Segno che i negozianti non vogliono, e non possono, investire». Sopravvivere è già un miracolo, dunque.
Eppure c’è chi azzarda nuove aperture, in particolare nel commercio ambulante che richiede meno impegno finanziario. Pur calate del 5,8% dallo scorso anno, le attività nei mercati hanno visto una discreta crescita negli ultimissimi mesi: dietro ai banchi di frutta e verdura, di abbigliamento e di casalinghi, però, sono quasi spariti gli italiani. «Su 5mila soci almeno il 30% ora è straniero - spiega Giacomo Errico, presidente dell’Apeca, associazione di categoria degli ambulanti - ma non mancano casi di macellai milanesi che mollano il negozio e si convertono a centri di vendita itineranti». Niente spese di affitto, basta un furgone anche usato, 3.500 euro circa l’anno per l’occupazione del suolo se si vuol lavorare cinque giorni a settimana. Tra i negozianti costretti a chiudere, c’è chi si ricicla così.
Il ceto medio è sempre meno medio, dicono i commercianti. E anche questo incide. «In viale Piave abbiamo cambiato il negozio a marchio Borghi in Outlet, con merce più a buon mercato per un target più modesto», afferma Renato Borghi. Per altri la sopravvivenza scatta con l’accorpamento o l’acquisizione. «Ci sono vie che sembra abbiano perso appeal, come Paolo Sarpi - dice Luigi Ferrario, coordinatore dell’associazione Vie dello shopping - e non sono solo gli italiani a chiudere la serranda, ma anche gli stessi commercianti cinesi. In corso XXII marzo, invece, il turnover di negozi è vorticoso, ma aprire e chiudere continuamente non è sempre un buon sintomo. La poca resistenza è spesso conseguenza delle difficoltà di accesso al credito. Le banche vogliono garanzie e in tempi bui le garanzie sono merce rara, quasi introvabile».
"Affitti d’oro e superstore così non si può reggere"
di Luca De Vito
Ilaria Parentini, lei è la terza generazione della famiglia che gestisce la "Vetreria di Empoli", in via Pietro Verri 4. Quando abbasserete definitivamente le serrande del vostro negozio?
«Questo chiuderà sabato 28 e resteremo aperti soltanto in via Montenapoleone al 22, dove abbiamo un altro spazio».
Perché chiudete?
«È stata una scelta dolorosa ma obbligata, la richiesta d’affitto per un negozio così in centro a Milano è diventata troppo alta. E poi c’è la concorrenza della grande distribuzione. Sono stata da Ikea il 13 di agosto e c’era pieno di gente: è ovvio che centri così grandi finiscono per sottrarci buona parte del mercato. E poi è anche cambiata la mentalità della clientela in questi ultimi tempi...».
In che senso?
«Adesso c’è la crisi economica e molta gente si rivolge ai centri commerciali. Uno va, si compra bicchieri e posate e viene via».
Da quanto tempo siete aperti?
«Noi siamo iscritti all’albo delle botteghe storiche e siamo in via Verri dal 1938, quando mio nonno, dopo un breve periodo in via Bigli, ha aperto il negozio. Qui la nostra azienda si è evoluta e ha modificato il suo percorso: abbiamo iniziato con i vetri a mano colorati, poi l’azienda si è ampliata e abbiamo cominciato a rivendere prodotti ai negozianti, sia in Italia che all’estero».
E adesso?
«Adesso siamo dispiaciuti di dover chiudere in via Verri, pensi che moltissimi nostri clienti ci hanno chiamato per dirci che sono disperati e che non sapranno come fare senza di noi. Non sappiamo ancora chi subentrerà, ma secondo me sarà un negozio di abbigliamento. Si vede solo moda in giro».
Però avete il negozio in via Montenapoleone.
«Esatto, e da qui in avanti concentreremo i nostri sforzi là. Abbiamo una prima sala con tutti bicchieri, un po’ particolari e decorati. Poi nel secondo salone c’è un reparto di cose antiche, per gli specialisti ma anche per chi vuole qualcosa di bello e un po’ diverso. È una specie di "mercatino", noi acquistiamo dai privati e rivendiamo. E si può trovare davvero di tutto, mi creda».
Nel futuro che cosa vede?
«Vorremmo aprire un reparto dedicato al Natale, da novembre, occupandoci un po’ del settore addobbi. E poi vorrei continuare con il servizio di riparazione. Vecchi vasi, oggetti di vetro, cristalli rotti che le persone ci portavano a far aggiustare: abbiamo il nostro artigiano, era un servizio che davamo qua in via Verri e mi piacerebbe che continuasse anche in via Montenapoleone».
"Con i prodotti di nicchia sfidiamo la recessione"
di Tiziane De Giorgio
Markus Mutschlechner, lei è uno dei soci di Delicatessen che ha due negozi che vendono specialità altoatesine. Da settembre rilanciate con un terzo punto vendita, in corso Buenos Aires, e un ristorante in via Casati.
Che cosa vi ha spinto, in un momento in cui molti commercianti sono costretti a chiudere?
«La crescente richiesta dei clienti. Abbiamo cominciato a vendere specialità altoatesine nel 2005, aprendo un negozietto in piazza Santa Maria Beltrade, dietro via Torino. Da allora le vendite sono aumentate di anno in anno, consentendoci di aprire una seconda bottega. E perfino in un anno di crisi come questo, ci siamo ritrovati con i negozi pieni. Così, abbiamo deciso di scommettere ancora una volta».
Qual è il segreto per non risentire degli effetti della crisi?
«Offriamo un servizio che gli altri negozi non danno. Siamo aperti sette giorni su sette, dalle otto del mattino alle otto di sera. Sabati e domeniche comprese. Anche d’estate, non abbiamo praticamente mai chiuso la saracinesca. Nemmeno a Ferragosto. Queste cose la gente le apprezza. Diventi un servizio sul quale si può contare sempre. In un momento così difficile bisogna offrire sempre di più: noi ci sforziamo di farlo in tutto».
Cioè?
«Le specialità altoatesine che vendiamo sono di prima qualità: chiediamo ai nostri fornitori brezel, sacher, canederli freschissimi. Questo ha un costo, certo. Ma alla fine si è ripagati e la gente viene da noi quando vuole un piatto particolare, magari assaggiato in vacanza. E poi ci siamo organizzati per fare un servizio catering, abbiamo pensato che potesse essere carino organizzare cene altoatesine dall’antipasto al dolce. E la cosa è stata apprezzata così tanto che a breve apriremo anche un ristorante. Bisogna sapersi inventare, insomma».
Tre negozi, tre affitti, però.
«Sì, vero. E sono salatissimi, visto che le nostre sedi sono tutte in zone centrali. L’affitto del negozio che apriremo in corso Buenos Aires, poi, è una legnata pazzesca. Però se a Milano non stai in una via strategica non vendi, non c’è niente da fare. Sono tanti i negozianti delle vie secondarie o periferiche che si ritrovano a dover chiudere. Con l’apertura della terza sede, però, avremo più gioco sui fornitori, aumentando gli ordini puoi strappare molto più sconto. Ma soprattutto, contiamo di essere ripagati dalla clientela stessa, come è avvenuto con l’apertura della seconda sede: quando la gente si fida, il passaparola arriva anche dall’altro lato della città».
postilla
pare quasi superfluo sottolineare come e quanto, nei medesimi giorni in cui si levano questi lamenti sul disastro del commercio di un certo tipo nell’area centrale, l’amministrazione prosegua imperterrita nella chiusura coatta di esercizi per imprecisati motivi di “ordine pubblico”. Confermando se non altro il sospetto di un preciso orientamento delle sue politiche urbane: eutanasia di ogni parvenza di articolazione e complessità sociale, e preparazione di una specie di caricatura locale delle città globali. Almeno nell’interpretazione regressiva e piuttosto squallida che ne danno gli amministratori attuali: da un lato la borghesia più o meno blindata fra boschi verticali, quadrilateri d’oro, boutiques del salamino o del sandalo di tendenza; dall’altro poche sacche di underclass o ceti comunque emarginati, a garantire lavori sporchi (dalla pulizia dei bagni della discoteche alla fornitura della polverina magica che si consuma là dentro), confinati in una sorta di post-baraccopoli precaria, priva di servizi considerati inutili per questa non-umanità senza diritti. La coerenza fra politiche urbanistiche e gestione urbana corrente, credo di averla più o meno delineata anche nell’ultimo contributo sul tema. Si tratta di stupidità, o di un lucido piano reazionario, consapevolmente perseguito? Come sempre succede in questi casi, probabilmente un po’ di entrambe le cose (f.b.)
Pompei, sono due le inchieste aperte sui lavori e le condizioni degli Scavi
la Repubblica, ed. Napoli, 19 agosto 2010
La gestione emergenziale degli scavi di Pompei a firma dell'ex commissario straordinario Marcello Fiori finisce nel mirino di due inchieste aperte dalla Procura di Torre Annunziata. La prima riguarda le condizioni del sito archeologico e i lavori di restauro effettuati durante il commissariamento ed è scattata dopo la denuncia di un professionista. Le verifiche necessarie sono state affidate alla Guardia di finanza che, intorno ai primi giorni di settembre, consegnerà i dati e i risultati preliminari. La seconda concerne gli accertamenti partiti dopo la ricezione dell'esposto consegnato dalla Uil per contestare supposte anomalie gestionali attuate con il metodo della protezione civile. Nel documento sottoscritto dal segretario generale della Uil ai beni culturali, Gianfranco Cerasoli, spiccano presunte contraddizioni e perplessità, "insofferenza rispetto alle reiterate richieste avanzate in tema di trasparenza", la supposta invasività degli interventi sulla cavea del teatro Grande, "completamente costruita ex novo con mattoni in tufo di moderna fattura", la richiesta di delucidazioni in merito a conti e parametri organizzativi di staff di supporto e manifestazioni.
Accuse che, naturalmente, la magistratura analizzerà, per appurarne la veridicità. Una questione cruciale da approfondire con estrema cautela. «La tutela del patrimonio dell' intera area di nostra competenza, soprattutto dal punto di vista paesaggistico-ambientale, - dice il procuratore Diego Marmo - è un tema prioritario per noi. Così come la difesa di Pompei, una ricchezza culturale di eccezionale rilevanza, tesoro dell'intera umanità. Di conseguenza, svilupperemo le indagini con puntualità, prudenza ed attenzione. E senza fare sconti a nessuno, come sempre accade».
Pompei, ecco le nuove "rovine" - Tubi, cemento, ponteggi, martelli pneumatici: le foto degli scavi violati
la Repubblica, ed. Napoli, 20 agosto 2010
Pompei viva? «Pura spettacolarizzazione». E il Teatro grande? «Uno scempio. Non esiste più, ha subìto uno stravolgimento totale che viola il buon senso ed esula da ogni logica di restauro conservativo. Adesso sembra un’arena da villaggio turistico. Per fortuna, l’operazione è reversibile…». Antonio Irlando, architetto responsabile dell’Osservatorio patrimonio culturale, racconta da una prospettiva dura gli interventi effettuati nel sito archeologico, in due anni di gestione emergenziale. «La gradinata in tufo moderno della cavea non ha mai trovato riscontri come dato archeologico. E ora gli unici pezzi originali "superstiti" restano i tratti in pietra di colore chiaro. Il codice dei beni culturali è finito tra i piedi, per una condotta simile e in luoghi meno pregiati, cittadini comuni sarebbero stati denunciati immediatamente».
I retroscena del cantiere «svelano un approccio approssimativo e inammissibile». Invasività documentata nelle tante fotografie scattate. «L’uso diretto e aggressivo di pale meccaniche, martelli pneumatici, bobcat. Locali bagno ricavati dalla trasformazione di ambienti archeologici, posa in opera di ampi tralicci e, elemento gravissimo, la perforazione dei muri degli scavi per permettere il passaggio di cavi e tubi. Dopo una nostra lettera spedita al ministero, dove segnalavamo le devastazioni rilevate e chiedevamo ufficialmente il ripristino dello stato dei luoghi, la procura di Torre Annunziata ha aperto un´inchiesta che si affianca all´indagine partita dopo l’esposto firmato dalla Uil».
La polemica prosegue sugli esiti. «Rifunzionalizzazione, è la parola abusata dal commissario Fiori. Ma in termini di restauro non significa nulla». Tutto da rifare, in sintesi. «Sicuramente la pavimentazione del quadriportico realizzata con spesse platee di cemento, lungo i lati perimetrali. Chiamano in causa il cocciopesto ma molti professionisti nutrono seri dubbi…». E un’arena discussa. «Il progetto ordinario contemplava un investimento di 460mila euro ma si è superata la soglia dei 5 milioni, secondo le dichiarazioni rilasciate dal ministro Bondi. L’emergenza - sostiene Irlando - costituisce un’opportunità sprecata perché le decisioni si sono mosse verso percorsi rapidi, circoscritti e di impatto, sottraendo fondi e possibilità di rilancio ad attività integrate e durevoli. E lo scopo del commissariamento, in principio, doveva essere riscattare gli scavi dall’abbandono. Ma il futuro si garantisce con la conservazione, la qualità, la crescita sul lungo periodo del patrimonio e lo sviluppo del territorio circostante, non attraverso slogan, spot e ridondanze». Una frecciata al decoro urbano e al cantiere fruibile dei Casti amanti. «Non si comprende la funzionalità dei cancelli sparsi ovunque con il logo "Pompei viva" in evidenza che, fra un anno, necessiteranno di manutenzione. E lascia perplessi il bombardamento di informazioni, immagini e pannelli nella domus dei Casti amanti. Il sito è già lì. È come se si percepisse l’urgenza di dimostrare di aver speso fondi».
Ed è ancora emergenza, sulla scia di condotte che ricordano il passato. «Intere fasce di scavi versano nel degrado - accusa Irlando - la zona tra via dell’Abbondanza e via di Nola, a ridosso della casa del Menandro e di porta di Stabia. Un tempo si attendeva che nel pieno di una crisi piovessero soldi dalla Cassa del Mezzogiorno. Le consuetudini non mutano. Il modello innovativo è, invece, puntare sulla manutenzione ordinaria quotidiana». Un potenziale trampolino per l’occupazione. «Centinaia di operai specializzati, restauratori e tecnici senza lavoro potrebbero trovare a Pompei un impiego stabile - dice Irlando - formare una squadra di assistenza per fronteggiare le esigenze continue che gli scavi impongono. Invece si lanciano grandi eventi ed annunci, come quando arrivava in visita un principe o un regnante e si fingeva di scoprire un vaso o gli si dedicava una casa. Aspettiamo la venuta del presidente del Consiglio da mesi, annunciata già numerose volte. Chissà - conclude - forse per l´occasione Pompei si mostrerà davvero viva…».
Cominciano a capirlo anche i più distratti che il cattivo governo ha effetti indelebili sul territorio; che le compagnie che girano l’Italia per affari operano per rimuovere i vincoli a presidio della bellezza superstite, prendono senza restituire nulla. Una speculazione edilizia, un surplus di torri eoliche, un inquinamento prevedibile, un’opera pubblica inutile, hanno bisogno di processi decisionali corrotti, di carte truccate. Le complicità si trovano, luogo per luogo. Perché è facile fare soldi rovinando posti belli. Ed è il peggiore degli effetti di una cattiva amministrazione, i danni di questo tipo restano. Per altri guai rispettabili (dalla malaeconomia alla malasanità) c’è speranza.
Si può toccare il fondo e uscirne. Le discese ardite e le risalite non sono possibili quando una terra si devasta. È per sempre.
Eppure della malaurbanistica si parla poco. Si grida quando la terra scivola sotto i piedi di qualche comunità. Indignano gli abusi macroscopici, ma l’ecomostro sbattuto in prima pagina offusca le aggressioni diffuse al paesaggio. Non ci si interroga abbastanza su chi ha/non ha fatto contro questa involuzione. Si scoprirebbe che la sinistra e il più grande partito della sinistra (fino da quando era Pci) hanno fatto poco. Qualche tentativo di impedire gli sprechi (ricordate il richiamo all’austerità di Berlinguer contraddetto dalla politica politicante?). Poi decenni di indifferenza, al più qualche riga di generalità liofilizzate nei discorsi dei leader.
Ci sono eccezioni, ma prevale a sinistra l’idea che basti delegare un manipolo di ambientalisti che non contano nei congressi, ma fanno contorno. Nei casi peggiori c’è indulgenza verso scelte urbanistiche pessime in molte periferie.
Buone intenzioni contrariate. In Sardegna, in Toscana, analogie tra due regioni che hanno vissuto e vivono esperienze a riguardo. Renato Soru in Sardegna ha perso nel suo schieramento, in parte avverso alle sue tesi per la difesa del paesaggio, combattuto come un estremista. Una vicenda espunta presto dal dibattito, purtroppo. La Toscana, mito del buongoverno, è in una fase delicata: troppi progetti urbanistici controversi, alcuni sotto inchiesta, altri ancora saranno brutti esempi se realizzati (uno per tutti: Castelfalfi in Valdelsa). Anna Marson, assessore in controtendenza (come Soru), dice cose giuste ma già è accusata di eccessiva intransigenza(«Pd contro Marson», su l’Unità, cronaca di Firenze, del 15 agosto). Ogni ente locale è una fortezza dove si rivendica libertà d'iniziativa per lo sviluppo. È troppo aspettarsi una politica di sinistra che non demandi acriticamente, che non si contraddica nelle pratiche locali fino ad annullarsi?❖
Là dove c’era la spiaggia Torre Mozza,
resta lo spazio per una sola fila di ombrelloni
di Francesca Lenzi
In tre anni persi quattro metri di arenile: le barriere non reggono
PIOMBINO. Nei punti più larghi raggiunge a fatica i 20 metri di profondità. Ma è l’eccezione. Lo spazio medio ormai si aggira intorno alla metà: in alcuni casi la spiaggia sparisce del tutto, coperta dalle onde, o impedita dal crollo di un albero, piegato da una mareggiata e finito sulla sabbia. Siamo a Torre Mozza, una delle spiagge della costa est piombinese sulla quale l’azione erosiva del mare mostra in maiera più chiara i propri devastanti effetti. Soprattutto dalla parte verso Follonica.
Volgendo lo sguardo in quella direzione, subito a lato del torrione che dà il nome alla località, la spiaggia è solo uno stretto cordone di sabbia. La riduzione dell’arenile non è certo cosa nuova. I tanti bagnanti che da anni frequentano la zona sembrano essere d’accordo nel ricordare una costante attività di erosione che ha portato Torre Mozza all’aspetto attuale. Certo è che ormai, di fronte alla modesta striscia di rena, ogni ulteriore sottrazione, benché minima, rappresenta un evidente e doloroso guaio.
Esemplare è il caso del bagno “Torre Mozza Beach” che si estende per 240 metri su un’unica fila di ombrelloni. I clienti hanno l’indubbio vantaggio di una vista mare affascinante e libera, ma i problemi che la situazione crea ai gestori non sono pochi: «Ogni sera dobbiamo togliere le sdraio per evitare che il mare durante la notte se le porti via. È un grande impegno di energie e di denaro. Ogni anno è peggiore del precedente. In tre stagioni se ne saranno andati 4 metri di spiaggia».
Per cercare di ridurre l’azione dell’acqua si è provveduto con la costruzione di una barriera in muratura e l’introduzione ad argine di nasse contenenti grosse rocce. Purtroppo in diversi punti la parete è crollata, trascinando parte del terreno retrodunale, mentre non tutte le recinzioni hanno retto.
La sistemazione del muro e il rifacimento delle reti faranno parte di un intervento già predisposto. È ormai imminente infatti il piano definitivo per il ripristino del sistema dunale della costa est piombinese, risultato del finanziamento della Regione e che interesserà 6 chilometri di litorale. Riguardo alla questione più complicata di un eventuale ripascimento, non esistono al momento previsioni di interventi in mare.
Nonostante la situazione non certo rosea, nella più larga considerazione a livello regionale, Torre Mozza non risponde ad uno stato di urgenza erosiva tale da valutare un’operazione simile.
È in atto però un monitoraggio costa per controllarne lo sviluppo, ed eventualmente concepire un progetto operativo da avviare in un secondo tempo. Non solo nell’ambito di Torre Mozza, ma in relazione ai vari tratti della costa est più gravemente colpiti dall’erosione.
Porti, non villaggi: stop a Talamone
di Carlo Bartoli
Ancora alta tensione nel Pd, il coordinatore Sani attacca la Regione «L’assessore Marson sbaglia, però la costa va protetta dalle speculazioni»
Piombino sì, Talamone no. Livorno sì, Cecina nì. Il dibattito sui nuovi porti turistici e sul pericolo di cementificazione della costa, è incandescente e da Luca Sani, coordinatore della segreteria regionale del Pd, arriva una rimessa a punto della posizione del Pd toscano, che molti osservatori avevano giudicato in rotta di collisione con l’assessore regionale Marson che ha il sostegno del presidente Enrico Rossi. Da Sani arriva un netto no a un neocentralismo regionale, ma anche un’apertura a ridiscutere progetti particolarmente invasivi.
Tra giunta regionale e Pd si è sfiorata la guerra. Come mai?
«Discutere del governo del territorio come dei porti turistici è necessario, ma sarebbe opportuno che, prima che sulle pagine dei giornali, il dibattito si svolgesse nelle sedi appropriate. Altrimenti si rischia di promuovere discussioni estive autoreferenziali, mentre la pianificazione urbanistica ha bisogno di confronto e concertazione. Per questo è positivo l’invito del presidente Rossi ad aprire a settembre un confronto di merito».
Quello dei nuovi porti turistici è un tema delicatissimo. Come mai?
«Non comprendo i pregiudizi ideologici nei confronti di un certo tipo di nautica. Se a Livorno si è favorito l’insediamento dei cantieri Azimut nell’ex area Orlando, è evidente che va prevista la realizzazione di porti in grado di accogliere anche i grandi yacht».
Non nutre alcun dubbio sui progetti presentati?
«Al Pd non piacciono le lottizzazioni immobiliari camuffate da porto turistico. Se a Piombino si è definito un progetto sostenibile, scongiurando appetiti immobiliari e tenendo conto delle reali esigenze della nautica, la stessa cosa va fatta anche nei casi in cui la cubatura residenziale rischia di essere debordante. Come era, e forse è ancora, nelle intenzioni della giunta di centrodestra di Orbetello, per il nuovo porto di Talamone».
Non vorrà criticare solo l’unico porto promosso da un Comune di centrodestra?
«Noi vogliamo che vengano realizzati porti e non villaggi e se si sono previsti migliaia di metri cubi di residenziale è bene parlarne. Facciamo pure una riflessione sulle strutture a terra. Ho fatto l’esempio di Talamone perché lì c’è il rischio di snaturare un ambiente di grande pregio. Se ci sono altri casi Talamone è giusto discuterne. L’attuale Pit dà, comunque, grandi garanzie. Il progetto del nuovo porto di Cecina, datato 13 anni fa, ad esempio, non sarebbe proponibile oggi. Sulla portualità serve un confronto a cui partecipino tutti i protagonisti della filiera nautica».
Non pensa che la Marson rischi di soccombere sotto il fuoco amico?
«Sulle politiche di governo del territorio, il ritorno a un neocentralismo regionale non è garanzia di maggior qualità urbanistica o tutela ambientale: molti degli interventi edilizi su cui in questi anni si è discusso sono il residuo delle pianificazioni sbagliate adottate ai tempi della famigerata Crta, molto spesso modificate al ribasso. Per questo, non servono le fughe in avanti dell’assessore Marson, anche perché rischiano di legittimare gli stessi comportamenti da parte di altri amministratori».
A chi si riferisce?
«Al caso dell’Alta velocità e dell’aeroporto a Firenze. L’invito del presidente Rossi ad aprire un confronto servirà anche a ribadire le scelte infrastrutturali fondamentali che sono Tirrenica, Due mari e Alta velocità. Anche su questo, occorre una visione di insieme lontana da localismi e da protagonismi mediatici».
Resta l’incubo cemento
CAPALBIO. Le associazioni ambientaliste, dopo l’incontro con il sindaco di Capalbio, Luigi Bellumori, confermano gran parte dei loro dubbi in merito al rischio-cementificazione in una delle spiagge maremmane più incontaminate [vedi il comunicato stampa in calce].
Pur considerando positivo il confronto, viene sottolineata negativamente «la volontà, ribadita dal sindaco, di concedere al privato interventi ad alto reddito/rendita quali il porto turistico al Chiarone e il nuovo villaggio turistico, per ottenere in cambio finanziamenti per la sistemazione idrogeologica del Fosso Chiarone e delle aree circostanti».
Le associazioni, in una lettera firmata tra gli altri da Alberto Asor Rosa, Vittorio Emiliani e Gianni Mattioli, ripetono «la necessità di preservare un patrimonio ormai unico alla fruizione corretta dei cittadini attraverso il mantenimento dell’ampia fascia di spiaggia libera e pensando, assieme al Wwf, gestore della riserva naturale del Lago di Burano, a forme più ampie di turismo naturalistico al di fuori della stagione estiva».
Gli scalini si scendono agilmente. Man mano che si procede, la luce si fa sempre più fioca. In fondo c’è il buio. In pochi secondi cessano i rumori del caos quotidiano. Il silenzio è rotto solo dalle voci dei visitatori, mentre il clima si fa d’improvviso da umido ed estivo in fresco e quasi invernale. Centoventuno scale, ed eccoci inghiottiti dal ventre dell’acquedotto greco romano, risalente al quarto secolo a. C., che si dirama per tutta la Campania attraverso un reticolato infinito.
Eccolo qui, il volto nascosto di Napoli: sopra la città caotica, affascinante e indaffarata; sotto, a trenta metri di profondità, si espande una superficie di circa 2 milioni di metri quadrati. Una città sotto la città. è lo scrigno pieno di meraviglia, suggestioni e leggende che si mostra al visitatore della Neapolis sotterranea: un mondo di cunicoli e cisterne, modellati in migliaia di anni dall’ingegno umano per ricavarne materiale da costruzione prima e un immenso acquedotto dopo. Che ora, almeno in parte, potrebbe essere svenduto. nelle schede pubblicate sul sito dell’agenzia del Demanio sono elencati i beni dello Stato in vendita nell’ambito del federalismo demaniale: a Napoli, ad esempio, ci sono l’Università in Corso Umberto (base inventariale 42.537.994,00 euro) e l’Orto Botanico in via Foria (16.735.476,00). Ed anche 23 cave della Napoli sotterranea (Codice scheda Bp 200223), molte ricadenti nella municipalità di Chiaia-Posillipo. Ciascuna ad un prezzo affatto esoso: un euro. Ambienti sotterranei di diverse decine di metri quadrati, scavati nel tufo, che, se affidati a mani inesperte o poco controllate, potrebbero essere usati potenzialmente per qualsiasi fine. anche i più imponderabili.
Ma per capire la portata di questa enorme rete di passaggi sotterranei, e i pericoli sottesi ad una progressiva e incontrollata svendita del sottosuolo napoletano, occorre ripercorrere un po’ di storia. L’enorme quantità di tufo, roccia morbida e resistente, presente nel sottosuolo della zona, fin dall’epoca dei greci (iV secolo a. C.) fu utilizzata per costruire case, mura e templi. e così si ottennero delle grandi cave, che vennero poi utilizzate per farne un grande acquedotto esteso in tutta la Campania. L’intera rete fu poi ampliata dai romani. e così napoli, sotto la quale arrivarono a sorgere 14mila cisterne e 6mila pozzi, fu una delle prime città ad avere l’acqua potabile direttamente nelle case: bastava calare nei pozzi un secchio per i propri approvvigionamenti. L’enorme rete di cunicoli, però, andava salvaguardata e manutenuta. ed ecco dunque comparire la figura del pozzaro, accompagnata anche da racconti leggendari: una sorta di idraulico d’altri tempi che, attraverso dei fori visibili ancora oggi, si calava nelle cisterne e rimuoveva i residui più ingombranti dalla superficie dell’acqua. Con il progressivo aumento degli abitanti, la situazione igienico sanitaria si fece sempre più precaria. La caduta di un animale morto in un pozzo sarebbe bastata a contaminare l’intero acquedotto. ed infatti nel 1885, dopo una tremenda epidemia di colera che fece 7mila morti in città, venne abbandonato l’uso del vecchio sistema di distribuzione idrica perché continuamente infettato dalle infiltrazioni nel tufo, per adottare il nuovo acquedotto che tuttora alimenta la città. nel sottosuolo, peraltro, c’erano anche numerose catacombe.
L’immenso cuore d’acqua cessò dunque di battere. I pozzi furono sempre più spesso utilizzati come discariche di rifiuti e materiale di risulta; in seguito a dei crolli alcune parti dell’immenso reticolato furono ricoperte per sempre. Fu solo il dramma della seconda guerra mondiale che, in parte, spinse il genio civile a riadattare parte di queste enormi cisterne come rifugi antiaerei. Napoli, infatti, fu tra le città più bombardate dagli alleati angloamericani. I rifiuti, sversati nel corso di circa mezzo secolo nel sottosuolo, furono rapidamente compattati e ricoperti da una nuova pavimentazione di fortuna. Furono allestiti in tutta la città 369 ricoveri in grotta e 247 ricoveri anticrollo. Il tutto, illuminato da due impianti di luce, i cui tralicci sono ben visibili ancora oggi. in quegli anni i più giovani salivano e scendevano quei 121 scalini (il cui ingresso ora si trova in piazza San Gaetano, visite a cura dell’associazione Napoli sotterranea; un altro ingresso, nella zona di Chiaia, è a cura dell’associazione Laes) più e più volte. ad ogni allarme, un fiume di migliaia di persone si precipitava nel sottosuolo per sfuggire ai bombardamenti. nella parte della Napoli sotterranea che abbiamo visitato (gestita dalla onlus omonima, attiva dal 1990, www.napolisotterranea.org), in periodo bellico la vita brulicava: qui sono nati persino 4 bambini. Il presidente dell’associazione, lo speleologo Enzo Albertini, che qui lavora da anni, è l’artefice di una ennesima scoperta: un nuovo frammento del teatro romano sotterraneo riportato alla fruibilità.
Nel cuore di Napoli, in vicolo Cinquesanti, appena a ridosso dell’agorà (oggi piazza San Gaetano), dove fino a qualche mese fa c’era la bottega di un falegname, tra qualche giorno aprirà alle visite un sito archeologico di grande fascino. Qui c’è quel che resta della “summa cavea”, l’anello superiore della gradinata di quel teatro dove nel 64 d. C. si esibiva Nerone, e che ora è stato quasi completamente inglobato dagli edifici costruiti sopra le antiche gradinate. Tanto che per accedere ai resti ritrovati di recente i visitatori devono entrare in una casa privata. Un lungo e strabiliante strato di opus reticolatum, fino a pochi anni fa ricoperto di moderno intonaco e utilizzato come parcheggio per motocicli. a breve, negli spazi del teatro romano, dove è allestito anche un antico presepe, aprirà “una notte al teatro”. Un bed and breakfast nel teatro di Nerone. nel ventre di Napoli. Ma ora, tutto questo potrebbe rischiare una clamorosa svendita. a un euro a cavità.
«Sicurezza a rischio»
«Cavità in vendita, peraltro a un euro? Un’operazione molto pericolosa». il geolo-go Franco ortolani, direttore del Dipartimento di Pianificazione e Scienza del Territorio dell’Università di Napoli Federico II, commenta con inquietudine le schede rese pubblicate dall’agenzia del Demanio. «Qui in ballo», dice, «c’è la sicurezza del territorio che potrebbe essere messa a repentaglio da operazioni come queste». Della vendita delle cavità, assicurano dall’ufficio Sicurezza geologica e Sottosuolo del Comune, «noi non sapevamo nulla. anzi: è un’operazione inconcepibile. non conosciamo i criteri che hanno portato a tutto questo. La logica avrebbe richiesto una nostra preventiva consultazione. e invece l’abbiamo saputo dai giornali...».
Non sono segnalati vincoli particolari per la vendita. il valore inventariale, in questo che è solo un primo elenco,è di un euro per ognuna delle cavità. e non è chiaro di chi sia l’esatta competenza: una nebulosa normativa che non aiuta. «La vendita», avverte ortolani, «deve essere riservata solo ad associazioni serie che da anni valorizzano le cavità con visite guidate e che garantiscono la manutenzione e conservazione, come tutti possono riscontrare. Ma le forze dell’ordine e i servizi di sicurezza hanno visionato la mappa delle cavità in vendita e di quelle esistenti nel sottosuolo nelle zone circostanti e hanno visto quali edifici, banche, uffici vari si trovano in superficie?». In città non sono infrequenti i colpi delle cosiddette bande del buco: rapinatori che spuntano dal sottosuolo sfondando i pavimenti di una banca, che poi si volatilizzano nel dedalo di cunicoli sotterranei. insieme a materiale di risulta, rifiuti e residui del “mondo di sopra”, nelle cavità sono stati ritrovati spesso pezzi di auto rubate, refurtiva, materiali provenienti da attività illecite.
Un territorio enormemente vasto, che ora rischia di far nascere nuovi appetiti speculativi difficilmente controllabili. «è semplicemente assurdo pensare di poter regalare un patrimonio di questo tipo agli “amici”», sbotta Riccardo Caniparoli, un altro geologo profondo conoscitore del sottosuolo napoletano. «Se fosse previsto l’obbligo di risanare le cavità e di metterle a disposizione della collettività con visite guidate allora la vendita si potrebbe pure fare. Ma se così non fosse si tratterebbe di un atto davvero grave.
Il pericolo di speculazioni sarebbe davvero altissimo. Bisogna fare subito il Piano regolatore del sottosuolo e individuare quali sono le esigenze, e poi pianificare il futuro. Se, infatti, in una determinata zona è prevista la costruzione del tracciato della metropolitana o di una condotta, e ci si ritrova davanti una cavità che nel frattempo è diventata privata, come si fa? a guadagnarci sarà solo il proprietario».
Qualsiasi tipo di intervento nel sottosuolo, precisa Caniparoli, «deve essere preceduto da una caratterizzazione ambientale e da una bonifica». allarga le braccia Enzo Albertini, speleologo tra i pionieri della scoperta delle meraviglie sotterranee di Neapolis: «Di fronte alla notizia della svendita c’è da rimanere sgomenti. Sarebbe stata auspicabile una pianificazione condivisa di progettualità. e invece...». il drammatico sacco edilizio denunciato dal film “Mani sulla città” potrebbe aver insegnato poco o nulla».
Nel corso degli ultimi decenni, in quasi tutto il mondo «sviluppato», i redditi da lavoro dipendente hanno subito una riduzione di circa dieci punti percentuali di Pil a favore dei redditi da capitale e dei compensi professionali. L'aumento delle differenziazioni salariali e la diffusione del precariato ha reso questa redistribuzione ancora più iniqua, moltiplicando la schiera dei senza salario e dei working poor, cioè di coloro che pur lavorando non riescono a raggiungere un reddito sufficiente per vivere decentemente. La crisi ha messo in luce - e continuerà a farlo per anni - la profondità di questa trasformazione.
Una parte dell'impoverimento delle classi lavoratrici era stato a lungo occultato con l'indebitamento (mutui, acquisti a rate, carte di credito, «prestiti d'onore», usura) sul cui traffico è ingrassata la finanza internazionale con i suoi beneficiari, poi messi in salvo dalle misure anticrisi degli Stati. Questo processo ha alterato profondamente la struttura industriale del mondo. La produzione dei beni di consumo più popolari ha progressivamente abbandonato i paesi già industrializzati, per trasformare la Cina e gran parte del Sudest asiatico in un'area manifatturiera al servizio del resto del mondo. In compenso è enormemente cresciuto, al servizio dei ceti politici, manageriali e professionali più ricchi o di autentici rentier, ormai diffusi in tutti i paesi del mondo, un consumo opulento costituitosi in un vero e proprio comparto, denominato per l'appunto «lusso», che riunisce indifferentemente gioielli, abbigliamento, pelletteria, arredamento, auto, imbarcazioni, aerei personali, resort turistici, case e uffici principeschi, a cui è stato in larga parte delegato il compito di sostenere produzione e occupazione nei paesi di più antica industrializzazione: una sorta dei «keynesismo» di seconda generazione, in cui a sostenere la domanda non è più la spesa pubblica, ma quella dei ricchi.
Questa nuova allocazione delle risorse dà la misura dei guasti, in gran parte irreversibili, di un trentennio di liberismo. Difficilmente un aumento dei redditi popolari e della conseguente domanda di prodotti di consumo potrebbero avere effetti sostanziali su produzione e occupazione nei paesi di più antica industrializzazione; a meno di promuovere un processo di riterritorializzazione che, insieme alla rilocalizzazione degli impianti, investa contestualmente anche i modelli di consumo, gli stili di vita e la tipologia dei beni e dei servizi prodotti.
Come eliminare gli sprechi
È altamente improbabile, comunque, che nei prossimi anni si possa assistere a un sostanziale recupero salariale, visti gli attuali rapporti di forza, che in tutto il mondo hanno messo alle corde il lavoro dipendente: grazie alla facilità con cui le produzioni possono essere delocalizzate in paesi con salari e protezioni ambientali più basse (e con un interventismo di Stato più elevato: vedi il caso Fiat Serbia); ma anche ai flussi migratori messi in moto dalla globalizzazione: sia dell'informazione e dei trasporti che quella della miseria. Caso mai è più probabile che continui il trend di deflazione salariale attuale.
Pertanto, senza sminuire l'importanza di mantenere aperto il fronte della lotta per il salario, la difesa delle condizioni di vita dei percettori di redditi bassi - o di nessun reddito; o di qualche forma di assistenza progressivamente erosa dallo strangolamento del welfare state - va probabilmente affrontata con altri mezzi: soprattutto attraverso una riconversione dei modelli di consumo che non riduca l'accesso ai beni di base irrinunciabili - o che addirittura lo migliori - limitando però gli esborsi monetari, i consumi superflui e gli sprechi.
È ovvio che di questo indirizzo possono e dovrebbero diventare un punto di riferimento tutti coloro che hanno conservato una maggiore possibilità di aggregazione, e che in moti casi sono anche i più direttamente colpiti: cioè gli operai delle fabbriche, in particolare di quelle investite dalla crisi o sul punto di esserlo. Ma le loro battaglie potranno avere esiti positivi se riusciranno a mettere in moto processi che coinvolgano anche altre fasce sociali.
Innanzitutto, trasformazioni in questa direzione potranno avere tanto più successo quanto più le entità associative troveranno sostegno, legittimazione e supporti tecnici ed economici da parte delle amministrazioni locali; e, naturalmente, quanto più riusciranno a sviluppare una interlocuzione, legata a precise convenienze, con una parte, almeno, dell'imprenditoria: a partire da quella impegnata nel sistema distributivo e nel comparto agricolo, ma senza trascurare l'artigianato - soprattutto quello di manutenzione - e, attraverso processi più mediati, anche la grande impresa di produzione e di servizio. Il meccanismo che accomuna i diversi processi è, o parte, dallo stesso problema: aggregare domanda.
La politica dei vuoti a rendere
Cominciando dalle cose più semplici: la nostra spesa quotidiana è composta in larga misura da imballaggi inutili e costosi (Coldiretti ha calcolato, per una serie di items di largo consumo, che spesso l'imballaggio assomma a un terzo del valore del prodotto e a volta lo supera: la quarta settimana di salario se ne va direttamente nel cassonetto). Buone pratiche dal successo ormai consolidato dimostrano che molti di questi imballaggi, destinati a inquinare l'ambiente sotto forma di rifiuti e ad aggravare i bilanci dei Comuni (e degli utenti che pagano la Tia o la Tarsu) sotto forma di servizi di igiene urbana, possono essere eliminati con circuiti di vuoto a rendere o, in molti casi, con la vendita alla spina. Dove gli enti locali si sono impegnati a promuovere questi sistemi, diffusione e accettazione sono state più rapide. Lo stesso vale per l'usa e getta, dalle stoviglie ai gadget ai pannolini.
Tra il campo e il negozio l'intermediazione dei prodotti freschi assorbe fino a quattro quinti del prezzo finale. I Gas (Gruppi di acquisto solidale) hanno dimostrato che in molti casi è possibile instaurare rapporti diretti con gli agricoltori, garantendo la qualità biologica del prodotto, un maggior ricavo per i produttori e un risparmio per i consumatori. Un vantaggio analogo - anche se con minori controlli - lo offrono i farm market (mercati aperti alla vendita diretta da parte dei produttori agricoli). In entrambi i casi i Comuni possono giocare un ruolo centrale, innanzitutto nell'autorizzare, ma anche nel promuovere e sostenere, entrambi i processi.
Gli acquisti dei Gas, che sono una forma di auto-organizzazione dal basso, possono progressivamente estendersi a una gamma molto più ampia di prodotti, compresi molti beni durevoli: forse non tutte le intermediazioni possono essere facilmente bypassate; ma una convenzione con distributori disponibili, specie se promossa o garantita da un'amministrazione locale, può alleggerire notevolmente i ricarichi.
Da oltre un anno il mercato dell'energia è stato liberalizzato. Certo gli utenti non possono seguire giorno per giorno i corsi del kWh per scegliere di volta in volta il fornitore più economico. Ma quello che non può fare il singolo lo può fare per conto di tutti un'associazione; specie se a promuoverla o a garantirla è un Ente locale in grado di mettere a disposizione anche le competenze specifiche necessarie; magari ingaggiando o costituendo una Esco (Energy Saving Company, cioè una società autorizzata a svolgere operazioni del genere). La stessa operazione si può fare contrattando direttamente anche le bollette telefoniche e di connessione con i provider informatici.
E veniamo agli interventi più pesanti: costi e consumi di riscaldamento e condizionamento (e persino quelli di illuminazione) possono venir contenuti drasticamente con interventi sulle apparecchiature, sull'impiantistica e sugli involucri degli edifici, tutte cose che oggi sono incentivate e che potrebbero fruire di un Ftt (finanziamento tramite terzi) se eseguiti su larga scala. Una modalità che può azzerare i costi di installazione, ma a cui nessun privato ha la possibilità di accedere singolarmente. Un'iniziativa dell'Ente locale per promuovere l'accesso a questa opportunità in forma associata potrebbe sortire risultati rilevanti. Ovviamente il primo a mettere in ordine i propri edifici e impianti (anche per il suo effetto dimostrativo) dovrebbe essere l'Ente locale stesso, magari imponendo lo stesso intervento ai soggetti su cui può avere voce in capitolo: a partire dagli ospedali, grandi consumatori di energia per riscaldamento, raffrescamento, forza motrice e sterilizzazione.
Questo discorso vale a maggior ragione per il ricorso alle fonti rinnovabili; solare termico per acqua sanitaria e preriscaldamento dei locali, fotovoltaico, ma anche eolico (dove ce ne sono le condizioni), minieolico e biogas nelle aziende agricole e negli stabilimenti sparsi sul territorio.
L'auto (acquisto, assicurazione, carburante, manutenzione, parcheggio e multe) divora da un terzo alla metà dei redditi bassi. Si dice che nessuno è disposto a staccarsi da questa sua protesi, e in parte è vero. Ma un servizio efficiente di mobilità di linea e personalizzata, promuovendo e organizzando car pooling, car sharing e trasporto a domanda, può permettere, soprattutto a chi l'auto propria o due auto in famiglia non può più permettersele, di farne a meno: con risparmi sostanziali.
Recuperare i beni dismessi
Una grande risorsa è infine nascosta nel mercato dell'usato, oggi marginalizzato da un cumulo di divieti e dalle stigmate dell'esclusione. La quantità di beni durevoli avviati alla discarica o alla rottamazione senza essere né consunti né inutilizzabili è immensa. Qui il ruolo delle amministrazioni pubbliche può essere centrale. Sia per autorizzare raccolta, selezione, riabilitazione e commercio dei beni oggi destinati a ingrossare il flusso dei rifiuti (si pensi solo a quello che arriva nelle stazioni ecologiche), sia per legittimare e riconoscere un merito sociale a chi pratica, in qualsiasi posizione lungo la filiera del riuso, il recupero dei beni dismessi.
Strettamente legate alla estensione del riuso sono la capacità e la possibilità di riparare e di tenere in esercizio i beni durevoli che si guastano. Una capacità che può essere insegnata e diffusa: sia facendo riacquistare a ciascuno di noi, nei casi più semplici, una manualità a cui abbiamo rinunciato da tempo; sia creando le condizioni perché, nei casi più complessi, un esercito di artigiani sia disponibile a costi accettabili a prendersi cura dei beni da riparare; per permetterci di continuare a usarli, o per cederli a chi è disposto a riusarli.
È questo un grande bacino occupazionale, da tempo trascurato, ma che, oltre a ridurre gli sprechi, ha il vantaggio di riunire nella stessa persona manualità, attenzione (e persino amore) per le cose che ci circondano e competenze tecniche anche di altissimo livello: gli elementi essenziali del paradigma dell'«uomo artigiano» (Richard Sennett) in cui si concretizza la figura di lavoratore che ci porterà fuori, in positivo, dall'era fordista. Oltretutto, la presenza e l'accessibilità di reti diffuse e capillari di riparatori possono indurre una parte dell'apparato industriale a riconsiderare come fattori competitivi durata e riparabilità dei beni messi in commercio. Due caratteristiche oggi totalmente sacrificate all'alimentazione dei mercati di sostituzione; ma due formidabili fonti di risparmio per il consumatore.
«Appare "incomprensibile" ciò che non si conosce ed è consigliabile informarsi prima di parlare». L’assessore regionale all’assetto del territorio, Angela Barbanente, risponde così alla senatrice Poli Bortone, che aveva definito «incomprensibile il ritardo della Regione Puglia nella redazione del piano paesaggistico, mettendo in crisi i Comuni».
Per l’assessore, le colpe ricadono sul governo. «Sa la senatrice - si chiede la Barbanente - che il Ministero per i beni e le attività culturali sta bloccando i piani paesaggistici regionali rinviando sine die gli accordi con le Regioni previsti dal Codice del paesaggio? Sa quante Regioni sono dotate di un piano adeguato al Codice? Nessuna. E sa che la Regione Puglia, dopo aver elaborato con grande impegno e passione un piano paesaggistico di riconosciuta qualità ha trasmesso ad ottobre lo schema adottato dalla Giunta allo stesso ministero, senza ricevere sinora alcun cenno di riscontro?».
«Mi sembra evidente - conclude l’assessore - che la senatrice debba rivolgere al governo che mostra un atteggiamento palesemente contraddittorio, fra annunci di semplificazioni e arroccamento a norme complicate e farraginose». Intanto è stato pubblicato il bando da 10 milioni di euro della Regione per contributi a privati che intendano procedere al recupero di alloggi da destinare all’affitto o a prima abitazione per famiglie incapaci di accedere al libero mercato.
La terra promessa della modernizzazione è diventata terra bruciata dalla desertificazione ambientale, sociale, spirituale (Alberto Magnaghi)
Il paesaggio è morto? Ma quale paesaggio? E’ morto o moribondo il paesaggio che era espressione di un modello o sistema economico pre-industriale che, per quanto sopravviva ancora qua e là nel mondo e anche nelle pieghe del territorio di un paese come il nostro (che si definisce la quinta o sesta potenza industriale), è stato “superato” o, per meglio dire, annullato nella sua capacità di autoalimentarsi, non solo dall’industrializzazione ma anche dal dominio sempre più invasivo, anche a livello locale, del capitale finanziario globale.
Se il paesaggio è morto, quale capacità di progettare e costruire paesaggi ci rimane, oggi, al di là della conservazione e restauro dei paesaggi ereditati? La risposta prevalente è stata in passato quella di recintare spazi naturali e umani con l’istituzione dei parchi nazionali, regionali e anche urbani, nella convinzione che il paesaggio, come la natura, potessero vivere solo come spazi eccezionali, di piacere e contemplativi, disgiunti da qualsiasi finalità produttiva. Tutto il resto non doveva essere considerato paesaggio, ma apparteneva al regno del funzionale e dell’utile.
In altri termini, abbiamo certamente democratizzato le recinzioni e i parchi e giardini del regime aristocratico, ma siamo rimasti dentro lo stesso modello territoriale. Nelle rivoluzioni che hanno prodotto la caduta del regime aristocratico c’era qualcosa di più: la liberazione di tutti gli spazi recintati, la libertà celebrata da Rousseau di percorrere e godere liberamente del bel paesaggio, del giardino della natura e di continuare a produrlo limitando la città e la tecnologia. La trasformazione del paesaggio da “giocattolo” aristocratico a pratica popolare, democratica, e per questa via anche il superamento della separazione fra l’utile e il bello, la produzione e la contemplazione, che oggi viene ulteriormente sancita dalla Convenzione europea del paesaggio, data da questo momento storico.
La Convenzione, il suo più profondo significato politico, ci invita oggi a un diverso rapporto con la storia, con le ragioni di un passato non del tutto tramontato. Il modello economico “superato” dalla storia, di cui il paesaggio extraurbano che oggi cerchiamo di tutelare nei suoi spazi residui era la manifestazione visibile, si può definire di tipo pre-capitalistico per il fatto di mantenersi e vivere in una dimensione culturale prevalentemente locale, artigianale e familiare (l’azienda contadina e familiare vi aveva infatti una centralità che in buona parte è stata smantellata dalla nuova scala dell’agroindustria e del mercato).
Questo mondo pre-capitalistico, fatto di luoghi e paesaggi, confligge fortemente con la globalizzazione in atto, la sua conservazione è una delle poste in gioco della battaglia fra locale e globale. La teoria di Marx – che è alla base di qualsiasi teoria della globalizzazione – ci aiuta anche oggi a capire le manifestazioni di questa battaglia. In particolare, ci aiuta la teoria della crisi economica data da Rosa Luxemburg un secolo fa e di recente richiamata da Zygmunt Bauman anche per spiegare l’ultima crisi. Che cosa diceva la Luxemburg, che non a caso amava molto la geografia e il paesaggio (come mostra le sue lettere dal carcere)? Diceva che il capitalismo per continuare nella sua corsa alla accumulazione ha bisogno che esistano ambienti o spazi pre-capitalistici, ma che la sua è una corsa verso l’abisso, in quanto penetrando in tali ambienti li trasforma in capitalistici e quindi elimina progressivamente le basi economiche della sua espansione o accumulazione.
Ma, oltre a questo aspetto – che come ci mostra Bauman fa in qualche modo della difesa del paesaggio un’articolazione della lotta contro un capitalismo parassitario che della speculazione finanziaria e della rendita edilizia fa la sua principale strategia di sopravvivenza – ce n’è un altro che va richiamato: l’attualità della cultura artigianale. Ce lo ha di recente dimostrato Richard Sennet in una monumentale ricerca dedicata all’ Uomo artigiano (Feltrinelli, Milano, 2008).
Che cosa ci viene mostrando questa ricerca? Qualcosa di cui in molti proviamo sempre più nostalgia: la maestria dell’artigiano. Metafora di quel “materialismo culturale” oggi necessario per trovare alternative al mondo dominato da Pandora o dalla tecnica scatenata: “Il mito di Pandora è diventato oggi un simbolo secolarizzato di autodistruzione. Per far fronte a questa crisi fisica ci corre l’obbligo di modificare sia gli oggetti che produciamo sia l’uso che ne facciamo. Dovremo imparare modi diversi di costruire gli edifici e di organizzare i trasporti, dovremo imparare rituali che ci abituino al risparmio. Dovremo diventare bravi artigiani dell’ambiente” (p. 21). Anche e soprattutto rispetto e a questa arte che “oggi ci è estranea”. Sennet, con una serie di esempi e indagini davvero convincenti, ci dimostra come “la grande sfida alla quale la società moderna si trova di fronte, sia come continuare a pensare da artigiani facendo un uso corretto della tecnologia” (p. 50). L’esempio è in questo caso rappresentato dalla matita di Renzo Piano e dalla sua maestria artigianale che usa ancora la mano per disegnare e progettare e solo in subordine usa il computer. Secondo Sennet è questa “sinergia mente-mano-desiderio-ragione che ha fatto grande il mondo occidentale e forse può oggi restituirgli saggezza”.
Non dobbiamo mai dimenticare che è questo modello economico locale, artigianale e familiare che ha prodotto la qualità architettonica sia del paesaggio urbano (per i centri storici), sia di un paesaggio rurale che oggi ci pare insuperato, non solo per bellezza, armonia e diversità culturale (oltre che per biodiversità), ma anche per equilibrio nell’uso del suolo e delle risorse ambientali. Si potrebbe definire come un paesaggio che, essendo più ancorato al valore d’uso e alla qualità e perfezione tecnica che al valore di scambio e alla serialità e globalità della produzione moderna, era fatto per durare nelle sue forme insediative e territoriali e dunque era naturalmente sostenibile. Sostenibile senza bisogno di dichiararlo o pretendere una certificazione ambientale, perché questa durevolezza e sostenibilità era interna al sistema economico che produceva il paesaggio.
Per capirci con qualche esempio geografico: si trattava di un paesaggio che anche là dove esistevano le pressioni maggiori del capitalismo e del mercato internazionale, come è stata la Liguria anche prima dell’ultima rivoluzione industriale, si manteneva in quanto il sistema economico e la sua cultura continuava ad avere dentro di sé un senso molto forte dei limiti invalicabili, di natura sia geografica sia temporale, oltre i quali o sotto i quali non si poteva andare se non si voleva mettere in atto processi di degrado più o meno irreversibili.
Faccio un esempio: il paesaggio della nostra regione si fondava su un rapporto equilibrato e armonico fra costa e entroterra, fra risorse ed economie del mare e risorse ed economie della campagna e della montagna, che è venuto meno solo nelle trasformazioni più accelerate del XX secolo. Ancora nell’Ottocento, ci sono state grandi riuscite marittime, per esempio a Camogli (i cui armatori avevano una flotta non inferiore ai genovesi), che tuttavia, come era accaduto in passato, non hanno stravolto l’equilibrio e le forme del paesaggio che le generazioni precedenti avevano costruito. Nessuno allora ha pensato che il futuro economico di Camogli dovesse realizzarsi a detrimento del suo territorio e paesaggio, per esempio con la creazione delle infrastrutture necessarie per mantenere questo tipo di sviluppo nell’età della crescente globalizzazione e competizione internazionale. Si sono rialzate di qualche piano le case della “palazzata” lungo mare, si sono costruiti, come altrove, nuovi servizi e limitate espansioni del tessuto edilizio, ma nessuno ha mai pensato che la grande tradizione ed economia marittima di Camogli dovessero tradursi in macro-infrastrutture portuali o stradali che per essere fuori scala avrebbero sconvolto un paesaggio che non era idoneo a questo tipo di sviluppo né sul piano commerciale né su quello del turismo nautico. E neppure è accaduto che i capitali locali ricavati da una florida economia marittima si riversassero in grandi speculazioni edilizie e turistiche. Quello di Camogli mi pare un bell’esempio di capitalismo marittimo che ha saputo autolimitarsi fino al punto da scomparire a vantaggio di altri porti di armamento che avevano maggiori possibilità geografiche di espansione.
Anche nel prossimo golfo della Spezia, la costruzione dell’Arsenale, per quanto abbia occupato paesaggi costieri suburbani e destinati essenzialmente a orti o a spazi incolti, non ha prodotto l’annullamento del Golfo e dei suoi paesaggi più amati dai viaggiatori dell’Ottocento, come hanno fatto, e ancora minacciano di fare, l’espansione della città, del suo porto commerciale e di un turismo, nautico e non, sempre più aggressivo e che oggi minaccia anche le Isole. Gli operatori economici e quanti stanno nella stanza dei bottoni sono incapaci di riconoscere l’incompatibilità geografica di certi sviluppi: porto commerciale, grandi navi portacontainer, turismo, maricoltura ecc., tutti destinati a convivere negli stessi spazi assai ridotti.
In generale, oggi – a differenza di quanto avvenuto a Camogli o nel Golfo al tempo della costruzione dell’Arsenale (dove a prevalere è stata la logica dell’intervento a fini di utilità pubblica) – accade che se in loco sono assenti i capitali privati ai fini degli interventi speculativi si convogliano quelli esterni, che, per la loro stessa formazione, non sono interessati alla sostenibilità della economia locale ma solo alla redditività di un impiego che per sua natura è indifferente ai luoghi in cui si realizza.
Per caratterizzare le differenze fra questi due diversi modelli economici potremmo prendere a prestito alcune categorie di Levi-Strauss – per nulla invecchiate – e parlare di “culture o società fredde” in grado di controllare le loro economie per mantenere i paesaggi nei quali riconoscono la loro identità, e culture o società “calde” che riconoscendosi in altri valori, eminentemente economici e settoriali (non identitari), sono disposte a sacrificare i loro paesaggi in nome del cambiamento, del “progresso”, della modernizzazione, della globalizzazione ecc. ecc.
La centralità del paesaggio, oggi, consiste nel metterci di fronte al grande tema di che cosa voglia dire progresso, modernità, civiltà, oltre che nel riportarci alla centralità del rapporto locale/globale.
Se noi oggi verifichiamo la verità del paradosso di Giuseppe Verdi, rievocato di recente da Marc Fumaroli su “La Repubblica”: «Torniamo all’antico, sarà un progresso», vuol dire che sono state poste le condizioni di un capovolgimento di valori. L’idea nuova è appunto questa: che guardare al passato e tornare all’antico (non semplicemente restaurandolo ma rinnovandolo) possa essere il vero progresso che dobbiamo inseguire. Ovvero che il vero progresso sta nella negazione dell’idea ottocentesca di progresso che le grandi tragedie del Novecento hanno smantellato sul piano filosofico ma non su quello economico.
Anche qui, se vogliamo essere concreti e propositivi dobbiamo partire dall’oggi, dalla pesante crisi globale che ha coinvolto un capitalismo finanziario e parassitario che vede sempre più ridursi i suoi margini di manovra e di crescita (per crescere ha infatti bisogno come sosteneva Rosa Luxembourg di colonizzare quelle “terre vergini” e settori “precapitalistici” che si vanno continuamente riducendo nel momento in cui vengono “modernizzati”). Non teorizziamo a livello globale. Teniamoci al locale. Prendiamo l’Italia. In molti dicono che “se l'Italia uscisse dalla crisi, crescendo come prima della recessione, ci vorrebbero 15 anni solo per tornare ai livelli di benessere precedenti la crisi. E' una prospettiva tutt'altro che allettante. Eppure il dibattito pubblico tratta di tutto tranne che di scelte strategiche in grado di far ripartire il paese a tassi più sostenuti” (Economisti di La voce.info).
Anche a prescindere dal fatto che la scelta di tornare a crescere a tassi più sostenuti potrebbe anche non essere strategica (se è vero che ci dovremmo porre limiti alla crescita), viene da pensare che, se è vero che “fare ripartire il paese per riprendere il corso precedente significa sprecare una grande opportunità”, si dovrebbe guardare a ricette differenti e più radicali come potrebbero essere quelle di indirizzate l’economia, oltre che sull’ambiente e le energie rinnovabili, sulla stabilità del territorio e la tutela del paesaggio.
Nel Rapporto 2009 I paesaggi italiani fra trasformazione e nostalgia, che ho curato per la Società Geografica Italiana, mi sono per l’appunto domandato se alla luce della crisi “non sarebbe il caso di ripensare il modello di sviluppo” soprattutto in regioni ad alto tasso di disindustrializzazione, visti anche gli effetti positivi in termini di coesione territoriale e sociale di modelli economici regionali fondati sull’attrattività residenziale e sulla domanda delle famiglie”. Ovvero, perché non approfittare della crisi economica globale per rispondere a questa domanda sociale e fare del territorio e dei paesaggi finora disertati dagli investimenti e dal mercato, non meno che dalla politica, le basi di un grande cantiere di manutenzione ambientale e di mantenimento e gestione-valorizzazione di patrimoni insediativi e rurali che, in quanto costituenti paesaggi antropizzati da qualche millennio, non stanno in piedi da soli? Un grande cantiere che, oltre a rispondere alle enormi esigenze di prevenzione del dissesto idro-geologico, potrebbe cominciare a soddisfare una forte domanda residenziale che, in Liguria, dalla costa sovraffollata tende a spostarsi nella più rurale collina e montagna litoranea, e soprattutto a tradurre nei fatti un modello locale di sviluppo che armonicamente e con saggezza artigianale o contadina tiene insieme le molteplici offerte e domande che oggi collegano in maniera virtuosa la città e la campagna attraverso il turismo rurale, la nuova agricoltura contadina e l’artigianato rurale volti a produzioni di nicchia e di qualità.
Solo in contesti sociali e territoriali alimentati tanto da nuove ragioni scientifiche e culturali centrate sul bene comune paesaggio (e ambiente), quanto da orizzonti prospettici più ampi di quelli della tradizionale pianificazione, possono oggi maturare progetti che non siano di corto respiro, come è il recente piano-casa che va nella direzione esattamente opposta a quella ora indicata per un evidente deficit culturale e di progettualità innovativa.
In effetti i nuovi orizzonti economici e culturali, entro i quali dobbiamo oggi inserire la nostra progettualità, hanno molto a che fare con l’idea di modernità declinata non solo nel senso della postmodernità ma anche in quello della premodernità.
Qualche anno fa, un antropologo - Federico Scarpelli - ha pubblicato una ricerca intitolata La memoria del territorio. Patrimonio culturale e nostalgia a Pienza, partendo da questa domanda: «Come mai ed in che senso nel cuore di uno dei paesaggi più famosi del mondo, quello di Pienza e della Val d'Orcia, covano nostalgie per quando non si era moderni? Nell'epoca in cui il patrimonio culturale appare sempre di più un terreno di confronto, scelta, ridefinizione, la "nostalgia" diventa qualcosa di simile ad una macchina per pensare il passato, il presente, il futuro del proprio territorio».
L’evviva al paesaggio sembra dunque declinarsi con la nostalgia, sentimento che in genere segnala una trasformazione troppo rapida e tutto sommato sconvolgente, portatrice di una perdita che suscita tristezza, malinconia. In realtà il rapporto del paesaggio con la memoria storica e con la nostalgia è più complesso di quanto appaia a prima vista ed è comunque essenziale per ripensare non solo il passato ma anche il presente e perfino il futuro del nostro territorio.
Ci aiuta a capirne la portata, un aforisma del vecchio Goethe, che segnala un’importante differenza rispetto al nostro tempo: “Non c’è passato che sia lecito richiamare con nostalgia, c’è solo un mondo eternamente nuovo, che si forma con l’ampliamento degli elementi del passato e la vera nostalgia deve essere sempre produttiva per creare un mondo migliore”. Goethe viveva nel momento storico in cui l’antico regime era crollato e attraverso rivoluzioni e guerre l’ampliamento o meglio la fecondazione degli elementi più validi del passato facevano nascere un mondo nuovo. Possiamo oggi dire lo stesso? Malgrado lo spreco e la conseguente insignificanza del termine “epocale”, oggi non possiamo ripetere quanto Goethe ebbe a dire di fronte all’esercito napoleonico: “è nata la novella storia”.
Che cosa ci manca? Ci manca l’ampliamento, la fertilizzazione delle eredità del passato che una discontinuità ancor più profonda ha reso, almeno per l’aspetto che ci interessa, più difficile. Per questo la nostra nostalgia deve essere più profonda e più produttiva, deve ricreare archi col passato non solo sul piano culturale e della civiltà ma anche sul piano della produzione di nuovi paesaggi.
In buona sostanza prima della più massiccia fase dell’industrializzazione europea si erano certamente manifestate trasformazioni anche profonde, ma non grandi rotture nel paesaggio urbano e rurale. Appare evidente se appena guardiamo alle aree più avanzate con gli occhi delle trasformazioni che abbiamo sotto gli occhi: la città non si era ancora dispersa, annullata nella campagna e le campagne non erano ancora state annullate dall’agroindustria e dall’urbanizzazione e infrastrutturazione selvaggia che caratterizza il nostro tempo. La continuità col passato e il graduale adeguamento alle nuove esigenze (igiene, bonifiche ecc.) consentiva una lettura stratificata dei paesaggi e interventi non traumatici.
In conclusione, il paesaggio, soprattutto nella versione della Convenzione europea, oggi può offrirci un’altra grande opportunità: riguadagnare il senso di una qualità diffusa che oggi non siamo più capaci di garantire, come avveniva in passato, quando nessuno avrebbe ammesso che la conservazione o il vincolo delle aree più pregiate o della aree protette in senso letterale potesse andare di pari passo con il degrado del resto del territorio o che, per fare tutt’altro esempio, l’alta velocità implicasse l’abbandono del resto della rete: esempi di una tendenza alla gerarchizzazione degli spazi e dei flussi che non è meno deleteria di quella che si accentua sul piano sociale ed economico.
Se ne avessi il tempo potrei concludere la mia relazione leggendovi qualche passo delle lettere dal carcere di Rosa Luxemburg. Ma il tempo non c’è. Vi invito a farlo, alla luce di un’ipotesi di lavoro che può aggiungere un po’ di sale al percorso che oggi riusciamo a vedere più chiaramente anche grazie al sacrificio di Rosa. L’ipotesi è questa: chissà se Rosa, sopravvissuta alla sanguinosa rivolta spartachista, non avrebbe potuto guidarci, proprio grazie alla sua sensibilità per l’ambiente e il paesaggio, alle soglie di una considerazione diversa della lotta sociale: quella che oggi ci porta a sostituire la coscienza di luogo alla coscienza di classe senza timore per questo di perdere di vista l’obiettivo di una giustizia spaziale e sociale.
Dopo due anni di governo della città è venuto il momento di tentare un primo bilancio sull'urbanistica romana ispirata dal sindaco Alemanno. Siamo infatti ormai di fronte ad un quadro abbastanza chiaro che consente una lettura attendibile almeno sotto due ordini di considerazioni: l'orizzonte culturale con cui si affrontano le trasformazioni urbane e i soggetti a cui sono state affidate le chiavi della città.
Riguardo al primo punto non c'è dubbio che la nuova amministrazione abbia estremizzato oltre misura la cultura dei grandi eventi che sembra ormai l'unica possibilità di governo delle città italiane. Cancellata l'urbanistica, e cioè la modalità con cui un'intera comunità tenta di delineare un futuro possibile, le prospettive urbane sono affidate alla prospettiva dei grandi eventi.
Tutte le energie della città sono dunque concentrate sul progetto Millennium, e cioè per la preparazione alla candidatura ai giochi Olimpici del 2020. I giochi invernali di Torino, l'expo di Milano, solo per fare due esempi, sono ormai le uniche ricette che un sistema politico in profonda crisi è capace di pensare.
Di fronte a malesseri urbani sempre più acuti e generalizzati - dopo venti anni di dominio neoliberista non c'è infatti nessuno che possa affermare che le condizioni di vita delle nostra città siano migliorate - la soluzione è quella di fornire dosi industriali di ossigeno al malato. Senza riflettere che gli effetti sono letali. A Torino il fiume di denaro pubblico utilizzato non ha prodotto alcun risultato e anche il bilancio economico è fortemente negativo. Il Sole 24 ore del 7 aprile ci racconta poi che per i giochi Olimpici del 2004 Atene ha speso 11 miliardi per opere faraoniche oggi inutilizzate e destinate anche «a parziale demolizione», mentre gli introiti hanno coperto solo il 20% delle spese.
Ma il fatto grave è che nel caso romano l'orizzonte del grande evento non si limita alla candidatura olimpica. È divenuta prassi quotidiana. Invece di interrogarsi fino in fondo sui modi per uscire dalla crisi economica in cui versa la città, alleviata soltanto dalla presenza ancora estesa della pubblica amministrazione o del settore delle comunicazioni, si sceglie il modesto diversivo della Formula 1 automobilistica all'Eur. Nessuna città al mondo può vivere dell'effimero, tanto meno Roma, eppure si veicola una proposta inutile soltanto per ingraziarsi alcuni gruppi mediatico-finanziari e la lobby degli albergatori.
Si strizza l'occhio al turismo effimero anche con la proposta di un ridicolo parco a tema sulla «Roma imperiale». Le altre grandi città del mondo fanno a gara per rendere sempre più accoglienti i maggiori elementi di richiamo storico e culturale. Da noi si assiste impassibili al crollo della Domus Aurea e si pensa di richiamare turisti con una cittadella di cartapesta. Ma anche qui non è soltanto insipienza di qualche assessore (che pure c'è): è l'adempimento al patto scellerato con i padroni della aree ancora libere. L'eterna spinta all'espansione urbana e alla speculazione edilizia.
E anche la realizzazione di infrastrutture considerate «normali» negli altri paesi, diventa veicolo di straordinarietà. Il progetto della linea «D» (Talenti-Eur) fu affidata da Veltroni al potente gruppo Condotte. Oggi si vorrebbe cancellare l'opera: il risarcimento per la società affidataria ammonterebbe a oltre 400 milioni. Niente male per i cantori del «non ci sono i soldi». Il prolungamento della linea «B» (Rebibbia-Casal Monastero) è stato incardinato sulla cessione di una serie di aree pubbliche: i privati attuatori finanzieranno la metropolitana costruendo su quelle stesse aree. È il modello della «cattura del valore» di quella vergognosa vicenda della Quadrilatero Umbria-Marche. A Parigi in tre anni hanno realizzato una nuova linea tranviaria con progetto, soldi e regia pubbliche. Da noi per realizzare tre chilometri di metro si svende il territorio e si alimenta la speculazione immobiliare.
Ma a chi volete che importino queste considerazioni oggettive? Viviamo nell'era del dominio mediatico e i principali quotidiani romani (Messaggero e Tempo) sono in mano a proprietari di vasti terreni da valorizzare e società che vivono anche di appalti pubblici. E questo gruppo di comando non fa sconti: avendo contribuito generosamente all'elezione di Alemanno, oggi presenta il conto. Questa tragica subalternità dei poteri pubblici verso i potentati economici svela il suo volto non solo nei casi appena narrati, ma anche nella vicenda Acea, dove Francesco Gaetano Caltagirone sta imponendo i suoi disegni anche a costo di privatizzare un'azienda costruita in decenni di giganteschi investimenti pubblici e di competenze tecniche. Così, mentre ci continuano a dire che non ci sono soldi per soddisfare l'immenso arretrato di infrastrutture e di servizi delle città, dietro al proscenio si apparecchia un lauto pranzo fatto di immensi finanziamenti pubblici che andranno nelle mani di pochi.
Ecco perché le amministrazioni pubbliche sono obbligate a percorrere la strada dei grandi eventi: le possibilità del governo quotidiano sono state ridotte al lumicino e le risorse vengono erogate a patto che la regia dell'operazione sia «fuori scena», facilmente indirizzabile verso esiti -e quadranti urbani- che interessano i soliti noti. Ripeto, questa strada rovinosa non è stata inventata da Alemannno. Non c'è soltanto il precedente rutelliano della fallita candidatura alle olimpiadi del 2004, ma identico problema si pone per tutte le città italiane. Si ottengono finanziamenti soltanto se la regia sta in mano ai Bertolasi di turno o delle tante società di scopo create in questi anni per togliere trasparenza all'azione delle pubbliche amministrazioni. È la crisi della democrazia reale. E infatti il recente incontro con le grandi star dell'architettura si è svolto senza che ci fosse la minima possibilità per la società civile di esprimersi. È una società rigidamente divisa quella che si afferma: pochi controllano ogni centro decisionale. Gli altri hanno solo il diritto di abitare in squallide periferie.
Ma proprio qui si rintraccia il punto debole dell'azione di Alemanno che non tarderà a produrre i suoi effetti. Due anni fa sono state come noto le periferie a tributare il successo del centro destra. Dopo due anni, proprio grazie al trionfo della cultura dell'evento straordinario da affidare agli eterni padroni della città eterna, nelle periferie si respira un'aria sempre più preoccupante.
Si è compreso che non solo nulla è cambiato ma che il destino di ulteriore marginalizzazione è scritto nei rapporti di sudditanza economica che nessuno osa più mettere in dubbio. Un solo esempio. A Casal Monastero estrema periferia a nord della città la precedente amministrazione aveva pensato bene di portare la qualità urbana che manca attraverso il trasferimento degli autodemolitori ubicati nell'area di Cinecittà! Quell'insensato progetto è stato confermato e verrà attuato nelle prossime settimane. Così dopo aver condannato la precedente, le periferie volteranno inevitabilmente le spalle anche a questa amministrazione.
“E certo, adesso dobbiamo andare via noi per infilarci qui i padovani!”, dice Ovidio, uno dei protagonisti del bellissimofilm documentario di Mossa e Trentin, Furriadroxus, mentre prepara i pomodori seccati da un sole che i padovani, mischineddus, non vedono mai. Non ci credeva, Ovidio, che i padovani sarebbero arrivati, sembrava impossibile a lui che non sapeva neanche “dove fosse la costa smeralda”. Invece i padovani, aiutati dai sardi, sono riusciti a portare la costa smeralda in casa sua. Continua la vita di sempre, Ovidio, coltiva pomodori con sapore di pomodoro, si occupa delle vacche e delle pecore. Ma gli si legge in faccia che è ancora vivo solo perchè è testardo. E troppo arrabbiato. E’ anche diffidente e se la prende troppo, Ovidio.
Eppure il “Resort di Capo Malfatano si inserisce con un progetto di raffinata sensibilità in un ambiente di selvaggia bellezza”, con “l’hotel a 5 stelle articolato su più edifici, la SPA, i ristoranti, il centro sportivo, le piscine, le ville con grandi giardini si adeguano al paesaggio naturale con colta semplicità, sviluppandosi al massimo su due livelli e assecondando i movimenti dolci del terreno”. Lui non ha venduto, non è voluto andare via, ma ora vede il suo orto concluso circondato da un cantiere che ha sconquassato la sua terra e devastato la “selvaggia bellezza” costruendo le prime tredici ville. E non lo consola neanche un poco pensare che “forme e materiali sono ripresi dalla tradizione e rimodellati in una modernità fondata nel tempo con eleganza e linearità minimale”. E’ ingrato, Ovidio e non ha un moto di orgoglio neanche quando gli dicono che “dal punto di vista architettonico il riferimento preminente è il furriadroxiu e comunque gli esempi degli edifici colonici del paesaggio agrario”. Sarà perchè non è mai stato in costa smeralda e non conosce il mondo, ma lui proprio non riesce a vedere nessuna affinità tra le ville con “zone living” che “si protendono verso la natura godendo di ampie vedute” e il suo furriadroxu, fatto con la terra dove è nato e che non ha alcun bisogno di “protendersi” perchè è parte della natura. E gli sfugge persino la somiglianza tra la sua vasca in pietra per abbeverare le bestie e la piscina - di cui, ovviamente, è dotata ogni villa - che “si misura con l’essenzialità del paesaggio Malfatano”.
Ma Ovidio non è solo. Anche noi abbiamo imparato ad essere diffidenti, soprattutto quando sentiamo che “la scelta dei materiali ed il progetto del verde confermano una rilettura attenta del territorio, accompagnata dalla grande attenzione al rispetto ambientale”. E allora vediamolo nel dettaglio questo vero progetto di sviluppo sostenibile, raro esempio di “complesso eco-compatibile”. Non è complicato. Prevede di riversare 150.000 metri cubi di cemento su 700 ettari di territorio assolutamente intatto, uno dei più tutelati dal Piano Paesaggistico Regionale. Il progetto è andato avanti solo perchè l’art. 15 delle norme di attuazione, purtroppo, per i comuni dotati di piano urbanistico, fa salvi gli interventi approvati e con convenzione efficace alla data di adozione dello stesso Piano Paesaggistico. Lo “spezzettamento” degli interventi - tecnica consolidata in Italia ma in contrasto con la normativa europea - ha evitato la procedura di valutazione d’impatto ambientale. Il Comune di Teulada ha fatto il resto, rilasciando i nulla osta per i singoli comparti edilizi, perchè i progetti presentati sono compatibili con i valori tutelati. Alberghi, ristoranti, piscine, ville e centro sportivo non contrastano con la “presenza di risorse e caratteristiche ambientali che includono paesaggi agropastorali e naturali ed una eredità culturale ad essi legata e rappresentata dal furriadroxius”. E si integrano perfettamente con la “permanenza del sistema insediativo rurale diffuso dei Medaus e Furriadroxius come testimonianza di un modello storico-consolidato dell’abitare”. Eppure il Piano Paesaggistico Regionale individua il più grande fattore di rischio proprio nella “vulnerabilità del patrimonio insediativo rurale dei Medaus e dei Furriadroxius, dovuto a fenomeni di abbandono o riconversione a fini turistico ricettivi incoerenti con i caratteri insediativi e paesaggistici tradizionali”. Ma questo progetto piace tanto al Consiglio comunale che ha anche approvato alcune modifiche di destinazione d’uso, autorizzando l’incremento della funzione residenziale fino al 25 per cento, nonostante Teulada abbia quasi la metà delle abitazioni - circa duemila - vuote.
Pazienza per il Sindaco che mira ad avere un paese fantasma e una popolazione formata da soli camerieri e giardinieri, ma la Soprintendenza? Come sempre, inspiegabilmente, anche per l’organo di tutela nulla osta alla costruzione: gli interessi economici, ancora una volta, possono devastare il nostro paesaggio e distruggere il patrimonio culturale in barba all’articolo 9 della Costituzione.
Si deve riconoscere che non è facile resistere ai “padovani” e ad un intervento tanto eco-compatibile da vincere addirittura il “Mattone d’Oro”. Orgogliosa promotrice del progetto è la società S.I.T.A.S. S.r.l., insieme alla Sansedoni S.p.A., ai Benetton - i grandi ambientalisti - con la società Ricerca Finanziaria, al Gruppo Toti e infine, al Gruppo Toffano di Padova. L’immancabile Mita Resort s.r.l. dei Marcegaglia gestirà i due alberghi a cinque stelle composti da 300 stanze.
Intanto, la campagna pubblicitaria è già iniziata. E i premiati distruttori, con involontaria ironia, ci comunicano che “la grande comodità che offre Capo Malfatano è di essere fuori dal mondo, in un habitat dominato dal sentore mielato delle essenze mediterranee, dal sole e dal grande orizzonte libero del mare nel magico distacco dal quotidiano occidentale più frastornante”.
Chissà se Ovidio se n’è accorto.
Maria Paola Morittu è Referente Regionale per la pianificazione territoriale di Italia Nostra, e ha frequentato tutte le sessioni della Scuola di eddyburg. Le descrizioni del progetto e degli interventi edilizi sono riprese dal sito del Gruppo Toti e da quello della Sansedoni S.p.A. dove sono visibili anche le orrende simulazioni
Estate rovente o piogge torrenziali, siccità o diluvi un po’ dappertutto. In Italia il caldo è stato soffocante per gran parte di giugno e di luglio. Ed è stato aggravato, nelle grandi città, dall’ozono troposferico, che ha impoverito l’ossigenazione dell’aria che respiriamo. Ma l’estate è stata torrida in tutta Europa, negli Stati Uniti, Cina, Russia. Sopratt ut to, e per la prima volta, in Russia, colpita da un’ondata di calore mai raggiunta nei 130 anni di registrazioni ufficiali. Gli incendi spontanei dei boschi che lambiscono anche Mosca non hanno precedenti. Altrove, invece, abbiamo avuto alluvioni devastanti, inedite soprattutto in Pakistan.
Allora, è proprio vero che il clima sta cambiando? Io credo di sì; ma di per sé il gran caldo così come i grandi freddi non costituiscono prova sufficiente di niente. Anche se una frequenza crescente di oscillazioni climatiche estreme rafforza i nostri sospetti. Ma molti governi, Italia in testa, non fanno nulla per creare un’opinione «verde» né per affrontare seriamente il problema del collasso ecologico. La crisi economica è e resta grave, ma il problema della crescente invivibilità del nostro pianeta è molto, molto più grave. Eppure da noi è fiorita soltanto l’industria dell’eolico, dei mulini a vento. Ed è fiorita quasi s ol t a nt o perché fonte di tangenti e di intrallazzi. Perché l’energia prodotta dal vento è largamente un imbroglio, visto che la nostra penisola non ha abbastanza vento per giustificarla.
Anni fa il portavoce per eccellenza, di fatto, degli interessi petroliferi e di gran parte della grande industria è stato il da-nese Bjorn Lomborg , che con il suo molto reclamizzato libro L’ambientalista scettico negava la stessa esistenza del problema ecologico e anche la crescente scarsità delle risorse energetiche e dell’acqua. Ma Lomborg ora dichiara che «il riscaldamento globale esiste, è provocato dall’uomo, e che l’uomo deve fare qualcosa per porvi rimedio». Bene. Alla buon’ora. Lomborg soggiunge, però, che «la tattica consistente nell’incutere timore, per quanto abbia buone intenzioni, non è la soluzione giusta». D’accordo. Ma quale è la soluzione giusta?
Gli scienziati che oggi studiano il clima, la rarefazione delle risorse naturali e, in ultima analisi, il problema della nostra sopravvivenza, sono migliaia. S’intende che pos-sono s bagliare . Ma l a scienza procede provando e riprovando. E noi già dis poniamo di un enorme patrimonio di dati e di conoscenze che però vengono bellamente ignorate dai più.
Il fatto è che gli esseri umani non si muovono «a freddo» guidati dalle ragioni della ragione. Gli umani si attivano «a caldo», se hanno paura o se mossi da passioni (ivi incluse la passione per il potere e per il denaro). E così la scienza ricorre, per farsi ascoltare, a proiezioni con date ravvicinate di scadenza. Ma noi siamo in grado di prevedere un percorso, dei trends, non il «quando». Dunque predire scadenze è sbagliato; ma non farlo rende la predizione inefficace. Come uscire da questo circolo vizioso? Non lo so. Ma so che la politica dello struzzo dei nostri governanti è la politica peggiore.
La recente polemica tra la Corte dei conti e la Protezione civile sulla gestione dell’emergenza a Pompei dimostra due cose: la prima è il fallimento di tutte le riforme della pubblica amministrazione degli ultimi anni; la seconda è che l’emergenza è diventata il modo ordinario per spendere soldi pubblici in deroga alla legislazione vigente. Ma andiamo con ordine. Da sempre in caso di catastrofi naturali, terremoti, inondazioni, epidemie ecc. è possibile spendere soldi pubblici per fronteggiare il pericolo immediato e per assistere e mettere al sicuro le popolazioni colpite.
È evidente che i controlli sulle spese effettuate in queste circostanze non possono che essere successivi all’effettivo impiego dei fondi che certo non può attendere i tempi lunghi della contabilità di Stato. La sostanza dell’emergenza, dunque, dal punto di vista dell’amministrazione, consiste nella deroga alle procedure ordinarie giustificata dalla straordinarietà degli eventi. Insomma accade nel pubblico quello che accade normalmente in una famiglia quando si trova a dover affrontare una malattia, un incidente, un evento imprevisto che costringa a mettere mano al portafoglio per poter fronteggiare la situazione. Ma chi decide se un evento è straordinario oppure no? Nel caso di terremoti o di altre catastrofi è del tutto intuitivo. Il problema nasce quando l’emergenza è costituita dalla necessità di realizzare un evento considerato straordinario nei tempi rapidi legati a scadenze non rinviabili. In questo caso è l’amministrazione pubblica che valuta di non essere in grado di rispettare i tempi e di raggiungere gli obiettivi con le procedure ordinarie.
Così il ricorso alle procedure derogatorie è andato via via estendendosi, di pari passo con il giudizio negativo dell’amministrazione su se stessa e sulle proprie capacità. Ecco la spiegazione del primo punto. Le riforme della Pubblica amministrazione degli ultimi anni tra cui le famose leggi Bassanini - che, come affermato dallo stesso autore, furono concordate parola per parola con Franco Frattini, già Consigliere di Stato ed esperto di riferimento di Forza Italia - non hanno affatto restituito efficienza ed efficacia all’azione amministrativa ordinaria. Tanto che gli eventi affidati all’amministrazione straordinaria sono andati col tempo aumentando di numero e di importanza fino a ricomprendere una regata velica internazionale, i mondiali di nuoto o una visita del Papa, cioè eventi che in altri tempi sarebbero stati normalmente affidati alle amministrazioni pubbliche competenti per materia e territorio.
Ma l’estensione del giudizio negativo dell’amministrazione su se stessa è andata al di là di ogni immaginazione comprendendo situazioni di grave degrado, di incuria e di abbandono provocate dall’inefficienza della stessa amministrazione. È così che nasce il caso di Pompei dove la Pubblica amministrazione, nonostante le numerose riforme, non è stata in grado di proteggere e valorizzare ed offrire in condizioni decenti agli italiani e ai turisti di ogni parte del mondo uno dei siti archeologici più importanti e più visitati del pianeta. Lo strumento cardine della legislazione sulla Protezione civile è quello della deroga alla legislazione ordinaria che restituisce efficacia e rapidità alla spesa pubblica.
Ma se si autorizza la Protezione civile a intervenire con procedure straordinarie anche per porre rimedio ai disastri provocati dall’inefficienza di un altro ramo della stessa pubblica amministrazione, quale sarà il prezzo finale che il Paese dovrà pagare all’incapacità di realizzare una seria riforma della macchina burocratica?
Ecomostri
Salento da salvare
di Stefano Miliani
Un’autostrada che fa tabula rasa di olivi secolari per 5 minuti di meno. 7 chilometri rovineranno il “Tacco d’Italia”
Muretti a secco in pietra su zolle dure, olivi antichi ed enormi, un territorio di lieve ondulazione dove l’odore de mare e della terra si confondono e si compenetrano, dove i paesi in cui d’estate e a Natale torna chi è andato altrove, sono collegati da un reticolo di strade e stradine. L’immaginario un po’ da cartolina eppure non lontano dalla realtà assegna questo scenario al «Tacco d’Italia»: a quel Salento che da un po’ di anni s’è conquistato una reputazione da meta paesaggisticavacanziera grazie a più varianti (umane, non urbanistiche): da un lato un risveglio culturale maturato intorno alla riscoperta della «pizzica» e delle tradizioni con i suoi addentellati culturalturistici, dall’altro grazie a un territorio parzialmente ben conservato e comunque, laddove non ferito, unico (e che ha peraltro affascinato più registi). Salvo mutamenti (non inversioni) di rotta, però, il paesaggio ultimo salentino verrà ferito gravemente da un’autostrada con un viadotto sproporzionato e una rotonda stradale a dir poco troppo invadente.
Un progetto, in origine pensato per comprensibili ragioni di sicurezza stradale lungo un tragitto segnato da troppi incidenti, raddoppia la statale 275 (la strada che porta da Lecce all’estrema punta del «Tacco»), nel tratto a sud di Maglie alle porte di Santa Maria di Leuca. Per l’ultimo tratto il piano ha incontrato forti contestazioni e diviso gli animi. Il Tar ha bocciato gli ultimi ricorsi del Comune di Alessano e di associazioni ambientaliste. Salvo copertura dei finanziamenti incompleta l’Anas avvierà i lavori nel 2011.
E mentre sul sito www.sos275.it l’omonimo comitato raccoglie firme per una petizione popolare, lotta per soluzioni più compatibili Luigi Nicolardi, sindaco di Alessano, paesino 11 chilometri a nord di Santa Maria di Leuca. Architetto, 50 anni, descrive allarmato lo scenario prossimo venturo: «I nuovi 7 chilometri dell’ultimo tratto dall’intersezione con la provinciale 210 a Santa Maria di Leuca taglieranno in due l’ultima propaggine delle serre salentine. Per realizzarli costruiranno un viadotto lungo 500 metri con 13 coppie di piloni alti 12 metri: avrà bisogno di essere preceduto e seguito da due terrapieni di altri 500 metri ciascuno, creando alla fine una piccola montagna larga 30 metri e lunga un chilometro e mezzo.
Non bastasse questo scempio, per collegare la nuova autostrada a 4 corsie con la 274, che porta a Gallipoli, costruiranno una rotatoria immensa che creerà una sorta di terra di nessuno e in un’area di alto valore archeologico. Tutto questo per 7 chilometri. Realizzate le 4 corsie, si risparmieranno 5 minuti». A quale prezzo? Almeno un centinaio di milioni di euro, indica Nicolardi, forse qualcosa di più. E con effetti paradossali, segnala l’architettosindaco in carica dal 2001 e che nel 2011 lascerà: «Per arrivare a Santa Maria di Leuca avremo 16 corsie: le 2 dell’attuale 275, le 2 della Jonica (la 274), le 2 della litoranea da Otranto, le strade e stradine di penetrazione intercomunali, infine le nuove 4». Sedici corsie, utili per una città media.
Il progetto approvato nel marzo 2006 è nato in casa del centrodestra, il Pdl locale lo difende e attacca Nicolardi, in realtà non ha un’etichetta politica univoca e spacca le popolazioni, come dividerà le serre salentine, perché la 275 è chiamata anche la strada della morte per i suoi incidenti fatali. «La verità è che questi 7 chilometri di autostrada devasteranno il territorio. Ma abbiamo bisogno di una vera stradaparco che, invece di avere svincoli e quel viadotto, sia “a raso”, cioè a livello del terreno, abbia 2 corsie e piste ciclabili. Abbiamo la controproposta concreta, non siamo per il no integrale, siamo per una modifica. La sicurezza stradale è essenziale, ma uccide soprattutto la velocità, e se ora distruggiamo il territorio, diamo anche un colpo mortale al turismo». A riprova ricorda che il primo tratto dell’autostrada, da Scorrano a Montesano, non ha incontrato proteste. Attraversa un territorio già urbanizzato e con industrie, dal traffico pesante: allarga quanto già esiste. È nuovo invece il tratto da Montesano a Santa Maria di Leuca.
Chi lo difende teme anche di perdere finanziamenti. Non sono spiccioli: l’ex governatore Fitto il 31 luglio 2009 aveva fatto fare una delibera al Cipe il Comitato interministeriale per la programmazione economica da 135 milioni, cui ne ha aggiunti 152 la Regione Puglia portando l’intero appalto a quasi 288 milioni. Già, la Regione non può tirarsi fuori. La giunta Vendola è contraria? «Sì, ricorreremo al Consiglio di Stato risponde l’assessore regionale ai trasporti Guglielmino Minervini . Quest’opera, nata male e gestita peggio, è figlia del suo tempo. Come Regione, insieme a Vendola abbiamo cercato di mitigare l’impatto ambientale per la fragilità del territorio formalizzando delle prescrizioni all’Anas, che l’Anas non ha considerato. Il 6 agosto abbiamo rispedito loro una proposta per un tavolo tecnico. Per noi i margini per migliorare il progetto ci sono, la matassa è aggrovigliata, se non si vuole pregiudicare la disponibilità finanziaria, dobbiamo cogliere questa opportunità nata con una filosofia sbagliata». Una filosofia, anzi un’ideologia del costruire ovunque che in Italia ha fatto danni inestimabili, ai paesaggi e a chi ci vive, e che ferirà gravemente il lembo finale delle ineguagliabili serre salentine.
La bellezza della Puglia vale meno del cemento?
di Beppe Sebaste
Se i cittadini si rendessero conto della loro fame di bellezza ha scritto lo psicologo James Hillman ci sarebbe ribellione per le strade». Ma c’è un partito trasversale del cemento che della politica e dell’economia della bellezza, nella sua miopia o cecità, proprio non si cura. È un tema ovunque attuale, ma ora riguarda la meravigliosa bellezza del Salento, in particolare le cosiddette Serre salentine che da Specchia si avvicinano al capo di Leuca, la terra dei due mari. Il progetto di superstrada già finanziato dal governo (come fu per la ridicola metropolitana a Parma, poi abbandonata), in nome di un’inutile velocità disprezza e rischia di devastare un territorio, già amato dai turisti, che aspetta solo di essere valorizzato per quello che già è, senza abbellimenti né soprattutto omologarsi a modelli importati.
Cammino nell’ultima propaggine delle serre salentine, tra olivi secolari, lecci, macchia mediterranea, piante di mirto e carrubo; costeggio muretti a secco, pietre che cantano e testimoniano una cultura millenaria sedimentata in una placida e laboriosa bellezza, come la terra rossiccia sotto i piedi. Cammino sotto il cielo azzurro sui sentieri di campagna tra Alessano, San Dana e Gagliano del Capo alla mia destra la morbida collina in cui sorgeva un villaggio messapico, e oggi lo stupendo borgo di Montesardo.
Percorro il tragitto virtuale di quell’ultimo pezzo di superstrada che violenterà questa bellezza, e sento angosciosamente incombere sulla testa il peso virtuale del viadotto, 26 piloni di cemento per 12 metri di altezza, più 1 km di terrapieno che cancellerebbe, oltre a tremila alberi di ulivo, l’identità di questo paesaggio. Che cancellerebbe la ragione stessa per cui io e tanti altri ci troviamo qui, in Salento, turisti e amatori, in una terra stupenda la cui identità è inseparabile dal valore della lentezza. È qui che la regione Puglia, il Comune di Alessano e l’Università del Salento hanno realizzato un «Ecomuseo del Paesaggio», valorizzando i caratteri identitari del territorio col recupero di memorie orali, la Storia e le storie, insieme a visioni, odori, sapori.
A che vale arrivare 5 minuti prima a Santa Maria di Leuca, spendendo 100 milioni di euro per 7 devastanti chilometri? Ci pensino, il partito del cemento e i suoi padrini. Abbiamo smarrito la percezione e la consapevolezza dei luoghi, delle pietre, degli alberi, della terra stessa su cui stiamo camminando.
Belle immagini dei paesaggi salentini le trovate sui siti di Bruno Vaglio, di terrarossa, e cercando su Goggle.
E’ venuta l’ora di analizzare la morte di quella che è stata chiamata, in gran fretta e proditoriamente, Seconda Repubblica. Doveva essere qualcosa che somigliava alla quinta repubblica di De Gaulle, inaugurata alla fine degli Anni 50: un sistema che restituisse alla politica la nobiltà, lo sguardo lungo, l’efficacia che il predominio di fazioni e partiti le aveva tolto. Doveva, partendo dalla simultanea svolta avvenuta a Nord con Mani Pulite e a Sud con l’offensiva contro la mafia di Falcone e Borsellino, rigenerare un ceto politico corrotto da anni di democrazia senza alternanza, di poteri paralleli e illegali. Le forze che dopo il ’45 avevano ricostruito il Paese gli avevano dato una Costituzione vigile sulla democrazia, ma antichi mali, non curati, si erano incancreniti: il rapporto degli italiani e dei politici con lo Stato in primo luogo, e la maleducazione civile, lo sprezzo della legalità, del bene comune. Tutti questi mali sopravvissero alla Prima Repubblica, e per questo anche la seconda sta morendo.
Quel che mancò, nei primi Anni ’90, fu la rigenerazione delle classi dirigenti. La politica abdicò, accettò di farsi screditare, e forze estranee ad essa se ne appropriarono. Furono queste ultime ad annunciare l’avvento del Nuovo: nuovi uomini, non prigionieri dei vecchi partiti; nuova attitudine manageriale al comando; nuova fermezza nel decidere. La Seconda Repubblica è stata innanzitutto un sistema di dominio il cui scopo era di radicare quest’immagine del potere nelle menti di italiani stanchi di lungaggini, assetati di efficacia. Altri obiettivi non esistevano, se non la libertà del leader da ogni vincolo. Il conflitto d’interessi non era un ostacolo: sanciva tale libertà. Ovvio che la rigenerazione dello Stato e della legalità divenne non solo impossibile ma esecrata. Mani Pulite e Falcone-Borsellino erano escrescenze di una Prima Repubblica caduta per motivi che restando arcani non insegnavano nulla se non più furbizia e più menzogne.
I dati lo confermarono presto, dopo Tangentopoli: la corruzione non solo era ripresa, ma s’era inasprita fino ad assumere, oggi, proporzioni enormi. L’impunità dei dirigenti s’estese. L’informazione televisiva, ieri lottizzata, è ora monopolizzata da una persona. La Seconda Repubblica era nata, ma affatto diversa dal racconto che se ne faceva. Ha dato vita al bipolarismo, ma un bipolarismo tra due concezioni dello Stato e della legge, non fra due politiche. In sedici anni ha creato un sistema che salvaguarda i difetti del regime precedente, distruggendo le forze e gli anticorpi che nonostante tutto esso ancora possedeva. Non c’è dunque una sola Seconda Repubblica. Ce n’è una cui tendevano i veri riformatori. E ce n’è un’altra, effettiva, che usurpando il linguaggio dei riformatori ha installato un regime che confonde la crisi della politica con l’inutilità della politica, e mette il potere esecutivo al riparo da ogni controllo. Che non ha corretto nulla se non l’immagine del leader, e l’uso democratico di frenare il potere eccessivo con altri poteri.
Questa Seconda Repubblica non è falsa a causa del predominio di una persona (Berlusconi). È falsa perché ha dato agli italiani, contemporaneamente, un uomo forte e uno Stato disarticolato, con poteri di controllo indeboliti se non neutralizzati. Per poteri di controllo s’intende la magistratura, la stampa indipendente, il Capo dello Stato che incarna il legame con la Costituzione, la Costituzione stessa. Quando si parla di regime non si parla di un uomo, ma di questa ben organizzata disarticolazione.
Gli italiani hanno avuto quel che non chiedevano. Non la politica rinobilitata, ma il suo discredito. Non una giustizia più rapida, ma una giustizia celere con i deboli, impotente e interminabile con i forti: una giustizia giudicata usurpatrice se giudica i potenti, come usurpatrice è giudicata la stampa indipendente. La Prima Repubblica aveva anticorpi che l’affossarono; la Seconda forse ne ha ma di meno, sicché neppure ricorre all’ipocrisia: Berlusconi non esita a rompere con Fini che chiede il rispetto della legalità, non esita a definire golpista il potere del Quirinale di sciogliere il Parlamento. L’interiorizzazione dell’illegalità non potrebbe essere più esplicita e impudente.
Tuttavia anche la Seconda Repubblica sta morendo. Perché non c’è leader che alla lunga possa vivere d’immagine, senza esserlo. Perché non basta inoculare nelle menti lo sprezzo della politica, per aggiustarla. Quando Berlusconi incolpa il «teatrino della politica», sa di che parla perché tutto in lui è teatrale. Hannah Arendt spiega bene come simili teatranti si adoperino a «defattualizzare la realtà» (memorabile il saggio sulla guerra in Vietnam, New York Review of Books 18-11-’71). Un «enorme sforzo fu dispiegato», scrisse quando i Pentagon Papers rivelarono l’inutile disastro della guerra, per «dimostrare l’impotenza della grandezza». Egualmente impotente è la grandezza del Premier italiano: proprio come leader ha fallito, incapace di tener unite la ampie maggioranze di cui disponeva.
Se si vuole analizzare la fine della Seconda Repubblica, bisogna fare quel che non si è fatto: capire perché la Prima cadde, e come. Riconoscere i mali che sopravvissero nella Seconda, e anche certe virtù che nella distruzione vennero spazzate via. La Prima Repubblica infatti non fu solo storia criminale. Fu anche partecipazione all’Unione europea. Fu la tendenza ad aggirare magari la Costituzione, non a demolirla. Fu Mani Pulite e l’opera di Falcone e Borsellino. Fu l’incorruttibile lealtà istituzionale di Vincenzo Bianchi, il generale della Guardia di Finanza morto l’altro ieri a Civitavecchia: nell’81, su incarico dei magistrati Turone e Colombo, l’allora colonnello scoprì a Castiglion Fibocchi, una fabbrica di Gelli, la lista dei 972 affiliati alla P-2. Fu, infine, la capacità di resistere alla grave sfida delle Br. Basti pensare al ruolo decisivo che i pentiti svolsero nell’anti-terrorismo, al colpo mortale inferto dalle prime deposizioni di Patrizio Peci nell’80. Il giudice Giancarlo Caselli ricorda, nel libro scritto con il figlio Stefano (Le Due Guerre, 2009), gli esordi della Seconda Repubblica, quella raccontata come nuova: come prima cosa, nella lotta alla mafia e ai suoi legami con la politica, vengono mozzati l’uso e la protezione dei pentiti. Meritevole non è più chi parla ma chi omertosamente tace, come Mangano.
Rimeditare la fine della Prima Repubblica significa svelare la vera natura della Seconda. Non è detto che si riesca, tanto vasta è la manipolazione, lo spin di chi guida il regime. Tutti ne sono prigionieri: anche la stampa, quando accetta di mettere sullo stesso piano le vicende monegasche di Fini e quelle di Berlusconi e dei suoi. Quando denuncia la politica fatta a colpi di dossier sui mali altrui. Il risultato, lo spiega Michele Brambilla su La Stampa, è di «attribuire a ciascuna vicenda un valore equivalente a tutte le altre». È una trappola in cui Fini, che ha rotto sulla legalità, rischia di cadere. Da giorni, i suoi uomini invocano una tregua, e tanti reclamano la fine di «contrapposizioni dannose»: se Berlusconi con i suoi giornali smette gli attacchi al presidente della Camera, anche i finiani smetteranno l’offensiva su illegalità e corruzione. La rottura non servirebbe ad altro che a rendere gli scandali tutti eguali: la vendita di una casa di An e la corruzione di magistrati, l’uso privato del denaro pubblico, il monopolio televisivo. La tregua, presentata come progresso, sarebbe il fallimento del Presidente della Camera, non di Berlusconi. Non la casa a Montecarlo rischia di squalificare Fini, ma la rinuncia alla battaglia sulla legalità, e a una Repubblica che cessi di definirsi nuova solo perché viene «defattualizzata» e abusivamente chiamata Seconda.