L’iniziativa è del Times di Londra. Si chiama "Città sicure per i ciclisti" e sulla rete impazza e si moltiplica come #salvaciclisti. Abbiamo deciso di sposarla e di rilanciarla perché ci sembra perfettamente in linea con lo spirito e la tradizione del nostro giornale e perché quattro mesi fa, il nostro collega Pier Luigi Todisco è morto a Milano, mentre veniva al giornale in bicicletta...
NEL NOME DI TOD — Qui sotto trovate gli 8 punti dell’appello che il Times ha lanciato all’amministrazione comunale londinese perché si organizzi al più presto con una serie di regole che rendano meno rischiose le città. Il quotidiano inglese lo ha fatto perché a novembre la giornalista Mary Bowers, 27 anni, è stata investita a pochi metri dalla redazione ed è ancora in coma. L’incidente è tutt’altro che raro visto che 1.275 ciclisti inglesi sono stato uccisi e oltre 25.000 severamente feriti sulle strade inglesi negli ultimi 10 anni. I dati italiani non sono migliori, visto che negli ultimi dieci anni i morti in bicicletta sarebbero 2.556. Tra questi, purtroppo c’è anche Pier Luigi Todisco, che aveva 52 anni, il nostro collega che lavorava nella redazione di Gazzetta.it. Tra qualche giorno, proprio sul nostro sito web nascerà un blog che tratterà i temi che erano più cari al nostro amico e collega, valorizzando le iniziative a favore degli ultimi.
ROSA E CICLISMO — La Gazzetta, fin dalla nascita nel 1896, si occupa con particolare attenzione di ciclismo e di gente che pedala. Siamo gli organizzatori delle più importanti corse italiane e sappiamo benissimo quanti e quali sono i pericoli delle strada. E’ ancora aperta la nostra ferita per la perdita di Wouter Weylandt. il venticinquenne olandese morto accidentalmente per una caduta in discesa durante il Giro. Da sempre ci battiamo per la realizzazione di piste ciclabili, per l’uso del casco, ma anche per il rispetto di chi pedala. Pensiamo ai corridori professionisti, ai cicloamatori della domenica e chi usa la bici per andare a scuola o per andare a lavorare. E sono sempre di più. Per tutti questi motivi abbiamo deciso di far nostro il Manifesto del Times "Città sicure per i ciclisti". E al nostro fianco c’è anche Rcs Sport che organizza il Giro d’Italia e ha deciso di essere in prima fila per questa campagna. Da oggi chiederemo ai più grandi campioni del nostro ciclismo, ma anche a tutti voi che ci leggete e avete a cuore questi argomenti, di firmare idealmente l’appello mandando un messaggio (dal pomeriggio) all’indirizzo mail salvaciclismo@gazzetta.it. E noi ci impegniamo a consegnare l’appello dei campioni che vorranno aderire e le vostre firme al governo e ai sindaci delle più importanti città italiane.
L'APPELLO — Ecco gli 8 punti dell’appello, che noi della Gazzetta e del Giro d’Italia sosteniamo.
1) Gli autoarticolati che entrano in un centro urbano devono, per legge, essere dotati di sensori, allarmi sonori che segnalino la svolta, specchi supplementari e barre di sicurezza che evitino ai ciclisti di finire sotto le ruote.
2) Gli incroci più pericolosi devono essere individuati, ripensati e dotati di semafori per i ciclisti e di specchi che permettano ai camionisti di vedere sul lato.
3) Indagine nazionale per determinare quanti vanno in bici e quanti vengono uccisi o feriti.
4) Il 2% del budget dell’ANAS dovrà essere destinato al piste ciclabili di nuova generazione.
5) Migliorare la formazione di ciclisti e autisti e la sicurezza dei ciclisti come parte fondamentale dei test di guida.
6) Limite di velocità massima nelle aree residenziali sprovviste di piste ciclabili a 30 km/h.
7) Invitare i privati a sponsorizzare la creare piste ciclabili e superstrade ciclabili prendendo ad esempio lo schema di noleggio bici londinese sponsorizzato.
8) Ogni città nomini un commissario alla ciclabilità per promuovere le riforme.
postilla
Forse inavvertitamente, forse consapevolmente (chissà) la Rosea Gazzetta importa in Italia una pur condivisibile campagna sulla sicurezza, che però non è certo “la campagna”, ma quella specifica del londinese Times, ispirata a quel tipo di cultura ciclistica che si è imposto nella capitale britannica dopo la vittoria del conservatore e appassionato di bicicletta Boris Johnson alle elezioni locali. Un orientamento senza dubbio meritevole perché appunto promuove misure favorevoli alla mobilità dolce e sostenibile, ma lo fa in una prospettiva non del tutto condivisibile, a carattere “segregazionista” ovvero anche attraverso le cosiddette autostrade ciclabili. Che, come hanno da tempo denunciato molti esperti, è in pratica una versione moderna e ambientalmente corretta della vecchia filosofia portante dell’era automobilistica: qui i veicoli veloci, lì quelli lenti, di là di sotto e di sopra pedoni e ciclisti. Il che, oltre a comportare investimenti in infrastrutture che spesso alla fin fine sono assai poco sostenibili in tutti i sensi, crea tendenzialmente universi paralleli e incomunicanti, ghetti felici per appassionati di settore. E non certo una città integrata, come quella faticosamente promossa dalla cultura degli spazi condivisi, dove invece di nasconderli sotto il tappeto della corsia riservata i problemi almeno si affrontano. Per la soluzione poi, vedremo (f.b.)
Bloccata, sbloccata, ora di nuovo ferma. Questa volta a opera dei giudici del Tar del Lazio. Ora il 14 febbraio il Consiglio di Stato dovrà pronunciarsi di nuovo sulla sospensiva ai lavori. E non è finita. Celotto, del Movimento 5 Stelle accusa: "Un grande pasticcio"
Bloccata, sbloccata, ora di nuovo ferma. Per la Pedemontana veneta arriva un nuovo stop. Ancora dal Tar del Lazio: i giudici amministrativi, con una sentenza depositata a inizio febbraio hanno messo di nuovo in pausa l’iter della superstrada a pagamento che dovrebbe collegare Spresiano, in provincia di Treviso, a Montecchio Maggiore, in provincia di Vicenza. Lo hanno fatto accogliendo il ricorso del sindaco di uno dei comuni interessati, quello di Villaverla, provincia di Vicenza: il primo cittadino aveva fatto ricorso per l’annullamento degli atti di governo e commissariali dell’intero iter amministrativo e i togati gli hanno dato ragione.
Il decreto del 31 luglio 2009 del presidente del Consiglio dei Ministri, governo Berlusconi, per “la dichiarazione di stato di emergenza traffico e mobilità nei territori dei Comuni di Treviso e Vicenza” che aveva dato la stura all’opera e alla sua gestione commissariale, dicono, è illegittima. La stessa conclusione a cui erano già arrivati a inizio gennaio esaminando un altro ricorso, presentato da un privato cittadino: allora il presidente della Regione Veneto aveva parlato di “eccesso di democrazia”. Sentenza che tuttavia a metà del mese era stata ribaltata dal Consiglio di Stato, a cui la Regione aveva fatto immediatamente ricorso. Ora tutto da rifare per questo progetto particolarmente caro al governatore Luca Zaia e agli imprenditori veneti.
L’iter del serpentone di cemento da 92 chilometri (di cui 50 in trincea), un’opera da 2 miliardi e oltre di euro che dovrebbe unire i due rami delle autostrade A4 e A 27 è a dir poco tormentato. Gli imprenditori la vorrebbero perché sperano che serva da volano per implementare l’economia dell’area e per l’indotto che creerebbe, comitati e cittadini la contestano dicendo che si tratta di un’opera inutile e anche dannosa, l’esecutivo Berlusconi con la consueta passione per le procedure di emergenza aveva tolto la competenza al Cipe e la aveva affidata al commissario straordinario. E ora si passa da un ricorso all’altro.
“E’ un vero pasticcio – spiega al Fattoquotidiano.it Francesco Celotto, del Movimento 5 Stelle Veneto, uno dei rappresentanti del Coordinamento pedemontana alternativa – e il 14 febbraio il Consiglio di Stato dovrà dare il giudizio di merito sulla sospensiva dei lavori. Poi ci sono altri ricorsi che devono arrivare a giudizio. Questa sentenza del Tar comunque conferma ancora una volta quello che diciamo da tempo: che bisogna resistere alla cementificazione, a un’opera che riteniamo nociva e inutile a quel “Metodo Chisso” che alla fine penalizza la collettività a favore dei privati”.
Celotto si riferisce a Renato Chisso, potente assessore alla mobilità della Regione Veneto. Il project financing con cui dovrebbe essere realizzata la mastodontica opera, denunciano i comitati, è fatto di clausole capestro che alla fine andranno a penalizzare i conti pubblici. I vari ricorrenti chiedono l’accesso agli atti da tempo, ma, dicono, il Commissario e la Regione non ce li fanno vedere.
A Bassano del Grappa ci sarà un’assemblea pubblica per discutere la vicenda. La vicenda, nonostante la rilevanza, per ora sembra rimanere gestita a livello regionale. C’è però chi dice che dell’affare Pedemontana Luca Zaia abbia cominciato a parlare anche a Mario Monti, nell’incontro che ha avuto con lui poco prima che il presidente del Consiglio partisse per gli Stati Uniti.
Titolo originale: Breaking the urban bottleneck - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
La Cina deve risolvere il problema dei lavoratori migranti aiutandoli il più possibile a diventare cittadini regolari e permanenti. Secondo i dati 2011 dell’Ufficio Censimento la popolazione urbana del paese ha raggiunto il 51,7% di quella totale, superando quella rurale per la prima volta nella storia. Si tratta di un passaggio critico per l’urbanizzazione cinese. Da ora in poi è necessario promuovere anche la qualità, e non solo la quantità, di questo processo. A tale scopo occorre concentrarsi sul trasformare gli ex contadini in cittadini a tutti gli effetti, non solo lasciarli andare nelle città. La grossa sfida è rappresentata dai lavoratori migranti, che hanno raggiunto la quantità di ben 242 milioni e ancora crescono. Sono loro la forza che ha reso possibile l’urbanizzazione: una recente indagine dimostra che hanno contribuito per il 34% a Pechino, per il 30% a Shanghai, in settori come le costruzioni.
Ma nonostante le città siano state costruite sul sudore del loro lavoro, queste persone non sono davvero formalmente cittadini, lì dove operano. Ciò perché lo hukou, permesso di residenza permanente, risulta registrato altrove. Abbiamo ascoltato sin troppe storie di migranti discriminati su questa questione della residenza urbana, e non devono accadere più. Solo per fare alcuni esempi di servizi base da cui sono in tutto o in parte esclusi: istruzione dell’obbligo, assistenza pensionistica, assicurazione sanitaria, salario minimo, case popolari. Una discriminazione che già allarga il divario fra migranti e cittadini, e che ha determinato disordini di massa in alcune province, come a Guangdong. Gli amministratori devono intervenire su questo problema anche per impedire il ripetersi in futuro di indicenti del genere.
La discriminazione non è solo un’ingiustizia sociale, ma anche un ostacolo alla stessa urbanizzazione, dato che rallenta gravemente la domanda interna diminuendo la capacità di consumo dei lavoratori migranti. Uno studio del 2010 mostra come il coefficiente di Engel – percentuale della spesa familiare alimentare sul totale – dei migranti supera il 50%, il che restringe sia la disponibilità che la possibilità di consumo, limitando così la domanda interna. Quindi se vogliamo incrementare l’urbanizzazione dobbiamo risolvere il problema dei migranti, facendoli diventare pienamente cittadini dei luoghi in cui abitano, con accesso a servizi e diritti.
Il governo centrale si è occupato di questo problema nella Conferenza per il Lavoro e l’Economia del 2011. Nel documento conclusivo, si afferma che i lavoratori migranti diventeranno gradualmente residenti urbani, risolvendo così le difficoltà per istruzione, casa, salute. Un intervento adeguato, che potrebbe ridurre le distanze fra abitanti delle città e delle campagne. In realtà molte amministrazioni regionali già hanno preso provvedimenti per fornire a queste fasce di popolazione alcuni servizi. Ad esempio in alcune circoscrizioni delle province di Guangdong e Zhejiang, o Shanghai, c’è l’assicurazione, come per i cittadini regolari. In certe città come Nantong, provincia Jiangsu, si è provato con le case popolari. Ma per affrontare complessivamente il sistema hukou, va riformata la divisione cinese fra città e campagna, superati squilibri e diseguaglianze. Però localmente non si possono fare grossi progressi perché lo hukou dipende dal governo centrale. Che ha toccato il problema nel 2009 e poi nel 2011, ma occorre fare di più per le riforme.
Intervenendo sullo squilibrio, le città devono cambiare altre politiche discriminatorie fra cittadini e migranti. La cosa più importante è di garantire ai figli di questi ultimi occasioni per studiare, evitando che lo squilibrio diventi ereditario tra le generazioni. Certo trasformare gli ex contadini in veri cittadini necessità di un enorme programma a coinvolgere decine di milioni di persone, cosa che non può essere fatta in pochissimo tempo. Occorre agire gradualmente, dando priorità agli aspetti più urgenti. Le metropoli come Pechino o Shanghai già hanno una popolazione molto numerosa, quindi sarà importante orientare flussi verso le città piccole e medie. Ma perché in Cina il processo di urbanizzazione proceda senza intoppi lo Stato deve mantenere la sua promessa di trasformare i migranti in cittadini a tutti gli effetti.
L’Italia è tra i Paesi industriali dove la concentrazione della ricchezza, le diseguaglianze sociali, la mobilità geografica e l’immobilità sociale sono ai livelli massimi. Milioni vivono questa realtà sulla loro pelle, molti la conoscono, tranne, sembra, alcuni professori molto bravi nei rispettivi campi. Solo in Italia, il 45% della ricchezza privata è posseduta dal 10% delle famiglie mentre il 50% possiede meno del 10%, un amministratore delegato come Marchionne può arrivare a guadagnare 500 volte il suo operaio (il prof. Valletta, capo della Fiat negli anni Sessanta guadagnava 50 volte il suo operaio), il legame tra i redditi di papà e quelli del figlio è così stretto che quasi metà dei figli dei professionisti, avvocati, architetti, medici, hanno successo nella stessa professione del padre mentre meno del 10% dei figli di operai ha speranza di fare un salto di classe (dati Censis), dal 1990 al 2005 il passaggio dal Sud al Nord ha coinvolto 2 milioni di persone, di cui la metà diplomati e laureati, mobilità record nell’eurozona.
Luigi Einaudi ricordava che «per governare occorre anzitutto conoscere». A sentire le uscite di alcuni nostri ministri sui giovani descritti come bamboccioni, mammoni o sfigati, c’è da dubitare sulle loro conoscenze. Proprio ieri il Censis ha illustrato i risultati di una ricerca sulla «mobilità sociale», partendo dai dati Istat sull’istruzione e le professioni: «Rispetto alle generazioni precedenti oggi c’è un blocco nel passaggio da un livello sociale ad un altro». A distanza di anni sembra di sentire le parole di un altro grande, Achille Campanile, secondo cui «nascere povero in Italia equivale ad una condanna ai lavori forzati a vita».
Purtroppo la situazione sembra peggiorata negli anni. Perché le diseguaglianze sociali sono aumentate dai tempi di Campanile, come testimoniano tutti i dati, da Eurostat ad Ocse, che mostrano l’Italia seconda per diseguaglianza in Europa solo alla Grecia patria di evasori fiscali e alla Gran Bretagna impoverita dalle politiche liberiste e classiste della Thatcher. L’indice di Gini misura le diseguaglianze di reddito tra ricchi e poveri, con valori che vanno da zero, perfetta eguaglianza di redditi tra le persone, ed uno, massima diseguaglianza di reddito. Tutti i Paesi con indice di Gini inferiore a 0,3 sono a minor diseguaglianza sociale e si dà il caso che questi siano anche i Paesi che meglio di altri stanno superando la crisi occidentale.
I principali Paesi europei ad alta eguaglianza sociale, con indice di Gini inferiore a 0,3 sono Germania, Francia, Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia e questi Paesi sono anche quelli che hanno salari più alti, sindacati forti, lavoro tutelato, sono attrattivi di investimenti esteri e sono diventati anche tra i più ricchi per reddito procapite. Oggi che si comincia a parlare anche di crescita, spero che i nostri professoriministri, oltre a fare bene i loro compiti settoriali, sappiano essere più attenti ai dati generali, su mobilità geografica e sociale, diseguaglianze, etc., tutti dati che in Italia confliggono con le caratteristiche della società della conoscenza centrata sulla risorsa umana, la sua formazione continua e i suoi diritti. Altro che andare lancia in resta contro l’art. 18, «che impedirebbe gli investimenti esteri». Il Paese europeo con i salari più alti e i diritti sindacali più rigorosi, la Svezia, ha il record europeo ed occidentale degli investimenti diretti esteri in entrata, sino al 30% degli investimenti fissi contro il nostro 2%. L’augurio che facciamo ai professori che ci governano è che ricordino sempre le parole di Luigi Einaudi sull’importanza di «conoscere per governare», risparmiandoci uscite politicamente improvvide e tecnicamente sbagliate.
Contrarie, ovviamente, alla loro abolizione totale, le Province italiane vanno al contrattacco con un testo che stabilisce l'autoriduzione da 108 a 60. È la proposta di legge lanciata ieri dall'associazione che le rappresenta, l'Upi, e che prevede anche l'istituzione di aree metropolitane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari e Reggio Calabria) così come previsto dalle legge delega sul Federalismo fiscale, l'accorpamento degli enti territoriali dello Stato (come provveditorati e prefetture), oltre alla cancellazione di enti, agenzie e consorzi con la ridefinizione precisa delle funzioni, evitando sovrapposizioni. Il tutto da realizzare al massimo in un anno, con un risparmio di 5 miliardi di euro contro quanto previsto dal governo nella relazione che accompagna «i commi 14-21 dell'art.23 del decreto "Salva Italia" di 65 milioni di euro».
La «controproposta» dell'Upi, presentata dal presidente Giuseppe Castiglione insieme a cinque presidenti di Provincia (Napoli, Venezia, Firenze, Bologna e Torino), entro 90 giorni dovrà essere elaborata dalla Commissione paritetica governo-regioni-enti locali. Ma sarà anche posta all'attenzione dei gruppi parlamentari perché trovino la strada per portarla avanti. «Questa nostra proposta — ha detto Castiglione — è stata pensata nel rispetto del dettato costituzionale e a legislatura vigente. Noi vogliamo che l'assetto del territorio sia più efficiente e comporti un risparmio vero. Per questi motivi crediamo che il governo non possa ignorarla».
«Dobbiamo dire basta alla miriade di enti che costituiscono il vero costo della politica — ha detto Antonio Saitta, vice presidente dell'Upi e presidente della provincia di Torino — affidando alle Province funzioni che possono sostenere. Molti di questi enti sono sorti per esigenze di consenso delle forze politiche e ormai non hanno ragione d'essere. Bisogna anche giungere a una riforma dello Stato».
L’Edilizia privata dà il parere in sette giorni. «Il tetto degli anni Venti, si può demolire». Manca l’ok della Soprintendenza
Via libera alla terrazza sul tetto del Fontego in tempo di record. Decisione che farà discutere, quella del Comune. Gli uffici dell’Edilizia privata hanno completato in tempi rapidissimi – meno di una settimana – l’istruttoria sulla pratica del Fontego dei Tedeschi. L’indicazione dell’amministrazione è quella di concedere le autorizzazioni in deroga alla normativa vigente [nostro corsivo – n.d.r.]. Non soltanto per il cambio d’uso da pubblico a commerciale, ma anche per le nuove strutture interne richieste da Edizione Property, la Finanziara di Benetton, e messe in progetto dall’archistar olandese Rem Koolhaas.
Dopo giorni di incertezze e voci sussurrate ecco dunque il primo «sì». alla trasformazione dello storico edificio delle Poste centrali in centro commerciale. Sarà realizzata la scala mobile nell’atrio, con la possibilità di «spostarla» quando ci saranno eventi. Ma anche demolito il solaio con buona parte delle capriate. Per realizzare un sottotetto calpestabile – con un nuovo pavimento in vetro antisfondamento – dove sarà aperto un grande ristorante panoramico. E la nuova terrazza sul lato Canal Grande. Struttura che fa discutere e che ha provocato le proteste degli architetti veneziani perchè vietata dal regolamento edilizio.
Ma dopo la firma della convenzione tra Comune e Benetton, il sindaco e l’assessore Micelli hanno dato indicazioni precise. La deroga è possibile, perché si tratta di pubblica utilità [sic! - n.d.r], anche per via dei 6 milioni – non direttamente vincolati alla terrazza – che Benetton verserà per la modifica degli standard pubblici. Ai tecnici dell’Edilizia privata è arrivato anche un parere favorevole della «commissione scientifica» del Comune di cui fanno parte quattro dirigenti comunali. Si certifica che il tetto era stato quasi completamente rifatto negli anni Venti, con l’impegno anche di materiali non originali come il calcestruzzo. Dunque, si può demolire. Resta l’altro problema. E’ compatibile lo stravolgimento di un edificio - pur in parte rifatto – che risale al Cinquecento, sotto il ponte di Rialto? «Se paghiamo lo facciamo anche in palazzo Ducale?» si chiedono gli architetti. Protestano i comitati. Il Comune risponde che «più di così non si poteva ottenere» e che quello è il prezzo per riutilizzare un grande edificio ormai abbandonato e riaprirlo al pubblico.
La convenzione prevede infatti che le parti al piano terra e gli scoperti al primo piano siano accessibili al pubblico, come il ristorante e la terrazza [difficile immaginare ristoranti e shopping center chiusi al pubblico – n.d.r.]. Dieci giorni l’anno il Comune ci potrà organizzare le sue attività.
Tra le proteste il progetto va avanti. Il Fontego è stato acquistato da Benetton tre anni fa per 53 milioni di euro,. Un valore che sarà più che raddoppiato alla fine con la trasformazione dei 9 mila metri quadrati in centro commerciale. Il progetto presentato il 31 gennaio è già stato istruito, valutato e votato con parere favorevole dai tecnici istruttori di Ca’ Farsetti. Non proprio quello che succede ai comuni mortali, che per un bagno possono aspettare anche otto mesi. Ma l’operazione è avviata. Adesso il nuovo restauro del Fontego dovrà ottenere il parere favorevole della Soprintendenza anche dal punto di vista dell’impatto paesaggistico. In Comune alzano le mani: «Non dipende da noi: l’ultima parola spetta alla Soprintendenza». Intanto l’ok del’Edilizia è già protocollato. In tempo di record.
L’ultimo numero dell’«Espresso» ha rivelato che il Consiglio Superiore per i Beni culturali ha approvato il versamento di 288.973 euro ai proprietari del Castello di Torre in Pietra, a Fiumicino: e cioè al presidente del medesimo Consiglio, il conte Andrea Carandini, e alle sue sorelle. L’aristocratico archeologo ha risposto – noblesse oblige – che non si cura di queste cose, e che dunque non si era accorto che si discutesse di un’elargizione diretta a lui stesso. Se ne fosse accorto – pensa il lettore ingenuo – forse si sarebbe allontanato per qualche minuto dalla presidenza: anche solo per eleganza (gentilizia, se non istituzionale).
Si potrebbe chiudere qua il discorso – magari augurandosi che, di norma, il presidente sia al corrente di ciò che sta discutendo l’organo che presiede – se non fosse che l’«Espresso» ha trascurato la vera sostanza dell’episodio.
Perché lo Stato, cioè tutti noi, dovrebbe elargire una cifra cospicua a un privato non certo indigente per la conservazione di un suo palazzo? La risposta porta diritto al cuore del nostro modello di tutela, ed è che le opere o gli edifici storici non si considerano in base alla loro proprietà, ma al grado del loro interesse culturale. Se un bene è davvero importante (e Torre in Pietra lo è di sicuro, grazie alle opere architettoniche e figurative che racchiude, tra le quali spiccano gli affreschi di Pier Leone Ghezzi) il proprietario deve risponderne alla collettività. Perché, accanto alla proprietà giuridica, esiste una proprietà, costituzionale e morale, ben più ampia: in questo senso, quel bene appartiene a tutta la nazione italiana, la quale dunque può contribuire economicamente al suo mantenimento. Naturalmente, però, questo diverso modo di possedere deve potersi esercitare, nell’unico modo possibile: quel bene, per quanto privato, dev’essere accessibile a tutti. È per questo che l’articolo 38 del Codice dei Beni Culturali impone l’«accessibilità al pubblico dei beni culturali oggetto di interventi conservativi», prescrivendo che «i beni culturali restaurati o sottoposti ad altri interventi conservativi con il concorso totale o parziale dello Stato nella spesa, o per i quali siano stati concessi contributi in conto interessi, sono resi accessibili al pubblico secondo modalità fissate, caso per caso, da appositi accordi o convenzioni da stipularsi fra il Ministero ed i singoli proprietari», e ancora che «gli accordi e le convenzioni stabiliscono i limiti temporali dell’obbligo di apertura al pubblico».
E qui casca l’asino (absit iniuria verbis) perché Torre in Pietra non è visitabile. Se non siete Mara Carfagna (che ha noleggiato il castello, e ci si è sontuosamente sposata), o Silvio Berlusconi (che le ha fatto da testimone) non avete infatti nessuna possibilità di vedere come sono stati spesi i vostri soldi. Sul curatissimo sito internet ( www.castelloditorreinpietra.it ) la voce “visita” si risolve in una galleria di belle fotografie, e mentre abbondano le indicazioni per l’affitto, non c’è traccia dell’assoluzione dell’obbligo di accessibilità. Volendo approfondire la faccenda, ho chiamato l’amministrazione per ben tre volte, e in giorni diversi, presentandomi come un privato cittadino, come un insegnante e infine come uno studioso di barocco romano e chiedendo quali fossero le modalità per visitare il castello. La risposta è stata sempre la stessa, cortese ma assai stupita: «Il castello è privato – ha capito? Pri-va-to! – e non è visitabile. Ma se le serve per un matrimonio chiami al …».
Quel che sarebbe grave (perché illegale) per ogni cittadino, diventa gravissimo per il presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali.
In un paese normale, basterebbe molto meno per dimettersi.
Ma in Italia, dove i ministri comprano case senza saperlo, figuriamoci se il professor Andrea Carandini si sente tenuto ad accorgersi di auto-stanziarsi trecentomila euro, o a sapere se casa sua sia aperta o no ai cittadini che gli elargiscono quella somma. E poi, il pensiero unico ortodosso sul patrimonio culturale non prevede oggi la totale abdicazione dell’interesse pubblico nei confronti degli interessi privati? E il conte Carandini all’ortodossia – comunista o ultraliberista, poco importa – ci ha sempre tenuto.
La necropoli fenicia di Cagliari torna al centro della polemica politica e divide il fronte che ha sostenuto il sindaco Massimo Zedda. Motivo dello scontro una delibera comunale sospettata di voler riaprire le porte alla speculazione di Tuvixeddu
Torna l'incubo cemento sulla necropoli di Tuvixeddu? A Cagliari si spacca il fronte che ha sostenuto il sindaco Massimo Zedda, vendoliano, e che sulla difesa delle tombe dall'assedio di 270 mila metri cubi di palazzine sembrava compatto. La giunta ha approvato una delibera che Italia Nostra giudica quanto meno ambigua, se non illegittima, e che chiede di ritirare. Nella maggioranza di centrosinistra si odono mugugni, mentre il primo cittadino incassa il sostegno dal gruppo di centrodestra che ha espresso il suo rivale alle elezioni, Massimo Fantola.
La questione è complicata, come tutta la vicenda di questi pregiatissimi colli che sorgono nel centro del capoluogo sardo e sui quali dal VI secolo a. C. fino all'età imperiale sono state scavate migliaia di tombe. Ma la si può ridurre, la questione, a un perimetro: quanto grande deve essere l'area di inedificabilità assoluta per stroncare le mire di chi vorrebbe premere sulla necropoli con una selva di edifici? Il perimetro deve comprendere la sola zona tutelata da un vincolo archeologico, già in vigore da anni e dove non si può costruire nulla? Oppure una zona più vasta, una cinquantina di ettari all'interno dei centoventi vincolati nel Piano paesaggistico dall'allora governatore regionale Renato Soru e che consentirebbe alle tombe di respirare, di essere cioè circondate da una fascia di rispetto, oltre che di struggente fascino?
Maria Paola Morittu, responsabile della Pianificazione territoriale di Italia Nostra, e un gruppo di intellettuali alla cui testa c'è lo scrittore Giorgio Todde (autore di un duro articolo su La Nuova Sardegna [e su eddyburg.it n.d.r.]) insistono per la tutela più vasta. E su questo punto pareva che anche l'amministrazione Zedda fosse assestata. Tanto più dopo una sentenza del Consiglio di Stato del marzo 2011 2 che dava pienamente ragione agli ambientalisti. La salvaguardia di Tuvixeddu è stata inoltre uno dei punti del programma elettorale 3con il quale il centrosinistra ha vinto le amministrative. Seguite, appena qualche mese dopo, dalla decisione della nuova giunta di non affiancare i costruttori nei contenziosi giudiziari (a differenza del governo cittadino di centrodestra).
Ma ecco spuntare la delibera della discordia, che contiene alcuni passaggi molto contestati. In essa si sostiene, ad esempio, che "per le aree comprese nel vincolo occorre valutare la compatibilità delle previsioni del PUC vigente (il Piano urbanistico comunale del centrodestra, n. d. r.) con la disciplina dello stesso vincolo". Oppure che "la fascia di tutela integrale possa essere fatta corrispondere con la superficie del bene sottoposto a vincolo ministeriale" (quale vincolo ministeriale? Quello archeologico? Si domandano preoccupati gli ambientalisti). O, ancora, si afferma la possibilità di ridurre la fascia di tutela, tutela che "dovrà in ogni caso tener conto delle destinazioni urbanistiche individuate dal PUC". Cioè, di nuovo, del Piano urbanistico della precedente giunta.
Al di là delle formule tecniche, il timore degli ambientalisti è che si voglia piegare il Piano paesaggistico di Soru, molto stringente, al Piano comunale approvato dalla giunta comunale di centrodestra, e non il contrario ("come sarebbe obbligatorio, alla luce della sentenza del Consiglio di Stato e del Codice dei beni culturali", sottolinea Maria Paola Morittu). Con la conseguenza che prevarrebbe il perimetro stretto di tutela e che, come voleva la vecchia amministrazione, si consenta la costruzione dei palazzi. "È la tutela francobollo", dice Todde.
La reazione di Zedda alle critiche è molto netta. "Noi vogliamo esattamente l'opposto. E con un'altra delibera avvieremo l'adeguamento del piano comunale a quello regionale", risponde il sindaco. "Per Tuvixeddu non ce la facciamo, da soli, a fronteggiare eventuali risarcimenti chiesti dai costruttori. Solo per l'annullamento di una piccola porzione del loro intervento, vogliono 12 milioni. E poi c'è l'Ici che hanno pagato. Deve intervenire la Regione. E noi puntiamo a trovare un intesa. Le accuse al Comune sono ingiuste, devono essere indirizzate alla Regione. Il nostro obiettivo resta quello della salvaguardia integrale di Tuvixeddu". "Ma allora perché nella delibera si insiste sulla possibilità di ridurre l'area di tutela? E poi i vincoli paesaggistici non prevedono risarcimenti, ma solo il rimborso delle somme già versate per le eventuali opere di urbanizzazione", incalza Morittu.
L'area della necropoli 5 è dentro un contesto di paesaggio che si vuole a tutti i costi mantenere intatto. E non solo per consentire la fruizione di un patrimonio archeologico che dall'età punica arriva all'Alto Medioevo, che ha pochi paragoni in tutto il Mediterraneo e che è tuttora quasi impossibile visitare. Ma anche perché da Tuvixeddu al colle di Tuvumannu e poi a quello che chiamano il Canyon, lo spettacolare, profondo taglio di tutta l'altura, è riconoscibile un sistema unitario, fatto di cavità naturali e di una foltissima vegetazione, luogo di culto dove nei secoli si sono praticate anche molte attività, da quella mineraria (esiste una specifica tutela per questo aspetto) a quella di cava. Tutt'intorno si è costruito in maniera dissennata, in particolare lungo via Sant'Avendrace dove sono sorti edifici che sovrastano le sepolture. Palazzi sono cresciuti anche su via Is Maglias, una via che, spiega l'archeologo Alfonso Stiglitz "ricalca esattamente un'antica strada che percorreva quella che si configura come una valle naturale tra le due cime del colle (Tuvixeddu a ovest e Tuvumannu a est), una strada funeraria di età punica ancora perfettamente leggibile, nonostante i devastanti interventi edificatori, ancora in corso".
Altri palazzi si vorrebbero costruire. La battaglia per evitare il saccheggio dura da anni, a colpi di ricorsi e di denunce, con l'allora Direttore regionale dei Beni culturali Elio Garzillo e l'allora Soprintendente Fausto Martino in prima fila. Nel marzo scorso la sentenza del Consiglio di Stato, che si era pronunciato a favore di una tutela molto estesa, e poco dopo l'elezione di Massimo Zedda, sembrava avessero messo fine ai progetti edificatori. Ma le mire degli immobiliaristi sono incontenibili. E i valori monetari di questo lembo della città elevatissimi.
Speriamo che giuristi avveduti tranquillizzino il sindaco Zedda e gli spieghino che il comune non ha nulla da pagare a causa di una legittima modifica dell’utilizzabilità edilizia dell’area di Tuvixeddu-Tuvumannu. Eddyburg chiede ai suoi amici giuristi di aiutarci a tranquillizzare il giovane sindaco. Non vorremmo che il terrorismo di presunti giuristi abbiano o stesso effetto distorcente della verità che provocò la propaganda dei cosiddetti “diritti edificatori” (e.s.)
SENZA FINE
(editoriale della direzione)
Siamo alla prova cruciale, al corpo a corpo con la nostra stessa vita materiale e politica. Il manifesto andrà in liquidazione coatta amministrativa. Verranno funzionari di governo, che si sostituiranno al nostro consiglio di amministrazione. È una procedura cui siamo stati costretti dai tagli alla legge dell’editoria. Noi, come altre cento testate, nazionali e locali, non potremo chiudere il bilancio del 2011.
Mario Monti e il ministro Passera potrebbero riuscire dove Berlusconi e Tremonti hanno fallito. Usiamo il condizionale perché non abbandoniamo il campo di battaglia e siamo ancora più determinati a combattere contro le leggi di un mercato che della libertà d’informazione farebbe volentieri un grande falò. La fine del manifesto sarebbe la vittoria senza prigionieri di un sistema che considera la libertà di stampa non un diritto costituzionale ma una concessione per un popolo di sudditi. La fisionomia della nostra testata, il suo carattere di editore puro, il nostro essere una cooperativa di giornalisti, hanno sempre costituito una felice anomalia, un’eresia, la testimonianza in carne e ossa che il mercato non è il monarca assoluto e le sue leggi non sono le nostre.
Il compito che ci assumiamo e a cui vi chiediamo di partecipare è tutto politico. I tagli ai finanziamenti per l’editoria cooperativa e politica non sono misurabili «solo» in euro, in bilanci in rosso, in disoccupazione. Naturalmente, se avessimo la testa di un Marchionne sapremmo cosa fare per far quadrare i bilanci. Così come un vero mercato della pubblicità ci aiuterebbe a far quadrare i conti, e un aumento dei lettori nel nostro paese ci farebbe vivere in una buona democrazia. Ma è altrettanto evidente che le nostre difficoltà sono lo specchio della profonda crisi della politica, l’effetto di quella controrivoluzione che ha coltivato i semi dell’antipolitica, del «sono tutti uguali» fino a una sorta di pulizia etnica delle idee e dell’informazione.
Care lettrici e cari lettori, siamo chiamati, noi e voi, a una sfida difficile e avvincente. Dovremo superare nemici visibili e trappole insidiose. Sappiamo come replicare alle politiche di questo governo, ma siamo profeti disarmati contro il successo del populismo, che urla contro il potere assumendone modi e fattezze. State con noi, comprateci tutti i giorni, abbiamo bisogno di ognuno di voi. Adesso che tutti hanno imparato lo slogan dei beni comuni, lasciateci la presunzione di avere rappresentato una delle sue radici, antica e disinteressata. Ed è per questo che nell’origine della nostra storia crediamo di vedere ancora una vita futura.
SIAMO QUI
QUARANT'ANNI DALLA VOSTRA PARTE
di Matteo Bartocci
Nonostante una ristrutturazione durissima e sacrifici senza precedenti il giornale resta in edicola. Oggi alle 14 conferenza stampa in redazione Il ministero dello Sviluppo ha avviato la procedura di liquidazione coatta amministrativa della cooperativa. Un passo inevitabile dopo i tagli del governo. Ecco quello che abbiamo fatto e quello che dobbiamo fare
È il momento più difficile della storia quarantennale del manifesto. Chi ci segue sa che l'allarme l'avevamo lanciato da tempo. Che non era un «al lupo, al lupo» né una delle infinite crisi che con l'aiuto di decine di migliaia di sostenitori siamo riusciti a superare dal 1971 a oggi.
Il ministero per lo sviluppo economico ha ufficialmente avviato la procedura di liquidazione coatta amministrativa della cooperativa editrice del manifesto. Ma il giornale resta in edicola e rilancia. Perché non è finita finché non è finita.
Questa procedura particolare alternativa alla liquidazione volontaria cautela la cooperativa da eventuali rischi di fallimento. E' una procedura estrema, riservata a soggetti per loro natura fragili come le cooperative, che non hanno «padroni» che ogni anno ripianino i debiti o raccolgano i profitti.
Da oggi il manifesto entra in una terra sconosciuta. I casi di cooperative editoriali che hanno attraversato questa procedura sono rarissimi, forse è addirittura un inedito. Una delle tante «prime volte» che il manifesto, giornale quotidiano e forma originale della politica, ha sperimentato sulla sua pelle nei suoi primi 40 anni. I dettagli «tecnici» di quello che accadrà li daremo oggi in una conferenza stampa (alle 14 qui in redazione, via Angelo Bargoni 8, Roma). Per adesso però non sono la cosa più importante.
Banalmente: oggi il manifesto spende più di quanto incassa. E' una debolezza cronica e strutturale, aggravata dal taglio drastico e retroattivo dei contributi pubblici per l'editoria non profit. Il manifesto ha lanciato sottoscrizioni e campagne di sostegno ancora prima di nascere. Non è «piagnisteo»: è nel suo Dna. Senza non potrebbe vivere. E' un'impresa comune costruita senza padroni. Né occulti né palesi. I «padroni» del manifesto sono chi ci lavora e chi lo legge.
Per questo stavolta alla procedura indicata dal ministero non potevamo più opporci. Dal 2008 cala la pubblicità, le vendite vanno e vengono (incoraggianti a novembre e dicembre, in lieve calo a gennaio) e senza il contributo pubblico (che era previsto) il bilancio del 2011 non si può chiudere. E' l'aritmetica perversa dei fondi editoria, che vengono erogati nel 2012 come rimborso del 2011. Nonostante le promesse di intervento fatte dal presidente del consiglio Mario Monti e l'esplicita richiesta in tal senso del presidente della Repubblica, a oggi nessuna soluzione è stata trovata.
Restiamo noi e voi. Siamo la stessa cosa, ma noi abbiamo il dovere di spiegarvi quello che abbiamo fatto. Sul manifesto circolano moltissime leggende metropolitane e qualche lacrima di coccodrillo. Sono tempi brutali per tutti e non c'è da stupirsi.
Però sfatiamo alcuni luoghi comuni. I sacrifici che abbiamo fatto in questi anni sono senza precedenti. Abbiamo ridotto tiratura e distribuzione all'osso (p.s. le edicole sono 30mila e più di tanto non si può tagliare, già adesso il giornale si trova poco e male). Siamo l'unico quotidiano nazionale non full color: questo ci fa risparmiare in tipografia ma ci rende meno appetibili per la pubblicità. Di recente abbiamo aumentato il prezzo, ridotto la foliazione e portato Alias e la TalpaLibri dentro il quotidiano. In questi anni durissimi abbiamo messo a punto tutto. Siamo in ristrutturazione industriale più o meno dal 2006 e il sacrificio più grande lo stanno facendo soprattutto i lavoratori (che sono anche gli editori di se stessi).
Parlano i bilanci. Nel 2006 il manifesto aveva 107 dipendenti. A febbraio sono 74 (52 giornalisti e 22 poligrafici). Di questi 74, però, la metà è in cassa integrazione a rotazione. Per cui il giornale che leggete (dal 2010 a oggi) è fatto, materialmente, da circa 35 persone. Troppe? Troppo poche? Scarse? Brave? In numeri: dal 2006 al 2010 il costo del lavoro è diminuito del 26%, con un risparmio annuo di 1,1 milioni di euro. Nel triennio 2008-2010 i costi industriali si sono ridotti di 2 milioni e mezzo. I costi generali del 20 per cento. E visto che parliamo di soldi e di mercato, tra noi tutti riceviamo più o meno lo stesso salario, dalla direttrice alla centralinista: circa 1.300 euro netti al mese.
Il manifesto però è innanzitutto un progetto politico. Questo giornale può migliorare e cambiare molto ma non può mutare natura. Non potrebbe esistere senza il contributo di chi, da anni, lavora e scrive gratuitamente, dai fondatori al più giovane dei collaboratori. Più che ai nostri stipendi (che pure contano e non arrivano) il primo pensiero di ogni giorno è il nostro/vostro giornale. Da oggi lo sarà ancora di più.
SOCIAL NETWORK
NON FATE TROPPO I COATTI
di Alberto Piccinini
Alle otto di sera scoprirsi tra i «top trend» di Twitter Anna Paola @ Roberto Saviano: «Ti ricordi?» «I Maya avevano ragione», «Noi lettori faremo da megafono»
In quarant'anni è forse la prima volta che osserviamo una delle nostre crisi attraverso i social media. Speriamo che non sia l'ultima. Ma soprattutto, come twitta miki «non fate troppo i coatti e niente scherzi mi raccomando!». Il riferimento è alla «liquidazione coatta». Tanto per dire, la parola compare in Rete prima che qui in redazione si riesca a scrivere persino uno straccio di comunicato. Il sito si chiama Globalist. Dagospia riprende quello («Non manifesto più» aggiunge di suo pugno D'Agostino), poi arrivano L'Unità (grazie per aver postato il video con la risposta di Monti al nostro Matteo Bartocci sull'aiuto ai giornali), poi il sito di Repubblica e subito dopo le agenzie di stampa. Infine Il Fatto quotidiano. Grazie.
È così che alle otto di sera restiamo per una decina di minuti tra i trends della giornata su twitter. «Non compro giornali di solito, il manifesto è una storia a parte e domani lo comprerò» (Yamunin). «Da domani lo compro: tutti i giorni per un mese». «Manifesto per il manifesto». «Clickactivism non basta, domani compra il manifesto». La nostra amica Janet posta a breve distanza: «Un caffè di meno al giorno ci lascia il manifesto intorno». E poi: «Toglietemi tutto ma non il manifesto». Incontriamo qualche sorriso in giro, per fortuna. Dominus: «I Maya avevano ragione, cazzo». Qualcuno fa l'antipatico, ma pazienza: «Il manifesto è in liquidazione. Proteste dei 10 lettori sparsi in tutta Italia».
Da un lettore de Il Fatto: «A tutti i giornalisti mantenuti nel lusso per disinformare con soldi pubblici: BAMBOCCIONIII!!! AAAH Mi sento meglio!», si firma Miolgu. Di seguito, affiorano vecchie divisioni a sinistra: «Conservo fieramente la ricevuta di 5 euro per Lotta comunista Sottoscrizione per la stampa leninista, altro che Il manifesto» (Emanuele). Ma infine si fa strada la mozione degli affetti: «Lettore venticinquenne del manifesto da quando ho 16 anni» (Federico). «Un pezzo della mia vita, un compagno, una guida nella mia crescita!!!», con tre punti esclamativi. «Lo compravo già vent'anni fa (e pure ora, anche se saltuariamente). Da domani si ricomincia». «Con Pintor ho capito un po' di vita. Forza ragazzi». Romina, da Siena: «Lo compravo all'Università, all'arco di Porta Tufi. Lo comprerò domattina». Anna Paola @ Roberto Saviano: «Chiude Il Manifesto. Anni fa c'erano dei ragazzi che lo vendevano sempre davanti palazzo Giusso, ricordi?» Palazzo Giusso è l'Università Orientale, a Napoli.
Ancora su Twitter sbirciamo il minidibattito tra uno scrittore amico, Sandrone Dazieri e alcuni suoi followers. «Il Manifesto è stato il "posto" dove ho cominciato a scrivere. scrive Sandrone Non lo leggo più come prima, ma voglio che rimanga». E poi: «O mi sbaglio a difendere il Manifesto? Ha ancora senso nell'epoca della rete? Comunque fatela un app, ce l'ha anche il Giornale cazzo». Già. E nel frattempo abbiamo tentato timidamente di far circolare come hashtag «Zittinò», il grido finale di un recente pezzo di Rossanda Rossanda. Invece ci siamo ritrovati dentro il solito #Il Manifesto. Mica ce ne dispiace, anzi. Confusi però con il manifesto dei ciclisti sul Times di ieri, che sottoscriviamo, e altre decine di manifesti da tutto il mondo, pure condivisibili. Persino un'anteprima del manifesto per la prossima tournee di Lady Gaga.
#noncirestachepiangere era invece l'hashtag di Valeria per il suo tweet dedicato a noi. No vabbè, c'è ancora tanto da fare. Per esempio su Facebook c'è chi passa alle cose pratiche: «Io sono abbonato coupon, che faccio, lo compro anche in edicola poi lo regalo? Possiamo fare, una volta tanto, un intervento strutturato tra proprietà e lettori al fine di evitare azioni estemporanee?», ci chiede Riccardo. Rispondiamo: «è esattamente quello che andrebbe fatto. Abbonamenti, sottoscrizioni ma soprattutto vendita in edicola». In fondo è questo il senso della nostra presenza su Facebook da una settimana a questa parte. Siamo più di 30.000 «mi piace» laggiù. Ci risponde ancora Riccardo: «Mi raccomando: ordini precisi e chiari. Poi noi lettori faremo da megafono». Ci proveremo.
Ancora da Facebook recuperiamo il grido di Anna Maria, che ha due figli disoccupati e «non può prometterci che domani ci comprerà di carta». Scrive: «Chi siete adesso voi del collettivo del Manifesto, a chi vi rivolgete, qual è il vostro target. Sinceramente, con il cuore, siete sicuri che il "messaggio" sia efficace? Se "sì" allora lo dovete rendere efficiente, con le regole evolute del mercato, con intelligenza, senza baluardi di vetero-marxismo».
APPELLO
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Al ritrovamento del linguaggio della verità non ha fatto seguito la necessaria coerenza Con tanto dogmatismo sull’articolo 18 si complica molto il lavoro della ricostruzione
C’era bisogno dei tecnici, così è stato detto, per far respirare una politica in affanno e restituirle credibilità, dopo la irreparabile caduta di autorevolezza determinata da un Cavaliere dormiente dinanzi alla crisi. Ad una politica impigliata nella trama di una competizione senza tregua, doveva subentrare una più pragmatica azione di governo. Ebbene, questo recupero di prestigio delle istituzioni grazie alla buona amministrazione viene sovente ostacolato da una abitudine a chiudere in battute e in immagini caricaturali dei problemi assai complessi.
Il ritrovamento del linguaggio della verità, pur sollecitato come condizione per il ripristino del rendimento della politica, non si è sempre verificato con la necessaria coerenza. Non c’è più la fuga dal reale dei tempi di Berlusconi, che scambiava il governo per uno spot pubblicitario senza tempo. Ma è comparsa una inclinazione surreale a risolvere le aspre condizioni di vita delle persone con annunci del tutto inverosimili. Le timide politiche di liberalizzazione? Porteranno almeno dieci punti in più del Pil. L’abbattimento dell’articolo 18? Una autentica manna: investimenti esteri a palate e in breve tempo almeno altri 8 punti in più di crescita. Questo modo di argomentare (un Pil che cresce di 18 punti!) non è tollerabile.
Dai competenti ci si attenderebbe un piglio manageriale, con poche narrazioni e con delle realizzazioni puntuali in agenda, sempre verificabili. Così non è. I tecnici amano fare gli ideologi complicando molto il lavoro della ricostruzione. Il problema, purtroppo, non è di infortuni nella comunicazione. No, i tecnici, con le loro simbologie ardite, rivelano una lettura troppo semplicistica e deformata della società. Senza una analisi rigorosa è da temere il peggio nell’azione di governo. Come si fa a ricondurre il declino italiano al troppo buon cuore delle vecchie classi politiche incapaci di imporre misura, rigore? E come si fa a invocare la riforma dello statuto dei lavoratori perché, in caso contrario, gli investitori si manterranno per sempre lontani dal bel paese?
Qualcuno svegli i tecnici e li ridesti finalmente dal loro sonno dogmatico. Le norme sul mercato del lavoro non sono una priorità per la crescita. La neve precipitata in questi giorni disvela un paese che non dispone di mezzi, di strutture, di cultura di gestione del rischio. Quando in una città piove o nevica si crea una prolungata situazione di emergenza. C’entra davvero l’illusione del posto fisso in questa estrema vulnerabilità di un paese che a stento può ancora essere annoverato tra le nazioni civili? La domanda vera è semmai che cosa è il pubblico dopo anni di ideologia liberista per cui la ricchezza privata soltanto conta e il cimitero dei beni comuni può riposare in pace.
Nel deserto arido di beni pubblici, cadono anche gli investimenti perché l’eutanasia della statualità rende il paese debole, arcaico, non competitivo. Gli investitori in Calabria non arrivano, ma non certo perché si tema la morsa dell’articolo 18 ma perché il treno più veloce che collega la regione alla capitale impiega quasi dieci ore. Invece di incontinenze verbali, il governo dovrebbe con urgenza riprogettare la dimensione territoriale delle politiche per lo sviluppo. Dinanzi alla rispazializzazione negativa e asimmetrica, che consegna molte aree del paese al sottosviluppo, occorrono politiche attive, non leggende.
A spaventare i capitali è il mitico articolo 18 o il tempo biblico della giustizia civile? E davvero le bandiere dei sindacalisti fanno più paura delle bocche di fuoco delle ecomafie? Agli apostoli della concorrenza crea fastidio il sindacato e non preoccupa il fatto che in molte regioni le merci sono prodotte e scambiate in forme del tutto illegali. Non è affatto vero che la contrattazione collettiva spaventi i capitali più della presenza di contratti evanescenti e sprovvisti di una qualsiasi garanzia giuridica efficace ed esigibile. Quando le mafie con i loro governi privati hanno il monopolio territoriale delle attività illecite, i diritti di proprietà sono molto sbiaditi, i costi della transazione diventano più cospicui, le sanzioni degli inadempimenti appaiono del tutto improbabili.
Invece di scherzare sulla mammà dei disoccupati, il ministro degli interni dovrebbe forse cominciare a rimuovere lo spaventoso onere di queste esternalità negative che, non solo al sud ormai, determinano una possente disincentivazione degli investimenti produttivi. Le imprese si mostrano del tutto irretite dinanzi alla spettacolare accumulazione dei capitali avvenuta grazie alla simbiosi di coercizione e affari, pubblico e privato. Senza politiche per i beni collettivi (giustizia, sanità, istruzione, infrastrutture) evapora la dimensione locale dello sviluppo. Ci sono questioni colossali da affrontare per una effettiva politica di “cresci Italia” e invece i tecnici preferiscono fare cattiva ideologia sul mercato del lavoro. Peccato.
Nelle emergenze nazionali l´evento storico più frequentemente evocato dai commenti è forse l´8 settembre del ´43 (immediatamente seguito da Caporetto), e non è del tutto sbagliato. Richiama incapacità – o non volontà – di previsione e di decisione, vergogne dei pubblici poteri, dissolvimento delle istituzioni, affannarsi generoso ma impotente di alcune parti, almeno, della società civile.
È parte anch´esso di una storia nazionale, e meno di tre anni fa a L’Aquila abbiamo fatto i conti di nuovo con la nostra difficoltà ad imparare dalle esperienze del passato: sia da quelle positive che da quelle negative. Furono allora ignorati e osteggiati quel decentramento e quella capacità di preservare identità e memoria collettiva che erano stati centrali nel Friuli del 1976, e poi nelle Marche e nell´Umbria del 1997. E "scoprimmo" allora che era stata invece riproposta negli anni una scelta già compiuta in precedenza con conseguenze pesantissime: la Protezione civile di Guido Bertolaso aveva infatti ampliato il proprio raggio d´azione ben al di là delle emergenze. Si era fatta carico dei più diversi "grandi eventi", e sin di quelli più estranei alla propria ragion d´essere. Esattamente come era successo con esiti disastrosi nella ricostruzione dell´Irpina, con l´allargarsi degli interventi (e degli sperperi, e degli intrecci fra corruzione, politica e cosche) sino ad aree e a questioni che con il sisma non avevano nulla a che fare. Quella deformazione stava per esser resa definitiva, estendendo a dismisura l´assenza di controlli e vincoli: quell´esito fu impedito all´ultimo istante non da un ripensamento del governo ma dalla provvidenziale pubblicazione di intercettazioni che rivelavano verminai.
Di scelte, di decisioni soggettive stiamo dunque parlando. Non di un’eterna indole degli italiani ma di responsabilità politiche: o meglio, di una irresponsabilità della politica che ha lasciato segni profondi.
Talora anche denunce di altissimo profilo rimasero inascoltate. Così fu proprio all´indomani del dramma irpino, quando il Presidente della Repubblica Pertini irruppe dai teleschermi nelle case degli italiani per denunciare carenze gravi dei soccorsi e per condannare al tempo stesso vergogne del passato. Disse con forza che non avrebbe dovuto ripetersi un altro Belice ma non ebbe ascolto. Pochi mesi dopo si svolse ancora sotto i suoi occhi, davanti al pozzo di Vermicino e nell´agonia di Alfredino Rampi, una rappresentazione della nostra impreparazione, inefficienza e improvvisazione. Era al tempo stesso l´annuncio di quanto i media stavano invadendo e trasformando il nostro vivere anche su questo terreno. La Protezione civile ebbe origine allora: era l´impegno ad un mutamento radicale, non più rinviabile.
Certo, nel paralizzarsi delle città e delle vie di comunicazione dopo nevicate molto meno drammatiche che in altri Paesi tutto sembra ripetersi negli anni, con poche variazioni. Nel gennaio del 1985, ad esempio, non si erano ancora spente le polemiche sull´imprevidenza di Roma che Milano veniva bloccata dalla "nevicata del secolo" (termine già coniato in precedenti occasioni, per la verità): e l´immagine inquietante di un´efficienza perduta veniva a turbare per un attimo il frenetico ottimismo della "Milano da bere".
In realtà da noi sarebbero molto più necessarie che altrove misure di prevenzione, cure costanti e interventi metodici nei confronti dei territori a rischio: basti pensare allo "sfasciume pendulo sul mare" di cui parlava Giustino Fortunato più di un secolo fa per certe parti del Mezzogiorno. O alle basse terre gravitanti sul Delta del Po, bonificate da un lavoro plurisecolare ma inevitabilmente esposte alle insidie del grande fiume: dalle alluvioni ottocentesche raccontate da Riccardo Bacchelli ne Il Mulino del Po a quella del 1951, che diede una potente spinta all´esodo. Sino alla piena del 1994, ancora nella memoria. E naturalmente si pensi, per altri versi, alle aree devastate dalla speculazione o a quelle degradate dallo spopolamento. Eppure l´incuria è diventata col tempo quasi la regola: e troppo tardi e fugacemente ci interroghiamo su quel che avremmo potuto e dovuto fare. Come nella Sarno del 1998 o nella Valtellina del 1987 e molte altre volte ancora. L´elenco sarebbe davvero lungo e in molti casi il disastro, ben lungi dall´essere dovuto solo alla natura, è stato favorito o provocato da responsabilità dirette e gravissime, come nel Vajont del 1963.
Spesso, va aggiunto, le carenze istituzionali sono state parzialmente compensate grazie a un volontariato appassionato e generoso: è un termometro del Paese e c´è da allarmarsi se si allenta, se ci appare meno diffuso e vigile. E certo ha dato il meglio di sé quando ha potuto incontrarsi con istituzioni all´altezza dei loro compiti e con una più ampia partecipazione delle popolazioni. Non è accaduto spesso ma è accaduto: dalla Firenze invasa dalle acque del 1966 al Friuli di dieci anni dopo, e sino a tempi recenti.
La nostra storia ha dunque molti volti ma ci dice anche che la "sindrome dell´8 settembre" può essere sconfitta. La capacità o l’incapacità del Paese di attrezzarsi per far fronte alle emergenze è dunque un aspetto centrale. O meglio: è un elemento decisivo per una rifondazione della politica che abbia nel suo orizzonte non le prossime elezioni ma le prossime generazioni.
La Triennale di Milano, che fu una grande istituzione culturale, ha un nuovo presidente, Claudio De Albertis, che già sedeva nel consiglio di amministrazione, ingegnere noto per essere da tempo presidente di Assimpredil, cioè presidente della associazione dei costruttori della provincia di Milano, i fautori, evidentemente, insieme con i precedenti amministratori, dal sindaco Moratti al suo assessore Masseroli, di quell’ondata di cemento che si è abbattuta e si sta abbattendo su Milano. De Albertis viene dopo Rampello, Davide Rampello regista di varietà prima in Rai e poi alla Fininvest, autore tra l’altro di Premiatissima e di Risatissima, per canale 5, ormai lodatissimo e rimpiantissimo ex presidente per due trienni, indimenticabili secondo alcuni, modestissimi per quanto variopinti a mio timidissimo giudizio.
Su De Albertis non saprei che dire. Non lo conosco, se non per le sue imprese edili (credo siano opera sua molti di quei contestati parcheggi sotterranei, compreso quello che si sta scavando sotto la Basilica di S.Ambrogio, parcheggi fortemente voluti da un altro sindaco di Berlusconi, e cioè Gabriele Albertini). Sarebbe offensivo dire che si sarebbe potuto trovare di meglio. Mi auguro che De Albertis faccia benissimo. Però non posso non condividere una dichiarazione dell’assessore alla cultura Stefano Boeri. Che trascrivo: “Il mio orientamento, come si sa, era del tutto diverso e chiedeva una discontinuità con il passato, anche in considerazione della difficile situazione di bilancio in cui Triennale si trova. Faccio quindi appello a tutte le forze vive e responsabili della cultura milanese affinchè sostengano con idee e programmi innovativi un luogo fondamentale per l’architettura l’arte e la cultura di Milano e difendano la qualità scientifica e artistica della sua programmazione, in coerenza con il prestigio che – anche grazie alla nostra Triennale – questa città si è conquistata in Italia e nel mondo”. In modo meno istituzionale, Boeri ha pure dichiarato che non si può pensare a un risanamento economico della Triennale, senza ripensare a un programma di rilancio culturale che rimetta al centro l’architettura e il design, un programma che riporti la Triennale in rete con le grandi istituzioni internazionali…
Insomma Boeri, gentilmente, ha calato una pietra tombale sul passato di Rampello, considerando quella di De Albertis la scelta mediocre di una maggioranza (di centrodestra) che tarda a capire che cosa sta succedendo a Milano e in Italia, che non capisce evidentemente il valore della Triennale, che conobbe, anche durante il fascismo (la Triennale venne fondata negli anni venti e trovò la sua sede definitiva negli anni trenta, nel palazzo che fu costruito su progetto di Giovanni Muzio e con i soldi di un industriale tessile, Antonio Bernocchi) giorni e giorni di grande fermento culturale, proponendosi come luogo di conoscenza e di dibattito delle idee più nuove dell’architettura e del design (e di progetto: nacque qui ad esempio, per merito di Piero Bottoni, una delle più interessanti esperienze urbanistiche del dopoguerra in Italia, il Qt8, Quartiere dell’ottava Triennale), in stretto rapporto con quanto andava maturando nel resto del mondo. Non vorrei che De Albertis venisse invece a presentarci qualche bel manufatto della Milano d’oggi, tipo i palazzoni di Citylife o i banali semigrattacieli del Garibaldi o i suoi umidi parcheggi sotterranei. Il dubbio ce l’ho. Lui ha già spiegato che alla Triennale si dovrà discutere del futuro di Milano: purtroppo un futuro al cemento non ce l’hanno mai fatto mancare.
Una postilla sull’articolo 18. Dalla Triennale alla Biennale, per citare Franco Bernabè, che a Venezia è stato ben tre anni alla presidenza, ma che è stato soprattutto amministratore delegato dell’Eni, di Telecom ed è tornato a capo di Telecom: cioè uno che da una parte o dall’altra ha sempre mandato a casa migliaia di lavoratori. L’ho sentito a Ballarò, intervistato da Floris, trascinato nell’annoso dibattito sull’articolo 18. Bernabè ha ricordato con eleganza le tante ristrutturazioni da lui guidate, ha ricordato le trattative sindacali (con Cgil, Cisl e Uil, ha precisato), ha ricordato quanto poco d’ostacolo fosse stato l’articolo 18, concludendo che l’articolo 18 sarebbe meglio lasciarlo stare, perché vengono prima altri problemi. Sembrerebbe tutto semplice, quasi ovvio, persino banale…
La Triennale si occupa da sempre di faccende urbane, la possiamo considerare una vera e propria fabbrica di città. Vero che l’unico prodotto direttamente tangibile di questo tipo resta ancora il quartiere modello QT8 voluto dal commissario Piero Bottoni a far da riferimento alla ricostruzione post-bellica. Ma vero anche, come ci insegnano tutti i giorni, che viviamo nel mondo della comunicazione, e non c’è bisogno di manipolare materia per cambiare il mondo: a quello ci possono pensare altri. Solo per fare un esempio particolarmente vicino alle tematiche di questo sito, è dalla Triennale che è partito qualche anno fa con grande clamore lo slogan pataccaro della “città infinita”, espressamente pensato per nascondere sotto il tappeto qualunque forma di considerazione oggettiva sullo sprawl e i suoi costi collettivi. Con risultati a modo loro incredibili, se è vero come è vero che molti studenti di discipline del territorio (e non solo loro ahimè) usano correntemente e acriticamente quell’eresia geografica. In quali altri modi l’impegno diretto di un operatore delle trasformazioni urbane potrà influenzare l’urbanità in senso lato e meno lato? Bisognerà stare a guardare con una certa attenzione, questo dispiegarsi dell’urbanistica subliminale (f.b.)
Titolo originale: Zimbabwe: Urban Well-Drilling - Ticking Time Bomb - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
“L’amministrazione di Chitungwiza non ci fornisce l’acqua, spesso siamo obbligati a star senza per una intera settimana. Questo problema ci ha obbligato a scavarci dei pozzi, e chi non ne ha ancora uno in casa sicuramente sta cercando i soldi per riuscire a farselo” racconta Priscilla Simuka, un’arrabbiata abitante della zona Unit J. Spiega che qui non si ha altra scelta che scavarsi un buco alla ricerca di fonti d’acqua alternative, dato che il servizio del comune non esiste. Isaac Nyamambititi dell’area Unit M di Chitungwiza aggiunge: “Ho capito quanto obbligavo a fare a mia moglie, che portava l’acqua da pozzi sparsi attorno alla città, per lavarci e fare il bucato. Scavarcene uno ha significato sollevarla da tanta fatica, visto che l’amministrazione ci nega l’acqua. Spesso si resta una settimana senza, e il pozzo è l’unica possibilità per avere acqua potabile sicura. Diamo anche ai vicini la possibilità di prenderne, dal nostro pozzo”
Una rapida verifica nell’area Unit J conferma che la maggior parte delle case della cittadina, a 33 chilometri da Harare, è dotata di pozzo interno al cortile di circa 300metri quadrati. La signora Daisy Choto di Mabvuku racconta come scavarsi un pozzo per lei ha significato aver tempo per riposare dopo una dura giornata di lavoro in un negozio della capitale Harare. “Scavare il pozzo mi ha migliorato molto la giornata, perché dopo il lavoro non devo più andare col secchio fino alla fonte più vicina, dove c’è sempre una lunga coda. Adesso ho tempo per riposare, o fare altre cose” spiega una entusiasta Daisy.
Un escavatore di pozzi abusivo, che dice di chiamarsi Joseph Matambo, dice che queste carenze municipali sono un ottimo affare per chi lavora nel settore. “C’è tantissimo da fare per noi a Chitungwiza e in altre zone fuori da Harare, perché gli abitanti si fanno scavare pozzi in casa come alternativa a quei rubinetti sempre asciutti” racconta Matambo. “Il nostro gruppo è composto di tre persone, impieghiamo circa quattro giorni per trovare il punto giusto per scavare il pozzo e finire il lavoro”. A sentire Matambo si spendono 200-250 dollari Usa, a seconda delle modalità di pagamento concordate col cliente. “Noi scaviamo e il cliente è soddisfatto. Siamo entrati in uno spazio in cui il comune non risponde agli abitanti”.
Il rappresentante di Environment Africa Barnabas Mawire commenta che molto probabilmente l’acqua di questi pozzi non è affatto di buona qualità, e dovrebbe essere bollita prima di consumarla. “Si dovrebbe trovare il punto più adatto e verificare meglio, prima di scavare, per le valutazioni ambientali e di rischio idro-geologico. Importante conoscere la posizione delle acque sotterranee, la loro quantità, prima di fare scavi per un prelievo”. Mawire aggiunge che l’acqua dovrebbe essere prima esaminata per verificarne la qualità, se potabile o meno. Scavare pozzi a caso favorisce una più rapida circolazione degli inquinanti verso la falda sotterranea. Il dottor Prosper Chonzi, direttore dei servizi sanitari dell’amministrazione cittadina di Harare, spiega che è vero, in molti casi non si riesce a rifornire d’acqua gli abitanti, e così si chiude un occhio su chi in tante cittadine scava pozzi. “Le amministrazioni non possono avere un atteggiamento punitivo perché non riescono a erogare acqua. Sembrerebbe che tolleriamo questo scavo illegale di pozzi, ma siamo invece privi di possibilità di intervento perché sono cose che nascono da carenze nostre. Scavare pozzi è un’attività che deve essere regolamentata dall’amministrazione, seguire una procedura adeguata per stabilire se la posizione è giusta, se non si toglie l’acqua ad altri. Oggi gli abitanti che scavano buchi senza autorizzazione dovrebbero essere multati, in teoria”.
Una rappresentante dell’Ente Idrico Nazionale dello Zimbabwe, che chiede di restare anonima, spiega che gran parte dei pozzi nelle aree residenziali non sono sicuri per l’approvvigionamento d’acqua, a rischio di essere inquinati. “Certo il servizio di fornitura attuale che offrono è di bassa qualità, con gli scarichi fognari che filtrano”. Anche il loro prosciugarsi piuttosto in fretta si deve, secondo la funzionaria, alle pessime valutazioni preliminari prima dello scavo. E ci sono anche dei problemi di possibile crollo dello scavo, con rischi per gli abitanti delle case.
I costruttori milanesi lamentano la mancanza di aree disponibili subito per costruire alloggi sociali, a prezzo scontato? «Le aree per l'housing sociale ci sono già. A sufficienza per creare subito quattromila alloggi», rispedisce l'obiezione al mittente Ada Lucia De Cesaris, assessore all'Urbanistica del Comune. Assimpredil considera insostenibile la quota di affitto (0,10 ogni metro quadrato di affitto convenzionato e 0,05 di canone sociale) presente nei nuovi progetti? «Non solo il modello è economicamente sostenibile ma farà riprendere il mercato. Anche a vantaggio delle imprese di costruzione», ribatte secca l'assessore, rispedendo al mittente le due principali obiezioni al modello dihousing sociale contenuto nel Pgt. Obiezioni segnalate dagli operatori del settore su queste pagine mercoledì scorso.
Per quanto riguarda le aree, De Cesaris fa riferimento a quelle già messe sul piatto dalla precedente giunta e non ancora sfruttate ma anche a spazi nuovi.
«L'area pubblica di Ronchetto sul Naviglio, per esempio, sarà destinata a residenza sociale», anticipa l'assessore. Che poi torna sulla questione più delicata, quella degli indici di edificabilità: «Il nostro ridisegno degli indici non è punitivo. Non cambia la sostanza rispetto agli indici del vecchio Prg. Certo, rispetto al Pgt messo a punto dalla giunta precedente abbiamo ridotto un'edificabilità enorme. Che nella situazione attuale neppure per gli operatori del settore sarebbe sostenibile».
Tornando alla quota di affitto, secondo De Cesaris «tutti dobbiamo renderci conto che il mondo è cambiato. La gente ha bisogno di locazione e vendita a prezzi accettabili. Ed è a questa domanda che dobbiamo dare una risposta. Molti imprenditori ci hanno già garantito che si può fare». Chi vuole concentrarsi solo sull'edilizia libera anche nelle aree superiori a diecimila metri quadrati può sempre consegnare al Comune la parte dell'area destinata a vendita convenzionata e ad affitto convenzionato o sociale. Ma palazzo Marino avrà le forze per gestire la messa sul mercato, attraverso bandi ad hoc, di numerose aree a costo zero (o quasi) per l'housing sociale? «Certo che abbiamo forze adeguate, questo è un compito e un ruolo che spetta al Comune».
Se sull'affitto convenzionato c'è un dialogo aperto con i costruttori, sulla quota dello 0,05 di canone sociale nessuno — né imprese, né cooperative — vuole sentire ragioni: «Troppo costoso, non si può fare dicono tutti». «Anche questo non è un problema — taglia corto De Cesaris —. Stiamo creando un sistema di monetizzazione. Permetteremo di convertire la quota di edilizia sociale in edilizia agevolata in cambio di una contropartita economica. Questi soldi andranno ad alimentare un fondo per chi fa residenze sociali».
C’è un giudice a Cagliari”, potranno dire adesso i sardi, autentici e d’adozione, che per anni si sono battuti contro lo scempio edilizio di Capo Malfatano. Solo che il mugnaio di Potsdam a Berlino aveva ottenuto giustizia dal sovrano, Federico il Grande per l’esattezza. A Cagliari sono stati i magistrati del Tar della Sardegna a fermare una speculazione terrificante che da oltre dieci anni sembrava marciare spedita con il compiaciuto consenso del sovrano, il comune di Teulada, e la sospetta distrazione della Regione.
In un angolo di paradiso incontaminato, lungo la costa sud-occidentale dell’isola, tra Pula e Capo Spartivento, una variegata compagine di cavalieri del cemento come Silvano Toti, il gruppo Benetton e la Sansedoni (gruppo Montepaschi), stavano costruendo fino a ieri un insediamento turistico da 190 mila metri cubi, pari, se volete farvi un’idea, a dieci palazzi di dieci piani. A fine lavori la gestione del prestigioso “resort” era destinata alla Mita Resort di Emma Marcegaglia. Se il Consiglio di Stato confermerà la sentenza del Tar, arriverà l’ordine di demolizione di quanto edificato fino a oggi.
Al posto del mugnaio di Potsdam, in questa che sembra una favola per far restare i bambini a bocca aperta, c’è un pastore ultraottantenne, Ovidio Marras, che parla un sardo così coriaceo da dover essere sottotitolato nelle rare interviste televisive. Ovidio, che in spregio a Mario Monti ama il posto fisso, ha sempre praticato la pastorizia a Capo Malfatano. E davanti a casa sua c’è uno stradellino su cui vanta da sempre un diritto di compossesso. La Sitas dei suddetti imprenditori non se n’è fatta un problema, e sopra lo stradellino ha costruito un lussuoso albergo.
Il pastore si è rivolto al Tribunale di Cagliari, sostenendo che non potevano costruire senza il suo permesso, e che lui il permesso non lo dava perché voleva continuare a fare la strada dritta anziché il giro largo seppure asfaltato. Il pastore Marras ha fatto un 700, come dicono i principi del foro, un ricorso d’urgenza di quelli con cui normalmente sono i grandi imprenditori a scambiarsi fendenti milionari. Ovidio, pur protestando in sardo, ha avuto ragione in italiano. I giudici hanno ordinato alla Sitas di demolire l’albergo e ripristinare lo stradellino del pastore.
Nel frattempo una militante di Italia Nostra, Maria Paola Morittu, fiancheggiata dal combattivo medico-scrittore Giorgio Todde, molto popolare in Sardegna, stava preparando un altro colpo di mortaio contro il cemento di Capo Malfatano. “Quando ho visto per la prima volta i cantieri vicino alla spiaggia di Tuerredda, a ferragosto del 2010, mi sono venute le lacrime agli occhi”, racconta adesso che ce l’ha fatta. Si è messa al lavoro utilizzando la sua laurea in giurisprudenza e ha convinto i vertici nazionali di Italia Nostra a impugnare davanti al Tar le delibere comunali e regionali alla base della cementificazione.
Ieri è stata pubblicata la sentenza con la quale i giudici amministrativi hanno dato ragione a Italia Nostra, annullando quattro delibere chiave: una sentenza che rende di fatto abusivo tutto l’insediamento.
In effetti, scorrendo la sentenza, c’è di che rimanere esterrefatti. Nel 15 febbraio 2002 Sitas srl inviò all’assessorato per la Difesa dell’Ambiente della Regione Sardegna quattro distinte istanze di “verifica preliminare di compatibilità ambientale”, dividendo in quattro un intervento assai massiccio distribuito su 700 ettari di terreno a due passi dal mare. Il 18 settembre, dopo sei mesi di accurati studi, gli uffici della regione giunsero alla conclusione che per così poco non c’era certo bisogno della “valutazione d’impatto ambientale” (VIA).
E da lì seguirono le rapide autorizzazioni del comune di Teulada, abbagliato dalla prospettiva di arricchimento e dalla disponibilità di posti di lavoro. La lezione di un pioniere dell’ambientalismo come Antonio Cederna, tra i fondatori di Italia Nostra, a Teulada non era arrivata. Eppure trent’anni fa, proprio sul quotidiano La Nuova Sardegna, scrisse profeticamente che “l’ambiente naturale non è una merce da barattare, ma un patrimonio prezioso da custodire”. Una verità che il pastore Ovidio Marras sapeva già, i politici sardi un po’ meno.
Colpisce infatti che la marcia trionfale del cemento, a Capo Malfatano, è proseguita nonostante i celebrati interventi a tutela del governatore Renato Soru, la nota legge “salvacoste” (2004) e il “piano paesaggistico” (2006): semplicemente i provvedimenti di Soru prevedevano una deroga per gli interventi sui quali era già stata approvata la convenzione urbanistica. Poco importa che la convenzione urbanistica viene prima delle verifiche ambientali e paesaggistiche: di fatto gli editti salvacoste di Soru furono scritti in modo da aprire un’autostrada per il cemento di Capo Malfatano, nonostante che in quel momento non un solo mattone fosse ancora stato posato.
L’avvocato di Italia Nostra che ha vinto la causa al Tar si chiama Filippo Satta. Suo padre, Sebastiano, era il magistrato scrittore diventato celebre per il romanzo intitolato “Il giorno del giudizio”. Ieri è stato il giorno del giudizio per suo figlio, che vincendo al Tar ha scritto una pagina importante non solo per la Sardegna: i furbetti del cemento si possono fermare.
Sulla vicenda vedi su eddyburg l'articolo di Maria Paola Morittu, che nell'agosto 2010 ha aperto la critica e lanciato l'appello, e quelli di Giorgio Todde, Andrea Massidda, 16383/0/128/ Mauro Lissia, Sandro Roggio. Su Ovidio vedi anche l'articolo di Mauro Lissia e il servizio di Giorgio Galeano, per TG3, su YouTube.
A furia di prenderli in giro, quei frescaccioni magari in malafede che spargono di “a misura d’uomo” qualunque dichiarazione l’hanno smessa. Ma solo per attaccare subito dopo con un'altrettanto banale litania di “sostenibile”. In cui sostenibile diventa un po’ tutto, dai nuovi modelli di auto che inquinano meno localmente, a qualche iniziativa di facciata sui rifiuti, o l’edilizia. Insomma si tira in ballo il pianeta ad ogni piè sospinto, sperando che l’interlocutore si faccia abbagliare dall’immensità del problema, e sorvoli sui dettagli. Ma come dice quel vecchio proverbio tedesco, il diavolo si nasconde proprio nei particolari: è lì che le pie intenzioni delle dichiarazioni di principio trovano conferma o smentita. Ed è lì che si verifica la famosa “misura d’uomo”, al millimetro.
Un caso lampante di questo tentativo da imbonitori è il progetto di nuovo National Planning Policy Framework messo a punto dal governo di coalizione britannico, notoriamente e volontariamente imbeccato su parecchi aspetti dagli interessi economici legati all’edilizia. L’obiettivo dichiarato era la semplificazione e unificazione degli attualmente vigenti documenti quadro tematici, eliminando doppioni, possibili contraddizioni e confusioni, rendendo più lineare il processo di approvazione dei progetti. Ma le esagerate frequentazioni amichevoli, dentro e fuori l’orario di lavoro, fra costruttori e responsabili ministeriali (eletti e tecnici) hanno prodotto una indebita sparata sulla solita sostenibilità, ora in bella mostra nel documento in discussione: il National Framework sulle trasformazioni urbanistiche dice infatti che vanno considerate per legge con favore tutte quelle sostenibili. Sostenibili come, in che senso? Viene da chiedersi. Dato che il documento tace su questo fronte, la risposta che si è dato il fronte ambientalista di opposizione suona più o meno: non è che ci obbligherete per legge a credere alla sostenibilità declamata dagli stessi costruttori?
Uno dei classici terreni di discussione sugli impatti dell’urbanizzazione, sostenibili o meno, è quello dello sprawl. Che, ci spiega chiunque abbia studiato in buona fede il fenomeno, fra mobilità privata indotta, consumi di territorio aperto, ed effetti collaterali vari ampiamente prevedibili, controbilancia abbondantemente qualunque beneficio dell’innovazione edilizia, o energetica. Questi sono stati fra l’altro i motivi del quasi accantonamento del programma eco-town tanto caldeggiato dell’ex governo laburista, visto che a fronte di mirabolanti promesse tanti piani si risolvevano in quartieri di palazzine nel bel mezzo della campagna, con qualche intervento high-tech, pannelli solari, turbine, nuovi materiali. Ovvero palesemente insostenibili (tranne negli opuscoli promozionali e sulle riviste di settore, geneticamente amiche). La questione però, se non si vuole affrontare il problema direttamente nei dettagli, dove si annida il maligno, è appunto chiarire nella cornice generale cosa è sprawl e cosa lo è un po’ di meno o non lo è affatto. Cosa è meno insostenibile di qualcos’altro.
Ci prova la Campaign to Protect Rural England, col suo rapporto Protecting the Wider Countryside (febbraio 2012). In cui la classica dialettica fra generale e particolare si gioca su principi base e verifiche territoriali, analisi e sintesi. A partire da una puntuale osservazione su quanto affermato dal governo: nessuno si sognerà mai di andare a costruire su aree tutelate. E vorrei vedere, dicono quelli dell’associazione, ma carte alla mano dimostrano che il sistema delle tutele storiche, naturalistiche, parchi nazionali e non ecc., non garantisce affatto la tutela del territorio rurale in quanto tale, e quindi del territorio tout court, se vogliamo credere che ci debba sempre essere un equilibrio fra città e campagna.
E cosa ci dice, implicitamente ma non troppo, questo studio? Che l’obiettivo di qualunque legge che si occupa di città sia anche quello di occuparsi di campagna, conferendo al territorio un valore intrinseco ben diverso da quello di potenziale supporto al famigerato sviluppo. E che ad esempio come ricordava di recente Richard Rogers anche le città sono da sfruttare nel loro valore intrinseco, sviluppandone al massimo il potenziale sociale, artistico, ambientale, economico. Attraverso una politica ispirata allo slogan “prima al centro”. E poi possiamo discuterne. Il resto lo potete vedere nell’illustratissmo rapporto CPRE scaricabile.
C´è una parte di verità, in quel che Mario Monti ha detto – a RepubblicaTv – sul modo in cui è stata interpretata la sua idea del lavoro fisso («Diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita!»). Citato fuori dal contesto, quel che ha aggiunto subito dopo è finito in un buco nero: «È più bello cambiare e accettare nuove sfide, purché in condizioni accettabili. Questo vuol dire che bisogna tutelare un po´ meno chi oggi è ipertutelato, e tutelare un po´ più chi oggi è quasi schiavo nel mercato del lavoro o proprio non riesce a entrarci».
Resta tuttavia l´inadeguatezza del vocabolario, e non può stupire il disagio profondo che esso suscita in chi nulla sa del lavoro sicuro, durevole, e vive un´esistenza arrabattata, esposta alle durezze del mercato, difficilmente conciliabile col proposito di far figli, guardata con sistematica diffidenza da banche che non fanno credito se non a redditi solidi, e costanti. Non meno malessere suscitano gli argomenti con cui il Premier ha tentato di spiegare il suo punto di vista: per troppo tempo, «i governi politici hanno avuto troppo cuore», accogliendo le più varie rivendicazioni sociali e accumulando debiti pubblici rovinosi per tutti. Ripetuto tre volte, anche il vocabolo cuore - «esuberante», contaminato da «buonismo sociale» - è apparso moralmente pernicioso.
Sono tutte frasi che feriscono perché citate fuori contesto? Direi il contrario, anche se il Premier ne sembra persuaso (ieri ha chiesto ai ministri di evitare ogni dichiarazione equivocabile, specie sull´articolo 18). In effetti quel che mortifica è precisamente il contesto in cui le frasi vengono dette: è il Primo ministro a parlare - disinvoltamente, quasi fosse in un salotto o in famiglia anziché nella pubblica agorà - fuori contesto. Il contesto è una società che da almeno vent´anni ha interiorizzato la fine del posto fisso. Non c´è giovane (e meno giovane, visto che il precariato colpisce ormai più generazioni) che non sappia perfettamente come stanno le cose. Quel che reclama, nelle condizioni attuali, potremmo riassumerlo così: "Parlateci di queste ‘condizioni accettabili´, saltando il preambolo pedagogico di cui non abbiamo più bisogno! Diteci come e quando saranno tutelati i lavori non fissi".
Se Monti o il ministro Cancellieri si concentrassero solo sulle tutele, senza pontificare su cosa sia il vivere autentico (monotono o affetto da tedio, due stati d´animo che non concernono lo Stato) sarebbero ascoltati con più interesse. Se il governo ci dicesse qualcosa sulla manutenzione disastrosa delle infrastrutture (o sui centralini Acea sordi alle chiamate) e sull´impreparazione a fronteggiare emergenze come la neve, sarebbe più d´aiuto. Milioni di cittadini hanno messo le parole di Monti nell´unico contesto che conta (il loro vissuto), e si sono sentiti trattati come minorenni. Una cosa è criticare il familismo degli italiani (i bamboccioni), altra è vituperare il loro rapporto col mondo esterno (il lavoro).
È come se Monti, più o meno consapevolmente, "si sbagliasse d´epoca", e non sempre sapesse le persone cui si rivolge. Come se con una politica sentimentale (e un lessico farcito di intimismi: cuore, vita monotona, tedio, bontà) riempisse il vuoto di misure tangibili, che diano a precari e disoccupati se non il posto di lavoro, almeno quello di cittadini adulti. La dura legge del contrappasso conosce queste peripezie fatali: dopo anni di retorica affettiva (il partito dell´amore), si è passati all´algida offensiva contro i cuori esuberanti, contro la psiche inadatta al mutamento. L´impronta è radicalmente diversa (oggi governano persone perbene) ma in ambedue i casi c´è un ingrediente che manca: la lingua della politica, la prudenza che la contraddistingue, la conoscenza della persona umana che presuppone, i rimedi concreti che predispone nel momento in cui disquisisce di virtù e psiche.
Quel che manca, Ulrich Beck lo spiega a chiare lettere quando parla del «dramma pedagogico» che i politici dovrebbero imparare a mettere in scena, affinché la crisi non sia vissuta come rovina ma come trasformazione, nuovo inizio (Disuguaglianza senza confini, Laterza 2011). Il governante che ricorda la scomparsa del lavoro fisso fotografa l´esistente. Somiglia un po´ a quel monarca assoluto del Piccolo Principe, assai gentile e fiero d´esser re, che ordina al sole d´alzarsi o tramontare quando sta per arrivare l´alba o avvicinarsi il tramonto. Afflitto da monotonia non è il lavoro fisso, ma il discorso sulla fine del lavoro fisso. È il dopo che interessa, e il dopo resta nell´ombra. È il che fare, e del che fare poco sappiamo.
Ci sono gaffe che inquietano, perché non sempre sono veramente tali. La gaffe per definizione vien commessa per goffaggine, distrazione: imbarazza, tuttalpiù. Se le parole di Monti provocano collera è perché si inseriscono in una collana di disattenzioni, e allora ecco che c´è del metodo, nella gaffe. Altrimenti non è chiaro come mai il viceministro Martone se l´è presa con gli studenti che finiscono tardi l´università, chiamandoli sfigati (l´aggettivo evoca sgradevolezza): e non perché costretti a più lavori per mantenersi, non perché privi delle raccomandazioni di cui ha goduto il giovane e apparentemente non geniale viceministro.
Dietro le quinte della gaffe sembra quindi nascondersi dell´altro: una sorta di sfasamento storico, una vecchia dottrina che riaffiora, sullo Stato e le sue funzioni in tempi di crisi. Non manca a tale dottrina la veduta lunga, anzi. Ma c´è in essa un che di torbido: chi sta male, chi anela non al posto fisso ma a un´attività stabile, qualche colpa deve averla. Deve essere uno sfigato, un disgraziato (solo nella lingua italiana il disgraziato è un fallito). È una convinzione antica, che ritroviamo nei saggi del demografo-economista Malthus. Il mondo era invivibile, perché sovrappopolato e assillato da troppe rivendicazioni? Ascoltiamo quel che nel 1798 Malthus scriveva a proposito del buonismo sociale, dell´utilità di scaricare la povertà sulle spalle dei poveri perché l´istinto riproduttivo s´attenuasse: «Ciascun uomo si sottometterà con aggraziata pazienza a mali che immagina provengano dalle leggi generali della natura; ma se la vanità e l´errata benevolenza di governi e classi alte si sforzano - intervenendo di continuo negli affanni delle classi basse - di persuadere queste ultime che ogni bene è loro conferito da governanti e ricchi benefattori, è molto naturale che esse che attribuiranno ogni male alle stesse fonti. In queste circostanze, non ci si può ragionevolmente aspettare alcuna pazienza. Sicché, per evitare mali ancora maggiori, saremo fondati a reprimere con la forza l´impazienza, qualora s´esprimesse con atti criminosi».
Malthus bussa alle porte d´Europa, lo vediamo in questi giorni in Grecia. Lo si vide anche in passato: quando alla Germania fu imposta un´austerità punitiva, nel primo dopoguerra. Qui è la vera monotonia che incombe: una storia che si ripete, un cambiamento senza cambiamento, proprio quando urge spezzare la monotonia con discorsi nuovi. Con discorsi sulla fragilità dei deboli, fonte del declino demografico europeo. Sui magistrati chiamati a combattere la corruzione senza esser penalmente perseguibili. Sull´Europa da edificare perché la trasformazione sia preparata senza castigare i perdenti come negli anni ´20-30. Sull´«ondata mondiale di rinazionalizzazioni», che secondo Beck dilaga. Non per ultimo, sulla politica degli immigrati, che faccia di loro i nostri futuri concittadini. In un ottimo articolo su Italianieuropei, Beda Romano racconta come la Germania sia forte perché esattamente su questo ha scommesso: introducendo il diritto del suolo fin dal 2000, e «trasformando lo Stato in un progetto politico più che etnico o religioso»
In tanti modi si può rompere la monotonia. Purché si rompa la monotonia autentica, e si scongiuri il cambiamento senza cambiamento.
Nella frenetica ricerca di nuovi "prodotti finanziari", con i quali continuare ad intossicare il mercato, la riverita Deutsche Bank ha superato ogni limite, facendo diventare la vita stessa delle persone oggetto di speculazione. Il caso si può così riassumere. Si individua negli Stati Uniti un gruppo di cinquecento persone tra i 72 e gli 85 anni, si raccolgono con il loro consenso le informazioni sulle condizioni di salute, e si propone di investire sulla durata delle loro vite. Più rapidi sono i decessi, maggiore è il guadagno dell´investitore, mentre il profitto della banca cresce con la sopravvivenza delle persone appartenenti al campione. Sono così nati quelli che qualcuno ha definito i "bond morte".
Molte sono state le reazioni: la stessa Associazione delle banche tedesche ha detto che «il modello finanziario di questo fondo è contrario alla nostra morale e alla dignità umana». Ma il fatto rimane, segno inquietante di che cosa stiano diventando i nostri tempi. La vita entra senza riserve a far parte del mercato, è puro oggetto di calcolo probabilistico, è consegnata a uno dei tanti algoritmi che ormai regolano la nostra esistenza. E tutto diventa ancor più inquietante se si guarda alla composizione del campione. Si scommette sugli anziani, un gruppo che già conosce forme crescenti di discriminazione, con l´esclusione della gratuità di taluni farmaci e con il divieto di accesso ad una serie di trattamenti sanitari.
Non più produttiva, la vita degli anziani diventa "vita di scarto", la loro dotazione di diritti si impoverisce, appare incompatibile con la logica dell´economia. Si scivola verso un "grado zero" dell´esistenza, con il trascorrere degli anni si entra in un´area nella quale si è sempre meno "persone", disponibili come di uno dei tanti oggetti con i quali si costruiscono i prodotti finanziari. Tra il mondo delle persone e quello delle cose non vi sono più confini, si stabilisce un perverso continuum.
Non voglio evocare con colpevole superficialità tragedie del passato. Ma la decisa reazione dell´Associazione delle banche tedesche non si comprende se si ignora che proprio lì, negli anni del nazismo, la formalizzazione giuridica delle "non persone", gli ebrei in primo luogo, portò a considerare vita e corpi come oggetti disponibili per il potere politico e medico. Oggi il potere sommo della finanza pensa di avere titolo per impadronirsene, in un modo immediatamente meno distruttivo, ma che porta con sé l´insidia della vita come merce.
Non a caso i banchieri tedeschi evocano la dignità, la barriera che si volle levare contro la perversione giuridica del nazismo, scrivendo in apertura della costituzione tedesca che "la dignità umana è inviolabile". È ragionevole ritenere, allora, che i giudici tedeschi sapranno intervenire in maniera adeguata se quel prodotto finanziario continuerà a circolare. La questione è della massima rilevanza, perché tocca il tema attualissimo del rapporto tra libertà economica e diritti fondamentali. Nel 2004, la Corte di giustizia europea pronunciò una importante sentenza, indicando proprio nel rispetto della dignità umana un limite insuperabile nell´esercizio dell´iniziativa economia privata. Sentenza giustamente citata, ma che non può far dimenticare che la Costituzione italiana quel limite lo ha già esplicitamente segnato.
Nell´articolo 41, infatti, si afferma che l´iniziativa privata è libera, ma non può svolgersi "in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Questa non è la rivendicazione di una primogenitura, dell´abituale lungimiranza dei nostri colti costituenti. È la sottolineatura di un rischio che stiamo correndo, visto che decreti di ieri e di oggi si aprono proprio con forzature interpretative che vogliono imporre letture dell´articolo 41 tutte centrate sulla preminenza della libertà economica. Queste letture riduzioniste e "revisioniste" sono costituzionalmente inammissibili, e sarebbe bene che ne avessero memoria tutti coloro i quali invocano un ritorno della politica, che non è possibile se vengono recise le radici dell´ordinamento repubblicano.
La dignità umana non è violata solo in casi limite come quello dei "bond morte". È violata quando si capovolge il rapporto tra principio di dignità e iniziativa economica, attribuendo a quest´ultima un valore prevalente, come si cerca di fare oggi in Italia. L´esistenza "libera e dignitosa", di cui parla l´articolo 36 della Costituzione, viene negata quando una considerazione tutta efficientistica del lavoro affida la vita delle persone al potere dell´economia, consegnandola alla logica della merce. Indigniamoci per le cose tedesche, ma diamo uno sguardo anche in casa nostra.
Nel decreto prevista la vendita dei terreni demaniali. La protesta degli agricoltori Si ricaverebbero 6 miliardi: «Introiti maggiori e più strutturali dandoli in affitto»
Il freddo gelido che ancora ieri mattina avvolgeva Roma per loro non è un problema: conoscono la fatica di lavorare la terra, di alzarsi e andare fuori con qualsiasi temperature. Fare il contadino è una professione dura, a tratti ci raccontano che sta tornando di moda, ma secondo Cesare Fabbretti - che ieri era in piazza Montecitorio insieme a molti altri agricoltori come lui - «l'età media in agricoltura è di 50 anni, e perché dovrebbe all'improvviso arrivare un gran ricambio di giovani, non si capisce». Tanto per dare a intendere che ai contadini italiani non piace neanche quel comma dell'articolo 66 del decreto sulle liberalizzazioni che nel prevedere l'alienazione dei territori demaniali a vocazione agricola, specifica il "diritto di prelazione" dei giovani.
E' un vero allarme questo. Quello che sono andati a segnalare ieri mattina gli agricoltori, con una lettera e una proposta di emendamento insieme a diverse associazioni - Aiab, Libera, Legambiente, Slow food - cooperative e realtà di coltivatori grandi e piccole. Il decreto sulle liberalizzazioni - il primo dell'anno, che sta per essere convertito in legge - per fare cassa prevede la vendita dei terreni demaniali dello Stato. Per valori inferiori ai 100 mila euro senza asta. Per quelli superiori ai 100 mila euro con asta pubblica. Il ricavo? Esistono solo stime. Le più favorevoli calcolano un introito pari a circa 6 miliardi di euro, considerando gli attuali prezzi di vendita. Ma è chiaro che quando sul mercato arriveranno i 324 mila ettari di terreno demaniale - per quanto l'articolo 66 del decreto non stabilisca una immediata e totale dismissione, ma non specifica neanche un limite annuale - i prezzi potrebbero crollare. Il professor Monti e tutti gli altri professori dell'esecutivo lo sanno certamente. E, comunque, fossero anche 6 miliardi, vale la pena vendere il terreno demaniale? E chi lo compra, per fare cosa? Il decreto prevede una via preferenziale per i giovani che decideranno di acquistare, sia come diritto di prelazione che sotto forma di agevolazioni. Ma gli agricoltori ieri erano molto scettici circa la possibilità di acquistare terreni. E propongono al governo, piuttosto, di poterle prendere in affitto: «Non basta acquistare la terra - dicevano - ci vogliono gli attrezzi, il know how e soprattutto il mercato: l'agricoltura non è redditizia, e in questo momento di crisi economica ancora di meno». E poi, c'è l'altro grande problema: chi può permettersi di acquistare terra, ora che accedere al credito è proibitivo?
Ma di certo chi è interessato ad acquistare grandi appezzamenti di terreno c'è, non sarà difficile trovare clienti: «Le grandi corporation e le multinazionali stanno acquistando terreni nel sud del mondo, è un business interessante con la popolazione mondiale in continuo aumento. Sia per la produzione di cibo, ma anche per produrre biodisel o altro - spiega il presidente dell'Aiab, Alessandro Triantafyllidis - E' il cosiddetto land grabbing, a cui anche noi siamo esposti. Ma l'acquisto di terreni può essere un grosso affare anche per la criminalità organizzata che così può riciclare denaro sporco».
Aldilà dei peggiori interessi, è un fatto che in Italia sta tornando il latifondo: negli ultimi 10 anni c'è stata una perdita della superficie agricola utilizzata pari a 300 mila ettari, accompagnata da una riduzione del numero di aziende di circa un terzo. Il che significa anche terreno meno curato, e comunità indifese di fronte alle alluvioni. La proposta dei manifestanti, che ieri hanno inviato una lettera ai senatori, è che sia previsto di dare in locazione a equo canone le terre demaniali agli agricoltori, privilegiando giovani singoli o associati e l'agricoltura sociale. «L'avvio di attività di produzione agricola porterebbe immediato beneficio alla casse pubbliche - scrivono - tramite le risorse provenienti dai contratti di locazione, le vendita di beni e servizi delle attività avviate che determinano versamenti di Iva, il pagamento degli oneri previdenziali per i nuovi lavoratori». Ricordano che queste entrate non sarebbero occasionali, bensì «strutturali» e si manterrebbe «intatto il patrimonio dei beni comuni» che così «assumerebbero un maggiore valore come strumenti di garanzia patrimoniale per l'eventuale accesso al credito da parte dell'amministrazione pubblica, e come ulteriore riserva di liquidità da iniettare per investimenti pubblici». Invece di svendere i gioielli di famiglia.
Singolari analogie tra l’immobile ex Grandi Stazioni al terminal Santa Lucia e la vicenda romana di via della Stamperia
L’unità d’Italia è fatta anche di palazzi storici venduti al primo merlo che passa per strada, per un prezzo doppio di quello d’acquisto. Venezia e Roma non sono lontane 600 chilometri: il palazzone di via della Stamperia, vicino alla Fontana di Trevi, comprato a 26,5 milioni di euro dal senatore del Pdl Riccardo Conti e venduto per 44,5 milioni poche ore dopo all’Enpap, l’ente di previdenza degli psicologi italiani, con un surplus di 18 milioni di euro, ha un precedente nel palazzo delle Ferrovie di Venezia, che oggi ospita 600 dipendenti della Regione, comprato dalla giunta Galan nel 2007 per 70 milioni di euro dopo che era stato valutato 70 miliardi di lire, ovvero 35 milioni di euro, da dirigenti della stessa Regione nel 2001.
Al netto del tempo passato e di lavori di ripristino, la plusvalenza è stimata in 24 milioni di euro: Venezia batte Roma 3-1. A vendere entrambi i palazzi è la stessa persona, Massimo Caputi, il Fregoli dell’immobiliarismo italiano: a Venezia indossava la giacca di amministratore delegato di Grandi Stazioni, a Roma è il titolare di “Idea Fimit”, la società che gestisce il patrimonio immobiliare del fondo “Omega”, di cui fa parte il palazzo romano. Questo fondo è posseduto al 30% di Intesa San Paolo ma la banca si dissocia dall’accaduto. I vertici nulla sapevano. Chi invece vuol sapere qualcosa, può leggere la ricostruzione sul sito Liberosinfub.com, gestito da sindacati del personale del credito.
Stante che nel campo immobiliare i merli sono sempre quelli che comprano, mai quelli che vendono, nel caso di Roma bisogna credere che i merli siano passati dall’altra parte: Caputi sostiene di aver fatto «un affarone» vendendo a 24,5 milioni di euro. Dice che il prezzo supera del 52% quello di acquisto. Figurarsi il guadagno incamerato dal senatore Conti, che compra e rivende in poche ore: aveva un destino scritto nel cognome, evidentemente. Ma anche L’Enpap, l’ente che becca la stangata pagando 44,5 milioni più Iva, totale 52,8 milioni, è contento.
E anche questo è un classico: a Venezia il 20 marzo 2007 alla firma del contratto con Grandi Stazioni, il presidente Galan parlò di «grande risultato per la Regione». La compravendita parte col piede sbagliato nel 2001, quando Caputi, che conosce personalmente Galan, avvia contatti. La Regione non si schioda dalla valutazione di 70 miliardi di lire che le Ferrovie avevano fatto cedendo gli immobili di Venezia, Bologna e Firenze, un pacchetto unico, a Grandi Stazioni (40% Benetton, Pirelli e Caltagirone). Glielo vanno a dire due dirigenti regionali, Umberto Bocus e Loris Costantini. Caputi non vende, preferisce accordarsi per l’affitto, ma paga lo stesso la prima tranche di consulenza a Gian Michele Gambato che gli ha agevolato la trattativa. I due si conoscono perfettamente: Caputi è il titolare di Proger spa, la società di ingegneria dove Gambato era responsabile commerciale, prima di trasferirsi nel Veneto e diventare presidente di Sistemi Territoriali, società della Regione. La seconda tranche viene pagata a Gambato nel 2007 dal nuovo a.d. di Grandi Stazioni, Ennio Aliotti, quando il palazzo di Venezia viene acquistato dalla giunta Galan per 70 milioni di euro. Totale della provvigione a Gambato 1,6 milioni. Tre anni dopo, nel 2010, scoppia lo scandalo: la procura di Roma mette sotto inchiesta Gambato e gli ex amministratori di Grandi Stazioni per truffa, quella di Venezia per concussione. Procedimenti di cui non si sa più nulla. Ciliegina sulla torta: l’ultima delibera del Cipe si accolla i lavori in Fondamenta Santa Lucia. Non dovevano essere in capo a Grandi Stazioni?
La regola era stata inaugurata con il nuovo piano regolatore generale di Roma, una manciata di anni fa. Era nota con il nome di “compensazione” e funzionava così: il Comune acquisiva dal privato l’area che riteneva utile alla riorganizzazione del tessuto urbano (per farci una scuola, un parco, un ufficio), e in cambio offriva al privato la possibilità di edificare in un’altra area della città con un moltiplicatore che ne pesasse il pregio (più ci si allontanava dal centro, più si accrescevano le cubature). Era un sistema che andava certamente incontro alle difficoltà di cassa del Campidoglio e alla nota fame dei palazzinari del luogo, ma si poteva pensare ricadesse in un medesimo disegno organizzativo: quello della costruzione di una città che alla fine rispondesse a un sistema di regole.
Adesso, in quella Roma alle prese con le medesime difficoltà di cassa, il sistema della compensazione si è trasferito anche alla costruzione delle metropolitane, opere che, di norma, sono da sempre affidate alla mano pubblica: chi costruirà pezzi di metropolitana a Roma, otterrà dal Comune la possibilità di edificare su aree pubbliche della città (peraltro già densamente popolate) nuove case. Domenica sera, alla trasmissione Presadiretta di Riccardo Iacona, Lisa Iotti ci ha illustrato, progetti e proposte alla mano, quello che dal settembre 2010 è il nuovo credo dell’amministrazione Alemanno. L’idea che parte dai prolungamenti della linea B (la cosiddetta “B1”), quelli verso Bufalotta da una parte e Casal Monastero dall’altra, ha in realtà il boccone più ghiotto nel tormentato cantiere della metropolitana C, già finito sotto i riflettori la scorsa settimana per la bocciatura senza appello che ne ha fatto la Corte dei Conti in una dettagliata relazione.
Parliamo della terza linea della metropolitana di Roma, che, progettata nel 1990, avrebbe dovuto vedere la luce per il Giubileo del 2000. Undici anni dopo quella data, la tratta che avrebbe dovuto collegare la periferia sud della città (borgata Finocchio, Torre Angela, Giardinetti, Centocelle) a Piazzale Clodio, passando per San Giovanni, Colosseo e Piazza Venezia, è ancora in mezzo al guado. Con i costi già triplicati alla esorbitante cifra di 5 miliardi e 72 milioni (+163% certifica la Corte dei Conti) a causa di quello che nessuno ignorava all’aggiudicazione dell’opera (vale a dire il tessuto archeologico del sottosuolo capitolino) l’opera è in ritardo di quasi un anno anche rispetto ai tempi della gara affidata nel 2006. La linea C rischia di essere per Alemanno e per i romani un pozzo di spesa senza fondo. Se infatti si ha una qualche certezza sulle tratte che dal capolinea sud di Pantano muovono verso Centocelle (che si stima di completare entro il 30 giugno 2012, con quattordici mesi di ritardo), piazza Lodi (30 giugno 2013) e San Giovanni (31 dicembre 2014), è ancora un mistero che strada prenda la parte “pregiata” della metropolitana, quella che dal Colosseo porta a Piazzale Clodio, in gergo chiamata “T2”.
Sono sette chilometri. Per farli le società capofila del consorzio di impresa che sta costruendo il resto della metropolitana (Vianini, Astaldi, Lega Cooperative e Ansaldo) hanno chiesto che gli venissero trasferite le preziose caserme e depositi Atac dei quartieri Prati e Flaminio (175mila metri cubi in pieno centro, pronti ad essere “valorizzati”) e 1,2 miliardi che il Comune dovrà pagare cash. In più i privati chiedono la gestione della linea e anche un canone di 312 milioni di euro l’anno per i prossimi 35 anni. Cioè, tenere aperta la metropolitana di Roma costerebbe qualcosa come 850mila euro al giorno, anche al netto del patrimonio che il Comune dovrebbe alienare ai privati. “È evidente - dichiara Massimiliano Valeriani, presidente Pd della commissione Trasparenza in Consiglio comunale - che un accordo del genere la giunta non può farlo. Un appalto di queste dimensioni andrà per forza di cose messo a gara”.
Il problema, però, resta sempre lo stesso. Se Alemanno (come ha dichiarato) non ritiene di poter prendere in considerazione la proposta fatta dai costruttori, con quali soldi si potrà costruire quel pezzo di metropolitana? È sempre Valeriani a rispondere: “Quella che la giunta si apprestava a portare avanti era un’operazione spericolata. Al punto in cui siamo mi sembra difficile pensare che i privati non debbano contribuire all’opera, ma va trovata una misura. Non ci si può indebitare per trent’anni a venire lasciando tra l’altro ulteriori pezzi di territorio ai costruttori. Non si può, credo, nemmeno lasciargli la gestione del metrò. Non esiste in nessun posto del mondo che due società gestiscano linee interconnesse”.
Il Fatto Quotidiano on-line
Riflessioni attorno alla nevicata
di Giulietto Chiesa
Ho visto, e sperimentato di persona, cosa può produrre una, tutto sommato banale, nevicata, in un tutto sommato ancora (per poco), paese industriale “avanzato”. Al di là dei soliti lai dei mass media, che lasciano il tempo che trovano, mi sono trovato a riflettere, in un treno ad alta velocità fermo in mezzo alla neve, sulla fragilità delle nostre società. Riflessione stimolata da un articolo sul Fatto, di quel giorno, a firma Massimo Fini, che a sua volta rifletteva su un elemento correlato: la perdita progressiva della nostra manualità umana.
Non siamo più capaci di fare niente con le nostre mani. Non siamo più capaci di praticare l’agricoltura. Il pollice è diventato dominante, quanto a trepestare sui tasti del cellulare, ma la mano non riceve più dal cervello ordini sensati che non siano quelli di usare coltello e forchetta.
Ho pensato che le nostre società sono diventate così complesse e costose, che se dovessimo essere costretti, da qualche imprevisto, a rinunciare collettivamente all’energia elettrica per più di tre giorni le nostre società cadrebbero nel panico e i morti si conterebbero non più a decine ma a centinaia di migliaia.
Complesse e costose. Abbiamo scelto l’alta velocità (lasciamo pure perdere la Val di Susa, dove la scelta è talmente insensata che non varrebbe nemmeno più la pena di parlarne se non fosse che il governo ha militarizzato, per farla, trenta comuni) senza nemmeno renderci conto che, più veloci andiamo, più quelle stesse macchine (e tutto il complicatissimo e costoso meccanismo che le fa muovere) diventano fragili come il vetro. Treni e scambi e rotaie, che potrebbero benissimo funzionare in condizioni di velocità tradizionali, diventano improvvisamente inabili a fronteggiare situazioni di emergenza, con il risultato che, invece di andare più veloci, restiamo fermi.
Il tutto di fronte alla prospettiva, serissima, che proprio ciò aumenta la probabilità di accadere nell’arco breve delle nostre vite. La crisi energetica, che facciamo tutti finta di non vedere, è appena dietro l’angolo. Le implicazioni che comporterà – sottolineo: nell’arco della vita nostra e dei nostri figli – saranno gigantesche.
Ma noi continuiamo a andare avanti, come dei dementi senza destino, a costruire complessità, facendo terra bruciata dietro le nostre spalle. Cioè facendo terra bruciata davanti al futuro dei nostri figli. Quando parli di “decrescita” sorgono rabbiose le urla degli sviluppisti a tutti i costi. E il governo dei tecnici, che ci sgoverna come il precedente governo dei puttanieri e dei ladri, ci promette ancora “crescita”.
Prima ancora di dire a Mario Monti che è un bugiardo, perché promette una crescita che non ci sarà, gli darei dell’irresponsabile. Gli direi: caro Monti, lei ci sta minacciando, con la sua crescita. Non la vogliamo la sua crescita. Vorremmo re-imparare a fare crescere i pomodori e le patate, perché sta venendo il tempo in cui non le troveremo più nel negozio sotto casa.
La Repubblica
Il paese sconfitto
di Giovanni Valentini
Non c´era bisogno di un´altra triste metafora, dopo i rifiuti di Napoli, i crolli di Pompei e il naufragio del Giglio, per rappresentare la crisi del nostro Paese sul piano mediatico planetario. Ma la disfatta di Roma, sotto una nevicata di poche ore e di pochi centimetri, è piuttosto un esplicito atto d´accusa contro un apparato pubblico palesemente inadeguato. "Capitale inetta, Nazione sconfitta", si potrebbe dire parafrasando uno storico slogan del settimanale L´Espresso.
Quando il maltempo si combina con il malgoverno, non c´è scampo per i cittadini. Allora la forza della natura s´incarica di mettere a nudo tutta la debolezza dell´uomo: per dire l´incapacità di prevenire e affrontare un´emergenza ambientale già ampiamente annunciata. Per l´occasione, il sindaco Alemanno avrebbe potuto almeno risparmiarsi (e risparmiarci) il consueto scaricabarile con la Protezione civile sulla puntualità delle previsioni meteorologiche: bastava ascoltare nei giorni scorsi un qualsiasi giornale radio o telegiornale, per informarsi e provvedere di conseguenza.
La "Città eterna", dunque, degna Capitale del Malpaese. Centro nevralgico di un intero sistema – ferroviario, aereo, stradale e autostradale – obsoleto e inefficiente. Ma anche simbolo di un cattivo governo del territorio, del suo assetto idro-geologico, del suo contesto ambientale. Non a caso, fin dai tempi del boom economico, Antonio Cederna denunciava il "sacco di Roma" come paradigma di un malcostume nazionale, alimentato dalla speculazione edilizia e dalla cementificazione selvaggia.
Di questa cultura o incultura collettiva, fa parte integrante la mancanza o insufficienza cronica dell´ordinaria manutenzione. Cioè di quei "piccoli lavori" quotidiani che, a differenza delle mitiche "grandi opere", si possono (e si devono) realizzare con minori costi e rischi. È proprio questa, in realtà, la forma di prevenzione più efficace per arginare e contenere l´impatto delle fenomeni o delle calamità naturali.
Basta allora una nevicata, neppure tanto catastrofica, per mettere in ginocchio una Capitale e mandare in tilt mezzo Paese. A parte, poi, le vittime e i danni che un evento del genere riesce in queste condizioni a provocare. Danni materiali, economici e comunque anche d´immagine, se è vero che quella del turismo resta tuttora la prima industria nazionale.
Il fatto è che il nostro appare oggi un Paese a rischio permanente. E a dispetto del suo incomparabile patrimonio storico, artistico e culturale, come della sua antica tradizione di accoglienza e civiltà, non offre un´ospitalità adeguata ai visitatori e ai turisti italiani o stranieri. C´è uno spreco intollerabile di risorse che pure appartengono al patrimonio pubblico e non influiscono quanto potrebbero sul Prodotto interno lordo, né in termini finanziari né tantomeno di occupazione.
Qualsiasi politica di rilancio e di crescita, invece, non può che fondarsi sulla sicurezza ambientale e civile. E questo vale in particolare per il Mezzogiorno, afflitto dal degrado e dall´abusivismo edilizio oltre che dalla criminalità organizzata. Senza sicurezza non c´è turismo e senza turismo per noi non c´è sviluppo.
È tanto paradossale quanto inaccettabile, perciò, che una nevicata spacchi il Paese in due, paralizzando la Capitale, i collegamenti stradali e ferroviari. Che centinaia di passeggeri rimangano bloccati per un giorno intero in stazioni gelate, che intere zone rimangano isolate, che quasi duecentomila famiglie rimangano senza elettricità. Mentre cerchiamo faticosamente di risalire la china della credibilità internazionale e di ridurre finalmente lo spread, per pagare meno interessi sul finanziamento del debito pubblico, nello stesso momento mostriamo al mondo intero il nostro volto peggiore: quello di un popolo arruffone, disorganizzato, inefficiente. Un´Italia occupata in gran parte da catene montuose, le Alpi in tutto l´arco settentrionale e gli Appennini come spina dorsale da nord a sud, ma senza spazzaneve e camion spargi-sale a sufficienza.
A Roma e dintorni, nei prossimi giorni il ghiaccio si scioglierà. La circolazione stradale tornerà più o meno regolare. I treni e gli aerei riprenderanno a viaggiare più male che bene. Ma, prima che arrivi un´altra nevicata, un´altra alluvione o un´altra frana, dovremmo imparare una buona volta la lezione che di tanto in tanto la natura severamente impartisce.
I «canali-boulevard» di Stendhal e l'orrore del Manzoni: «Onda impura»
di Annachiara Sacchi
Certo, il paesaggio non doveva essere niente male. Una «quasi» Venezia con ponti, scorci romantici, vedute mozzafiato — e qualche prova si ha alle Gallerie d'Italia, con le opere di Giuseppe Canella e Angelo Inganni (mirabile una veduta di via San Marco). Ma la Milano dei Navigli — progettati da Leonardo, amati da Stendhal che li definiva boulevard, rimpianti, vagheggiati, sognati dai cittadini del XXI secolo — non era tutto questo splendore. Alessandro Manzoni si lamentava delle acque stagnanti (le chiamava «onda impura») e pure Filippo Turati detestava quel «gorgo viscido chiazzato e putrido». Qualcosa, mentre la città aumentava il numero dei suoi abitanti e celebrava la modernità, andava fatto. Il fascismo scelse la via più semplice: interrare tutto.
Il 6 marzo 1929 presero il via i lavori per coprire la cerchia dei Navigli, l'ultimo barcone che trasportava le bobine di carta fu scaricato sotto il Corriere della Sera il 15 marzo di quell'anno. Milano non avrebbe più avuto una circle line navigabile — forse un po' puzzolente e piena di topi e zanzare — quella che Luca Beltrami, il «salvatore» del Castello Sforzesco, cercò di difendere fino all'ultimo. In compenso, guadagnò una circonvallazione interna. Addio alla città di Leonardo, al primo canale navigabile del mondo. Fu proprio il genio di Vinci, prima di arrivare a Milano nel 1482, a scrivere a Ludovico il Moro dicendogli di sapere «condurre acque da un loco a un altro», sfruttando il fossato difensivo costruito tra il 1157 e il 1158 e quella «bella, ricca e fertile pianura» descritta da Bonvesin de la Riva nel XIII secolo «tra due mirabili fiumi equidistanti, il Ticino e l'Adda».
Dimostrò tutto il suo talento, Leonardo. E durante il suo primo soggiorno milanese (tra il 1482 e il 1489) disegnò una pianta della città in cui viene indicata la necessità di prolungare il Naviglio della Martesana fino alla «cerchia». Il suo pallino, però, rimase il Naviglio Grande, realizzato tra la metà del XII e del XIII secolo: «Vale 50 ducati d'oro, rende 125 mila ducati l'anno, è lungo 40 miglia e largo braccia 20». Un sistema redditizio. Altri ingegneri, dopo la morte di Leonardo, proseguirono nel disegnare la Milano dell'acqua. Il Naviglio di Paderno, finanziato da Francesco I, fu progettato nella seconda metà del '500 e terminato nel 1777 dall'amministrazione austriaca, mentre il Naviglio Pavese fu concluso nel 1819.
Milano porto fluviale. Utile fino al boom delle ferrovie e del trasporto su strada, gestibile finché le condizioni igieniche della città non diventarono drammatiche. Forse, nel 1929, non c'era altra soluzione se non la chiusura di quei canali. Ma da allora, sotto il cemento e il traffico, le acque «soffocate» dall'asfalto non hanno mai smesso di farsi sentire. E di suscitare dibattiti e divisioni, nostalgie e rimpianti.
Un'Expo per «riscoprire» i Navigli
di Elisabetta Soglio
Milano? Una città d'acqua. Expo rispolvera una vocazione antica e si capisce perché scatti l'applauso quando Umberto Veronesi lancia la proposta: «Dovremmo scoprire i Navigli». Sul palco del Teatro Dal Verme si parla della Milano di ieri, grazie a ricordi di milanesi d'eccezione, e di quella che diventerà con Expo 2015. Della Darsena che verrà risistemata, delle vie d'acqua e del nuovo percorso ciclabile che collegherà la città alla zona dell'esposizione, creando un «anello verde-azzurro» che dalle dighe del Panperduto al Villoresi e al Naviglio, porterà acqua e cultura: un finanziamento di 175 milioni, la più consistente eredità dell'evento.
Veronesi, che propone anche di chiudere il centro alle auto, insiste sul fatto che «l'acqua toglierebbe aridità alla nostra città e renderebbe meno aridi anche i nostri cuori». Gli fa eco Fedele Confalonieri, che oltre ai Navigli scoperti fa una petizione al sindaco: «Sul Naviglio in questi giorni d'inverno tanti anni fa vedevi la nebbia che saliva ed era una grande poesia».
Poi c'è Umberto Eco, che ammonisce: «Stiamo rischiando di perdere il senso dell'acqua» e Luca Doninelli a ricordare che «Milano porta la memoria dell'acqua anche nei suoi palazzi e nei suoi paesaggi». Fra gli uni e gli altri, le immagini e gli interventi dei commissari Roberto Formigoni e Giuliano Pisapia e dell'ad di Expo, Giuseppe Sala, raccontano cosa resterà dopo il 2015.
Lungo il percorso si potranno ammirare le bellezze del territorio: da Villa Arconati («Che 40 anni fa era uno dei luoghi più belli d'Europa», sospira Philippe Daverio) a Cascina Merlata. Gualtiero Marchesi propone il piatto per Expo: «Toglierò la foglia d'oro e lascerò un bel risotto giallo». «Milano è un modo per trovare la convivenza delle diversità», spiega Salvatore Veca dissertando con Piergaetano Marchetti, che si rivolge ai giovani: «Usate sempre la ragione e seguitela». Lo spettacolo al Dal Verme serve per parlare di Expo: «Mi aspetto — è l'auspicio di Livia Pomodoro — che la città si mobiliti per dimostrare che Milano può essere simbolo di una rinascita di tutto il nostro Paese».
Il dibattito sui Navigli, intanto, è aperto. E il consigliere regionale udc, Enrico Marcora, propone: «Invece di costruire un nuovo canale per unire la città al sedime di Expo è meglio investire quei soldi per riaprire i Navigli milanesi, là dove possibile».
Titolo originale: NM farm, ranch museum adjusts to urban sprawl - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
LAS CRUCES, New Mexico — Nei ranch da queste parti c’è un paio di semplici regole da seguire: non mancare alla parola data, non cercare di fare il furbo quando arriva il tuo turno di sistemare il fieno, ma soprattutto non dar mai – assolutamente mai – da mangiare le patatine al bestiame. “Certo hanno un buon sapore, loro le mangiano, ma non gli fanno bene” spiega Mark Santiago, direttore del New Mexico Farm & Ranch Heritage Museum sulla Dripping Springs Road fuori da Las Cruces. Coi nuovi quartieri che arrivano a lambire i terreni del museo, anche la vita di campagna deve adesso adattarsi a quei curiosi cittadini che sbirciano dentro al ranch. Così Santiago deve stare a pensare alle patatine — che qualcuno ha offerto al bestiame — o alle carte di caramelle, e a tutta la serie dei rischi che corre la gente di città incontrando le bestie, mentre attraversa la tenuta di 19 ettari dedicata alla memoria di tremila anni di storia dell’allevamento in New Mexico.
Quando il museo ha aperto nel 1998 era circondato da spazi aperti. “Adesso siamo circondati da edifici” continua Santiago, indicando dal sentiero sabbioso i quartieri circostanti che confinano con quella che era una zona totalmente isolata. L’unica soluzione adesso sarebbe di costruire una recinzione tutto attorno al ranch per controllare gli incontri fra la gente e il bestiame, soprattutto i ragazzini che ci passano attraverso e potrebbero pensare di scavalcare le palizzate che già ci sono per avvicinarsi di più agli animali. “Il nostro timore è che con sempre più spazi residenziali e attività varie che crescono attorno al museo, finiremo per diventare un’isola rurale in un oceano urbano”.
A agosto si è inaugurata la scuola superiore Centennial — migliaia di studenti, personale e altri addetti che si muovono a qualche centinaio di metri di distanza – e chi lavora nel ranch spera che almeno con una recinzione si possa evitare una tragedia, se qualche studente volesse avventurarsi nella zona delle stalle. La scuola una recinzione d’alluminio ce l’ha, ai margini, ma oltre c’è il deserto senza alcun ostacolo, fino alle palizzate dietro le quali si trova il bestiame. “La gente non capisce quanto sono pesanti”, racconta Greg Ball, responsabile di gestione, e si riferisce ad alcuni degli animali del ranch. Abbiamo qui un toro che pesa circa una tonnellata e mezza. Per quanto tu gli possa voler bene, basta che faccia un movimento sbagliato e ti schiaccia, fine del divertimento”.
I responsabili del museo si sono rivolti all’Ufficio Cultura – quello che dà i finanziamenti – per costruire la recinzione. A luglio l’ufficio ha presentato alla commissione finanze statale una richiesta di complessiva per tutto il territorio di 16 milioni di dollari, spiega la responsabile Anne Green-Romig, nella quale erano compresi i 750.000 per la recinzione di sicurezza “spiegando chiaramente il motivo e il contesto” precisa. Ma da qui alla scadenza del governo il 16 febbraio la distribuzione dei finanziamenti può modificarsi: “Si sa quello che entra, ma non quello che esce”. Anche se si dovesse finanziare tutto quanto, il governatore potrebbe comunque esercitare un diritto di veto condizionando i finanziamenti. Dopo l’erogazione c’è ancora aperto l’equilibrio nella distribuzione dei fondi nel territorio dello stato. Dave DeWitt, presidente del comitato da cui dipende il Farm & Ranch Heritage Museum, è convinto che quel recinto sia “una questione di sicurezza da risolvere ora, non da rinviare. Animali grossi, pericolosi, voglio evitare che qualcuno si faccia male. Vogliamo che il nostro museo non danneggi nessuno”.
Aggiunge il direttore Santiago: “C’è un toro da una tonnellata e mezza, e un ragazzino da cinquanta chili scarsi: chi vince? Questo è il nostro problema”