Forse era tutto scritto nell’accordo Fiat-Chrysler: tecnologie agli americani, soldi agli azionisti italiani, cioè alla famiglia Agnelli, stabilimenti storici, da Mirafiori a Pomigliano, in vita finché la domanda di mercato avesse retto.
Le promesse di Marchionne, il progetto Italia, i venti miliardi di investimenti, un libro dei sogni che politica e buona parte del sindacato hanno letto, con malizia o con ingenuità, come un modo per tirare a campare, illudendo se stessi e illudendo buona parte di quanti nelle fabbriche Fiat si sono guadagnati da vivere e ci contavano ancora.
«Chi ha mai letto – commenta Luciano Gallino, sociologo e grande studioso dell’industria e del lavoro in Italia – una pagina di quel programma. Nelle mani di chi è mai stato consegnato un volume di centinaia di pagine in cui si dettagliassero progetti per la Fiat e conseguenze per l’indotto, in un quadro di enorme complicazione: basti dire che il futuro Fiat si sarebbe dovuto misurare con la realtà di ottocento fornitori. Niente. Quanto ci è stato riferito adesso, quanto siamo venuti a sapere, non aggiunge nulla, se non ancora una promessa, la promessa di Marchionne di investire quando il mercato riprenderà quota. Vaghe e soprattutto strane parole. Perché se davvero le vendite prima o poi dovessero riprendere, la Fiat arriverebbe inevitabilmente in ritardo, seguendo la strada indicata da Marchionne. Sappiamo bene quanto tempo sia necessario per progettare e mettere in produzione un nuovo modello. Due, tre anni? In un mercato ipoteticamente in rilancio, Marchionne si ripresenterebbe con modelli vecchi? Per perdere un altro giro? Siamo alla ripetizione di una scena già vista: non abbiamo ascoltato null’altro che dichiarazioni generiche, senza una prospettiva, senza una novità, senza una invenzione. Faccio un esempio: una grande impresa automobilistica non è detto debba produrre solo proprie automobili, potrebbe realizzare anche parti per altre imprese, motori o pianali. Non mi sembra che Marchionne abbia mai esplorato una
sibilità del genere».
Il manager italiano più americano, come lo hanno definito alcuni, o il solerte funzionario di un dipartimento Usa, come lo hanno definito altri, probabilmente sa di finanza, molto meno di auto. Ma, allora, professor Gallino, dobbiamo rassegnarci al ridimensionamento e al declino della Fiat in Italia?
«Ridimensionamento e declino appartengono alla storia degli ultimi decenni. Negli anni novanta la Fiat produceva due milioni di vetture, che sono diventate un milione, ottocentomila, mezzo milione. Adesso siamo a quattrocentomila. Queste sono cifre che dicono tutto. A proposito del passato e a proposito del futuro. Pensiamo al calo degli occupati, anche se in questo caso entrano in gioco nuove tecnologie che hanno consentito di ridurre pesantemente il numero degli addetti».
Il governo deve accontentarsi di ascoltare Marchionne o ha strumenti per intervenire? Ammesso che abbia i soldi...
«È difficile immaginare nuovi incentivi. In passato si usò l’arma della rottamazione. Adesso si finirebbe con il favorire i produttori stranieri più che la Fiat. Se la Fiat non avesse chiuso Irisbus, si sarebbe potuto pensare a un intervento di Stato e Regioni per rinnovare un parco autobus obsoleto, inquinante. Sarebbe stato un bel modo per favorire una mobilità sostenibile e collettiva, alternativa al mezzo privato. Ma non s’è mosso lo Stato, non si sono mosse le Regioni e non c’è più Irisbus. Peraltro costruire autobus non prevede l’automazione in atto nella produzione di auto. L’operazione è più complicata, chiede manodopera specializzata, vi sarebbe stato un bel vantaggio anche per l’impiego. Un autobus, a bilancio, pesa come cinque o dieci auto».
Le chiedo di nuovo: dobbiamo rassegnarci a perdere l’auto italiana?
«Non si può pensare di produrre all’infinito e con la stessa intensità di un tempo macchine, frigoriferi, elettrodomestici o altri tradizionali beni di consumo. Nell’auto non si tornerà mai ai livelli di produzione del 2007. Bisogna immaginare altri modelli di sviluppo, con il realismo di chi sa che non si cambia con un clic e sa che cosa significa dal punto di vista dell’occupazione l’auto, rampo di attività produttiva che riguarda chi costruisce,chi fornisce, chi (dai gommisti ai benzinai) garantisce la funzionalità del sistema. Detto questo bisogna pensare ad altro...».
Ma ci sono le idee? Soprattutto ci sono i soldi?
«Le idee ci sono. Dove intervenire: il dissesto idrogeologico, la scuola, i beni culturali, l’energia... Settori ad alta intensità e qualità professionale. I soldi? Quanti miliardi di euro ha consumato l’Unione europea per tenere in piedi banche e finanza? Poi ci si dice che non si può spendere per rilanciare l’industria».
L’ultima fotografia è quella di un governo che assiste impotente...
«Come sempre, quando non si sa che cosa, si istituisce una commissione che studierà oppure si apre un tavolo di trattativa. Politica industriale non se n’è fatta da tempo. Il governo dei professori è preda di una cultura neoliberale: aspettano che siano gli imprenditori e il mercato ad aggiustare le cose. Considerano lo Stato come il nemico e in frangenti come questi ritengono che lo Stato non debba far nulla. Salvo, appunto, pagare le banche».
Napoli:la strada in salita per la partecipazione
I mass media napoletani hanno battuto la grancassa per sponsorizzare il sesto World Urban Forum, megaconvegno internazionale promosso dall’ONU per analizzare problemi e opportunità dello sviluppo urbano, che si terrà a Napoli dal 1 al 7 settembre. Nessuno spazio è stato invece dedicato a un altro convegno internazionale sulle questioni urbane, anch’esso ospitato a Napoli negli stessi giorni. Il Forum Sociale Urbano (il cui programma è consultabile all’indirizzo web del FSU), organizzato da reti, associazioni e movimenti che lottano a livello locale, nazionale e internazionale per il diritto alla casa, alla terra, ai beni comuni e alla città, e che si pone in un’ottica popolare e antiliberista, alternativa alle prospettive di mercificazione urbana del WUF. Durante la giornata del 5 settembre, dedicata alla difesa delle risorse (acqua, mare, suoli e spiagge), si è svolto un incontro sul diritto alle spiagge, dove cittadini e movimenti di varie realtà italiane hanno discusso lo stato delle coste tra inquinamento, sfruttamento del lavoro, demanio pubblico, regimi concessori e applicazione della direttiva Bolkestein; nel pomeriggio è stata effettuata una passeggiata pubblica sul litorale di Bagnoli, ex area industriale della città, per indagare opportunità e problemi della sua riqualificazione. Promotore delle due iniziative è il comitato “Una spiaggia per tutti” di Napoli, che sta conducendo un’interessante esperienza di democrazia partecipativa incentrata proprio sul recupero dell’inquinato litorale bagnolese; di essa è utile tracciare qui un primo bilancio, al fine di verificare la possibilità di sviluppare processi di partecipazione popolare alle scelte di governo della nostra città.
Il 3 luglio è stata consegnata al comune di Napoli una proposta di delibera per destinare tutto il litorale di Bagnoli a spiaggia pubblica gratuita, sottoscritta da oltre quattordicimila cittadini napoletani; attualmente attende di essere assegnata al consiglio, il quale è tenuto a discuterla entro novanta giorni. Se la delibera venisse rigettata o non fossero rispettati i tempi di discussione, il comitato potrà chiedere con un supplemento di firme l’indizione di un referendum cittadino consultivo. Il ricorso a questi strumenti partecipativi, che costituisce una novità per Napoli ma non ha evidentemente nulla di “rivoluzionario” (il potere deliberativo non viene trasferito ai cittadini ma resta al consiglio, che decide se e come accogliere i contenuti delle proposte popolari), ha incontrato consistenti ostacoli pratici. La loro rimozione avrebbe richiesto uno sforzo non eccessivo né incongruo da parte dell’attuale amministrazione, che della partecipazione ha fatto una bandiera; questa ha però preferito dare priorità ad architetture partecipative apparentemente più avanzate come le consulte popolari.
Il primo impedimento è costituito proprio dalle norme comunali sugli istituti partecipativi. Il numero di firme necessarie a chiedere il referendum non è fissato univocamente (lo statuto dice ventimila, il regolamento attuativo trentaduemila e cinquecento: rispettivamente, il 2,46% ed il 4% degli elettori napoletani) ed è in ogni caso sproporzionato. Basti pensare che per indire il referendum abrogativo nazionale bastano cinquecentomila firme, ossia l’1,06% del corpo elettorale italiano. Inoltre il tempo massimo per la raccolta delle firme è fissato in sessanta giorni, a fronte dei novanta previsti dalla legge 352/70 per il nazionale. Perché mai l’esercizio di uno strumento consultivo dovrebbe essere sottoposto a limitazioni maggiori di quelle richieste per uno strumento abrogativo? E che senso ha condizionare la validità di un referendum consultivo al raggiungimento di un quorum, come fa il regolamento (oltretutto senza fissarne l’entità, abbandonata alla discrezionalità degli equilibri politici contingenti)? Siamo evidentemente di fronte a limitazioni arbitrarie, poste dalle precedenti amministrazioni comunali, che quella presente non ha ancora corretto. Il consiglio comunale discute da mesi una riforma che dovrebbe sciogliere questi e altri nodi (finora ha istituito il referendum abrogativo ed esteso il voto referendario comunale ai sedicenni), ma nulla assicura che essa arriverà in tempo a garantire lo svolgimento del referendum sulla spiaggia pubblica di Bagnoli, né vi è certezza su come si interverrà su questi punti critici.
Un altro ostacolo è costituito dalle modalità di raccolta delle firme, che escludono il ricorso ai moderni strumenti di certificazione telematica. Questo costringe a scontrarsi da un lato con la burocrazia comunale – che impiega una settimana per autorizzare l’allestimento sulla pubblica via di banchetti di sottoscrizione grandi un metro quadro – dall’altro con la scarsa disponibilità dei soggetti autenticatori (solo cinque consiglieri comunali, un presidente e un vicepresidente di Municipalità hanno accettato di effettuare le operazioni di autentica). Malgrado si sia ottenuto che il sindaco istituisse in ogni municipalità punti di raccolta con funzionari delegati, l’assenza di comunicazione al pubblico ha determinato che sette municipalità restituissero tutti i moduli di raccolta in bianco e le altre tre raccogliessero in tutto sette firme!
La mancanza di un’adeguata informazione è il punto critico della vicenda. Il comitato promotore ha incontrato continue difficoltà sia per comunicare l’iniziativa ai cittadini che nel ricevere informazioni dall’amministrazione comunale. Nessun mass media locale ha seguito adeguatamente la campagna e i pochi spazi ottenuti vanno addebitati perlopiù alla sensibilità dei singoli giornalisti, magari reiteratamente sollecitati. Inoltre è rimasta inevasa la richiesta di poter fruire gratuitamente, a tempo limitato, di alcuni tabelloni comunali per affissioni pubblicitarie. Per quanto riguarda l’interlocuzione con il comune, questa è stata lenta e farraginosa, con ripetute manifestazioni di disponibilità cui non corrispondevano adeguate azioni di sostegno. Malgrado le sollecitazioni, il comitato ha verificato il permanere di comportamenti che ignoravano la necessità di risolvere problemi pratici come quelli descritti, e di essere correttamente informato sull’iter di discussione della delibera. Il sospetto che fosse in atto una strumentalizzazione politica, se non un sabotaggio silenzioso dell’iniziativa, spingeva in agosto lo stesso comitato ad affiggere un manifesto in cui si denunciava l’ambiguità dell’amministrazione. Questa critica sortiva due effetti: da un lato, un gruppo di consiglieri di maggioranza presentava una mozione che impegnava il consiglio a discutere la proposta entro settembre; dall’altro l’assessore alla partecipazione, Lucarelli, replicava sdegnato il suo sostegno all’iniziativa e fustigava il comitato per aver insozzato la città con manifesti abusivi!
L’estate sta finendo, la partita si riapre e speriamo che qualcuno abbia spiegato all’assessore come, in mancanza di bacheche pubbliche per le attività civiche, l’attacchinaggio abusivo sia una dolorosa necessità per chi non disponga di sostegni economici. Verificheremo se il consiglio manterrà gli impegni, evitando rinvii o stravolgimenti della proposta di delibera, che inficerebbero la possibilità di ricorrere al referendum. Nel frattempo rileviamo che, date le condizioni sfavorevoli descritte, il fatto che un comitato composto da cittadini, piccole associazioni e qualche gruppo politico abbia raccolto in due mesi oltre quattordicimila firme autenticate, senza l’appoggio di una grande organizzazione cittadina, testimonia quanta capacità di coinvolgimento possano esercitare le realtà di base quando si mobilitano su temi socialmente sentiti, attivando intorno a sé una più vasta rete di cittadinanza attiva (inclusi alcuni settori della macchina comunale). Ma evidenziamo anche i limiti di ipotetiche rivoluzioni arancioni, laddove manchi la volontà politica di agire con fermezza per superare norme e prassi burocratiche ostili, mettendosi davvero “al servizio del popolo” (per usare ironicamente un termine desueto). Siamo convinti che tale volontà si misuri più col concreto sostegno alle esperienze di autorganizzazione dei cittadini che nella costruzione di astratte architetture partecipative.
(Tutte le informazioni sulle attività del comitato so disponibili nel sito una spiaggia per tutti
La deroga alla Cig potrebbe non essere compatibile con gli interventi in materia del ministro del Welfare. Il nodo degli interventi dopo la riforma Fornero
L'incontro di ieri tra la Fiat e il governo ha avuto un pregio: è durato a lungo. Vuol dire che ciascuno ha detto e spiegato la sua. La seconda nota positiva è l'impegno a costituire un gruppo di lavoro misto presso il ministero per lo Sviluppo economico per rafforzare le strategie di esportazione nel settore dell'automotile. Le indiscrezioni dicono che il mercato di sbocco salvifico dovrebbe essere l'America dove la capacità produttiva della Chrysler sarebbe quasi saturata. Ma qui si fermano le note positive. Che all'orecchio degli oltre ventimila dipendenti della Fiat Auto in Italia e degli 80 mila dell'indotto suonano ancor più generiche e vaghe dei discorsi dei partiti politici sulle riforma elettorale.
Il comunicato congiunto governo-Fiat, che in questi casi è ciò che vale perché impegna i firmatari, non prende alcun impegno. Il progetto Fabbrica Italia non viene più menzionato. Nemmeno per celebrarne le esequie, visto che era stato annunciato in pompa magna nell'aprile del 2010 proprio a palazzo Chigi, con Silvio Berlusconi in sella. Ma nell'era di Facebook, dove ogni informazione si consuma in una chiacchiera in diretta, la memoria è un lusso per pochi o un approccio troppo pedante al reale. La nota non spiega se ci sarà una deroga alle norme sulla cassa integrazione così da poter offrire copertura ai dipendenti se il lavoro continuerà a mancare come ormai appare, purtroppo, molto probabile. Ma se ci fosse, bisognerebbe poi spiegare all'Italia come si giustifichi la deroga rispetto alla riforma del mercato del lavoro firmata dal ministro Fornero. Certo, l'idea di due Italie, una protetta da eventuali accordi Fiat e un'altra allo sbaraglio, non andrebbe bene. Ma sarebbe un problema della gente Fiat o farebbe emergere un limite della riforma?
In ogni caso, la nota congiunta prende atto dell'orientamento dell'azienda a investire in Italia al momento idoneo. Il che può essere un'ovvietà (quando mai si investe nel momento sbagliato) oppure un avvertimento (adesso non si investe altrimenti sarebbero tutti felici di dire che il momento idoneo è questo). L'azienda dichiara anche una cifra, 5 miliardi, per quantificare gli investimenti fatti nel nostro Paese negli ultimi tre anni. Certi numeri ricordano i 20 miliardi di Fabbrica Italia che non si sono mai visti.
Ora, le Fiat sono due: la Fiat Industrial, che fa camion e trattori, e la Fiat Spa, che fa le automobili. Quei 5 miliardi come si suddividono tra le due? Quanto è investimento vero, quanti sono costi capitalizzati e quanto è spesa per ricerca e sviluppo? Ma se anche fosse, 5 miliardi in tre anni equivalgono a 8 e mezzo in cinque anni. Non avevamo detto che erano 20 nel quinquennio? Non facciamo questi conteggi per spirito polemico. Ma perché dobbiamo tutti essere credibili in momenti come questi. I numeroni possono essere spacciati nei talk show televisivi, ma troppo spesso la realtà è un'altra. Ed è dolorosa.
Con il governo di che cosa si parla? La Fiat ha escluso che esista un'offerta Volkswagen per l'Alfa Romeo e uno stabilimento. Questo filtra. Ma è la Fiat, parte in causa, che deve dirlo o è il governo che, con i suoi strumenti, deve accertare alla fonte come stanno le cose? Non bisogna essere dei germanisti per capire che a Wolfsburg si attendono un approccio che tenga conto di che cosa sono oggi la Volkswagen, la Fiat e l'Alfa. In altre parole, per Marchionne non è come quando trattava, con coraggio e intelligenza, la Chrysler con Obama.
Il caso Fiat sta mettendo a dura prova la premiership di Monti. Il contrasto sullo spread va bene, i licenziamenti a macchia di leopardo fanno soffrire, ma si vedono poco. La Fiat, invece, fa rumore. Sia perché la Fiat era stata presentata come l'alfiere della modernità quando invece è un gruppo in crisi e gli alfieri della modernità sono le multinazionali tascabili del Quarto Capitalismo, sia perché a rischio è ormai un intero, storico settore industriale come quello dell'auto.
La risposta dell'amministratore delegato, Sergio Marchionne, al ministro Corrado Passera deve far pensare. Se la Fiat va bene in Brasile perché là riceve cospicui aiuti di Stato e non può andar bene in Italia e in Europa perché questi aiuti sono proibiti dalle regole antitrust, dovremmo tutti aprire una riflessione.
Marchionne è un realista. Probabilmente lo è troppo. E, come tutti quelli che peccano di eccesso di realismo, rischia di risparmiare qualcosa oggi e di perdere molto domani. O forse sta duramente trattando, da quel grande scommettitore che è, una nuova tornata di sussidi da parte del governo. Certo è che si fatica a capire come possa essere possibile esportare 3-400 mila auto negli Usa per salvare le nostre fabbriche quando l'Italia è già oggi importatrice netta di marchi Fiat.
In questi giorni parecchi trafiletti di stampa nazionale riferiscono di una curiosa ma non certo clamorosa crisi di un’amministrazione locale, determinata da motivi per così dire sentimentali. Succede che un Sindaco nomini Vice Sindaco la sua amata morosa, e che invece di far passare tutto sotto il solito complice silenzio qualcuno (per altri motivi di bottega presumibilmente) abbia scatenato la polemica. Lo sappiamo tutti come viene gestito spesso e volentieri il potere locale italiota, amministrativo o accademico o altro che sia: c’è il o la brillante carrierista di punta, che si trascina appresso con vari ruoli e visibilità la corte dei miracoli amicale e parentale. E le cosiddette strategie dell’ente – chiacchiere e distintivo per placare i gonzi a parte - si piegano e modellano secondo discrezionalità e solidi interessi della fauna dominante.
Ecco, stavolta pare che la fauna dominante l’habitat della valle dell’Adda, specificamente il territorio comunale di Capriate San Gervasio (Bg), col suo patto di ferro tra fidanzati volesse tendere un agguato all’Umanità tutta, cancellandone in un colpo solo un bel pezzo di patrimonio: quel genere di “Patrimonio dell’Umanità” che tale ente non leghista e non bergamasco, l’ONU ogni tanto riconosce per misteriosi motivi suoi. Il glorioso comune di Capriate comprende nelle propaggini meridionali quel mucchio di mattoni e vecchie ciminiere denominato Crespi d’Adda, che è appunto stato classificato bene di interesse planetario dalle Nazioni Unite, nella stessa seduta in cui si è classificata così anche l’Isola di Pasqua, per capirci. Ma questo fa un baffo all’amministrazione fidanzata, assai più attenta a cose moderne come le giostre, l’autostrada, lo zucchero filato e l’architettura postmoderna. Proprio il genere di cose che sta di fianco al villaggio operaio Crespi d’Adda, e che si chiama parco a tema Minitalia.
Così il fidanzamento si è allargato di soppiatto (the swinging local administrators) al comune accanto, Brembate, con la benedizione della provincia pure a maggioranza verde padana. A suggellare il rapporto aperto, due bei progetti di ambito territoriale uno di fianco all’altro, anche se apparentemente senza nessun rapporto ufficiale, se no qualcuno potrebbe diventare geloso. Uno si chiama Accordo di Programma per la riqualificazione del parco a tema, sostenutissimo anche dalla formigoniana Regione, sempre amica delle costruzioni nelle fasce autostradali. L’altro comincia esattamente sui confini comunali su cui si ferma il precedente, ed è classificato Ambito di Trasformazione nel piano regolatore. Basta però accostare le mappe per fare due più due: il progettone è esattamente lo stesso, ovvero allargare le giostre (e le tonnellate di cemento complementari, incluso un bel grattacielo) sino a fidanzarsi col villaggio operaio ottocentesco. Ma cosa dico fidanzarsi: avvolgerlo sensualmente tutto, fargli un cappottino amoroso di metri cubi.
La storia, del progetto, con qualche indispensabile particolare in più, l’ho raccontata a suo tempo qui su eddyburg e sul Giornale dell’Architettura, ma certamente le ultime notizie … ehm … politiche locali aprono nuovi ed entusiasmanti orizzonti interpretativi, del resto perfettamente in linea sia con le note saghe familiari lombarde di trote e dintorni, sia con le lontane ma assai affini contemporanee della valle del Tevere. Insomma dobbiamo rilanciare un bello slogan anni ’60, ricordando il povero Scott McKenzie e il suo flower power: fate l’amore, non la politica. Ma fatelo a casa vostra, please, non in sala consiliare!
A chi appartiene Venezia? A tutti, direte. No: per il Tar un pezzo della città appartiene solo al suo padrone. Che dopo un conflitto burocratico-giudiziario di 55 anni ha cominciato a costruire un edificio per raddoppiare il suo albergo vicino al ponte di Calatrava. Risultato: il colpo d'occhio sul Canal Grande per chi arriva oggi a piazzale Roma è mozzato dallo scheletro di un palazzo moderno che potrebbe sorgere a Kansas City.
Il protagonista dell'estenuante battaglia di carte bollate, ricorsi, controricorsi, intimazioni, condotta per costruire quello che, a memoria dello storico Alvise Zorzi, è il primo edificio moderno tirato su lungo il Canal Grande dai tempi del Ventennio in cui fu rifatta la stazione di Santa Lucia realizzata dagli austriaci, si chiama Elio Dazzo ed è proprietario dell'Hotel Santa Chiara, un convento di monache che ha più di cinquecento anni e fu trasformato in un hotel diversi decenni fa. Chi è stato a Venezia lo ricorderà senz'altro: è l'unico, come dice lo stesso sito web, dove si può arrivare in macchina: il retro è su piazzale Roma, la facciata sul Canal Grande.
La contesa buro-giudiziaria in realtà, essendo durata il doppio della Guerra dei Trent'anni che sconvolse l'Europa nel Seicento, non fu cominciata dall'attuale proprietario. Iniziò infatti nell'aprile del 1957, quando sulla Sierra Maestra Fidel Castro organizzava la guerriglia, a Roma nasceva la Comunità economica europea e l'Unione Sovietica lanciava lo Sputnik. Un mucchio di tempo fa.
La città era in mano a una classe dirigente in preda alla fregola di modernizzare tutto e giravano idee folli come quelle di superstrade trans-lagunari, grattacieli a San Sebastiano, tangenziali sotterranee con mega-parcheggi sotto San Marco. Anni in cui il sindaco Giovanni Favaretto Fisca perorava a Roma il progetto di una monorotaia di cemento armato stesa su migliaia di tralicci a reggere vagoni come cabine di una funivia e davanti al raccapriccio dei puristi un cronista lacché arrivò a scrivere che quei piloni alti 35 metri non avrebbero avuto alcun impatto visivo: «Basterà dipingerli coi colori della laguna». Deliri.
In quel contesto, che faceva uscire pazzo Indro Montanelli, furente di quel genere di megalomanie che trascuravano la manutenzione quotidiana, l'amministrazione del sindaco Roberto Tognazzi firmò un accordo coi padroni dell'Hotel Santa Chiara su certe particelle catastali di piazzale Roma: tu dai un pezzo di terra a me, io do un pezzo di terra a te. Restava inteso che si trattava di terreni edificabili.
Per decenni, quell'accordo mai perfezionato fino all'ultima marca da bollo, restò lì, a galleggiare nel nulla. Finché una ventina d'anni fa i nuovi proprietari, che usavano quel terreno in riva al Canal Grande come parcheggio (chi vuole può vedere in Google Earth come era fino a poco fa la situazione) decisero di passare all'incasso di quell'antico accordo rimasto in un cassetto a coprirsi di polvere.
L'amministrazione comunale dice oggi che tentò di guadagnare tempo, anno dopo anno, approvando nel 1997 una convenzione che finalmente perfezionava i passaggi di proprietà del vecchio accordo (anche in funzione del futuro ponte di Calatrava) e consentiva una nuova volumetria per 9.885 metri cubi su una superficie di 659 metri quadrati, lasciando però un po' tutto in sospeso...
Due anni dopo, il proprietario chiedeva una licenza edilizia per ampliare l'albergo in attuazione dell'accordo del '57 e il Comune respingeva la richiesta legando la possibilità di costruire alla stesura del Piano particolareggiato. Come dire: campa cavallo... Altri quattro anni d'attesa e il Tar dava ragione al privato: il contratto del '57 faceva testo, quindi erano nulli sia il rifiuto della licenza sia la condizione posta sul Piano particolareggiato. A quel punto, sostiene l'amministrazione attuale, il Comune tentava l'ultima carta per fermare il cantiere prendendo atto del verdetto del Tar ma mettendo dei paletti perché l'edificio si armonizzasse ad alcuni criteri. Nuovo ricorso al Tar e nuova sentenza: quei paletti non li poteva mettere. «A quel punto», spiega l'assessore all'Urbanistica Ezio Micelli, «il municipio era con le spalle al muro. Non poteva più fare niente. L'ultima parola spettava alla commissione di salvaguardia e alla sovrintendenza».
In origine, in realtà, pareva che Elio Dazzo, oggi presidente dell'Aepe (l'Associazione pubblici esercizi) e dell'Apt veneziana nonché tra i promotori dell'associazione «Sì Grandi Navi» a favore della navigazione in bacino degli immensi bastimenti da crociera lunghi il doppio di piazza San Marco, volesse solo fare un garage sotterraneo. O così avevano capito in tanti. Tanto che La nuova Venezia di due anni fa pubblicò un pezzo dove diceva che l'assessore ai Lavori pubblici Alessandro Maggioni era intenzionato a mettersi di traverso al «garage» perché preoccupato, dopo uno studio fatto dal Politecnico di Torino, per la stabilità del ponte di Calatrava che è lì accanto.
Fatto sta che di sentenza in sentenza le cose sono andate avanti ed è oggi in costruzione, in riva al Canal Grande, un edificio molto vistoso di due piani di garage interrati più altri tre (diciamo tre e mezzo) di una nuova ala dell'hotel. Tutto di cemento ricoperto, pare di capire, di una avveniristica superficie a vetro.
La sovrintendente Renata Codello, già al centro di altre polemiche per aver detto a una tv austriaca (vedi YouTube) di non esser poi preoccupata per le grandi navi da crociera, sbotta: «Avremo bocciato venti progetti! A un certo punto cosa potevamo fare?». Invita a non guardare i rendering che fanno immaginare un lucente parallelepipedo che starebbe benissimo in Qatar o nel Nebraska: «Son solo figurine. Aspettate a vedere i lavori finiti. L'architetto ha lavorato con Renzo Piano». E guai a parlare, nel contesto veneziano, di una bruttura: «Lei è architetto? Non faccia l'architetto». A proposito, il progetto è firmato da Antonio Gatto, presidente dell'Ordine degli architetti e (pura coincidenza) storico membro della commissione di Salvaguardia, cioè l'organismo che avrebbe potuto bloccare tutto o comunque imporre regole rigidissime.
E torniamo al tema iniziale: ammesso che tutte le leggi siano state applicate in modo cristallino, davvero il legittimo interesse economico di un privato viene prima dell'interesse di tutti i cittadini del mondo ai quali viene imposta una prospettiva di quel tratto del Canal Grande che non sarà mai più quella di prima? E non sarà questo parallelepipedo di cemento e di vetro il grimaldello per scardinare le difese di altri pezzi di Venezia?
La Costituzione italiana, all'articolo 9 dice che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». E gli articoli 41 e 42 spiegano chiaramente come l'interesse della proprietà privata abbia comunque dei limiti negli interessi superiori della collettività. C'è chi dirà che esiste anche un articolo 29 che sanciva solennemente: «Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili». Ma si trattava dello Statuto Albertino.
LA CASA Bianca è in rotta di collisione con YouTube. L’oggetto del contendere è la limitazione della libertà di parola e di espressione (free speech),il primo pilastro del diritto civile moderno sul quale si reggono le democrazie costituzionali. Google ha deciso di non tenere conto della richiesta della Casa Bianca di riconsiderare l’opportunità di tenere in circolazione il video anti-Islam che ha scatenato la violenza e le manifestazioni anti-americane e anti-occidentali in tutto il mondo arabo. Google si appella all’auto-governo. Google ha precisato di aver già operato affinché il video non violi i termini della legge Americana sullo
hate speech (discorso che infiamma odio) e di aver predisposto che il video venga oscurato in alcune regioni del mondo, per esempio l’Egitto, la Libia, l’India e l’Indonesia. Oscuramento temporaneo però, per ragioni di opportunità e prudenza, non censura permanente.
La decisione di Google si basa su una carta diciamo così costituzionale che la compagnia ha adottato nel 2007 per risolvere decisioni controverse. La carta dice che la compagnia nel prendere decisioni sulla pubblicazione di materiale sui suoi siti deve tener conto non soltanto delle leggi e delle politiche dei paesi, ma anche delle norme culturali non scritte, del contesto etico e tradizionale. Di fronte al pluralismo giuridico oggettivo, Google sceglie di mostrarsi sensibile alle “culture locali” e quindi ai sentimenti dei suoi utenti, ma si riserva di decidere, non riconoscendo al governo di nessun paese l’autorità di imporre la sua linea di comportamento.
Il governo mondiale della libertà di pensiero è in mano a chi ha il potere di esercitare questa libertà. Ci troviamo di fronte a un caso esemplare di che cosa significhi “società civile globale”, un dominio di relazioni private che sta al di fuori e in questo caso anche sopra ai singoli governi, i quali mentre esercitano l’autorità sovrana di fare leggi nei loro paesi, non hanno il potere, materiale e giuridico, per interferire sulle decisioni di una compagnia multinazionale, il cui mercato e la cui azione sono globali. Non è forse lo stesso per i diritti dei mercati? Non è forse vero che gli interessi dei mercati finanziari hanno il potere di respingere e addirittura cambiare le decisioni politiche dei governi? Perché la lex mercatoria non fa scandalo quando opera a difesa della società economica globale mentre la rivendicazione della libertà di pensiero e della sua autoregolazione da parte di Google produce tanto scalpore? Google rivendica la sua autorità di governo su questa materia, di curarsi direttamente di monitorare le circostanze, paese per paese, nelle quali operare. Di non subire le leggi dei paesi, nemmeno degli Stati Uniti, dove la compagnia ha sede. Come ogni compagnia multinazionale non è di nessun paese. Ed è questo che indispettisce l’amministrazione statunitense. Google è una cosa a sé, un “paese” a sé quando si tratta di prendere decisioni su che cosa produrre, pubblicare e censurare. E alle critiche che sono piovute dall’opinione pubblica globale Google ha così risposto: «A Google noi nutriamo un pregiudizio (bias)in favore dei diritti della gente alla libera espressione in tutto ciò che facciamo… ma riconosciamo anche che la libertà di espressione non deve o non dovrebbe essere senza limiti. La difficoltà consiste nel decidere dove porre questi limiti ». Una sfida che Google tuttavia non vuol demandare alle autorità dello Stato, di nessuno Stato. È la libertà civile, che vale per i singoli come per le compagnie come Google, a ispirare questa decisione. I governi degli Stati (democratici e no) possono non essere contenti, anzi criticano duramente questa dichiarazione di autonomia decisionale di Google, ma le organizzazioni per i diritti civili, le organizzazioni non profit per la libertà tecnologica e le libertà civili digitali (il Center for Democracy and Technology, per esempio) non possono che essere dalla parte di Google. E così, malgrado gli inviti della presidenza americana, e le promesse in un primo momento di far sparire il video, Google, che controlla il portale come un editore controlla il suo giornale, ha deciso di tenere comunque online il film blasfemo, censurandolo solo in 45 Paesi arabi. Questa decisione viene criticata da quasi tutti i mezzi di informazione. Ma se difendiamo la libertà di Google quando il governo cinese lo oscura per impedire che i suoi sudditi non si scambino idee che non piacciono al potere, se abbiamo difeso la libertà dei giornali italiani contro i tentativi del governo Berlusconi di imbavagliarli, se temiamo e denunciamo ogni intervento repressivo o censorio, come possiamo stupirci che Google si faccia arbitro della sua libertà di parola ed espressione?
Certo, alcuni paesi più di altri regolano la libertà di stampa e di parola, ma nessuno può negare che i più liberi sono quei paesi dove lo Stato accampa meno ragioni di intervento e censura, e dove le corti meglio salvaguardano i diritti civili. L’Italia democratica ha assistito al rogo di
Ultimo tango a Parigi, ha sottoposto per decenni pellicole e opere d’arte al giudizio di un ufficio di censura ispirato ai valori religiosi e della pubblica “decenza”. Non possiamo onestamente dire che quella libertà sotto tutela era soddisfacente – ed è proprio per questo che i dirigenti di Google si sono dati regole e norme che riescano a tenere insieme libertà e contesto, principio e cultura locale. Se non che, quella stessa cultura locale nel nome della quale ora si chiede la censura del video di Google, comunica grazie a Google e alle tecnologie digitali, ha bisogno di Google... anche per attaccare ciò che Google rende pubblico.
Si intitola “Norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio in Campania”. Per il presidente della Regione, Stefano Caldoro, e per il suo assessore all’Urbanistica, Marcello Taglialatela, metterà ordine in un labirinto di leggi. Più pianificazione, meno vincoli. Ma per il fronte ambientalista è una sfacciata deregulation. Allenterà tutte le maglie che a fatica proteggono dal cemento la Costiera sorrentina e quella amalfitana. La zona rossa intorno al Vesuvio. E metterà a rischio paesaggi delicati, fortunate, mirabili sopravvivenze in una regione martoriata dall’abusivismo e da un’espansione edilizia che ha pochi paragoni in Europa.
Il provvedimento è in calendario per oggi in Consiglio regionale, dove si annuncia battaglia. Ma intanto partono gli esposti di tutte le associazioni (Italia Nostra, Legambiente, Wwf, Fai), si mobilita il web (Eddyburg) e, con un appello, personalità del mondo politico e culturale (da Salvatore Settis ad Alberto Asor Rosa, da Vezio De Lucia a Pierluigi Cervellati, da Piero Bevilacqua ad Andrea Emiliani). Persino il ministro Corrado Passera ha espresso, con una battuta, avversione nei confronti della legge. Rispetto al testo approvato dalla giunta nel marzo scorso, quello che approda in aula recepisce alcune istanze ambientaliste. Ma molte questioni restano irrisolte.
Per esempio l’indebolimento dei vincoli sulle zone ai bordi delle costiere sorrentina e amalfitana, finora protette da un Piano paesaggistico che risale alla metà degli anni Ottanta e che porta la firma di un maestro della pianificazione, Luigi Piccinato. Quel documento, frutto di un’elaborazione culturale che ora è materia di studio in alcune università, tutelava non solo i gioielli (Amalfi, Ravello, Sorrento, Sant’Agata…), ma anche il pendio che scende verso Nocera e Angri. Convinto, Piccinato, che proprio le aree meno pregiate potessero essere veicolo di manipolazioni, danneggiando l’unitarietà del sistema paesaggistico. L’assessore Taglialatela ribatte: «Non possiamo tutelare Nocera al pari di Amalfi».
Ma intanto, è la replica, quei pendii che si spingono fin quasi a mille metri, dentro il parco dei Monti Lattari, e che custodiscono terrazzamenti, monasteri e insediamenti archeologici, passeranno alla competenza dei Comuni, soggetti a molte pressioni, e perderanno un ombrello che finora li ha preservati dal diluvio cementizio scatenato sulla piana con l’assenso delle amministrazioni locali. E poi è come se si ribaltasse una gerarchia sempre rispettata fra un Piano paesaggistico, che tutela un’area vasta, e un Piano comunale, più specifico.
L’altro punto dolente è il Vesuvio, alle cui pendici è dilagata nei decenni un’urbanizzazione suicida. Dalle sette alle ottocentomila persone abitano in una zona a rischio eruzione, diventata un ammasso edilizio. Qui, sostituendo qualche parola in articoli di legge precedenti, tagliando e cucendo, la nuova norma consente praticamente di applicare il Piano casa. Mentre finora la legislazione, che risale al 2003, tendeva a bloccare ogni espansione e a favorire lo sgombero, anche con incentivi, di territori pericolosamente sovrappopolati, ora si consente di demolire e ricostruire. E persino di incrementare le volumetrie. Quindi di ristrutturare un abitato che invece si voleva diradare. L’inversione di tendenza è netta, denunciano gli ambientalisti.
Taglialatela ribatte su tutti i punti. Non ci sono aumenti di volumetria sotto il Vesuvio, assicura l’assessore. Né il cemento ha il via libera sui pendii che portano alla Costiera: «L’obiettivo è esattamente l’opposto e in tal senso ho mantenuto un costante confronto con l’Ufficio legislativo del ministero per i Beni culturali e la direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici». Ma proprio su questo punto una smentita all’assessore giunge da Gregorio Angelini, direttore dei beni culturali in Campania. Il quale avanza una serie di ben quattro osservazioni che non sono state accolte. «È improprio affermare», conclude Angelini, «che il testo presentato in Consiglio regionale sia stato condiviso con il ministero».
Sono anche altri i profili che allarmano le associazioni. Il fatto, per esempio, che nella legge si introduca una specie di compensazione ambientale se si danneggia un paesaggio. Chi commette un abuso, può sanarlo piantando qualche albero. È un provvedimento adottato in Europa, dicono alla Regione, per esempio nella zona della Ruhr, in Germania. Ma lì c’era un’area industriale che parzialmente viene riconvertita, ribattono gli ambientalisti. Il paesaggio campano mostra ancora eccellenze che non si possono svilire, incentivando di fatto pratiche abusive. Eccellenze che invece andrebbero sottoposte a un’opera di manutenzione di cui non c’è traccia nel provvedimento della Regione.
L'appello delle Associazioni lo trovate qui
SCRIVE il narratore greco Petros Markaris che l’Europa vive una strana insidiosa stagione: del suo sconquasso non parlano che gli economisti, i banchieri centrali. Con il risultato che la moneta unica diventa la sostanza stessa dell’Unione, non uno strumento ma la sua ragion d’essere, l’unica sua finalità: «L’unità dell’Ue è stata sostituita dall’unità dell’eurozona. Per questo il dibattito rimane così superficiale, come la maggior parte dei dirigenti europei, e unidimensionale, come il tradizionale discorso degli economisti ». Priva di visione del mondo, l’Europa ha interessi senza passioni, e non può che dividersi tra creditori nobili e debitori plebei. «Stiamo correndo verso una sorta di guerra civile europea».
Come un improvviso sparo nel silenzio è giunto il nuovo sisma nei paesi musulmani, sotto forma di una vasta offensiva dell’integralismo musulmano contro l’Occidente e i suoi esecrabili video: la violenza s’addensa nel Mediterraneo, e l’Europa – in proprie casalinghe faccende affaccendata – d’un tratto s’accorge che fuori casa cadono bombe. S’era addormentata compiaciuta sulle primavere arabe, ed ecco irrompe l’inverno. Aveva immaginato che le liberazioni fossero sinonimo di libertà, e constata che le rivoluzioni son sempre precedute da scintille fondamentaliste (lo spiega bene Marco d’Eramo, sul Manifestodi ieri), prima di produrre istituzioni e costituzioni stabili. Come Calibano nella Tempestadi Shakespeare, i manifestanti ci gridano: “Mi avete insegnato a parlare come voi: e quel che ho guadagnato è questo: ora so maledire. Vi roda la peste rossa per avermi insegnato la vostra lingua!”.
L’Europa potrebbe dire e fare qualcosa, se non continuasse ad affidare i compiti all’America: non solo in Afghanistan, dove molti europei partecipano a una guerra persa, non solo in Iran, ma nel nostro Mediterraneo. È da noi che corrono i fuggitivi dell’Africa del Nord, quando non muoiono in mare con una frequenza tale, che c’è da sospettare una nostra volontaria incuria. L’Europa potrebbe agire se avesse una sua politica estera, capace di quel che l’America lontana non sa fare: dominare gli eventi, fissare nuove priorità, indicare una prospettiva che sia di cooperazione organizzata e non solo di parole o di atti bellici.
Ormai evocare la Federazione europea non è più un tabù: ma se ne parla per la moneta, o per dire nebulosamente che così saremo
padroni del nostro destino.Ma per quale politica, che vada oltre l’ordine interno, si vuol fare l’Europa? Con quale idea del mondo, del rapporto occidente- Islam, dell’Iran, di Israele e Palestina, del conflitto fra religioni e dentro le religioni? Più che una brutta scossa per l’Unione, l’inverno arabo rivela quel che siamo: senza idee né risorse, senza un comune governo per affrontare le crisi mondiali, e questo spiega il nostro silenzio, o l’inane balbettio dei rappresentanti europei. Difficile dire a cosa serva Catherine Ashton, che si fregia del pomposo titolo di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione. Nessuno sa cosa pensino 27 ministri degli Esteri, ibridi figuranti di un’Unione fatta di Stati non più sovrani e non ancora federali. Quanto ai popoli, non controllano in pratica più nulla: né l’economia, né il Mediterraneo, né le guerre
mai discusse dall’Unione.
Per la storia che ha alle spalle (una storia di democrazie e Stati restaurati grazie all’unione delle proprie forze, dopo secoli di guerre religiose e ideologiche), l’Europa ha gli strumenti intellettuali e politici per divenire un alleato delle primavere arabe in bilico, e di paesi che faticano a coniugare l’autorità indiscussa dello Stato e la democrazia. E resta un punto di riferimento laico per i tanti – in Libia, Egitto, Tunisia – che vedono la democrazia o catturata dai Fratelli musulmani, o minacciata dai fondamentalisti salafiti.
La via di Jean Monnet, nel dopoguerra, fu la combinazione fra gli interessi e le passioni, dunque la messa in comune delle risorse (carbone e acciaio) che dividevano Germania e Francia. La Comunità del carbone e dell’acciaio (Ceca), fu nel 1951 l’embrione dell’Unione: gli Stati non si limitavano più a cooperare, ma riconoscevano in istituzioni sovranazionali un’autorità superiore alla propria. In seguito le istituzioni si sarebbero democratizzate, con l’elezione diretta di un Parlamento europeo sempre più influente. Così potrebbe avvenire tra Europa e Sud Mediterraneo, grazie a una Comunità non basata sul carbone e l’acciaio, ma sull’energia (o in futuro sull’acqua).
Un piano simile è stato proposto, nell’ottobre 2011, da due economisti di ispirazione federalista, Alfonso Iozzo e Antonio Mosconi. L’idea è che Washington non sia più in grado di garantire stabilità e democrazia,nel Mediterraneo e Medio Oriente. Di qui l’urgenza di unaComunità euromediterranea dell’energia: energia spesso potenziale, difficilmente valorizzabile senza aiuti finanziari e tecnologici europei: «Il principio di una Comunità tra eguali è essenziale e ricorda la rivoluzione realizzata dall’Eni di Enrico Mattei, che ruppe il monopolio delle “sette sorelle” petrolifere concedendo per la prima volta alla Persia la gestione in parità delle risorse petrolifere del paese». La nuova Comunità deve «riconoscere ai paesi associati la proprietà delle risorse energetiche e degli impianti, dando all’Europa diritti di utilizzazione su una quota dell’energia prodotta, per un periodo determinato con aumento progressivo della quota utilizzata localmente, in cambio delle tecnologie e degli investimenti effettuati». Si dirà che è solo una comunità di interessi. Lo si disse anche per la Ceca. In realtà l’ambizione politica è forte: sostituire il modello egemonico con un modello paritario e chiedere agli associati precisi impegni democratici, controllati da una comune Assemblea parlamentare.
Sostituire o affiancare il potere Usa nel Mediterraneo vuol dire prendere atto che quel modello non funziona: ha creduto di esportare democrazia con le guerre, creando Stati fallimentari e rafforzando Stati autoritari. Le democrazie (Israele compresa) hanno sostentato per anni i fondamentalisti (i talebani contro l’Urss, Hamas contro l’Olp) e volutamente ignorano una delle principali fonti delle crisi odierne: l’Arabia Saudita, finanziatrice dei partiti salafiti che minano le barcollanti, appena nate democrazie arabe.
Obama è alle prese con importanti insuccessi. Nonostante il discorso di apertura all’Islam tenuto nel 2009 al Cairo, il diritto della forza prevale spesso sulla forza del diritto, come per Bush. Abbiamo già citato l’Arabia Saudita, non meno pericolosa dell’Iran e tuttavia esente da obblighi speciali. Permane l’influenza della destra israeliana su Washington, con effetti nefasti sul Medio Oriente. Guantanamo non è stata chiusa come promesso (risale all’8 settembre la morte di un prigioniero, Adnan Latif, torturato per 10 anni senza processo, nonostante l’ingiunzione dei tribunali a rilasciarlo). L’Iraq è
liberato, e nessuno protesta contro i pogrom polizieschi della popolazione gay, testimoniati in questi giorni da un documentario della Bbc. Le guerre scemano, ma sotto Obama l’uso di droni senza piloti è sistematico, in Pakistan, Somalia, Yemen: le uccisioni mirate in zone non belliche «distruggono 50 anni di legge internazionale», sostiene l’investigatore Onu Christof Heyns. La questione ci concerne. Obama risponderà all’attentato di Bengasi con droni che forse partiranno da Sigonella, e sul loro uso il governo italiano non potrà tacere.
Tocca all’Europa dare speranze al Mediterraneo, difendere le sue democrazie. Se si dà un governo, l’Unione avrà l’euro e una politica estera. Solo in tal caso il colpo di fucile che udiamo nei paesi arabi potrà svegliare, come nella poesia di Montale, un’Europa il cui cuore «ogni moto tiene a vile, raro è squassato da trasalimenti».
CHE cos’è davvero l’antipolitica? Da mesi le forze politiche in Parlamento non trovano l’accordo invocato da tutti, dal Quirinale alle associazioni, dal primo cittadino all’ultimo di noi, per cambiare una porcata di legge elettorale invisa al 99 per cento degli italiani. In compenso ieri, in un attimo, i partiti sono riusciti a bloccare quasi all’unanimità una piccola norma di trasparenza, l’obbligo di affidare a una società esterna il controllo delle spese dei gruppi parlamentari. Poca roba, si capisce, rispetto a quello che i partiti avrebbero potuto e dovuto fare di corsa dopo l’ondata di scandali che rischia di travolgerli, dai casi di Lusi e Belsito giù fino alle spese trimalcionesche della Regione Lazio, e cioè una vera riforma dei rimborsi elettorali e un taglio netto agli sprechi, con un severo controllo da parte di organismi terzi.
Insomma una spending review applicata ai costi della politica. Nulla di questo è avvenuto e la montagna di promesse aveva finora partorito lo sparuto topolino di una singola regola di trasparenza, per giunta applicata a una modesta fetta della torta di danaro pubblico destinata ai partiti, quella gestita dai gruppi della Camera. Ma anche questo minimo sforzo d’intercettare le richieste del Paese reale è parso al ceto politico un sacrificio troppo grande e ieri la norma ha rischiato di essere cancellata, prima dell’intervento di Fini e di Pd, Udc e Idv. Negare l’obbligo di un controllo esterno per lasciarlo alla vigilanza degli organi interni significa non cambiare nulla. Andare avanti
com’è andata finora, ovvero malissimo.
Questa è antipolitica. Autentica, volgare e pericolosa. Quando si disprezza in questo modo la richiesta da parte dei cittadini di maggior pulizia e controllo sul danaro pubblico dato ai partiti, quando si maschera con la bandiera ideale dell’autonomia una sostanziale impunità, quando si predicano i sacrifici ogni giorno agli altri per barricarsi alla prima occasione intorno ai propri privilegi, non si rende soltanto un pessimo servizio alla democrazia e al Paese. Si pongono le basi per far saltare l’intero sistema politico, le fondamenta stesse del patto di rappresentanza fra cittadini e partiti. Che razza di professionisti della politica sono questi, in grado di trovare l’unanimità su scelte oggettivamente odiose, ma incapaci di raggiungere un accordo sulle riforme chieste a gran voce dall’intera opinione pubblica?
Viene quasi da chiedersi se non vi sia una logica in questa follia. Se una classe dirigente di gattopardi allergici al cambiamento non abbia deciso di blindarsi a palazzo, nel calcolo che comunque il movimentismo di Grillo non esprimerà mai un’alternativa di governo per una grande nazione, ma al massimo uno sfogatoio ai rancori accumulati da pezzi di società. Se così fosse, si tratterebbe di una strategia catastrofica.
Occorre sperare che non sia vero. Sperare di trovarci di fronte all’ennesimo richiamo della foresta di sorde burocrazie di partito e vecchi gruppi dirigenti che hanno perso il contatto con la realtà, la volontà e i sentimenti dei cittadini. Credere che il ripensamento di alcuni partiti, il Pd, l’Udc, l’Idv, sia la sincera ammissione di un errore e non una retromarcia da opportunisti. Ma al solito, perché non ci avevano pensato prima? Non si pretende che la politica arrivi sempre prima della società. Per quanto proprio in questo consista la buona politica. Ma neppure si può rassegnarsi all’idea che arrivi ogni volta molto dopo, quasi sempre troppo tardi e per giunta con l’aria di chi è trascinata a forza verso soluzioni chiare e oneste, cui naturalmente sfuggirebbe come il diavolo davanti all’acquasantiera. Non bastassero ogni mese un nuovo scandalo e un altro rinvio delle leggi contro la corruzione per alimentare cattivi pensieri e pessimi populisti.
17 settembre 2012
Battaglia navale in Bacino
Msc e Costa bloccate per ore
di Manuela Pivato
Un carosello di spruzzi, fumogeni, virate, moto d’acqua, topette all’attacco e poi messe in fuga dalle sciabolate d’aria di un elicottero della polizia. Una quasi battaglia navale in bacino San Marco dove, ieri pomeriggio, le barche del comitato No Grandi Navi hanno tenuto in scacco tre città galleggianti costringendole a rinviare di quasi tre ore la partenza da San Basilio. Davide contro Golia, un centinaio di gusci di legno e resina contro i grattacieli di Costa e MSC Crociere, i megafoni e i cartelli contro le navi più alte del campanile di San Marco. A fine giornata, chi bagnato fradicio e chi furibondo, il Comitato non si può lamentare.
«Ci sono stati momenti di tensione ma per fortuna non è successo niente di grave – spiega il portavoce del Comitato, Silvio Testa – Abbiamo ottenuto un grandissimo successo perchè queste immagini faranno il giro del mondo e tutto il mondo saprà il danno che ogni giorno subisce la città». Le immagini che stanno già facendo il giro del mondo sono quelle di un piccolo esercito arrivato nel primo pomeriggio a Punta della Dogana con ogni mezzo. Chi in bicicletta da Mira, chi in monopattino, chi in barca a remi, a vela o a motore. In trecento lungo le rive, un centinaio le imbarcazioni nel Canale della Giudecca dentro lo spazio delimitato dal nastro bianco e rosso della polizia che controlla chi è al timone e chi sta a bordo. Le forze dell’ordine non vogliono guai. Il Comitato No Grandi Navi vuole invece la massima visibilità possibile e la cerca in una domenica pomeriggio che prevede il passaggio di Costa Favolosa, Msc Opera e Msc Musica nell’arco di un paio d’ore. Inizia quasi come una scampagnata, con le magliette del Comitato infilate sui vestiti, la musica di Jovanotti, i cani, i palloncini. Arrivano i No Tav di Portogruaro, i No Dal Molin di Vicenza, quelli contro il rischio chimico di Marghera. Tanti No messi insieme che aspettano al varco navi le cui scialuppe sono dieci volte più grandi della barca più grande. La Costa Favolosa, che avrebbe dovuto passare in bacino San Marco alle 16.30, per prudenza resta agli ormeggi in Marittima. I crocieristi si consolano con un drink e il Comitato festeggia un risultato che sembrava insperato. Nell’euforia le prima barche iniziano a superare il nastro di delimitazione e la polizia stringe. La Questura manda una mezza dozzina di moto d’acqua che cerca di riportare le barche al loro posto lungo la riva ma la situazione è ingovernabile. Non appena, poco prima delle 19, si staglia la sagoma della Favolosa le barche del Comitato la circondano e partono i primi fumogeni. Da lassù, sull’ottavo ponte della Costa, il razzo dev’essere sembrato poco più di un moscerino ma quaranta metri più in basso, sul pelo dell’acqua, c’è chi se la vede brutta. Per disperdere la flotta arriva un elicottero della Polizia che scende a pochi metri d’altezza. Le pale appiattiscono la superficie del bacino, l’aria alza getti d’acqua che inondano le barche, volano insulti, qualcuno scappa, qualcuno insegue, i più coraggiosi restano per tentare il bis con l’arrivo della Msc Opera e magari poi con la Msc Musica. L’elicottero scende nuovamente e anche i più oltranzisti capiscono che tanto ormai è fatta. I 6 mila crocieristi torneranno a casa almeno con il dubbio. Il consigliere Beppe Caccia intanto annuncia un esposto alla Procura contro l’intervento dell’elicottero: «Una scelta criminale che ha messo a rischio l’incolumità di decine di persone oltre a quella dei monumenti della città».
18 settembre
GRANDI NAVI»LA PROTESTA FINISCE IN PROCURA
Decine di denunce tra i manifestanti
di Giorgio Cecchetti
Denunce e controdenunce. La manifestazione organizzata dal Comitato No Grandi Navi in bacino San Marco avrà una coda velenosa e toccherà alla Procura sbrogliare la matassa: il capo della Digos Ezio Gaetano ha preannunciato una quarantina di segnalazioni per interruzione di pubblico servizio, lesioni (quattro poliziotti sarebbero rimasti feriti con una prognosi di una decina di giorni ognuno), tentato naufragio e pericolo per la navigazione. Dall’altra parte il consigliere comunale Beppe Caccia ha annunciato che, oltre ad un’interrogazione urgente, presenterà un esposto «per le scelte estremamente pericolose compiute da Capitaneria di Porto, Autorità portuale e dalla Questura». E ci sono riprese tv, fotografie e testimonianze sulle spericolate manovre sia delle imbarcazioni della Polizia sia dell’elicottero. Le denunce della Digos devono essere ancora formalizzate e ancora non c’è il pm che dovrà occuparsene, comunque, ieri, il capo della Digos ha sostenuto che «è stata garantita la libertà di manifestare» e che le forze dell’ordine sono intervenute «per evitare che l’occupazione del canale potesse essere oltre che illegale anche pericolosa».
Stando alla ricostruzione della Polizia, sarebbero state poco più di una decina le barche che avrebbero sorpassato il limite prestabilito negli accordi tra Questura ed organizzatori della manifestazione, con la conseguenza che una trentina di persone verranno denunciate per interruzione di pubblico servizio e pericolo per la navigazione, mentre un’altra decina saranno segnalate anche per tentato naufragio e lesioni perché, a bordo di un topo, avrebbero speronato due volanti lagunari e ferito i quattro agenti a bordo. Caccia, invece, sostiene che sarebbero state le forze dell’ordine a tenere un atteggiamento di «incompetente arroganza, messa a servizio degli interessi di pochi padroni della crocieristica». Nell’esposto si legge che «per intimidire le imbarcazioni dei manifestanti hanno fatto volare un elicottero a pochi metri dalle teste delle persone e da monumenti patrimonio dell’umanità come la basilica di San Giorgio, e le lance della Polizia non hanno esitato a speronare sandoli e mascarete, mettendo a rischio l’incolumità di decine di cittadini». Tra i manifestanti non c’erano solo giovani ed esponenti dei Centro sociali, ma anche signori anziani e rappresentanti di Italia nostra. Uno di loro racconta: «Ero attraccato al pontile della Buncintoro con la mia barca e ho visto un gommone con due ragazzi che procedeva quasi sotto riva avvicinato a grande velocità da un’imbarcazione della Polizia, che ha girato intorno più volte, provocando onde piuttosto alte, le quali hanno rischiato di far ribaltare l’imbarcazione. Non contento, un poliziotto si è messo a urlare ai due giovani: «Mongoli, tornate a casa» . Un altro riferisce dell’elicottero che volava a meno di dieci metri sopra la sua testa e che sollevava colonne d’acqua, bagnando tutti. «Ci vorranno ore e ore di manutenzione, poi, per sistemare turbine e motori pieni di acqua salata e a pagare siamo noi», aggiunge.
C’è una nuova moda tra i potenti: profanare Venezia. In barba alle leggi e asservendo le istituzioni. Tre eventi in sequenza non lasciano dubbi in proposito. Atto primo: dopo l’incidente della Costa Concordia naufragata al Giglio con gravi perdite umane e disastro ambientale, da tutto il mondo venne la richiesta che si stabilissero :«Nuove regole per quei colossi».
Specialmente nel punto più prezioso e fragile, Venezia. E infatti il decreto è arrivato in marzo, e vieta “inchini” e passaggi a meno di due miglia nautiche dalla costa (quasi quattro chilometri). Con una sola eccezione: Venezia, dove enormi navi, da 40.000 tonnellate e oltre, sfiorano ogni giorno Palazzo Ducale, incombono sulla città, inquinano la laguna, oltraggiano lo skyline di Venezia e i suoi cittadini. Venezia dunque “fa eccezione”, ma non perché è più protetta, come il mondo si aspetta, bensì perché non lo è affatto (due incidenti evitati per pochi metri negli ultimi sei mesi).
Secondo atto: Benetton compra il Fondaco dei Tedeschi, prezioso edificio di primo Cinquecento ai piedi del ponte di Rialto, per farne «un megastore di forte impatto simbolico». Accettabile, vista l’antica destinazione commerciale di quella fabbrica illustre. Ma Rem Koolhaas, l’architetto incaricato della ristrutturazione, disegna un neo-Fondaco con sopraelevazione, mega-terrazza con vista su Rialto e scale mobili che violentano da lato a lato l’armonioso cortile. Dopo la denuncia di questo giornale (“Quel centro commerciale che ferisce Venezia”, 13 febbraio) e di molti altri, dopo il parere negativo della Soprintendenza, Koolhaas insiste: «Faremo il progetto, al diavolo il contesto, è quello che paralizza la nuova architettura». Profanare un edificio storico è dunque parte del “forte impatto simbolico” commissionato da Benetton.
Il terzo atto è di questi giorni: Pierre Cardin, memore delle sue origini venete, a 90 anni vuol lasciare un segno in Laguna. Costruendo a Marghera un Palais Lumière da un miliardo e mezzo, alto 250 metri, superficie totale 175mila metri quadrati. Tre torri intrecciate, 60 piani abitabili, un’università della moda e poi uffici negozi, alberghi, centri congressi, ristoranti, megastore, impianti sportivi. Una città verticale, un’occasione unica per il recupero di un’area industriale in degrado. Ma la Torre di Babele targata Cardin, coi suoi 250 metri di altezza, sarebbe alta 140 metri in più del campanile di San Marco, e svettando su Marghera segnerebbe duramente lo skyline di Venezia, in barba a tutte le norme urbanistiche: impossibile non vederla da piazza San Marco, anzi da tutta la città. Specialmente di notte, perché il mastodonte, illuminatissimo, meriti il nome di Palais Lumière.
Non solo: sarebbe sulla rotta degli aerei, e violerebbe di ben 110 metri i limiti di altezza imposti dall’Enac (Ente nazionale aviazione civile). Ma se l’Enac risponde picche, Cardin non demorde: o un sì integrale al progetto, o il suo palazzo emigrerà in Cina.
Che cos’hanno in comune questi tre episodi? Sono tre occasioni per Venezia. Ma perché, se vogliamo portare turisti a Venezia per mare, va fatto con meganavi superinquinanti che s’insinuano in città come altrettanti grattacieli? Perché, se vogliamo recuperare all’uso commerciale il Fondaco dei Tedeschi, dobbiamo violarne l’architettura? Perché Cardin non può, nei 250mila metri quadrati del parco che avrebbe a disposizione, edificare due, tre torri più basse, con la stessa superficie totale? C’è una sola risposta: in tutti questi casi, oltraggiare Venezia non è una conseguenza non prevista, ma il cuore del progetto. E’ essenziale profanare questa città gloriosa che infastidisce i sacerdoti della modernità quanto una vergine restia può irritare un dongiovanni che si crede irresistibile.
La profanazione, anzi la visibilità della profanazione, ha una forte carica simbolica, è uno statement di iper-modernità rampante e volgare, che si vuol prendere la rivincita sul passato, umiliare Venezia guardandola dall’alto di una mega-nave o di una superterrazza a piombo su Rialto, o di un grattacielo a Marghera. Pazienza se (lo ha scritto Italia Nostra) l’Unesco dovesse cancellare Venezia dalle sue liste, dato che nel 2009 lo ha fatto con Dresda, dopo la costruzione di un ponte visibile dalla città barocca.
Ma c’è un altro denominatore comune: i soldi. In tutti e tre i casi, il ricatto è lo stesso: senza le mega-navi calano i turisti; per avere la mega-torre di Marghera e la mega-terrazza del Fondaco bisogna ubbidire al committente senza fiatare. E le istituzioni? Prone ai voleri del dio Mercato, sono pronte a tutto: nel caso del Fondaco, il Comune ha accettato da Benetton una sorta di “bonus” di 6 milioni promettendo in cambio di permettere (e far permettere) tutto; il sindaco Orsoni dichiara che «è assurdo mettersi di traverso a Cardin».
Intanto il presidente della regione Zaia incensa lo stilista paragonandolo a Lorenzo il Magnifico (forse non ricordava il nome di nessun doge), e chiede «che il ministro Passera si metta una mano sul cuore» e induca l’Enac a chiudere un occhio: anche la sicurezza dei voli dovrà pur inchinarsi al Denaro. In questa squallida sceneggiata, due sono le vittime: non solo Venezia (e i veneziani), ma anche la legalità, sfrattata a suon di milioni.
E intanto Pierre Cardin ha già messo in vendita gli appartamenti del Palais Lumière, con un annuncio diffuso a Parigi, in cui lo si vede torreggiare sullo sfondo di una Venezia ridotta a miniatura. La legalità può aspettare, la Costituzione può andare in soffitta.
Ornaghi e il Consiglio dei Beni culturali: “a sua immagine lo creò”
Tomaso Montanari – blog su Il Fatto quotidiano online
Lorenzo Ornaghi – uno scienziato della politica rettore di un’università privata, Cattolica e milanese – diventa ministro per i Beni culturali in un governo tecnico. Quando il suo governo tecnico taglia i consulenti tecnici di quel ministero eminentemente tecnico, cosa fa quel ministro scienziato della politica rettore di un’università privata, Cattolica e milanese? Tace.
Alcuni di quei consulenti tagliati avrebbero dovuto comporre il Consiglio Superiore dei Beni culturali: un organo importante, che avrebbe dovuto guidare il ministro scienziato della politica in un territorio che non conosce. Ma il ministro scienziato della politica rettore di un’università privata, Cattolica e milanese non si perde d’animo. E nomina l’altra metà del Consiglio.
E chi nomina, quel ministro scienziato della politica rettore di un’università privata, Cattolica e milanese? Nomina:
1) Una professoressa emerita di Scienze politiche (Gloria Pirzio Ammassari);
2) il rettore dell’università di Milano (lo storico contemporaneo Enrico Decleva);
3) il rettore di un’università privata, il Suor Orsola Benincasa di Napoli (il filosofo del diritto Francesco De Sanctis: no, non quello…);
4) il preside della facoltà di Psicologia dell’università Cattolica (Albino Claudio Bosio, docente di Piscologia del marketing: proprio quel che ci vuole per ‘valorizzare’ il nostro patrimonio!), di cui egli stesso è rettore.
Infine, nomina anche uno storico dell’arte: e meno male, direte voi. Sì, ma quello storico dell’arte (Antonio Paolucci) è anche il direttore dei Musei Vaticani: un dipendente di un altro Stato, e uno che ha nel curriculum delizie come l’idea di far acquistare allo Stato (quello italiano, ovviamente: i preti col cavolo che li freghi) il finto crocifisso di Michelangelo, o quella di regalare alla Curia di Firenze diciassette miliardi di vecchie lire per una collezione d’arte che era già vincolata alla pubblica fruizione.
La tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio della nazione è da oggi affidata a queste salde competenze, a questa eletta meritocrazia, a questa magnifica succursale della conferenza dei rettori, a questo piissimo stuolo di accademici milanesi. A questo punto, Ornaghi può dimettersi dalla carica di rettore della Cattolica: se l’è portata tutta a Roma, non gli mancherà.
Doveva esserci un punto dell’Agenda Monti che mi era sfuggito: ‘Risolvere il problema del patrimonio artistico. Per sempre’.
Fatto.
Psicologi e filosofi i “tecnici” di Ornaghi
Francesco Erbani – la Repubblica
Un filosofo del diritto. Uno psicologo. Uno storico. Una politologa. Infine, uno storico dell’arte. Sono i nuovi componenti del Consiglio superiore per i Beni culturali e paesaggistici. Li ha nominati il ministro Lorenzo Ornaghi. Saranno loro, in quanto membri del massimo organo di consulenza tecnico-scientifica del ministero, a fornire pareri sulla tutela del patrimonio, sulla sua valorizzazione, sui piani paesaggistici. E su tante altre materie che riguardano musei, siti archeologici, centri storici... Nessuno di loro, salvo Antonio Paolucci, ex soprintendente, membro del Consiglio in passato e ora direttore dei Musei Vaticani, museo di un paese che non è l’Italia, ha competenza specifica e profonda sulla materia. Un organo tecnico, dunque, formato da tecnici di altre discipline.
Il presidente, il cui nome era già noto, è Francesco De Sanctis, filosofo del diritto e rettore dell’Università Suor Orsola Benincasa.
Lo psicologo è Albino Claudio Bosio, professore di Psicologia del marketing e anche preside della Facoltà di Psicologia della Cattolica di Milano (di cui Ornaghi è stato rettore: sono solo di questi giorni le sue dimissioni).
Lo storico è un altro rettore, però della Statale di Milano, Enrico Decleva, mentre la politologa è Gloria Pirzio Ammassari, che alla Sapienza di Roma insegna Fenomeni politici. A loro si affiancano altri tre membri. Ma questi nomi sono usciti dal cilindro delle Regioni, dei Comuni e delle Province. E le cose cambiano. SoLo un archeologo di grande esperienza, come Giuliano Volpe, uno storico dell’architettura (Luca Molinari) e una storica dell’arte (Francesca Cappelletti). Ornaghi ha invece preferito pescare in tutt’altri settori disciplinari. Accademici illustri, studiosi che vantano ampie bibliografie, ma, tranne Paolucci, nessuno di loro può esibire altrettanta competenza in materia di tutela del patrimonio.
Al ministero spiegano che Ornaghi ha voluto rinnovare e aprire ad altri ambiti della cultura. E che contava sulla competenza dei presidenti dei comitati di settore (uno per l’architettura, uno per l’archeologia, la storia dell’arte, ecc.), membri del Consiglio e da lui già nominati (sulla base, però, di designazioni fatte da altri). Ma i comitati sono stati tagliati dalla spending review, per cui Ornaghi si è trovato spiazzato ed ha sollevato la questione in Consiglio dei ministri. Ma finora senza conseguenze.
Il Consiglio è stato sempre formato da storici dell’arte, architetti, archeologi, economisti della cultura. Quello scaduto alcuni mesi fa era presieduto dall’archeologo Andrea Carandini e, prima di lui, dallo storico dell’arte e dell’archeologia Salvatore Settis. Fra i presidenti del passato spicca il critico Federico Zeri. Nel 2007 l’allora ministro Rutelli nominò, insieme a Settis, Cesare De Seta, Andrea Emiliani, Paolucci e Andreina Ricci. E persino Sandro Bondi, quando Settis si dimise, denunciando tagli massacranti, e con lui se ne andarono De Seta, Emiliani e Ricci, incaricò due archeologi (una dei quali Francesca Ghedini, sorella dell’avvocato Niccolò) e uno storico dell’architettura. Non così, invece, il tecnico Ornaghi.
Il nostro appello di qualche settimana contro la privatizzazione per decreto economico della Pinacoteca statale di Brera ha ricevuto centinaia di adesioni. In testa ci sono i responsabili di alcuni grandi musei e istituti stranieri, a cominciare dal conservateur en chef du Louvre, Catherine Loisel, dal direttore per la parte antica della National Gallery di Washington, Jonathan Bober, da Jennifer Montagu del Warburg Institute. Con loro, tanti direttori di grandi musei italiani: Matteo Ceriana dell’Accademia di Venezia, Anna Coliva della Galleria Borghese, Anna Lo Bianco di Palazzo Barberini, Rita Paris del Museo Archeologico nazionale di Roma, Maria Grazia Bernardini di Castel Sant’Angelo, Luisa Ciammitti della Pinacoteca di Palazzo dei Diamanti di Ferrara, Mariolina Olivari dei Musei Civici Pavia e Castello di Vigevano, ecc., il segretario generale regionale dei BC del Molise, Gino Famiglietti, la responsabile dell’Assotecnici del Ministero, Irene Berlingò, storici dell’arte, museografi, archeologi di alto livello, Licia Borrelli Vlad, Salvatore Settis, Andrea Emiliani, Antonio Pinelli, Piero Guzzo, Mario Torelli, Carlo Pavolini, editori come Rosellina Archinto, Giovanna Pesci Enriques e Mario Curia, il più volte ministro Giovanni Pieraccini, fondatore di “Roma Europa”, storici e scrittori, Carlo Ginzburg, Piero Bevilacqua, Alberto Asor Rosa, Corrado Stajano, Jacqueline Risset, Roberta De Monticelli, rappresentanti delle associazioni: Italia Nostra (la fondatrice Desideria Pasolini, Nicola Caracciolo vice-presidente, numerosi consiglieri), “R.Bianchi Bandinelli”, Comitato per la Bellezza, Amici di Cesare Brandi, Eddyburg, Patrimonio Sos, Rete dei Comitati, Mountain’s Wilderness, ecc. Docenti dell’Accademia di Belle Arti di Brera (Francesca Valli, Flaminio Gualdoni, Ezio Cuoghi e molti altri), magistrati appassionati ai temi dell’arte e del paesaggio come Paolo Maddalena, Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, Gianfranco Amendola, architetti e urbanisti quali Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Sauro Turroni. Centinaia di adesioni qualificate, con tanti stimati dirigenti del MiBAC quando il Ministero aveva ancora una politica e non era ridotto al fantasma di oggi.
Contro il nostro motivato “no” ad una Fondazione Grande Brera di diritto privato nella quale lo Stato, detentore del patrimonio, immobiliare e mobiliare, perde il controllo tecnico-scientifico della gestione che passa a soggetti non ancora identificati (dopo un decreto convertito in legge!), sono volate accuse di “conservatorismo”, ma dietro di esse è rimasta una gran confusione (che senso ha, ad esempio, paragonare il complesso di Brera alla Biennale di Venezia?). Malgrado ciò, il ministro Ornaghi si è già mosso operativamente chiamando i due primi soci (Fondazione Cariplo e Camera di Commercio), parlando di “fondazione di partecipazione”, di organismo “senza fini di lucro privato”. Ma chi può credergli con queste premesse? Il nodo di fondo è infatti la natura della Fondazione “mista”. Può svelarla soltanto uno statuto che chiarisca “chi governa”, “chi comanda”, “in base a quali criteri”.
Il dibattito succeduto alla nostra presa di posizione non ha dunque fornito certezze di sorta sulla privatizzazione. Ha semmai accresciuto dubbi, perplessità, distinguo. Questo è importante. Il nostro fondato timore è che si vada – oggi per Brera, domani per il Maxxi, dopodomani per la Galleria Borghese o per Santa Maria della Scala di Siena – ad una Fondazione all’italiana in cui lo Stato ci mette gli edifici, il patrimonio, una cospicua dote finanziaria, i servizi esistenti, la tradizione, la consolidata attrattiva internazionale, e i privati, con poca spesa, si prendono la gestione, o meglio la parte redditizia della gestione.
Ci viene chiesto cosa proponiamo in alternativa: proponiamo la politica per i beni culturali che vige in ogni Paese civile, non imbarbarito come sembra il nostro, e cioè una Repubblica (Stato, Regioni, Comune, ecc.) in grado di tutelare per davvero il patrimonio storico e artistico e il paesaggio italiano, di destinare fondi correnti e investimenti decorosi quanto certi all’apparato di tutela e di gestione dei suoi beni (e non l’avvilente miseria attuale), di diminuire tasse e imposte ai proprietari di dimore e giardini storici, ai mecenati veri, agli sponsor accrescendo così investimenti, lavori, occupazione e anche ritorno fiscale. Uno Stato, un Ministero, Soprintendenze che rialzano la testa, riacquistano dignità, privilegiando merito e competenza. Musei pubblici che puntano su didattica di massa, ricerca, rapporto con città e territori, mostre di qualità e di riproposta e non ambiscono ad essere emporii, luna-park del consumo più o meno artistico. Su tutto ciò è importante discutere e il senso della nostra lettera è anche questo: non si possono assumere decisioni tanto importanti in chiave soltanto economicistica senza aver discusso a fondo i problemi strategici posti nel terzo millennio da un grande museo statale da anni in sofferenza come Brera il cui rilancio riteniamo indifferibile.
Vi riproponiamo di seguito il testo della lettera rivolta al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al presidente del Consiglio, Mario Monti e al ministro per i Beni e le Attività culturali, Lorenzo Ornaghi e ad essa alleghiamo l’elenco completo dei firmatari.
Gentile presidente della Repubblica, Gentile presidente del Consiglio, Gentile ministro per i Beni culturali,
leggendo con più attenzione il decreto, poi disegno di legge, sullo sviluppo approvato nei giorni scorsi, abbiamo amaramente constatato che all’art. 8 del medesimo è stato inserito un provvedimento che con lo sviluppo ha ben poco a che fare e che invece apre un varco, a nostro avviso decisivo, in direzione della trasformazione dei grandi musei italiani da pubblici a Fondazioni di diritto privato, con tutte le implicazioni che ciò comporta. Si stabilisce infatti la creazione della “Grande Brera” quale Fondazione privata incaricata di gestire la Pinacoteca Nazionale di Brera e i suoi beni, mobili e immobili.
Anzitutto notiamo che, nel “concerto” ministeriale predisposto per questo importante disegno di legge governativo, non figura il ministro competente per i Beni culturali il cui apporto (e ciò è gravissimo) viene giudicato palesemente inessenziale.
In secondo luogo l’art. 8 del decreto-legge n.83 del 22.6.12 ora convertito in legge, conferisce ad una Fondazione di diritto privato l’intera collezione di Brera, stratificatasi in due secoli, il grande immobile che la ospita (dal quale l’ex commissario Resca ha provveduto a sloggiare l’Accademia di Belle Arti antecedente alla Pinacoteca), nonché ulteriori beni mobili e immobili. E’ pienamente costituzionale un simile trasferimento? Rappresenta davvero una prosecuzione della tutela garantita dall’art. 9 della Costituzione al patrimonio storico-artistico? O non apre al contrario, da apripista, una fase del tutto nuova con l’ingresso di soci privati in un grande museo statale? Dopo la Grande Brera privatizzata, sarà più facile avere i Grandi Uffizi privatizzati o la Galleria Borghese, gli Archeologici di Napoli e di Taranto.
Fra l’altro nell’ultimo comma dell’art. 8 della legge Passera (Ornaghi assente) si dice che “la Fondazione può avvalersi di personale appartenente ai ruoli del Ministero per i beni e le attività culturali e degli enti territoriali che abbiano acquisito la qualità di soci promotori”. Può avvalersi: dunque può ancora non avvalersene, può essere tagliato in ogni momento il cordone ombelicale che lega da sempre questa Pinacoteca Nazionale al Ministero specificamente incaricato della tutela e al personale tecnico-scientifico che esso seleziona.
Il fine generale è quello di una “gestione secondo criteri di efficienza economica”. Il che, se ci consente, rappresenta uno schiaffo ai direttori dei grandi musei nazionali i quali stanno da mesi compiendo sforzi eroici per tenere aperte, vive e vitali tali istituzioni dovendo lottare con fondi ridotti al lumicino (negli ultimi dodici anni il bilancio ministeriale è crollato da 2,5 a 1,5 miliardi. Altro che “efficienza economica”. Questi valorosi servitori dello Stato e i loro predecessori hanno creato musei ammirati in tutto il mondo ed ora sono costretti ad una gestione non “secondo criteri di efficienza economica”, bensì in condizioni di umiliante sopravvivenza (i loro stipendi variano fra i 1700 e i 1900 euro netti). Una “economia di guerra” che minaccia lo sviluppo dello stesso turismo culturale, il solo in crescita, con pericoli continui di chiusure parziali o totali, con la riduzione o l’annullamento delle attività didattiche, per giovani e giovanissimi, e di quelle di ricerca ben più importanti culturalmente di altre attività prettamente “commerciali”.
Perché non si è discusso questa operazione-Grande Brera alla luce del sole? Perché si è esclusa da essa il Ministero per i Beni e le Attività culturali? Perché si è infilato un provvedimento di questa portata quasi nelle pieghe di un decretone per lo sviluppo? Eppure si tratta di una operazione che apre la strada, chiarissimamente, alla privatizzazione dei maggiori musei italiani, già tentata nel recente passato, lontana dai grandi modelli italiani ed europei, e che ora si fa passare nel fragoroso silenzio degli organi di informazione, della maggioranza degli intellettuali italiani e degli addetti ai lavori. Spettacolo avvilente rispetto alla reazione riservata anni fa ad una proposta, forse più ingenua, ma certamente più chiara e lineare, di privatizzazione avanzata dall’allora ministro Giuliano Urbani. In questo caso il ministro competente non c’è, non sente, non vede. Ci pensa il collega dello Sviluppo. Anche l’Arte è più che mai una merce. C’è ancora qualcuno che voglia discutere in positivo nel nostro Paese senza facili populismi, ma con serietà e rigore culturale?
Vittorio Emiliani, Maria Pia Guermandi, Tomaso Montanari (promotori)
Non c'è niente di peggio che dire «io l'avevo detto», perché a babbo morto non è gratificante né consolatorio. Una cosa però, questo giornale può dirla: più che Marchionne, fa impressione lo scandalo che oggi esibisce la folta schiera di adulatori del presunto uomo della provvidenza, quelli che «con Marchionne senza se e senza ma», quelli delle partite a pocker notturne, quelli che «Pomigliano è un caso irripetibile, quelli che «non si può avere tutto» e per non essere cacciati dalla fabbrica bisogna chinare la testa e accettare le nuove regole perché così si salva la Fiat, il lavoro, l'Italia.
Risultato: si è perso tutto, la Fiat e il lavoro, mentre ci resta un'Italia il cui governo mica può decidere in che giorno e a che ora chi guida una multinazionale dovrà presentarsi dal governo per spiegare cosa intenda fare oggi e domani. E' vero, la Fiat che scappa dal nostro paese è la stessa che per 113 anni ha munto e persino saccheggiato le casse dello stato, ma come dice il presidente professore un imprenditore ha il diritto di scegliere di investire dove più gli conviene.
Marchionne scappa da un paese piegato, guidato da una banda politica arcobaleno che ha assistito ai preparativi della fuga con il cappello in mano, spellandosi le mani ad applaudire le prodezze di un avventuriero. Non scappa di notte come i ladruncoli Marchionne, come i padroncini che in una notte senza luna svuotano la fabbrica per trasferire i macchinari in Romania. Marchionne se ne va camminando su una passerella di velluto stesagli davanti ai piedi da un'intera genia di politici, amministratori, sindacalisti complici. I suoi colleghi manager e l'intero padronato - le eccezioni si contano sulle dita di una mano - non si sono limitati ad applaudire le sue gesta, hanno addirittura copiato le sue ricette. Un paio di governi hanno assunto la filosofia del «Marchionne del Grillo» trasformandola in leggi, demolendo la civiltà del lavoro. Via il contratto nazionale, via la Costituzione e lo Statuto dei lavoratori. Via la democrazia dai posti di lavoro, è il padrone a scegliere i sindacati a cui dettar legge con i ministri che precisano: il posto di lavoro mica è di proprietà del lavoratore. Non è Marchionne che ha spaccato i sindacati, sono i sindacati, gran parte di essi, che si sono messi al servizio del padrone, a lui hanno deciso di render conto. Siccome non si può salvare capra e cavoli, hanno consegnato sia la capra che i cavoli, pazienza se i proprietari dell'una e degli altri erano i lavoratori.
Possibile che solo il manifesto tra i giornali, o solo la Fiom tra i sindacati, si fossero accorti che Marchionne stava fregando tutti, distruggendo il sistema di regole, disinvestendo e trasferendo risorse, know-how, saperi, ricerca, modelli da Torino a Detroit? Fanno pena i Della Valle che oggi attaccano il deus ex machina della Fiat, sono gli stessi che hanno sempre sognato di fare come lui, e infatti il reuccio del made in Italy marchigiano ha più cause lui per antisindacalità che lo stesso Marchionne. Romiti si toglie i sampietrini dalla scarpe, ha le sue ragioni più o meno nobili.
La differenza con Marchionne è che lui i sindacati e i lavoratori li faceva a pezzi sul campo di battaglia, in una guerra in cui gli avversari si rispettavano, Marchionne invece preferisce cambiare le regole del gioco e comprarsi i generali nemici, evidentemente sul mertcato. Il Romiti leninista - per usare un'espressione felice di Marco Revelli - veniva chiamato «Sgiafela leun» (schiaffeggia leoni), Marchionne preferisce sgozzare le pecore.
Non diremo «noi l'avevamo detto»; diremo solo «onore» a quei lavoratori che non hanno offerto il collo al boia.
Puntuale come gli acquazzoni di fine stagione, piove dal governo l’attesa grida che proclama l’imminente salvezza della patria, se solo ci decidiamo a vendere monumenti e segmenti del patrimonio immobiliare pubblico.
Quest’idea di seconda mano si trascina da oltre vent’anni con risultati miserevoli, eppure a ogni crisi spuntano medici improvvisati che promettono all’Italia malata di debito guarigioni miracolose a suon di dismissioni. Comiciò Guido Carli, ministro del Tesoro con Andreotti nel 1991, proponendo una “Immobiliare Italia S.p.A.”, rimasta sulla carta finché il suo fantasma, invecchiato e inacidito, si materializzò dieci anni dopo con la “Patrimonio dello Stato S.p.A.” di Tremonti.
Ma intanto le ipotesi di dismissioni venivano rilanciate quasi a ogni Finanziaria (anche coi governi di centrosinistra): quelle norme confuse e velleitarie costruirono un retroscena di “precedenti” per Berlusconi, che appena insediatosi a Palazzo Chigi nel 2001 rilanciò il tema con la legge 410. In essa si colpiva al cuore l’inalienabilità dei beni demaniali, resi disponibili alla vendita con decreto del ministro dell’Economia.
La “Patrimonio S.p.A.”, col suo sistema di scatole cinesi e “cartolarizzazioni” che innescava la privatizzazione dell’intero demanio e patrimonio pubblico, è stata un fallimento epocale (fu lo stesso Tremonti a firmare nel 2011 il certificato di morte), un costoso carrozzone che non ha ridotto di un centesimo il debito pubblico, anzi ha peggiorato il conto patrimoniale dello Stato senza produrre alcun beneficio di lunga durata.
Con l’acqua della crisi alla gola del governo, si susseguono gesti retorici che mediante l’effetto-annuncio spargono foglie di fico sull’assenza di progetti per il futuro. Della stessa natura è l’etichetta bugiarda di spending review, indistinguibile dai famigerati “tagli lineari” (cioè alla cieca) di Tremonti; eppure il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, in un’intervista a questo giornale (5 agosto) ha esortato a «evitare la filosofia dei tagli lineari ».
Come fosse un’impensata fatalità, i tagli del governo si accaniscono invece sulla spesa sociale e sulla cultura, corrodono l’equità, diffondono una cortina di fumo che comprime la crescita, ma la sbandiera come se ci fosse. Ma le politiche di austerità mirate solo a ridurre il debito frenano l’economia, riducono la competitività e fanno lievitare il deficit nel suo rapporto percentuale con un Pil in calo (è un paradosso osservato da George Soros).
Intanto i tagli in nome del debito pubblico danno per scontato che gli sprechi (che ci sono) siano dovuti alla spesa sociale (che non è uno spreco): ecco perché la scure si abbatte su sanità, scuola, previdenza, cultura. Si occulta invece una scomoda verità: l’accumulo del debito pubblico è aggravato dal debito di banche e imprese, regolarmente ripianato da interventi degli Stati (37% del Pil in Europa a fine 2011, secondo dati Bankitalia). I paladini della deregulation neo-liberista, quando i loro buchi di bilancio diventano voragini, si tramutano sull’istante in neokeynesiani, invocano l’intervento dello Stato e con subita metamorfosi il debito privato diventa debito pubblico, e i cittadini vengono borseggiati. Non solo: dopo essersi mostrati incapaci di amministrare se stessi, banche e mercati si sostituiscono ai governi, colpendo al cuore i principi della democrazia.
Questo processo è ancor più feroce in Italia, perché si aggancia alla cancrena dell’evasione fiscale, nostro non invidiabile primato. Il presidente Monti ha il merito di aver infranto su questo tema la congiura del silenzio di cui furono complici destra e sinistra; tuttavia, non ha (ancora?) lanciato misure commisurate alle gigantesche dimensioni del problema: 142,47 miliardi di tasse non pagate nel 2011, 154 la proiezione per il 2012 (dati Confcommercio). Gli introiti fiscali sono stati irresponsabilmente frenati distribuendo iniquamente la pressione tributaria, massima sui percettori di reddito fisso e quasi opzionale su tutti gli altri, per non dire di sconti, deroghe e condoni. I mancati introiti impediscono di risanare il debito, accrescendolo nel tempo coi relativi interessi e facendo gravare sui più deboli anche i contributi di Stato a copertura delle perdite bancarie. Solo rimuovendo cinicamente dalla scena l’evasione fiscale e i suoi effetti si può sostenere che le dismissioni delle proprietà pubbliche e i tagli alla spesa sociale siano le sole leve disponibili per ridurre il debito.
La dismissione di beni demaniali non è solo inefficace, è anche incostituzionale. La proprietà pubblica è infatti attributo necessario della sovranità, che spetta al popolo (art. 1 Cost.). Demanio, beni pubblici, beni comuni e beni culturali sono, nel disegno della Costituzione, beni essenziali a garanzia dell’esercizio dei diritti civili e degli interessi collettivi (libertà, salute, democrazia, cultura, eguaglianza, lavoro). Sono, come ha scritto la Commissione Rodotà, «funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona». Diritti dei cittadini e beni economici che ne sono la garanzia fattuale si stringono in un solo nodo: vendere le proprietà pubbliche e comprimere i diritti sono due facce della stessa medaglia. In questa corsa al peggio, la farsa del federalismo demaniale si segnala, secondo Paolo Maddalena (giudice emerito della Corte costituzionale), per la violazione di nove articoli della Costituzione, ma anche del principio di «equa ripartizione dei beni fra tutti i cittadini, ispirato ai criteri dell’utilità generale e del preminente interesse pubblico».
Su questo banco di prova il governo Monti si è mostrato finora inadeguato alla sfida. A una stanca retorica dello sviluppo (che secondo Passera coincide con grandi opere, piattaforme petrolifere a un passo dalla costa e massicce cementificazioni) non ha saputo sostituire un progetto di crescita produttiva del Paese.
Ha lanciato un’ottima legge sui suoli agricoli (proposta dal ministro Catania), ma senza darle l’assoluta priorità che sarebbe necessaria, accelerando intanto i tempi di approvazione della pessima norma sugli stadi, col suo enorme spreco di suoli e di risorse pubbliche per basse operazioni immobiliari (la Repubblica, 17 maggio).
Intanto il ministro dell’Ambiente Clini sponsorizza l’orrido grattacielo di Pierre Cardin che sfregerà per sempre Venezia, e il ministro dei Beni culturali Ornaghi coltiva un attonito silenzio. Di fronte all’incerto futuro del Paese, non è accettabile che di ambiente si parli solo per promuoverne le devastazioni, di patrimonio solo per svenderlo.
Se i suoi ministri non sanno elaborare un’idea degna del Paese e della sua Costituzione, possiamo aspettarci che il presidente Monti si impegni in prima persona, ci dica quale è la sua?
“Romilia”, con nuovo nome, “centro sportivo dedicato ai giovani “, però con gli stessi contenuti poco attinenti allo sport e ai giovani, si sposta di qualche chilometro –da Budrio a Granarolo- e si attacca al famigerato “Passante Nord”, ridotto ad “Asse Intermedio di Pianura”, più corto e ancor più vicino alla Tangenziale, non meno inquinante e devastante l’orditura agricola della pianura. Budrio si consola con un doppio mastodontico gassificatore di bio masse a ridosso di una stupenda “zona umida”, ultimo residuo di valli e bassure, ricco di fauna e avio fauna e di alberi secolari. Un luogo spettacolare che per far funzionare il gassificatore sarà soffocato dalla mono cultura del mais e dal puzzo della sua fermentazione (con il timore che possa anche scoppiare).
Gli amministratori provinciali e comunali non avevano sempre sostenuto:mai più consumo del suolo, solo mobilità sostenibile e difesa del paesaggio e della campagna?
Con il centro sportivo /direzionale/ di servizio / di “accoglienza e di supporto”, con alloggi di vario tipo e “spazi polivalenti”, la speculazione non la faranno solo i proprietari del terreno e i costruttori, sarà lo stesso Comune di Granarolo che lottizzerà il vecchio campo sportivo. Il nuovo centro occupa 22 ettari di area agricola, più altri saranno consumati per il “passantino nord” (studiato con un’uscita in concomitanza con il nuovo progetto) al fine di favorire lo sviluppo del cemento. L’intervento è inserito in un tessuto rurale di grande qualità, lontano da infrastrutture di trasporto pubblico, in una ambiente in cui le propaggini urbanizzate della città sono ancora relativamente lontane. Comune di Granarolo e Provincia di Bologna hanno scelto di procedere con una variante urbanistica in deroga alla sola strumentazione comunale –senza interessare il Piano Territoriale Provinciale- tramite un Accordo di Programma, il cui iter è già stato avviato e si concluderà –nella sua fase preliminare– in questo mese di Settembre.
Una “procedura lampo” che “valorizza” non una delle tante zone industriali abbandonate , una zona collocata coerentemente rispetto al sistema metropolitano, ma un’area di proprietà pare degli stessi soci del Bologna Football Club e del suo stesso Presidente (o di società a lui riconducibili) i quali sarebbero proprietari, come risulta dagli organi di stampa, anche di altri terreni contigui all’area di progetto.
In un momento nel quale tutte le risorse ed energie dovrebbero essere concentrate sulla ricostruzione dei centri storici colpiti dal terremoto e nella riqualificazione - antisismica, energetica – dei nostri centri urbani investiti da un degrado progressivo, con sprezzo della coerenza e con un’operazione da manuale della speculazione edilizia, la Provincia di Bologna e gli amministratori locali decidono di investire su opere (stadio e passante nord) non solo inutili, ma gravemente dannose nel loro impatto territoriale e ambientale e nella loro sostenibilità economica.
Italia Nostra, da sempre contraria al passante nord, richiede l’immediata sospensione di tale progetto.
Italia Nostra chiede inoltre un incontro urgente – e pubblico – con l’Assessore alla Provincia Giacomo Venturi e i sindaci dei comuni interessati per una discussione trasparente ed allargata sul progetto del nuovo stadio: i suoi obiettivi, il suo impatto in termini ambientali, finanziari e sociali.
Per Silvio Berlusconi la messa in vendita de La7 e di Mtv da parte di Telecom rappresenta un raggio di sole e anche più, mentre sul sistema dei media italiani può calare con essa una autentica cappa di piombo. Saremmo più che mai a MediaRai. Ora si capisce meglio perché l’ex premier rinvii di continuo ogni annuncio sul proprio futuro politico. Gli affari di famiglia esigono che il Berlusconi politico eviti di danneggiare, in una partita difficile, Mediaset. La quale presenta dati negativi sia negli ascolti che nella raccolta pubblicitaria. Meglio per lui rimanere in scena a fare il controllore delle maggioranze invece di impegnarsi in un improbabile ritorno a Palazzo Chigi
La mossa di Mediaset di presentare entro il 24 settembre una proposta di interesse per TiMedia di Telecom (emittenti tv, infrastrutture, frequenze, ecc.) serve ad “andare a vedere” le carte di chi vende. Ma può anche significare la volontà di comprare per poi smembrare una tv generalista e tenersi soltanto ciò che serve. Come ha ben rilevato ieri su l’Unità Rinaldo Gianola, TiMedia ha chiuso il 2011 con una perdita di 83 milioni (quasi 29 più dell’anno precedente) e il primo semestre di quest’anno con un “rosso” di 35 milioni. Né il varo di un Tg “diverso” che pure fa ascolti e di qualificati programmi di approfondimento e di intrattenimento con elementi ex Rai (Lerner, Formigli, Gruber, ecc.) ha portato lo share medio oltre il 4 %. Però la raccolta pubblicitaria è la sola a segnare incrementi (+ 10,8 %) insieme a quella di Sky, contro una perdita media del settore sull’8-9 %.
Inoltre l’arrivo sul video dell’équipe di Michele Santoro, reduce dalla buona esperienza di Servizio pubblico, promette, o prometteva, un balzo degli ascolti e quindi degli spot connessi. Come accadeva su Raidue ai tempi di Annozero, prima che la Rai si “suicidasse”, anche economicamente, estromettendolo. Assieme ai nomi già indicati, Santoro presenta agli occhi del Cavaliere il grave difetto di potenziare una tv già fastidiosamente critica per lui, sia come candidato-premier sia come controllore delle maggioranze (del Monti dopo Monti, magari). Comprare La7 e devitalizzarla può diventare dunque per lui un doppio affare.
Glielo consentono le leggi vigenti? La legge Gasparri è tagliata su misura per lui come il doppiopetto grigio che indossa: all’interno del calderone del Sic (Sistema Integrato delle Comunicazioni), dovrebbe superare, in modo diretto e indiretto, il 20 %. Né dovrebbe – ma è più controverso – creargli problemi il “tetto” di 5 multiplex che pure, più che un tetto, è un grattacielo. Potrà intervenire allora l’Antitrust? Potrebbe. E però molto dipende anche dal governo dei tecnici che, fin qui, non ha fatto granché in materia. Nominati i vertici della Rai e ristretti i poteri del CdA, la decisione più significativa è stata quella di parcheggiare l’ex direttore generale Lorenza Lei alla Sipra che boccheggia ed avrebbe bisogno di competenze molto agguerrite. Sul versante dell’asta delle frequenze il ministro Passera non partorisce da mesi una decisione: se Mediaset potrà comprare La7 e le sue frequenze, spenderà di meno e non avrà più bisogno d’altro.
L’acquisto diretto di TiMedia da parte di Mediaset – certamente sfrontato in una Europa dove il servizio pubblico è da decenni “messo in sicurezza” da leggi forti e da canoni elevati – non è la sola prospettiva minacciosa. Nel senso che esso riporterebbe a galla il gigantesco conflitto di interessi berlusconiano e magari ricreerebbe, risvegliando i dormienti, un fronte politico meno sfaldato e diviso. Non meno pericoloso purtroppo sarebbe l’acquisto da parte di una cordata di «amici del Cavaliere», che sortirebbe per lui effetti politici analoghi (via o imbavagliati i programmi molesti) e non andrebbe a scontrarsi coi pur radi paletti opposti da leggi e Autorità di vigilanza (dove altri “amici” vigilano, pro Arcore o Cologno Monzese, s’intende). Con la Rai conciata com’è, rischia dunque di calare sul panorama dell’informazione televisiva – i Tg sono l’unica fonte per oltre il 60 % degli italiani – la cappa più opprimente, il più gigantesco bavaglio che la storia ricordi, dagli esordi televisivi del 1954. Stavolta saremmo davvero alla videocrazia.
SENTITE le dichiarazioni di Marchionne, Passera ha detto che vuole «capirne le implicazioni». Dunque, per lui, un dirigente che ha promesso 20 miliardi di investimento, ne ha effettuato uno, e poi dichiara che degli altri 19 non se ne parla proprio, è stato poco chiaro.Bisogna capire meglio cosa vuol dire. D’altra parte Passera ha assicurato all’ad che «non è pensabile che la politica si sostituisca alle (sue) scelte imprenditoriali e di investimento ». Quanto alla ministra Fornero, ha fornito alcune date disponibili per incontrarlo. «Non ho il potere di convocare l’amministratore delegato di una grande azienda», ha fatto sapere. Però anche lei vuole «approfondire con Marchionne cosa ha in mente per i suoi piani di investimento per l’occupazione ».
Dinanzi a una simile remissività dei ministri e dello stesso presidente del Consiglio, e alle difficoltà che denunciano nel comprendere l’ad della Fiat, c’è da chiedersi se hanno capito, loro, il nocciolo della questione: sono in gioco, entro pochi mesi, decine di migliaia di posti di lavoro. Se lo capissero, la telefonata da fare sarebbe di questo tipo: «Dottor Marchionne, il governo considera gravissime le sue dichiarazioni circa le produzioni Fiat in Italia. Pertanto la aspettiamo domattina alle 8 precise a palazzo Chigi. Dovrà spiegarci con dati e cifre solide come la sua società intende operare nel prossimo futuro in questo Paese. Il governo non tollererà informazioni ambigue né generiche espressioni di intenti».
A parte ministri che non capiscono e telefonate che non si faranno, Marchionne ha pure dei sostenitori. C’è la crisi, essi rammentano, che comprime le vendite di auto. I salari lordi, tasse e contributi inclusi, in Italia sono molto alti. La produttività dei nostri operai è scarsa. In realtà le cose non stanno così. D’accordo che la crisi ha ridotto le vendite di auto in Europa di oltre un quarto, rispetto ai 16,8 milioni di vetture del 2007. Ma ciò non spiega perché l’Italia, che ha nel gruppo Fiat l’unico produttore di autoveicoli, sia ormai soltanto il settimo produttore europeo, dopo essere stata a lungo il secondo o il terzo. Nel 2011, quella che fu una grande potenza automobilistica ha prodotto meno di 0,8 milioni di autoveicoli (vetture più veicoli commerciali leggeri). La sola Polonia ha superato di parecchio tale cifra. Poi ci sono, a crescere, la Repubblica Ceca, con 1,2 milioni di unità; il Regno Unito (1,5 milioni); la Francia (2,3); la Spagna (2,4); infine la Germania, con 6,3 milioni in totale. Per questi Paesi sembra che la crisi sia un’altra
cosa.
Del pari inconsistenti sono le altre affermazioni per cui in Italia non conviene produrre auto. Nello stesso settore, i salari lordi dei lavoratori dell’auto sono più alti in Francia, e più alti ancora lo sono nel Regno Unito e in Germania. Quanto alla produttività, basta accostare i dati in modo appropriato. Evitando – ad esempio – di comparare stabilimenti esteri dove si lavora sei giorni la settimana tutti i mesi, tipo quello polacco di Tichy, con Mirafiori, dove da anni si lavora qualche giorno al mese. Si scopre così che la produttività per ora effettivamente lavorata in Italia è analoga a quella di molti impianti stranieri.
In tale quadro di ministri simili al cavaliere di Calvino, inesistenti per quanto attiene alla questione Fiat (ma anche, duole dire, per altri casi recenti), e di commentatori sovente poco o male informati, spiccano le critiche di un imprenditore, Diego Della Valle, alle due massime cariche di Fiat, l’Ad Marchionne e il presidente Elkann. Ha detto, in soldoni, che la colpa di quello che sta accadendo alla società del Lingotto è tutta loro. Pare difficile dargli torto. Se un’impresa si ritrova in basso nelle classifiche europee, dopo essere stata per decenni in prima fila, chiunque mastichi un poco di questioni industriali e manageriali non può fare a meno di pensare che il suo massimo dirigente, al governo di essa ormai dal lontano 2004, qualche responsabilità ce l’abbia. Siano queste da cercare nell’ambito delle competenze – Marchionne non è un uomo dell’industria, viene dalla finanza – oppure di un disegno volto a trasferire il peso produttivo dell’impresa verso altri lidi per i più diversi motivi.
Semmai si potrebbe obbiettare a Della Valle che al punto in cui siamo arrivati le critiche dovrebbero venir rivolte in maggior misura agli azionisti, in primo luogo alla famiglia che controlla finanziariamente la Fiat, più qualche altro grosso azionista che sta dalla sua parte, che non al dirigente di vertice. L’Ad in carica potrebbe essere congedato anche domani. Ma questo non cambierebbe di per sé la posizione dei maggiori azionisti, i quali ormai da lungo tempo mostrano, non con quello che dicono bensì con le scelte che compiono, di considerare l’industria dell’auto come un intralcio alla loro ricerca di maggiori rendimenti per i capitali di cui dispongono.
Candela è un paesino che lega la Campania alla Puglia. I viaggiatori diretti a Bari lo incontrano alla sommità dell’Appennino, finita la salita dell’Irpinia d’Oriente. Spalanca gli occhi alla Daunia, li dirige sugli ettari di grano del Tavoliere, verso Foggia. A Candela nessuno pensava fino a vent’anni fa che il vento si potesse anche vendere. Il vento qui ha sempre fatto solo il suo mestiere: soffiare. Soffia quasi sempre, anche duemila ore all’anno. Contano le ore coloro che fanno quattrini col vento. Con un anemometro, un’asta lunga, una specie di ago d’acciaio diretto al cielo, si può conoscere se è buono o cattivo, forte o debole. Se soffia come si deve o se fa i capricci. Se è utile a far fare quattrini, dunque.
Arrivarono le aste e con loro particolari personaggi che organizzavano il mercato del vento. Sviluppatori si chiamavano. Sviluppavano il territorio, certo. Gli agricoltori di Candela ne furono lieti, anche il sindaco e tutta l’amministrazione comunale. C’era la possibilità di ottenere qualche migliaio di euro dalla società che avrebbe innalzato le pale eoliche. E soldi per fare una bella festa patronale per esempio e far venire (altrove era già successo) i cantanti di X Factor finalmente! E anche sostenere la squadra di calcio: divise nuove per tutti!
Pure belle sono le pale. Se le vedi da lontano sembrano rosoni d’acciaio o margherite giganti, dipende dai tuoi occhi, da dove le miri. Fanno la loro figura comunque. Ognuno degli abitanti del vento ha una sua immagine da offrire al pubblico dibattito. A un sindaco del Tarantino, per esempio, parevano simili a mulini a vento: “Abbiamo già il mare e avremo i mulini, delle possibili attrazioni per il nostro territorio sempre danneggiato, vilipeso dal nord”.
Le pale eoliche messe una accanto all’altra formano, come ha sempre spiegato Legambiente, un parco eolico. La parola parco dice tutto: significa ambiente tutelato, prati verdi, cielo azzurro, aria pulita. Finalmente il sud non avrebbe insozzato l’aria, anzi l’avrebbe trattenuta e gestita nel miglior modo possibile. Così a Rocchetta Sant’Antonio iniziarono a mettere le pale che pian piano giunsero fino a Candela, poi si volsero verso Monteverde e Lacedonia, paesi limitrofi. Puntarono in direzione di Foggia, cinsero Sant’Agata di Puglia come un pugno stringe una rosa, s’incamminarono verso Lesina, verso il mare dell’Adriatico.
Pale, pale, pale. Un’alluvione di pale che ha conquistato tutto il sud. Loro in cima alle montagne, i pannelli fotovoltaici in terra. Creste d’acciaio in aria, e in basso silicio al posto degli ulivi, come in Salento, silicio invece degli agrumi, come in Calabria. Silicio e non pomodori, o vitigni, o alberi. Silicio in nome dell’energia sostenibile, del Protocollo di Kyoto, delle attività ecocompatibili. In nome del futuro dell’uomo. Conviene dunque partire da qui, dall’Irpinia d’Oriente, epicentro del vento, per illustrare il più straordinario, galattico affare di questo inizio secolo. Per domandare come sia stato possibile costruire una fabbrica di quattrini per pochi intimi, un giro d’affari che nel 2020 toccherà punte multimiliardarie, deviando nelle casse pubbliche qualche spicciolo. L’equivalente di un’elemosina. Come sia potuto accadere che un tesoro collettivo inesauribile è stato ceduto ai privati. Che non una pala, una!, sia veramente e totalmente pubblica. Per volere di chi, grazie a complicità di quali menti, di quali mani, di quali occhi? E in ragione di quale bene comune il bilancio statale ha immaginato di destinare, per sostenere il ciclo vitale dello sviluppo delle rinnovabili, un monte di soldi che, in una puntuale, analitica interrogazione parlamentare al ministro dello Sviluppo economico e a quello dell’Ambiente, la radicale Elisabetta Zamparutti, unica curiosa tra le centinaia di colleghi silenti, stima in circa 230 miliardi di euro. Solo quest’anno, nel tempo feroce della spending review che taglia ospedali e trasporti, trasforma in invisibili gli operai, taglia commesse e finanziamenti e con loro cancella la vita precaria dei precari, si dovranno accantonare altri dieci miliardi di euro da investire nello sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, le cosiddette Fer. Dieci miliardi! Uno sforzo titanico a cui gli italiani sono chiamati a partecipare versando l’obolo in rate bimestrali attraverso un sovrappiù della bolletta elettrica. Si chiamano incentivi. Erano i famigerati certificati verdi sterilizzati da nuove norme, le cosiddette “aste”. E non ha importanza che la soglia di rinnovabile elettrica sia stata raggiunta impetuosamente con otto anni di anticipo.
ORIZZONTE D’ACCIAIO
Candela accoglie i viaggiatori nel grande piazzalediunastazionedirifornimentodicarburante. Il vento spazza l’asfalto. La sosta è obbligata per i bus che collegano l’est con l’ovest del Mezzogiorno. Arrivano le corriere da Napoli. Chi vuole andare a Foggia non conta infatti sul treno, sarebbe una via crucis. Perciò il bus. Il viaggiatore può attenderlo nel bar di antico sapore bulgaro. Una stradina lo costeggia e ci conduce verso Rocchetta Sant’Antonio, sulla linea di confine pugliese. Superata la prima curva, l’orizzonte si fa d’acciaio. Una foresta di tubi e di pale, l’una dietro l’altra a recinto dei crinali delle montagne. L’orizzonte è tagliato dalle eliche, sembra che la terra possa decollare e tutti noi puntare da un momento all’altro verso il paradiso. “I contadini hanno fittato agli imprenditori del vento e si sono rifugiati altrove – dice Enzo Cripezzi, presidente della Lipu Puglia e uno dei maggiori indagatori del fenomeno eolico – Hanno messo in tasca i pochi quattrini, una somma comunque incomparabile rispetto al reddito miserabile dell’agricoltura, e hanno scelto l’abbandono. Sono fuggiti col teso-retto, felici finalmente”. Verso Rocchetta troviamo a far compagnia alle torri una poiana, rapace autoctono, che tenta di fare spuntino con una lucertola e poi compare più in là un biancone. Sono uccelli migratori, profondi conoscitori delle correnti del vento.
Vivono grazie ai vortici depressionari che d’estate li conducono in Italia, in Spagna, nei territori caldi dell’Europa e l’inverno li riportano in Africa dove attendono il nuovo viaggio. Il biancone, della larga famiglia delle aquile, conosce così bene le correnti da superarle aggirando il Mediterraneo, prendendolo ai fianchi: costa ligure, costa azzurra, costa brava, stretto di Gibilterra, infine Marocco. Fanno fatica a superare l’acqua e questi uccelli migratori sono simili – in quanto a viaggi della speranza – agli uomini migranti. Gli umani muoiono sui barconi, gli animali in aria se il loro corpo non resiste alla fatica che la natura impone. Fino a ieri il pericolo era il canale di Sicilia, superato il quale veleggiavano verso la salvezza. Adesso no, le eliche li confondono e li annientano.I nibbi reali, le cicogne nere, specie protetta e rara, possono incappare nelle turbine, ferirsi e morire. Così i falchi, le poiane, e ogni uccello che tenti di attraversare l’Appennino. Effetti collaterali minori, si dirà. E qual è l’effetto visivo, l’impatto ambientale, la forza prepotente e magica di questi spuntoni di roccia che affiorano sui pendii descritti da Gabriele Salvatores nel film Io non ho paura? “La natura non aveva preventivato le pale eoliche – dice Cripezzi – Guardare oggi questo panorama e compararlo con quello di ieri fa venire un’enorme tristezza, un dolore profondo e rabbia”. La stradina si confonde al vecchio tratturo e punta su Monteverde. Il paese che guarda le pale. 850 abitanti, solo un anziano sulla panchina: “A me fanno venire le vertigini. Allora piglio una pasticca e tutto passa”.
DECIDONO LE REGIONI
Non si può dire no al petrolio e affossare l’eolico e il fotovoltaico, certo. Ma si poteva, anzi si doveva gestire il territorio, dividerlo per caratura paesaggistica,garantire alle pale un luogo e al paesaggio la sua identità. Scegliere dove metterle, e come. Preservare il possibile e il giusto. Invece? Invece la legge nazionale delega alle regioni. Lo sviluppo dell’energia è questione loro. E il paesaggio tutelato dalla Costituzione? Problema locale. Le Regioni anziché fare un piano regolatore dei venti e delle pale e promuovere partecipazioni pubbliche allo sviluppo dell’energia pulita, rendendo bene comune, esattamente come l’acqua, il vento e il sole, privatizzano progetti e attuatori. Tutto demandato agli uffici del Via, microscopici controllori della legalità e del paesaggio che col tempo fungono da predellino delle lobbies. “L’Europa ci vieta, per le norme sulla concorrenza, di prendere parte all’impresa”. Un leit motiv non soltanto falso, ma irriconoscente della realtà: non era vero, né poteva esserlo.
Ma era comodo dirlo. Pensate che la signora Renata Polverini, presidente della Regione Lazio, nel primo semestre di quest’anno ha prodotto circa 230 nomine tra consulenti e consiglieri di amministrazione nelle più diverse e bizzarre diversificazioni merceologiche dell’intervento pubblico. Manca solo l’azienda regionale per la promozione del cioccolato bianco. Tutto si può e tutto si fa, ma l’energia non è un bene pubblico, e lo sfruttamento delle risorse naturali non è questione collettiva. Ricordiamo le parole di sintesi – a proposito della discussione sulla misura degli incentivi da dare ai privati – di Gianfranco Micciché, viceministro al tempo del governo Berlusconi, noto a tutti per le sue battaglie ambientaliste: “Chi tocca il fotovoltaico si propone di far cadere il governo”. E così i raggi del sole si sono trasformati in infiltrazioni private sulla terra. Affari della Sanyo, come a Torre Santa Susanna, in provincia di Brindisi . Decine di ettari di terreno confiscati all’agricoltura sui quali sono stati riposti 33mila moduli solari per farne l’impianto tra i più grandi d’Europa. Finanziamento tedesco e tecnologia giapponese. “Vorrei esprimere le nostre sincere congratulazioni per il completamento di questo progetto e ringraziare Deutsche Bank per averci dato fiducia nella scelta dei nostri moduli solari”, commentò Misturu Homma, executive vicePresident di Sanyo. Giusto. Il sole è italiano, ma non conta, non vale. Non si vende. Si regala. Come pure i terreni. Pochi quattrini e affare fatto. Oggi il ministro dell’Agricoltura, l’unico sensibile al consumo del suolo, propone una moratoria uno stop al consumo del suolo. Il governo ha appena licenziato il disegno di legge. Catania non è stato certo aiutato dal collega dell’Ambiente, il prode Clini. Clini non sa o non ricorda che in Italia esistono circa 13 milioni di abitazioni costruite dopo il 1970, quindi senza particolare tutele. Sui tetti i pannelli e gli ulivi per terra: era più naturale e forse possibile? Possibile senz’altro ma troppo dispendioso per i privati: molto più facile tombare di silicio centinaia di ettari di terreno. Molto più veloce e produttivo.
Sono stati cementificati 750mila ettari di territorio solo nell’ultimo decennio. Una parte poteva essere destinata ad ospitare i pannelli? Macché, troppo complicato. Via col vento e col sole dunque. E via con le imprese.
Il Mezzogiorno è stato spartito in spicchi d’influenza.Ad alcune aziende monopoliste sono stati affidati i lucchetti: la Fortore Energia ha cinto la Puglia, l’Ipvc la Campania, Moncada la Sicilia. In Calabria molte srl, alcune delle quali facenti capo indirettamente alle famiglie più importanti della ‘ndrangheta. La Piana lametina e il Crotonese sono stati assoggettati all’illegalità più clamorosa, plateale. Non c’è pala messa che non sia stata accompagnata da un’inchiesta giudiziaria. Truffa, corruzione, falso. Il trittico dei reati tipici, la serializzazione dell’attività giudiziaria. Energia pulita per mani sporche. Non tutte sporche, naturalmente. E non tutti imprenditori affaristi, naturalmente. Ma di certo tutti hanno goduto di una deregulation mai vista, incredibile solo a pensarci.
Edison, Sorgenia, Green Power, Sanyo e poi olandesi, spagnoli, cinesi. Tutti nel business. Solo privati però, sempre privati. Lo Stato non ha partecipato in nessuna forma, e gli enti locali neanche per sogno hanno accompagnato lo sviluppo eolico con una loro presenza, magari anche minoritaria, nelle società di produzione. In Puglia la fabbrica ideologica di Nichi Vendola, secondo cui l’energia, per il solo fatto di essere rinnovabile e pulita fosse obbligatoriamente da catalogarsi a sinistra, ha permesso a essa di straripare. A nord della regione le pale, a sud i pannelli. Nichi ha chiuso la stalla quando i buoi erano già tutti scappati. La Campania è stata comprata come detto dal signor Vigorito, capo dell’Ipvc, pioniere del vento. Acclamato presidente dell’Anev, l’associazione degli industriali del vento. Associazione “ambientalista” secondo i protocolli in uso per i tavoli del ministero dell’Ambiente. Una benemerita. Nel 2005 Legambiente e Anev hanno sottoscritto un protocollo d’intesa con lo scopo di promuovere l’eolico in Italia. “Insieme organizzano e collaborano”, scrive il sito ufficiale degli imprenditori. Purtroppo nel 2009 il presidente dell’Anev, questa titolata associazione ambientalista, viene arrestato. La Guardia di Finanza sequestra sette “parchi” eolici in diverse regioni e accusa Vigorito…
Era ieri. Torniamo all’oggi. Al 2011 sono state installate 5500 torri eoliche per quasi settemila megawatt di potenza installata. Altrettante sono in arrivo. Tutte concesse a tempo di record. E chi vorrà dedicarsi alla coltivazione del mini eolico (torri alte anche cento metri fino a 1 megawatt) non dovrà neanche attendere la firma: basta la dichiarazione di inizio attività.Sarà zeppo di acciaio anche ciò che ora è libero da impianti. Anche le vostre montagne e i vostri occhi dovranno abituarsi. Serve energia pulita. E che nessuno fiati.
Il disegno di legge sullo «Stop al consumo del territorio» che il ministro per le politiche agricole Mario Catania ha portato all'approvazione del Consiglio dei ministri è un provvedimento di straordinaria importanza che segnerà il dibattito sulle città nei prossimi decenni. Non è azzardato affermare che il ministro ha segnato una data storica e gliene va dato merito. Nel periodo del secondo governo Prodi (2006-2008) la sinistra (Rifondazione e Verdi) avevano tentato di far approvare un provvedimento simile, ma il predominio culturale del Pd lo impedì. Erano i tempi del "modello Roma", e cioè della convinzione che sul mattone e sul cemento si potesse basare il futuro di un paese. Bastava guardare la realtà dei fatti, e cioè alla grande quantità di alloggi invenduti o di uffici vuoti che già allora caratterizzavano le nostre città. Oppure essere meno provinciali e guardare ad esempio alla Germania che da tempo aveva approvato una legge che poneva progressivamente fine all'espansione urbana. Ma i meriti del governo dei banchieri finiscono qui. Il cipiglio decisionista sfoderato attraverso la decretazione d'urgenza quando c'è stato da colpire i diritti dei lavoratori, quando c'è stato da rinviare di anni l'età pensionabile o quando c'è stato da aumentare oltre misura il carico fiscale, ha sobriamente lasciato il posto a un disegno di legge. Ora non ci vuole l'intelligenza dei professori per comprendere che non se ne farà nulla.
La decretazione d'urgenza era invece indispensabile per lo stato delle nostre città. Agli inizi di quest'anno il supplemento settimanale del Sol e 24 Ore dedicava un preoccupato articolo a una ricerca svolta dall'università di Milano da cui emergeva che se tutte le previsioni edificatorie conquistate con tutte le deroghe imposte dall'economia liberista si concretizzassero, città come Brescia o Bergamo avrebbero al 2020 una quantità di case invendute pari alla popolazione residente. Città fantasma che nessuno abiterà mai! Rispetto a questi segnali altro che disegno di legge: ci voleva il coraggio di concludere una fase speculativa che dura da venti anni. Ma qui arriva la vera natura del governo Monti che non è certo rappresentata dal ministro Catania quanto dall'affiatato tandem Passera-Ciaccia. Coppia inseparabile dai tempi della Banca Intesa che sul mattone qualche cosa conosce. Soprattutto conoscono che molti istituti di credito sono esposti per cifre importanti in folli proposte urbanistiche che sarebbero saltate se si fosse percorsa la strada della decretazione d'urgenza. Alcuni esempi: i 30 milioni di metri cubi decisi prima di Pisapia a Milano o i quaranta milioni che devono ancora essere costruiti a Roma grazie al piano regolatore di Veltroni. O, ancora, le cinque ignobili città "tematiche" decise dalla Regione Veneto che cancelleranno centinaia di ettari di territorio agricolo. Dietro a queste speculazioni ci sono gli istituti bancari e Passera-Ciaccia sono lì per vigilare. Del provvedimento sul consumo di suolo se ne parlerà negli anni prossimi. Fin d'ora, però, è indispensabile che la sinistra elaborasse una sua proposta per il recupero e la riqualificazione delle periferie. L'associazione dei costruttori ha da tempo calato le carte: libertà di demolire e ricostruire senza limiti di aumento delle volumetrie: deve decidere solo la convenienza economica. Il primo tentativo in atto è quello in corso a Roma guidato da Abete per trasformare Cinecittà da luogo di produzione a luogo di speculazione edilizia. Chi è convinto che bisogna costruire l'alternativa alla nefasta fase dell'economia liberista deve urgentemente manifestare un differente progetto.
Sull'argomento vedi anche qui e la relativa postilla
INVANO abbiamo atteso che il presidente Monti o il ministro Passera convocassero nella giornata di ieri i responsabili della Fiat, in seguito alla disdetta unilaterale del piano di investimenti Fabbrica Italia.
Sono intervenuti Diego Della Valle e Cesare Romiti per censurare l’addio annunciato di Marchionne, ma il governo no: forse aspetta, per darsi una mossa, che anche la disperazione degli operai di Mirafiori, Melfi, Cassino, Pomigliano degeneri nelle forme estreme ormai tristemente consuete? Non sono bastate le lezioni dell’Ilva e dell’Alcoa? Capisco che sia difficile per la classe politica riconoscere di essere stata presa in giro dalla multinazionale che nella primavera 2010, già in piena crisi di sovrapproduzione, vaneggiava di un raddoppio delle automobili da fabbricare in Italia, con investimenti (mai pianificati) per la stratosferica cifra di 20 miliardi. Una promessa, mai formulata per iscritto, in cambio della quale Marchionne ha preteso e ottenuto la deroga contrattuale dalle normative vigenti; imponendo sacrifici ai lavoratori dopo aver estromesso dagli stabilimenti il sindacato più rappresentativo.
Se il precedente governo di destra assecondava per convenienza politica la prova di forza della Fiat, e gli stessi dirigenti del Partito Democratico hanno rivelato sudditanza psicologica nei confronti della presunta “modernità” di Marchionne, l’attuale premier e i suoi ministri tecnici appaiono invece prigionieri di una sorta di integralismo accademico: le aziende devono essere lasciate libere di seguire il loro mercato; investano dove meglio credono; e il governo resti un passo indietro.
Bel risultato. La rinuncia a pretendere una politica industriale concordata si è sposata così all’applicazione ideologica della dottrina secondo cui i posti di lavoro si salvano concedendo maggiore flessibilità all’azienda. È falsa l’equazione “meno diritti uguale più lavoro”, come la storia si è già incaricata di dimostrare, non solo in Italia. Ma proprio lo stesso giorno in cui la Fiat preannunciava la cancellazione degli investimenti promessi, Monti ribadiva questa sua antica certezza: indicando lo Statuto dei Lavoratori, peraltro già modificato per facilitare i licenziamenti, come ostacolo alla crescita dell’occupazione.
Quali interessi tutela il governo: l’economia nazionale o il piano della multinazionale? Cosa ha fatto per armonizzarli o quanto meno per condizionarli? Si è forse udita la voce del sindaco di Torino e del suo predecessore Chiamparino divenuto nel frattempo presidente di una grande fondazione bancaria legata al territorio? Renzi, candidato alle primarie, correggerà il suo appoggio incondizionato a Marchionne? E Bersani saprà offrire risposte credibili all’ansia delle famiglie e delle comunità minacciate nel loro futuro? Qui non si tratta di negare la realtà del drastico calo delle vendite di automobili in Europa; semmai il vertice Fiat dovrebbe spiegare perché nel trend negativo continua a fare peggio dei concorrenti. La sua espansione mondiale in mercati dinamici come gli Usa e il Brasile, grazie a cui gode di un florido bilancio per la gioia degli azionisti, è un fattore positivo imprescindibile che giocoforza modifica la strategia aziendale. Ammettiamo pure che l’amministratore delegato della multinazionale debba privilegiarne gli interessi globali, anche a discapito
della nazione da cui la Fiat ha estratto la sua linfa vitale: se la Fiat fosse rimasta italiana, probabilmente sarebbe morta.
Ma quel che vale per il manager necessariamente “apolide” non vale per il nucleo di controllo dei suoi azionisti. La famiglia Agnelli-Elkann che oggi beneficia di una invidiabile patrimonializzazione miliardaria grazie all’innesto americano, non può d’un colpo prescindere dal suo legame storico con la realtà italiana.
Faceva effetto trovare nei giorni scorsi sulla copertina di
Panorama ilvolto sorridente del presidente della Fiat, John Elkann, che annunciava un’iniziativa filantropica a favore di 200 (duecento) studenti meritevoli di Torino, cui sarà fornito un prestito d’onore per la somma totale di 2 (due) milioni di euro. Spiacevole coincidenza, mi auguro involontaria, questa mancetta; a fronte della disdetta del piano d’investimenti che si tradurrà, ormai pare inevitabile, nella distruzione di un patrimonio tecnologico e occupazionale d’inestimabile valore.
Nel capitalismo anglosassone spesso evocato come esempio da seguire, gli azionisti beneficiati da grandi profitti adoperano la parola “restituzione” per indicare le modalità attraverso cui intendono onorare il debito morale contratto con la società in cui si sono arricchiti. Avvertono uno stimolo del genere gli azionisti Fiat nei confronti dell’Italia, di cui sono stati per oltre un secolo classe dirigente? E il governo che pare come ammutolito di fronte alla disperazione sociale, Passera che da banchiere contribuì a salvare la Fiat e ora traccheggia al cospetto della realtà del lavoro penalizzato, vorrà finalmente cimentarsi nell’apprendistato della politica? Chi inchioderà la Fiat alle sue responsabilità storiche, scoprendo che un governo dispone di leve efficaci se vuole farsi dare retta dai capitalisti?
La fuga della Fiat ferisce non solo le famiglie dei suoi dipendenti ma l’intera comunità nazionale; rivelandosi questione politica per eccellenza, se solo la si volesse affrontare.
La Repubblica
Lo storico stop al cemento selvaggio: “Così salveremo l’Italia che vale”
di Antonio Cianciullo,
ROMA— Il governo sposa la difesa del paesaggio. Il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge che pone un limite all’avanzata del cemento e protegge l’agricoltura come elemento della cornice ambientale che si è formata nei secoli diventando parte essenziale dell’appeal italiano.«Forse questa misura andava inserita nel primo provvedimento, il decreto Salva Italia, perché ha molto a che vedere con la salvezza dell’Italia concreta», ha commentato il presidente del Consiglio Mario Monti, con una punta di rimpianto per il tempo che stringe e rende difficile la trasformazione del ddl in legge entro la legislatura.
Il segnale politico in ogni caso è chiaro e i numeri pure. In 40 anni il terreno agricolo ha subito una drastica dieta dimagrante: ha perso 5 milioni di ettari, l’equivalente alla somma di Lombardia, Emilia Romagna e Liguria. Oltre il 70 per cento di questa superficie è stato abbandonato e, salvo i casi delle colture di pregio, il bilancio non è necessariamente negativo perché spesso il bosco ha riguadagnato terreno.
Ma a creare allarme è la quota rimanente: parliamo di un milione e mezzo di ettari (un’area grande quanto la Calabria) che, dagli anni Cinquanta ad oggi, sono stati sepolti da villette, capannoni, strade, svincoli, tralicci, discariche. In questo modo si è prodotta una catena di danni: il ciclo idrico è stato alterato rendendo meno governabili i fiumi: terreni già franosi sono stati resi ancora più instabili; il paesaggio è stato sfregiato; la macchina turistica indebolita; la possibilità di catturare anidride carbonica menomata.
Tutti i rapporti confermano l’allarme. L’Istat quest’anno segnalache le superfici edificate coprono il 6,7 per cento del territorio nazionale (in pianura padana si arriva al 16,4 per cento). E il ritmo sta accelerando: ogni giorno, aggiunge l’Ispra, vengono impermeabilizzati 100 ettari di terreni naturali, 10 metri quadrati al secondo.Come fermare questa valanga di asfalto e cemento? Il disegno di legge proposto dal ministero dellePolitiche agricole propone di eliminare le cause che hanno facilitato l’aggressione. La prima è la molla economica. Finora più i Comuni massacravano il loro territorio scambiando aree verdi con periferie disordinate più venivano premiati grazie agli oneri di urbanizzazione che riempivano le loro casse: il ddl sancisce l’eliminazione della possibilità di utilizzare impropriamente questifondi per la copertura delle spese correnti del Municipio.
Inoltre l’articolo 4 del provvedimento prevede che si dia priorità, per la concessione di finanziamenti, al «recupero dei nuclei abitati rurali mediante manutenzione, ristrutturazione, restauro, risanamento conservativo di edifici esistenti e alla conservazione ambientale del territorio ». E l’articolo 3 blocca per 5 anni il cambio di destinazione d’uso per i terreni agricoli che hanno ricevuto aiuto di Stato o comunitari.«È un provvedimento che mira a garantire l’equilibrio tra i terreni agricoli e le zone edificate o edificabili, ponendo un limite massimo al consumo di suolo e stimolando il riutilizzo delle zone già urbanizzate», ha sintetizzato Monti.
Corriere della Sera
Se l'agricoltura perde 100 ettari al giorno
di Lorenzo Salvia
Un'Italia troppo costruita. E il governo dei tecnici sceglie di dire basta. «Negli ultimi 40 anni è stata cementificata un'area pari a Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna» è l'allarme lanciato dal premier Monti. Così il Consiglio dei ministri ha varato un disegno di legge per porre un tetto alla cementificazione. Secondo l'Ispra (Istituto superiore per la ricerca ambientale) ogni giorno sono strappati alla natura 100 ettari.
Forse immaginando le possibili resistenze, il ministro delle Politiche agricole Mario Catania lo dice senza aspettare la domanda: «Non è un provvedimento contro l'edilizia». E il premier Mario Monti lo difende fin da adesso, dicendo che «forse andava inserito del decreto salva Italia» visto che «negli ultimi 40 anni è stata cementificata un'area pari alla grandezza di Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna». Le norme per la «valorizzazione delle aree agricole e il contenimento del consumo di suolo» sono state approvate dal Consiglio dei ministri seguendo il percorso normale, quello del disegno di legge.
Niente decreto legge, subito in vigore, come pure si era pensato visto il poco tempo che resta prima della fine della legislatura. Con il risultato che l'approvazione finale sarà possibile, riconosce lo stesso Catania, «solo con l'esame in sede deliberante» cioè direttamente in commissione e senza passare dall'Aula. Un'ipotesi tutt'altro che scontata. Ma al di là dei tempi le norme sono importanti, anche coraggiose. Per la prima volta viene fissato un limite di legge alla cementificazione. Seguendo il modello della Germania, ogni dieci anni un decreto fisserà «l'estensione massima di superficie agricola edificabile nazionale», cioè la quantità di terreno coltivabile che può essere cementificata. Viene poi introdotto il divieto di mutamento di destinazione: i campi per i quali sono stati concessi aiuti di Stato o europei non possono essere usati in modo diverso per cinque anni. Un passaggio ammorbidito rispetto alla formulazione originaria. Non solo perché gli anni di divieto erano dieci ma perché nella prima versione non erano permesse nemmeno le attività parallele, come la produzione e la vendita dei prodotti agricoli, adesso consentite.
Il terzo punto è il più tecnico ma anche il più importante. Viene cancellata la possibilità di utilizzare i cosiddetti oneri di urbanizzazione per le spese correnti degli enti locali. Cosa vuol dire? Fino a qualche anno fa, quando un Comune rilasciava un'autorizzazione a costruire, l'impresa edile doveva pagare una somma che il Comune poteva usare solo per portare in quella zona i servizi, come la luce o i trasporti. Nel 2007 la norma è stata cambiata, consentendo ai sindaci di usare quei soldi anche per le spese correnti. Così, volontariamente oppure no, è stato costruito un formidabile incentivo al rilascio delle licenze edilizie, e gli oneri sono diventati un modo per fare cassa o almeno per rispondere ai tagli dei trasferimenti dallo Stato. Il disegno di legge del governo torna all'antico: quei soldi vanno usati solo e soltanto per portare i servizi nei nuovi quartieri.
L'Anci — l'associazione dei Comuni — condivide l'obbiettivo ma si lamenta del metodo: «Siamo stanchi — dice Alessandro Cosimi, sindaco di Livorno — di leggere proposte che riguardano i nostri bilanci senza essere consultati».«Siamo d'accordo sull'obiettivo ma — dice Antonio Saitta, vice presidente dell'Unione delle province — anche dopo laspending reviewla competenza sulla pianificazione territoriale resta a noi. Siamo forse all'abrogazione di fatto?». Per il resto i commenti sono tutti positivi. Il Fai, il Fondo per l'ambiente italiano, e il Wwf parlano di «coraggio e lungimiranza politica». In attesa dell'esame in Parlamento, naturalmente. E delle poche settimane che rimangono per trasformare queste proposte in legge.
E per tagliare i debiti i Comuni vendono le terre e moltiplicano i permessi
ROMA — «Comprate terreno perché non ne fabbricano più», diceva Mark Twain. Ed è proprio così che è andata, in Italia più che nel resto del mondo. Terreni abbandonati perché l'agricoltura dà da mangiare agli altri ma non a chi la fa. E campi invasi dalle ruspe anche se proprio lì a fianco ci sarebbe un capannone che sta cadendo a pezzi e si potrebbe recuperare. Per capire cosa vuol dire, più che guardare la storia conviene usare il cronometro. In un secondo vengono cementificati 10 metri quadri di quello che ci ostiniamo a chiamare il Bel Paese. Lo dice l'Ispra, l'Istituto superiore per la ricerca ambientale che in un solo giorno calcola 100 ettari strappati alla natura. Più di 100 campi da calcio. Come è stato possibile?
Certo, abbiamo attraversato «un'epoca di bassa marea morale», come diceva Italo Calvino in uno dei suoi libri più amari, «La speculazione edilizia». Ma ci siamo inventati anche qualche meccanismo per aiutare chi non aveva bisogno di aiuto. Non solo i condoni, l'eterna tentazione della politica italiana da Franco Nicolazzi in poi. Ma anche la possibilità di utilizzare i cosiddetti oneri di urbanizzazione, una specie di tassa sui costruttori, non solo per portare i servizi nei nuovi quartieri ma anche per le spese correnti dei Comuni. Così le nuove autorizzazioni sono diventate una tentazione forte per i sindaci, che in cassa hanno sempre meno soldi. Tra il 1995 e il 2009 i Comuni italiani hanno rilasciato permessi per costruire 3,8 miliardi di metri cubi. E più dell'80% delle autorizzazioni riguardava proprio nuovi edifici. È anche così che dal 1971 ad oggi ci siamo mangiati più di un quarto del nostro terreno agricolo, quella superficie grande come Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna di cui ha parlato lo stesso Mario Monti.
E non è solo un problema di tutela del paesaggio, di lotta alla speculazione o di modello di sviluppo. Ma anche di sopravvivenza. Suona strano nell'epoca dell'abbondanza e invece è proprio così. Sul nostro territorio riusciamo a produrre solo l'80% del cibo necessario per chi vive nel nostro Paese. Un italiano su cinque vive di import, anche a tavola. E non pensate al sushi o al caviale. Non siamo autosufficienti per i cereali, per il latte, per la carne, nemmeno per l'olio d'oliva che pure ci rende famosi nel mondo. E la cementificazione certo non aiuta. Tanto più che il progresso tecnologico è ormai arrivato al limite e non permette più di migliorare le rese. Per coprire tutti i consumi della nostra popolazione, a tecnologie costanti, ci servirebbero altri 49 milioni di ettari di terreno, rispetto ai miseri 12 che ci sono rimasti.
Per «deficit di suolo agricolo», l'hanno chiamato proprio così, siamo il terzo Paese d'Europa dopo la Germania e il Regno Unito. Ma non è solo un problema di cemento. «Il 70% del terreno agricolo che perdiamo ogni anno viene semplicemente abbandonato e poi coperto dal bosco», dice Mauro Agnoletti, professore di Pianificazione del paesaggio all'Università di Firenze. Fino a poco tempo fa, per legge, la campagna abbandonata e invasa dagli alberi non poteva tornare campagna, perché i boschi sono tutelati sempre e comunque. «Un'assurdità», dice il professore, che è stata eliminata con la legge sulle semplificazioni. «Non dimentichiamo che in Italia il paesaggio è quello creato dall'uomo. Da Goethe e Montesquieu, tutti i grandi intellettuali hanno parlato dell'Italia come giardino d'Europa. E il giardino è bello quando si cura, non quando viene abbandonato». Non solo se arriva il cemento.
Fermare la Cementificazione dei Suoli primo Passo con la «Legge Catania»
di Fulco Pratesi
Riuscirà il disegno di legge Catania a fermare l'«incendio grigio» che produce danni irreversibili e perpetui al nostro territorio ben diversamente da quello «rosso» dei fuochi che hanno infuriato quest'estate? Forse no. È comunque un primo lodevole passo, commentano Fai e Wwf, le due associazioni che avevano consegnato al ministro delle Politiche agricole a febbraio il dossierTerra rubata, un documento contro l'alluvione di cemento e asfalto che divora ogni giorno 75 ettari di terra coltivabile e di ambienti naturali, imbrattando con costruzioni, spesso abusive, i paesaggi più belli.
Ma a questo primo passo — che prevede innanzitutto la fissazione di un tetto all'estensione massima di superficie agricola edificabile, poi l'esclusione dell'utilizzo da parte dei Comuni degli oneri di urbanizzazione per le spese correnti, e infine il vincolo decennale di destinazione d'uso per i terreni agricoli fruitori di contributi statali e comunitari — dovranno seguirne altri che investano la generalità del nostro territorio.
Innanzitutto, chiedono il Fai e il Wwf, sarebbe importante un accordo tra i vari ministeri che riesca ad armonizzare l'esigenza della tutela dei suoli agricoli — prevista dal decreto del Consiglio dei ministri — con quelle della pianificazione paesaggistica come disegnata dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio del 2004. Un coordinamento che servirebbe anche a garantire l'equilibrata difesa dell'ambiente e della natura.
Ancora, l'introduzione di adeguati strumenti fiscali per disincentivare il consumo di suolo e favorire il riuso di terreni e volumi già edificati e non utilizzati, come prevede il progetto «RiutilizziAMO l'Italia» del Wwf, teso alla riduzione della forbice ancora troppo alta nel nostro Paese tra la rendita fondiaria e i costi della produzione edilizia.In conclusione, è forse possibile sperare che siano poste le basi per una politica che dia direttive per un razionale sviluppo che non pregiudichi il futuro della sua agricoltura e dei suoi paesaggi, non solo rurali, in favore del quali Giulia Maria Crespi, storico presidente onorario del Fai, si batte da sempre.
Consumo del suolo, Catania: con ddl approvato in CdM
vogliamo cambiare modello di sviluppo del Paese
(comunicato stampa del Ministero delle politiche agricole14/09/2012)
"Grazie alle misure contenute nel disegno di legge contro il consumo del suolo, approvato oggi dal Consiglio dei Ministri, facciamo un decisivo passo in avanti per raggiungere l'obiettivo di limitare la cementificazione sui terreni agricoli, in modo da porre fine a un trend pericoloso per il Paese. Questo provvedimento tocca temi molto sensibili, come l'uso del territorio e la sua corretta gestione, ma coinvolge anche la vita delle imprese agricole e l'aspetto paesaggistico dell'Italia. Riguarda il modello di sviluppo che vogliamo proporre e immaginare per questo Paese, anche negli anni a venire".
Lo ha detto ilMinistro delle politiche agricole alimentari e forestali, Mario Catania, intervenendo nel corso della conferenza stampa che si è tenuta a Palazzo Chigi - alla presenza del presidente Mario Monti - al termine del Consiglio dei Ministri, durante il quale è stato approvato il disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo."Abbiamo introdotto - ha spiegato Catania - un sistema che sostanzialmente prevede di determinare l'estensione massima di superficie agricole edificabile sul territorio nazionale. Questa quota, quindi, viene ripartita tra le Regioni le quali, a caduta, la distribuiscono ai Comuni. In questo modo otterremo un sistema che vincola l'ammontare massimo di terreno agricolo cementificabile distribuendolo armonicamente su tutto il territorio nazionale".
"Vogliamo - ha aggiunto Catania - interdire i cambiamenti di destinazione d'uso dei terreni che hanno ricevuto i fondi dall'Unione Europea, infatti abbiamo previsto che queste superfici restino vincolate per 5 anni. Inoltre, il provvedimento interviene sul sistema degli oneri di urbanizzazione dei Comuni. Nella normativa attualmente in vigore è previsto che le amministrazioni possono destinare parte dei contributi di costruzione alla copertura delle spese comunali correnti, distogliendoli dalla loro naturale finalità, cioè il finanziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Questo fa sì che si crei una tendenza naturale delle amministrazioni e dei privati a dare il via libera per cementificare nuove aree agricole anche quando è possibile utilizzare strutture già esistenti. Le nuove norme avranno sicuramente un impatto su questo fenomeno".Di seguito, in sintesi, i punti principali del provvedimento:
1. Vengono definiti "terreni agricoli" tutti quelli che, sulla base degli strumenti urbanistici in vigore, hanno destinazione agricola, indipendentemente dal fatto che vengano utilizzati a questo scopo;
2. Si introduce un meccanismo di identificazione, a livello nazionale, dell'estensione massima di terreni agricoli edificabili (ossia di quei terreni la cui destinazione d'uso può essere modificata dagli strumenti urbanistici). Lo scopo è quello di garantire uno sviluppo equilibrato dell'assetto territoriale e una ripartizione calibrata tra zona suscettibili di utilizzazione agricola e zone edificate/edificabili;
3. Si introduce il divieto di cambiare la destinazione d'uso dei terreni agricoli che hanno usufruito di aiuto di Stato o di aiuti comunitari. Nell'ottica di disincentivare il dissennato consumo di suolo la misura evita che i terreni che hanno usufruito di misure a sostegno dell'attività agricola subiscano un mutamento di destinazione e siano investiti dal processo di urbanizzazione;
4. Viene incentivato il recupero del patrimonio edilizio rurale per favorire l'attività di manutenzione, ristrutturazione e restauro degli edifici esistenti, anziché l'attività di edificazione e costruzione di nuove linee urbane.
5. Si istituisce un registro presso il Ministero delle politiche agricole in cui i Comuni interessati, i cui strumenti urbanistici non prevedono l'aumento di aree edificabili o un aumento inferiore al limite fissato, possono chiedere di essere inseriti.
6. Si abroga la norma che consente che i contributi di costruzione siano parzialmente distolti dalla loro naturale finalità - consistente nel concorrere alle spese per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria - e siano destinati alla copertura delle spese correnti da parte dell'Ente locale.
Nel presentare l’anticipazione del provvedimento legislativo offerta su La Repubblica da uno dei suoi promotori, Carlo Petrini, esprimevamo, il 25 luglio scorso, questo sintetico commento: "ottime intenzioni e proposte finalmente nella direzione giusta, ma per contrastare con efficacia il dominio degli affari nell'uso del territorio occorrono strumenti più solidi. Non possiamo che confermarlo oggi, che il provvedimento è approdato al Consiglio dei ministri. E’ certamente positiva e coraggiosa la decisione di cancellare l’infame modifica apportata da Bassanini e Lunardi alle legge Bucalossi e di ripristinare la destinazione originaria degli oneri di concessione (strumento per la trasformazione degli standard urbanistici in aree edifici e servizi pubblici. Ma sono deboli, contraddittori, inefficaci ed elusive altre parti del provvedimento. Esprimeremo il nostro parere quando avremo esaminato con la necessaria attenzione il testo, ripartendo dalle proposte che abbiamo a suo tempo avanzate (ai tempi del governo Prodi) e che giacciono tra gli atti ufficiali del Parlamento, lì presentate dai gruppi della sinistra oggi assenti dalle sedi legislative (vedi tra le proposte raccolte nella cartella di eddyburg, in particolare quelle presentate dagli on.li Sodano e altri e Migliore e altri.
Le ragioni per le quali la cosiddetta Torre Cardin è un’offesa alle regole di una trasformazione corretta, culturalmente rispettosa e socialmente utile del territorio della laguna sono state espresse con grande chiarezza da numerosi osservatori. Voglio segnalare soprattutto l’articolo di Vittorio Gregotti sulla “Nuova” (6 settembre) e quelli di Paola Somma (25 luglio) e di Sergio Pascolo su “eddyburg.it” (29 agosto). Nulla voglio aggiungere al merito di quelle critiche, ma non posso mancare di esprimere due brevissime riflessioni.
1) Possibile che i massimi esponenti del potere democratico locale e nazionale abbiano rivelato, con i commenti e le decisioni, una visione così meschina e incolta della città e del suo governo? Le dichiarazioni e gli interventi del sindaco di Venezia e del presidente della Repubblica dimostrano un totale disprezzo delle regole sulle quali la convivenza tra interessi diversi si fonda.
2) Sia Gregotti che Somma colgono il carattere sistemico del degrado di cui la torre del “couturier” francese costituisce (insieme all’impero Benetton e ai grattacieli del mare) l’episodio più vistoso. Ma dove affonda le sue radici politiche e culturali il degrado che la torre Lumière riassume e illumina? È chiaramente in quella politica di abolizione dei “lacci e lacciuoli” della pianificazione urbanistica che fu avviata con la giunta Cacciari-D’Agostino e sistematicamente proseguita da quelle successive, in un clima sempre più bipartisan. Venezia è sempre stata una città di mercanti. Ma una volta essi, arricchendosi, rendevano la loro Repubblica più solida, bella e ricca, oggi la distruggono.
* Urbanista
«Blocchiamo l'ultimo assalto al territorio della Campania. Salviamo la Costiera Sorrentino-Amalfitana». Urbanisti, storici dell'arte, agronomi ed ambientalisti lanciano un appello a Napolitano, a Monti ed al ministro dei Beni Culturali, Ornaghi, affinché scongiurino l'approvazione del disegno di legge «Norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio in Campania», che sarà discusso il 18 settembre in consiglio regionale. Firme note e prestigiose, quelle dei sottoscrittori. Eccone alcuni: lo storico della letteratura Alberto Asor Rosa; gli urbanisti Vezio De Lucia, Sauro Turroni, Paolo Berdini, Pierluigi Cervellati; l'archeologo Salvatore Settis, per 11 anni direttore della Scuola Normale di Pisa; lo storico Piero Bevilacqua; la fondatrice di Italia Nostra Desideria Pasolini dall'Onda. Ci sono il Wwf, Legambiente, Italia Nostra. Ancora, aderiscono Rita Paris, direttrice del Museo Archeologico Nazionale di Palazzo Massimo; lo storico dell'arte Andrea Emiliani; Gino Famiglietti, direttore regionale del ministero per i Beni Ambientali e Culturali; Carlo Iannello, presidente della commissione urbanistica del consiglio comunale di Napoli; l'agronomo Antonio di Gennaro.
Una chiamata agli scudi che coincide, tra l'altro, con l'appello lanciato dal presidente del consiglio Monti, durante la presentazione, insieme al ministro delle Politiche agricole Mario Catania, del «ddl quadro» in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo. «Negli ultimi 40 anni —ha detto il premier — è stata cementificata un'area pari all'estensione di Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna. Un fenomeno di proporzioni sempre più preoccupanti, che ha provocato molteplici effetti negativi: sul paesaggio, sulla produzione agricola, sull'assetto idrogeologico». Ma torniamo all'appello contro il provvedimento varato dalla giunta Caldoro su proposta dell'assessore Taglialatela. Secondo i promotori della sottoscrizione, «ha contenuti chiaramente eversivi». Sono 15 articoli in tutto; quello maggiormente incriminato è l'ultimo: «Abrogazioni e modifiche legislative». Cassa o modifica norme preesistenti. «In particolare — denuncia Vezio De Lucia — sottrae alla regolamentazione del Put, il piano urbanistico territoriale della penisola sorrentino amalfitana, la fascia pedemontana della costiera». Cosa questo significhi, quali conseguenze determinerà sul paesaggio. Lo spiega l'agronomo di Gennaro. Premette: «Parliamo di vari Comuni, tra i quali Santa Maria la Carità, le due Nocera, Angri, Cava dei Tirreni.
Siamo nei primi versanti dei Monti Lattari, in un territorio cerniera la cui tutela è essenziale anche ai fini della conservazione della fascia considerata più pregiata, da Vico Equense ad Amalfi. Non a caso furono inseriti nel Put, quanto il consiglio regionale approvò quella legge, nel 1987». Prosegue: «Scorporando quei territori dal Put, se ne affida la pianificazione ai singoli Comuni. In tal modo, in assenza del Piano paesaggistico previsto dal codice dei beni culturali e del paesaggio, nei territori in questione acquisterà direttamente efficacia il nefasto regime derogatorio del piano casa della Campania». Dunque, secondo i sottoscrittori dell'appello, il provvedimento varato dalla giunta, se sarà approvato in consiglio la prossima settimana, aprirà le porte al cemento fin sui crinali dei Lattari, la catena montuosa che corona la penisola sorrentino-amalfitana. «Una zona tra l'altro — sottolinea di Gennaro — ad elevato rischio idrogeologico». A rischio, secondo l'urbanista, Giuseppe Guida, anche alcune aree della costiera propriamente detta, da Vico Equense fin oltre Amalfi. Dice, infatti: «Si stralcia dal piano urbanistico la zona 7 di tali Comuni».
L'estrapolazione dalla tutela del Put di ampie fasce di territorio che finora ricadono in esso, peraltro, non è l'unico punto critico che Settis, De Lucia, Asor Rosa e gli altri promotori dell'appello individuano nel testo. Suscita enormi preoccupazioni, infatti, sempre all'articolo 15, la modifica di alcune previsioni normative introdotte con la legge regionale numero 21 del 10 dicembre 2003, istitutiva del piano strategico del rischio Vesuvio. Il provvedimento della giunta Caldoro restringe infatti i divieti. Non si proibisce più tout court ogni incremento dell'edificazione, ma ci si limita a vietare la «nuova edificazione». Insomma, via libera agli ampliamenti di quello che c'è già, anche grazie al piano casa ed in assoluta contro-tendenza col proposito di decongestionare la zona rossa. Altro articolo controverso il numero 7, che introduce le compensazioni ambientali. «In sostanza — dice l'ex presidente del parco delle colline metropolitane, Agostino Di Lorenzo — chi ha costruito abusivamente evita di abbattere piantando un po' di verde in un'altra zona. Si distorce uno strumento applicato con bel altro rigore in altri paesi e si garantisce l'impunità a chi abbia costruito al di fuori delle norme». Ce n'è quanto basta,insomma, per mettere in allarme chi ha a cuore il paesaggio ed il territorio.