. Articoli di Serena Lullia e commenti di Stefano Deliperi, Sandro Roggio e Giorgio Todde, La Nuova Sardegna, 20 – 25 novembre 2012
20 novembre 202
Un master plan da 400mila metri cubi
A Doha il vertice con Monti, Cappellacci e i sindaci di Olbia e Arzachena. L’emiro garantisce il rispetto dell’ambiente
di Serena Lullia
DOHA. La nuova Costa Smeralda nasce fra le stanze dorate del palazzo dell'emiro Al Thani, nel cuore della capitale del Qatar. Lo skyline del borgo di Porto Cervo in versione qatarina scorre davanti agli occhi della delegazione italo-sarda in missione a Doha, con il premier Mario Monti, il governatore Ugo Cappellacci, i sindaci di Arzachena, Alberto Ragnedda e Olbia, Gianni Giovannelli. Con un investimento di un miliardo di euro il Fondo sovrano del Qatar intende dare una seconda vita a Porto Cervo, senza alterare le sue origini architettoniche né la bellezza del paesaggio che l'ha reso un mito.
Il Qatar scopre il suo master plan a cinque mesi dall'acquisto della Costa Smeralda per 600milioni di euro, mini per i volumi, maxi per la cifra dell'investimento, un miliardo di euro. Un piano di lungo periodo, in cui i metri cubi vengono concepiti come uno degli elementi del progetto di rilancio turistico del villaggio dei vip che andrà di pari passo con un potenziamento dei trasporti aerei firmati Qatar Airways. Un master plan di circa 400mila metri cubi, con volumi che in parte verranno usati per completare e aggiungere nuove stelle ai quattro hotel storici di Porto Cervo, in parte per realizzarne di nuovi, almeno due, altri per costruire residenze. Più servizi e parchi nell'entroterra di Arzachena. Mattoni che dovranno essere mimetizzati fra macchia mediterranea e graniti. È il primo ministro del Qatar, lo sceicco Hamad bin Jassim al Thani, a insistere sul valore ambientale dell'investimento in Costa nel lungo faccia a faccia con la delegazione con i quattro mori. «Il mio sogno è sviluppare questi nuovi volumi in modo che non si vedano dal mare», dice. Musica divina per le orecchie del sindaco Alberto Ragnedda che sin dai primi contatti con i vertici del Qatar aveva spiegato la condizione su cui non sarebbe mai sceso a compromessi, il rispetto dell'ambiente. E nella definizione del piano della nuova Costa Smeralda le indicazioni arrivate dal Comune sembrano essere state recepite. Per il momento si tratta solo di un progetto, con volumi virtuali, che prima di diventare certi dovranno passare attraverso l'analisi dei tecnici comunali. Il fondo del Qatar è pronto a spendere subito i suoi petrodollari, nel rispetto delle leggi regionali e comunali. Ma chiede certezze nei tempi e nelle regole alle istituzioni sarde. «Già a partire dalla prossima settimana – ha spiegato il presidente Cappellacci – intendiamo entrare nella fase operativa, attraverso incontri tecnici finalizzati a definire la cornice degli interventi, per poi entrate nel merito delle singole opportunità di investimento e comporre un piano strategico complessivo». Soddisfatto il sindaco di Arzachena, Alberto Ragnedda che resta vago sui dettagli del piano di sviluppo Smeraldo almeno fino al rientro ad Arzachena, dopo che avrà illustrato il progetto alla sua maggioranza. «Sono soddisfatto per la serietà dell'interlocutore – commenta –. La sensazione che ho avuto è avere davanti investitori seri, di lungo termine, interessati a tutelare il patrimonio ambientale, di tradizione e valori della nostra terra. Non speculatori mordi e fuggi. Di fronte a questa serietà è necessaria una forte intesa fra Comune e Regione. Entrambi svolgono un ruolo fondamentale nella costruzione delle garanzie di una ritorno al benessere diffuso e di ricadute di lungo termine per la comunità sarda e gallurese». Entusiasta il sindaco di Olbia Gianni Giovannelli. «Il Qatar ha in mente un progetto complesso, di lungo periodo, che non punta solo al settore del turismo del lusso, ma anche al turismo delle famiglie e a quello congressuale. Un investimento da fare nel rispetto dell'ambiente, con una ipotesi edificatoria risibile se paragonata al miliardo di euro di investimenti».
23 novembre 2012
Il cemento del Qatar nell’oasi selvaggia di Razza di Juncu
Nei progetti della Qatar holding per la Costa Smeralda sono previsti 4 nuovi hotel: due nel comune di Arzachena e due a Razza di Juncu, ultimo eden in territorio di Olbia. Alberghi di medie dimensioni a 300 metri dal mare
di Serena Lullia
PORTO CERVO. La Costa Smeralda in versione qatariota arriva fino al comune di Olbia. Il piano di investimenti dell'emiro Al Thani quasi infrange un tabù, oltrepassa i confini di Arzachena e mette radici nella periferia nord olbiese, a Razza di Juncu, simbolo della battaglia anticemento degli anni Novanta. Nei progetti della Qatar holding per rilanciare il borgo delle stelle ci sono due nuovi hotel nel comune di Arzachena, a Liscia Ruja e al Pevero. Più altri due a Olbia, con un massimo di 100 stanze, per un target giovane. Progetti ancora da definire. L'unica certezza è che le strutture ricettive sorgeranno in aree oltre i 300 metri dal mare, come le sorelle arzachenesi, e condivideranno la vista sul mare con un parco di oltre 1500 ettari.
Razza di Juncu è un territorio di confine, la prima porzione del paradiso Smeraldo per chi arriva da Olbia, la periferia dell'eden scoperto dal principe Aga Khan. Un'area selvaggia su cui il principe ismaelita aveva messo gli occhi e sperava di metterci anche un bel po' di cemento. 450mila metri cubi da concentrare su Razza di Juncu ma nella sola parte del comune di Arzachena. L’idea era creare un villaggio gemello di Porto Cervo, fra il mare e la strada provinciale. Un’ipotesi contro cui l'allora sindaco di Arzachena, Tino Demuro, si oppose con determinazione. «L'interesse del principe è sempre stato Razza di Juncu nella parte del comune di Arzachena – spiega l'ex primo cittadino –. Nel master plan da 6milioni di metri cubi ne aveva ipotizzato 450mila solo sui terreni di Razza di Juncu. L'idea era far sorgere un borgo come Porto Cervo sul mare. Volumetrie insostenibili per il nostro territorio, ma forse necessarie alla proprietà per compensare gli alti costi di infrastrutturazione di un'area come quella, vergine e selvaggia. Su quei terreni non c'è nulla. Vanno infrastrutturati dalla A alla Z. Difendemmo quel pezzo di paradiso da un intervento che l'avrebbe rovinato per sempre. Io non mi considero né un ambientalista e ancor meno un integralista dell'ambiente. Tanto che allora facemmo una controproposta al principe. Un taglio drastico dei metri cubi, un indice volumetrico molto più basso e la costruzione non di alberghi e residence, ma di ville ben integrate nella vegetazione». Demuro è incuriosito dalla proposta del fondo del Qatar di realizzare due hotel proprio in quell'area, concentrando gli alberghi per giovani nella piccola fetta smeralda di Olbia. «C'è una differenza fra il progetto di investimento pensato per Arzachena e quello per Olbia – aggiunge Demuro –. Arzachena è pronta per partire. A Razza di Juncu c'è invece da fare un intervento complesso che riguarda reti idriche, fognarie, strade, illuminazione. Basta andare in quelle aree per rendersi conto che Razza di Juncu è ancora vergine, con una rigogliosa macchia mediterranea. Un pezzo di Gallura rimasta immune al cemento». Demuro, che ha scritto un pezzo di storia della Costa Smeralda opponendosi al master plan da 6 milioni di metri cubi, esprime apprezzamento per la bozza del piano Gallura presentato dal Qatar. «Non si conoscono i dettagli ma apprezzo la filosofia ispiratrice – conclude –, pochi metri cubi integrati sull'ambiente. Una conferma che forse la scelta di allora, dire no a mostruose e indiscriminate colate di cemento, ci ha permesso di conservare il nostro territorio e renderlo ancora oggi appetibile per gli investitori. Si tratta poi di imprenditori seri, che hanno alle spalle staff di tecnici preparati e all'avanguardia».
24 novembre 2012
La Costa Smeralda aspetta il nuovo Ppr Arzachena
il progetto di investimenti del Qatar è legato all’approvazione del nuovo strumento di pianificazione regionale di Serena Lullia
ARZACHENA. Il futuro della nuova Costa Smeralda passa dalle stanze del palazzo regionale. Il governo del Qatar ha già deliberato 1 miliardo di euro per gli investimenti in Sardegna. Nel pacchetto con i quattro mori non c'è solo il rilancio di Porto Cervo con la ristrutturazione dei quattro alberghi storici, la costruzione di due nuovi hotel nel comune di Arzachena e due eventuali a Olbia, impianti sportivi e parchi attrezzati. C'è anche un interesse dei qatarini per i trasporti e la filiera agroalimentare. Ma perché il piano su cui scommettono il presidente Ugo Cappellacci e il sindaco Alberto Ragnedda passi dalla fase virtuale a quella reale, serve una modifica al ppr.
Il presidente della Regione ha rassicurato il primo cittadino nella conferenza stampa di presentazione del piano Gallura a Palazzo Ruzittu. «Tutto il piano Costa Smeralda si fonda sull'articolo 12 della legge 4 del 2009 – ha spiegato il presidente –. È altrettanto vero che questi progetti devono essere recepiti dal ppr e che è in corso un processo di revisione. Sono state presentate le linee guida del nuovo ppr al consiglio regionale. Il passo successivo è l'adozione provvisoria da parte deella giunta del nuovo strumento revisionato. Il motivo per cui non è stato ancora adottato è che è in corso l'attività di lavoro con il ministero. È evidente che si sono tutte le condizioni per arrivare all'obiettivo».
Nel piano di investimenti di lungo periodo è prevista anche la costruzione di ville, la ristrutturazione di alcuni vecchi stazzi in chiave turistica, la creazione di impianti sportivi e di tre parchi con percorsi attrezzati. la nascita di una scuola di formazione per manager del turismo. Poco il cemento rispetto all'estensione della Costa Smeralda, fra i 400mila e i 550mila metri cubi su una superficie smeralda di 2mila 400 ettari. La stessa quantità di cemento pensata per la sola Razza di Juncu ai tempi del master plan dell'Aga Khan degli anni Novanta.
Il primo cittadino affronta di petto il tema del nuovo cemento, una risposta diretta a chi vorrebbe far passare l'idea che il piano dell'emiro sia uno stupro ambientale. «Parliamo di una grande opportunità a fronte di pochi metri cubi – spiega Ragnedda –. Non stiamo sacrificando nulla, come potrebbe essere successo in altre occasioni o in altri pezzi di territorio alla speculazione. Stiamo consentendo la ripartenza di un settore fondamentale in Sardegna come il turismo ricettivo, che è sì il passato, ma anche il presente e deve essere il futuro. E poi diciamocela tutta. Porto Cervo va completata, è incompiuta. Ci sono aree che è necessario collegare fra di loro. Solo così potremo avere un villaggio che vive tutto l'anno. Lo sviluppo si è interrotto. Per riprenderlo si devono pianificare nuove volumetrie, in modo intelligente e rispetto della natura. E lo si fa all'interno di un villaggio già esistente. Non stiamo rubando nulla all'ambiente, sia ben chiaro. Ora serve uno sforzo importante e una visione lungimirante da parte della politica regionale per capire che questa non è una speculazione, ma una grande opportunità non solo per la Gallura ma per la Sardegna».
Interessanti anche le ipotesi occupazioni collegate agli investimenti. In fase di realizzazione degli interventi si calcola un incremento di 1600 persone di occupazione diretta, più l'indotto. In fase di gestione un raddoppio dell'attuale numero di addetti del settore alberghiero che passerebbe dagli attuali 1200 a 2500.
25 novembre
Gli stazzi diventano residence, spuntano trenta ville extralusso
Dal cilindro del Qatar ecco i progetti di riqualificazione. Nuovi alberghi con il marchio internazionale Harrods
di Serena Lullia
PORTO CERVO. Il paradiso smeraldo apre le porte dorate ai giovani e alle famiglie, ma non rinuncia a creare capricci a 5 stelle per nababbi, principi e sceicchi. Il progetto di investimenti da 1 miliardo di euro del Qatar in Costa Smeralda non prevede solo alberghi e parchi. Una buona parte del pacchetto di mattoni dei 450-550mila metri cubi chiesti dal petroemirato sarà destinato alla costruzione di 30 ville extra lusso. I qatarini, nel piano consegnato al sindaco di Arzachena Alberto Ragnedda e al governatore Ugo Cappellacci in missione a Doha, le definiscono di altissimo pregio. Un modo per sottolineare la magnificenza con cui verranno realizzate, grande attenzione nella scelta dei materiali, parchi per mimetizzare i mattoni nel verde, piscine. Ma anche per distinguerle dalle "meno aristocratiche" residenze a 5 stelle realizzate a Porto Cervo negli ultimi 50 anni, e dalle altre 90 previste nel piano del Qatar e definite “normali”. In entrambi i casi le ville non saranno concentrate in una sola area dei 2400 ettari della Costa Smeralda. La loro disposizione sarà a macchia di leopardo, dal Pevero a Liscia Ruja a Porto Cervo.
Si concretizza così il duplice investimento in Costa Smeralda della Qatar holding, braccio operativo del fondo sovrano del Qatar. I 450-550mila metri cubi ipotizzati verranno divisi fra residenziale, con 120 nuove ville e ricettivo. Prevista la ristrutturazione dei quattro hotel storici di Porto Cervo, il Pitrizza, il Romazzino, il Cervo e il Cala di Volpe, e la costruzione di due nuovi alberghi nel comune di Arzachena, uno col marchio internazionale Harrods a Liscia Ruja da 150 stanze, e uno con 200 stanze al Pevero rivolto alle famiglie. Gli hotel nell'eden di Razza di Juncu nel comune di Olbia e destinati a un target giovane, vengono indicati come una opzione. Buona parte delle volumetrie saranno utilizzate per le ville. Ma anche per la ristrutturazione e la trasformazione in residence di lusso di 22 stazzi, simboli dell'identità gallurese, disseminati sul territorio. Per la maggior parte si tratta di edifici fatiscenti o ruderi che hanno comunque affascinato i qatarini per la loro posizione di pregio, immerse nel verde e con vista sui più bei panorami della Costa. Verranno ampliati e trasformati in ville di lusso. Il Qatar vuole poi dare una impronta di divertimento alla Costa Smeralda che vada oltre la discoteca. Da qui la scelta di trasformare le aree verdi ancora selvagge di Multa Longa, Cala di Volpe e Liscia Ruja in parchi attrezzati, delimitati da fasce tagliafuoco per proteggerle dagli incendi, con percorsi di passeggiata, trekking, scalata, free climbing. All'interno di tutti e tre i parchi sono previste aree di servizio e ristorazione. Nel parco di Liscia Ruja troverà spazio anche un acquapark aperto a tutti, un centro divertimenti con piscine e scivoli immerso nel verde della macchia mediterranea. Ma i qatarini hanno pensato anche ai clienti che non ne vogliono sapere di fare sport attivi. Per loro verrà realizzata una pista di go-kart. L'impianto sportivo sorgerà nella vecchia discarica di Abbiadori, il borgo a due passi da Porto Cervo. L'intervento dei qatarini prevede la bonifica dei terreni che per anni sono stati la pattumiera del territorio e la costruzione delle piste in stile Le Mans. Un maxi impianto dotato di club house e ristorante pensato per ospitare grandi eventi internazionali con piloti di fama mondiale.
23 novembre 2012
ILCOMMENTO
di Sandro Roggio
Dopo l'annuncio della visita del premier in Qatar è circolata la notizia sulla delegazione comprendente il presidente Cappellacci. Non c'è alcun accenno a questo nel sito della Presidenza del Consiglio; ma il facile collegamento - gli interessi di Qatar Holding in Sardegna - ha favorito la rappresentazione della “missione” di Cappellacci -Monti in perfetta sincronia di movenze come Ginger e Fred.
Agli addetti alle relazioni di Costa Smeralda il compito di reclamizzare il programma d'investimento dell'emiro nell'isola. “Non esclusivamente in Gallura o solo in Costa Smeralda” - si è ripetuto con un surplus di zelo in qualche organo d'informazione. Un racconto in genere compiacente, come ai tempi del primo master plan: quando il tam tam sulle meravigliose ricadute nel territorio serviva a farci sognare un futuro splendido grazie al business dell'edilizia. Evidente l'obiettivo - molto politicante - di realizzare un clima di consenso ad uso interno. E nell'intesa tra Monti e Qatar, il patto per la Costa Smeralda è fatto passare come il contributo sardo alla salvezza della Nazione (di cui non si parla nei quotidiani nazionali).
Una visione riduttiva rispetto alla gamma di opportunità di investimento nell'isola sfortunata ma ricca di risorse - fanno osservare gli estimatori di Monti. Pronti a giurare che il premier avrebbe evitato di dare l'idea di un cedimento unilaterale (“sono come tu mi vuoi”, nella versione pop), sempre controproducente nelle trattative. Oltre che avvilente.
Molti hanno pensato che tra gli ambasciatori sarebbero stati utilmente Tore Cherchi presidente della Provincia del Sulcis, povera nonostante le risorse, un sindacalista Vinyls o Alcoa, un leader del movimento dei pastori, un portavoce dell'agricoltura di qualità. Così da proporre un ampio menù - oltre la polpa - agli investitori.
Invece con Cappellacci sono andati a Doha i sindaci di Arzachena e Olbia dando l'impressione del piatto unico in tavola: il via libera al “mini master plan” gallurese, in cambio del miliardo di dollari.
Si sorvola sul fatto che il “mini master plan” non è coerente con le regole sarde sul paesaggio, per cui è indispensabile una variante al Ppr trasformato in un tappeto volante a disposizione (oggi per Qatar, domani si vedrà) così come Cappellacci lo intende da quando è in carica. Molte ambiguità alimentano la nebulosa propagandistica con gli stessi ingredienti riproposti da decenni. E' incerta la quantità di volume (400 o 550mila mc?) per fare case (e qualche albergo) tra Arzachena e Olbia. Tutto superlusso (“non orribili condomini”-ci assicurano); e “con basso impatto” (sulle case nascoste nel verde - come la spazzatura sotto il divano - c'è un florilegio di formule ridicole riproposte ad ogni giro).
Lo “stanziamento” (?) della Holding per per una pluralità di investimenti sta dentro un disegno “di lungo respiro”. Si vedrà nel tempo lungo e non si chiederà una inelegante fideiussione. Come negli anni Novanta quando l'investimento di 3mila miliardi di lire era diluito in 25 anni e il volume più che spropositato, secondo le usanze dell'epoca.
La più domestica conferenza stampa di Arzachena conferma le inquietanti manovre attorno al Ppr. A fronte del solito preambolo euforico sulla leggerezza dell'intervento (“sintesi emozionale” tra natura e artifici - secondo Cappellacci) ci sono i numeri e i luoghi - e che luoghi! - da trasformare, come Razza di Juncu (Olbia) e Liscia Ruia (Arzachena) delicatissimi ecosistemi già scampati a vari tentativi di manomissione. Ovvio che la manipolazione del Ppr a domanda serve a creare il precedente. Le domande e le risposte saranno tante, un procedimento che riporterà indietro la pianificazione in Sardegna di trent' anni. Sulla legittimità del programma i dubbi sono molti e tutti consistenti.
24 novembre2012
IL COMMENTO
di Stefano Deliperi
Doha è la capitale del Qatar. Tenetelo a mente, visto che, a sentire il Presidente della Regione Cappellacci, quello è il posto dove si prendono le “decisioni che contano” per laSardegna.
Indipendentisti e sovranisti tacciono e si trastullano con velleitarie mozioni d’indipendenza, mentre il Presidente Cappellacci e i sindaci di Olbia Giovannelli e di Arzachena Ragneddavanno in Qatar a fare shopping di sogni.
Al ritorno raccontano quanto di mirabolante, luccicante, straordinario verrà investito in Sardegna: un miliardo di euro per realizzare 400-550 mila metri cubi di nuove ville ealberghi fra Porto Cervo (Arzachena) e Razza de Juncu (Olbia), il restyling (l’ennesimo) deiquattro resort di lusso “storici” della Costa Smeralda, tre parchi attrezzati per complessivi 2.192 ettari in Costa Smeralda, un allevamento di cavalli con 500 purosangue anglo-arabi nel sud Sardegna (forse a Pula), pure una pista per go-kart (in Costa Smeralda).
Il sindaco Ragnedda è semplicemente raggiante: “con questo intervento, con volumi irrisori rispetto all’investimento, non andiamo a intaccare l’ambiente”. Mezzo milione di metri cubi di cemento, evidentemente, sono poca cosa per la mentalità corrente sui litorali galluresi.
Arzachena era già divenuta Arzakhan, sta per divenire Arzaqatar e sono tutti felici e contenti. Domani non sapranno nemmeno chi sono, come ha ben scritto sulla progressiva perdita di identità l’attento giornalista gallurese Francesco Giorgioni sul suo blog .
Non finisce qui. Mentre si parlava di uninteressamento per Malfatano eTuerredda (il progetto turistico-edilizio della Sitas, attualmente bloccato) e per la gestione del Forte Village di S. Margherita di Pula, in questi mesi i politici regionali hanno fatto la “lista della spesa” per l’emiro del Qatar: il sindaco di Sassari Ganau (P.D.) è pronto a trattare per l’Argentiera, l’on.Sisinnio Piras (PdL) propone la costa arburese e il sindaco (ora dimesso) di Iglesias Perseu(UdC) i litorali di Masua e Nebida, l’on. Diana (PdL) pretende l’allevamento di cavalli nell’Oristanese, mentre il pasdaran istituzionale degli abusivi d’Ogliastra, l’on. Stochino,sbaraglia tutti: “tre nuovi porticcioli turistici a Tertenia, fra Cardedu e Barisardo, uno adArabatax, più un campo da golf fra Talana eTriei”. Senza alcun limite, in tutti i sensi.
Crisi economica e disoccupazione starebbero per diventare pallido ricordo. Eppure la memoria del recente passato dovrebbe indurre a un minimo di prudenza. Quando la Colony Capital di Tom Barrack acquistò la Costa Smeralda dalla Starwood agli inizi del nuovo millennio, l’allora Giunta regionale dell’on. Mauro Pili (stranamente oggi silenzioso) annunciò mille nuove iniziative imprenditoriali del finanziere libanese-americano, in particolare nelle aree minerarie dell’Iglesiente.Risultato? Dopo aver incassato ilrestyling degli alberghi “storici”, ha rivenduto (aprile 2012) alla Qatar Holding la Costa Smeralda per 600 milioni di euro, con un indubbio guadagno speculativo.
Nessun investitore, per quanto ricchissimo, regala niente e non lo farà nemmeno l’emiro del Qatar. E’ un concetto semplice in tutto il mondo. Lo capiscono tutti, tranne la classe politica dirigente di una Sardegna sempre più Sardistàn, oscura isola del Mediterraneo centrale abbacinata da promessi investimenti stranieri per un miliardo di euro, quando beneficia più o meno dello stesso importo ogni anno – e da parecchi anni – grazie ai fondi comunitari e, in piena autonomia di programmazione e di spendita, non è riuscita a innescare un’equilibrata e diffusa crescita economico-sociale.
Noi ecologisti non ci facciamo abbagliare da perline e cammelli colorati e difenderemo territorio e identità con ogni mezzo disponibile.
25 novembre
IL COMMENTO
di Giorgio Todde
Da oltre mezzo secolo in Sardegna si scrive sempre lo stesso racconto. Mutano i nomi, ma si recitano le stesse parti. Non cambia il malinconico tratto psicologico che ci rende inconfondibili. L’attitudine sarda alla sottomissione non è eradicabile e arriva al punto di produrre leggi che aprono le porte al nostro dominatore di turno. E non c’è psicoanalisi collettiva capace di guarirci.
Questa volta è una creatura da favola che ci ha ammaliato con la promessa fumettistica di un miliardo di dollari da investire a favore di noi sardi. Il filantropo che si è innamorato di noi è l’emiro del Qatar, rappresentante di una monarchia assoluta – potere che ci affascina – e ha deciso di annetterci al suo regno comprando l’Isola, in barba ai suoi abitanti che farfugliano di fierezza e di orgoglio.
Dolorose e umilianti le reazioni di certi sindaci che reclamano qualche goccia di grasso che cola. Un consigliere regionale chiede che dalla pioggia d’oro non sia esclusa la sua Ogliastra. Da molte parti dell’Isola implorano oro. Niente oro, per il momento, ma l’eterno giuramento di migliaia di posti di lavoro per i creduli sardi. Ancora la promessa falsa dei capi locali che non si tratterà di cemento, ma la verità e in mezzo milione di metri cubi, le solite ville, i soliti alberghi. Una delegazione composta dai visir di Arzachena e di Olbia – capitale dell’emirato della Costa Smeralda – spiega che prima di tutto l’emiro creerà i parchi, ma saranno parchi speciali, non come quello del Gennargentu che il consigliere, quello della pioggia di dollari, non voleva. Saranno parchi al cemento ecocompatibile nei luoghi intatti. Gli occupanti dei nuovi alberghi, delle nuove ville, dei nuovi metri cubi consumeranno, assicurano, prodotti sardi. E noi, felici di sentire sempre lo stesso racconto, ci accontentiamo dei piccoli visir.
La vita consegnata ad altri, il destino delegato a qualcuno, purché ricco, ha causato il disastro economico e sociale di oggi, la fine delle fabbriche tenute in vita per decenni benché produrre costasse più di quanto si ricavasse, il fallimento dell’agricoltura, il fallimento dell’edilizia travestita da turismo. E persistiamo sino alla dissoluzione di noi stessi.
La maschera tradizionale locale, per sua invincibile natura, china il capo e crede a tutto. Incapace di intuire il futuro e comprendere il passato. Incapace di interpretare la storia e modificare la propria natura che si appaga solo se è sollevata da responsabilità. Perfino incapace di comprendere il valore della bellezza.
Nelle nostre vicende recenti sono stati determinanti, in negativo, molti sindaci, sempre vicini al potere economico, meglio se esotico, e perfino felici – quanti esempi – di vedere il proprio territorio regredire, imbruttirsi e involgarirsi. Sono certi sindaci che hanno svenduto il paesaggio, che appoggiano l’abuso edilizio, vendono altopiani e montagne per pale eoliche e serre fotovoltaiche, che confondono l’autonomia dei Comuni con il fare quello che si vuole. Perfino il sindaco rappresentante dei Comuni sardi ce l’ha con le regole che gli bloccano lo sviluppo e riassume l’anima della sua categoria.
Le società senza speranza si fanno sedurre dalla ricchezza promessa – ma non ne avremmo neppure le briciole – sino al punto di conformare le proprie leggi al conquistatore di turno. E’ accaduto con la terza proroga all’incostituzionale Piano Casa. Il Presidente della nostra Regione è arrivato al punto di affermare che ci sarà “sincronismo” tra le modifiche al Piano Paesaggistico e il miliardo del Qatar. “Sincronismo” significa che noi siamo talmente in balìa del conquistatore e che adegueremo il Piano Paesaggistico non al nostro Paesaggio, ma al Qatar. Il mondo gira al contrario.
Così sono i sardi orgogliosi e fieri. Ma a breve comprenderanno che il loro orgoglio e la loro fierezza nascondono una realtà troppo infelice per essere detta. E in proporzione alla rovina evocano ossessivamente l’identità. Più la perderanno,più la evocheranno. Diventerà una professione diffusa.
La Repubblica, 26 novembre 2012
NATA malissimo, la vicenda della nuova legge sulla diffamazione rischia di finire ancor peggio. Non era imprevedibile. Si erano subito sommati due pessimi modi di legiferare. La triste abitudine italiana alle leggiad personam(non a caso si parla di “legge Sallusti”) e un modo di produrre il diritto contro il quale i giudici inglesi avevano messo in guardia fin dall’800, riassunto nella formula “hard cases make bad law” – dunque il rischio di una risposta legislativa distorta perché ritagliata su una situazione eccezionale o estrema.Si potrebbe aggiungere un detto tratto dalla saggezza popolare: “La fretta è cattiva consigliera”. Una fretta, però, che al Senato è stata deliberatamente usata per cercare di imporre soluzioni inaccettabili, sfruttando come pretesto l’urgenza legata alla volontà di impedire che Alessandro Sallusti finisca in carcere.
L’ultimo episodio di questa brutta storia è rappresentato dalla approvazione di una norma chiamata “salva direttori”, un emendamento proposto dallo stesso presidente della commissione Giustizia, che esclude appunto il carcere per direttori e vice-direttori, ma lo mantiene per gli altri giornalisti. Si è cercato in questo modo di attenuare gli effetti dell’imboscata parlamentare con la quale, con un voto segreto, era stata reintrodotta la pena carceraria per tutti i giornalisti. In questo modo la vicenda non soltanto si aggroviglia sempre di più. Si manifesta una evidente contraddizione con il motivo per il quale si era deciso di modificare le norme sulla diffamazione, appunto l’eliminazione di quel tipo di sanzione. E, scegliendo questa strada, si introduce una ingiustificata discriminazione tra i giornalisti, con evidenti rischi di incostituzionalità della nuova disciplina, e si mantiene l’intimidazione nei confronti del sistema dell’informazione nel suo complesso.
Questo non è il solo aspetto negativo di un disegno di legge il cui iter parlamentare è stato tutto punteggiato da forzature, sgrammaticature tecniche, inconsapevolezza delle caratteristiche delle materie regolate. Si può apprezzare il senso di responsabilità dei giornalisti che, accogliendo l’invito del presidente del Senato, hanno rinunciato allo sciopero indetto per oggi, in attesa di quel che i senatori decideranno. Ma qualche aggiustamento dell’ultima ora non potrà rendere accettabile un testo che rimane inadeguato e pericoloso. L’unica dignitosa via d’uscita per i senatori è quella di abbandonare questo disegno di legge, che continua a rendere visibile lo spirito con il quale è stato progressivamente concepito: uno strumento per arrivare ad un regolamento di conti tra ceto politico e mondo dell’informazione.
Già la mossa iniziale di questa partita era stata rivelatrice. Il disegno di legge nasce da un improvvida iniziativa trasversale, o bipartisan che dir si voglia, del Popolo della libertà e del Partito democratico. Troppo lontani, infatti, si erano rivelati in questi anni gli orientamenti dei due partiti proprio nella materia della libertà d’informazione. Era prevedibile, quindi, che i non dimenticati propugnatori di una “legge bavaglio” avrebbero manifestato gli stessi spiriti in una occasione che apriva spazi inattesi per muoversi di nuovo in quella direzione. Ecco, quindi, l’apparire di norme che usavano l’arma della sanzione pecuniaria per intimidire editori e giornalisti; per distorcere il diritto di rettifica a vantaggio di chi pretende di stabilire unilateralmente quale sia la “verità” da rendere pubblica; per aggredire con imposizioni cervellotiche il mondo della Rete. Tutto questo è avvenuto in un clima di voluta confusione culturale, presentando come reato di opinione una diffamazione consistente nell’attribuire a una persona un fatto determinato del tutto falso.
Emergevano così i tratti di una disciplina tutta impregnata di voglia di rivincita, di ritorsione, di vera e propria vendetta nei confronti del sistema dell’informazione, che è stato il vero tratto bipartisan di questa vicenda e che ha avuto la sua più clamorosa e rivelatrice manifestazione con il voto che reintroduceva la pena carceraria. Le proteste venute dal Pd, pur sacrosante, sono apparse tardive, segno di una confusione apparsa durante la discussione parlamentare, ma che già si coglieva nel modo già ricordato di mettere la questione all’ordine del giorno del Senato. Eccesso di fiducia, ingenuità o piuttosto inadeguatezza dell’analisi di una questione davvero capitale per la democrazia?
La ripulitura del testo, prima degli incidenti di percorso, non lo ha depurato dei suoi molti vizi d’origine. Nulla, o troppo poco, di quello che sarebbe necessario per aggiornare le norme sulla diffamazione si trova nel disegno di legge sul quale oggi il Senato dovrà esprimere il suo voto. Pure, non erano mancate le indicazioni per imboccare una strada che avrebbe consentito di avvicinarsi almeno a una disciplina consapevole dei molti problemi sollevati in questi anni a proposito della diffamazione, apprestando strumenti adeguati e non inutilmente punitivi per garantire verità e rispettabilità delle persone e considerando pure le questioni, tutt’altro che marginali, delle denunce temerarie e delle sproporzionate richieste di risarcimenti, come mezzo non per garantire un diritto, ma per intimidire i giornalisti. E si erano pure suggeriti i criteri per una disciplina rapida e sobria che, eliminata l’inaccettabile carcerazione, poteva essere realizzata con pochi aggiustamenti delle norme vigenti. Se tutto questo non è avvenuto, significherà pure qualcosa. Una volta di più dobbiamo registrare malinconicamente un uso congiunturale e strumentale delle istituzioni, l’inadeguatezza politica e culturale che si annida in questo Parlamento. Limitiamo almeno i danni, e rinviamo una nuova disciplina della diffamazione a tempi sperabilmente più propizi.
Il Prg innanzitutto. Proprio il Prg, sul tema scogliere sollevato da Giulio Pane (e unisco Francesco Bruno) dispone, all’articolo 44, «la realizzazione di scogliere, esclusivamente sommerse o affioranti, … soggetta alle preventive valutazioni e agli studi meteo marini prescritti dalle norme vigenti». I prolungamenti delle scogliere di Rotonda Diaz a fine evento sportivo del 2012 avrebbero dovuto essere eliminati, al contempo il parere della Soprintendenza sul progetto prescrive la condizione che sia «approntato uno specifico studio meteomarino teso a valutare la possibilità di rimuovere unicamente le parti affioranti dei nuovi tratti di scogliera, trasformandole in barriere soffolte… con la condizione che venga rimessa in vista la muratura frangiflutto storicizzata…». È noto solo agli esperti che la realizzazione (ovvero la trasformazione) di una nuova scogliera, presuppone pure, per obbligo di legge, la preventiva valutazione ambientale delle opere (le preventive valutazioni e gli studi meteo marini prescritti dalle norme vigenti). Il percorso amministrativo intrapreso dall’amministrazione statale con il Provveditorato alle Opere pubbliche e quella comunale intende accelerare il processo di valorizzazione paesaggistica della città con la riqualificazione di un tratto significativo della linea di costa. L’evento velico, oltre alle innegabili finalità sportive e di richiamo turistico e d’attenzione imprenditoriale verso la città, è pure strumentale a conseguire l’obiettivo disegnato sia dal Piano regolatore che dai vincoli che obbligano il recupero della lettura del muro storico e il ridisegno delle scogliere. Tale intendimento è stato ulteriormente dichiarato con la delibera 51 del 2 febbraio 2012 approvativa degli indirizzi per la riqualificazione del tratto Rotonda Diaz – via Caracciolo, nel rispetto dei vincoli e in coerenza con la normativa del Piano regolatore, in occasione $del successivo ripristino dei luoghi dopo l’evento. In tale percorso, con la novità rappresentata dalla prescritta nuova progettazione degli interventi di trasformazione della scogliera, non trova più riferimento la limitazione della permanenza dei prolungamenti della scogliera ai giorni immediatamente successivi all’evento, ma appare invece opportuno commisurarla ai tempi occorrenti per la loro trasformazione (conforme alle norme e definitiva) che chiede gli adempimenti tecnici correttamente avviati dal Provveditorato alle opere pubbliche. Su ciò alcuni non riflettono. Italia Nostra lo fa ed evidentemente riconosce nell’operato dell’amministrazione comunale quanto essa ha sostenuto sull’argomento 25 anni orsono quando, e da sola, diceva un netto “no” alle scogliere emergenti e alla copertura del muro in piperno. Mai si sarebbe potuto attendere che Italia Nostra avrebbe sostenuto alcun progetto alternativo per l’evento velico, che proponesse un piastrone di oltre 8 mila metri quadrati calato sulle antiche strutture del Molo San Vincenzo, per allocare i capannoni. A Giulio Pane mi unisce, spero, invece, la saggia difesa di una tutela del paesaggio che passi attraverso una corretta pianificazione, sotto il rigido controllo dello Stato.
L'autore è Assessore all'Urbanistica del Comune di Napoli
L'uscita di scena di Berlusconi e la forte leadership del governo tecnico hanno cambiato lo scenario delle primarie, molto diverse, oggi, dal rito liberatorio e plebiscitario tributato al tempo di Prodi e Veltroni. Allora finì nell'urna un grande no a Berlusconi, oggi non c'è proprio aria di plebiscito, per nessuno dei cinque candidati. Si esprimerà, invece, un giudizio ponderato perché è chiaro a tutti che il risultato condizionerà la prossima legislatura. A seconda del consenso ottenuto da Vendola, potremmo avere due importanti conseguenze: un primo, netto no al montismo e una prefigurazione dei futuri equilibri a sinistra.
C'è un campo da ricostruire, rifondare, rinnovare e milioni di persone credono di avere nelle primarie un bonus da spendere per iniziare questo lavoro. Una scommessa rilevante, pur con molti limiti. Il più evidente si riferisce proprio alla forma di partecipazione: una replica del modello leaderistico, che nulla aggiunge a quel bisogno di democrazia partecipata, connotato prevalente dell'intenso fermento alla sinistra del Pd. Così è stato nella natura delle mobilitazioni vincenti degli ultimi referendum e delle elezioni amministrative, così pure nelle forme creative di partecipazione dei movimenti nati dentro la grande crisi economica, sociale e politica.
Tuttavia, cogliere i limiti delle primarie non significa esserne spettatori indifferenti. Tanto più sea mettersi in fila, per condividere, anche fisicamente, una scelta di voto, risponde al forte vento populista, contestando l'idea di sostituire al corpo uanto dal signore un corpo consacrato da internet. Tra l'altro, nei racconti di chi è andato a registrarsi nelle vecchie sezioni del Pci, emerge un particolare che forse non piacerà agli ideologhi della rottamazione: molti anziani a prendere le iscrizioni, molti giovani a prenotarsi.
Stralcio della postfazione a un libro che spiega perchè a quei patti non ci si può stare. Il manifesto, 24 novembre 2012
Tra i punti principali posti dall’assessore Marson all’attenzione della affollata platea in Sala Pegaso, c’è il fatto che il governo prevede di distribuire ulteriori quote edificatorie, anziché fissare degli obiettivi quantitativi di riduzione del consumo di suolo. “Nelle Regioni più avanzate – ha detto Marson – con una solida tradizione pianificatoria come la Toscana, vengono fatti molti sforzi per ridimensionare le previsioni eccessive degli strumenti urbanistici più datati. Non è sempre facile rivedere le previsioni urbanistiche già in essere, ma c’è una differenza sostanziale tra rispettare le previsioni operative conformative della proprietà privata e far salve invece tutte le espansioni pensate sul lungo periodo come quelle dei piani strutturali”.
“La Regione Toscana in questa legislatura – ha chiarito Marson – ha messo a punto nuove politiche di contrasto al consumo di suolo nel governo del territorio, i cui risultati saranno pienamente apprezzabili soltanto in futuro. Per quanto riguarda invece la qualità del territorio e del paesaggio, nella nuova redazione del Piano paesaggistico regionale stiamo lavorando a una interpretazione strutturale basata su idrogeomorfologia, ecosistemi, sistemi insediativi policentrici, e territorio rurale. Per ora abbiamo ottenuto, primi in Italia, la validazione da parte del Mibac del lavoro di vestizione dei vincoli per decreto”.
Sugli aspetti quantitativi del consumo di suolo sono stati affinati i sistemi di monitoraggio sul consumo di suolo, e introdotti nuovi indicatori di valutazione degli effetti indotti dalle nuove urbanizzazioni sul territorio e sul paesaggio, come quello della frammentazione.
E’ stata rafforzata l’attività di verifica della coerenza tra Piano di indirizzo territoriale regionale e la pianificazione urbanistica locale, attraverso le osservazioni e, quando necessario, il ricorso alla conferenza paritetica interistituzionale. Le diverse integrazioni alla legge regionale sul governo del territorio, necessarie per recepire provvedimenti nazionali, sono state usate al fine di iniziare a diversificare le procedure per il riuso delle aree già urbanizzate rispetto al nuovo consumo di suolo agricolo. Ciò sia nel 2011 con la legge 40, che ha introdotto una nuova norma per la rigenerazione urbana, che con la legge 52/2012 che disciplina le procedure per le grandi superfici di vendita, differenziandole a seconda che interessino edifici già esistenti o nuove aree agricole, e prescrivendo in questo ultimo caso la pianificazione sovracomunale e la distribuzione degli oneri di urbanizzazione tra tutti i comuni.
“Più in generale – ha proseguito Marson – con la revisione organica della legge 1 che presenteremo a breve, il principio che nuovi impegni di suolo sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti, sarà sostenuto da dispositivi operativi efficaci a garantirlo”.
“Ma una volta fermato il consumo di suolo – si chiede Marson – come si garantisce la qualità del territorio non consumato? Nel caso del Parco agricolo della Piana, ad esempio, abbiamo approvato la salvaguardia su circa 7.000 ettari di aree in gran parte agricole, sottoposte a straordinarie pressioni edificatorie in quanto comprese all’interno dell’area urbanizzata più estesa della Toscana. La sfida ora è di riuscire a promuovere per tali aree politiche integrate capaci di valorizzarne l’uso agricolo e la multifunzionalità ambientale e paesaggistica”.
“In generale – ha concluso Marson – la posta in gioco per l’intera regione è quella di un efficace integrazione delle politiche settoriali nella cura del territorio, con la sfida di una nuova visione capace di conciliare lo sviluppo produttivo e sociale con la valorizzazione del capitale territoriale toscano e con l’esigenza di adattamento ai cambiamenti climatici. E qui torniamo al paesaggio nella sua interpretazione non solo estetico-percettiva ma strutturale”.
Settis: “Diamo un taglio lineare al consumo del suolo”
“Per difendere il nostro paesaggio serve un atto simbolico e concreto insieme: diamo un taglio lineare al consumo del suolo, chiedendo ai Comuni di diminuire del 2% il suo utilizzo”. Lo ha detto l'Accademico dei lincei e autore di “Paesaggio Costituzione e cemento”, intervenendo questa mattina al Convegno “Uso versus consumo del territorio rurale” organizzato dalla Regione Toscana presso la presidenza in Palazzo Strozzi Sacrati in piazza Duomo a Firenze.
Settis ha detto di aver inviato una proposta in questo senso al ministro dell'agricoltura Mario Catania, presente anch'egli al convegno e lo ha elogiato per aver posto attenzione alla questione del consumo del suolo agricolo, presentando un disegno di legge che ha giudicato buono, anche se migliorabile.
“Niente può tutelare meglio il nostro paesaggio – ha precisato Settis – di un'agricoltura di qualità e di fronte ad un numero di appartamenti costruiti negli ultimi anni che è 387 volte superiore al numero di nuovi abitanti, servirebbe una legge composta da un solo articolo, capace di incentivare i consumi a chilometri zero e anche il lavoro in agricoltura. L'hanno fatta in Brasile e prevede che ogni mensa utilizzi per almeno il 30% i prodotti agricoli di aziende locali”. Lo studioso ha detto poi che ogni anno a novembre ci sbalordiamo del fatto che l'Italia frana, ma dobbiamo sapere che siamo il Paese più franoso d'Europa e che a questo occorre porre rimedio.
A questo scopo ha illustrato infine alcune proposte migliorative del decreto sulla protezione del suolo agricolo, affermando che il Parlamento può trasformarlo in legge prima della fine della legislatura e augurandosi che il ministro abbia la forza per ottenerne la conversione.
Rossi: “In Toscana importanti cambiamenti nelle politiche del territorio”
“Siamo a metà della legislatura e possiamo dire che la Toscana ha compiuto importanti passi avanti nel cambiamento delle politiche del territorio”. E’ la valutazione espressa oggi dal presidente Enrico Rossi nel suo intervento al convegno “Uso versus Consumo del territorio rurale”, che si è svolto nella sede regionale di Palazzo Strozzi Sacrati a Firenze.
“Fin dal nostro programma di legislatura – ha proseguito – abbiamo puntato quanto più possibile sulla salvaguardia del territorio agricolo e la tutela del paesaggio. Questa idea, combinata con il rilancio del manifatturiero, ci è sembrata l’unica in grado di far ripartire uno sviluppo di qualità nella nostra regione. Abbiamo ripreso una discussione positiva e utile con i comuni per quanto riguarda i piani strutturali, abbiamo compiuto un altro passaggio straordinario con la “vestizione” dei vincoli. Con la revisione della Legge 1 punteremo, non in modo generico, sul riuso”.
“A tutto questo – ha continuato Rossi – aggiungo altre due svolte non meno radicali: il divieto a costruire nelle zone ad alto rischio idraulico, che costituiscono il 7% del territorio pianeggiante della Toscana, e la riforma dei Consorzi di bonifica, che vogliamo finalizzare alle attività di manutenzione. Tutto ciò mi sembra infine possa costituire una buona base per un accordo con il governo, nello spirito di qella visione complessiva del governo del territorio che ispirò anche l’attività di un grande presidente toscano, Granfranco Bartolini”.
“Questo convegno – ha concluso il presidente – ha cercato di ricollegare politica e pensiero, la politica, che pensa troppo poco, con gli intellettuali, a volte troppo distanti dalla concretezza. Purtroppo il tema della qualità dello sviluppo è assente dal dibattito politico attuale, pensiamo alla ripresa come a un riavvio che riprodurrà le linee di tendenza del passato. Invece dobbiamo affrontare il problema della gestione della finanza internazionale, della redistribuzione della ricchezza, della definizione di nuovi consumi. L’idea di una austerità fatta pagare solo ai ceti più deboli non è condivisibile, mentre è una idea di cambiamento del modo di produrre e di consumare quella su cui dobbiamo lavorare di più”.
Petrini cita Pasolini: “ Il giorno in cui questo paese perderà contadini e artigiani non avrà più storia”
“La terra è il vero bene comune ed è una risorsa non rinnovabile. E l’agricoltura è il bandolo di tutto. Il problema è che manca la terra per i giovani, ma mancano anche i giovani per la terra. Siamo davanti a una crisi sistemica, entropica. O cambiano i paradigmi, il modello di sviluppo, oppure arriviamo a un punto di non ritorno. L’agricoltura deve ridiventare centrale. Non bastano i pannicelli caldi per curare il malato-terra”. Così Carlo Petrini, presidente di Slow Food internazionale, che oggi è intervenuto a Firenze alla tavola rotonda organizzata dalla Regione Toscana su “Uso vs.consumo del territorio rurale”.
Nel suo intervento in Sala Pegaso Petrini ha affermato di apprezzare la filosofia che ispira il disegno di legge del governo per fermare il consumo di suolo proposto dal ministro per le politiche agricole e forestali Mario Catania, seduto accanto a lui al tavolo regionale. “Se c’è un buon intendimento, non ci si deve lamentare. Questo è il primo ministro che fa qualcosa in questa direzione. Bisogna solo mettere mano ad alcuni aspetti tecnici. Il vero rischio è che il disegno di legge non venga preso in esame ora e che sia rimandato al prossimo governo. Peraltro i candidati alle primarie mi sembrano silenti in tema di agricoltura”.
“Oggi la popolazione contadina – prosegue Petrini – è il 3% e molti hanno più di 60 anni. Bisogna invertire la tendenza, i nuovi contadini devono diventare i nuovi presidi del territorio. Giovani che non vogliono fare la vita grama dei padri, ma che sono consapevoli che la perdita dell’agricoltura è una perdita di coesione sociale e che il rapporto contado-città, nato proprio in Toscana con le botteghe artigiane come terzo elemento costitutivo, è la prima espressione sociale di civiltà. Non dimentichiamoci delle parole di Pasolini che in uno dei suoi Scritti corsari afferma che il giorno in cui questo paese perderà contadini e artigiani non avrà più storia”.
“Dovere primario della politica – dice Petrini rivolgendosi al ministro Catania, al presidente Rossi, agli assessori Marson e Salvadori – è porre l’agricoltura al centro, darsi da fare perché sia una opzione praticabile e promuovere con tutti i mezzi il ritorno alla terra di molti giovani, garantendo una retribuzione adeguata a un lavoro fondamentale che è manutenzione del territorio, prevenzione, salvaguardia della memoria collettiva e cura della bellezza del paesaggio. Non è solo questione di leggi, ma di filosofia, dobbiamo dare ai giovani la prospettiva di un progetto di vita. In questo dobbiamo essere tutti complici”.
2007-2010: più di 3.000 ettari di urbanizzazioni a spese del territorio rurale.
Sono 197.000 gli ettari di superficie urbanizzata del territorio toscano al 2010, pari all’8,53 del territorio regionale che si estende su una superficie di 2.298.869 ettari. Questo in base al monitoraggio sull’uso del suolo effettuato dagli uffici regionali sulla base di una rilevazione condotta secondo le metologie europee del Corine Land Cover, ma con un dettaglio ed una precisione confrontabili con quelli della cartografia regionale in scala 1:10.000.
Dal 2007, con l’obiettivo di reiterare il monitoraggio ogni tre anni, tutto il territorio regionale viene analizzato e classificato per verificarne le variazioni: questo consente di ottenere affidabili statistiche per valutare i trend di modifica del suolo. Sappiamo quindi che al 2010 la superficie agricola è pari a 882. 740 ettari (38,40%), quella boscata è pari a 1.198.257 (52,12%), e quella urbanizzata è di 196.198 ettari (8,53%). Al 2007 la superficie agricola corrispondeva a 885.801 ettari (38,53%), quella boscata era pari a 1.198.630 (52,14%), e quella urbanizzata a 192.926 ettari (8,39%), testimoniando quindi un incremento tra il 2007 e il 2010 di 3.272 ettari di superficie urbanizzata a spese della superficie agricola che infatti è calata di 3.061 ettari. Quella boscata è calata nel triennio di 373 ettari.
Questi sono alcuni dei dati relativi al territorio toscano presentati all’inizio della tavola rotonda “Uso vs.consumo del territorio rurale” che si è svolta oggi nella sede della Presidenza della Regione Toscana. I dati sono ora consultabili anche sul sito della Regione Toscana, alla voce “Territorio”.
La variazione media annua tra il 2007 e il 2010 indica una crescita dell’urbanizzato pari allo 0,047% che corrisponde ad un aumento del consumo medio giornaliero di 2,99 ettari in questi tre anni. Tra il 1954 e il 1978 si attestava sui 4,83 ettari, per salire ai 4.97 ettari di consumo giornaliero nel decennio 1978-88. Tra il 1988 e 1996 la media giornaliera era di 3,42 ettari, e tra il 1996 e il 2007 di 4,19.
Le stime ed i trend per i periodi antecedenti al 2007, e per la precisione relativi agli anni 1954, 1978, 1988, 1996 e 2007, sono stati ricavati con una classificazione di tipo campionario, più rapida e meno costosa, che consente una analisi anche a ritroso nel tempo, sulla base di ortofotocarte disponibili per diversi anni per l’intero territorio regionale.
Presentati anche i dati sull’abbandono del territorio rurale: sono quasi 236 mila gli ettari di superficie agricola utile abbandonati dal 1982 al 2010 in Toscana secondo l’Istat, mentre in base ai dati Artea, più accurati, tra il 2006 e il 2010 si calcola l’abbandono di 95.863 ettari con una media annua più elevata. Si conferma quindi un evidente processo di abbandono dei territori agricoli.
Sono stati anche analizzati i piani strutturali di 143 comuni (pari alla metà circa di quelli toscani e al 37% del territorio regionale) da cui è emerso che le previsioni di consumo di suolo solo in questi comuni sono pari a 48,9 milioni di metri quadri di Sul (superficie utile lorda) cui vanno aggiunte tutte le superfici per le urbanizzazioni e gli standard urbanistici. In queste previsioni solo il 6,5% riguarda il riuso dell’esistente, mentre il 23,3% è destinato a scopo residenziale, il 29,3% a edifici industriali/artigianali e il 3,8% a fini commerciali. Negli strumenti urbanistici comunali il rapporto tra nuovi impegni di suolo e riuso è quindi pesantemente a favore del primo.
Vogliamo costruire democrazie vivaci e partecipate o autoritarismi tecno-consumistici? E che facciamo sul piano delle politiche universitarie, dopo avere lanciato ambiziosi appelli pro-cultura: incoraggiamo la ricerca di base o ci limitiamo a istituire un'ora di simpatica ricreazione aggiuntiva in Humanities nei dipartimenti di economia aziendale e ingegneria, come qualcuno suggerisce? Professionalità o "atmosfera creativa"? La prospettiva cambia: "cultura" è a nostro avviso un elementare diritto di cittadinanza, non l'insieme dei beni di consumo voluttuari riservati a (potenziali) startupper adolescenti. La ricerca non applicativa cade decisamente fuori dall'agenda del Sole 24ore, e con essa i temi dell'equità sociale e delle pari opportunità, che pure la Costituzione riconosce. Spiace. Perché il binomio "cultura e sviluppo" può e deve essere interpretato anche nel senso della crescita civile, in termini dunque che non sono economicistici. "Creare capacità" e "liberarsi dalla dittatura del PIL". Questi gli appelli lanciati da Martha Nussbaum nel suo ultimo libro, e l'argomento è stato riproposto in maniera incessante in tempi recenti. Non possiamo immaginare una società in cui le sole competenze tecnico-economiche decidano della sorte di tutti.
La "platea" e il "Presidente": questi in sintesi gli Stati Generali della Cultura convocati dal Sole 24ore al teatro Eliseo di Roma il 15 novembre. O quantomeno le voci memorabili di un evento concepito come autocelebrazione di un establishment e risoltosi invece (quasi) nel suo contrario. Il "Presidente" è Giorgio Napolitano al netto delle retoriche agiografiche: sul suo intervento, applaudito a lungo, si è già scritto molto. L'inefficienza dell'apparato burocratico desta "vergogna", e occorre rimuovere il pregiudizio anticulturale di questo governo e dei precedenti. No ai tagli lineari, sì a trasferimenti di risorse a scuola, ricerca e tutela del patrimonio. "Mi domando come sia stato possibile, qualche tempo fa", si è chiesto Napolitano volgendosi verso Francesco Profumo "che un oscuro estensore di norme abbia preteso di redigere una norma che prevedeva l'immediata soppressione di dodici istituti di ricerca". Urla e contestazioni hanno interrotto più volte Ornaghi e Profumo. Eravamo tuttavia presenti al Teatro Eliseo: niente tumulti scomposti. Nessuna "antipolitica". Né luoghi comuni. Ma l'indignazione di una platea di ricercatori, intellettuali, insegnanti, attori, artisti, che assistono da decenni al dominio dell'incuria o del saccheggio. Niente più vane parole o cerimoniali autoreferenziali: questo era stato chiesto all'iniziativa del Sole 24ore, che da mesi si muove sul tema con la possessività del monopolista e la rozza efficienza di un esercito di occupazione; e questo è stato preteso. Le voci di dissenso del pubblico hanno ricevuto un sostegno vasto, immediato e inatteso. Voci non solo giovani, anche se in prevalenza tali: early career, outsider, "lavoratori della cultura" e "talenti" cui ci si rivolge oggi da più parti nel desiderio di diffondere nel paese attitudini all’“innovazione" e alla "sfida". Così Corrado Passera, prevedibilmente. L'attuale ministro dello Sviluppo non sembra avere progetti né attenzione specifici per la "cultura" o la ricerca non applicativa ne perla storia dell'arte anche se si sofferma volentieri sul tema dei musei da trasformare in fondazioni. Non devono essergli chiari i rapporti tra "tutela", "valorizzazione" e "gestione", che articola ogni volta invocando risorse private e al tempo stesso affannandosi a rassicurare i sostenitori dell'intervento pubblico. Affascinato dal modello Louvre Abu Dhabi, Passera si muove tra Richard Florida ("classe creativa") e Chris Anderson (i "makers"). Può non essere un torto per un ex-banchiere e amministratore delegato, ma è importante stabilirlo nel momento in cui il ministro «diviene ospite d'obbligo agli incontri dedicati alle politiche del patrimonio (oggi gli "Stati generali della Cultura", ieri "Florens2012"). A nostro avviso è insufficiente (e predatorio) interessarsi a istruzione e tutela solo in termini propedeutici, dal punto di vista delle politiche economiche. Il dibattito sulla "crisi", le deludenti performance dell'economia italiana e il crollo della "Seconda Repubblica" non sembrano avere avviato una riflessione sufficientemente severa sulla classe dirigente: qualità, composizione, processi di reclutamento e selezione. Un economista come Pierluigi Ciocca ha posto di recente una domanda che aspetta una risposta. "Come può un fenomeno complesso quale la crescita economica, che investe l'intera società, non dipendere anche da variabili metaeconomiche? Cultura, istituzioni, politica influiscono sulla crescita". Nelle proposte confindustriali di riforma delle politiche educative incontriamo esortazioni o desiderata quantomai generici ("banda larga", "infrastruttura sociale" nel senso di mutualismo e charity, "legalità") che non pongono in discussione autoinvestiture, presunzioni di "eccellenza", atteggiamenti esclusivi.
Tra le difficoltà del Paese c'è la scarsa cooperazione tra competenze. Cerchie accademiche, finanziarie e industriali coabitano le une accanto alle altre nell'arrogante convinzione di ospitare ciascuna le risorse migliori, come in monopolio. Avremmo bisogno di tutt'altro. La scarsa cultura del ceto imprenditoriale italiano è un ostacolo formidabile alla competitività del sistema industriale. Nelle parole di Fabrizio Barca, anche lui all'Eliseo: "quello dell'istruzione, in Italia, è un insuccesso che si riflette sulla capacità delle persone di trovare occupazione, sulla capacità dei lavoratori di interagire con il lavoro più specializzato, sulla capacità degli imprenditori di concettualizzare le proprie intuizioni produttive". Ignoriamo quali conseguenze potrà avere l'appuntamento romano, preceduto dalla diffusione a stampa di un indice di proposte formulata da Pier Luigi Sacco (critico nei confronti del "made in Italy" ossessivamente celebrato da imprenditori alla Montezemolo e dagli aedi degli "antichi mestieri"). Certo gli "Stati Generali" hanno colpito duramente la reputazione di alcuni tra politici e intellettuali invitati. Le rudi maniere del direttore del Sole, designato a coordinare la tavola rotonda, hanno tacitato i più esornativi testimonial dell'evento, Carlo Ossola e Andrea Carandini, stupefatti per il trattamento riservato. A infrangere definitivamente il cerimoniale hanno poi pensato le contestazioni ai ministri "culturali". Tra le proposte avanzate da Sacco incontrerà forse maggiore favore quella mirata a creare un'agenzia per l'export a sostegno delle "industrie creative" nazionali. Una recente ricerca, coordinata dalla Fondazione Symbola, ha rilevato le difficoltà, per le industrie culturali, di inserirsi sul piano internazionale: finanziamento, infrastruttura, lingua. Proprio su questo ci permettiamo di offrire un suggerimento. Va bene il "made in Italy", vanno bene moda, design, food, architettura. Ma perché non prevedere specifiche misure a beneficio della ricerca accademica e non, sollecitando incentivi editoriali alla traduzione in lingua inglese della saggistica e della narrativa italiane? O trasformando gli Istituti italiani di cultura all'estero in sedi qualificate perla promozione dei migliori tra gli artisti più giovani (adesso non lo sono affatto)? Le retoriche dominanti che accompagnano il processo di valutazione della ricerca universitaria attualmente in corso insistono (nel modo spesso più velleitario e subalterno) sulla necessità di "internazionalizzare" gli studi. Con opportune politiche culturali e minimo impegno finanziario potremmo creare una lieve infrastruttura globale a supporto di “cultural heritage", autodisciplina e "talento".
Un progetto di cui si parla da oltre vent’anni, che oggi ha subito un’accelerazione. Manca ancora, però, il piano economico e finanziario, e i flussi di traffico attesi sono modesti: per questo comitati e associazioni ambientaliste si battono contro la cementificazione di alcune delle aree agricole più fertili d’Italia, quelle del Polesine. Altreconomia li ha incontrati, muovendosi sul tracciato della nuova autostrada per realizzare un reportage fotografico pubblicato sul numero di novembre della rivista.
Qui il video reportage.
E qui il reportage geo-localizzato lungo la Orte-Mestre.
La Repubblica Milano, 24 novembre 2012 (f.b.)
SONO i sette Comuni del cemento. Sette centri della provincia aggrappati ai confini del Parco Sud, il polmone verde di Milano, dove sono stati approvati — o sono in via di approvazione — i nuovi Pgt, piani di governo del territorio, a maggior impatto ambientale. Gorgonzola, Segrate, Melegnano, Rozzano, Cologno Monzese, Basiglio, Opera. È il cemento che passa dalla porta principale, ovvero i regolamenti comunali che, in questi casi, forniscono licenze di edificazione per milioni di metri quadri di suolo agricolo. Tutto rientra nelle regole: i Pgt vengono redatti sulla base di un aumento di popolazione previsto per i prossimi 5-10 anni e non intaccano le aree del Parco Sud. In compenso però lo assediano, dando il via libera alle edificazioni nelle aree agricole rimaste nei dintorni. Come succede a Gorgonzola, dove l’impatto che rischia di avere l’applicazione delle nuove regole è impressionante: qui i campi della fascia nord, circa 1,6 milioni di metri quadri di verde, potrebbero scomparire.
Secondo le associazioni ambientaliste questi piani non rispondono a esigenze abitative reali. Anche perché spesso si basano su prospettive di crescita che non si reggono su dati statistici e demografici, ma danno comunque un “alibi” ai costruttori per edificare sul verde. Su questo Segrate vanta un record. Qui, il Comune — in funzione di una crescita pari a 15mila abitanti nei prossimi anni (ora sono meno di 35mila) — ha approvato un piano che prevede il consumo di 162 ettari di suolo, di cui 106 di spazi agricoli. «A questi — spiega Paolo Micheli, della lista civica di sinistra Segrate Nostra — si vanno ad aggiungere i 141 dei piani di intervento integrati approvati prima del Pgt. In pratica è stato reso edificabile tutto ciò che di verde era rimasto a Segrate ».
Qualcosa di simile accade a Rozzano, dove una delle cose che ha fatto infuriare i comitati anti-Pgt è il numero di nuovi abitanti previsto: 14.500 persone in più, praticamente una seconda città visto che in quella attuale ne risiedono 41mila. Non solo. Un’altra delle stranezze, sempre a Rozzano, riguarda i volumi previsti: in un’area di poco più di 500mila metri quadri le volumetrie residenziali e terziarie da realizzare sono pari a qualcosa come nove Pirelloni. «Un’assurdità — secondo Adriana Andò del comitato “Occhi Aperti” — vogliono toglierci i campi sportivi e distruggere il verde superstite ».
In molti puntano il dito contro le amministrazioni comunali, accusando i sindaci di guardare agli oneri di urbanizzazione e alla vendita di terreni per sistemare i bilanci. «Ma le cose non stanno così — spiega il sindaco di Rozzano Massimo D’Avolio, del Pd — perché sappiamo bene
quali siano le situazioni del mercato immobiliare oggi. Non si possono fare bilanci sulla base di previsioni inesistenti». In molti casi (come appunto a Rozzano) si tratta di spazi già in mano ai privati che, nel tempo, hanno acquisito diritti su queste aree. «Il diritto privato equivale a quello pubblico — sottolinea D’Avolio — e non si può pensare di retrocedere ». Qualcosa del genere devono aver pensato anche gli amministratori di Melegnano, dove il Pgt ha previsto la trasformazione di un territorio agricolo di 400mila metri quadri, diviso in due terreni che finora fanno da “cuscinetto verde” tra città e autostrada. Una delle due aree è proprietà della San Carlo e da anni si parla di trasferire lì un sito produttivo dell’azienda.
Risposte diverse alle richieste dei privati potrebbero arrivare seguendo altre strade. Ne è convinto Sergio Cannavò, di Legambiente: «Prima di dare la disponibilità per edificare su suolo libero - dice - bisognerebbe valutare quanto ci sia in giro di dismesso, invenduto e sfitto». Prospettiva lungimirante, ma rara da incontrare. Nulla del genere si è visto a Basiglio, ad esempio, dove il piano ha previsto un consumo di suolo di 308mila metri quadri a fronte di un presunto aumento della popolazione del 35 per cento. «Chiunque abiti qui ha notato negli ultimi anni un aumento del numero di case vuote — spiega l’avvocato Alvise Rebuffi del Comitato Cittadino “Basitos” — inoltre le recenti iniziative immobiliari non hanno avuto fortuna a causa dell’assenza di domanda.
Su che basi è stato previsto un aumento della popolazione così importante?». I cittadini di Basiglio stanno dando battaglia e hanno raccolto le firme per un referendum consultivo.
Non sono gli unici ad essersi ribellati. A Opera il Pgt (non ancora approvato) prevede la trasformazione di quasi 300mila metri quadrati agricoli in terreno edificabile. Il tempo per presentare le osservazioni stringe, i consiglieri d’opposizione hanno dichiarato guerra al piano: «Una colata di cemento sta per abbattersi sul nostro Comune — dice Francesco Cavallone, del Pd — è uno scempio che l’amministrazione guidata dal leghista Fusco sta cercando di perpetrare in nome di interessi che non sembrano quelli dei cittadini operesi». Ma non è solo una questione di colori politici. A Cologno Monzese, infatti, tra i più arrabbiati contro il nuovo Pgt — 330mila metri quadrati di aree residenziali in arrivo — c’è proprio il Carroccio. «Quest’estate sono andata a vedermi i luoghi in bicicletta — racconta Daria Perego, segretaria cittadina della Lega Nord che si è battuta contro l’adozione del piano — sono gli ultimi fazzoletti di verde rimasti a Cologno, non possiamo perderli. Sarà durissima impedire l’approvazione del Pgt, ma ci batteremo fino all’ultimo».
Intervistato da Luca Aterini, il noto sociologo espone i motivi per cui l’approccio del governo alla crisi è inadeguato: ci vuole un vero e proprio New Deal. Greenport 23 novembre 2012
Gli ultimi dati Istat rivelano per l'Italia un tasso di disoccupazione record, registrato al 10,8% (35% negli under25): ufficialmente, sono 2,8 milioni gli italiani senza un lavoro. Un incremento del 25% in 12 mesi, e il peggior dato da 20 anni. E le previsioni per il 2013 sono ancora più nere. Nel frattempo, ampie parti del Paese crollano sotto il peso crescente del dissesto idrogeologico e della mancanza di cure per il fragile territorio dello Stivale. Molto fragile: nella Toscana Felix la percentuale di comuni a rischio idrogeologico raggiunge addirittura il 98%, e le ultime alluvioni hanno dato ampia e triste prova di cosa questo significhi. Il territorio devastato appare uno specchio del tessuto sociale italiano che si disfa, sotto i colpi pesanti di una crisi economica che continua da troppo tempo. Né la cronica disoccupazione né la mancanza di prevenzione e tutela del territorio (davanti al mutevole scenario dettato dal cambiamento climatico) sono fatalità ineluttabili. È nostro dovere prendere coscienza di questa realtà, e agire di conseguenza per porvi rimedio. Come?
Il sociologo Luciano Gallino ha qualcosa da dire, in merito.
Ritiene lecito affermare che le conseguenze delle bombe d'acqua che hanno colpito l'Italia e l'aumento del termometro della disoccupazione siano legati da uno stesso filo rosso? Quello dell'inazione, della mancanza di pianificazione.
«Le alluvioni che hanno recentemente colpito il nostro Paese sono in parte un risvolto del cambiamento climatico, che ne aumenta frequenza e intensità. Non dobbiamo dimenticare che questo fenomeno dipende anche dalla nostra attività economica, con l'immissione in atmosfera di gas climalteranti. A loro volta, le conseguenze delle alluvioni sono amplificate dalle mancate contromisure: non abbiamo agito per tutelare il nostro territorio dal dissesto idrogeologico, spingendoci spesso in tutt'altra direzione. E anche per quanto riguarda la disoccupazione, non abbiamo messo in campo politiche efficaci per contrastarla».
Un grosso aiuto, per tentare di dare una riposta ad entrambi i problemi, potrebbe essere comune. Mi riferisco alla sua proposta di un'Agenzia per l'occupazione, lanciata ormai mesi fa. Potrebbe riassumerne le fondamenta, e i costi?
«Quella di un'agenzia per l'occupazione è una proposta che fa riferimento ad una vasta letteratura e a precedenti concretamente realizzati, come negli Stati Uniti durante il New Deal, quando tre agenzie statali - la Federal emergency relief administration, la Civil works administration e la Works progress administration - riuscirono a creare molti milioni di posti di lavoro. Nel contesto in cui ci troviamo, raggiungere numeri enormi sarebbe impossibile, ma creare 1 milione di nuovi posti di lavoro sarebbe l'obiettivo minimo a cui tendere.
Tramite un'agenzia per l'occupazione, declinata in vari centri a livello degli enti locali, lo Stato dovrebbe assumere direttamente disoccupati e precari, impiegandoli nei molti lavori ad alta intensità di lavoro - anche qualificato - di cui il nostro Paese ha bisogno. Tra questi sarebbero sicuramente da annoverare interventi per il riassetto idrogeologico del territorio, ma anche quelli inerenti la ristrutturazione dell'edilizia scolastica, o della tutela dei beni culturali, spesso abbandonati in modo delittuoso, e altri ancora.
A proposito dei costi, l'agenzia dovrebbe offrire un salario medio, e comprendere il costo dei contributi sociali. Ipotizzando una cifra pari a 25mila euro a occupato, per un milione di disoccupati avremmo un totale di 25 miliardi. Questa cifra non sarebbe però un costo, ma creerebbe anzi ricchezza: andrebbe nelle tasche di cittadini altrimenti disoccupati, intervenendo a favore della loro capacità di spesa e dunque alleviando quel deficit di domanda che è il grande freno a fermare la ripresa dalla crisi economica. Inoltre, molte aziende private sarebbero felici di partecipare dei costi, assumendo una parte dei disoccupati a fronte del pagamento di una parte dello stipendio da parte dello Stato. Un ulteriore risparmio verrebbe poi, ad esempio, dalla cessazione dei sussidi di disoccupazione per i neoassunti».
I detrattori sarebbero pronti a ribattere: non ci sono i soldi per realizzarla; non possiamo, abbiamo firmato il fiscal compact richiesto dai nostri partner europei; lo Stato non può assumersi un tale ruolo ed è già un datore di lavoro, spesso cattivo. Cosa risponderebbe loro?
«Innanzitutto, che la firma del fiscal compact è stata una forma di suicidio economico, e si rivelerà inattuabile. Per rispettarne i dettami, dovremmo portare avanti tagli alla spesa pubblica enormemente maggiori rispetto agli attuali (per i quali comunque già si parla di lacrime e sangue), nell'ordine dei 50 miliardi di euro l'anno. Soltanto prospettando per l'Italia un futuro di miseria nei prossimi 20 o 30 anni saremmo forse in grado di farvi fronte.
Riguardo il resto delle obiezioni, rispondo che l'ostacolo più serio all'implementazione di un'agenzia per l'occupazione non sono i fondi, ma le idee attualmente dominanti degli economisti e assimilate da nove politici su dieci. La visione neoliberista dell'economia e delle risposte alla crisi è un'ideologia - quella dell'affamare la bestia, lo Stato, per allargare i margini dell'interesse privato - è una visione del mondo che non ammette risposte alternative. Le risorse economiche, al contrario, volendo si potrebbero trovare. Con più di 7 milioni di persone che non hanno uno stipendio o lo hanno troppo basso e precario, in Italia, crede che sia opportuno acquistare 90 cacciabombardieri F35, per una spesa di circa 15 miliardi di euro? Oppure investire una cifra che oscilla attorno ai 20 miliardi di euro per ridurre di mezz'ora il tempo di percorrenza Torino-Lione, realizzando la Tav? Non sono questi gli interventi di cui ha bisogno il Paese».
La sua proposta per sanare almeno in parte la ferita economica e sociale della disoccupazione sembra molto distante da un'altra ipotesi molto in voga di questi tempi, la flexicurity rilanciata da Pietro Ichino e Matteo Renzi...
«Direi che si tratta di cose completamente diverse tra loro. È necessario concentrasi sulla difesa del lavoro, non del singolo posto di lavoro. Ma le politiche attive per l'occupazione proposte sono paragonabili ad una corsa di una folla di persone alla caccia di un posto a sedere su di un aeroplano che ha una capienza di cento posti. Se ad attendere al gate ci sono cinquecento persone, si promette un posto di lavoro solo ai primi cento. Gli altri rimangono a terra, non si crea nuovo lavoro».
Secondo l'Ilo, il passaggio verso una economia più verde potrebbe generare tra i 15 e i 60 milioni di nuovi posti di lavoro nel mondo nei prossimi vent'anni. Lasciarci la crisi alle spalle riconvertendo in chiave ecologica l'economia: condivide questa prospettiva?
«Dipende a quale economia verde si fa riferimento. Fare riferimento a pannelli fotovoltaici e pale eoliche, piuttosto che ad altro, non è un grande passo avanti se le dimensioni energivore della nostra economia rimangono immutate. Lo stesso vale per le risorse materiali, oltre che energetiche. Oltre al nostro, non abbiamo un altro pianeta dal quale attingerne. Non auspico certo una vita ascetica o di rinunce, ma credo che la riconversione ecologica dell'economia debba mettere al centro la riduzione dei consumi per spostare l'attenzione sulla qualità della vita. È impensabile sperare di tornare a produrre e consumare come in passato. Abbiamo davvero bisogno della moltitudine di beni non durevoli - come un telefonino da cambiare dopo pochi mesi dall'acquisto - o di suppellettili dai quali siamo circondati?
Un'inversione di rotta in questo campo presuppone una chiara scelta politica, ma non vedo in giro politici che abbiano il coraggio di farsene carico. Anche i cittadini hanno le loro responsabilità in merito, certo, ma occorre osservare come vengano spesi 600 miliardi di dollari l'anno in pubblicità, per indurre bisogni che probabilmente altrimenti non sarebbero percepiti come tali».
Per perseguire questo obiettivo sono necessarie chiare scelte politiche. Nel frattempo, qualcos'altro cresce senza controllo: nonostante la crisi, il Financial stability board riferisce che - dati 2011 - il sistema bancario ombra vale ormai 67mila miliardi di dollari, con un +6mila miliardi l'anno. È ancora possibile controllare la finanza?
«È un obiettivo fondamentale da perseguire. Non è il primo rapporto che il Financial stability board pubblica su questi toni, ma arriva comunque molto in ritardo. Dall'inizio della crisi, ancora non è stata portata avanti alcuna vera riforma del sistema finanziario. Sono statti compiuti dei tentativi, come nel 2010 negli Usa, col Dodd-Frank Act. Un progetto che si è rivelato eccessivamente farraginoso, e si è arenato. Per non lasciarci andare completamente ad un nero pessimismo, possiamo dire anche in Europa qualche passo avanti è stato compiuto, ma è ancora troppo poco. Alla progressiva liberalizzazione del sistema finanziario ha contribuito la politica stessa a partire dagli '80, e adesso una forte attività di lobbying neoliberale - dalla produzione di think tank fino a pressioni vere e proprie - combatte strenuamente qualsiasi riforma».
Dal Manifesto per un soggetto politico nuovo a Cambiare si può - che si riunirà il 1° dicembre - passando per A.l.b.a.: c'è la volontà di costruire una proposta politica che si cristallizzi attorno a questi temi?
«Nell'appello Cambiare si può! Noi ci siamo si ritrovano molti elementi fatti propri da A.l.b.a. Dopotutto, molte le firme che hanno aderito all'uno si ritrovano anche nell'altra. A.l.b.a. si configura però come una proposta politica per il futuro, con un orizzonte a lungo termine. "Cambiare si può" guarda ad una lista civica per le prossime elezioni politiche, che si terranno tra pochi mesi. È una prospettiva difficile, ma penso che entrambe queste realtà portino avanti una proposta - confrontata col documento programmatico del Pd, ma anche con quegli elementi fatti propri dal Movimento 5 Stelle - più attenta ai problemi reali del Paese e, se posso dirlo, anche più di sinistra. L'appello ha già registrato migliaia di firme: il 1° dicembre si terrà la prima Assemblea nazionale, al teatro Vittoria di Roma. Vedremo come andrà, ma sono convinto che ci sarà un'adesione importante, soprattutto da parte dei giovani».
La Repubblica, 23 novembre 2012
MILANO — “Per una stagione costituzionale”. Con questa parola d’ordine Libertà e Giustizia chiama i cittadini, non solo milanesi, alla grande manifestazione di sabato, dalle 14,30, al Mediolanum Forum di Assago. Si attendono migliaia di persone, grazie anche all’arrivo di pullman organizzati dai circoli di tutta Italia. Sul palco numerosissimi gli interventi eccellenti che si alterneranno. Oltre a Gustavo Zagrebelsky, che illustrerà i temi del manifesto che vede proprio nella nostra Costituzione lo strumento fondamentale per ritrovare l’entusiasmo politico e uscire dalla crisi, prenderanno la parola intellettuali, scrittori, docenti universitari, sindacalisti, giornalisti ed esponenti della società civile. Il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, porterà il saluto della città.
Tra gli altri prenderanno la parola Umberto Eco, Roberto Saviano, Salvatore Settis, Paul Ginsborg, Maurizio Landini, don Virginio Colmegna, Nando Dalla Chiesa, Gad Lerner, Roberto Natale, Simona Peverelli. Previsto anche un contributo di Moni Ovadia. Mentre in collegamento da Palermo interverranno Serena Dandini e Lella Costa, impegnate in una manifestazione contro la violenza sulle donne. Ad aprire il dibattito Sandra Bonsanti, presidente di Libertà e Giustizia: «Con questa manifestazione vogliamo rivolgerci a tutti i cittadini e lanciare una sorta di ultimo appello ai partiti: ripartiamo dai principi fondamentali contenuti nella nostra carta costituzionale se vogliamo contrastare quella immensa ingiustizia che è la nuova lotta di casta, a parti invertite, non degli sfruttati contro gli sfruttatori, ma degli sfruttatori contro gli sfruttati ».
«Dove appoggiarsi per uscire dal pantano, per suscitare coraggio, energie, entusiasmo in un momento di depressione politica come quello che viviamo? - si chiede Zagrebelsky. - Dove trovare l’ideale di una società più giusta? E’ sorprendente che non si pensi che questo ideale, questo punto d’appoggio c’è, ed è la Costituzione. Invece, ancora una volta, come da trent’anni e più a questa parte, si ripete la stanca litania della prossima stagione come “stagione costituente”. Costituente di che cosa? Volete dire, di grazia, che cosa volete costituire? Il nostro Paese avrebbe bisogno piuttosto di una “stagione costituzionale” e chi facesse sua questa parola d’ordine compirebbe un atto che metterebbe in moto fatti, a loro volta produttivi di idee, anzi di ideali». Nella Costituzione sono contenute, secondo gli organizzatori della manifestazione, le tracce delle risposte ai nostri maggiori problemi di oggi. Dal lavoro come diritto a fondamento della vita sociale, ai diritti civili, all’istruzione attraverso la scuola pubblica, all’informazione come diritto dei cittadini.
Corriere della Sera Milano, 23 novembre 2012 (f.b.)
Quando ho letto due opinioni dell'ad Giuseppe Sala: la prima, che «Expo può essere l'occasione per realizzare un sistema che consenta di riqualificare il paesaggio e l'ambiente riscoprendo la vocazione di Milano e del suo circondario come città dell'acqua»; la seconda che «tecnicamente, la riapertura di una parte dei Navigli non è impossibile», mi si è allargato il cuore.
Non ho un'età che mi consenta di ricordare com'era Milano coi navigli aperti ma ho recentemente visitato le Gallerie d'Italia nei locali della ex Banca Commerciale Italiana, ora Intesa SanPaolo, dove quella Milano è così suggestivamente rappresentata nelle opere dei suoi pittori. Ricordo d'altra parte che il 12 e 13 giugno 2011 i milanesi hanno votato plebiscitariamente 5 referendum che ora impegnano il Comune di Milano, socio fondatore di Expo spa, che ha istituito un'apposita Consulta per il loro monitoraggio, a dare attuazione con atti concreti alle domande referendarie di intervento. Il quinto di questi quesiti (94,32 per cento di favorevoli) chiedeva appunto ai cittadini: «Volete voi che il Comune di Milano provveda alla risistemazione della Darsena quale porto della città ed area ecologica e proceda gradualmente alla riattivazione idraulica e paesaggistica del sistema dei Navigli milanesi sulla base di uno specifico percorso progettuale di fattibilità?».
Expo era chiamata in causa da un altro referendum, il terzo, che collegava il parco di Expo «al sistema delle aree verdi e delle acque». Penso che il progetto illustrato da Sala sia dunque un primo passo, collegato al piano della Darsena, per raggiungere un obiettivo così ambizioso e caro ai milanesi. Si parla di 160 milioni (175 erano quelli deliberati dalla giunta regionale, ma comprendevano la Darsena) che non vediamo ancora interamente impegnati nel progetto, che di vie ex novo prevede solo il canale seminterrato «Via d'acqua» che circonda l'area espositiva collegando il canale Villoresi a nord col Naviglio Grande a sud con un flusso di 2-2,5 mc/sec. D'altra parte nessuno può pensare che il retaggio che Expo lascerà a Milano e alla Lombardia si riduca a un semplice canale, pur importante, ma non navigabile, di collegamento fra vie d'acqua esistenti.
Qui si innesta tutta una discussione se Expo debba contribuire o quantomeno favorire la costruzione della via navigabile Locarno-Milano-Venezia (via Malpensa), per la quale stanno già investendo anche la Regione Piemonte e Cantoni svizzeri. In altre parole sarebbe importante che l'occasione di Expo 2015 fosse colta per l'esecuzione di opere che siano compatibili con questo grande progetto, incluso fra le promozioni di iniziativa comunitaria. Secondo uno studio commissionato dall'Istituto di management turistico di Bellinzona, questa realizzazione potrebbe portare a un giro d'affari di oltre 600.000 euro l'anno col transito di oltre 7.000 passeggeri per stagione. Da non buttare.
Il candidato di sinistra alle elezioni a sindaco della capitale e le sue ragioni contro la chiusura dell’anello autostradale occidentale. Il manifesto, 23 novembre 2012, postilla (f.b.)
La domanda è: meglio ridurre di qualche minuto la percorrenza di traffico merci e viabilità automobilistica, oppure salvaguardare le riserve naturali, i pascoli, i reperti archeologici, i vigneti, insomma il paesaggio e l'agricoltura? Va da sé che, dietro quest'interrogativo ce ne siano altri, più strutturali, più strategici. La nostra economia deve continuare a puntare sul modello «pesante», incardinato nel circuito produzione-distribuzione-consumo, oppure valorizzare uno sviluppo locale "leggero", legato alle coltivazioni di pregio, all'ambiente, alla cultura? Gli investimenti pubblici vanno impiegati per realizzare grandi opere che garantiscono grandi appalti per grandi imprese, oppure è preferibile che salvaguardino il territorio, attraverso sostegni all'agricoltura e finanziamento di progetti culturali, oltreché programmi di risanamento ambientale e manutenzione del suolo?
Aspettate a rispondere. Proviamo a entrare nel merito raccontando una storia che esemplifica con chiarezza i quesiti di cui sopra. Si tratta del raccordo autostradale che dovrebbe collegare l'A12 Roma-Fiumicino Civitavecchia (Genova) con l'A1 Milano-Napoli. Una grande infrastruttura a otto corsie e a pedaggio, decisa e confermata dai vari governi che si sono succeduti dal 2004 in poi, che in sostanza raddoppierebbe il Grande raccordo anulare di Roma nel quadrante sud-ovest/sud-est, consentendo di far risparmiare una manciata di minuti (19 circa) ai mezzi che transitano sul versante tirrenico del paese. L'opera è stata sostanzialmente progettata e attualmente viaggia sui tavoli di quella liturgia farraginosa e dispersiva che si chiama conferenza dei servizi, dove tutti gli enti pubblici investiti dal processo attuativo hanno l'obbligo di esprimersi. E in quest'ambito, a parte qualche perplessità, l'unico parere contrario è stato quello della Provincia di Roma.
Ma il dissenso è molto più vasto e comincia a organizzarsi in comitati e associazioni sempre più combattivi, che organizzano riunioni, assemblee, manifestazioni di protesta. Ad affiancarli, i partiti della sinistra (Verdi, Sel, Federazione della sinistra) e le stesse centrali ambientaliste (Italia nostra, Legambiente, ecc.). Un dissenso che comincia a contagiare le stesse amministrazioni locali: ovviamente non il Comune di Gianni Alemanno né la Regione dell'imbalsamata Renata Polverini, ma tutti i comuni dei Castelli romani e i Municipi romani attraversati dal tracciato autostradale. Per contrastare o anche semplicemente condizionare questa progettazione, è stato costituito qualche giorno fa un coordinamento metropolitano che raccoglie gli enti locali di Frascati, Grottaferrata, Marino, Montecompatri, Ciampino, Gallicano, Zagarolo e Monte Porzio Catone, oltre ai quattro Municipi di bordo, VIII, X, XI, XII.
Quel che si sta profilando è insomma un conflitto territoriale tra una pianificazione infrastrutturale definita strategica e gli interessi (e i bisogni) delle comunità locali. Percorriamo allora la traiettoria autostradale e vediamo più in dettaglio quali siano questi interessi (e bisogni) locali.
Uscendo dalla A12 ci si ritrova subito in un'area delicatissima, quella della Riserva del litorale romano, che è un esile consolidato appena al di sopra (circa due metri) dal livello del mare; fino a qualche decennio lì fa il Tevere scorreva lungo un'ampia ansa, che si decise di ricoprire con enormi quantità di terra di riporto. Attualmente vi operano tre aziende che allevano una pecora assai pregiata, oltreché protetta, la sopravvissana: un animale prezioso perché dal suo latte si ricavano due prodotti tipici, la ricotta e il pecorino romano, entrambi garantiti da una Dop. La nuova autostrada dovrebbe dunque «galleggiare» su una terra spugnosa e spezzare irrimediabilmente un ciclo produttivo d'eccellenza.
Andiamo avanti. Il transito prosegue e incontra la Riserva di Decima Malafede, che è un territorio sostanzialmente incontaminato, un pezzo di agro romano ancora integro. Anche qui, le ricadute ambientali ed economiche sarebbero dannosissime e strazianti.
Si arriva così ai confini del Parco archeologico dell'Appia antica, che è un meraviglioso patrimonio bio-culturale, dove la storia e la natura hanno depositato un paesaggio incantato: quel paesaggio che con i suoi acquedotti romani, le ville patrizie, i boschi e i pascoli ipnotizzò sentimentalmente Wolfgang Goethe. La superficie del parco verrebbe tuttavia risparmiata grazie a un'interminabile galleria che affiorerebbe solo dopo aver superato Ciampino e il suo aeroporto e il quartiere romano di Morena. Peccato che, appena emersa, con uno spericolato svincolo, l'opera si ritroverebbe in un grumo urbano tra i più densi e urbanisticamente compromessi, tra le vie Tuscolana e Anagnina. Come sia possibile districarsi in quel fritto misto urbano, tra borgate ex abusive, piani di zona e capannoni industriali, è davvero un mistero.
Da qui in poi, il progetto prevede una lenta salita a mezza costa sui Colli Albani, transitando per i territori dei diversi comuni che si affacciano sulla capitale, e così squarciando grossolanamente il millenario profilo dei Castelli romani, un paesaggio universalmente consolidato nel nostro immaginario, generazione dopo generazione. Ma il peggio è che nel suo incedere sempre più invasivo, l'autostrada calpesterà e contaminerà i filari della malvasia puntinata, la preziosissima uva che da millenni ci regala uno dei vini più buoni d'Italia: il Frascati, prossimo a ricevere, primo bianco italiano, la Docg. Per la produzione vinicola, una vera e propria catastrofe.
Per concludere, torniamo alla domanda iniziale. È più importante salvaguardare la pecora sopravvissana e il suo pecorino, la malvasia puntinata e il Frascati, l'agro romano e gli antichi acquedotti, i parchi archeologici e le riserve naturali, oppure continuare a consumare la nostra vita tra asfalti, cementi ed emissioni inquinanti, alimentando desideri su merci sempre meno desiderabili e in fondo non più necessarie?
Postilla
È incredibile come la sensibilità collettiva, figuriamoci quella ingegneristica che pare dominante (oltre a quella speculativa) nelle decisioni, subiscano l’automatismo meccanico della chiusura del cerchio. C’è la città col suo nucleo, che si deve espandere perché sua ragion d’essere è la conquista dello spazio, l’ammaestramento della natura ai propri fini, e man mano si espande un po’ come il sasso nello stagno genera inesorabile i suoi anelli stradali. Da generazioni spontaneamente ci immaginiamo così la faccenda, e onestamente ci vuole un po’ di ragionamento per capire l’assurdità del tutto. Noi dentro la natura ci stiamo, e comportarci come il sasso nello stagno è una strategia scema che non ci porta da nessuna parte: prima ragionare, poi agire. Fa quindi benissimo Sandro Medici a dirci fermiamoci a riflettere. Come del resto si fa e si dovrebbe fare ovunque: dalle distorsioni della London Orbital pur attentamente pianificata da Abercrombie a metà ‘900 e ben raccontate da Iain Sinclair, ai meccanicismi nostrani di piccoli orrori come il cosiddetto Terzo Ponte sul Po a Cremona, ai casi di città grandi e piccole che pur di adempiere al rito automatico dell’anello si immaginano rinunciabili, incredibili e costosissime opere sotterranee o a scavalcare ostacoli inenarrabili. Una sfida tecnica al buon senso, si potrebbe quasi sempre dire. Ma in tutto questo bel ragionare logica vuole che esista anche un immancabile rovescio della medaglia, di cui involontariamente anche Medici si fa portatore fin dall’incipit dell’articolo: ha senso contrapporre il buon sapore del pecorino alla puzza degli scarichi? Certo, con argomenti del genere magari nella nostra alba del terzo millennio si trovano più consensi, ma di che consensi si tratta, in fondo? Progettare la nostra vita sulla terra in modo più rispettoso della terra stessa, è un percorso che possiamo affrontare con spirito progressista, oppure no. Non dimentichiamoci per esempio, in certi automatismi di rifiuto della modernità meccanica e devastante, che il profeta italiano del fondamentale Design With Nature di Ian McHarg è tale Gilberto Oneto. Paesaggista di prestigio, ma anche direttore di Studi Padani e reazionario Doc alla Borghezio (f.b.)
La città autoritaria dell’automobile coatta, degli schermi televisivi familiari e dei tempi di lavoro e riposo programmati. "The Pedestrian", un inquietante racconto dello scrittore appena scomparso, nella bella traduzione di Carlo Fruttero
Entrare in quel silenzio che era la città alle otto di un'opaca sera di novembre, sentire sotto le suole quei riquadri di cemento raggrinzito, calpestare l'erba cresciuta fra gli interstizi e aprirsi un varco, con le mani in tasca, in mezzo ai silenzi: era questo che il signor Leonard Mead amava fare sopra ogni altra cosa. Si fermava al primo crocicchio e scrutava i lunari corridoi dei marciapiedi nelle quattro direzioni, come se sceglierne una piuttosto che un'altra facesse qualche differenza. Poi, presa la decisione e stabilito l'itinerario, tornava ad avviarsi, spingendo davanti a sé, come fumo di sigaro, volute d'aria gelida.
A volte continuava a camminare per ore e ore, per miglia e miglia, e tornava a casa dopo mezzanotte. E lungo tutta la strada, lungo case e villini dalle finestre buie, era come camminare in un cimitero: con fiochi barlumi di lucciole che baluginavano di quando in quando dietro un vetro; con improvvisi fantasmi grigi che sembravano talvolta manifestarsi sui muri interni delle stanze, là dove una tenda non era stata tirata contro la notte; o con sussurri e mormorii che talvolta giungevano fino a lui, là dove una finestra, in uno dei tanti funerei edifici, era rimasta aperta.
Il signor Leonard Mead si fermava, piegava il capo, ascoltava, guardava, e si rimetteva in cammino. Il suo passo, sulle lastre di cemento incrinate e sconnesse, era perfettamente silenzioso; perché, saggiamente, già da molto tempo s'era deciso a portare scarpe con la suola di gomma, per le sue passeggiate notturne: altrimenti i cani avrebbero abbaiato parallelamente a tutto il suo viaggio, e luci si sarebbero accese di colpo, facce sarebbero apparse alle finestre, finché tutta la strada si sarebbe ridestata al passaggio di una figura solitaria, lui, in una sera di novembre.
Quella sera Leonard Mead si avviò verso la parte occidentale della città, verso il mare invisibile. C'era nell'aria il presagio cristallino del gelo; pungeva la pelle e, dentro, incendiava i polmoni come un albero di Natale; a ogni respiro, si sentiva la luce fredda accendersi e spegnersi, tutti i rami carichi d'invisibile neve. Rallegrato dai tonfi lievi delle scarpe sulle foglie d'autunno, Leonard Mead prese a fischiettare tra i denti un motivo sommesso, liscio, curvandosi ogni tanto a raccogliere una foglia, esaminando, ripresa la marcia, la sua trama scheletrica alla luce degli infrequenti lampioni, fiutandone l'odore rugginoso.
— Vi saluto, — sussurrava davanti a ogni casa, a destra e a sinistra. — Che c'è di bello stasera sul Quarto Canale, sul Settimo Canale, sul Nono Canale? Dove galoppano i cow boys? È forse la cavalleria degli Stati Uniti che viene alla riscossa, quella nube di polvere sull'altra collina?
La via era silenziosa e lunga e deserta, la sua ombra era l'unica cosa che si muovesse, come l'ombra di un falco sulla pianura. Se chiudeva gli occhi tenendosi perfettamente immobile, impietrito, riusciva a immaginarsi al centro di un'immensa distesa piatta, un arido deserto senza vento e senza una casa nel raggio di mille miglia, con l'unica compagnia di tortuosi fiumi disseccati: le strade.
— Che programma c'è a quest'ora? — chiese alle case, guardando l'orologio. — Le otto e mezzo. È l'ora di mezza dozzina di delitti assortiti? O dei quiz? O di un varietà musicale? O di una scenetta comica?
Era un mormorio di risate quello che usciva da una delle casette bianche di luna? Esitò un istante, ma poi riprese il cammino quando vide che nulla accadeva. Inciampò in un tratto di marciapiedi particolarmente sconnesso. Il cemento spariva, invaso dai fiori e dall'erba. In dieci anni di passeggiate, di giorno e di notte, per migliaia di chilometri, non gli era mai capitato di incontrare un altro essere umano che camminasse come lui per la città; nemmeno uno.
Giunse a un incrocio a quadrifoglio, imponente e silenzioso, dove due grandi arterie tagliavano la città. Durante il giorno un vortice assordante di veicoli lo trasformava in un immenso insetto frenetico, velato dai vapori degli scarichi, continuamente dissanguato, dilatato, e poi di nuovo congestionato, soffocato, dall'incessante fluire e defluire del traffico. Ma ora queste grandi strade erano anch'esse corsi d'acqua inariditi, null'altro che asfalto e pietra e chiaro di luna.
Imboccò una via laterale per tornare verso casa. Era ormai a un isolato dalla sua porta quando un'automobile solitaria girò di colpo l'angolo e lo centrò con un violento cono di luce. Al primo momento egli rimase immobile; poi, non diversamente da una falena accecata dal bagliore, si sentì attratto verso la fonte.
Una voce metallica suonò nel silenzio:
— Si fermi. Resti dov'è! Non si muova!
Si fermò.
— Mani in alto!
— Ma... — disse.
— Mani in alto! O spariamo!
La polizia, naturalmente. Ma era un caso rarissimo, quasi incredibile: in una città di 3 milioni di abitanti, era rimasta, se ricordava bene, un'unica auto della polizia. Già da un anno ormai, dal 2052, l'anno delle elezioni, le auto in dotazione della polizia erano state ridotte da tre a una sola. La delinquenza era quasi completamente scomparsa; non c'era più bisogno della polizia, quest'ultima auto solitaria che errava senza posa per le vie deserte era più che sufficiente.
— Nome e cognome, — disse l'auto della polizia in un ronzio metallico.
Non gli riuscì di vedere gli uomini dentro la macchina, accecato com'era dalla luce bianca.
— Leonard Mead, - rispose.
— Parli più forte!
— Leonard Mead!
— Impiego o occupazione?
— Diciamo, scrittore.
— Senza occupazione, — disse l'auto della polizia, come parlando tra sé. Il fascio di luce lo teneva inchiodato come un esemplare da museo, un insetto col corpo trapassato da uno spillo.
— Non avete torto, — disse Leonard Mead. Da anni aveva smesso di scrivere: Libri e riviste non si vendevano più. Tutto - pensò, tornando alle sue meditazioni d'ogni sera, - tutto ormai si svolgeva di sera, dentro quei sepolcri di case appena illuminati dal tenue riflesso dello schermo televisivo, in cui gli uomini, simili a defunti, sedevano davanti alle luci grigie o multicolori che sfioravano i loro volti ma senza mai toccarli dentro.
— Senza occupazione, — disse la voce di fonografo, sibilando.
— Perché è uscito di casa?
— Per camminare, — disse Leonard Mead.
— Camminare!
— Solo camminare, — disse con naturalezza, ma mentre un gelo gli saliva lungo la schiena.
— Camminare, solo camminare, camminare?
— Sissignore.
— Camminare dove? A che scopo?
— Camminare per prendere aria. Camminare per vedere.
— Il suo indirizzo, prego?
— Saint James Street, numero 11.
— E lei ha dell'aria, in casa sua, signor Mead? Ha un condizionatore d'aria?
— Sì.
— E ha uno schermo televisivo in casa? Uno schermo da guardare?
— No.
— No? — Vi fu un silenzio crepitante che era di per sé un'accusa.
— Lei è sposato, signor Mead?
— No.
— Celibe, — disse la voce della polizia dietro il raggio accecante.
La luna era alta e chiara fra le stelle e le case grigie e silenziose.
— Nessuno mi ha voluto, — disse Leonard Mead con un sorriso.
— Non parli se non è interrogato.
Leonard Mead rimase in attesa nella notte fredda.
— E uscito da solo, per camminare, signor Mead?
— Sì.
— Ma non ci ha detto per quale scopo.
— Ve l'ho detto: per prendere aria, per vedere, e per il piacere di camminare.
— Lo fa spesso?
— L'ho fatto per anni, tutte le sere.
L'auto della polizia era acquattata al centro della strada con la sua gola radiofonica che ronzava fiocamente.
— Bene, signor Mead, — disse.
— Non c'è altro? — chiese educatamente Mead.
— No, — disse la voce. — È tutto —. Vi fu uno scatto metallico e come un lungo sospiro.
Lo sportello posteriore della macchina della polizia si aprì lentamente. — Salga.
— Un momento, io non ho fatto niente!
— Salga.
— Io protesto. Non avete il diritto di...
— Signor Mead.
Leonard Mead avanzò rassegnato, vacillando appena, ma con le spalle improvvisamente curve. Mentre passava davanti al parabrezza guardò nell'interno dell'auto. Come si aspettava, non c'era nessuno seduto sul sedile anteriore; non c'era nessuno nella macchina.
— Salga.
Posò una mano sullo sportello e scrutò nel sedile posteriore, che era una piccola cella, una piccola prigione nera, con le sbarre. Odorava di acciaio. Odorava di pungente antisettico. Odorava di gelida pulizia, di duro metallo. Non c'era nulla di soffice là dentro.
— Se lei fosse sposato, e sua moglie potesse testimoniare, — disse la voce di ferro. — Ma così come stanno le cose...
— Dove mi portate?
La macchina esitò, o piuttosto emise un leggero, brevissimo ronzio, e uno scatto, come se un braccio meccanico, nel suo interno, chissà dove, facesse scorrere una serie di schede sotto un occhio elettrico. — Al Centro di Ricerca Psichiatrica sulle Tendenze Regressive.
Leonard Mead salì. Lo sportello si richiuse con un tonfo morbido. L'auto scivolò via tra i viali notturni, preceduta dai suoi fari fiochi.
Un istante dopo passarono davanti a una certa casa, in una certa via, l'unica casa in una città di case buie, che avesse tutte le sue luci accese, ogni finestra viva e rutilante, ogni rettangolo caldo e chiaro nel buio di novembre.
— Quella è casa mia, — disse Leonard Mead.
Nessuno gli rispose.
L'auto continuò la corsa lungo i fiumi inariditi, lasciandosi dietro strade deserte e deserti marciapiedi, dove non un suono, non un movimento turbavano più la fredda notte d'autunno.
Da: Sergio Solmi, Carlo Fruttero (a cura di) Il secondo libro di fantascienza, Einaudi, Torino 1961
Dopo le camere da letto e le mutande del prossimo, certo fanatismo autoritario si insinua nella gestione del tempo con la scusa dell’eternità. Corriere della Sera, 22 novembre 2012, postilla (f.b.)
Domenica prossima, nelle piazze italiane, avverrà una raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Confesercenti e Federstrade. L'obiettivo è l'abolizione della liberalizzazione degli orari di apertura degli esercizi commerciali, rimandando alle Regioni la possibilità di decidere in base alle esigenze locali. Il decreto salva Italia introdotto un anno fa non ha prodotto, infatti, i benefici sperati. Secondo il presidente di Confesercenti, Marco Venturi, 80.000 imprese sono destinate a chiudere con una perdita di più di 200.000 posti di lavoro. A dar retta agli studi di settore, solo il 3,12 della popolazione ha fatto acquisti la domenica ed è chiaro che solo i grandi centri commerciali possono reggere un simile impegno a scapito delle imprese più piccole e dei negozi familiari.
Accanto a questa iniziativa, si affianca la protesta dei lavoratori del commercio che hanno dato via al gruppo «Domenica, no grazie!». È un movimento nato dal basso, in Toscana, che si sta diffondendo in tutta Italia. Contrariamente a quello che si potrebbe supporre, infatti, queste aperture domenicali non portano vantaggi economici per i lavoratori, come emerge dalle molte testimonianze riportate nel loro sito. Lavorano di più con una paga, in proporzione, minore del dovuto. Naturalmente, esistono delle categorie che, a rotazione, operano anche la domenica: le forze dell'ordine, gli infermieri, i medici, i pompieri, i vigili del fuoco — tutte le realtà che sono necessarie al funzionamento della società. Non credo però che queste funzioni possano venire omologate a quello dello shopping festivo. Shopping che, in questi tempi di profonda crisi, si trasforma soprattutto in un frustante looking.
Queste proteste ci spingono a riflettere su cosa sia davvero la domenica, che senso abbia — o meglio aveva — questa interruzione del tempo che tutte le civiltà riconoscono come fondamentale e necessario per l'essere umano. Se ritorno alla mia infanzia e penso alle domeniche — quelle degli anni Sessanta in città — la prima sensazione che mi viene in mente è la noia. Non appartenendo a una famiglia religiosa, non c'era neppure il rito della messa; il tempo scorreva lentissimo e gli unici diversivi in cui noi bambini potevamo sperare era un pranzo dai nonni o un eventuale cinema nella rumorosissima sala di quartiere. Domenica voleva dire stare sdraiati sul pavimento a guardare il soffitto, aggrapparsi a un fumetto o a qualche gioco tra fratelli. La televisione era ancora assente dalle nostre vite o, anche se c'era, rimaneva spenta in salotto. Domenica dunque era soprattutto silenzio, rotto, nel pomeriggio, dall'ossessivo gracchiare delle radio dei vicini che trasmettevano le cronache delle partite.
Negli anni 80, quando già vivevo a Roma, passavo spesso le domeniche con Alberto Moravia. Andavamo in giro in macchina per la città, parlando del nostro argomento preferito: gli animali. Succedeva soprattutto d'inverno, quando le giornate erano grigie e corte. Ad un certo punto, lui sospirava rumorosamente, dicendo: «Je m'ennuis» ed io pronta rispondevo: «Moi aussi». Ma quella noia non era che un primo stato d'animo di quella improvvisa diversificazione del tempo perché, sotto la noia, covava in realtà il tizzone ardente dell'inquietudine. Quando penso al nostro mondo, un mondo che non si ferma mai, che vuole costringerci a non fermarci mai, penso a un mondo in cui non c'è più spazio per l'inquietudine costruttiva. E che cos'è l'inquietudine se non la spinta a muoversi, a cercare, a interrogarsi, ad andare sempre avanti, senza accettare passivamente il presente? Senza questa dilatazione infinita di tempi morti non si sarebbe mai sviluppata l'arte e neppure la scienza perché l'immaginazione — che sta alla base di entrambi i processi — esiste e si sviluppa soltanto nel momento in cui irrompe una diversa concezione del tempo.
È sempre noia quella che spinge folle di persone a invadere i centri commerciali, la domenica. La noia e l'imbarazzo di avere un tempo interno che ormai si è incapaci di gestire. Ma questo tipo di noia è sterile, perché, anziché aprirsi all'inquietudine e dunque alle domande, trova un immediato anestetico nella compulsione dell'acquisto. Una compulsione che non è molto diversa dal supplizio di Tantalo: appena si riesce a tacitare la paura del vuoto con un nuovo oggetto, subito ne compare un altro davanti ai nostri occhi, altrettanto urgente e allettante, in un moto di perpetua frustrazione. Alla base della disperazione attuale — questa disperazione cupa, distruttiva, che prende sempre più spesso il volto della depressione, dei pensieri ossessivi e degli attacchi di panico — c'è il totale smarrimento del senso della diversità temporale. Se il nostro tempo, il tempo della nostra vita, è solo quello del consumo, del possesso, dell'essere continuamente distratti da cose che ci chiamano fuori e che ci definiscono attraverso l'avere, quando la vita a un tratto irrompe con dimensioni diverse — quella della malattia, dell'imprevisto, della morte — rimaniamo preda di un addolorato stupore. Non sappiamo più come affrontare questi eventi perché abbiamo smarrito la capacità di riflettere sul senso e sulla complessità della nostra vita.
Nel nostro Paese, ossessionato dall'antagonismo clericale/anticlericale dovuto alla presenza della Chiesa, si tende a pensare che il rispetto del giorno di riposo sia un anacronistico piegarsi alle esigenze delle gerarchie vaticane, come se la domenica fosse esclusivamente un tributo dovuto ai preti. Che tragico errore! La domenica non è per i preti, ma più semplicemente lo spazio in cui l'uomo può realizzare il suo radicamento. Non a caso, nella laicissima Olanda, come in Francia, in Belgio, in Germania, in Spagna, i negozi restano rigorosamente chiusi la domenica. Sanno bene, infatti, questi Paesi non confessionali che il giorno di riposo è un'occasione per stare insieme, per creare relazioni, per costruirle. È il momento, per i genitori, di fare qualcosa con i figli, per gli amici, di stare insieme, per tutti noi, il tempo da dedicare a quelle piccole cose che fanno la nostra vita ricca e unica e che negli altri giorni non abbiamo mai il tempo di fare. Il tempo sospeso del non acquisto ci apre all'incontro con l'Altro. L'Altro da noi e l'Altro in noi. E solo quest'apertura sull'altro è in grado di dare un respiro diverso ai nostri giorni.
Ricordo che negli anni 80, quando ero in Israele, avevo organizzato una gita con degli amici per andare a vedere dei grifoni sulle alture del Golan. Siamo partiti di venerdì pomeriggio ma ahimè sul raccordo di Haifa, vicino alle grandi raffinerie, la nostra scassata macchina ci ha abbandonato. Forse anche lei aveva deciso di rispettare il sabato. Così abbiamo passato una notte e un giorno accampati sotto i piloni di cemento mangiando scatolette, parlando della vita e della morte e aspettando il successivo tramonto. Proprio lì, in quel luogo poco idilliaco, mi sono venute in mente le parole — che poi ho messo in Per voce sola — con le quali un nonno aveva spiegato a un bambino il significato del sabato. «Il sabato è importante perché vedi tutto con occhi doppi, vedi le cose come appaiono e come sono in realtà». Non è di questi occhi forse che abbiamo bisogno? Far tornare la domenica un giorno di silenzio, di riposo della mente e del corpo, di possibilità di stare insieme non sarebbe forse un importante segno per invertire la rotta, rimettendo la ricchezza dell'umano alla base della nostra civiltà?
Postilla
Si potrebbe ancora partire dal solito semplificatorio dimmi con chi stai e ti dirò chi sei, anche indipendentemente dalle tue intenzioni: la gentile signora Tamaro sostiene le iniziative dei bottegai che si sentono minacciati dalla potenza organizzativa della grande distribuzione, e mobilitano penne prestigiose e cervelli acuminati per la resistenza ad oltranza. Anche a costo di sommergerci di gigantesche balle, in elegante confezione letteraria. La più grossa non è tanto l’auspicio della signora Tamaro di una pausa coatta di tipo arcaico, sul modello del sabato ebraico, che sola apre le porte su sé stessi. No, la balla più grossa è quella insinuata dagli uffici stampa dei promotori, uguale e opposta alle loro strategie commerciali, ovvero che uscire di casa certi giorni e frequentare certi ambienti piuttosto che altri costituisca una disumana spinta al consumo compulsivo. In breve, dopo decenni di chiacchiere distintivo e altro sulla cosiddetta esperienza dello shopping, e naturalmente dopo decenni paralleli di attivo adattamento dei nostri ritmi circadiani, abbiamo raggiunto almeno una prospettiva di equilibrio. Entro il quale, ce lo dice indirettamente anche la Tamaro, c’è molta più esperienza che shopping, e le navate o arterie urbane a ciò destinate assomigliano sempre più nella fruizione alle comuni piazze tanto decantate anche da certo tradizionalismo retro. E poi: non è consumo anche la partita? Non è consumo anche il cinema? Non è consumo anche la pizza dopo la partita e/o dopo il cinema? Non è consumo, estremizzando, me ne rendo perfettamente conto (ma dall’altra parte, scusate, si tira in ballo il sabato ebraico!), anche comprare i fiori al chiosco del cimitero o davanti all’ospedale prima di andare in visita a un malato? La finestra sull’eternità della signora Tamaro non è per caso accessibile anche con un percorso tutto interiore, senza interferire con la vita altrui? Ci sono come minimo parecchie decine di migliaia di ebrei di stretta osservanza, sparsi in decine e decine di metropoli mondiali, che da generazioni si fermano per scelta, non per forza, mentre attorno a loro prosegue per la sua strada il fiume della vita. Insomma a ognuno il suo, non quello che decide qualcun altro per il suo bene. Il resto sono balle (f.b.)
Mai era stato sferrato un così duro attacco al cuore del Kulturstaat, al famoso modello tedesco, e sarebbe molto meglio dire europeo, al Monopolio statale della cultura umanista e giacobina: molto danaro pubblico e nessun mercato libero. Sarebbe insomma vicinissimo al definitivo fallimento lo Stato come educatore illuminista e come finanziatore della celebre Zivilisation che i soldi pubblici rendono sempre meno Kultur e dunque sempre più pappa convenzionale.
Drammaticamente onerosa per il sistema fiscale già stremato, ma anche banale, solo passato e niente futuro, la nuova decadenza, l’ultimo tramonto dell’Occidente.
Dunque secondo i quattro autori di questo Kulturinfarkt, un robusto pamphlet di grande successo in Germania, la smisurata offerta e il monopolio statale stanno portando le istituzioni culturali verso il crack non solo economico. Hanno infatti generato conformismo, depresso la creatività, «addomesticato le avanguardie», messo sotto controllo la libertà e la modernità, disarmato la cattiveria contro il potere che viene persino esibita «anche in politica estera» con il compiacimento del potere stesso.
In sedici anni è quasi raddoppiato il numero delle compagnie di prosa, di musica, dei centri di studio e delle case editrici producendo molti più artisti che arte, più scrittori che libri… Ma il pubblico è diminuito, sia pure di poco, passando da quasi 23 milioni a quasi ventuno milioni, spalmati però nelle varie proposte. E poiché «ogni allestimento scenico viene utilizzato una sola volta, la conclusione è che a ogni singolo spettatore, sempre lo stesso, vanno sempre più risorse di produzione». Le cifre diventano astronomiche «ma i prezzi rimangono convenienti perché si vogliono mantenere basse le soglie di accesso». Ogni biglietto per il teatro dell’Opera di Zurigo, se non ci fosse un finanziamento annuale di 55 milioni, «dovrebbe costare 150 euro in più». E ci sono gli sconti, i “biglietti famiglia”, «dal 2009 i giovani al di sotto dei 26 anni entrano gratis nei musei della Francia e così pure nel Regno Unito, per non parlare dei festival gratuiti in Svizzera e in Francia». Eppure i prezzi per i concerti pop sono aumentati di molto, «ogni teenager sborsa almeno 50 euro» e gli spettacoli privati estivi all’aperto «così popolari in Germania, Austria e in Svizzera costano fino a 100 euro a persona e fanno il tutto esaurito mentre il museo accanto, il cui biglietto costa 5 euro, rimane vuoto».
Insomma si fa demagogia, retorica sociale, circenseria, si getta fumo negli occhi e intanto si crea una vera e propria “bolla letteraria”: «Nel 2011 ci sono stati in Germania 778 premi letterari. Ne vanno aggiunti 881 nell’ambito dei media e della pubblicistica».
Sono tre premi al giorno, anche di cucina, tutti sovvenzionati dallo Stato alla parola cultura «per sostenere la prestigiosa opera di scrittori ed editori di libri: 24mila novità editoriali all’anno di letteratura dilettantesca». Ma le vendite non sono mai sufficienti e il prodotto è mediocre perché è mediocre l’idea che possano venire fuori i geni di stato, i menestrelli finanziati, i poeti ministeriali: un residuo di terzo internazionalismo e di fascismo, roba da stato platonico. E chissà come si arrabbierebbero Leopardi o Rimbaud se sapessero che la loro eversione e il loro autismo, la loro rabbia contro il mondo è finita sugli autobus, ad arredare il muro delle stazioni o è diventata tarantella di piazza.
L’aiuto statale espande e perpetua anche un falso mercato delle arti. Il sostegno agli artisti è sussidio sociale, assistenza, elemosina sotto le mentite spoglie della promozione: a Berlino il 6 per cento degli artisti sopravvive senza percepire alcun reddito, il 31 per cento guadagna meno di 12mila euro all’anno, il 78 per cento di coloro che si definiscono artisti di professione vive al di sotto delle soglie di povertà. Solo il 7 per cento è inserito in un circuito produttivo e il 10 per cento ha una galleria che espone le sue opere. «Il genio artistico vuole recare gioia – scriveva Nietzsche – ma quando si trova a un livello molto alto gli manca facilmente chi ne goda: offre cibi che nessuno vuole. Ciò attribuisce all’artista un pathos talvolta ridicolo e commovente insieme; perché in fondo non ha alcun diritto di costringere gli uomini al godimento». Poi ci sono gli artisti dilettanti. Il 70 per cento dei francesi si occupa di fotografia, il 27 per cento gira filmati. Il censimento ha contato in Francia più artisti che agricoltori. Ma la grande assente da questa vendemmia d’arte è ovviamente l’arte. A Berlino trovi il vino, il cibo, i libri e gli artisti stralunati, le cantate corali e la simpatia in strada, ma non l’arte che è il contrario di tutto questo, un atto solitario, una cattiva azione contro qualcuno o contro tutti, una coltellata al mondo, il mezzo espressivo che porta fuori la propria disperazione come scriveva Liu Hsin-wu, uno degli scrittori più amati del famoso Sessantotto: «Si fa poesia o arte quando si sta male». Mentre, aggiungeva, «quando si sta bene si fa la rivoluzione di piazza» o in subordine il corteo di protesta, il concerto, la cantata, la festa, il festival e la pubblica pernacchia.
Le conseguenze, semplifica Cesare De Michelis (Marsilio) introducendo l’edizione italiana, sono «i musei non visitati, i teatri vuoti, i libri non letti …». Anche il sottotitolo italiano, “Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura”, è più radicale e sbrigativo di quello tedesco: «Troppo di tutto e ovunque le stesse cose». Purtroppo le parole in Italia non appartengono infatti allo stesso mondo. Il Kulturstaat italiano significa irragionevole incuria del patrimonio che l’Europa ci invidia, il degrado dei siti archeologici, le clientele al posto delle competenze, un’inefficienza che viene da lontano anche se, certo, negli ultimi venti anni è diventata disprezzo governativo verso la cultura ridotta con faciloneria da cummenda allo slogan delle tre “i” (impresa, inglese, internet), perché diceva Tremonti «con la cultura non si imbottiscono i panini», e dunque maltrattamento sistematico nelle aule dove si costruisce il futuro e nelle vestigia dove si conserva il passato.
E in Italia lo Stato finanzia la festa del pistacchio, il premio zucca d’argento, il pittoresco delle sagre paesane addottorate con cattedre universitarie. La cultura assistita in Italia è la marchetta, che è più antieconomica del pizzo mafioso. E “marchette e zoccole” è il binomio che ha affossato la Rai, che è ancora la prima industria culturale italiana. Ecco dunque che la cultura finanziata col danaro pubblico da noi significa un’altra cosa ancora perché il modello del Kulturstaat all’italiana rimanda più alla pirateria dell’isola della Tortuga che al disagio dell’abbondanza della Germania della Merkel: noi sovraproduciamo parassiti, loro cultura di massa.
Provate adesso a immaginare come diventerebbe la Valle dei Templi se fosse affidata alla Humboldt-Universität di Berlino o il Maxxi di Roma se fosse gestito dalla Staatsgalerie di Stoccarda che, disegnata da James Stirling, è il paradigma di tutti i musei che hanno l’ambizione di esser anche un centro civico, una moderna piazza di attrazione urbana. E Pompei? Quale meraviglia diventerebbe nella mani ricostruttrici della municipalità di Dresda, la città che subì tre bombardamenti, un fuoco peggiore di quello del Vesuvio? Finanziata dalle tasse, la bellezza di Dresda è di nuovo “superba” al punto che se ne infischia dell’Unesco che nel 2007 le tolse il riconoscimento di patrimonio dell’umanità per il ponte sull’Elba, quattro corsie, approvato con due referendum popo-lari, una meraviglia di modernità e di paesaggio futurista.
Si raccolgono firme a livello continentale … ma lo spread dei titoli stavolta non c’entra nulla, c’entra invece l’abitabilità urbana. Non è più importante, in fondo?
Le Corbusier ne sarebbe scandalizzato, e prima di lui Marinetti, e dopo di lui Robert Moses, il vero profeta delle urban expressway. L’avvocato newyorkese Bennet, lo stesso che aveva perfezionato la prima ordinanza di zoning, lo stesso che aveva decantato i baccelli di servizi dedicati fra quattro corsie, si rivolterebbe nella tomba. Ma loro sono tutti morti, per ovvi motivi di età, naturalmente. Amen. Lo scandalo per loro sarebbe giustificabile, non capirebbero mai perché un intero continente stia cercando di far procedere le proprie aree urbane a trenta all’ora, e raccoglie adesioni, firme, esercita pressioni sui parlamentari. Siamo impazziti? L’aria della città rende liberi, liberi anche di andare dove si preferisce e farlo con la velocità preferita, altrimenti torniamo a una specie di ancien régime col clero e la nobiltà barricati nei palazzi, i servi incatenati alla terra, e poi altri sfigati a caracollare lentamente in mezzo. Ma questa aria che dovrebbe rendere tanto liberi dall’epoca delle avanguardie storiche si è parecchio inspessita, saturata, con le freeways a far diventare sempre meno free tutte le altre ways. E allora?
E allora si rallenta democraticamente, secondo il criterio tradizional-progressista già in qualche modo sperimentato con Slow Food: un passo indietro per farne parecchi in avanti. Chiedere una direttiva perentoria, per introdurre nei codici stradali nazionali di tutta l’Unione i trenta chilometri l’ora urbani, è sostanzialmente questo, siamo a mille miglia dalla pura reazione conservatrice. Perché se le nuove tecnologie consentono già oggi di spostare istantaneamente da un punto all’altro tantissime cose (informazioni, documenti, opinioni, oggetti semplici), chissà cosa non si potrà fare nell’immediato futuro, con una spintarella in più. Perché se oggi le cosiddette grandi arterie veloci sono sottoposte a trombosi costante, e veloci non lo sono affatto, salvo nello scaricare veleni, allora non servono più a nulla di buono e hanno tradito la promessa per cui le avevamo profumatamente pagate. Perché le isole pedonali storiche, pubbliche, private, sul lungo arco di oltre una generazione si sono dimostrate esattamente quello che erano: isole, di poco senso se circondate dall’identico micidiale oceano delle lamiere in tempesta.
Trenta all’ora, per muoversi più in fretta. Perché meno investimenti nella mobilità automobilistica vuol dire più spese per quella collettiva (altro che trenta all’ora con metropolitane ecc.), per l’intermodalità, per combinare funzioni e spazi, per promuovere nuova ricerca e sviluppo di modelli sperimentali, anche di auto, che altrimenti verrebbero tritati fini nel frullino attuale del cosiddetto scorrimento veloce che non scorre affatto. Cent’anni fa un sociologo americano, davanti all’avanzare impetuoso delle Ford Modello T, iniziava a concepire attorno al sistema del vicinato spontaneo sviluppato sulla scuola, la sala civica, la palestra, un modello di quartiere a traffico rigorosamente locale, appunto circondato dalle arterie veloci. Dieci anni più tardi pubblicava il famoso studio sulla cosiddetta neighborhood unit, poi ripreso con infinite interpretazioni e anche storpiature da architetti e urbanisti di tutto il mondo. Quello che è emerso via via negli anni successivi, è che quelle isolette circondate dagli squali o sparivano, o finivano per regredire anche socialmente al livello di comunità ancestrali. E per usare un neologismo tutto italiano, usciamo dal silenzio a trenta all’ora. O almeno facciamoci un giro sul sito, pensandoci.
Titolo clamorosamente sbagliato: non succede affatto nelle stalle, e naturalmente non è una rivoluzione. Però, anche se per motivi elettorali, è un passo avanti, futuri eletti consentendo. Corriere della Sera Lombardia, 21 novembre 2012, postilla (f.b.)
MILANO — Una rivoluzione high tech nelle stalle. Dagli alpeggi della Valtellina alle cascine della Bassa arriverà Internet ad alta velocità. Le aree agricole di montagna, come le fattorie di pianura, non saranno più tagliate fuori dalla rete. Nelle zone rurali di 47 comuni della Lombardia è infatti in arrivo la banda larga, con 198 chilometri di fibra ottica, che metteranno online oltre 34 mila abitanti, un fetta della nostra regione finora dimenticata dalle autostrade del web. L'annuncio, con un investimento di 8 milioni di euro da parte del Pirellone, è stato dato ieri dall'assessore regionale all'agricoltura, Giuseppe Elias.
Da Verceia, 1.116 abitanti, all'imbocco della Valchiavenna, all'incrocio fra le province di Sondrio, Como e Lecco, a Retorbido, 1.434 anime, allo sbocco della valle Staffora, nell'Oltrepò Pavese, le aziende «verdi» si preparano a dire addio al digital divide: niente più fossato tecnologico che penalizza aziende e residenti: «La banda larga è un vantaggio per tutte le realtà produttive di un territorio e, in questo caso, renderà più efficiente il lavoro degli imprenditori agricoli — ha spiegato l'assessore Elias —. I 47 comuni interessati dagli interventi sono stati individuati nelle zone svantaggiate della Lombardia e si vanno ad aggiungere ai 132 comuni che in passato hanno già beneficiato di interventi simili.
Tutti infatti devono poter accedere ai servizi di telecomunicazioni e di accesso a Internet che rappresentano un passaggio obbligato verso l'innovazione, l'occupazione e la crescita». Abbattere l'isolamento digitale, continua l'assessore, è dunque «un obiettivo strategico, perché stimolerà e faciliterà lo sviluppo e le competitività delle imprese che operano in questi territorio agricoli».
Postilla
È almeno dall’epoca dei primo congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica che chi ne capisce, nel nostro paese, prova a spiegare alla politica che modernizzazione e urbanizzazione stupida e cementificata non sono sinonimi. Col filogovernativo a oltranza Vincenzo Civico che tuonava “Urbanistica Rurale = Urbanistica Fascista”, e altri meno perentori ma più analitici che iniziavano a spiegare come i suoli agricoli andassero gestiti con le medesime prospettive che in fondo già si erano rivelate utilissime per i densi ambienti urbani, ma rigorosamente senza confondere i due piani. Già: città e campagna, eterno dilemma che ancora oggi gli stracciamutande praticoni della cosiddetta Città Infinita autostradale manco si immaginano, e i banchieri che li pagano neppure per scherzo. Ma esiste eccome, e oggi si chiama consumo di suolo, almeno per chi considera il problema sul versante corretto, senza confonderlo con estetismi di lusso, o benintenzionate sparate a vanvera, o miserabili carriere personali. E una delle tante risposte è appunto tornare a quei primi vagiti della pianificazione territoriale moderna: un assetto regionale equilibrato, sul versante ambientale, socioeconomico, alimentare, dei rapporti fra produzione e consumo, senza dimenticare le ragionevoli aspettative di progresso personali e collettive, passa per la modernizzazione delle campagne. Che come insegnava già Arrigo Serpieri (nome certamente ignoto ai tuttologi televisivi), o di là dell’oceano provava a spiegare un po’ più tardi per esempio Lewis Mumford, non vuol dire trascinare i contadini in fabbrica e l’asfalto sui campi. Ma fare quella cosa lì, che l’assessore di centrodestra dimissionario ci ha gentilmente concesso, di migliorare la vita delle vacche e di ciò che sta loro attorno (f.b.)
La capitale della rendita nella sintetica ma profonda lettura trasversale di un (vero) sociologo, in una prospettiva non banalmente post-urbana. Il manifesto, 21 novembre 2012 (f.b.)
Per me, piemontese sradicato, errabondo e giramondo, che qualcuno ha avuto la poca rispettosa idea di definire il «piemontese errante», Roma è, e da anni resta, a dispetto della mia riluttanza, un segno significativo, un marchio probabilmente indelebile. Roma è per me un segno di contraddizione; oscillo fra romafilia e romafobia. Avverto in me, quando penso a Roma, un'attrazione istintiva e razionalmente irresistibile; nello stesso tempo si fa strada una ripugnanza estrema, ai limiti dell'insofferenza sprezzante. La Roma che mi piace e di cui non potrò più fare a meno è quella che mi ha insegnato a errare stando fermo - la Roma che fa convivere Piazza Vittorio e Monti Parioli, il Rione Monti e Tor Pignattara. Questo è veramente l'impero senza fine, l'accettazione dello straniero e del diverso con una sorta di indifferenza sorniona che è integrazione lenta, ma inesorabile. Chi ci arriva non se ne va più. Come mi accadde di dire all'indimenticabile amico Filippo Bettini, Roma è l'eternità dell'effimero.
Ma c'è una Roma socialmente esclusa che mi angustia. Ed ecco che la mia ardente romafilia vespertina cede alla romafobia di buon mattino, quando, in un autobus stipato, sono un acino in procinto di venire debitamente schiacciato e spremuto prima, molto prima di arrivare a destinazione. Roma non è soltanto una città burocratica e ministeriale. La periferia non è più periferica. Dei suoi due milioni ottocentomila abitanti attuali un terzo abita in periferia. Se si fermasse la periferia, tutta la città sarebbe bloccata. Per anni ho esplorato, battuto palmo a palmo la periferia romana. Al Borghetto Latino, incurante della mia bronchite cronica e del catarro invincibile, ho anche affittato e sono vissuto in una baracca, d'inverno, quando l'umidità non perdona.. È una vergogna per le forze politiche e intellettuali di sinistra che borgate, borghetti e baracche, a Roma, siano ancora il segno di una città ferita, scissa in città e anticittà, centro e periferia, priva di una lucidità condivisa.
Nei nuovi aggregati urbani la contrapposizione centro-periferia non ha più senso. Per la semplice ragione che il centro non potrebbe funzionare senza periferia. Ma a Roma la contrapposizione persiste. Perché Roma non è, come molti ottimi studiosi hanno affermato, la «capitale del capitale». Piacerà o meno, Roma continua ad essere ciò che è stata storicamente: la capitale della rendita. I suoi piani regolatori si sono arresi al blocco edilizio politicamente dominante attraverso a) le deroghe; b) le varianti; c) la tolleranza dell'abusivismo e degli interessi settoriali, in attesa della immancabile sanatoria con condono. Non chiedo molto. Vorrei solo una Roma più sicura e meno rumorosa, capace di dare un posto di lavoro non precario ai suoi giovani, dotata di servizi urbani normali; autobus e metropolitana regolari, se non proprio degni di Parigi o della «subway» di New York; strade passabilmente pulite, proprietari di cani permettendo; un minore livello di corruzione; la manutenzione dei tombini e della rete fognaria ad evitare allagamenti anche in occasione di piogge non eccezionali.
Non sarebbe la rivoluzione, ma solo un grado di poco più alto di civiltà urbana, in un paese che non dovrebbe essere immemore delle grandi lezioni di Leon Battista Alberti e degli altri protagonisti del Rinascimento, artefici della italica città che ha nella piazza il suo cuore propulsivo e garantisce la tranquillità dei cittadini e la loro sicurezza coniugando spazio e convivenza. Va ridata la parola ai cittadini. Troppo spesso gli stagionati professionisti della politica somigliano a truppe di occupazione in un territorio che non conoscono. La loro aria trasognata, quando passano al mattino sulle auto-blu verso i loro uffici ovattati, non è più accettabile. Nella presente fase di transizione, le due grandi categorie storiche, la città monocentrica e la città industriale agglutinante, non sono più sufficienti. Nasce una realtà urbana imprevista. Si può anche parlare di realtà post-urbana.
Lo sviluppo urbano è mosso dalle nuove esigenze di visibilità e di partecipazione di masse umane di recente inurbate (urbanizzazione senza industrializzazione), dal gioco degli interessi socio-economici, dai diritti di proprietà dei suoli, dalla corsa alla privatizzazione del pubblico allo scopo di garantire il parassitismo della rendita fondiaria e la massimizzazione dei profitti per la speculazione edilizia (cfr. in proposito F. Ferrarotti, M. I. Macioti, Periferie da problema a risorsa, Roma Teti, 2009) In questa prospettiva, la lettura puntuale dei Piani regolatori attraverso gli Atti dei Consigli comunali è importante, benché affaticante e noiosa. Storicamente, i Piani regolatori sono stati concepiti come il volano dello sviluppo urbano e della utilizzazione razionale del territorio. Ma la questione del rapporto fra spazio e convivenza resta aperta. Né può dirsi dichiarata nei suoi termini specifici semplicemente prendendo atto del continuum urbano-rurale o di quel fenomeno indicato da un brutto neologismo, già segnalato, come rurbanization (rus e urbs).
Per un esempio recente: il sindaco attuale di Roma - quasi fosse il Nerone redivivo - propone la distruzione di un intero aggregato urbano periferico (Tor Bella Monaca) per procedere quindi alla sua ricostruzione. Massimo Bontempo aveva fatto altrettanto con Corviale. Ma in base a quali idee? Rifacendosi a quali criteri? Su scala mondiale, il problema delle periferie è dato dalla «esclusione sociale». Occorre individuare le modalità e i percorsi dell'integrazione, come effettuare il passaggio dall'esclusione all'inclusione, dalla marginalità alla partecipazione, dalla sudditanza alla cittadinanza in senso pieno. È certo più facile chiamare le ruspe e cacciare i problemi sotto il tappeto. L'ex-presidente francese Sarkozy fa scuola quando definisce gli immigrati delle banlieu, «racailles; zizanies dérisoires»
Purtroppo, è giocoforza constatare che la logica della città industriale sta prevalendo su scala planetaria. Il principio tecnico subordina a sé, alle proprie esigenze, rigidamente scandite, le dimensioni umane e i processi naturali: cultura contro natura, meccanico contro organico, precisione numerica contro approssimazione intuitiva. Peccato che la tecnica sia una perfezione priva di scopo. Adottare il principio tecnico come principio-guida significa trasformare i valori strumentali in valori finali: un equivoco dalle conseguenze catastrofiche. Occorre, oggi, un nuovo profilo del costruire in cui la precisione tecnica sia subordinata alle esigenze umane. Urbanisti e architetti non progettano nel vuoto sociale. Bisogna imparare a costruire senza violentare la natura o snaturare il territorio, sfigurare il paesaggio. In questo senso è ancora significativa la lezione di Adriano Olivetti.
Porre il problema di un nuovo profilo del costruire comporta immediatamente una domanda che suona provocatoria, ma che ne è in realtà la conseguenza logica: c'è un'alternativa ai grattacieli? Un'alternativa al grattacielo c'è, cresce quotidianamente sotto i nostri occhi. È il nuovo aggregato urbano policentrico. Centro e periferia sono ormai categorie concettuali obsolete. Per questo occorre un patto di collaborazione, quanto meno di non belligeranza, con la Natura. L'iniziativa più rivoluzionaria, nelle condizione odierne, è in realtà un ritorno: la riscoperta del modo di costruire mediterraneo, un riorientamento del costruire che passi dall'interesse per il meccanico all'attenzione per l'organico, un mutamento profondo rispetto a un mondo in cui sono considerati reali e validi soltanto corpi fisici e misurazioni meccaniche, verso un mondo nel quale esigenze, emanazioni, aspirazioni umane abbiano importanza, siano prese in considerazione, godano di una priorità nel progetto urbanistico e architettonico.
Oggi, il calcolo scientifico della costruzione appare ancora legato a una logica di invasione e vittoriosa trasformazione dell'ambiente. Si autodefinisce e si autovaluta in metri cubi e in cementificazione. Questa impostazione predatoria va rovesciata con un nuovo stile del costruire, fondato su un concetto di natura non nemica, bensì collaboratrice. La nuova architettura si inserisce nell'ambiente senza violentarlo, indovina i passaggi e le vie da rispettare per dar loro aria e luce, non soffoca e non blocca, bensì apre, rischiara, vivifica.
Su Roma e i suoi problemi di sviluppo mi piace ricordare alcuni miei libri: Roma da capitale a periferia, Roma-Bari, Laterza 1970, Vite di baraccati, Napoli, Liguori, 1974; Roma, madre matrigna, Roma-Bari, Laterza, 1991; La città come fenomeno di classe, Milano, F.Angeli 1975; Vite di periferia, Milano Mondadori, 1981; Spazio e convivenza, Roma Armando 2009; Il senso del luogo, Roma, Armando, 2009.
Intervistato da Francesco Mele, il fondatore di Slow Food spiega come attorno all’alimentazione ruoti (ovviamente) un intero modello di sviluppo. L’Unità 20 novembre 2012 (f.b.)
«C’è chi vuole curare il malato usando gli stessi mezzi che hanno causato la malattia». Carlo Petrini, fondatore e presidente di Slow Food,guarda a quel che succede nel mondo ed è sempre più convinto che la crisi che stiamo attraversando sia più «profonda» di quel che si immagina perché non è soltanto economica. «È giunto il tempo di nuovi paradigmi», dice pensando a uno stile di vita che metta al suo centro la tutela dei beni comuni. «Se la politica non se ne rende conto non farà molta strada», avverte.
Allora, Petrini quali sono i segnali di questa crisi che rendono evidente la necessità di cambiare il nostro modello di sviluppo?
«Se vogliamo cominciare dalla crisi che ci attanaglia - e questa mi sembra un segnale più che evidente - possiamo dire che in realtà si tratta di una crisi strutturale, entropica direbbero gli esperti, dalla quale non si torna più indietro senza mettere in atto cambiamenti radicali. Le crisi economiche e finanziarie a cui ci eravamo abituati fino a pochi anni fa erano cicliche, in qualche maniera si risolvevano con il tempo e il normale andamento altalenante dell’economia. Ma oggi questa crisi è più profonda, e non è soltanto economica. Se la guardiamo da un punto di vista mondiale essa è anche climatica, ecologica, energetica, alimentare. Se la guardiamo da un punto di vista culturale è anche una crisi di valori, spesso sacrificati in nome del libero mercato e dell’omologazione industriale.
Mentre se mettiamo le lenti della politica risulta evidente che le classi dirigenti non sembrano più avere le idee tanto chiare su come affrontare il futuro e superare questa fase abbastanza drammatica. Questo perché c’è una classe politica che per ora non si sta dimostrando disponibile al cambiamento, e s’incaponisce a cercare di curare il malato con gli stessi mezzi che hanno causato la malattia. È come portare un diabetico in pasticceria e sperare che così guarisca. Invece è giunto il tempo di nuovi paradigmi, di cogliere la crisi come un’opportunità per rivedere alcune nostre priorità e per attuare un profondo mutamento che sia propedeutico anche a un nuovo umanesimo. Una rinascita vera».
Si sente parlare molto della necessità di tornare a crescere. Non sarebbe il caso di discutere,non solo in Italia, di quali debbano essere i criteri di questa crescita?
«Tutti parlano di crescita per superare la crisi. Tutti parlano di riprendere i consumi, di crescita del Pil, degli indicatori economici classici a colpi di punti percentuali. Purtroppo non si rendono conto che quest’era è già finita, che questi indicatori non ci parlano di vera crescita umana e sociale, anche economica. “Quando tutto deve ricominciare, tutto è già ricominciato”: è ciò che sostiene a ragione Edgar Morin, una delle menti più lucide della nostra contemporaneità. Infatti, mentre si parla e straparla di crescita economica vecchio stile ci sono ampi strati di popolazione mondiale, Italia inclusa, che stanno mettendo a fuoco i nuovi paradigmi: evitano gli sprechi, riusano, riciclano, risparmiano energia o attingono a fonti rinnovabili, riscoprono i vecchi saperi in ottica moderna, fanno economia locale e risvegliano il senso di comunità e di democrazia partecipata. I nuovi paradigmi stanno arrivando dal basso, e se il mondo politico non sarà abbastanza lungimirante da coglierli, e non soltanto per conquistare strumentalmente dei voti, si ritroverà ampiamente superato prima che se ne renda conto».
Certo, l’idea di un nuovo modello di sviluppo è già presente in numerose iniziative, anche nel nostro Paese. Slow Food ne è un esempio concreto da molti anni. Ma cosa potrebbe fare la politica, secondo lei, per favorire questa transizione?
«Sarebbe positivo, per esempio, se si cogliesse la portata politica - e parlo soltanto di ciò che mi è più vicino - di iniziative come Terra Madre, come un Salone del Gusto che ci ha parlato di buone pratiche, di nuovi modelli di sviluppo in agricoltura e lungo tutta la filiera alimentare. Sarebbe bello se si guardasse con maggiore attenzione alle migliaia di comunità che in Italia e nel mondo stanno davvero facendo qualcosa di concreto e d’importante. E non c’è solo Slow Food: sono tanti i soggetti che lavorano per mutare profondamente il quadro futuro a partire dal nostro quotidiano, dalle scelte che facciamo ogni giorno, come per esempio comprare del cibo. Ma tutto ciò è ritenuto marginale nel dibattito politico, quasi che occuparsi di cibo, agricoltura, ambiente, paesaggio, suoli, debba per forza essere un fattore accessorio. Invece, limitandoci a questi cinque elementi, stiamo parlando del più grande tesoro su cui siamo seduti in Italia. E senza un approccio nuovo, che veda le connessioni nascoste tra i vari comparti e temi, che ponga le basi per la tutela dei nostri beni comuni, questa preziosissima opera per ora è lasciata in mano alla società civile, che ha da tempo superato in capacità concreta di azioni qualsiasi macchina politica ufficiale. Credo che questo sia sotto gli occhi di tutti».
Perché proprio il cibo dovrebbe essere uno dei motori di un nuovo modello di sviluppo?
«Perché legati al cibo ci sono tutti gli elementi che possono rendere la nostra vita migliore. Parlando di cibo e usandolo come motore di sviluppo si può incidere sull’ecologia e sulla sicurezza dei nostri territori, sul mantenimento del paesaggio che attrae turisti e ci fa vivere meglio, sull’economia reale delle comunità che possono essere più prospere, sulla qualità della vita in città dove non è impossibile trovare cibo di prossimità. Dando la giusta importanza al cibo, attraverso una conoscenza non superficiale, si può riscattare la condizione degli agricoltori italiani, si può fare vera cultura, si può usare la memoria per imparare il futuro, si può agire sulla salute pubblica degli italiani. Tutte cose delle quali ci sarebbero anche persone deputate a occuparsene, ma pochi capiscono tutte le connessioni dirette e indirette con il cibo. Ecco, allora ribaltiamo lo sguardo e partiamo dal cibo, mettiamo prima al centro il cibo e sono convinto che tanto del resto verrà da sé, quasi in maniera naturale».
Bersani aveva proposto un ministero dello Sviluppo Sostenibile che mettesse insieme quello dello sviluppo e quello dell'ambiente. Può essere un buon punto di partenza per il prossimo governo? Si possono immaginare altre proposte che vadano nella stessa direzione?
Una nuova politica del cibo ci deve incoraggiare ad adottare una visione multidisciplinare, e lo stesso approccio dovrebbe replicarsi per altri temi centrali. Ogni tanto ci ritroviamo con ministeri diversi che prendono decisioni inconciliabili tra di loro, che si bloccano a vicenda, che inficiano le potenzialità di nuove norme proposte da qualche dicastero. Anche senza farlo apposta. È un paradosso tipico di chi non concepisce nulla senza passare per le specializzazioni e il riduzionismo, un modo di pensare che trovo obsoleto per questi tempi. È da anni che con Slow Food proponiamo di istituire un Ministero dell’Alimentazione, con competenze agricole e forestali, educative, energetiche, ambientali, economiche e commerciali. Sarebbe un nuovo modo di affrontare il governo del Paese: c’è chi pensa che forse sia troppo presto, speriamo che tra un po’ non sia troppo tardi.
Nota: per cogliere aspetti complementari del medesimo tema consiglio la recensione dell’ultimo lavoro della storica Emanuela Scarpellini dedicato agli italiani a tavola, che ho riportato con postilla su Mall (f.b.)
Entri a casa di Stefano Rodotà e lo trovi con la copia staffetta del libro che in questi mesi ha accudito come un figlio: Il diritto di avere diritti, che arriva la prossima settimana in libreria. Rodotà racconta che si è chiuso in casa per quattro mesi e ha intrecciato nella scrittura tutti i percorsi della sua battaglia culturale di questi ultimi anni. «Sono tornato a parlare dei problemi che mi tormentano da una vita. Ho letto l’intervista della Rossanda, capisco quando dice “Io non farò in tempo a vedere la nuova sinistra”. Io sono più ottimista, vado nelle scuole, frequento i movimenti, ho incontrato diecimila ragazzi, e penso che c’è anche in questi tempi un po’ incerti, un grande fatto planetario che si sostanzia nella lotta per i diritti» .
Facciamo degli esempi.Il primo che mi viene in mente sono le donne indiane che si escono dall’isolamento della famiglia patriarcale grazie ai cellulari. Perché parlano e discutono con altre donne grazie al telefonino. Un altro esempio. Dai lavoratori di Pomigliano di cui ho parlato, ai cinesi di Foxconn alle donne del Kenya che si fanno frustare per difendere la loro scelta di vestirsi come vogliono, il minimo comune denominatore è uno solo: il diritto, come dimensione della consapevolezza e come obiettivo di una battaglia di liberazione. Altro che questioni formali!
A Pomigliano ci sono le cause contro la Fiat.Certo. E c’è anche la richiesta di una legge per la rappresentanza sindacale. La Fiom fa questa battaglia anche a costo di mettere in gioco il suo potere di organizzazione strutturata. Ma capisce che questa battaglia sui diritti è la frontiera che le permette di mantenere una rappresentanza forte anche in un momento di scontro durissimo. In un momento di crisi di legittimità di tutte le rappresentanze.
Ma i diritti non dovrebbero essere anche la bandiera di chi è semplicemente liberale?In linea di principio, certo. Ma io con il passare degli anni non sono diventato più radicale su questo punto. Senza l’uguaglianza, senza quel capolavoro che nella Costituzione è rappresentato dall’articolo 3, i diritti non ci sono. Mentre oggi rischiamo di tornare ad una forma di cittadinanza censitaria, come nell’Ottocento. Si racconta in giro che sono morte tutte le ideologie, è rimasta in piedi solo quella del mercato.
Anche gli studenti che scendono in piazza in questi giorni , lo fanno perché vogliono difendere il loro diritto al futuro.I movimenti in questi anni sono stati per molti importanti settori di società, l’unico spazio possibile. I partiti si sono rinchiusi nelle loro fortezze. Hanno cessato i contatti. I sindacati hanno mantenuto, in alcuni casi bene, come la Fiom, in altri meno bene, un contatto con queste realtà. I partiti, invece, spesso sono diventati del tutto autoreferenziali.
Gli scontri di via Arenula, sono avvenuti ad un passo da casa tua.Fra il 1979 e il 1983 siamo usciti dal Parlamento decine di volte chiamati di qua e di là. Anche questa è una funzione fondamentale di chi è nelle istituzioni. Andare in un corteo, mediare con le forze dell’ordine, impedire che la situazione precipiti.
Perché i rappresentanti del centrosinistra in parlamento, questo non riescono a farlo più?Io ho provato a chiederlo ad alcuni che conosco, perché non vanno a mediare. Mi hanno risposto: perché noi non riusciamo a farlo. Noi questi con gli scudi non sappiamo chi siano. Come si fa, a mediare se non sai chi sono?
Insomma i partiti non sono più quelli di una volta?Infatti. Quando dopo l’esperienza dell’Authority sono tornato all’attività politica nel 2005 ho scelto di impegnarmi in quella che io chiamo l’altra politica. Nella società, fuori dai partiti. Fino alle battaglie sui referendum per i beni comuni.
Che cos’erano per te i partiti, visto che sei stato un compagno di strada del Pci senza mai iscriverti?Te lo devo raccontare con un aneddoto sul decreto di San Valentino…
Certo.Nel 1984 decidemmo di batterci con l’ostruzionismo contro quel decreto, che per noi cancellava un diritto. E farlo comportò un sforzo enorme per tutti noi. Dopo anni in cui talvolta ci eravamo divisi, su molte scelte e molti voti, tornavamo a combattere con i compagni del Pci –il capogruppo era Giorgio Napolitano –e con l’arma dell’ostruzionismo parlamentare contro il decreto di Craxi.
Era ancora il tempo delle sedute giorno e notte…Si lavorava molto più di ora. Dormivamo in Transatlantico. Ricordo che si sorteggiavano gli interventi e l’ordine. E che capitò a Natalia Ginzburg di dover parlare alle due di notte.
E allora?Natalia era già tutta acciaccata. Combatteva contro il cancro. Io ero il capogruppo, c’erano giorni in cui dovevamo sorreggerla io e Laura Balbo, per portarla dalla commmissione all’Aula, ma il suo rispetto per il Parlamento era tale che non si risparmiava nulla…
E quella sera parlò?Se parlò? Lesse, nel cuore della notte, un intervento scritto, guarda caso sui diritti, che oggi sarebbe diventato un libro…
E…E arrivo in conferenza dei capigruppo il ministro dei rapporti del Parlamento e disse: non ce la facciamo.
Gettavano la spugna.Sì. Ma diceva anche: vogliamo che ci sia risparmiata l’aula, che il governo non sia umiliato.
Tu eri d’accordo.Ma nemmeno per sogno. Napolitano accettò: “Si può fare”. Io invece gli dissi: “Capisco la tua preoccupazione. Ma in segno di rispetto, per i compagni, il governo deve venire in aula”.
E venne?Certo. Ma qui arriva tuo padre. In questo clima mi telefonò e mi disse: è un successo troppo importante per non dirlo fuori.
Cioè fuori dal Parlamento?Esatto. Fu convocato un comizio al Pantheon, chiamando le sezioni. Ma era pur sempre il Pci: con cinque, diecimila persone, mi trovai al fianco di Berlinguer a festeggiare questa vittoria parlamentare in mezzo al popolo. In quei giorni, in cui c’era il vincolo di presenza, Berlinguer venne anche a votare. Incontrò … che gli disse: Ma domani hai il comitato centrale, non dovevi venire a votare! E lui rispose, allargando le braccia: “Mi ha convocato Pochetti! Voleva dire che anche il segretario del partito era sottoposto alla disciplina del gruppo.
Perché mi dici tutto questo?Per spiegarti che cosa era l’idea del Parlamento, che noi avevamo, e la religione della Costituzione che io ho trovato nelle sezioni del Pci. Nel 1979, quando io ero contro la legge Reale sull’ordine pubblico, che consideravo liberticida, il Pci era a favore. Ma mi invitavano a discutere. E molti militanti mi dicevano: “Ma se tu dici che è contro la Costituzione”.
Hai dovuto fare abiure per candidarti?Nessuna. La telefonata che mi offriva di correre la ebbi da Luigi Berlinguer. Io, che volevo essere corretto gli dissi “Posso accettare solo a una condizione: parlare con Pecchioli che ha posizioni opposte alle mie”.
E ci parlasti?Certo. Sai quando? Il 6 aprile del 1979. Sai perché me lo ricordo? Parlai con Pecchioli, che senza giri di parole mi disse: “Che tu sia in contrasto con noi sul tema dei diritti non è un problema. Se lo fossi stato sulla fermezza, sì.
E perché è importante la data?Perché il giorno dopo ci furono gli arresti del 7 aprile, nell’area dell’autonomia e con Toni Negri, e io difesi in linea di principio quei diritti e contrastai in ogni sede il cosiddetto teorema Calogero.
In queste interviste, ricostruiamo sempre le biografie politiche per capire la storia: dove inizia la tua vicenda politica?La prima immagine che dovrei tratteggiare è la mia casa. A Cosenza si svolse il congresso che segnò la fine del partito d’Azione. Mio padre era un umile insegnante di matematica, ma per casa nostra passavano uomini del calibro di Lombardi e Ugo La Malfa. E poi la città era segnata da due grandi personaggi: Mancini, socialista, e Sullo. Comizi in piazza, passione politica, polemiche. Cosenza era una capitale avanzata della sinistra.
Secondo fotogramma?Roma, il lavoro nell’Ugi, l’Unione goliardica Italiana. Nel 1953 conosco Marco Pannella. E ci troviamo dalla stessa parte quando Togliatti scioglie la Cudi, per far confluire tra noi i giovani comunisti.
Molti temevano la colonizzazione?E infatti l’accettazione o no di quella confluenza divenne una battaglia politica fra destra e sinistra in cui io e Marco scegliemmo la sinistra. Aneddoto: io ero presidente romano, e mi mandano a trattare due persone: Enzo Siciliano e Alberto Asor Rosa.
Ma il primo avvicinamento alla politica?Anche questa è una storia da raccontare. Non so come dirlo: per tutti quelli che erano “democratici” come lo ero io allora – a sinistra ma non comunisti, intendo – il faro era il mondo di Pannunzio. Una volta scoperto che arrivava nelle edicole a mezzanotte era tale la febbre di leggere, che andavano a farcelo vendere di notte, per anticipare l’uscita della mattina.
E riesci ad avvicinarti a Il Mondo?Oh sì, ma devo dirvi come. Eravamo dei ragazzi educati, forse timidi. Il mio migliore amico dell’epoca, insieme a Luigi Spaventa era Tullio De Mauro. Un giorno Elena Croce ci dice: “Andiamo al Mondo, vi presento Pannunzio”.
E lo fece?Altroché! Ricordo che lui ci dava del lei, e ovviamente anche noi, parlò, e alla fine ci disse: “Se volete scrivere qualcosa fatelo”.
Da toccare i cielo con un dito?Altroché. Scrissi il giorno stesso un articolo contro chi intendeva la mia facoltà, Giurisprudenza, come il luogo della mediocrità.
E lui cosa disse?La leggenda voleva che il direttore de Il Mondo avesse cestinato e fatto riscrivere un articolo sui fratelli Cervi, che noi avevamo letto ed era meraviglioso, a Luigi Einaudi. Il dettaglio non irrilevante era che si trovava già al Colle.
E quindi?Non ebbi il coraggio di chiamare. Mi chiedevo se sarebbe andato in pagina o no…. Puoi immaginare il mio stupore, quando, al solito acquisto notturno, scoprii che era in prima pagina! Mi iscrissi al primo partito radicale, quello che aveva come simbolo la minerva con il berretto frigio che aveva disegnato lo stesso Pannunzio.
Eravate un club elitario e illuminato.Illuminato di sicuro. Erano gli anni in cui si facevano le nazionalizzazioni perché c’erano stati i grandi convegni degli amici de Il Mondo, gli articoli di Ernesto Rossi… quanto al popolo, potrei farti sorridere.
Prego.Ci mandarono a comiziare, a me e a Gianfranco Spadaccia, a Borgata Gordiani… E come andò? Benissimo. Non c’era nessuno. Stavamo in piedi su una sedia a chiederci se parlare o meno quando arrivò il colpo di grazia.
E cioé?Un ragazzino romano, alto meno di un metro mi venne davanti, indicò il simbolo con il berretto frigio e mi disse balbettando: “E- e- e- ee.. c-c-c-chi sarebbe? C-c-cappuccetto rosso?”. Cose che per venti anni rinunci alla politica. E infatti così è stato.
Altra istantanea.Una mattina del 1951 sono all’università. Ma prima devo dirti che siccome all’Ugi gestivano anche dei soldi per le attività ricreative, io avevo tagliato i fondi della squadra di rugby, perché praticamente era una scuola quadri del Msi…
E questo che c’entra?Te lo spiego: siccome tutti temevano che mi trovassero e mi dessero una lezione, si convenne che una squadra composta da alcuni edili di San Lorenzo mi accompagnasse tutte le sere fino alla fermata. Poi, questi operai, capivano così bene le cose, che spesso finivo a cena a casa loro.
È questa l’immagine simbolo che ci vuoi raccontare?No, questo è il clima che la spiega. C’era un professore, Umberto Calosso, che era stato esule sotto il regime, che tornava in cattedra dopo quello che era dovuto scappare a Parigi. Socialista, socialdemocratico. I fascisti dicevano che gli avrebbero impedito di entrare in Aula perché “Traditore della patria”.
Incredibile.Ecco perché non mi dimentico questa immagine: c’è un signore, si trattava di Guido Calogero, che lo precede con un ombrello levato, per dire: “Badate, non ci facciamo intimidire!”. Vicino a quel signore c’era Lucio Lombardo Radice.
Che cosa era per te quella sinistra, essere di sinistra?La stessa cosa per cui sono e mi considero di sinistra oggi. L’idea dei diritti e l’idea dell’uguaglianza. Sono cambiate molte cose, nel mondo, ma non questo punto di partenza, per me.
Tutto è cominciato quando, una sera del dicembre 2008, ho visto apparire in televisione, al Tg1, il ministro dei Beni culturali e un alto funzionario di quel Ministero con un piccolo Cristo scolpito nel legno. Essi spiegavano che si trattava di un capolavoro di Michelangelo, che era stato appena acquistato dallo Stato, e che questa mirabile acquisizione compensava il taglio da un miliardo e oltre 300 milioni di euro che era appena stato inflitto al bilancio dei Beni culturali. Il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione erano condannati alla rovina: ma avevamo un capolavoro di Michelangelo. Per di più facilmente trasportabile in grandiose mostre all’estero.
Era tutto falso, tutto sbagliato, tutto distruttivo. Ma non tanto per quei soldi gettati, e non certo per l’attribuzione sbagliata: semmai per il valore diseducativo, intellettualmente desertificante, di quella propaganda. Era come se, in un attimo, quello stesso Stato che mi paga ogni mese per insegnare nelle aule universitarie distruggesse i valori e i contenuti di quello stesso insegnamento: il senso critico, la ricerca storica della verità, l’educazione al patrimonio contestuale.
Ed ecco, quella sera ho pensato che se io avessi taciuto, avrei perso il senso della mia stessa vita di studio e di ricerca. Lo Stato, la comunità dei cittadini mi aveva permesso di studiare storia dell’arte (e di farlo alla Normale di Pisa): in quel momento ebbi la percezione che se avessi scelto di chiudermi dentro la mia biblioteca, la mia tranquillità, la mia serena e appagata vita di studioso, avrei tradito quei cittadini, e la mia stessa coscienza. Così cominciai – io che non l’avevo mai fatto – a scrivere articoli sui giornali, e poi libri di denuncia.
Una sola bussola ha guidato questi scritti, e la dico con le parole di un bellissimo intervento di Giorgio Bassani sui Sassi di Matera: «ho un obbligo solo, quello di fare il ‘pazzo’. Cioè di dire tutta la verità, a tutti costi». «La parte che tocca a noi – ripeteva Bassani, parlando come presidente di Italia Nostra – è quella del ‘pazzo’, e siamo decisi a non assumerne altra».
In questi anni ho cercato di raccontare soprattutto l’agonia delle città italiane: a partire da Firenze, dove vivo, e da Napoli, dove insegno. Città diverse solo in apparenza, ma condannate entrambe: la seconda ad una rovina materiale più evidente, con uno dei patrimoni artistici più importanti del mondo che va letteralmente a pezzi, e l’altra condannata ad una rovina morale, perché ridotta a feticcio turistico alienante, a «macchina da soldi» come teorizza il suo sindaco-format. E se il declino terribile di Venezia (tra torri faraoniche, grandi navi e privatizzazione della città) è il futuro di Firenze, il destino tragico dell’Aquila terremotata rischia di sommare Napoli e Firenze: un grande centro distrutto che nessuno ricostruisce, ma che già si immagina come una sorta di enorme centro commercial-turistico, trasformandosi letteralmente in ciò che molte delle nostre città d’arte sono moralmente, e cioè città senza cittadini.
Invece non avrei mai immaginato, da studioso del barocco romano, di scrivere autentici pezzi di inchiesta: uno dei quali (quello sul saccheggio della Biblioteca napoletana dei Girolamini, apparso sul Fatto) ha innescato un’inchiesta che ha portato in carcere dodici persone, tra cui un consigliere del ministro per i Beni culturali e braccio destro di Marcello Dell’Utri.
Ma oltre alla sacrosanta denuncia del disastro del patrimonio e del paesaggio italiani, credo che uno storico dell’arte che parla ai cittadini, abbia un altro principalissimo dovere. Mi riferisco al dovere di provare a dire a cosa serve davvero il patrimonio storico e artistico della nazione. Questa è la cosa che mi sta più fortemente e più profondamente a cuore.
Dopo la rivoluzione epocale dell’articolo 9 della Costituzione repubblicana il patrimonio ha cambiato funzione. E la sua nuova funzione non è più la legittimazione del potere dei sovrani degli antichi stati italiani, ma è la costruzione sostanziale della nuova sovranità, quella dei cittadini. Il patrimonio appartiene oggi al popolo italiano. Che lo mantiene con le proprie sudatissime tasse non perché sia ‘bello’ e non perché sia il nostro petrolio, cioè una fonte di ricchezza materiale. Il novanta per cento della nostra fatica quotidiana, ventitré ore delle nostre ventiquattro, nove decimi delle nostre città, la quasi totalità dei nostri desideri e del nostro immaginario sono asserviti al potere del mercato e del denaro. Se pieghiamo a questo stesso, unico fine anche il poco che resta libero e liberante ci comportiamo esattamente come il Re Mida del mito e delle favole: ansiosi di trasformare tutto in oro, non ci rendiamo conto che ci stiamo condannando a morire di fame.
Il patrimonio, invece, è come la scuola: è un potentissimo strumento di educazione alla cittadinanza e di innalzamento spirituale. L’articolo 3 della Costituzione affida alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Il patrimonio storico e artistico della nazione è precisamente uno degli strumenti che permettono alla Repubblica di rimuovere quegli ostacoli, e di rendere effettiva la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Ma perché questo sia vero occorre che gli storici dell’arte come me facciano il loro lavoro. Nel dicembre del 1944 Roberto Longhi, scriveva al suo più caro allievo, Giuliano Briganti: «il primo bombardamento di Genova dovrebbe risolversi in un interminabile esame di coscienza per noi storici dell’arte. Anche noi, gli anziani soprattutto, siamo responsabili di tante ferite al torso dell’arte italiana, almeno per non aver lavorato più duramente, e per non aver detto e propalato in tempo quanti e quali valori si trattava di proteggere. Anche se il desiderio era di lavorare per molti, di esser popolari (e tu ricorderai che il mio proposito era quello di arrivare un giorno a scrivere per disteso il racconto dell’arte italiana a centomila copie per l’editore Salani) si è lavorato per pochi, e anche voi giovani siete sempre in pochi, direi anzi che andate diradandovi: proprio oggi che ci bisognereste a squadroni. Di qui, del resto, si risale ad altre vecchie carenze della nostra cultura: la storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva (se vuole avere coscienza intera della propria nazione): serva, invece, e cenerentola dalle classi medie all’università; dalle stesse persone colte considerata come un bell’ornamento, un sovrappiù, un finaletto, un colophon, un cul-de-lampe di una informazione elegante». Oggi, nel 2012, a settant’anni di distanza possiamo fare nostre le parole di Longhi. Il patrimonio storico e artistico della nazione, quello che – secondo il rivoluzionario articolo 9 della Costituzione – la Repubblica dovrebbe tutelare, è sottoposto ogni giorno ad un bombardamento di degrado materiale, sfruttamento morale, abbandono culturale.
Oggi come nel 1944 gli storici dell’arte, gli intellettuali in generale, devono farsi l’esame di coscienza di cui parlava Longhi: abbiamo fatto tutto quello che potevamo per spiegare «quanti e quali valori si trattava di proteggere»? Abbiamo provato ad essere davvero ‘popolari’, cioè a parlare al popolo sovrano, che del patrimonio è l’unico padrone? Abbiamo fatto in modo che la storia dell’arte non serva solo agli storici dell’arte?
Nell’XI canto del Purgatorio Dante parla della lingua degli italiani: quella di Guido Guinizzelli, di Guido Cavalcanti e di lui stesso che la stava elevando all’altezza di una vera lingua nazionale. Ma pochi versi prima Dante parla dell’altra lingua degli italiani: quella di Cimabue e Giotto. Una lingua di figure, ma soprattutto di palazzi, chiese, strade, campagne, coste, montagne. E oggi è vitale bisogno che gli italiani del futuro, i bambini e i ragazzi di oggi, imparino (e possibilmente reinsegnino ai loro genitori) questa nostra seconda lingua nazionale: che reimpariamo tutti che il patrimonio storico e artistico che ci appartiene in quanto cittadini sovrani è la forma dei nostri luoghi, è una indivisibile fusione tra arte e ambiente, è un tessuto continuo di chiese, palazzi, strade, paesaggio, piazze. Non una specie di contenitore per ‘capolavori assoluti’, ma proprio il contrario, e cioè la rete che congiunge tante opere squisitamente relative, e che hanno davvero un significato (artistico, storico, etico, civile) solo se rimangono inserite in quella rete.
Per uno storico dell’arte, scrivere sui giornali significa dunque poter allargare il pubblico a cui è destinata quella «resurrezione del passato» (per usare una frase di Jules Michelet molto amata da Francis Haskell) che è l’obiettivo del suo lavoro.
Leggendo la motivazione del premio, Alessandra Mottola Molfino ha detto che i miei articoli hanno sottoposto a dura e radicale critica anche il Ministero dei Beni Culturali. È vero: in questo drammatico momento il patrimonio artistico italiano va difeso anche dalle deviazioni dei vertici del Mibac.
Pochi giorni prima di sapere che Italia Nostra mi aveva conferito il Premio Bassani ho appreso che il ministro Lorenzo Ornaghi ha chiesto i danni al «Fatto quotidiano» e al sottoscritto perché il ministero sarebbe stato diffamato in un mio articolo dello scorso luglio dedicato all’insensata, dannosa e mio parere illegittima mostra del Rinascimento fiorentino a Pechino.
In quell’articolo, infatti, scrissi che uno dei problemi del Mibac è la «corruzione della burocrazia». Il contesto del pezzo (tutto tessuto con brani di Antonio Cederna e Roberto Longhi) era chiarissimo: non si parlava di mazzette, o illeciti. Sostenevo, invece, la tesi che il corpo dirigente del Mibac sia corrotto, letteralmente: putrefatto, disfatto, dissolto. Una specie di 8 settembre del patrimonio storico e artistico della Nazione.
E d’altra parte, le prime vittime di tutto questo sono le centinaia di funzionari irreprensibili abbandonati in prima linea. La maggior parte dei miei articoli di denuncia di casi di malatutela scaturisce da accoratissime email di soprintendenti e funzionari, che ogni giorni chiedono a me (come a Salvatore Settis, a Gian Antonio Stella e a un pugno di altri volenterosi) di aiutarli nella loro battaglia quotidiana: una battaglia in cui si sentono traditi da una burocrazia ‘corrotta’ nei princìpi, cioè immemore della sua missione e piegata alla volontà della classe politica. Ed è anche per dare voce alla grande maggioranza del Mibac che si deve criticare con durezza la minoranza corrotta che lo tiene in scacco.
È una situazione davvero grottesca: Ornaghi è il più acceso sostenitore dello smantellamento del ministero (vuole, per esempio, conferire Brera ad una fondazione), io sono invece convinto che lo Stato-collettività debba continuare a mantenere per tutti un patrimonio di tutti. Ma sarebbero le mie argomentate critiche, e non la sua pessima politica, a colpire la tutela pubblica!
Se promuovendo questa intimidazione il ministro Ornaghi ha inteso mettermi un bavaglio, otterrà il risultato esattamente opposto. Non desidero entrare in politica, non desidero alcun incarico nel ministero, non rispondo che alla mia coscienza: desidero continuare a fare per tutta la vita il professore universitario di storia dell’arte. E credo che tra i diritti e i doveri che la Costituzione mi garantisce e mi impone ci sia anche quello di denunciare pubblicamente la rovina delle opere che studio, e di investigarne le cause. Anche quelle che riguardano una burocrazia e una politica che non servono più quella stessa Costituzione.
Oggi, grazie ad Italia Nostra e al Premio Giorgio Bassani, queste idee sono un poco più forti.
Grazie.
Il testo costituisce un ampliamento del discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Bassani 2012 di Italia Nostra, svoltosi a Ferrara il 18 novembre 2012.
Peraltro, nuovi “no” alla cultura erano già programmati. Confermati dal ministro Ornaghi. Secondo Federculture, un’altra amputazione al bilancio del MiBAC per 103,3 milioni nel 2013. Portato a 125 nel 2014 e a 137,5 nel 2015. Un autentico svenamento e disossamento. Puniti i fondi per la tutela, pochi e già salassati (- 61,6 milioni). Coi tecnici sparuti, e malpagati, delle Soprintendenze ai beni architettonici che dovrebbero sbrigare ciascuno 4-5 pratiche edilizie o urbanistiche al dì nel migliore dei casi e addirittura 79 nel caso di Milano. In un Paese aggredito da cemento+asfalto da ogni parte. Parlare in queste condizioni di “meno Stato e più privati” significa l’eutanasia del Ministero fondato nel 1974 da Giovanni Spadolini e con essa dell’interesse di un ceto dirigente alla cultura e alla ricerca.
Un suicidio economico, oltretutto: il turismo culturale è il solo a “tirare”:+ 20 % negli ultimi due anni. Nel decennio le presenze italiane nelle città d’arte sono aumentate del 17 % ; quelle straniere addirittura del 54 %, e rappresentano ben più della metà (esattamente il 57 %) del totale. Ne tengano conto quanti chiacchierano a vuoto di “petrolio”, di “economia della cultura”: questa non è formata direttamente da musei, siti, borghi o castelli, bensì dal loro indotto turistico. Se però non si tutelano e restaurano adeguatamente i primi, se li si lascia imbruttire, assediare dal cemento, da auto e pullman, da un repellente apparato di “mangiatoie”, di negozi di souvenirs, dehors di plastica e di altre schifezze, si dissipa anche l’indotto.
C’è ancora chi straparla di musei – per esempio gli Uffizi – come “macchine da soldi”. Per i musei in sé stessi è una ignorante sciocchezza. Per l’indotto è un altro discorso. Il più visitato museo del mondo, il Louvre, alla soglia (inquietante) dei 9 milioni di ingressi, nel 2008 ha ricevuto 118,8 milioni di sovvenzione statale (circa il 60 % delle entrate) per poter chiudere in pareggio e fare ancora cultura. Non molto diversa la situazione del Metropolitan Museum. Al convegno dell’Eliseo mi pare che lo slogan “sfruttare i beni culturali”, specie dopo la secca presa di posizione di Giorgio Napolitano, sia finito in retrovia. Soltanto il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele, ha evocato la formula magica: se il settore pubblico non è in grado di gestire, subentriamo noi. Col patrimonio e coi soldi dello Stato com’è previsto per la Grande Brera? Anzi, con una “dote” più ricca di denaro pubblico? Il contrario di quanto succede con le Fondazioni Usa che i soldi li mettono anziché prenderli. Si sono avanzate altre proposte. Per ora un po’ fumose invero. Nessuno che pensi, ad esempio, a riattivare una buona legge come la n. 510 dell’82 (Scotti) la quale mise in moto – con una detrazione fiscale secca e certa – oltre 300 miliardi di lire di restauri privati in dimore e giardini storici. Per cui, in capo a pochi anni, il Fisco, avendo promosso lavori e occupazione, ogni 100 lire di detrazione, ne incassò 147. Ci vuole uno Stato capace di agevolare concretamente i privati che donano, danno, sponsorizzano. Non privati che pretendono di sostituirsi allo Stato. “Quelli sarebbero volpi nel pollaio”, ha commentato un noto storico dell’arte americano. Da noi non sarebbe la prima volta.
Dopo mesi di dibattito, di rinvii, e con maxi-emendamento finale, è stata definitivamente approvata la legge regionale che recepisce il cosidetto decreto sviluppo (art. 5 D.L. 70/2011 convertito, con modificazioni, dalla L. 106/011).
Una brutta legge che, nella disattenzione generale, solo grazie alla mobilitazione delle associazioni ambientaliste e a una tenace opposizione in Consiglio Regionale del Consigliere del P.R.C., ha perso gli aspetti più aberranti e dirompenti dell’originario progetto di legge.
Un provvedimento voluto soprattutto dall’A.N.C.E., insoddisfatta degli esiti del Piano Casa vigente e del tutto disinteressata all’approvazione della nuova L.U.R. in itinere, che, in verità, non piace a nessuno ed è troppo lontana dalle necessità dei costruttori. Un provvedimento condiviso tiepidamente dalle associazioni di categoria e dai sindacati, preoccupati delle difficoltà che il settore edilizio attualmente attraversa. Un testo avversato con convinzione dalle associazioni ambientaliste Italia Nostra e W.W.F., che vedono illusorio affidare ad ulteriore quantità di costruito la soluzione di una crisi che non si risolve immettendo su un mercato già saturo ulteriori alloggi. Abitazioni che, peraltro, non sono destinate a coloro che ne avrebbero effettivo ed urgente bisogno ma che non sono nelle condizioni di acquistarle.
Di seguito, si richiamano gli aspetti di maggiore criticità della normativa approvata che pare somministrare una sorta di doping estremo al fine di dare un nuovo, quanto effimero vigore ad un settore ormai sfiancato. Invece di promuovere processi virtuosi di riqualificazione urbana ed edilizia attraverso l’incentivazione di interventi e di azioni capaci di contemperare iniziativa privata e interesse pubblico, si preferisce puntare unicamente ad una cosistente valorizzazione della rendita fondiaria urbana, innescando pericolosi conflitti fra riuso del patrimonio esistente e qualità dell’abitare, fra occupazione e qualità dell’ambiente.
In primo luogo, i premi di volumetria (fino al 50% del volume esistente) o di superficie (fino al 35%) sono esageratamente generosi sia per gli interventi su edifici residenziali, sia per quelli non residenziali, soprattutto perché al di fuori di ogni controllo, di qualsiasi possibilità di indirizzo da parte dell’ente pubblico.
Ciò che il Comune può fare con propria deliberazione, atteso che i premi volumetrici e di superficie previsti dal D.L. nazionale si applicano comunque e dappertutto, è l’esclusione di alcune zone del territorio comunale dalle premialità aggiuntive previste nel testo di legge regionale.
La normativa si declina sostanzialmente in termini puramente edilizi, una sorta di Piano casa 2, più flessibile del precedente e soprattutto includente le trasformazioni d’uso. Viene escluso il ricorso al trasferimento dei volumi, operazione complessa che avrebbe richiesto un approccio di tipo pianificatorio; non c’è alcuna possibilità di riflessione sull’assetto urbano come non c’è alcuna considerazione per qualsiasi strumento rivolto alla riqualificazione dei tessuti, di parti di città, a ribadire la sostanziale sfiducia dei costruttori per l’urbanistica e per le capacità di gestione delle pubbliche amministrazioni.
L’articolato prevede, inoltre, una indiscriminata monetizzazione degli standard urbanistici, senza condizioni (di nuovo, monetizzazione comunque e dovunque) peraltro attestandosi non alle superfici previste a tale scopo dai P.R.G., ma ai minimi di legge definiti dal D.M. 1444/68. Insomma potrà accadere che gli ambiti più congestionati e centrali della città, quelli in cui più alta è la rendita di posizione e conveniente la trasformazione, diventino ancor più congestionati per l’accrescimento dei carichi insediativi, attestato che gli spazi per verde e parcheggi saranno reperiti altrove, cioè dove possibili e non dove necessari. Si consideri anche che è consentita la possibilità di deroga ai parametri previsti dai P.R.G. per il controllo della conformazione dell’edificato: i soli limiti all’edificazione, rispetto alle densità, altezze e distanze delle costruzioni, sono quelli previsti nel richiamato decreto ministeriale del 1968. La riqualificazione urbana non è in campo, ciò che interessa sono unicamente gli investimenti privati da incentivare.
Può accadere, come accade a Pescara in una zona strategica per lo sviluppo della città, un’ampia area dismessa fra mare e fiume, che progetti edilizi contrastino con evidenza le scelte compiute attraverso un piano attuativo di iniziativa pubblica da poco adottato. Paradossalmente vengono incentivati interventi che compromettono l’attuazione degli scenari di riqualificazione prefigurati dall’ente pubblico: un paradosso che deriva dalla possibilità prevista dal D.M. di avvalersi, nelle more dell’approvazione delle leggi regionali, anche negli interventi di privati, dei permessi di costruire in deroga ai P.R.G.; con la differenza che, nel caso di interventi pubblici la L. 380/01, art. 14, prevede il pronunciamento del Consiglio Comunale, mentre nel capoluogo abruzzese il permesso in deroga ai privati è stato rilasciato senza ritenere necessario tale adempimento.
Si rinuncia, di fatto, alla principale finalità posta alla base del D.M. ovvero quella di “promuovere e agevolare la riqualificazione delle aree urbane degradate” circoscrivendo i compiti della normativa al rilancio del settore delle costruzioni e alla parziale riqualificazione edilizia. Parziale riqualificazione perché:
- la Regione Abruzzo non ha nel suo repertorio normativo nessuna specifica legge sulla sostenibilità delle costruzioni e pertanto le premialità sono attualmente assegnate sulla base della sola classe energetica (10% del volume esistente per edifici residenziali in classe A e 10% della superficie per edifici non residenziali in classe B), parametro importante ma non esaustivo, in un processo di effettiva riqualificazione ambientale del costruito;
- affidato ad interventi di ristrutturazione o di demolizione e ricostruzione puntuali; interventi introversi, concepiti isolatamente, in cui non entrano in gioco i rapporti con il contesto e quindi incapaci di attivare processi di rigenerazione urbana.
Infine, la legge è applicabile anche alle zone agricole nelle quali, attraverso la complementarietà delle destinazioni, è possibile che si accresca l’estraneità degli edifici esistenti alle pratiche agricole. D’altra parte, la complementarietà degli usi prevista nella normativa regionale può essere variata dai comuni solo in ampliamento della casistica predefinita e non già per escludere, eventualmente, le utilizzazioni ritenute incongrue.
In conclusione quella che poteva presentarsi come un’opportunità per incentivare il recupero dell’edilizia esistente, a fronte del contenimento di occupazione di nuovi suoli non urbanizzati, si trasforma in Abruzzo in una potenziale colata di cemento a partire dalle aree in cui maggiore dovrebbe essere l’attenzione agli aspetti qualitativi e di riorganizzazione urbana.