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la Repubblica il manifesto e Corriere della Sera, 16 dicembre 2012, postilla (f.b.)

la Repubblica Il trionfo di Ambrosoli, correrà per il Pirellone
di Alessia Gallione

MILANO — È Umberto Ambrosoli il candidato del centrosinistra che tenterà la scalata al Pirellone. E questa volta, dopo quasi diciotto anni di dominio incontrastato di Formigoni e Lega, la coalizione ci crede. A incoronare l’avvocato penalista sono state le primarie del “Patto civico”, cui hanno partecipato 150mila lombardi: così è stata ribattezzata la corsa per rappresentare il tentativo di allargare i confini tradizionali dei partiti. Una sfida a tre, vinta da Ambrosoli con il 58 per cento delle preferenze. Secondo con il 23 per cento – e questa può essere giudicata una sorpresa rispetto ai sondaggi della vigilia – il giornalista esperto di temi ambientali ed economici Andrea Di Stefano, che ha strappato l’appoggio di pezzi di Sel, Rifondazione e, a distanza, del sindaco di Napoli De Magistris. Una percentuale simile a quella di Alessandra Kustermann, la ginecologa fondatrice del primo centro contro la violenza alle donne, che si è fermata al 19 per cento. Ma, adesso, parte la battaglia vera. Quella contro il centrodestra.

La «prima scommessa vinta», dice il segretario regionale del Pd Maurizio Martina, è stata la partecipazione. Alla vigilia, la terza chiamata alle urne nel giro di un mese del popolo delle primarie sembrava un’incognita. Certo, i 440mila in fila ai seggi del primo turno del duello per la premiership sembrano un miraggio. Ma gli organizzatori mettevano in conto la stanchezza dei militanti, persino l’incrocio tra la neve caduta su tutta la regione e lo shopping natalizio. Centomila era l’obiettivo: si è arrivati a 150mila, di cui oltre 40 a Milano.

E lui, «l’uomo del cambiamento » in Lombardia, è Umberto Ambrosoli, il candidato che molti partiti, a cominciare dal Pd, hanno corteggiato fin da quando, negli scorsi mesi, la poltrona di Roberto Formigoni ha vacillato. Inizialmente, l’avvocato aveva declinato l’invito: troppo poco tempo per costruire il suo progetto. Poi, a inizio novembre, la svolta. È allora che anche le primarie, a cui si erano già candidati Kustermann e Di Stefano, sono state persino messe in dubbio. Ma, alla fine di una campagna-lampo giocata cavalcando temi simbolo come il dualismo tra sanità e la scuola pubblica o privata, Expo, l’ambiente e le ricette per vincere la crisi, il centrosinistra ha scelto. E lo ha fatto con una coalizione allargata dal Pd a Sel, dall’Idv a Rifondazione e soprattutto alla società civile. Uno schieramento che dovrà tradursi un una squadra per sfidare il centrodestra.

Da oggi si riparte. «Tutti insieme », giurano gli (ex) avversari. Con Di Stefano che punterebbe a un assessorato che unisca ambiente e lavoro e la Kustermann, invece, che vorrebbe proseguire la sua sfida accorpando sanità e welfare. A invocare la svolta è il sindaco Giuliano Pisapia, sponsor dell’avvocato: «Questo centrosinistra aperto e plurale non ha paura della mischia e si butta per vincere la partita», dice. Una sfida chiave anche in chiave nazionale per diversi motivi: la Lombardia potrebbe determinare gli equilibri nel prossimo Senato e questa è stata per quasi un ventennio la culla del berlusconismo e della Lega che, non a caso, per il Pirellone ha già schierato il suo leader Roberto Maroni.

la Repubblica ed. Milano
La forza per vincere
di Roberto Rho

UMBERTO Ambrosoli ben oltre la metà dei consensi dei 150mila lombardi che hanno sfidato il gelo e lo shopping prenatalizio per accostarsi ai seggi è insieme la conferma che le primarie fanno bene a chi accetta la sfida e la garanzia che il centrosinistra, nella corsa per il Pirellone, avrà un candidato solido e attrezzato per vincere. Il giovane avvocato è l’incarnazione di quel bisogno di etica nella vita pubblica che l’interminabile sequenza di episodi di malaffare – fino allo scandalo dei lecca-lecca e delle cartucce da caccia pagate con i soldi dei contribuenti – ha reso urgente e ineludibile. Ma etica e trasparenza sono un prerequisito, non un programma. Ambrosoli, con il suo 58%, ha la forza (ma poco tempo) per costruirlo, facendo buon uso delle proposte ascoltate durante questo scorcio di campagna e delle idee messe in campo dagli altri candidati, soprattutto quelle più innovative di Di Stefano. Ha la forza per proseguire con decisione sul sentiero civico, lavorando “insieme” ma non “per” i partiti, per compilare liste elettorali fresche e stimolanti, per presentare un progetto di governo che riavvicini i cittadini all’istituzione. L’occasione è storica, il traguardo è più vicino.

ll manifesto L’ottimismo della regione
di Luca Fazio

MILANO -. Ha vinto chi doveva vincere, l'avvocato Umberto Ambrosoli, anche perché in Lombardia, laddove era più forte la macchina organizzativa del Pd, non c'era partita. Ma l'affermazione dei due sfidanti, Andrea Di Stefano e Alessandra Kustermann, ha del clamoroso, perché il primo era sostenuto solo dal Prc e perché la seconda si è candidata sostanzialmente da sola, anzi addirittura osteggiata dal suo partito, il Pd. Intorno alle 22 di ieri sera le percentuali dicevano 58% Umberto Ambrosoli, 23% Andrea Di Stefano e 19% Alessandra Kustermann.

Ma, al di là del lato lombardo, la vera partita politica di queste primarie si è giocata tutta a Milano, dove ha votato quasi la metà degli oltre 130 mila elettori lombardi che si sono recati ai seggi. E sicuramente i dati disaggregati del capoluogo lombardo (usciti troppo tardi per darne conto sul nostro giornale) dicono che i due candidati «perdenti» si sono ulteriormente avvicinati a quello che era il vincitore predestinato. E il voto di Milano peserà non poco negli assetti della nuova squadra che il prossimo febbraio dovrà sfidare il centrodestra per conquistare il Palazzo della Regione.

Di questo, già oggi, parleranno i tre candidati guardandosi negli occhi. Il vincitore, a caldo, ha confermato la sua intenzione di lavorare «tutti insieme», anche perché a questo punto non potrà fare diversamente. E lo si capisce dalle prime dichiarazioni di Andrea Di Stefano, il quale dopo i complimenti di rito ha già lasciato intendere che quel suo 22% (e più a Milano) dovrà pesare non poco nell'elaborazione del programma. «Penso che sia un ottimo risultato - ha dichiarato a Radio Popolare, che ieri si è trasformata in una specie di Viminale, ma più efficiente - nonostante i lombardi siano andati a votare con un tempo folle. Adesso questo risultato lo faremo pesare in termini programmatici nella competizione con il centrodestra che non sarà facile. Non si tratta solo di parole, bisogna mettersi d'accordo nella sostanza. Va bene dire tutti insieme, ma bisogna dire per fare cosa».

Insomma, nonostante tutto i cittadini lombardi ci hanno creduto ancora una volta. Soprattutto i milanesi. Soprattutto quelli di una certa età. I «giovani», come al solito, anche questa volta non sono andati a votare. L'asticella della partecipazione comunque si è fermata ben oltre quota centomila, un buon risultato. Non tutti se lo aspettavano e forse non si poteva chiedere di più allo sfilacciato «popolo» della sinistra chiamato ancora una volta a compiere un atto di fede nei confronti di una politica che non riesce a trovare altri sbocchi se non quelli offerti dagli stessi partiti che troppe volte hanno deluso. La realtà, il segreto, è che mai come in queste primarie i candidati sono stati percepiti come sufficientemente autonomi dai partiti, perché più forti e credibili di ogni segreteria.

Grazie alla loro storia, che parla da sola. Umberto Ambrosoli, il relativamente giovane avvocato, forse troppo moderato, ma che nel tempo ha saputo accreditarsi come il paladino della legalità e della moralità dentro e fuori dal Palazzo, una figura senza alcun dubbio più forte e credibile di tutta la segreteria del Pd messa insieme, che infatti lo ha appoggiato ma senza poter strafare. Andrea Di Stefano, «il professore» della sinistra radicale moderna, la vera sorpresa di queste primarie lombarde, mai velleitario, preciso come un orologio svizzero e sempre competente ai limiti della secchionaggine, sostenuto dal Prc con intelligenza e discrezione, cioé con la consapevolezza che questa volta era necessario mettersi a disposizione di un candidato così «nuovo» e forte che sembra quasi caduto dal cielo. E poi Alessandra Kustermann, una donna tosta, motivata e piena di energia orientata senza alcun timore a sinistra, laica, paladina della scuola e della sanità pubblica.

Se sapranno davvero lavorare insieme, questa è una squadra che potrebbe giocare per vincere la partita più importante. Il bello, adesso, o il difficile, sarà riuscire a dare concretezza a quel 42% di cittadini (Di Stefano più Kustermann) che ha espresso chiaramente il desiderio di battere la destra con un centrosinistra spostato a sinistra. Un fatto inedito, una lezione che non è certo affare dei soli cittadini lombardi.

Corriere della Sera Pisapia apre la campagna in Lombardia: «Vincere qui per governare a Roma»
di Maurizio Giannattasio

MILANO — Ora comincia la partita vera. Quella tosta. Quella che dopo 17 anni di governo del centrodestra potrebbe portare alla grande svolta del Pirellone. Il centrosinistra al comando della Lombardia. Lo sa bene Umberto Ambrosoli — 41 anni, avvocato, figlio dell'«eroe borghese», non avvezzo alla politica politicante e tanto meno a quella politicata — che adesso comincia il difficile. Lo sa bene anche il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. La sfida lombarda è fondamentale: «Ho votato Ambrosoli perché è il candidato che ha più possibilità di vincere. Se non si vince adesso in Lombardia, non si vince più. E se non si vince in Lombardia non si vince neanche in Italia. La nostra Regione è fondamentale per vincere le elezioni nel Paese». Aggiunge su Facebook: «Dopo 17 anni, Palazzo Lombardia ha davvero bisogno di aria fresca e il centrosinistra con Ambrosoli porterà quel cambiamento che tutti aspettiamo...».

Ambrosoli è consapevole del fardello che gli pesa sulle spalle. Da una parte si dovrà scontrare con (almeno) due personaggi come Roberto Maroni e Gabriele Albertini che di solito non la mandano a dire, il primo fortemente identitario, il secondo espressione di un rinnovato civismo dopo la parentesi del Pdl. Dall'altra Ambrosoli deve coniugare la sua estrazione civica con il senso identitario della sinistra che spesso e volentieri non ha apprezzato le sue uscite su tanti argomenti: dalla sanità alla scuola, alle dichiarazioni troppo blande su Cl.

Un quadro speculare. Una battaglia fuori e una dentro fatta degli stessi ingredienti: civismo versus appartenenza, società civile in alternativa ai partiti (che non si sono ancora dimenticati delle prese di distanza dell'avvocato all'inizio del suo cammino politico). La ricetta, potrebbe essere quella del suo grande sponsor Pisapia. Il sindaco lo ha ripetuto in questi giorni. Il motto è: allargare, allargare, allargare. Più ascolto, più territorio e meno partiti. Con un'avvertenza: il cammino vincente di Pisapia e del Modello Milano è esattamente l'opposto di quello che dovrà affrontare Ambrosoli. Pisapia era profondamente radicato nella sinistra e il suo «allargamento» al civismo è stato un lunghissimo percorso durato un anno. Ambrosoli parte dal civismo per «allargarsi», o per meglio dire, convincere l'ala sinistra del suo schieramento. E dovrà farlo nel giro di due mesi. Con un ulteriore paradosso. Ambrosoli il candidato più «civico» dei tre sfidanti alle primarie di coalizione è anche quello che si è ritrovato con l'endorsement politico più pesante, quello del Pd e del suo segretario Pier Luigi Bersani. A differenza, per esempio, della sua antagonista Alessandra Kustermann che ha collezionato negli anni le tessere di Pci, Pds, Ds, Pd. Sfrondare questa ambiguità di fondo sarà un altro compito a cui Ambrosoli dovrà dedicarsi in questo breve lasso di tempo. Pena, lasciare una buona fetta di «civismo» al suo competitor Gabriele Albertini.

Di fronte a queste contraddizioni e alla difficoltà del percorso c'è però un dato di fatto. Si chiama election day. Impossibile pensare che a Roma ci sia una coalizione di centrosinistra e qui in Lombardia un'altra. La coesione dell'alleanza dovrà essere garantita e anche i mal di pancia di Sel e della sinistra nei confronti dell'avvocato dovranno fare i conti con il dato politico. E poi, per la prima volta dopo 17 anni, c'è la grande speranza che questa sia la volta buona, soprattutto se il centrodestra si spaccherà con Maroni da una parte e Albertini dall'altra. L'occasione è troppo ghiotta per farla fallire in base a differenziazioni che il popolo di centrosinistra farebbe fatica a comprendere. Per questo si pensa ad almeno 3 liste per sostenere Ambrosoli. Pd, Sel, che potrebbe avere come capolista Andrea Di Stefano al secondo gradino del podio delle primarie, e una lista civica lombarda per Ambrosoli.

Resta la grande incognita. La discesa in campo del premier Mario Monti. Con ripercussioni immediate in Lombardia. Perché il candidato in pectore della possibile lista Monti, qui c'è già. Si chiama Albertini che a quel punto potrebbe portarsi dietro una buona fetta del Pdl spaziando ampiamente verso il centro e limitando lo spazio di movimento di Ambrosoli. Quindi, il mantra che va ripetendo Pisapia da settimane, acquista ancora maggiore importanza: «Allargare, allargare, allargare». Tanto i partiti, anche quelli più riottosi nei riguardi dell'avvocato «moderato» non potranno fare altro che seguire (o inseguire). Nessuno vorrà essere ritenuto l'artefice della sconfitta del centrosinistra dopo tre lustri di batoste.

Postilla - Centrosinistra e Megalopoli Padana

Nelle primarie Lombardia del centrosinistra è stato probabilmente Andrea Di Stefano, a cogliere e sostenere meglio l'idea che sia necessario costruire un intero modello di sviluppo regionale alternativo a quello formigoniano, e/o a quello complementare degli interessi profondi “valligiani” puntualmente ricordato ieri da Aldo Bonomi (che se ne fa da sempre cantore) sul Corriere, mentre i cittadini andava no ai seggi. Di Stefano comprende bene, forse meglio di tanti che lo sostengono, quanto sviluppo alternativo non significhi solo legalità, o sostituire certi interessi particolari implicitamente buoni ad altri che non lo sarebbero, ad esempio non chi e come realizza le autostrade, ma se è opportuno proseguire col criterio della cosiddetta Città Infinita. Ha colto anche l'entità della sfida con un candidato forte come Roberto Maroni, il quale oltre a poter contare sulle sue classiche reti di consenso, ha saputo evocare la dimensione macroregionale: quella che la Lega chiama Padania e di cui auspica la secessione, e che esiste anche nella realtà come sistema integrato, al pari di altre "megalopoli" europee. Una delle tante domande che ora, con l'avvicinarsi delle elezioni, varrebbe la pena porsi, è: il centrosinistra, le forze progressiste, ce l'hanno un'idea alternativa di macroregione? Oppure sono convinti che, pure di fronte a una integrazione di fatto delle reti infrastrutturali, socioeconomiche, e a temi ambientali e di sviluppo evidenti (per tutti l'abbattimento degli inquinanti e delle emissioni), la megalopoli resti solo un'espressione geografica? Forse è uno degli errori più rischiosi, lasciare il monopolio alla destra leghista su un tema del genere (f.b.)

Un’inchiesta di grande rilievo dai risultati inquietanti: nonostante gli sforzi senza risparmio della Soprintendenza Archeologica, continua lo sfregio della regina viarum. Repubblica on-line, 10 dicembre 2012 (m.p.g.)

Un milione e trecentomila metri cubi. Tanti, tantissimi sono gli abusi edilizi nell'Appia Antica, la strada romana che risale al 312 avanti Cristo e che dal centro dell'urbe giungeva fino a Brindisi. Ma un milione e trecentomila metri cubi sono solo il volume di interi edifici costruiti senza licenza. Ville, soprattutto. Residenze sfarzose, oasi per imprenditori e professionisti, un tempo anche per la gente del cinema, per notabili democristiani e socialisti. Ai casali ristrutturati, nelle cui facciate sono spesso conficcate lapidi e frammenti di sarcofago, vanno aggiunti box, garage, depositi, magazzini, sopraelevazioni, piscine, parcheggi, che non sono calcolati in quel rendiconto dell'illecito. Ed extra sono anche i cambi di destinazione d'uso, altrettanto invasivi quanto il cemento, perché se un annesso agricolo diventa residenza occorre allacciarsi alle fognature, scavare per le fondazioni e per le tubature in un terreno archeologicamente sensibile, producendo, inoltre, un carico urbanistico, e dunque più abitanti, più macchine...

Il fenomeno è inarrestabile, dura da decenni in quest'area grande 3.500 ettari, paesaggio e archeologia fusi in un ambiente che non ha molti paragoni al mondo. L'abusivismo nell'Appia Antica lo denunciava Antonio Cederna già negli anni Cinquanta e Sessanta. Ma ancora oggi fioccano le denunce, ma non si vede ombra di ruspa: le ultime demolizioni, pochissime in totale, risalgono al 2009. Il calcolo degli abusi l'ha compiuto l'urbanista Vezio De Lucia per conto della Soprintendenza speciale archeologica di Roma. Attualmente sull'Appia Antica, stando a questa indagine, giacciono 2,7 milioni di metri cubi di costruzioni. Comparando vecchie e nuove mappe, De Lucia ha però potuto stabilire che quasi la metà sono stati realizzati dopo il 1967, cioè dopo il Piano regolatore della capitale che dichiarava inedificabili i terreni intorno alla strada romana. E sono dunque abusivi. La rilevazione, aggiornata al novembre 2011, integra uno studio condotto nel 2003. Si tratta però, spiega De Lucia, soltanto di interi manufatti costruiti violando le leggi. Il resto, aggiunge l'urbanista, è difficilmente stimabile. Ma è imponente.

Un suono sinistro emanano, nella relazione di De Lucia, le parole che si leggono alcune righe più sotto le tabelle con i dati: si sarebbe potuto fare di più e meglio se si fossero possedute cartografie maggiormente dettagliate e se ci fossero state risorse maggiori. Il che vuol dire una cosa molto semplice. Per arginare l'abusivismo in uno dei luoghi di più struggente bellezza che ci siano non solo a Roma, per assicurare a tutti il godimento pieno di un bene della comunità (il paesaggio, l'archeologia, la memoria), un bene che diffonde senso di cittadinanza, per tutto questo e per tutelare con efficacia l'Appia Antica, mancano gli strumenti minimi, le amministrazioni lesinano documenti e fonti di conoscenza, e scarsi sono i fondi. Dalla Soprintendenza archeologica partono lettere al ministero per i Beni culturali. Si chiede l'istituzione di un organismo ad hoc che superi la palude burocratica. "Noi denunciamo gli abusi, ma non accade nulla. Tutto si ferma sui nostri tavoli", lamenta Rita Paris, direttrice dell'ufficio della Soprintendenza che ha la competenza sull'Appia Antica. "Ci arrivano dal Comune domande di condono che neanche si potrebbero accettare, perché violano vincoli archeologici, e noi passiamo il tempo a negare autorizzazioni in sanatoria. Ogni forma di tutela rischia di essere vanificata".

Qui sono il sepolcro degli Scipioni, il sepolcro di Geta e di Priscilla, la Porta San Sebastiano, e poi i colombari, le catacombe di San Callisto e di San Sebastiano, il Circo di Massenzio, il Mausoleo di Romolo e quello di Cecilia Metella, il Castrum Caetani, la tomba di Annia Regilla, i Tumuli degli Orazi e dei Curiazi, il complesso termale di Capo di Bove, la splendida Villa dei Quintili. E poi la valle dell'Almone, il fiume sacro ai romani, con i boschi di leccio e di roverella, il pianoro ondulato di Tor Marancia, le cave e le colate laviche che ai grandi viaggiatori davano l'impressione di trovarsi in un deserto, al centro del quale spuntava Roma.

Gran parte dell'Appia Antica è proprietà privata. E nelle proprietà private sono anche monumenti resi invisibili da alti muri di recinzione. L'Ente Parco organizza visite guidate in alcune tenute, ma solo su appuntamento e per piccoli gruppi. Un contenzioso si è aperto la scorsa estate con la Saita, una società della principessa Pallavicini: una splendida residenza in un parco proprio a ridosso di Porta San Sebastiano, in cui sono contenuti sepolcri e l'Oratorio dei sette dormienti, costruito nel XII secolo su una villa romana del II secolo, un edificio preziosissimo. Stando ai rilievi dell'Ufficio abusivismo del Comune, due vasche ornamentali sarebbero diventate due piscine (una ha forma ottagonale e si vede perfettamente su Google Maps). Sono poi spuntati un garage, due grandi strutture vetrate, un ampliamento in muratura dove esisteva appena qualche tettoia e altri manufatti a ridosso del muro perimetrale. Inoltre è stata ricostruita una pavimentazione.

Quasi di fronte a questa villa, risiede Roberto Benigni, ma i suoi restauri sono stati seguiti e autorizzati dalla Soprintendenza. Nella stessa zona è la villa di Paola Severino, ministra della Giustizia: nessun abuso viene contestato, ma nella sua proprietà sono custoditi due dei tre colombari di Vigna Codini, di proprietà pubblica, l'unica testimonianza dei tanti sepolcri che le fonti letterarie collocano in quest'area. Che per ovvi motivi di sicurezza, nessuno può visitare.

Un grande vivaio di fronte alle terme di Caracalla si è arricchito di un edificio di 700 metri quadrati. Abusivamente, secondo la denuncia di Italia Nostra, ma condonato con parere favorevole persino della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici. Nella proprietà di Giorgio Greco, che con il fratello possiede una catena di negozi d'abbigliamento, a pochi metri da Capo di Bove e da una stazione dei carabinieri, i vigili hanno contestato il cambio di destinazione d'uso di un grande magazzino, da deposito a residenza, con cucina e bagni. Era in abbandono e ora vi è allestita una scuola per cuochi. Spesso l'edificio accoglie feste e ricevimenti e viene usato per girarvi spot pubblicitari. La Soprintendenza, ammette Greco, ha svolto un gran lavoro nel passato fermando l'avanzata del cemento sull'Appia Antica. Ma ora non deve accanirsi sui proprietari che "se non fanno brutture, in fondo sono i veri custodi dell'integrità di questo luogo".

"Molti proprietari mettono a reddito le loro residenze, le affittano per cene e matrimoni", racconta invece Rita Paris. "Ogni sera è un via vai di macchine, si installano gazebo, si sparano fuochi d'artificio". Fra i più attivi è Sergio Scarpellini, uno dei più potenti costruttori romani, che acquistò anni fa la villa di Silvana Mangano. Nella sua proprietà arrivarono le ruspe per eliminare un parcheggio abusivo. L'iniziativa della demolizione fu presa dal Municipio XI. Era il 2009. Da allora, niente più ruspe sull'Appia Antica.

Confinante con quella di Giorgio Greco, è un'altra proprietà in cui un tempo c'era un gruppo di serre. Che ora sono diventate appartamenti di lusso dati in affitto e reclamizzati sul web come "case di charme", dopo aver compiuto lavori di cui nessuno sembra sia stato informato. Sopra la Villa dei Quintili, in un centro sportivo ci sono campi di calcio e piscine. Si è costruito dentro il Castrum Caetani, villaggio fortificato del XIV secolo dietro al Mausoleo di Cecilia Metella: ma la domanda di condono del proprietario ha fermato la procedura di demolizione.
Sull'Appia Antica e nelle vie laterali occorre tenere gli occhi aperti nei mesi estivi. È con la città che allenta i ritmi, con i vigili che già sono pochi d'inverno e ancora meno in agosto, che i camion caricano e scaricano laterizi, pannelli, tubi. Intorno alle recinzioni si fa crescere una siepe di alloro, poi si cinge il perimetro con un telo verde. Sono attivissimi, ma fanno quel che possono per scovare gli abusi i pochi guardiaparco. Una porcilaia diruta, una vaccheria sfondata diventano un vano, poi due, poi si fanno la cucina e il bagno. Anche senza licenza di abitabilità, i valori immobiliari lievitano.

Ha fatto scuola la vicenda di una proprietà di fronte al Mausoleo degli Equinozi iniziata nel 1984 con un atto notarile di compravendita in cui si legge: "La parte acquirente dichiara di essere a conoscenza della destinazione di Prg del terreno acquistato ed in particolare che lo stesso non ha formato oggetto di lottizzazione approvata e che pertanto non può essere utilizzato a scopi edilizi". Due anni dopo veniva costruita una casa di 100 metri quadrati. Un primo sequestro da parte dei vigili, la domanda di condono. Ma i lavori proseguono e arrivano a conclusione. La Pretura apre un'inchiesta che si conclude con una condanna, poi amnistiata in Appello. Ancora nel 1994 la Soprintendenza segnala l'abuso, la pratica rimbalza da un ufficio all'altro, si contano almeno una decina di passaggi burocratici. L'immobile si arricchisce di veranda e di altri manufatti. E ora è lì, forse abitata dai proprietari, forse affittata, nessuno lo sa con certezza. Con certezza, stando alla Soprintendenza, lì ci sono resti di parte del Triopio di Erode Attico, una grandissima villa-azienda romana.

L'Appia Antica vive così, un po' meraviglia per gli occhi e per la mente, un po' terra di nessuno, dove non si sa bene chi sia incaricato di tutelare il suo patrimonio. Da qualche mese il Demanio ha consegnato la strada alla Soprintendenza archeologica, dichiarandola monumento nazionale. È un piccolo passo, forse l'inizio della storia moderna dell'Appia Antica. Ma nessuno qui se la sente di sbilanciarsi e sfoggiare ottimismo.

Tutti i numeri di uno scempio

Un milione e trecentomila metri cubi. Tanti, tantissimi gli illecitii edilizi nell'Appia Antica. E un milione e trecentomila metri cubi è il volume di interi edifici costruiti senza licenza

3.500
Gli ettari che formano il Parco dell'Appia antica

312 a. C.
L'anno di costruzione della via Appia

2.700.000
I metri cubi di edifici nell'Appia Antica

1.300.000
I metri cubi di edifici abusivi nell'Appia Antica

Tutta l'inchiesta con video e interviste


Come eludere i vincoli posti dai piani paesaggistici mediante leggi regionali di settore che, consentendo la realizzazione di opere in contrasto con quei vincoli, siano palesemente illegittime? . Notizie preoccupanti che arrivano da ambienti informati per dovere di ufficio lasciano pensare che soluzione sia stata trovata.

Ci riferiamo a quattro casi specifici che riguardano la regione Lazio e la regione Sardegna. Giacciono davanti alla corte Costituzionale due ricorsi relativi rispettivamente uno al “Piano casa 2” (ricorso n.130 / 2011), uno al “Piano Casa 3 (ricorso n.143 / 2012) della regione Lazio e due ricorsi relativi a due leggi della regione Sardegna riguardanti rispettivamente la realizzazione di campi e attrezzature per il golf e il “Piano casa”. Mentre per il secondo ricorso della regione Lazio la data dell’udienza non era ancora stata fissata, per la seconda legge della regione Lazio il ricorso era stato cancellato dal ruolo di udienza già pubblicato nel sito della Corte senza alcun riferimento al provvedimento che ha operato il rinvio, né è stata fissata una ulteriore udienza. La incostituzionalità delle leggi della regione Sardegna avrebbe dovuto essere discussa il 20 novembre 2012, nel mese di ottobre la data dell’udienza è scomparsa dal registro di ricorsi, senza nessuna ulteriore indicazione né riferimento al provvedimento che ha operato il rinvio.

E' evidente che in sospensione del giudizio di costituzionalità le leggi continuano ad operare. In particolare, in Sardegna continuano la presentazione e l’approvazione di progetti in contrasto con i vincoli del Codice del paesaggio. E’ difficile pensare che il ministro Ornaghi non sia stato informato del ritardo della Consulta e dei suoi effetti, e non abbia provveduto.

Qualcuno ricorderà che le sentenze costituzionali 55 e 56 del 1968, che denunciavano la incostituzionalità dei vincoli urbanistici e di fatto interrompevano l’attuazione della riforma urbanistica del 1967 furono decise prima delle elezioni del 1968 e depositate solo successivamente. Allora la ragione dell’atto della consulta fu attribuito a motivi di opportunità elettorali (conoscere il contenuto della sentenza che bocciava gli standard urbanistici poteva penalizzare il partito di governo, la DC). Oggi il silenzio della Corte non potrebbe non essere considerato un favore a chi per lo “sviluppo” lascia proseguire la devastazione della coste sarde.

Corriere della Sera Milano, 14 dicembre 2012, postilla (f.b.)

Continua e si allunga il viaggio dei ciclisti in metrò. La convivenza con gli altri passeggeri s'è dimostrata pratica e indolore, l'urto è stato assorbito, i treni sopportano il carico delle due ruote, il «traffico» nei vagoni è risultato gestibile e l'Atm non ha ricevuto reclami. In sintesi, lo stress-test è superato: «La sperimentazione del trasporto bici sulle linee 2 e 3 della metropolitana riprenderà il 7 gennaio, dopo la pausa festiva concordata con le associazioni — fa sapere l'Atm —. E dalla primavera estenderemo il servizio sulla M1 e su alcuni tram».

Soddisfatto Eugenio Galli, 46 anni, presidente di Fiab-Ciclobby dal 2004: «È un segnale importante per la città». Il progetto è partito il 25 ottobre. Ed è stato promosso. La dirigenza di Foro Buonaparte ha aperto una «finestra bici» nella fascia oraria centrale di servizio della «verde» e della «gialla»: accesso libero in metrò dalle 10.30 alle 16 (oltre che dall'alba alle 7 e dopo le 8 di sera). L'integrazione al regolamento era stata sollecitata dalla Milano che pedala (categoria in espansione, che reclama più spazio e diritti) per incentivare gli spostamenti e favorire i percorsi misti (su e giù dal sellino con una corsa di passaggio sul mezzo pubblico). La linea «rossa» è stata esclusa, nella prima fase, per consentire ai tecnici Atm di completare il monitoraggio del nuovo sistema di sicurezza che regola il traffico in galleria e mantiene le distanze fra i treni: la M1 sarà aggiunta alla sperimentazione del «trasporto-bici» dopo la Pasqua del 2013, assieme ad alcuni tram (tra le ipotesi: il 4, il 15 e il 31).

Il via libera alla «Fase 2» è arrivato al terzo incontro del Tavolo della ciclabilità istituito dall'azienda con i rappresentanti di Ciclobby e «Salvaiciclisti». I temi: trasporti integrati e raccordo tra i sistemi di care bike sharing. «Abbiamo ricevuto segnali concreti e incoraggianti, dalla nuova dirigenza, dopo troppi anni in cui è stato difficile anche solo abbozzare un confronto — commenta Eugenio Galli —. È interesse di tutti che il servizio possa crescere e migliorare, ma serve la collaborazione e il buon senso da parte di tutti. Del personale Atm, certo, ma anche degli utenti». Tra i «segnali positivi», conclude Galli, ci sono anche le rastrelliere alle stazioni del metrò. Gli ultimi dieci stalli per le bici sono stati posizionati nel parcheggio d'interscambio di San Leonardo, sulla linea «rossa».

Per oggi, intanto, è stato indetto uno sciopero del trasporto locale dalla segreteria nazionale del sindacato Fast-Confsal: a Milano l'agitazione è prevista dalle 8.45 alle 15 e dalle 18 in poi, ma non dovrebbe provocare grossi disagi. Il Comune non spegne Area C: telecamere accese dalle 7.30 alle 19.30 e ticket da 5 euro per l'ingresso delle auto nella cerchia dei Bastioni.

Postilla
Ecco spuntare piccola piccola un’interpretazione progressista del concetto di joint-venture pubblico-privata, ovvero dove entrambe le parti fanno il proprio mestiere, e non (come ci hanno insegnato anni di disastri per tutti, salvo che per le casse di qualcuno) con la collettività che paga e gli interessi particolari che intascano. Per far circolare la linfa umana che trasforma le città da scatole vuote, più o meno eleganti e chiaroscurali, in organismi vivi, ci vuole intelligenza, o per essere alla moda proporre una smart city, dove smart non sta a significare qualche tavoletta elettronica lampeggiante, ma intelligenza diluita anche al di fuori delle teste che la producono, e innaffiata sul territorio urbano. Allora non nuovo cemento (non solo, almeno) per fare piste ciclabili, o corsie riservate, o sovra o sottopassi, ma reti materiali e immateriali lungo cui muovere e muoversi, usando i luoghi anziché produrne doppioni sprecando risorse naturali e intellettuali. Ci voleva tanto? Evidentemente si (f.b.) Sull’idea di smart city contemporanea, si veda anche QUI

La Repubblica, 12 dicembre 2012
L’EUROPA, cui ci siamo abituati a guardare come al Principe che ha il comando sulle nostre esistenze, sta manifestando preoccupazione, da giorni, per il ritorno di Berlusconi sulla scena italiana. È tutta stupita, come quando un’incattivita folata di vento ci sgomenta. giornali europei titolano sul ritorno della mummia, sullo spirito maligno che di nuovo irrompe. Sono desolate anche le autorità comunitarie: «Berlusconi è il contrario della stabilità», deplora Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo.

Tanto stupore stupisce. Primo perché non è così vero che l’Unione comandi, e il suo Principe non si sa bene chi sia. Secondo perché i lamenti hanno qualcosa di ipocrita: se il fenomeno Berlusconi ha potuto nascere, e durare, è perché l’Europa della moneta unica lo ha covato, protetto. Una moneta priva di statualità comune, di politica, di fiato democratico, finisce col dare questi risultati. La sola cosa che non vien detta è quella che vorremmo udire, assieme ai compianti: la responsabilità che i vertici dell’Unione (Commissione, Consiglio dei ministri, Parlamento europeo) hanno per quello che succede in Italia, e in Grecia, in Ungheria, in Spagna.

Se in Italia può candidarsi per la sesta volta un boss televisivo che ha rovinato non poco la democrazia; se in Ungheria domina un Premier – Viktor Orbán – che sprezza la stampa libera, i diritti delle minoranze, l’Europa; se in Grecia i neonazisti di Alba Dorata hanno toni euforici in Parlamento e alleati cruciali nell’integralismo cristiano-ortodosso e perfino nella polizia, vuol dire che c’è del marcio nelle singole democrazie, ma anche nell’acefalo regno dell’Unione. Che anche lì, dove si confezionano le ricette contro la crisi, il tempo è uscito fuori dai cardini, senza che nessuno s’adoperi a rimetterlo in sesto. Gli anni di recessione che stiamo traversando, e il rifiuto di vincerla reinventando democrazia e politica nella casa europea, spiegano come mai Berlusconi ci riprovi, e quel che lo motiva: non l’ambizione di tornare a governare, e neppure il calcolo egocentrico di chi si fa adorare da coorti di gregari che con lui pensano di ghermire posti, privilegi, soldi. Ma la decisione – fredda, tutt’altro che folle – di favorire in ogni modo, per l’interesse suo e degli accoliti, l’ingovernabilità dell’Italia.

Chi parla di follia non vede il metodo, racchiuso nelle pieghe delle sue mosse. E non vede l’Europa, che consente il caos proprio quando pretende arginarlo. Cosa serve a Berlusconi? Un mucchietto di voti decisivi, perché il partito vincente non possa durare e agire, senza di lui, poggiando su maggioranze certe alla Camera come al Senato, dove peserà il voto di un Nord (Lombardia in testa) che non da oggi ha disappreso il senso dello Stato. Così fu nell’ultimo governo Prodi, che aveva il governo ma non il potere: quello annidato nell’amministrazione e quello della comunicazione, restato nelle mani di Berlusconi. La guerra odierna non sarà diversa da quella di allora: guerra delle sue televisioni private, e di una Rai in buona parte assoggettata. Guerra contro l’autonomia dei magistrati, mal digerita anche a sinistra. Guerra di frasi fatte contro l’Europa (Che c’importa dello spread?).

Guerra del Nord contro il Sud, se risuscita l’asse con la Lega. L’arte del governare gli manca ma non quella del bailamme, su cui costruire un bellicoso potere personale d’interdizione. La democrazia non funziona, senza magistrati e giornali indipendenti, e proprio questo lui vuole: che non funzioni. Se non teme una candidatura Monti, è perché non è detto che essa faciliti la governabilità. Ma ecco, anche in questo campo l’Europa ha fallito, non meno degli Stati. La libera stampa è malmessa – in Italia, Ungheria, Grecia, dove vai in galera se pubblichi la lista degli evasori fiscali. Ma nessun dignitario dell’Unione, nessun leader democratico ha rammentato in questi anni che il monopolio esercitato da Berlusconi sull’informazione televisiva viola in maniera palese la Carta dei diritti sottoscritta nel 2007. È come se la Carta neanche esistesse, quando importano solo i conti in ordine.

Nessuno ricorda che la Carta non è un proclama: da quando vige il Trattato di Lisbona, nel 2009, i suoi articoli sono pienamente vincolanti, per le istituzioni comuni e gli Stati. Nel libro che ha scritto con l’eurodeputata Sylvie Goulard (La democrazia in Europa), Monti neppure menziona la Carta. Forse non ha orecchie per intendere quel che c’è di realistico (e per nulla comico), nell’ultimo monito di Grillo: «Attenzione alla rabbia degli italiani!». Forse non presentiva, mentre redigeva il libro, il ritorno di Berlusconi e il suo intonso imperio televisivo. Eppure parla chiaro, l’articolo 11 della Carta: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche ». Niente è stato fatto, in Europa e negli Stati, perché tale legge vivesse, e perché la stabilità evocata da Schulz concernesse lo Stato di diritto accanto ai conti pubblici. Il silenzio sulla libera stampa non è l’unico peccato di omissione delle autorità europee, nella crisi. Probabilmente era improrogabile, ridurre i debiti pubblici negli Stati del Sud. Ma l’azione disciplinatrice è stata fallimentare da tanti, troppi punti di vista. Non solo perché alimenta recessioni (due, in cinque anni) che aumentano i debiti anziché diminuirli. Ma perché non ha intuito, nella stratificazione dei deficit pubblici, una crisi politica della costruzione europea (una crisi sistemica).

Perché l’occhio fissa lo spread, dimentico del nesso fatale tra disoccupazione, miseria, democrazia. Perché senza inquietudine accetta che si riproduca, nell’Unione, un distacco del Nord Europa dal Sud che tristemente echeggia le secessioni della Lega. L’antieuropeismo che Lega e Grillo hanno captato, e che Berlusconi vuol monopolizzare, è una malattia mortale (una disperazione) che affligge in primis l’Europa, e in subordine le nazioni. È il frutto della sua letale indolenza, della sua mente striminzita, della cocciuta sua tendenza a rinviare la svolta che urge: l’unità politica, la comune gestione dei debiti, la consapevolezza – infine – che il rigore nazionale immiserirà le democrazie fino a sfinirle, se l’Unione non mobiliterà in proprio una crescita che sgravi i bilanci degli Stati.

L’ultimo Consiglio europeo ha toccato uno dei punti più bassi: nessun governo ha respinto la proposta di Van Rompuy, che presiede il Consiglio: la riduzione di 13 miliardi di euro delle comuni risorse (10% in meno) di qui al 2020. L’avviso non poteva essere più chiaro: l’Unione non farà nulla per la crescita, anche se un giorno mutualizzerà parte dei debiti. Di un suo potere impositivo (tassa sulle transazioni finanziarie, carbon tax: ambedue da versare all’Europa, non agli Stati) si è taciuto. Anche se alcune aperture esistono: da qualche settimana si parla di un bilancio specifico per l’euro-zona, quindi di mezzi accresciuti per una solidarietà maggiore fra Stati della moneta unica. Ma la data è incerta, né sappiamo quale Parlamento sovranazionale controllerà il bilancio parallelo.

Non sorprende che l’anti-Europa diventi spirito del tempo, nell’Unione. Che Berlusconi coltivi l’idea di accentuare il caos: condizionando chi governerà, destabilizzando, lucrando su un antieuropeismo popolare oltre che populista. Dilatando risentimenti che reclameranno poi un uomo forte. Un uomo che, come Orbán o i futuri imitatori di Berlusconi, scardinerà le costituzioni ma promettendo in cambio pane, come il Grande Inquisitore di Dostoevskij. È grave che il governo Monti non abbia varato fin dall’inizio un decreto sull’incandidabilità di condannati e corrotti. Che non abbia liberalizzato, dunque liberato, le televisioni. Che abbia trascurato, come la sinistra, la questione del conflitto d’interessi. Magari credeva, come l’Europa prima del 1914, che bastassero buone dottrine economiche, e il prestigio personale di cui godeva nell’economia mondo, per metter fine alla rabbia dei popoli.

La Repubblica, 11 dicembre 2012

Finalmente rivelati i progetti del ministro Lorenzo Ornaghi. Rispondendo con solo nove mesi di ritardo a una lettera firmata da oltre cento direttori di musei, archivi, biblioteche che lamentavano lo stato deplorevole dei beni culturali e il nessun riconoscimento dei loro meriti e del loro lavoro, il ministro ha parlato chiaro (Corriere della sera,8 dicembre): bando alle ciance, la vera priorità del nostro tempo è «evitare a ogni costo il diffondersi della peste dell’invidia e delle gelosie sociali», che porterebbero a «un incattivimento della società italiana più pericoloso dello spread, più nefasto di ogni immaginabile stallo dei partiti o del sistema rappresentativo- elettivo». Ecco dunque l’agenda Ornaghi: la pace sociale si raggiunge rinunciando a invidie e gelosie, ognuno si accontenti del suo stato, zitti e mosca. Quanto al suo dicastero, pro bono pacis,sarà meglio non rispondere nemmeno al direttore degli Uffizi, anzi bastonarlo se si accorge che il suo stipendio è un decimo di quello dei suoi colleghi americani e un ventesimo di quello di un deputato (italiano) che vende il voto al miglior offerente. No all’invidia sociale, viva l’armonia. È un modello che si può estendere: per esempio, guai ai disoccupati che vorrebbero lavorare, sono solo degli invidiosi. Vergogna se un malato che non può curarsi per i tagli alla sanità dice che chi può permettersi un’assicurazione godrà di miglior salute. Vituperio su alunni, insegnanti e genitori che vorrebbero una scuola pubblica funzionante, e osano ricordare che secondo la Costituzione (art. 33) scuole e università private, compresa la Cattolica di cui Ornaghi è stato rettore fino a un mese fa, hanno piena libertà ma «senza oneri per lo Stato». Tutta invidia. Qualcuno si permette di ipotizzare «una società in cui tutti i meriti ottengano il loro giusto compenso»? Ma è una «critica sprovvista di un realistico contributo costruttivo », anzi «un malvezzo». Questi «incattivimenti» meglio eliminarli alla radice, pax
vobiscum. E perché non affrontare gli altri nodi della politica stigmatizzando anche gli altri vizi capitali? Un brillante biologo conteso da università di tutto il mondo vorrebbe una cattedra in Italia (ma non può: i concorsi sono bloccati da sette anni)? Pecca di superbia! Un operaio di Taranto protesta perché all’Ilva si registra un aumento dei tumori fino al 419 %? Si è macchiato di un altro vizio deplorevole, l’ira. Un malato si lamenta della pessima qualità del cibo in ospedale? Si penta, sta peccando di gola. Un direttore resiste all’idea di privatizzare attività e biglietteria del suo museo? Ma è avarizia! Restano due vizi nella lista, lussuria e accidia. Del primo abbiamo registrato fin troppi esempi (in Parlamento e nei CdA), ma non incattiviamoci al punto di ricordarli. Di accidia viene accusato frequentemente proprio Ornaghi, ma si tratta palesemente di «distorsioni o fratture che caratterizzano la nostra convivenza civile». E a Gian Antonio Stella che gli aveva chiesto ragione della sua ostinata assenza dalla scena (detta in linguaggio curiale, quel Ministero è davvero “sede vacante”), il ministro risponde serafico che sì, magari fra un mesetto, «trascorso questo periodo di feste», potrebbe concedergli un incontro.

Piuttosto, in questa politica- catechismo, varrà la pena di ricordarsi anche dei Dieci Comandamenti.Settimo: Non rubare,per dirne una. Ma allora come mai Ornaghi ha difeso in Parlamento il suo consigliere Marino Massimo De Caro, arrestato pochi giorni dopo per il furto di migliaia di libri nella biblioteca napoletana dei Girolamini di cui, proprio in quanto consigliere del ministro, era stato nominato direttore? E come mai Ornaghi non ha sentito nemmeno il bisogno di scusarsi via via che la magistratura scopriva altri furti del De Caro (ancora e sempre in galera), in decine di altre biblioteche in cui entrava come suo consigliere? Forse per non «incattivire»? Sarà, invece, ostensione di bontà la sua tesi, spesso ripetuta tra un coro di fischi, che è meglio che lo Stato se la svigni dai musei e ceda il passo ai privati? Per troppo tempo abbiamo sperato che la destra “colta e pulita” del governo Monti segnasse un progresso rispetto alla destra becera e incolta dei governi Berlusconi, ma almeno in questo caso non è così. Sarà forse per carità cristiana, ma certo Ornaghi ha voluto dimostrareurbi et orbi che il povero Bondi non era, dopotutto, il peggior ministro possibile. Bisogna ammetterlo, ce l’ha fatta.

Dalle cronache de la Nuova Venezia di oggi, 8 dicembre 2012, una sintesi dei fatti recenti; in calce una lettera di Italia Nostra al 
Direttore del Mibac fa un po’ di chiarezza sulla fase della pesante e illegittima speculazione al centro dell’area veneziana e sul margine della Laguna, del4 dicembre scorso, in particolare sul possibile ruolo del Mibac: sarà rigoroso o complice?

Se sarà realizzato, il Palais Lumiere, con i suoi 255 metri d’altezza, sarà il palazzo più alto e voluminoso di tutta la pianura Padana, visibile fin dalle Dolomiti nelle giornate terse. Stando al progetto presentato, il grattacielo di Cardin avrà un basamento circolare dove troveranno posto un centro commerciale, un grande centro congressi, un teatro/auditorium da 7000 postiì, 10 cinema. Il tutto disposto su tre torri di altezze diverse: La torre A raggiungerà un’altezza di 255 metri con un massimo di 66 piani abitabili; la torre B sarà di 225 metri e 58 piani; la torre C di 209 metri e 54 piani. L'intero edificio sarà collegato tramite 6 dischi distanti tra loro 40 metri realizzati in una forma progettata tramite sistemi di simulazione Cfd (Computational fluid dynamics) grazie a cui l'effetto di carico aerodinamico sulla struttura è stato limitato ad uso anche di turbine eoliche di nuova concezione.
«Siamo pronti a convocare la conferenza di servizio decisioria per il Palais Lumière entro pochi giorni, ma non possiamo farlo finchè il ministro Ornaghi non chiarirà se la Soprintendenza dovrà o meno esprimere un parere sul progetto». Lo ha dichiarato ieri sera il vicepresidente della Giunta regionale, Marino Zorzato, dopo la riunione tecnica tenutasi nella sede dell’assessorato all’Urbanistica, a palazzo Linetti, per fare il punto sul progetto dello stilista italo-francese, Pierre Cardin, considerato dalla Regione «di rilevante interesse pubblico» e quindi assogettabile alle procedure semplificate e accellerate di autorizzazione, previste per gli accordi di programma. Si tratta, tanto per ricordarlo, di un un grattacielo con tre torri, 66 piani e alto ben 255 su un’area di circa 19 ettari a Marghera, di fronte al ponte Strallato, racchiusa tra tra via Fratelli Bandiera e via dei Pili. Secondo Zorzato, dopo il via libera di Enac alla costruzione di un palazzo superiore di 100 metri al limite di sicurezza previsto per le aree a vicolo del vicino aeroporto Marco Polo, l’unico ostacolo da superare resta proprio quella del possibile pare della Direzione regionale della Soprintendenza dei Beni Culturali e Architettonici sulla compatibilità paesaggistica del grattacielo di Cardin. Infatti, ora tutti pendono dalle labbra del ministro Ornaghi che dovrà chiarire se si debba considerare come “linea di battigia”, con il conseguente divieto di costruzione fino a 300 metri, anche i canali industriali come quelli che fronteggiano l’area dove dovrebbe essere costruito il Palais Lumière. «I nostri tecnici ieri hanno verificato che il progetto è sulla linea del traguardo» ha precisato ancora Zorzato «ma prima di convocare la conferenza di servizio decisoria dovremo aspettare la lecita e speriamo rapida decisione del ministro Lorenzo Ornaghi». Zorzato, insomma, resta ottimista malgrado, Soprintendenza a parte, il progetto del Palais Lumière sia ancora alla fase della progettazione, e malgrado i protocolli di bonifica non siano ancora stati messi a punto e gran parte delle aree necessarie non siano ancora state acquisite da tutti i privati e nemmeno dal Comune di Venezia, che ha grande bisogno di nuovi incassi per ripianare il deficit di bilancio. A tutt’oggi non è mai stato presentato dai progettisti di Cardin neanche il piano finanziario per realizzare l’opera che potrebbe costare complessivamente tra i 3 e i 5 miliardi di euro, ovvero ben di più del previsto. Il Palais Lumière è però sostenuto a spada tratta sia dal governatore del Veneto, Luca Zaia e il suo vice Zorzato, sia dal sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni che ieri ha bollato come degli incompetenti i cinquanta nomi illustri della cultura italiana (ai quali si sono aggiunti ieri altri 14 architetti firmatari della Carta di Cracovia) che nei giorni scorsi hanno inviato un appello a Napolitano affinchè fermi questo progetto che sfigurerebbe il paesaggio e l’antica storia di Venezia. «Su cinquanta nomi che si sono espressi sulla vicenda» ha dichiarato ieri Orsoni «credo che almeno 49 di loro non sappiano dove il Palais Lumière sarà effettivamente collocato: in una zona industriale in decadimento, fuori dai vincoli ambientali ed è necessario per l’equilibrio del bilancio comunale».

Una lettera di Italia nostra
Venezia, 4 dicembre 2012

l’Associazione Italia Nostra Onlus ha appreso dalla stampa locale che la competente Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici di Venezia e Laguna avrebbe richiesto al Ministro per i Beni e le Attività Culturali Lorenzo Ornaghi di esaminare il progetto Palais Lumière presentato dallo stilista Pierre Cardin.

Il parere paesaggistico, necessario per legge, in casi di particolare gravità tuttavia non viene espresso dalle locali Soprintendenze e Direzioni Regionali, ma direttamente dal ministero. Così è avvenuto per il progetto di restauro del Fondaco dei Tedeschi, dopo un esposto alla Procura presentato dal Presidente Nazionale di Italia Nostra.

Dopo il parere negativo alla realizzazione del Palais Lumière espresso nel luglio del 2012 dall’Enac (Ente nazionale aviazione civile) eccedendo la torre di 110 metri in altezza i limiti previsti dai vincoli di sicurezza per la vicinanza all’aeroporto, le pressioni di Regione, Provincia e Comune sull’Enac stesso - documentate dalla stampa locale - hanno portato l’ente alla concessione di una pericolosissima deroga, vicenda oggetto di un esposto da parte di Marina e Carlo Ripa di Meana.

Successivamente si è dovuto registrare un altro tentativo di ‘pressing’, sul ministro Ornaghi: «‘Gli ho chiesto cosa c’entra Marghera con la conterminazione lagunare’, dice Orsoni. Che da buon avvocato fa anche balenare la possibile richiesta danni se il ministero dovesse causare ritardi per richieste ritenute ‘illegittime’». Così un articolo sulla stampa veneziana.

Dal momento che il Sindaco è uno specialista di diritto amministrativo, sorprende vivamente che ignori come la zona ove sorgerebbe la torre risulti ubicata entro l’area sottoposta a vincolo paesaggistico nel quale è ricompresa tutta la Laguna. È, infatti, a ridosso della conterminazione lagunare (delimitazione del territorio lagunare fissata alla fine del XVIII secolo e aggiornata nel
1990 con decreto statale non discutibile, entro cui valgono le disposizioni e i regolamenti per la salvaguardia ambientale della Laguna), e dunque è sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi del D. Lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali) - Parte III, Art. 142 lett. a - Aree tutelate per legge (recepite da L. 431/1985 cd. ‘Legge Galasso’) che prevede una fascia di rispetto e di vincolo di 300 metri dalla linea di costa.

I quotidiani del 4 dicembre u.s. confermano l’esatta interpretazione di Italia Nostra, già espressa in una lettera all’UNESCO del 22 ottobre scorso (rimasta a tutt’oggi senza risposta, con la quale la nostra Associazione chiedeva che l’Organizzazione Mondiale prendesse dovuta posizione contro la torre).
Infatti il Direttore Regionale arch. Ugo Soragni - su indicazione dei tecnici degli uffici centrali di Roma - sollecita con una lettera la necessità che gli organi periferici del MiBAC partecipino agli incontri che esaminano il progetto e deliberano in proposito.

Visto quanto pubblicato sulla stampa locale il 4 dicembre u.s., Italia Nostra ringrazia Codesta Direzione Generale per il deciso intervento che consente ora di recuperare la legalità di un iter parso fino ad ora troppo accomodante.

L’associazione Italia Nostra Onlus auspica dunque che il Ministero prosegua a monitorare con particolare attenzione tutto il percorso della pratica e proceda a esercitare rigorosamente le proprie competenze esprimendo un parere paesaggistico negativo che non permetta interpretazioni equivoche o mediazioni compromissorie.Nel confidare che il Superiore Ministero nella sua massima espressione tecnica svolta a livello centrale intervenga con precisione, tempismo e fermezza nella difesa del patrimonio culturale veneziano, troppo spesso usato per fini di mero business, La preghiamo di accettare i sensi della nostra stima e restiamo a disposizione per ogni eventuale approfondimento o necessità documentale.

Distinti saluti.
il presidente della sezione di Venezia Lidia Fersuoch

Altri articoli sull'argomento nella cartella Vivere a Venezia su archivio.eddyburg.it

«Scala mobile spostata dalla corte centrale nel porticato e un belvedere all’altezza del tetto al posto della terrazza» Soddisfatto Benetton. Il prossimo in lista d’attesa è Piero Cardin. La Nuova Venezia, 7 dicembre 2012

Via libera definitivo - come previsto - alla trasformazione del Fontego dei Tedeschi «targata» Benetton, con la scala mobile spostata dalla corte del complesso cinquecentesco sotto il porticato e con un belvedere panoramico ad altezza del tetto al posto della maxiterrazza panoramica progettata da Rem Koolhaas e bocciata dal Ministero dei Beni Culturali. La soprintendente ai Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia Renata Codello d’intesa con il direttore regionale dei Beni Culturali Ugo Soragni ha infatti firmato ieri il parere favorevole - con alcune prescrizioni sull’uso dei materiali e su altre soluzioni interne - al progetto modificato e rivisto da Edizione (la società del gruppo Benetton proprietaria del Fontego) proprio sulla base delle indicazioni degli uffici periferici di tutela. I punti “caldi” segnalati anche dal parere del Comitato per i Beni Architettonici del Ministero dei Beni Culturali erano soprattutto due. La scala mobile prevista all’interno della corte cinquecentesca, necessaria per l’insediamento nel complesso del grande magazzino del gruppo Rinascente, previsto dalla trasformazione. E appunto la terrazza panoramica con vista sul Canal Grande e sul ponte di Rialto che inizialmente doveva diventare un bar-ristorante con tavolini. La scala mobile - indispensabile al grande magazzino anche per collegarsi a quelle previste ai piani superiori, verrà spostata dalla corte al porticato laterale che lo fiancheggia, lasciando così inalterato l’aspetto dell’area di accoglienza del Fontego dei Tedeschi dove è previsto l’insediamento di un moderno bàcaro con tavolini. La maxiterrazza, come detto, non si farà, più, ma al suo posto la Soprintendenza ha consentito la realizzazione di un belvedere che non andrò però a intaccare il tetto, che rimarrà inalterato, ma gli girerà intorno, consentendo comunque ai visitatori di affacciarsi sul panorama del Canal Grande, senza però sostare. Una soluzione di compromesso - dopo tante polemiche e lo stop dei Beni Culturali - che consentirà comunque a Benetton e alla Rinascente di realizzare la trasformazione prevista. Si sbloccano così anche i 6 milioni di euro previsti dal gruppo di Ponzano al Comune per il cambio di destinazione d’uso dell’edificio, che erano «congelati» proprio in attesa del via libera della Soprintendenza. Adesso l’ultima parola spetterà al Consiglio comunale, chiamato ad approvare la convenzione già stipulata da tempo tra il Comune e Edizione, ma che si era appunto fermata in attesa del parere definitivo della Soprintendenza. I lavori di trasformazione del Fontego dei Tedeschi – ultimata la parte progettuale - potrebbero perciò partire entro il prossimo anno, con un investimento massiccio da parte dei nuovi proprietari. La vicenda sembra dunque giunta alla fine, ma resteranno probabilmente le perplessità e le contrarietà dei molti che in città e fuori di essa ritengono l’intervento su uno degli edifici-simbolo di Venezia eccessivamente impattante

Precedenti articoli sull'argomento nella cartella Vivere a Venezia, in Archivio.eddyburg

La Repubblica, 6 maggio 2012

Motivare le sentenze è affare serio, talvolta arduo, antipatico, rischioso. È pandemonio a Napoli quando Sua Maestà Ferdinando IV, persuaso dal vecchio ministro Bernardo Tanucci (da giovane professore nell’ateneo pisano), esige decisioni motivate (prammatica reale 27 settembre 1774). Dall’estate pendeva un ricorso del Quirinale davanti alla Consulta, contro i pubblici ministeri palermitani in una causa assai grave, dove s’intravedono fondi cupi della recente storia d’Italia. Martedì 2 dicembre, dopo quattro ore, dalla camera di consiglio filtra l’oracolo. Poche frasi incongrue, ma non potevano suonare meglio, se presupponiamo l’esito favorevole all’attore, tale conclusione non essendo motivabile nell’ordinamento italiano, anno Domini 2012. Impresa impossibile: in qualche misura il diritto è anche geometria; e supponendo che la corvée sia disegnare nello spazio euclideo un triangolo i cui angoli non siano 180°, vengono fuori faticosi sgorbi.

La Corte doveva scovare nella Carta un equivalente dell’art. 4 Statuto albertino («la persona del Re è sacra e inviolabile»). Solo così il Presidente non sarebbe mai ascoltabile, fuori della cerchia in cui parla, salvo che vi consenta graziosamente: ad esempio, parlava in una cabina telefonica e occhi lesti decifrano i segni labiali; data l’inviolabilità, il voyeur è testimone ammissibile o no, secondo l’augusto beneplacito. Idem quando l’incauto conversatore s’infili in linee soggette a controllo telefonico. Trovare la norma ossia cavarla dal testo, perché vigono solo fonti scritte, era compito erculeo: non esistono testi adoperabili a tale fine; e l’arte ermeneutica ha delle regole. Dal fatto che il Presidente non risponda penalmente degli atti d’ufficio (art. 90 Cost.) non è seriamente arguibile il tabù su emissioni verbali private (in un film Clint Eastwood, ladro, ascolta e guarda, nascosto dietro una tenda, mentre

the President in preda all’alcol collutta con un’amica e la cosa finisce male); né possiamo arguirlo dalle funzioni enumerate nell’art. 87; chi lo tenti cade nel vaniloquio. M’ero permessa una citazione dalle avventure d’Alice, settimo capitolo, dove Cappellaio, Lepre, Talpa spendono parole matte; e notavo come, dedotta l’«inviolabilità», tutto diventi asseribile, anche che l’Unto sia profeta, regoli i cicli naturali, guarisca le scrofole, et cetera.

La Carta è muta in proposito e i lavori preparatori non lasciano dubbi sul disegno dei costituenti: avevano in mente una figura laica, senza cascami d’ancien régime; gli negano l’immunità processuale che, senza fondamento, l’attuale capo dello Stato rivendica. Le prerogative esistono in quanto una norma le definisca. Non hanno più corso i misteri covati dalla ragion di Stato (voleva imbrigliarla già l’autore dell’omonimo trattato cinquecentesco, Giovanni Botero) ed è manovra reazionaria ogni tentativo d’esumarli.

I deliberanti devono essersene resi conto, perché muovono un passo laterale puntando sull’art. 271 c. p. p. Infelice mossa del cavallo. L’art. 271 contempla due casi diversi dal nostro: intercettazioni illegalmente eseguite (comma 1); e quando parli un obbligato al segreto (c. 2). Qui nessuna norma codificata vietava l’ascolto, né esistevano segreti (il conversante avrebbe guadagnato simpatia politica svelando i contenuti, anziché nasconderli strenuamente, con qualche gesto eccepibile: ad esempio, attribuendosi inesistenti poteri da organo censorio d’atti giudiziari). L’art. 271 non detta divieti, li presuppone, stabiliti altrove, e l’unica fonte possibile è la Carta, nella quale non ne esiste nemmeno l’ombra .Pour cause

I comunicanti tacciono sull’art. 7, l. 5 giugno 1989 n. 219, invocato dal Quirinale: «I provvedimenti che dispongono intercettazioni» sono ammessi solo nei confronti del sospeso dalla carica; non è norma applicabile qui (non era lui l’intercettato, né pendono accuse votate dal Parlamento in seduta comune). Vale il regime delle voci fortuitamente colte, non equiparabili all’intercettazione mirata (le distingue l’art. 6 l. 20 giugno 2003 n. 140 a proposito dei parlamentari).

In cauda venenum, scrivevano vecchi avvocati latinisti. Meno forbito, il comunicato esige l’immediata distruzione dei materiali sacrileghi (era «sacra» la persona regale nello Statuto al quale regrediamo): la ordini il giudice, e sia eseguita clandestinamente; nessun estraneo deve vedere o udire, meno che mai gl’interessati al processo. Non stupisce sentirlo dal

soi-disantinviolabile,

ma sono parole della Corte chiamata a custodire

le norme fondamentali, quasi avesse dimenticato gli artt. 24 («la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado») e 111 Cost., dove il contraddittorio figura due volte, requisito immanente. L’art. 271, c. 3, lo presuppone: va stabilito se i

reperti siano fruibili; mandarli in cenere al buio è fosco stile inquisitorio. Quel giudice non ha in corpo lo Spirito santo: forse sbaglia definendo irrilevante qualcosa d’utile; o sta affossando materiale costituente corpo del reato (art. 271, c.

3, dov’è ovvio il rinvio all’art. 269, c. 2, sull’udienza camerale, art. 127). Supponiamo che N stia scontando l’ergastolo, e parole del presidente nel dialogo con un intercettato forniscano materia alla revisione della condanna; o l’inverso, che costituiscano notitia criminis:

va tutto al diavolo in rigorosa clandestinità? Abbiamo sotto gli occhi una decisione esemplare, in senso negativo, rincresce dirlo: vi spirano nostalgie del segreto; sottintende la mistica delle prerogative; tira in ballo un inesistente limite istruttorio (art. 271 c. p. p.); e incredibile, viola norme costituzionali sul contraddittorio. Ormai sa d’ipocrisia aspettare i motivi: quando anche li compili un mago dialettico, il quadro resta; quel comunicato chiude la Corte in gabbia. Fossero in ballo interessi disponibili, diremmo: ogni tanto capita; non era buona giornata. Stavolta l’evento pesa in sede culturale e politica. Era l’ultimo accidente augurabile all’Italia devastata dai quasi vent’anni d’egemonia berlusconiana.

Ambiguità, perplessità e balle dei governi: ciò che continuano a chiamare TAV. Avanti a tutti i costi pur di far guadagnare i ricchi e impoverire i già poveri. Il Fatto quotidiano, 5 dicembre 2012

I presidenti Mario Monti e François Hollande, nel vertice francese di due giorni fa, hanno fermamente deciso che la controversa linea Torino-Lione per le merci (non alta velocità, il nome Tav è una delle tante cose inesatte), s’ha da fare e si farà. Questa dichiarazione è talmente solida, che è stata già fatta un gran numero di volte negli anni passati, senza che sia successo poi molto. Soprattutto in termini di soldi veri allocati. Ma si è deciso di raddoppiare il tunnel autostradale, pare.
Molte perplessità sono legittime. I tempi: Hollande sembra che abbia chiesto di posporre la data di avvio dei lavori veri, già spostata al 2014.

Le ragioni sono una complicata revisione delle priorità dei progetti francesi ma anche severi vincoli di bilancio e crescenti perplessità interne, espresse in modo molto duro dalla Corte dei conti e dai Verdi, parte del suo governo. I lavori iniziati finora dai due versanti della Alpi sono solo tunnel esplorativi poco costosi (nonostante si tenti di affermare cose diverse).
I due governi poi “auspicano” che l’Unione europea paghi il 40 per cento degli 8,5 miliardi di euro che costa l’opera. Cioè 3,5 miliardi. Il ministro dello Sviluppo Corrado Passera ha dichiarato, interrogato in proposito, che “non vuole nemmeno pensare che questi soldi non arrivino”.

Ma i Paesi europei sono 27, ognuno con diversi giocattoli tipo Tav, e il bilancio europeo è oggetto di un pesante conflitto mirante a una sua riduzione (ai Paesi anglosassoni non piace che i soldi europei vengano spesi in questo modo, e forse non hanno tutti i torti). Dell’opera poi non è noto alcun piano finanziario degno di questo nome. È noto invece che gli utenti sono così ansiosi di usare la ferrovia, che se devono pagare anche una piccola quota dei costi di investimento, scappano come lepri. Al contrario degli utenti delle autostrade. Ma i treni fanno bene all’ambiente, giusto? Quindi il dettaglio che debbano pagare tutto le casse pubbliche non è considerato un problema.
C’è anche un altro dettaglio che forse Hollande non ha potuto esplicitare: le efficientissime e sussidiatissime ferrovie francesi hanno perso il 40 per cento del loro traffico merci nell’ultimo decennio, la crisi attuale c’entra poco. Non certo un buon auspicio per il traffico prevedibile sullalinea Tav. Il sistema caro ai francesi della cosiddetta “autostrada viaggiante” (camion interi caricati sul treno), una delle motivazioni dell’opera in questione, si è dimostrata non solo un disastro economico, e non era difficile prevederlo, ma con aspetti funzionali problematici.

Vediamo i veri aspetti ambientali del progetto: dovrebbe togliere molti camion dalla strada e spostarli sulla ferrovia. Questo risultato è altamente ipotetico, sia per lo scarso interesse delle imprese a usare il treno, sia perché il traffico totale dei camion su quella direttrice è modesto, e non in crescita. Inoltre i benefici ambientali riguarderanno aree non certo densamente popolate. Le merci che arriveranno in treno a destinazione dovranno poi rispostarsi sui camion e il danno ambientale nelle aree abitate sarà comunque molto più alto. Perché ritenere prioritario questo progetto, rispetto ad accelerare il progresso tecnico sui veicoli? Un camion vecchio inquina dieci volte più di un camion nuovo. E accelerare il rinnovo delle flotte costa molto.
I danni ambientali del nuovo tunnel sono invece certi. Non quelli a valle (il progetto attuale prevede il solo tunnel di base, ed è quindi molto meno impattante del precedente da 23 miliardi). Ma le ricerche recenti, soprattutto svedesi, dimostrano che i cantieri delle opere ferroviarie generano emissioni di gas serra molto superiori a quanto si pensasse. Danni ambientali certi e rilevanti, dunque, a fronte di benefici ambientali dubbi.

Ultima perla: il secondo tunnel autostradale non dovrà fare la concorrenza al treno e perciò avrà tariffe tali da impedire che il traffico aumenti. Dunque servirà pochissimo, se mai riusciranno a mettere in pratica questa stravagante idea.
I costi dell’opera, anche grazie alle molte obiezioni tecniche fatte, sono stati parecchio ridotti. Non altrettanto i tempi: almeno dieci anni. Il rischio maggiore, molto realistico date le esperienze italiane precedenti nel settore, è che si incominci a costruirlo, magari sotto elezioni. Poi i soldi finiranno e l’opera si trascinerà per ere geologiche. Senza che ovviamente alcuno alcuno risponda dell’ulteriore spreco di denaro pubblico che questo comporterebbe.

Da Dario Fo a Vittorio Gregotti: 50 “firme” della culturascrivono al presidente «La Costituzione dice di tutelare il paesaggio e lastoria dalle speculazioni». La Nuova Venezia, 5 dicembre 2012. Quando mi proposero di firmare l'appello a Giorgio Napolitano rifiutai, sostenendo che sarebbe stato come se la mamma dell'agnello scannato avesse chiesto giustizia al lupo. nella postilla ne argomento le ragioni

Ci sono cinquanta nomi illustri della cultura italiana nell’appello inviato al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, all’indomani della consegna del Leone d’Oro della Regione del Veneto a Pierre Cardin per il suo progetto - ancora da finanziare, autorizzare e realizzare - di una torre alta 250 metri ai bordi della laguna con vista totale su Venezia e la Terraferma. Un grattacielo di luce fotovoltaica ed eolica (il Palais Lumière, appunto) che lo stilista italofrancese vorrebbe erigere a sua futura memoria poco distante dal centro storico di Venezia, città sull’acqua, unica al mondo e perciò da tutetare. «Signor Presidente», recita la lettera-appello, «ci rivolgiamo a Lei perché è interprete e difensore di parole e principi contenuti nella nostra Costituzione. Ed è proprio una grave offesa alla Costituzione quella che minaccia Venezia: la sua integrità ambientale, il suo paesaggio, la natura e la storia di un patrimonio che va tutelato e tramandato alle generazioni future». «Simone Weil, in un suo scritto intitolato “Venezia Salva”», continua la lettera, «parlava del senso delle radici autentiche di questa città che è un ambiente umano, un contatto con la natura, il passato, la tradizione. Ma il contatto di cui parla Weil svanisce sempre più spesso in fenomeni che feriscono e umiliano, come non mai prima, il diritto dei cittadini al bene comune che è Venezia con la sua laguna. Se si ritiene possibile da parte dei responsabili delle istituzioni pubbliche contribuire alla mastodontica costruzione di una cosiddetta Torre, addirittura sul margine delle acque lagunari, vuol dire che lo smarrimento culturale di quelle istituzioni pubbliche non è solo cinica indifferenza al paesaggio e alla storia - e quindi all’obbligo di tutela e salvaguardia dettato dalla Costituzione e dalla legge - ma è addirittura una malaugurata partecipazione di soggetti pubblici ad un’opera che, ove realizzata, potrebbe sfigurare irreparabilmente Venezia». «Tutto questo». conclude la lettera. «accade al di fuori di ogni regola e consuetudine di pianificazione territoriale, a riprova di intenti speculativi che nulla garantiscono in relazione alla sempre contrastata rinascita economica, sociale e culturale di Porto Marghera. Coloro che sostengono il progetto della colossale Torre esibiscono motivazioni che ricordano gli alibi politici all’origine delle impressionanti devastazioni di contesti storici, sia urbani che paesaggistici, di molte parti d’Italia negli anni del cosiddetto abusivismo di necessità. Per tutte queste ragioni, signor Presidente, Le esprimiamo la nostra preoccupazione e Le chiediamo di vegliare perché a Venezia gli interessi privati e un malinteso culto del profitto non calpestino mortalmente la legalità costituzionale».

Claudio Ambrosini, Mario Brunello, Francesco Caglioti, Giancarlo Carnevale, Matteo Ceriana, Pierluigi Cervellati, Giuseppe Cristinelli Rolando, Damiani Vezio de Lucia, Cesare de Seta, Andrea Emiliani, Vittorio Emiliani, Gianni Fabbri, Gino Famiglietti, Dario Fo, Chiara Frugoni, Elio Garzillo, Carlo Ginzburg, Vittorio Gregotti, Maria Pia Guermandi, Beppe Gullino, Salvatore Lihard, Giovanni Losavio, Massimo Marrelli, Giorgio Mastinu, Franco Miracco, Tomaso Montanari, Alessandra Mottola, Molfino Alessandro Nova, Alberto Ongaro, Rita Paris, Desideria Pasolini dall'Onda, Mario Piana, Antonio Pinelli, Filippomaria Pontani, Paolo Portoghesi, Lionello Puppi, Franca Rame, Fernando Rigon, Carlo Ripa di Meana, Stefano Rodotà, Paolo Rumiz, Giovanni Santoro, Tiziano Scarpa, Salvatore Settis, Fiorella Sricchia Santoro, Bruno e Mauro Zanardo, Marco Zanetti.

Intanto ieri, Marco Parini e Lidia Fersuoch (Italia Nostra) hanno inviato alla direzione generale Beni Architettonici e Ambientali una lettera per chiedere la «scrupolosa applicazione della legge e il rispetto dei vincoli nell'area interessata al progetto di Pierre Cardin».

postilla
Eddyburg è stato tra i primi a segnalare criticamente il "Regalo" alla città dello stilista trevigiano con l'articolo di Paola Somma, nell'articolo Eventi collaterali = Danni premeditati, con quelli di Serio Pascolo, il quartiere di Cardin a Porto Marghera, diverse postille e l'articolo di Edoardo Salzano, Le radici della torre. Se e quando riuscirete a raggiungere l'archivio di eddyburg e cercherete nella cartella giusta troverete altri numerosi scritti sull'argomento.
Tra gli argomenti della critica al "dono" di Cardin troverete testi di informazione e denuncia dello stravolgimento dei rapporti istituzionali e della legalità urbanistica, cui ha concorso anche il Presidente della Repubblica. Quest'ultimo infatti, come la stampa locale ha più volte riferito senza essere smentita, è intervenuai, col ministro Passera, per far sì che venissero rimossi i vincoli tecnici che impedirebbero la costruzione della torre nell'area prescelta. L'abbandono, da parte del massimo garante della legittimità costituzionale, delle regole che governano i rapporti tra le istituzioni e i loro strumenti nel campo del governo del territorio è sembrato - non solo a noi - uno degli elementi più gravi della vicenda dell'intervento immobiliare dello stilista franco-veneto. Esso ha suscitato, fortunatamente, anche le critiche di associazioni come Italia Nostra e di personalità come Carlo Ripa di Meana, che proprio su questo punto si sono appellati ad altri giudici, più neutrali rispetto all’evento –e forse meno infetti dall’ideologia della crescita.
L'argomento meriterebbe un'analisi più attenta anche per altri profili, che i media hanno lasciato in secondo piano mentre sono centrali per il futuro dell'area veneziana. Vogliamo per ora accennare a un aspetto che ci sembra sia stato lasciato ingiustamente in secondo piano. Sembra che non ci si renda conto che abbandonare qualche decina di ettari alle iniziative immobiliari del magnate franco-veneto (il quale ha gia messo in vendita i lussuosi appartamenti e uffici che progetta di realizzare nel Palais Lumière) significherebbe compiere uno spreco gigantesco di risorse pubbliche. Gli spazi sottratti alla Laguna, imboniti e infrastrutturati con ingenti finanziamenti pubblici, verrebbero sottratti al loro auspicato destino: quello di essere il luogo da bonificare, rigenerare e ricostruire (nel rispetto dalle testimonianze del lavoro dell’uomo nella fase più crudele del capitalismo industriale) come localizzazione dei nuovi spazi ed edifici necessari per soddisfare i fabbisogni sociali (di luoghi per una produzione diversa, per la residenza a prezzi controllati, per i servizi pubblici e le altre attività pubbliche e per quelle economiche, non compatibili di essere ospitate nell’edilizia storica o nelle residue aree d territorio lagunare o comunque prevalentemente rurale ancora sopravvissuto alla rapacità degli investitori immobiliari e dei loro affabulanti facilitatori.

Recensione alla raccolta di scritti di Vittoria Calzolari Paesistica/Paisaje, curiosamente pubblicata in Spagna con testo italiano a fronte. Che sia un segno di qualcosa? La Repubblica, 4 dicembre 2012

Il paesaggio. L’acqua. Il centro storico. Il territorio come un sistema. Ora che ha compiuto 88 anni, Vittoria Calzolari vede che intorno a sé si mettono insieme le tante riflessioni che hanno tessuto la sua vita d’architetta, di insegnante, di militante a favore di una città ben regolata e giusta. A lei viene dedicato ora un libro che raccoglie alcuni dei suoi principali scritti, componendo il quadro di una personalità ricca, curiosa, intellettualmente feconda. E definendo anche una specie di primato a lei ascrivibile: quello di essere stata fra i primi ad aver messo a punto una disciplina sul paesaggio, che chiama “paesistica”, e sulla sua pianificazione. È però singolare, segno di un destino che sembra iscritto nei tratti minuti e sereni di Vittoria Calzolari, il fatto che il libro esca in Spagna, sia in lingua italiana con testo spagnolo a fronte, e curato da un gruppo di suoi colleghi e allievi dell’Università di Valladolid. Il libro s’intitola Paesistica/Paisaje,
l’ha coordinato Alfonso Álvarez Mora.

Calzolari ha studiato a Roma, con Ludovico Quaroni e Luigi Piccinato. Poi ad Harvard, dove ha seguito l’ultimo anno di lezioni di Walter Gropius, e al Mit. Il più vivo ricordo bostoniano? «Le fantastiche biblioteche», risponde seduta in poltrona nel luminoso salotto di casa sua, ai Parioli. Il suo racconto continua con la carriera universitaria a Napoli, da dove, nel 1975, si trasferì a Roma. Qui avrà la cattedra di urbanistica fino alla pensione, ma accanto alla disciplina di base, affiancherà due corsi: Assetto del paesaggio e poi Progettazione del territorio. Intanto, a metà degli anni Settanta, la sua vita ha una svolta: il nuovo sindaco di Roma, Giulio Carlo Argan, eletto nel 1976, le affida l’assessorato al centro storico. Tre anni con il grande storico dell’arte, due con Luigi Petroselli, uno dei sindaci più amati della capitale. «Scoprii nel concreto quanto l’urbanistica fosse anche un complesso di norme e quanto, contemporaneamente, toccasse la dimensione umana». Di quell’esperienza amministrativa riemerge nella memoria la frase che ogni tanto, durante una riunione, pronunciava Petroselli: «Ora ascoltiamo la professoressa». Una specie di tributo, lui funzionario di partito assurto alla guida di Roma, verso l’intellettuale Calzolari. «Penso che i miei colleghi mi considerassero inflessibile, che il mio approccio fosse giudicato troppo accademico. A volte, entrando nella stanza dov’era in corso un incontro, mi accorgevo che, vedendomi, tutti zittivano, come se non volessero farmi ascoltare quel che dicevano. Io non avevo tanta dimestichezza con la politica».

Eppure Calzolari avvia alcune politiche per il centro storico di Roma. Forse non più ripetute con quella intensità. Decide la ristrutturazione di due zone degradate: Tor di Nona, fra piazza Navona e il Lungotevere, e san Paolino alla Regola, vicino a piazza Farnese. Il metodo è quello praticato da Pier Luigi Cervellati a Bologna. Acquisizione pubblica degli edifici. Restauro, nel rispetto delle regole costruttive originali. E, soprattutto, riassegnazione degli appartamenti in affitto ai residenti, stroncando sul nascere ogni appetito speculativo. L’obiettivo è di fermare l’emorragia di residenti dal centro storico. Se lo si accompagna alla ristrutturazione di 310 alloggi, alle 24 case protette per anziani, viene fuori un quadro di interventi sia sulla struttura fisica che sulla composizione sociale di un centro storico, rimasti di fatto con pochi seguiti. A Roma e non solo.

I ricordi riaffiorano. Calzolari li rincorre con lo sguardo, tenendo stretto nelle mani il libro. L’amicizia con Antonio Cederna. La militanza in Italia Nostra. Il sostegno al Progetto Fori, la grande area archeologica da realizzare fra piazza Venezia e il Colosseo, smantellando la via dei Fori imperiali. E poi la visita in Campidoglio della regina Elisabetta, «con un tailleur giallo canarino e un grande cappello». Il viaggio con Petroselli a Boston e a New York, finito in un ballo all’Empire State Building. I lavori per Siena e per Brescia. La sua sostituzione nel 1981, sindaco ancora Petroselli, con Carlo Aymonino, che sul centro storico aveva idee diverse dalle sue.

Ma soprattutto l’Appia Antica. Al grande territorio che avvolge la Regina viarum Calzolari dedica uno studio che dal 1973 prenderà la forma di una organica pianificazione. Il volume esce nel 1984, curato da Italia Nostra. L’Appia Antica, appunto, come sistema complesso, analizzato da diversi fronti disciplinari - l’archeologia, il verde, l’urbanistica. Un sistema da definire e da tutelare, nel solco di una tradizione che risaliva almeno agli articoli del suo amico Cederna contro i gangster che infestavano quel luogo con abusi e malversazioni. Che cosa fare di quello straordinario cuneo verde che si infilava nel centro della città e che aspirava a diventare un parco non poteva prescindere dalla sua conoscenza. «Un giorno», racconta, «salimmo su un pallone aerostatico e sorvolammo quel territorio, dal Campidoglio a Monte Cavo. Scegliemmo l’altezza e la velocità giuste per poter osservare tutti i dettagli e poi i dettagli nel loro insieme ».

L’obiettivo era di trovare un filo conduttore tra i diversi valori espressi da quel luogo - estetici, archeologici, storici, urbanistici, naturalistici, ma non solo questo. «Soltanto se fosse nata un’immagine unitaria dell’Appia Antica, nella mente e nell’opinione pubblica, si sarebbe potuto dar vita a un parco e tutelarne l’integrità ». Per questo ai suoi occhi tanta importanza aveva il recupero delle ricchissime memorie letterarie intorno a quel paesaggio. In questo contesto, anche oltre l’Appia Antica, per Calzolari assume una funzione centrale l’acqua. L’acqua è il filo conduttore, dice, che molto spesso spiega le forme del paesaggio. È il principio ordinatore di un paesaggio che a sua volta è «la manifestazione sensibile e percepita in senso estetico delle relazioni che si determinano in un ambiente biofisico e antropico». Ma l’acqua riporta Vittoria Calzolari anche ai ricordi della prima infanzia, quando su una terrazza romana vide sciogliersi fra le mani una palla di neve.

«La strana pretesa dei liberistiChiedere alla sinistra di fare la destra». Anche a destra c'è qualcuno che pensa. Ma sono diminuiti anche lì. Corriere della sera, 4 dicembre 2012L'intellettualità liberista italiana aveva eletto Matteo Renzi a proprio campione. E ora si dice delusa perché il Pd e, più in generale, il centro-sinistra non ne hanno accolto le suggestioni alle primarie. Ma ha senso una simile delusione? Credo di no. Sui diritti politici e sull'architettura istituzionale la convergenza delle diverse culture politiche è possibile e utile. L'ha dimostrato la Costituzione, elaborata dopo la Seconda guerra mondiale. Lo hanno poi confermato le leggi sui diritti civili, sulle quali si sono formati consensi trasversali, basati su scelte di coscienza. È invece sull'economia e sul finanziamento delle politiche sociali che si articola l'opposizione tra le tesi socialdemocratiche e socialcristiane, tipiche del Pd in Italia e dei partiti socialisti in Europa, e le tesi liberiste, tradizionalmente coltivate dalla destra. Perché mai questo duello, che costituisce il sale delle democrazie occidentali, dovrebbe risolversi all'interno di una sola area politica, il centro-sinistra, o meglio di un solo partito, il Pd?
Negli Stati Uniti, il movimento dei Tea Party non pretende di dettare la linea al Partito democratico. Gli basta condizionare e magari conquistare il Partito repubblicano. In Italia, invece, si vorrebbe che il Pd diventasse liberista perché, come titola un fortunato pamphlet di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, il liberismo sarebbe di sinistra. Ma un conto è un tentativo di egemonia culturale come quello fatto dai due economisti di scuola, appunto, liberista, ben altro conto è intestare una politica di destra all'altra ala dello schieramento politico. Le contaminazioni fanno bene al pensiero. Tutti possono imparare qualcosa da tutti. Dal fallimento dell'Unione Sovietica, le sinistre hanno imparato a diffidare delle nazionalizzazioni generalizzate e della pianificazione centralizzata oltre che dal regime a partito unico. Vista la crudeltà del capitalismo manchesteriano, i liberali di fine Ottocento accettarono l'idea, cara al nascente socialismo, di limitare per legge a otto ore la giornata di lavoro. Dalla crisi del 1929, uscirono negli Usa e in Italia le leggi bancarie che tagliarono le unghie alla speculazione fatta con i soldi degli altri e l'intervento statale nell'economia. Ex comunisti, ex socialisti ed ex democristiani possono pur ritrovarsi sotto lo stesso tetto del Pd, visto che, nella politica economica, erano tutti più o meno socialdemocratici. Ma le contaminazioni non possono essere spinte fino alla democrazia che si compie in un partito solo.
Per funzionare bene, la democrazia ha bisogno di chiarezza e di pluralismo. E allora l'intellettualità liberal-liberista dovrebbe chiedersi come mai, nonostante la simpatia dei media e la diffusa voglia di facce nuove, Matteo Renzi non ce l'abbia fatta. Tirare in ballo l'ostilità di apparati che non esistono più (al Pd ne resta uno pari a un decimo di quello degli anni Settanta) equivale a fuggire davanti alle domande difficili così come fuggivano gli ex comunisti nel 1994 quando attribuivano la propria sconfitta alle televisioni di Berlusconi e non ai propri limiti. Le domande difficili sono due: a) come mai, in Italia, la cultura politica liberale non è riuscita a conquistare l'egemonia, in particolare nell'area politica che gli è storicamente affine, e cioè nel centro-destra? b) che cosa potrebbe fare, adesso, per risalire la china?
Una democrazia funzionante ha bisogno di schieramenti politici presentabili. Il centro-sinistra, pur con tanti limiti, lo è. Il centro-destra, purtroppo, si è illuso di esserlo. Più che discutere di Renzi e Bersani, questa intellettualità dovrebbe aiutare la destra politica a capire come mai Silvio Berlusconi e i partiti da lui guidati (Forza Italia, il Pdl) non siano mai diventati quel partito liberale di massa che promettevano di essere. Confessando, magari, perché per tanti anni questa stessa intellettualità ci aveva creduto. C'è tutta una storia patria da revisionare. A partire dall'Unità d'Italia. Ma c'è anche un ripensamento più radicale sui tempi recenti. Un ripensamento a proposito di due scelte. La prima è di tipo economico e consiste nell'aver cercato di estendere senza più confini l'area dell'economia di mercato all'interno dell'economia e l'influenza del capitalismo finanziario all'interno dell'economia di mercato. La seconda scelta è di tipo antropologico e riguarda la centralità assoluta attribuita alla competizione, con relativa, superficiale mitizzazione della cosiddetta meritocrazia, rispetto all'arte della collaborazione e alla gestione politica delle disuguaglianze. Per favorire questo duplice processo si è ridotta l'azione di governo a mero arbitraggio. Con il risultato che i più forti hanno sì sovrastato senza remore i più deboli, ma alla fine hanno rotto il giocattolo dell'economia.
Preso atto del successo di Obama, i repubblicani americani stanno ripensando le proprie scelte. La cultura della destra italiana, presto o tardi, dovrà fare i conti con l'età berlusconiana. E questa è una responsabilità alla quale non poteva sfuggire andando a covare il proprio uovo nel nido del Pd.
mmucchetti@rcs.it


Procede l'iter di approvazione del disegno di legge per il contenimento del consumo di suolo. Per chi volesse ricostruire l'iter del provvedimento, rendiamo disponibili i documenti approvati dal Consiglio dei ministri e dalla Conferenza unificata delle regioni e delle province autonome. (m.b.)

Come è noto, il Consiglio dei ministri, nella seduta del 16 novembre scorso ha approvato in via definitiva, dopo aver acquisito il parere favorevole della Conferenza unificata delle regioni e delle province autonome, il disegno di legge per la valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo.
Per chi volesse ricostruire l'iter del provvedimento, rendiamo disponibili:
- la proposta iniziale predisposta il 10 settembre e sottoposta al Consiglio dei ministri il 14 settembre;
- il parere della Conferenza unificata, consegnato il 30 ottobre, con allegate le proposte di emendamento proposte dal Governo nella seduta del 23 ottobre e gli ulteriori emendamenti richiesti dalla Conferenza;
- il testo definitivo, approvato dal Consiglio dei ministri il 16 novembre.


La Repubblica, 2 dicembre 2012,


Martedì 4 dicembre sapremo l’esito del conflittosollevato dal Quirinale versus la Procura palermitana: non è affare nostro laprognostica almanaccante; parlino gl’indovini o inquirenti tra le quinte,soppesando le variabili, dalle storie individuali agl’influssi esterni.L’interessante è avere sotto gli occhi le norme vigenti, intese a regolad’arte. Cominciamo col distinguere due contesti manifestamente diversi: che lelinee locutorie d’un tale (chiamiamolo N) siano spiate ogniqualvolta le usa,giorno e notte, avvolto in una rete acustica o informatica; o P incappi inascolti fortuiti perché comunica con N. Tale il caso sub iudice.

Costa qualche fatica tradurre in lingua giuridica l’enfasi mistica effusa nel ricorso ma tentiamo. Il Presidente parrebbe non ascoltabile dai profani fuori del circuito pubblico, a meno che vi consenta: in pratica stabilisce lui, post eventum, se fosse fas o nefas udire; ad esempio, non gli dispiacevano i nastri contenenti dialoghi virtuosi sui terremotati con Guido Bertolaso, captato a proposito d’appalti. Stavolta, come allora, nessuno lo spiava: cade nella rete rispondendo a N. M. che invoca soccorso contro dei pubblici ministeri; i quali, ignari, non violavano alcun obbligo. Ma stando al ricorso, lo scenario muta dall’istante in cui riconoscono la Voce. Lì scattano obblighi negativi (espellere dalla memoria suoni e parole o almeno tacerli) e positivi (distruggano clandestinamente l’empio materiale, subito).

Enfasi mistica, abbiamo detto. Esiste un precedentenello Statuto albertino, concesso sabato 4 marzo, anno del Signore 1848, 18°del regno: “la persona del Re è sacra e inviolabile” (art. 4); sacrileghiperciò perquisizioni, sequestri, arresto, cattura, condanne, ecc. (VittorioAmedeo II subisce misure coercitive dal figlio Carlo Emanuele, detto Carlino,ma non era più re, avendo abdicato, 3 settembre 1630). Insomma, sta fuori dellagiurisdizione, essendone la fonte (art. 68: “emana dal Re”). Nella fattispeciel’inviolabile Carlo Alberto avrebbe partita vinta, e così i quattro successoriregnanti, ma la storia novecentesca ha inghiottito Statuto e monarchia. Esistequalcosa d’analogo nella Carta repubblicana votata lunedì 22 dicembre 1947dall’Assemblea Costituente? Quesito stravagante, sottintende nostalgiereazionarie in stile Joseph de Maistre o Charles Maurras. L’immunità èasseribile in quanto una norma la stabilisca e le norme non nasconospontaneamente, né le detta il giudice o emergono dai fondali d’una storiaspesso fantastica (nell’ancien régime la nobiltà togata evocava misteriose“lois fondamentales”). Regole d’un livello superiore dicono in qual modoprodurle: e qui non basta una legge qualunque; nascerebbe morta, perché violal’art. 3 Cost. Stando al ricorso, vale l’art. 90 Cost. Vediamolo: il Presidentenon risponde degli atti compiuti quando esercita le funzioni, esclusi due casi;tutto lì ossia nemmeno una sillaba utile all’assunto monarcofilo. Dove stascritto che, fuori del circuito pubblico, sia ascoltabile solo se lo reputaconveniente? La lingua italiana non tollera simili letture. Inteso così, l’art.90 legittima ogni fantasia, anche che l’Unto sia infallibile, come Sua Santità,o guarisca le scrofole toccando i pazienti (l’ultimo re di Francia prestatosial rito terapeutico è Carlo X appena incoronato, a Reims, Ospizio San Marcolfo,31 maggio 1825). Siamo nell’assurdo linguistico.


Altrettanto fuori luogo il riferimento all’art. 7 l. 5giugno 1989 n. 219, cc. 2 e 3: “i provvedimenti che dispongono intercettazioni”possono “essere adottati” nei suoi confronti solo dopo che la Cortecostituzionale l’abbia sospeso dalla carica; versiamo nel caso del Presidentemesso in stato d’accusa (alto tradimento o attentato alla Costituzione). Quinessuno aveva disposto l’ascolto nei suoi confronti: l’intercettato non era luima l’interlocutore; né pendevano accuse. L’art. 7 segnalerebbe una normaocculta applicabile anche fuori dei casi ivi previsti? Discorsi simili corrononel settimo capitolo delle avventure d’Alice (un tè matto): l’ermeneutica hadelle regole; chi le vìola cade nel vaniloquio; e i vaniloqui restano talichiunque li formuli, in qualsivoglia messinscena. Il bello della logica sta nelnon essere falsificabile.Qualcuno ragionava così: sta bene, la Procurapalermitana risulta in regola ma, rilevando una lacuna nella tutela degliarcana imperii, la Corte può rimediarvi. Nossignori. L’alto consesso non forgiaGrundnormen: applica le esistenti rimuovendo leggi incompatibili. L’immaginariocanone è invisibile nel testo, unico luogo da cui possiamo cavarlo.L’alchimista metteva oro nel vaso fingendo poi d’averlo trovato. Questo ricorsoafferma l’inviolabilità della “sacra persona” con un lungo salto indietro al 4marzo 1848. La sedicente diagnosi giuridica è plateale tautologia:ogniqualvolta l’ascolto gli riesca molesto, deve non essere ascoltabile;perché?; se lo fosse, sarebbe violata una santa privacy. Ovvio, no?

Veniamo all’ultimo paradosso. Il clou dello pseudo conflitto sta nella pretesa che sia clandestinamente distrutto l’intero materiale (nastri, testi trascritti, verbali). Ora, nell’art. 111 Cost., cc. 2 e 4, il contraddittorio è requisito elementare e sarebbe manomesso se andassero in fumo possibili prove ignote agl’interessati: forse giovano all’accusa o alla difesa d’una parte o forniscono lumi in altri giudizi; pour cause l’art.269, c. 2, c. p. p. impone un procedimento camerale aperto a chi vi abbia interesse. Insomma, l’attore invoca una norma costituzionale inesistente, contro l’esplicita; e se la Corte riuscisse ad accogliere quei petita nel rispetto del sistema attuale, sarebbe l’enorme miracolo immaginato da Cartesio: un triangolo i cui angoli contino più o meno dei soliti 180° nello spazio euclideo. Secondo Spinoza, non vi riesce nemmeno Iddio. Va in scena un raro caso clinico.

«La causa principale del debito romano sta piuttosto nel dissennato modello di crescita che ha causato una espansione urbana incontrollata». Il manifesto, 1 dicembre 2012

Ha fatto rumore la notizia del rischio del fallimento della regione Sicilia a causa di un debito consolidato di 17 miliardi. L'isola ho poco più di 5 milioni di abitanti: ogni siciliano - neonati compresi - ha un debito di 3.400 euro ciascuno. Roma, per esplicita ammissione del sindaco Alemanno, ha 11 miliardi di debito consolidato. A questa cifra spaventosa va aggiunto il debito di alcune municipalizzate (Atac e Ama in primis dove sono stati assunti senza concorso un numero imprecisato di amici e camerati della prima ora) e quello dovuto agli espropri per opere pubbliche non perfezionati: si arriva a 15 miliardi. La popolazione di Roma è di circa 2 milioni e 600 mila abitanti: ogni romano - neonati compresi - ha un debito di 5.800 euro ciascuno. Se la Sicilia rischia di fallire, la capitale non ha neppure il beneficio del dubbio: è alla bancarotta.

Il debito della regione Sicilia è frutto della irresponsabile politica clientelare di rigonfiamento degli organici nelle istituzioni pubbliche e della spesa per opere spesso inutili e controllate dalle organizzazioni criminali. La cura per il rientro dal debito è chiara, anche se non immediata: dimagrire l'elefantiaca pubblica amministrazione. Il presidente Lombardo, formalmente dimissionario, aveva invece continuato ancora in questi ultimi giorni ad assunzioni a spese della collettività.
Il debito della capitale è solo in parte riconducibile al rigonfiamento della pubblica amministrazione, che pure esiste, come dicevamo. La causa principale del debito romano sta piuttosto nel dissennato modello di crescita che ha causato una espansione urbana incontrollata: periferie che generano altre periferie sempre più lontane e costringono l'amministrazione comunale ad indebitarsi per portare servizi, trasporti, strade e per la quotidiana gestione.
La cura per il rientro del debito è dunque chiara anche in questo caso: bloccare qualsiasi ulteriore espansione urbana e razionalizzare la città esistente. Il sindaco Alemanno sta invece cercando in questi giorni di far approvare dal Consiglio comunale una ulteriore gigantesca crescita urbana: nuovi quartieri residenziali per un totale di 66 mila alloggi; venti milioni di metri cubi di cemento che cancelleranno per sempre oltre 2 mila ettari di territorio agricolo.
Nuove aree edificabili, dunque, in deroga alle già irresponsabili dimensioni delle espansioni previste dal piano regolatore approvato dalla precedente giunta Veltroni (prevedeva 400 mila nuovi abitanti in una città che non cresce da venti anni). Il pretesto è quello dell'emergenza abitativa: mancano le case per le famiglie più povere e la generosa rendita fondiaria risolverà il problema dei senza tetto a patto di regalargli una plusvalenza di centinaia di milioni di euro. Poi, inevitabilmente, il comune che ha già 15 miliardi di debito dovrà accollarsi le spese per i servizi. E' evidente che l'approvazione del pacchetto urbanistico di Alemanno sarebbe il colpo finale la città. Il presidente del consiglio ha intimato al governatore Lombardo di dimettersi poiché sta attuando politiche che aggravano ulteriormente il debito siciliano: perché non usa lo stesso metro con il sindaco di Roma così da impedirgli di portare alla definitiva bancarotta la capitale?

In attesa di una convincente risposta resta da formulare una proposta. Alemanno è costretto a portare fino in fondo lo scellerato progetto: tra pochi mesi inizia la campagna elettorale amministrativa e dopo l'evidente fallimento della sua amministrazione non può permettersi di scontentare i suoi migliori alleati, i costruttori e gli immobiliaristi romani. L'opposizione - fatta eccezione per Andrea Alzetta e Gemma Azuni - non batte un colpo, prigioniera della mancata riflessione critica sull'approvazione del piano regolatore 2008 che ha provocato il nuovo sacco edilizio.

Non resta allora che venga sottoscritto da chiunque si candiderà alle prossime elezioni un solenne impegno: revocare la delibera che verrà approvata nei prossimi giorni. La città ha bisogno di segnali di discontinuità: non si può continuare a fondare il futuro di Roma sull'espansione urbana mentre ci sono almeno 100 mila alloggi nuovi invenduti che da soli risolverebbero la questione. C'è bisogno di un chiaro ed inequivocabile cambio di rotta e di una nuova idea di città: il modello fin qui dominante ha portato al fallimento economico

«I lavoratori dello stabilimentoritorneranno al lavoro, ma le condizioni in cui lavorano saranno a lungo lestesse di prima. Respireranno gli stessi inquinanti, forse in dose lentamentecalanti, e le polveri e le sostanze nocive che da decenni appestano Tarantocontinueranno a posarsi sulle loro case e sulle loro famiglie e ad essereinspirate da adulti e bambini». La Repubblica, 31 novembre 2012

L’ASPETTO più importante del decreto legge sull’Ilva sono aben vedere le dichiarazioni del ministro Passera: se la proprietà non eseguequello che la nuova legge prevede il governo potrebbe varare la procedura diamministrazione controllata. Al riguardo i dettagli non sono al momentodisponibili, almeno non negli estratti del decreto accessibili a tarda sera, mail pronunciamento del ministro dello Sviluppo, in sintonia con le analoghedichiarazioni del ministro dell’Ambiente Clini, sembrano proprio significareche se questa volta l’azienda non porrà in essere gli interventianti-inquinamento, rischia di perdere la proprietà o quanto meno il controllodell’impianto di Taranto. L’adozione di tecnologie adeguate per abbattereradicalmente gli inquinanti emessi dallo stabilimento costerà miliardi. Ègiusto che sia la proprietà a pagare, come avrebbe dovuto fare da almenovent’anni, ed è bene che sia posta di fronte a penalità severe che dovrebberoentrare automaticamente in vigore a fronte di ritardi o inadempienze.
Per il resto la soddisfazione dinanzi al decreto governativo non può che esseremodesta. È vero che nei prossimi giorni i lavoratori dello stabilimentoritorneranno al lavoro, ma le condizioni in cui lavorano saranno a lungo lestesse di prima. Respireranno gli stessi inquinanti, forse in dose lentamentecalanti, e le polveri e le sostanze nocive che da decenni appestano Tarantocontinueranno a posarsi sulle loro case e sulle loro famiglie e ad essereinspirate da adulti e bambini. Il conflitto con la magistratura locale rimaneaperto, comunque si voglia rigirare
la questione. Essa voleva fermare l’inquinamento – era un suo preciso dovere –ma il decreto la scavalca stabilendo che per intanto il lavoro è più importantedella salute, e però nel volgere di alcuni anni le emissioni nocive dellostabilimento finiranno per essere ricondotte entro quei limiti che in realtàavrebbero dovuto essere in vigore da una generazione.
Quel che ora ci si può aspettare dal decreto in parola e dalle integrazionitecniche ed economiche di cui sicuramente avrà bisogno è che esso imponga allaproprietà di impegnarsi
all’installazione dei dispositivi anti-inquinamento con la maggior urgenzapossibile; che richieda perentoriamente di impiegare in tale compito il massimodi manodopera e il meglio delle tecnologie oggi disponibili a livello mondiale;che preveda l’impiego di squadre di controllo specializzate e indipendenti cheogni giorno accertino se la direzione dell’Ilva ha rispettato i traguardi ditempi e di installazione; infine che preveda sanzioni immediate e durissimeogni volta che si constati una eventuale infrazione di tempi e di tecniche daparte della direzione.
Restiamo in fiduciosa attesa di conoscere tutti questi provvedimenti.
Il governo ci ha dormito un po’ sopra, alla questione Ilva. Tutto sommatol’intervento della magistratura di Taranto risale al luglio scorso. Ora che siè dato finalmente una mossa, bisogna chiedergli che si impegni a fondo percoinvolgere la magistratura stessa nella messa in atto delle disposizioni deldecreto, nonché nella sorveglianza sui modi in cui vengono eseguite. Non soloperché la magistratura, con i suoi esperti, ha mostrato di conoscere meglio dichiunque altro quale fosse la reale nocività dell’impianto. Ma anche perché undecreto emanato dal governo che aggira una sentenza della magistraturarappresenta una tale ferita all’ordinamento costituzionale che non può esseretollerata se non per un brevissimo periodo di emergenza. Nessun ministro dellaRepubblica può dire “io sono la legge, quindi la magistratura deve cedermi ilpasso”. O al massimo può dirlo una volta sola, in una situazione di estremanecessità, per correre subito dopo ai ripari al fine di ristabilire anche nelcaso Taranto l’indipendenza tra i poteri fondamentali che la Costituzioneprevede. Il giorno che vede rinascere a Taranto la speranza di poter conciliarefinalmente lavoro e salute, grazie a un intervento del governo di non comuneincisività, non deve passare alla storia come il giorno in cui un pezzo diCostituzione è stato abrogato.

Una recensione molto sbilanciata sull'approccio visivo, per un'operazione editoriale e divulgativa dal medesimo tono, che sul tema della crisi urbana ha incontrato un grande successo di pubblico. Scritto per Eddyburg (f.b.)

Quando si parla di città e delle sue trasformazioni le immagini cinematografiche sono spesso più evocative ed efficaci dei libri sull’argomento. Le mani sulla città di Francesco Rosi, ad esempio, contiene alcune scene che spiegano i meccanismi della rendita fondiaria meglio di molti manuali di urbanistica, tanto che il film ha consentito al regista di essere insignito della laurea honoris causa in pianificazione.

Il binomio decadenza/esplosione urbana è stato più volte rappresentato nella produzione cinematografica degli ultimi trent’anni. Nel 1982 uscirono due film che affrontano efficacemente i due poli della questione: da una parte la Los Angeles 2019, potente e decadente, di Blade Runner e dall’altra la città-macchina di Koyaanisqatsi, che implode nelle distruzioni programmate dei fallimenti urbanistici degli anni ’50 (il complesso Pruitt Igoe di St. Luis) ed esplode nella dispersione urbana così simile alla serialità dei circuiti elettronici.

Qualche anno dopo, nel 1989, Michael Moore in Roger &me descrisse gli effetti devastanti della deindustrializzazione sulla città di Flint in Michigan, uno degli stati simbolo della Rust Belt statunitense. E’ sempre nel paesaggio urbano del declino demografico e del degrado edilizio ad essere ambientato Gran Torino (2008), storia di un superstite della città-fabbrica e delle trasformazioni subite dal suo quartiere, dove egli è rimasto uno dei pochi bianchi mentre il resto della sua famiglia è emigrato nel suburbio. Sono le difficoltà del ghetto che vediamo in Precious (2009), dove la vita di scarto di una sedicenne obesa e semianalfabeta ci ricorda di quanto sia difficile avere un’istruzione decente ed una alimentazione sana se abiti ad Harlem, sei nera e la tua famiglia vive dei sussidi dei servizi sociali.

Apocalypse Town. Cronache dalla fine della civiltà urbana (Laterza, 2012, 236 pagine, €13,00) di Alessandro Coppola racconta storie che sembrano tratte da questo immaginario cinematografico. Compiendo un itinerario che parte da una delle città statunitensi più colpite dalla deindustrializzazione, Youngstown, alla quale nel 1995 Bruce Springsteen dedicò una canzone per ricordarne il glorioso passato di città dell’acciaio, la narrazione di Coppola, più somigliante al reportage giornalistico che alla ricerca sistematica sullo shrinkage delle città americane, tocca i centri della Rust Belt, come Detroit, Cleveland o Buffalo, ma anche altre città che hanno conosciuto la rovina e che hanno percorso, con risultati a volte discutibili, la strada dell’Urban Renewal, come New York o Baltimore.

Il tour tra i deserti alimentari di Chicago e delle protagoniste della decadimento urbano tratteggia veri scenari apocalittici, ai quali allude il titolo del libro forse un po’ troppo ammiccante e superficiale nel ricondurre ad essi la civiltà urbana tout court. Il libro presenta una serie di iniziative che si propongono di invertire la tendenza rispetto alla catastrofe, sulla cui reale efficacia però rimane qualche dubbio. Esse sono il favorire il ritorno della foresta dove prima era la città, l’agricoltura urbana al posto delle fabbriche dismesse; è la shrinkage culture che vuole affermare «l’idea che le città della Rust Belt possano riconquistare il loro posto nel mondo offrendosi come modelli di sostenibilità ambientale e creatività sociale». Coppola non è un urbanista e non pretende con il suo libro di fornire modelli per la rinascita delle città post industriali. Apocalypse Town è una buona operazione editoriale che riesce ad avvicinare anche un pubblico di non specialisti al vasto tema della fine della città come luogo della produzione e del suo tramutarsi in primario fattore di consunzione delle risorse del pianeta, il suolo innanzitutto, fagocitato dallo sprawl che ha ucciso le Inner Cities della Rust Belt americana e che sta creando seri problemi anche alle nostre meno apocalittiche città europee.

La terra è finita, diceva Mark Twain. Ora lottizzano anche il mare: una specie di caricatura di Dubai, in pratica l’ennesimo porticciolo, però staccato dalla costa, così la stupidaggine si nota di meno. Corriere della Sera, 30 novembre 2012

RICCIONE (Rimini) — L'ultima (e unica) volta che ci provarono finì con un'esplosione che scosse l'intera costa del divertimentificio, da Rimini a Cesenatico. Si chiamava Isola delle Rose (dal nome del suo creatore, l'ingegnere bolognese Giorgio Rosa), piattaforma di 400 metri quadrati piazzata nel mare Adriatico, a 11 chilometri e rotti dalle coste, fuori dalle acque territoriali italiane, ma dentro, saldamente ancorata, a quella stagione di contestazioni e utopie che fu il Sessantotto. Doveva essere una micro-nazione, con tanto di moneta, governo e lingua ufficiale: visse 55 giorni, finché Digos e guardia di Finanza, bracci armati di uno Stato che si sentiva schiaffeggiato, non ne presero possesso, facendola saltare in aria nel febbraio del '69 con 1000 chili di esplosivo.

Ora ci riprovano, leggermente più a sud, davanti a Riccione. Non un'isola: addirittura un atollo. Non una micro-nazione, né un'avanguardia di chissà quale progetto secessionista, ma qualcosa di ambizioso in termini di progettazione e spirito d'impresa. Far sorgere dal nulla, in mezzo all'Adriatico, a 3 miglia in linea d'aria da viale Ceccarini, un atollo di 1 chilometro di diametro in grado di ospitare un porto (con terminal per le navi da crociera in viaggio tra Venezia, Grecia e Croazia) e poi hotel, residence, centri di ricerca in tema di green economy, parchi, negozi: il tutto, per una popolazione di circa 3 mila persone e con possibilità di balneazione assolutamente inedite, dato che la profondità del mare, a quella distanza dalla costa, è di 12 metri.

Meglio sorvolare sui pensieri che devono avere attraversato le menti dei funzionari ministeriali romani quando Luca Emanueli, che dirige un centro di ricerca sui sistemi costieri presso il dipartimento di Architettura dell'Università di Ferrara, e Cristian Amatori, capo di gabinetto del sindaco di Riccione, il pd Massimo Pironi, misero per la prima volta sul tavolo l'idea. «Superato il primo attimo di sconcerto e viste le carte — racconta Amatori —, l'approccio è stato, non solo collaborativo, ma entusiastico». Da allora, con l'avvento del governo Monti, l'idea ha cominciato a marciare. Quattro sono i ministeri interessati: Infrastrutture, Ambiente, Sviluppo e Beni culturali (con l'aggiunta di quello per la Coesione sociale per eventuali contributi comunitari). Il progetto, come racconta il Carlino Rimini, non è ancora stato presentato. Lo sarà in febbraio con un convegno all'università di Ferrara. Ma è già in corso l'istruttoria per attivare la procedura di Valutazione di impatto ambientale. Il costo è di un miliardo di euro. Cifra pazzesca, di questi tempi. Da reperire sotto l'ombrello del project financing: «Abbiamo già ricevuto l'interessamento — afferma il sindaco Pironi — di imprenditori sauditi e di alcuni fondi d'investimento inglesi e olandesi».

Chi pensasse al modello Dubai è fuori strada. «Non sarà un'oasi ad esclusivo beneficio di vip — prosegue Amatori —. L'intento è integrare e ampliare l'offerta turistica di Riccione senza togliere nulla al patrimonio esistente sulla costa, che ha ormai raggiunto la saturazione». Di fatto, un'estensione del territorio: «Trattandosi di un progetto senza precedenti — dice Emanueli, che lavora con specialisti di varie discipline —, si sono dovute esplorare nuove strade sotto il profilo urbanistico e legislativo. Fondamentali inoltre gli studi sull'andamento del moto ondoso e dei fondali». Per ora non c'è traccia di comitati anti-atollo. «Ma forse perché il progetto non è ancora ufficiale», ride Amatori. In compenso gli amanti della sabbia si mettano il cuore in pace: «Le spiagge non sono previste: il mare ne farebbe un sol boccone...».

Corriere della Sera Milano, 29 novembre 2012, postilla (f.b.)

La recentissima pubblicazione degli atti del nuovo Piano di governo del territorio conferma una gradita sorpresa per tutti coloro che si sono dichiarati favorevoli alla riapertura dei Navigli (95 per cento dei votanti) in uno dei referendum ambientali del 2011. Accogliendo le numerose osservazioni formulate da cittadini e associazioni, la giunta ha proposto e il consiglio ha approvato l'inserimento del tracciato degli storici Navigli come ipotesi di possibile riapertura.
Dopo 130 anni e cioè da quando Cesare Beruto cancellò dal Piano di Milano (1884) così larga parte dei Navigli, riappare in una planimetria urbanistica della città quel segno d'acqua storico.

Così è possibile oggi pensare ad un progetto di fattibilità della riapertura dei Navigli come elemento nuovo e qualificante di una stagione urbanistica diversa che emblematicamente cambia il suo orizzonte: dalla spinta incontrollata all'edificazione e alla densificazione, alla cura per la qualità urbana e del vivere quotidiano. L'idea è quella di stendere sulla città lo storico sistema di canali, lungo i tracciati della Martesana in via Melchiorre Gioia e sulla Cerchia dei Navigli dal Ponte delle Gabelle sino alla Darsena, passando per i luoghi più belli di Milano. Una via d'acqua navigabile per battelli di ridotte dimensioni di trasporto pubblico, collegata al tema più generale della navigabilità dal lago di Como al Ticino, come da anni sostengono l'architetto Empio Malara e l'Associazione Amici dei Navigli. Un progetto fattibile, disegnato via per via, in grado di salvaguardare i diritti dei residenti affiancando sempre al naviglio una strada di servizio e soprattutto una pista ciclabile che magicamente potrebbe congiungere Ticino e Adda con il centro di Milano.
Niente a che vedere con la nostalgia del passato, ma anzi progetto per il futuro, capace di collegare storia e innovazione (basti pensare alle risorse energetiche derivanti dai salti d'acqua e dalla possibilità ad esempio di usare gli scavi per realizzare un possibile anello del teleriscaldamento per il centro della città). Le obiezioni principali riguardano essenzialmente l'impatto che la riapertura dei Navigli avrà nei confronti del traffico e della viabilità e i costi della realizzazione.

Ma, sulla questione del traffico, Area C e prima ancora Ecopass, non avevano e hanno per obiettivo la riduzione del traffico veicolare privato nel centro storico e un invito per tutti a usare i mezzi pubblici per giungere nel suo centro? La riapertura dei Navigli potrebbe costituire un elemento fondamentale per centrare l'obiettivo garantendo al contempo la fluidità degli spostamenti essenziali (residenti, carico e scarico merci e emergenze, mezzi pubblici). Sulla sostenibilità finanziaria di un intervento di questo tipo, considerando la questione da un punto di vista più ampio, bisogna saper collegare i costi ai benefici economici che deriveranno dal rilancio turistico di Milano e dalla sua maggiore attrattività e competitività nell'ambito europeo. Un progetto di questo tipo può radicarsi solo attraverso una progettazione partecipata che è d'obbligo quando la città chiede a chi la abita di modificare le consuetudini di vita. La posta in gioco è molto alta ed è in grado di rendere la Milano di domani ancora più bella e vivibile.

Postilla
Se, come sostengono le obiezioni alla riapertura dei Navigli, ci saranno degli impatti sul traffico e la mobilità, non si può trattare altro che di impatti positivi, e proprio per via del rapporto strettissimo fra assetto spaziale e circolazione. Basta ricordare a quali eventi e circostanze corrispondono i due ripristini citati da Boatti: il collegamento fra ponte delle Gabelle e Darsena attorno al centro storico, e l’asse della Martesana attualmente tombato sotto la via Melchiorre Gioia. Nel primo caso la copertura avviene proprio all’alba dell’automobilismo trionfante a cavallo tra gli anni ’20 e ’30, e basta leggere gli articoli dei giornali paralleli al dibattito sul piano in formazione di Cesare Albertini per intuire quanto l’auto sia il sottofondo naturale di tutte le riflessioni sulla nuova città dai parcheggi alle direttrici al nuovo ruolo delle piazze. Nel secondo caso risulta ancora più vistoso, il legame tra la tombatura della Martesana e certa cultura modernista auto-oriented del secondo dopoguerra, visto che attorno all’asse di via Melchiorre Gioia si organizza il cosiddetto Centro Direzionale, intersecato all’altra direttrice automobilistica di viale della Liberazione, che oggi sono il fulcro del cosiddetto quartiere Porta Nuova (quello del Formigone, del Bosco Verticale e compagnia bella). Ben venga dunque, almeno nelle intenzioni, una marcia indietro nella costruzione della città automobilistica: sarà un passo avanti per tutto il resto, naturalmente coordinando le politiche (f.b.)

«Il voto simbolico per la Palestina che divide l’Europa. È difficile per un europeo rifiutare, a un vecchio leader armatodella sola parola, un voto simbolico che, non solo per i palestinesi, ma ancheobiettivamente per gli israeliani, è un segnale di giustizia., La Repubblica, 29 novembre 2012

C’È MOLTO di surreale e di tragico nel rito che l’Assembleagenerale dell’Onu si appresta a compiere nelle prossime ore. È scontato che unacospicua maggioranza del vasto campionario mondiale raccolto nel Palazzo diVetro si pronunci in favore della promozione della Palestina da sempliceorganismo osservatore a Stato osservatore; ed è altrettanto scontato che laPalestina continui poi a essere l’entità territoriale militarmente occupata,qual è dal 1967; e che lo Stato tanto auspicato, promesso e temuto resti unmiraggio.
In concreto, con i due tempi che scandiranno il ritodell’Onu, la Palestina passerà dallo strapuntino di semplice osservatore a unsedile riservato agli Stati che non lo sono sul serio. Il Vaticano, animato daaltre ambizioni, se ne accontenta. Per la Palestina è una promozione piuttostosimbolica, anche se il voto dell’Assemblea generale ha in realtà un pesotutt’altro che insignificante, sul piano politico e morale. A dargli valore sonoanche le promesse mancate. Quante volte è stato auspicato, annunciatoùuno Statopalestinese?
In questo senso il voto è una prima, timida riparazione.Denuncia l’incapacità di ieri e di oggi di chi conta nel mondo. Basta osservarecome ci si è dati da fare nelle ultime ore per impedirlo. Ed è evidentel’angoscia dei paesi europei, il cui voto farà la differenza nella qualità delrisultato. La loro scelta riguarda la giustizia, non solo la politica.
Surreale è senz’ altro la procedura e tragico il risultato se li si mette aconfronto con le aspirazioni degli abitanti di quella Terra troppo santa etroppo contesa. Nell’autunno di un anno fa, Abu Mazen, presidente dell’Autoritàpalestinese, aveva chiesto che il suo paese, fino allora presente all’Onu con l’OLP(Organizzazione per la liberazione della Palestina) nella veste di sempliceosservatore, diventasse uno Stato membro a pieno titolo. Ma quel tentativo èfallito perché, dopo il voto dell’Assemblea generale spettava al Consiglio diSicurezza decretare l’ammissione di uno Stato membro a pieno diritto, e gliStati Uniti avrebbero posto il veto. Washington riteneva e ritiene infatti chesi debba arrivare al riconoscimentodi uno Stato palestinese attraversonegoziati con Israele e non con «un colpo di mano» alle Nazioni Unite.L’esigenza della Casa Bianca coincide con quella israeliana, e blocca lasituazione, perché la società politica di Gerusalemme vive una stagione digrande intransigenza. La quale assomiglia a un rifiuto a vere trattative. Allavigilia delle elezioni politiche, previste per gennaio, nel Likud, principalepartito al governo, ha prevalso alle primarie la corrente meno incline a unautentico dialogo con i palestinesi.
Un anno dopo, Abu Mazen comunque ci riprova, ma con una richiesta meno impegnativa.All’Assemblea generale, dove il veto americano non conta, chiede appunto, oggi,che la Palestina sia promossa da entità osservatrice a Stato osservatore (e nona Stato membro, come richiesto nel 2011). Votare l’ammissione di un paese aquel titolo non significa riconoscere diplomaticamente lo Stato, e quindidichiarare ambasciata la rappresentanza che i palestinesi hanno già in tantecapitali.
All’interno delle Nazioni unite il nuovo status aprirebbetuttavia a loro alcune porte. Ad esempio quella dell’Organizzazione mondialedella sanità o del Programma alimentare. Quella della Corte penaleinternazionale comporta più problemi, perché in quella sede i palestinesipotrebbero denunciare gli israeliani e quindi promuovere processi scomodi perlo Stato ebraico. C’è stato un fitto andirivieni tra Washington, Gerusalemme eRamallah, dove risiede Abu Mazen, per convincere quest’ultimo a impegnarsi sualcuni punti: in particolare a non ricorrere alla Corte Penale internazionale,quando ne avrà acquisito il diritto. In proposito americani e israelianiavrebbero ottenuto una vaga promessa: i palestinesi hanno detto
che non usufruiranno di quella possibilità durante i primi sei mesi. Poi sivedrà. Saeb Erekat, principale negoziatore palestinese, ha respinto un invito aWashington per evitare le pressioni americane. Quando nell’ottobre 2011 laPalestina fu ammessa all’Unesco come Stato membro, gli Stati Uniti sospesero ifinanziamenti all’agenzia incaricata della cultura e dell’educazione.Finanziamenti pari a più del venti per cento del suo bilancio. Qualirappresaglie saranno adottate in questa occasione?
Gli israeliani ne hanno agitate parecchie: abrogazione degliaccordi di Oslo del 1993, che regolano i rapporti tra Israele e l’Autoritàpalestinese; aumento degli insediamenti in Cisgiordania che contano già più diseicentomila coloni; confisca dei diritti di dogana; proibizione ai dirigentipalestinesi di uscire dalla Cisgiordania: ma di fronte alla tenacia di AbuMazen il governo di Gerusalemme ha abbassato i toni. E non si parla più disanzioni. Dice Yigal Palmor, portavoce del ministero degli esteri, che nullaaccadrà se i palestinesi si accontenteranno di fare festa a Ramallah percelebrare la loro vittoria simbolica, e poi ritorneranno sul serio al tavolo deinegoziati. Ma Abu Mazen sa che non può andare a trattative alle condizioniposte dagli israeliani.
Il suo non è soltanto un confronto con Gerusalemme. Labattaglia di Gaza, dove gli avversari palestinesi di Hamas celebrano lavittoria
che si sono aggiudicati, ha ridotto il suo già scarso prestigio. Gli esaltaticombattenti di Hamas considerano la moderazione Abu Mazen come una forma dicollaborazionismo. L’iniziativa all’Onu è la sua battaglia incruenta. Èl’offensiva politica dei palestinesi che rifiutano l’uso delle armi. Questo èun motivo per assecondarla. È vano condannare il terrorismo se poi non si tendela mano a chi lo rifiuta.
Anche tra quelli di Hamas sono emerse in queste ore alcune voci in suo favore.Il voto di New York interessa Gaza, dove si è imparato che le armi servono asfogare la collera, a combattere i soprusi, ma non a risolvere i problemi. Allavigilia dell’appuntamento di New York, Khaled Meshaal, uno dei leader (MohammedMorsi, il presidente egiziano, l’ha voluto al suo fianco durante la crisi diGaza) ha dato un pubblico appoggio a Abu Mazen. Lo ha fatto in aperta polemicacon Ismail Haniye, il primo ministro. Entrata in società dopo un lungoisolamento, grazie agli alleati e ispiratori egiziani, i Fratelli musulmani alpotere al Cairo, e lusingata dai gesti d’amicizia della Turchia di Erdogan, lagente di Gaza seguirà il

voto all’Assembleagenerale come se fosse una battaglia. L’esito potrebbe contribuire col tempo ademolire le mura del loro ghetto.Sugli europei incombe nelle prossime ore una grossa responsabilità. Come alsolito non sono riusciti a prendere una decisione comune. E quindi vannodispersi al voto. Ma devono sapere che il loro parere contrario o anche unaastensione, con l’inevitabile sapore di viltà, significherebbe una sconfittaper Abu Mazen, e in generale per i palestinesi che come lui rifiutano laviolenza e ricorrono alla politica. Decine di ministri arabi visitano Gaza,dove si festeggia un’azione militare che ha appena fatto decine di morti, emigliaia nel passato. È difficile per un europeo rifiutare, a un vecchio leaderarmato della sola parola, un voto simbolico che, non solo per i palestinesi, maanche obiettivamente per gli israeliani, è un segnale di giustizia.

Ecco a che serve cedere un'area preziosa della città, ipotecando il futuro d. tutti per consentire un gigantesco affare privato. Intanto il sindaco chiede a Ornaghi di secretare il progetto per sottrarlo al parere della soprintendenza. E gli intellettuali si appellano a Napolitano: come se la madre dell'agnello chiedesse giustizia al lupo. La Nuova Venezia, 28 novembre 2012


Il bilancio del Comune appeso a Pierre Cardin
di Enrico Tantucci

Via libera alla manovra di assestamento, ma i revisori dei conti evidenziano l’incertezza delle entrate. Conto alla rovescia per rispettare il patto di stabilità Nelle mani di Pierre Cardin, sperando che “confezioni” una vendita su misura per le esigenze di Venezia. Il bilancio 2012 del Comune - per quanto riguarda il rispetto del Patto di Stabilità - è “appeso” alla vendita entro fine anno dei terreni comunali di Marghera su cui dovrebbe sorgere, in parte, l’ormai famoso Palais Lumiére,che insieme ad altre poste - come l’area della Favorita al Lido, parte del complesso delle ex Conterie a Murano, la Biblioteca di Mestre di via Miranese tra le altre - dovrebbe fruttare complessivamente 46 milioni di euro, a cui vanno aggiunti altri 48 milioni di euro di fondi di Legge Speciale, previsti dall’emendamento alla Legge di Stabilità approvata alla Camera e ora all’esame del Senato, ma non ancora in cassa. E se il Consiglio comunale ieri ha dato il via libera a tarda sera all’assestamento di bilancio - illustrato dal vicesindaco e assessore competente Sandro Simionato - che fa, formalmente quadrare i conti, non sono mancate le critiche per l’azzardo a cominciare da quelle, le più significative del Collegio dei Revisori dei Conti nella loro relazione al documento contabile. A proposito delle “vendite” di fine di Ca’ Farsetti i revisori parlano di incertezza motivata dall’«esito - intrinsecamente incerto - delle dismissioni valorizzazioni/immobiliari programmate e dall’aleatorietà nei tempi di trasferimento dei fondi di legge speciale per Venezia». Un azzardo - se non vende e non incassa l’Amministrazione sarà costretta a uscire dal Patto di Stabilità - messo in evidenza ieri in aula da consiglieri di opposizione come Michele Zuin del Pdl, pur di fronte alla consapevolezza generale delle difficoltà di rispettare un Patto di Stabilità che “strangola” i Comuni, come ha ricordato Simionato. Dal piano delle alienazioni sono invece usciti il Centro di interscambio merci del Tronchetto, il Parco Vega e 100 alloggi di edilizia residenziale in terraferma, difficilmente vendibili. Inserito dalla giunta con un emendamento, proprio su indicazione dei revisori, un fondo di riserva per fare fronte alla probabile divisione patrimoniale che dovrà essere affrontata con il comune di Cavallino, dopo la separazione da Venezia e la relativa causa per il riconoscimento di una quota di beni propri. Avvolta nel mistero la sorte delle quote Save, che nel piano delle vendite non ci sono, ma che formalmente il Comune sarebbe pronto a cedere con la possibilità di riacquisto successiva e il mantenimento del proprio ruolo nel Consiglio della società. Conti messi a posto invece sul fronte della spesa corrente, nonostante l’ulteriore taglio da 3 milioni e 800 mila euro previsto dal decreto governativo sulla spending review sotto forma di taglio del debito. I soldi arriveranno per un milione da maggiori entrate previste dal Casinò, per un altro milione e 300 mila euro dal fondo di riserva e per un altro milione e mezzo da ulteriori tagli di spese su fondi comunali non ancora impegnati. La buona notizia è che il Comune, per la prima volta da molti anni, non è dovuto ricorrere alle plusvalenze per far quadrare i conti, ma l’incognita - come ha ricordato Simionato - riguarda i prossimi tre anni, quando agli enti locali saranno chiesti ulteriori tagli per 2,6 miliardi di euro, e sono già in ginocchio adesso. Nella seduta, il Consiglio comunale ha anche approvato altre delibere significative come quella sul riassetto patrimoniale e urbanistico del Tronchetto, che prevede anche una piccola quota di alienazioni comunali e quella che consente la gestione provvisoria del centro sportivo di Sant’Alvise sino a giugno, in attesa della nuova gara dopo l’allontanamento del gestore precedente, inadempiente.

Missili sulla Torre Cardin
di Alberto Vitucci

. Non bastavano gli esposti alla Procura presentati a Roma da Italia Nostra, gli appelli all’Unesco e al Quirinale firmati da grandi architetti. Adesso sul futuro del Palais Lumiere, il grattacielo alto 250 metri da realizzare a Marghera, si addensano nuove nubi: la Soprintendenza veneziana ha chiesto con una lettera al ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi di esaminare il progetto per esprimere il parere. Una mossa che potrebbe rallentare i tempi del progetto che sta molto a cuore a Regione, Provincia e Comune. Quest’ultimo ha già messo in bilancio 40 milioni di euro che Cardin dovrebbe sborsare per l’acquisto dei terreni, la Regione vede nel grattacielo «nuovo sviluppo». Il sindaco Giorgio Orsoni ne ha parlato con il ministro Ornaghi, raggiunto a Padova a un convegno mentre parlava di paesaggio. «Gli ho chiesto cosa c’entra Marghera con la conterminazione lagunare», dice Orsoni. Che da buon avvocato fa anche balenare la possibile richiesta danni se il ministero dovesse causare ritardi per richieste ritenute «illegittime». Ornaghi però su questa vicenda si è mostrato molto prudente, visto anche l’esposto depositato da Carlo Ripa di Meana e dal presidente nazionale di Italia Nostra Marco Parini. I due chiedono di indagare su presunte pressioni che sarebbero state fatte dagli enti locali e dal ministro per l’Ambiente Corrado Clini sull’Enac, in un primo tempo contraria all’edificazione di un edificio troppo alto sulla direttrice di atterraggio degli aerei. Non ci sono soltanto le dimensioni, ma anche le ricadute sul territorio e la questione estetica. «Un gigante squarciato», l’ha definito Paolo Portoghesi, ex presidente della Biennale. Ma la macchina è lanciata. Il progetto elaborato dallo studio Altieri di Thiene - di proprietà dell’europarlamentare di Forza Italia Lia Sartori e dall’architetto Dario Lugato, lo stesso del nuovo hotel Santa Chiara a piazzale Roma e della mai nata villetta dell’ex ministro Brunetta a Torcello - non è ancora definito nei dettagli ma in tanti si sono già espressi favorevolmente. Dovrà ora superare l’esame di Impatto ambientale dal ministero dell’Ambiente con il parere espresso dalla Regione e dal presidente della commissione Via, il commissario straordinario del Passante e della Pedemontana Silvano Vernizzi. Che gli ambientalisti hanno accusato di conflitto d’interessi, essendo lui anche il dirigente dell’assessorato Infrastrutture retto da Renato Chisso. Giudizio sospeso, dunque. In attesa di vedere come finirà il contenzioso tra gli il ministero e Ca’ Farsetti.

Altri articoli sulla Torre Cardin in http://archivio.eddyburg.iti

Doppia recensione, a «Spaesati» di Antonella Tarpino, e «Belpaese Malpaese» di Vittorio Emiliani: la storia del territorio come prospettiva per guardare al futuro. Il manifesto, 28 novembre 2012 (f.b.)

Un atlante delle rovine, soprattutto se dedicato a un paese come l'Italia, è creatura troppo variegata e stratificata, mutevole e ingannevole, perché possa accasarsi dentro le pagine di un solo libro, pur intenso e attentamente costruito quale Spaesati. Luoghi dell'Italia in abbandono tra memoria e futuro, pp, 250, euro 18, che Antonella Tarpino ha appena pubblicato da Einaudi. Già c'è qualcosa di paradossale e contraddittorio, di speranzoso e scorato al tempo stesso (che sia «il pessimismo dell'intelligenza e l'ottimismo etc etc...»?) nel progetto di dar vita a una costruzione, seppur fragile come un libro, attingendo a rovine.
Le baite di Paraloup
Rovine, non macerie, come già nelle pagine iniziali precisa l'autrice: poiché «la maceria...è traccia inerte del passato, sequenza muta di un tempo che non parla più», mentre la rovina è il suo contrario: «irriducibile alla storia, o almeno alla cronologia (in quanto...incrocio di passati multipli, tutti inesorabilmente "in rovina") essa dà tuttavia ancora segni di vita». La rovina è qualcosa di «caduto fuori dal tempo, costretto a cedere a nuove pur precarie funzionalità, a progetti a loro volta mai durevoli». La rovina, insomma, «è sospesa in una fine, piuttosto che finita».
Dunque se questa è la rovina, e se costruire è dar vita a qualcosa di nuovo per farvi abitare il futuro, costruire attingendo a rovine è accendere un cortocircuito, evidenziare contraddizioni e implicazioni di un non sopito evolvere. Del resto ne sa qualcosa questo nostro Bel Paese nel quale, da sempre, sino a poco tempo fa, il nuovo è stato quasi sempre fabbricato attingendo, in qualche misura, alle rovine circostanti. Dando vita a quella metabolizzazione del passato, a volte riuscita, a volte molto meno, da parte del presente. Da qui prendeva e prende vita il non ancora esistente. Il futuro, dunque.
È con questo spirito che, senza enfasi, con applicazione e sabaudo understatement, muove il viaggio di Antonella Tarpino lungo la penisola alla ricerca di luoghi in abbandono. Muove i primi passi dalle baite in rovina dei borghi delle Alpi occidentali da cui presero l'avvio le prime bande partigiane: sono le baite di Paraloup e gli orizzonti delle valli contigue alle quali, dopo la Resistenza, tornò Nuto Revelli per costruire quel monumento alla memoria della vita quotidiana della gente di montagna eretto con Il mondo dei vinti pubblicato da Einaudi. Sono gli stessi luoghi dove Olmi e Stajano gireranno Nascita di una formazione partigiana e Paolo Gobetti Prime bande. Dalle parti di Paraloup ora molti ambienti sono stati recuperati - c'è lo spazio per il museo multimediale, la biblioteca, l'area dell'ospitalità - con interventi dove è esplicita la discontinuità tra il pre-esistente e quanto di nuovo si presenta oggi agli occhi del visitatore che vede all'opera la «supplenza» del moderno - all'insegna della sostenibilità ambientale e della reversibilità - nel sorreggere l'antico in rovina.

Confini mobili
Quello che traspare dall'esperienza di Paraloup, luogo che come tante altre località di montagna è stato investito dalla discesa a valle degli abitanti e dal progressivo abbandono, emerge anche dalle altre tappe di questo viaggio condotto attraverso la penisola. Antonella Tarpino pare seguire un crinale non orografico ma storico e culturale, soggettivo e, al tempo stesso, condiviso, lungo quel confine mobile che passa tra rovine e macerie, memoria e abbandono, spaesamento e costruzione di un nuovo accogliere.
Dalle Alpi scende alle grandi cascine della pianura attorno al Po, scenari delle lotte contadine del dopoguerra e, ora, luogo di vita e di lavoro degli immigrati indiani che, utilizzando le più sofisticate tecnologie installate nelle stalle, sostituiscono, nell'accudimento delle mucche, i mungitori e i lavoranti agricoli che facevano da sfondo alla narrazione cinematografica di Novecento, il film di Bertolucci girato proprio in questi luoghi. Qui ci sono ambienti come il «Calderon» (la Cascina Falchetto del Vho di Piadena) ripresi negli primi anni '90 da Giuseppe Morandi, uno dei fondatori della Lega della Cultura di Piadena, nel filmato I Paisan.

I «carriolanti» dell'Aquila
La vita quotidiana dei contadini, così come si svolgeva nella prima metà del Novecento a «El Calderon», occupava un posto centrale ne Il paese sbagliato, Einaudi, 1970, il libro costruito da Mario Lodi, allora maestro elementare e animatore della biblioteca di Piadena, assieme ai suoi scolari. Del resto in un'altra cascina vicina al Vho c'è la Drizzona dove Mario Lodi ha poi impiantato la sua «Casa delle arti e del gioco» per continuare con mostre, seminari per insegnanti, visite di scolari, il suo impegno di decenni fa.
Il percorso di Antonella Tarpino prosegue quindi attraverso quella spina dorsale della penisola rappresentata dall'Appennino, fragile e ballerino compagno della vicenda italiana, presenza con cui talvolta è così doloroso, faticoso e tuttavia imprescindibile imparare a convivere. Vi sono dunque, in Spaesati, le pagine dedicate al centro dell'Aquila distrutto dal recente terremoto e l'incontro con i «carriolanti» che, contro l'inazione dello Stato e dei commissari straordinari nominati dal governo Berlusconi, portano via le macerie, come azione emblematica di rivendicazione di un urgente recupero del centro storico della città e della vita comune che vi deve rifiorirre. Altre tappe, sempre intense, oltre a quella al monumento ai martiri delle Ardeatine posta a conclusione del libro, conducono nell'Irpinia messa in ginocchio dal terremoto del 1980 e rimessa in piedi da una ricostruzione dissennata, priva di saggezza urbanistica e di meditato rispetto delle rovine che costellavano il territorio.
Questo, come sanno i lettori dei numerosi libri del paesologo Franco Arminio, ha significato per intere comunità sperimentare uno stare in piedi stralunato, senza baricentro, come se il terremoto si fosse trasferito nell'anima dei sopravvissuti. Il viaggio di Spaesati raggiunge infine la Calabria, quella dei paesi abbandonati, più volte narrata con lucida partecipazione dall'antropologo Vito Teti. Sono le località inerpicate dove di tanto in tanto si sta sperimentando l'accoglienza, quanto mai difficile da radicare davvero, dei profughi sbarcati sulle coste.
Cosa emerge da questo complesso cammino delineato dall'autrice di Spaesati lungo un'Italia disaccostata dai grandi percorsi, trascurata dall'attenzione dei media, in bilico tra silenzio avvolgente e omogeneità che tutto travolge? Affiora - quasi per interstizi e imprevedibili presenze - la forza con cui le rovine si insinuano comunque nel presente. Sono mondi irrimediabilmente trascorsi eppure ancora capaci di accendere emozioni, rievocare vite, testimoniare in modo forte sulla verità e la dignità dell'essere uomini. Se questo accade è perché si è messo all'opera un traghettatore, qualcuno che ha saputo e voluto caricarsi di un significativo frammento del passato, e dei suoi nodi ancora attuali, portandolo nell'oggi, facendogli spazio e difendendolo dal frastuono che tutto tritura e dall'omologazione che tutto cancella.

Due reti diverse
A questa tribù di indispensabili «traghettatori» appartiene anche Vittorio Emiliani, una delle grandi firme del giornalismo italiano, saggista (suo tra l'altro Il silenzio e il furore, splendida biografia di Rossini), deputato progressista per una legislatura nel 1994 ma, soprattutto, protagonista di grandi campagne a difesa del paesaggio e contro la selvaggia cementificazione del Bel Paese. Di Vittorio Emiliani appare ora Belpaese Malpaese. Dai taccuini di un cronista 1959-2012 (Bonomia University Press, pp. 435, euro 23) ed è un libro denso di spunti che, seppure da altra angolazione, entrano in dialogo fecondo proprio con le tematiche affrontate da Spaesati.
Come si sarà capito, un atlante delle rovine accoglierà i frammenti di mondi che ancora parlano, da traghettare appunto dal passato al presente, secondo la personalissima rete di cui ognuno saprà e vorrà dotarsi. Quella di Spaesati è una rete robusta e ideologicamente ben connotata, contiene luoghi-momenti rilevanti e prevedibili: la Resistenza, le grandi lotte del mondo contadino, il terremoto e la ricostruzione delle comunità. La rete che il «cronista» Emiliani trascina lungo mezzo secolo è diversa. A sguardo superficiale sembra dare l'impressione - sbagliata - di essere un po' sbrindellata e di lasciarsi sfuggire eventi rilevanti: poi si scopre che non è affatto così. In realtà chi sale sulla cartacea barca su cui Emiliani accoglie è omaggiato, grazie anche a una scrittura diretta e felice, da una pesca gioiosa, sorprendente.
Emiliani recupera «rovine» di un'Italia che è appena dietro le spalle, le accosta al presente più attuale, e ce le mette sotto gli occhi così che sia evidente la filigrana che percorre il tutto. (In Belpaese Malpaese ci sono alcune sue inchieste giovanili esemplari: sui contadini padani, sui pescatori dell'Adriatico, sui pendolari durante il boom, sulle voraci edificazioni nei centri storici). Ci racconta in modo impareggiabile i suoi amici (Fellini, per dirne uno) e i suoi maestri (Arrigo Benedetti, Antonio Cederna, Renzo Zorzi, Camilla Cederna). Pesca nei fondali vicini e meno vicini della nostra storia recente e porta alla superficie, e alla nostra memoria, un continuo susseguirsi di momenti, personaggi, testimonianze, eventi, grandi querelle che s'accendono, scompaiono dalla ribalta nazionale e poi ritornano: il risultato è un affresco vivacissimo, mai affastellato, dove il passato prende vita e significato. Ci parla. Suggerisce strade di impegno non più dilazionabile (si vedano le profonde riflessioni sul paesaggio e sul perché, nel difenderlo, la sinistra marxista italiana non fu, e a lungo, in prima fila, anzi...).

La strada giusta
Prodigo della propria esperienza e generoso nel condividerla, Emiliani ci porta lungo il crinale tra il Bel e il Mal Paese, con la lucida sicurezza di chi sa riconoscere la strada giusta. Quella dove il ricordo non è rimpianto, il cammino verso il futuro non è rassegnato, la memoria è una forza alla quale ogni traghettatore, se vorrà, potrà attingere.

La Repubblica Milano, 28 novembre 2012, postilla (f.b.)

NEGLI ultimi nove anni dalle strade della città sono già sparite 74mila auto. E nella Milano del futuro ne mancheranno altre 47mila. I milanesi si convertiranno ancora di più alle due ruote, con 8mila motocicli in più in circolazione previsti nel 2015. Con meno rumore in città, rispetto a quello che oggi subisce un cittadino su cinque. Una città con meno traffico e più bici, con l’incognita della congestione fuori dalla Cerchia: è la fotografia delle trasformazioni — quelle già avviate nel passato e quelle future — scattata dall’aggiornamento del Piano generale del traffico urbano, il Pgtu che programma la mobilità nel breve periodo.

Ma lo scenario per il 2015 vale solo se il Comune porterà avanti la propria missione sul fronte del traffico. Cioè Area C viva e vegeta, magari anche rafforzata. E poi più mobilità dolce, meno congestione in centro, più isole ambientali, ztl, piste ciclabili e zone con il limite dei 30 chilometri all’ora, potenziamento del trasporto pubblico, carico e scarico merci più razionale e strisce blu diffuse. Un libro dei desideri, confortato da previsioni tecniche, che la giunta Pisapia conta e spera di poter tradurre in realtà. «La difficoltà principale riguarda la poca chiarezza circa il quadro delle risorse statali sul trasporto pubblico nei prossimi anni — sottolinea l’assessore alla Mobi-lità, Pierfrancesco Maran — . Il nostro obiettivo è incrementare la possibilità di muoversi dei cittadini: su questo, dal car sharing e bike sharing, anche le nuove tecnologie possono produrre alternative interessanti ». Dopo un incontro pubblico, il 20 dicembre, il Pgtu approderà prima in giunta e poi, tra febbraio e marzo, in Consiglio comunale.

LE AUTO
Nel 2015 caleranno ancora di più le auto. Le previsioni parlano di un 15% in meno rispetto a oggi. Traffico in lievissima discesa (— 1,1%), spostamenti più veloci del 17% nella Cerchia dei Bastioni, una media di percorrenza tagliata di un terzo, specie nelle ore di punta. Con un neo: alcune strade, come tra corso Sempione e via Volta e viale Caldara e Regina Margherita, sono a rischio di congestione proprio per l’espulsione crescente di traffico dal centro storico, più a mobilità lenta, verso le arterie esterne.

ZONE 30 E ISOLE PEDONALI
In meno di dieci anni la Milano pedonale è già cresciuta: da 296mila metri quadri del 2003 ai 399mila di oggi. Stessa cosa per le zone a traffico limitato (134.800 metri quadri) e le zone 30 (325.600 metri quadri). Inoltre, oggi si contano 145 km di piste ciclabili e la giunta conta di aumentarli, specie sull’asse Argonne-Indipendenza ma anche Maciachini-Comasina, QT8-Gallaratese, Lotto-Triennale, Duomo-Sempione, Duomo-Porta Nuova, Portello-Molino Dorino e Medaglie d’Oro-Chiaravalle. Entro l’anno, invece, le stazioni del bike sharing, dalle 150 di oggi dovrebbero salire a 200, per completare la fase 2 del piano delle bici gialle in affitto.

PREFERENZIALI E SEMAFORI
Venti nuove corsie preferenziali, per favorire i mezzi pubblici che, più veloci, sono un’alternativa all’auto
privata. Tra queste, già inserite nel Piano triennale delle opere pubbliche ci sono gli interventi nei tratti di viale Gorizia-Col di Lana-Bligny-Sabotino, Cermenate-Antonini, Coni Zugna, Certosa-Bovisa- Maciachini, Solari-Montevideo, Tunisia. Anche i semafori hanno un ruolo: dopo gli effetti positivi ottenuti finora su 5 linee (90, 91, 4, 12 e 15), la missione è intervenire per dare la priorità del verde anche ai mezzi delle linee 7 e 13.

SOSTA E PARCHEGGI
Il Comune proseguirà sulla strada della strisce blu, anche per abbattere la sosta selvaggia che supera
un terzo dei parcheggi, si stima. Nel 2012 l’incremento delle zone regolamentate è stato del 73% per i residenti e dell’87% per le strisce blu (rispetto al 2003). Il piano individua l’estensione degli ambiti di sosta regolarizzata, da Zara-Testi ad Abbiategrasso, da Bisceglie a Rogoredo, da Cascina Gobba a Mac Mahon, Piero della Francesca, Bovisa e Città Studi.

INQUINAMENTO: ARIA E RUMORE
Dal 2003 al 2012 sono scese le emissioni atmosferiche di quasi tutti gli inquinanti, del 31% come minimo. E nel 2015 si stima che si avrà un calo fino al 12%. Anche il rumore è nel Piano: nonostante oggi la maggior parte dei milanesi sia esposta a variazioni trascurabili di livelli di suono, cioè sotto gli 0,5 decibel, resta ancora un 19,5% di cittadini che subiscono oscillazioni acustiche più significative. Una cifra che, se il piano funzionerà, nel 2015 scenderà al 4%.

Postilla
Come spiega già molto bene l’incipit, dalla città le auto stanno già sparendo, ovvero sono i cittadini a decidere di mollare la propria scomoda e inquinante scatoletta di lamiera. E la vera questione dei programmi per il futuro è. Saprà la pubblica amministrazione affiancare (cosa che sinora il centrodestra al governo non si è mai sognato di fare) virtuosamente il processo spontaneo, favorendo tutte le azioni individuali e collettive, pubbliche e private, che vanno in questo senso? Muoversi vuol dire andare da un posto all’altro per qualche motivo, e questi motivi dipendono dalla forma urbana, dalla distribuzione delle funzioni e dalla loro organizzazione. Su questi aspetti occorre vigilare ed eventualmente intervenire, come pure su certi effetti isola assediata, ovvero quel che succede quando manca (o fallisce) un piano complessivo, e le trasformazioni si fanno eccezionali e puntuali, circondate dalla norma. A partire dal rapporto fra il centro e la periferia, e oltre i comuni dell’hinterland che, si spera presto, entreranno a far parte integrante della città metropolitana e delle sue politiche per la mobilità (f.b.)

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