No, la via sarà più semplice. Il progetto passerà grazie all’interpretazione di due commi dell’articolo 3ter della legge regionale sul Piano Casa, il numero uno e il numero tre. Ma con una scorciatoia. Poiché proprio al comma 3 si dice che per usufruire dei benefici del Piano, aumenti di cubatura in cambio della costruzione di una percentuale di housing sociale, ovvero case ad affitti agevolati, la superficie non dovrebbe superare i 15 mila metri quadrati, è stata trovata una soluzione: i capannoni disseminati sull’ex Fiera sono accatastati diversamente, allora usufruiranno in modo distinto della legge.
«Abbiamo ricevuto una proposta in questo senso da parte di Investimenti Spa e gli abbiamo comunicato» spiega l’assessore all’Urbanistica Marco Corsini «che l’ipotesi di utilizzare il Piano Casa è percorribile. Ma ci siamo riservati tutti gli approfondimenti possibili quando sarà presentato il progetto vero e proprio. Ci sono due punti su cui dobbiamo insistere: un contributo straordinario per la valorizzazione dell’area destinato al territorio e il rispetto della qualità architettonica mediante un concorso di architettura». I due commi prevedono che il premio di cubatura, un 30%, sia destinato all’housing sociale. E questo è l’altro nodo: Investimenti Spa infatti propone di costruire la metà delle abitazioni ad affitti calmierati, si calcola che in tutto saranno circa 90 mila metri cubi, sui terreni di sua proprietà accanto alla Nuova Fiera di Roma, sull’autostrada Roma-Fiumicino.
«Nel prossimo consiglio di amministrazione» spiega il presidente di Investimenti Tagliavanti «valuteremo: una delle opzioni è proprio quella di portare in parte alla Nuova Fiera l’housing sociale perché l’area centrale dell’ex Fiera sia valorizzata e appetibile il più possibile».
Ma sull’operazione, che cementificherà tutti i sei ettari d’oro sulla Cristoforo Colombo dell’ex Fiera, a poca distanza dalle Mura Aureliane e dal Centro, i consiglieri regionali radicali hanno fatto una battaglia, per ora vana, a colpi di interrogazioni, firmate da Rocco Berardo e Giuseppe Rossodivita, per il fatto che un intervento in una parte così centrale della città sia affidato al Piano Casa senza una variante. «L’assessore Ciocchetti» afferma Berardo «è stato il principale sostenitore delle richieste di Investimenti Spa e ha esercitato una notevole pressione affinché il Comune abbandonasse la strada della variante urbanistica. A questo punto non ci resta che attendere che il Campidoglio rilasci il permesso di costruire, per poi promuovere un’azione di fronte al Tar».
1) Può la Bellezza essere uno dei temi centrali, unitamente alla cultura e, in particolare, alla cultura della tutela, della vostra campagna elettorale, uno dei punti-cardine del vostro impegno politico?
2) La Bellezza è anche per voi un bene sociale, un diritto di tutti, uno dei pilastri di una nuova politica per la società italiana, partendo dal patrimonio storico-artistico, dal paesaggio, dai siti archeologici, dai centri storici?
3) La Bellezza è stata sfregiata, mortificata e profondamente intaccata, dalle coste alla montagna, dalla campagna alla città, nel patrimonio storico-artistico-archeologico e in quello di biblioteche, archivi e fondi musicali, a causa della latitanza di una politica per la cultura, a causa dell’imperversare di condoni, di abusi e di inquinamenti d’ogni genere. Siete d’accordo?
4) Concordate sul fatto che il lassismo di Comuni e Regioni verso una edilizia di mercato utilizzata come fonte di entrata corrente per Enti locali vicini al collasso si è trasferita sul paesaggio imbruttendolo, mentre mezza Italia crolla o smotta e che c’è un restauro colossale del territorio e del patrimonio edilizio vecchio e antico da promuovere, anche a fini sociali?
5) Ha senso una diffusione sfrenata di pale eoliche (che richiedono strade e sbancamenti di terreni collinari e montani già fragili anche laddove non c’è vento sufficiente, persino in zone di alto pregio paesaggistico e archeologico), di pannelli solari senza limiti di sorta, spesso su terreni coltivati, oppure la creazione di maxi-impianti fotovoltaici?
6) E per la pianificazione urbanistica e paesaggistica, oggi negletta, siete pronti a riportarla in onore attuando anzitutto il Codice per i Beni culturali e per il Paesaggio, la co-pianificazione Ministero-Regioni, contro un consumo di suolo e un dissesto spaventosi che esigono un piano pluriennale per “rifare l’Italia”, mettendola in sicurezza? Vi impegnate a votare, al più presto, una legge che riduca nel modo più drastico il consumo di suolo?
7) Siete disposti ad appoggiare una autentica “ricostruzione” del Ministero come quello dell’Ambiente e ancor più di quello per i Beni e le Attività Culturali, indebolito, snervato, semidistrutto dalle ultime gestioni, da Bondi a Ornaghi?
8) L’Italia era riuscita negli anni Ottanta e Novanta a recuperare sull’Europa “verde” più avanzata creando una ventina di Parchi Nazionali (da quattro che erano, da decenni) e coprendo con la tutela il 10 per cento del territorio nazionale. Ma da anni ormai i Parchi di ogni livello mancano di fondi persino per la sopravvivenza. Vi impegnate affinché la politica dei parchi venga ripresa e potenziata ad ogni livello?
9) Musica lirica, sinfonica, popolare, dal vivo, tutte le forme di teatro, di spettacolo, di cinema sono forse state degnate in Italia della giusta attenzione dagli ultimi governi? O non vi sono sembrate al contrario condannate alla più stentata e mortificata sopravvivenza, e magari ad una fine prematura? Vi impegnate a finanziarle in modo selettivo ma adeguato premiando le produzioni di qualità, i talenti meritevoli, le compagnie di giovani, le iniziative di ricerca e di riscoperta?
10) Arte, cultura, musica, paesaggio continuano ad essere trattati in due modi sbagliati: a) come materie da privilegiare soltanto a chiacchiere continuando in realtà a speculare sulle aree, sui centri storici, sulle coste e sulle montagne,ecc. b) come “il nostro petrolio”, come “una macchina da soldi”, cioè come una serie di giacimenti da “sfruttare” cavandone profitti laddove essere sono possibili, abbandonando il resto a se stesso. Non credete invece, con noi, che sia giunto il momento di considerarle un tutt’uno inscindibile, un valore strategico “in sé e per sé” (e non per i profitti che può dare), il “motore” reale di tante attività indotte, come il turismo culturale e naturalistico?
Voi candidati, voi leader dei partiti, siete pertanto disposti a condividere questa battaglia politica e culturale di civiltà per la Bellezza come bene di tutti e come diritto sociale nei termini che abbiamo qui esposto? E a verificare con noi periodicamente il vostro reale impegno su questi temi cruciali una volta eletti?
Nella mobilità, come in ogni altro campo, l'ideologia contabile egemone ci nasconde le esternalità scomode: parliamone, invece. Corriere della Sera Milano, 15 gennaio 2013 (f.b.)
Ci provarono a Bologna quarant'anni fa; fu un grande successo, ma dopo tre anni si dovette fare marcia indietro per problemi di bilancio. Sembra un'altra epoca, un altro mondo. E invece nel mondo alcune città stanno ripercorrendo quella strada. Ultima città che, per combattere l'inquinamento e scoraggiare i cittadini a usare l'auto, ha introdotto la gratuità sul trasporto pubblico è stata la capitale dell'Estonia, Tallinn, dove, dall'inizio dell'anno si viaggia gratis su bus e tram. Immediatamente si è verificato un netto aumento degli utenti tanto che il sindaco ha dovuto annunciare l'aumento delle corse per far fronte all'accresciuta domanda.
Tallinn ha poco più di 400 mila residenti, circa un terzo di quelli di Milano, che oltretutto deve fare i conti con un pesante pendolarismo quotidiano che incide pesantemente sul trasporto pubblico locale.
Ma il caso Tallinn non deve essere rimosso solo per questo. Il concetto di funzione pubblica è molto poco di moda negli ultimi anni; la privatizzazione di molti servizi pubblici (troppo spesso si confonde la funzione con il servizio, e cioè la modalità con cui l'amministrazione pubblica declina la funzione) è ormai il main stream del nostro Paese, alle prese con i vincoli di una Europa che rappresenta l'8% della popolazione mondiale, produce il 25% del Pil globale e assorbe il 50% delle spese sociali complessive: 8-25-50, i tre numeri che non lasciano presagire una inversione di tendenza, a meno che non si ridefiniscano le priorità. Cosa significa ridefinire le priorità? Significa quantificare le esternalità sociali e ambientali legate alle modalità di esercizio delle funzioni pubbliche.
Parliamo di trasporti; investire miliardi di euro per nuove autostrade, che devono ripagare gli investimenti per la loro realizzazione, significa rinunciare ad altrettanti miliardi che potrebbero coprire il bisogno di mobilità della comunità. Se si calcolassero non solo i costi di realizzazione, ma anche le conseguenze, le scelte potrebbero cambiare. Nuovo traffico privato implica necessità di parcheggi, nuovo inquinamento, nuova urbanizzazione e nuovo consumo di suolo, molto superiore al suolo necessario per costruire la nuova infrastruttura. Quanto risparmierebbe il Comune di Milano se il 30 per cento dei cittadini rinunciasse all'auto?
Andrebbe fatto uno studio, ma se si considerassero solo le variabili economiche probabilmente il prodotto interno della città diminuirebbe. Ma la qualità della vita aumenterebbe a dismisura.
Non è solo Tallinn, città relativamente piccola a sperimentare la logica del trasporto pubblico gratuito. A Sydney e a Melbourne, metropoli con il triplo degli abitanti di Milano sono attive alcune linee gratuite per gli spostamenti in centro. Ragionare, senza pregiudizi ma con analisi reali delle conseguenze di scelte innovative che vadano in questa direzione rappresenta un passo concreto per definire la città del futuro.
Un titolo che pare uno scherzo, o un'esagerazione, e invece fotografa perfettamente una miserabile - e non dal punto di vista contabile - realtà. Il Fatto quotidiano Emilia Romagna, 12 gennaio 2013, postilla
E vista la scarsità di risorse, come del resto il settore scelto per i tagli, sarà inevitabile cedere a quegli imprenditori che hanno già visto di buon occhio l’affare: “Sono proposte organiche che alcuni produttori di giochi, non so se bolognesi o meno, hanno avanzato al Comune. Le richieste le abbiamo ricevute, le ho in ufficio, ma sono ancora da valutare”. Intanto si parte dai 1300 giochi dei parchi cittadini, che in media costano all’amministrazione di Palazzo d’Accursio 800 mila euro l’anno, per i quali avanza la cosiddetta sussidiarietà, ovvero l’idea di sponsorizzare o donare singoli giochi da parte di privati: “Questa cifra incide sul 10% del costo complessivo della manutenzione ordinaria e straordinaria degli spazi all’aperto della città affidata alla ditta Global Service. Spesa che non riusciamo più a permetterci. Giocoforza sarà non il sostituire altalene, cavallucci e giostre ma farli gestire direttamente da fondazioni bancarie, sponsor privati e persino gruppi di genitori che sappiano pronti a farlo perché ce n’è pervenuta richiesta”.
Il sindaco sollecita Costa. presidente dell'Autorità portuale «Orsoni vuole conoscere lo studio per lo scavo del Canale Contorta dell’Angelo «Vogliamo valutarne la fattibilità. Decidiamo in base alle valutazioni scientifiche» Noi vogliamo sapere qual'è la strategia che la città ha scelto per il turismo. La Nuova Venezia, 14 gennaio, con postilla
«Ho chiesto ufficialmente al presidente dell’Autorità portuale, Paolo Costa, di darci il progetto per lo scavo del Canale Contorta dell’Angelo: solo su dati scientifici certi si può valutarne la fattibilità. Attendo risposta». Le parole del sindaco Giorgio Orsoni sono misurate, ma ferme, alla vigilia del voto in Consiglio - oggi - per l’approvazione dell’accordo di programma tra Comune e porto per l’arrivo del tram a San Basilio, area portuale. Il sindaco - che da tempo va dicendo (invano) che la soluzione più immediata al passaggio delle grandi navi in bacino San Marco è il loro spostamento a Porto Marghera - è alle prese in questi giorni (da una parte) con la strenua difesa del porto della Marittima come scalo passeggeri insostituibile, (dall’altra) con le obiezioni di una gran parte dei consiglieri della maggioranza su quelle autorizzazioni alla realizzazione di una nuova stazioni passeggeri e un garage multipiano, contenute nell’accordo (presupposto di un mantenimento dello scalo passeggeri in Marittima) e (infine) con la volontà generale di portare a firma l’intesa per l’arrivo del tram a San Basilio. E continua il braccio di ferro a distanza con Costa, che si appresta ad approvare in comitato portuale un piano triennale che non solo ribadisce la centralità della Marittima, ma punta a uno sviluppo residenziale e terziario dell’area. Così non resta certo indifferente il sindaco Orsoni a quel continuo ribadire di Costa «il traffico crocieristico costituisce una delle due gambe sulle quali si regge l’economia portuale veneziana, con quello dei container, e la Marittima non ha alternative oggi: occorre passare attraverso la realizzazione di una nuova via di accesso alternativa a San Marco, via canale di Malamocco». Quello scavo del canale Contorta dell’Angelo del quale si parla da un anno, ma che finora il Comune non ha mai visto, anche se il Porto ha assicurato di averlo inviato al governo. «Ho chiesto personalmente che sia consegnato al Comune, per poterne studiare la fattibilità: senza valutazioni scientifiche ogni discorso è vano», sollecita ora Orsoni il presidente Costa. I toni sono misurati, ma la sostanza è chiara: o il progetto c’è ed è fattibile, oppure, non fattibile non lo è per niente e allora si vada a Porto Marghera. Una risposta indiretta anche al Comitato No Grandi Navi, che bolla lo scavo di un nuovo canale come l’ennesima pugnalata alla sopravvivenza della laguna. «Io non ho mai detto che la Marittima non deve più essere scalo passeggeri in toto», dice il sindaco, «ma che le navi incompatibili con la città non devono più passare per il bacino di San Marco. Ci mostrino il progetto e verificheremo, dati scientifici alla mano, se c’è un altro accesso possibile». In questo modo legge anche l’articolo del nuovo Pat che ha fatto infuriare il presidente di Vtp Trevisanato al punto da minacciare ricorsi al Tar. Ma Orsoni difende in pieno l’accordo con il Porto per portare il tram a San Basilio e in questo manda un messaggio ai consiglieri dubbiosi: «La possibilità di realizzare il garage multipiano era già prevista dai piani e si tratta di recuperare altri posteggi oggi del porto che saranno cancellati dal passaggio del tram. Niente di nuovo rispetto a quanto previsto dai piani urbanistici e del resto serve il parere della soprintendenza, che mi pare dubbiosa a realizzare un edificio fronte laguna. Resta l’importanza di un’intesa che, con la disponibilità del Porto, apre alla città un’area oggi preclusa».
Un grande problema rimane aperto dietro il dibattito (lo scontro d’interessi) tra i vari attori che si esprimono sulle grandi navi, la salvaguardia della Laguna e il destino della città. Eppure i tre argomenti sono strettamente legati tra loro, tramite un quarto tema: il turismo. A quale domanda turistica deve essere dedicata l’offerta turistica della città? A quel turismo generico attratto dalla singolarità, alla rinomanza, al livello dei servizi standard, al prestigio ottenibile proclamando alla cerchoa di conoscenti di “aver visitato Samarcanda o la Marmolada, i geyser o Parigi? Oppure un turismo di conoscenza, che vogli avere l’occasione di visitare per conoscere, per verificare le diversità, per approfondire le ragioni e i modi per cui un luogo è diversa da un altro, e trarne tutti gli insegnamenti possibili? Se vogliamo un turismo del primo tipo, allora più turisti arrivano, più grandi sono le navi e più frequenti i treni meglio è: più ricchi diventerranno i venezani e le multinazionale che sfruttano la città. Poco importa se il bene che oggi richgiama i flussi si degrada anno per anno fina a perdere le sua qualità. Se invece vogliamo un turismo diverso, allora è a un obiettivo del tutto diverso che diovremo rivolgerci, è una strategia alternativa che dovremo costruire: quella che Luigi Scano definiva la strategia del razionamento programmato dell’offerta turistica. Una strategia che il Paolo Costa, oggi sultano dell’autorità portuale, condivideva quando era “solo” un autorevole professore universitario e in questo ruolo aiutò chi si opponeva alla proposta di realizzare a Venezia l’esposizione universale del 2000. E aiutò proprio dimostrando proprio che i flussi turistici già senza l’Expo (di £grattacieli del mare allora neppure si parlava)minacciavano di distruggere il patrimonio Venezia. La realtà è certamente cambiata da allora: nei fatti, perché il rischio è cresciuto e la città è più fragile, e nelle persone. Magari cambieranno di nuovo, chissà.
All’entusiasmo del lancio delle Primarie della Cultura, che nei primi due giorni hanno registrato ben 20mila voti, con oltre 46mila visite al sito dedicato, è seguita l’autosospensione della presidentessa Ilaria Borletti Buitoni dalle attività operative e ufficiali della Fondazione, a seguito alla comunicazione della sua candidatura nella lista civica del Presidente Monti. E a stretto giro di posta sono arrivate le dimissioni, immediate e irrevocabili, di Salvatore Settis dal Consiglio di Amministrazione del Fondo Ambiente Italiano. «Non posso né comprendere né condividere, spiega nella sua lettera di dimissioni, il fatto che la Presidente in carica del Fai appoggi in modo tanto esplicito un Presidente del Consiglio che in oltre un anno di governo non ha mostrato la minima sensibilità per i problemi dell’ambiente, dei beni culturali, della scuola, dell’università, della ricerca, della cultura. Inoltre, cosa forse perfino più grave, il Presidente Monti non ha mostrato alcuna attenzione a questi problemi nemmeno nella sua Agenda, con ciò confermando che, qualora tornasse alla guida del governo, proseguirebbe l’opera di sistematico smantellamento delle strutture statali della tutela e di privatizzazione del patrimonio pubblico».
Nella lettera di autosospensione del 9 gennaio la Borletti Buitoni esprime la propria visione in merito alle prossime elezioni quale «occasione storica per portare in Parlamento persone capaci di promuovere una fase costituente di riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno. Cultura, paesaggio, beni culturali sono ambiti trascurati e maltrattati dall'azione di tutti i precedenti Governi, questo incluso, rendendoli così sempre di più una grande emergenza nazionale».
Una questione di scelte, dunque, ma anche di priorità. E c’è poco da stare tranquilli se, chi dovrebbe giocare la partita a favore della causa, crede che «la cultura sia, naturalmente dopo il lavoro, naturalmente dopo l'emergenza dei nostri conti, naturalmente dopo altre emergenze, una delle grandi priorità del Paese». Come da lei annunciato durante il programma radiofonico condotto da Massimo Valli su Radio Montecarlo.
La Repubblica Milano, 12 gennaio 2013 (f.b.)
OGNI inverno sciare a Caspoggio aveva del miracoloso. Tutti sapevano che l'apertura della stagione sciistica era a rischio. Poi però la nevicata buona arrivava, la manutenzione alla seggiovia rimetteva tutto a posto, e la mitica pista Vanoni riusciva a mantenere il suo appeal. Ma la stazione pioniera dello sci in Valmalenco era ormai troppo acciaccata. È bastata una crisi (finanziaria) un po' più forte, per accorciarne l'agonia. Caspoggio era da secoli terra di arrotini, una tradizione che finì di colpo nel 1959 quando una seggiovia trasformò gli affilatori di lame e forbici in albergatori, battipista e noleggiatori di attrezzatura per il nuovo sport del momento, lo sci. Il benessere viaggiava sulle piste disegnate da Zeno Colò, i residenti da 900 passarono rapidamente a 1500 e i nuovi alloggi per i milanesi andavano via come il pane.
Ora Caspoggio ha chiuso, per sempre. Non sarà più una stazione sciistica, seggiovie e skilift diventeranno archeologia turistica. Peccato che non lo sapesse nessuno la settimana di Natale, quando centinaia di famiglie milanesi armate di sci e scarponi si sono affacciate alle biglietterie della seggiovia Piazzo Cavalli. Un fulmine a ciel sereno per chi aveva prenotato nei cinque alberghi o nelle case-vacanza. «Eravamo in tanti, imbufaliti, siamo corsi dal sindaco - dice Sergio Molino, milanese, amante di quelle piste da oltre trent'anni - ma ci ha detto che gli impianti sono privati e lui non può mettere becco». Tant'è, gli affari sono affari e per il patron della seggiovia, Franco Vismara, erede della stirpe di salumai di Casatenovo, Caspoggio era da tempo un peso: troppi investimenti, pochi introiti.
Ci mancava poi un temporaneo intoppo nell'innevamento artificiale causa lavori dell'Enel; e così la Caspoggio dello sci ha finito bruscamente di esistere. Chiuse le sue belle piste, la Avanzi-Motta, le due "nere" Vanoni e Costera, che tanto piacevano ai più esperti, la Dosso dei Galli e la Sole, chiamata così mica per niente, ma perché Caspoggio ha la fortuna di essere assolata, contro la più buia dirimpettaia Chiesa. Eppure Chiesa è cresciuta negli anni: la sua Snow Eagle, enorme funivia, trasporta masse verso il Palù. Gli impianti di Chiesa sono sempre della Fab Srl di Vismara: Caspoggio la bad company, Chiesa il core business si direbbe in termini economici.
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| Caspoggio, immagine estiva della (preponderante) parte nuova, foto F. Bottini |
I pasticci che accadono quando si vuole colpire indiscriminatamente situazioni fortemente discriminate. Ma questi professori (e legislatori) moderni non avevano mai letto "il blocco edilizio" di Valentino Parlato? o semplicemente riflettuto sulla distribuzione socialedella rendita immobiliare? Articoli di Anna Maria Merlo e Leo Lancari, il manifesto, 9 gennaio 2013. In calce, un link utile
Giallo Imu, la Ue prima la boccia poi ci ripensa
di Anna Maria Merlo
L'operato del governo Monti, ex commissario Ue, non si tocca a Bruxelles, che prima boccia l'Imu, considerata in buon sostanza ingiusta, perché non è progressiva e addirittura passibile di aumentare il rischio di cadere nella trappola della povertà per i cittadini italiani, poi ci ripensa. La critica alla tassa sulla casa si capiva leggendo il Rapporto 2012 sull'occupazione e lo sviluppo sociale della Commissione Ue, a pagina 267. Ma in serata, visto il polverone sollevato in Italia a causa del ruolo centrale dell'Imu nella campagna elettorale in corso, da Bruxelles hanno confusamente precisato, per non irritare Monti, che i riferimenti erano all'Ici, cioè alla situazione del 2006. Il Rapporto parla di ben altro, pubblica dati sulla disoccupazione e sulla situazione sociale che si degrada con la crisi economica, ma ha un breve capitolo sulle tasse italiane sugli immobili. La Commissione ricorda che l'Imu era stata introdotta nel 2012 «a seguito di raccomandazioni sulla riduzione di un trattamento fiscale favorevole per le abitazioni», che un punto favorevole è stata la revisione (al rialzo) dei valori catastali, che è positivo che sia stata fatta una distinzione tra casa principale e abitazione secondaria, che ci sia la deduzione di 200 euro per la residenza principale e per i figli a carico. Ma la modalità con cui è stata concepita l'Imu rischia di aumentare «le diseguaglianze sociali» in Italia (l'altro esempio fatto dalla Commissione è l'Estonia): Bruxelles vorrebbe che il riferimento fossero i «valori di mercato» degli alloggi e non quelli catastali, notoriamente bassi in Italia. Il commissario agli Affari sociali, Laszio Andor, ha rifiutato di commentare il testo del Rapporto rispetto all'Imu, perché «è argomento di campagna elettorale» e la Commissione non vuole immischiarsi. In Europa non esiste l'armonizzazione fiscale (la prova: l'esilio fiscale di molti ultra-ricchi francesi verso il Belgio o la Gran Bretagna, malgrado sulle prime pagine ci sia sempre il caso praticamente unico di Gérard Depardieu in Russia.
La Commissione non suggerisce certo una patrimoniale in Italia, ma raccomandando una maggiore «progressività» delle tasse sui beni immobiliari, fa riferimento all'equità, che non deve mai essere dimenticata in campo fiscale per non distruggere il consenso all'imposta, che è una delle basi della democrazia.
In Europa, una tassa iniqua sulla casa ha già fatto cadere un governo: era l'anno 1990 e Margaret Thatcher ha dovuto rinunciare dopo le rivolte del mese di marzo contro la poll tax imposta nell'89. John Major, che la sostituì alla testa del governo conservatore, l'ha poi abolita. La poll tax aveva lo stesso difetto dell'Imu: non era progressiva, colpendo così proporzionalmente molto di più i poveri che i ricchi, oltre ad avere anche altri aspetti di ingiustizia, variando enormemente a seconda del luogo.
Sull'Imu Bruxelles aveva già avuto modo di pronunciarsi. Lo ha fatto prima di Natale, per approvare il regalo fatto da Mario Monti alla chiesa cattolica. La Commissione europea ha chiuso la procedura di infrazione aperta contro l'Italia per «aiuti di stato illegali» alla chiesa cattolica negli anni 2006-2011 relativa alle esenzioni dell'Ici e ha ritenuto che la nuova tassa, l'Imu, «non implica aiuti di stato dal momento che le esenzioni si applicheranno solo agli immobili dove sono condotte attività non economiche». E' la prima volta "in assoluto", ha comunque precisato il commissario alla Concorrenza, lo spagnolo Joaquim Almunia, che la Ue non chiede il recupero di aiuti di stato illegali.
L'imbarazzo di Monti: «Ce l'ha chiesta la Ue»
di Leo Lancari
Meno diplomatici Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. Il leader di Sel, che Monti vorrebbe «silenziare» e contro il quale è intervenuto anche ieri, non lesina critiche al premier: «L'Europa ci prende a sberle per l'iniquità dell'Imu», attacca. «Quando parlavamo nei mesi scorsi di abolirla per le fasce di reddito più basse, quando parlavamo di un insopportabile spread sociale, venivamo tacciati come la solita sinistra conservatrice. Quanto ipocrisia e malafede».
Va giù duro contro Monti anche Antonio Di Pietro: «La verità è che tutte le riforme di Berlusconi prima e di Monti dopo sono state inique, inutili e hanno impoverito famiglie e onesti cittadini», ha detto il leader dell'Italia dei valori. «Monti non si nasconda dietro il dito dell'Ue perché la verità è che ha fatto tornare i conti, in modo ragionieristico, facendoli pagare alle fasce più deboli della popolazione ma salvaguardando evasori, corruttori e chi, fino a oggi, ha vissuto nell'illegalità».
Molti articoli archiviati nella vecchia edizione di eddyburg sono dedicati alla rendita immobiliare. Cercate in particolare nella cartella Rendita, Suolo urbano
È stata, invece, l’Agenda di Monti a sorprendere: nel senso che molti pensavano che la destinazione del peggior ministro del suo governo proprio ai Beni culturali fosse stata un incidente. E invece no: la deprimente e imbarazzante paginetta che l’Agenda Monti riserva all’«Italia della bellezza, dell’arte e del turismo» certifica che non c’è differenza tra il professore e i politicanti che ha commissariato. Certo, direte, non è una gran notizia dopo l’incredibile disinvoltura con cui il castigamatti si è trasformato nell’ennesimo matto: un Monti che, incurante del laticlavio da senatore a vita, ha presentato l’ennesima lista personale (vero abominio democratico), si è alleato nientemeno che con Fini e Casini, e si è financo messo a fare del sarcasmo sulla statura di Brunetta.
Se questa era la caratura culturale dell’uomo, non si può certo stupirsi se sulla cultura ha le idee più dozzinali che si possano immaginare. Nemmeno una parola di quella pagina è dedicata al valore civile del patrimonio storico e artistico, mentre l’idea chiave è che «investire nella cultura significa anche lavorare per rafforzare il potenziale del nostro turismo, poiché già oggi cultura, bellezze naturali ed enogastronomia sono i pilastri della nostra attrattiva». Sai che novità: su questo dogma craxiano si fonda l’industria culturale che sta trasformando il patrimonio in una Disneyland che forma non cittadini consapevoli, ma spettatori passivi e clienti fedeli. È a questo dogma che dobbiamo la privatizzazione progressiva delle città storiche (Venezia su tutte), e un’economia dei beni culturali che si riduce al parassitario drenaggio di risorse pubbliche in tasche private, socializzando le perdite (l’usura materiale e morale dei pochi ‘capolavori’ redditizi) e privatizzando gli utili, senza creare posti di lavoro, ma sfruttando selvaggiamente un vasto precariato intellettuale. È grazie a questo dogma che prosperano le strapotenti società di servizi museali, che lavorano grazie a un opaco sistema di concessioni, e che stanno fagocitando antiche istituzioni culturali e cambiando in senso commerciale la stessa politica del Ministero per i Beni culturali. Appare, insomma, realizzata la profezia di Bernard Berenson, che già nel 1941 intravide un mondo «retto da biologi ed economisti dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico»; un mondo in cui ci sarebbe stato spazio per «ricreazione fisiologica sotto varie forme, ma di certo non per le arti umanistiche».
In tutto questo, può essere di qualche conforto che il Fondo per l’Ambiente Italiano lanci le Primarie della cultura, una consultazione online che sottopone al vaglio dei cittadini temi forti da presentare poi ai vari candidati. Benissimo: anche se non tutti i temi proposti sono condivisibili, e anche se la trovata di Giotto, Dante, Leonardo, Verdi e Fellini candidati e comizianti è abbastanza imbarazzante.
Ma il punto non è quello. Il punto è che questa lodevole iniziativa rischia di rafforzare l’idea che la cultura sia materia per ricche signore in vena di beneficenza. E che poi, quando qualcuno di quella eletta cerchia ‘sale’ in politica, allora deve fare sul serio, e dunque deve dimenticarsi di queste ciance da salotto, e trattare la cultura come merita: cioè rigorosamente a calci nel sedere.Proprio come ha fatto un certo Mario Monti, il cui governo ha tagliato ancora su scuola, università e patrimonio culturale, e che – per citare un solo episodio – è stato a un passo dal sigillare Villa Adriana in una discarica.
Un certo Mario Monti, che è membro del consiglio di amministrazione del Fai.
Grandi navi, grandi aeree, grandi rendite: la lotta è aperta.Siamo al sovvertimento delle regole democratiche.È il territorio che deve decidere sul futuro del suo Porto e non viceversa. Dice una persona per bene: «È la città, e per essa il sindaco con il Consiglio comunale, che deve dire quale futuro vuole per San Basilio e la Marittima». Il senatore del Pd Felice Casson, primo firmatario della nuova legge Speciale per Venezia, critica duramente le prese di posizione del Porto sul futuro dell’area veneziana. Proteste vengono annunciate anche dal Comitato «No Grandi Navi», che ha raccolto migliaia di firme per l’allontanamento delle navi da crociera da San Marco. «Queste decisioni», dicono, «le deve prendere la città».La Nuova Venezia, 9 gennaio 2013
Sul futuro delle aree del Porto è braccio di ferro tra Comune e Autorità portuale. Ieri mattina in municipio lungo e animato incontro tra il sindaco Giorgio Orsoni e i suoi assessori da una parte, il presidente dell’Autorità portuale Paolo Costa dall’altra. Sul tavolo l’Accordo di programma che dovrebbe decidere, appunto, il futuro prossimo di Santa Marta e San Basilio. Delibera «congelata» dal Consiglio comunale a fine anno perché giudicata «troppo concessiva» agli interessi del Porto. Che chiede di «valorizzare» i suoi terreni e i suoi immobili in vista dell’arrivo del tram. Che significa «valorizzare?». Nel Piano operativo triennale messo a punto dal Porto si parla espressamente dell’alienazione della sede del Porto alle Zattere, della trasformazione dei grandi edifici in rampa Tronchetto (ex sede della Compagnia Lavoratori portuali e poi della Capitaneria di Porto) e della sede del Mercato Ittico all’ingrosso. In ballo c’è anche l’uso del tratto di città tra San Basilio e Santa Marta, che da anni il Comune vuole riaprire, abbattendo i muri e le grate divisorie. Oggi tre capannoni sono destinati a Università, il quarto è conteso. Ma soprattutto c’è da decidere del futuro dell’intera area Marittima. Progetti che si intersecano, e andranno in discussione tra breve. Il primo riguarda le alternative alle grandi navi. A un anno dalla tragedia della Costa Concordia, in laguna l’ordinanza del ministro dell’Ambiente che vieta alle grandi navi di avvicinarsi alle aree sensibili e a rischio in laguna non è ancora applicata. Le condizioni di sicurezza qui sono diverse, fatto salvo che navi alte come il campanile di San Giorgio e lunghe 300 metri, oltre le 100 mila tonnellate di stazza, passano più volte al giorno a pochi metri da San Marco. Si aspettano le alternative, e anche qui le idee tra Comune e Porto sono diverse. Nella bozza del Piano, che andrà in discussione al Comitato portuale il 16 gennaio, il presidente del Porto Paolo Costa ha scritto chiaramente che «non esiste alternativa ala Marittima», rilanciando l’idea di scavare un nuovo canale, il Contorta Sant’Angelo, per far entrare le navi più grandi dalla bocca di porto di Malamocco e non più dal Lido. Ieri alla riunione del Comitato portuale dedicata alle osservazioni, il rappresentante del comune di Mira ha rilanciato il progetto di Cesare De Piccoli di attrezzare una banchina «provvisoria» al largo di San Nicolò. Il sindaco Orsoni punta su Marghera. Ma il Porto tira dritto. E il braccio di ferro continua. In palio, da subito, ci sono i preziosi terreni e fabbricati di San Basilio e Marittima.
In un intervista a Pietro Barucci (finalmente) una implicita condanna, tardiva ma piuttosto chiara, delle condizioni degli architetti impegnati a collaborare alla costruzione di città per i cittadini, e non solo a proporre begli oggetti per promuovere e ingentilire la rendita fondiaria. La Repubblica, 9 gennaio 2013, postilla (f.b.)
Pietro Barucci, architetto, ha compiuto novant’anni in questi giorni. Da due decenni non lavora più. Avrebbe potuto continuare, ha una figura slanciata, energica, la memoria è fervida, intatta la lucidità, sicuro l’argomentare. Ma su di lui si abbatté una specie di interdetto. Il suo nome è legato ai più grandi interventi di edilizia popolare realizzati in Italia, a Roma: Laurentino 38, Tor Bella Monaca, Quartaccio, Torrevecchia. E il maleficio che avvolge quelle torri grigie innalzate in periferia prende alla gola anche Barucci. È lui, si sente dire, il responsabile di architetture criminogene, spaesanti, ossessive. Quelle che svettano a Roma, ma che sono sorelle delle Vele di Scampìa e dello Zen a Palermo. Si grida, citando Michel Foucault: dàgli alle “istituzioni totali”. Si invoca: abbattiamole, facciamo palazzine.
«Mi sono stufato di ribattere», dice Barucci seduto a un tavolo rotondo sul quale spicca la copertina nera di un suo libro appena uscito, Scritti di architettura 1987-2012 (Clean, 151 pagine, 15 euro), in quello che era uno studio e ora è il salotto di casa. Mobilio anni Sessanta. Di fronte, due finestroni inquadrano Villa Medici e i pini di Villa Borghese. Scontata la battuta: eccoli qui gli architetti che disegnano casermoni e a Roma vivono in via Margutta. Barucci, che nel libro ribatte, eccome, ai suoi critici, non si è mai iscritto a nessuna cordata, accademica o di partito. Assistente all’università di Adalberto Libera, alla morte di questi venne scalzato dal suo successore, Ludovico Quaroni, che gli preferì Manfredo Tafuri. Da allora iniziò una folgorante carriera professionale, non solo in Italia, culminata con i grandi complessi di case popolari. E conclusa di botto, con uno strascico di amarezze che ora sembrano ricomposte in riflessioni altrettanto amare, ma affabilmente diluite.
Quando ha chiuso lo studio?
«Nel 2003. Ma da un decennio non ricevevo nessun incarico».
Chi è stato l’ultimo committente? «Il commissariato per la ricostruzione post terremoto a Napoli. Un impegno durato dodici anni, fino al 1994, in condizioni spaventose».
Perché spaventose? «Inizialmente il clima era eccellente. Vezio De Lucia, responsabile del commissariato, mi chiese di coordinare interventi di nuova costruzione e il recupero di edilizia storica. Il commissariato era un’oasi di pulizia. Quando, a metà degli anni Ottanta, il Comune perse la regìa delle operazioni, iniziarono a spadroneggiare imprese piovute dal Nord, concessionari che prendevano anticipi stratosferici e poi subappaltavano alla camorra. Sotto di me c’era gente che collezionava tangenti per parlamentari e ministri».
Il risultato? «Volevamo costruire il nuovo nel corpo vivo della città, nella periferia slabbrata di Barra. Il nuovo che riqualifica l’esistente. Purtroppo il nuovo fu mangiato dall’esistente».
Una questione che più volte si è riproposta. Lei fu oggetto di dure critiche. Le si addebitavano esagerate pretese razionaliste. «Il postmoderno ha toccato l’apice in quegli anni. Io sono stato additato come l’ultimo dei moderni, che da aggettivo qualificativo era diventato insulto diffamatorio. Ma, al fondo, una questione culturale si tramutò in una discriminazione professionale».
Chi la discriminò? «Gli attacchi più spietati giunsero da Controspazio, la rivista di Paolo Portoghesi. Era un gruppo di pressione, formato da giovani architetti che sventolavano vessilli postmoderni ed erano animati da spirito che oggi diremmo “rottamatorio”. Per me fu uno choc, con implicazioni familiari».
Familiari? «Nella redazione della rivista lavoravano mia figlia Clementina e mio genero, Giorgio Muratore. Per anni i nostri rapporti sono stati tesi. Quando ci incontravamo in luoghi pubblici, cercavamo di svicolare».
Lei era indicato come l’artefice di edifici e di quartieri che iniziavano a deperire il giorno stesso della loro inaugurazione. «Si riferisce al Laurentino 38, immagino. Detto in estrema sintesi, penso che fosse una proposta culturale, politica e professionale di una qualità e di un’importanza non adatta a Roma. E dunque una proposta destinata a fallire».
Da dove trasse ispirazione? «Francia, Inghilterra, Olanda, paesi scandinavi. Il modello erano le new town inglesi, il quartiere autosufficiente, come quello di Bakema e Van den Broek ad Amsterdam».
Nulla di comunista? «Sciocchezze. Immaginammo quattordici insulae, ognuna con sette edifici, di cui cinque in linea, una torre e un ponte che li teneva insieme e dove pensavamo di sistemare negozi, uffici pubblici, uffici privati, un centro sociale. Era lo spazio di incontro e di convivenza. Sotto correvano le macchine, tenute lontane dal percorso sovrastante, solo pedonale. Raccoglievamo l’eredità del movimento moderno, il nostro era un manifesto di idee».
Troppa ideologia e poca concretezza? «Le dimensioni non le abbiamo scelte noi. Il Comune ci chiedeva di sistemare 32 mila abitanti. E, a proposito di concretezza, bisogna ricordare che in quei primi anni Settanta l’emergenza abitativa era esplosiva».
È esplosiva anche ora. Come si risponde? «Non si risponde. Non esiste più edilizia pubblica. Almeno noi cercavamo di darlo un tetto a chi non ce l’aveva».
I problemi al Laurentino iniziarono fin da subito. «Il Comune doveva curare la gestione, ma gli allacci elettrici, le fogne, le strade furono realizzate due anni dopo la fine delle case. Al Laurentino sono state trasferite centinaia di famiglie che occupavano un hotel ricettacolo di delinquenza e di spacciatori. Se si creano le condizioni perché un quartiere degradi, non c’è buona architettura che possa salvarlo. A Roma come altrove».
Si è detto che progettaste un insediamento per un proletariato che non esisteva più, sognando forme comunitarie ormai in disuso. Cominciavano gli anni Ottanta... «È vero. In ognuno dei ponti era previsto un centro sociale, ma proprio in quegli anni fu soppresso il corpo degli assistenti sociali, che accompagnavano gli assegnatari negli alloggi. Oggi dimentichiamo che gli abitanti venivano da case abusive e da baracche. Avremmo dovuto leggere meglio le trasformazioni. Ma m’illudevo che potessimo allinearci all’Europa del Nord. Nelle new town c’era tecnologia, visione comunitaria, sociologia. Quello che io cercavo di realizzare qui».
Lei poi ha progettato parte di un altro quartiere considerato emblema della disperazione metropolitana, Tor Bella Monaca. Quelli sono anche gli anni di Corviale...
«Corviale è uno stupendo progetto di architettura non adatto a una città come Roma. Ma mi lasci ricordare che ho lavorato al Tiburtino sud, un altro quartiere popolare. Era il 1971. Alcune famiglie che ebbero assegnato l’alloggio e che poi si erano trasferite altrove, a distanza di decenni sono tornate nel quartiere, ma stavolta da acquirenti».
Nel 2006 tre ponti del Laurentino vennero abbattuti. Il degrado era insopportabile, disse l’amministrazione comunale. Che cosa ha provato? «Un senso di orrore. I ponti erano occupati, in mano a malavitosi. Ma scartare l’ipotesi del recupero e demolirli, sostituendoli con palazzetti costruiti sulla strada, è un atto di bestialità. Capisco l’impeto d’un residente, dopo decenni di abbandono. Ma un’autorità pubblica che vuole compiacere la protesta e farsi un po’ di propaganda compie una scelta incolta ».
Ora si vorrebbe abbattere parte di Tor Bella Monaca. «Una cretinata che non ha nessun senso. Non se ne farà nulla ».
È mai più tornato al Laurentino 38? «Una volta, alcuni anni fa. Da allora mai più. Fa parte del mio rifiuto nei confronti di un mondo che non capisco. Nel ’98 visitai il Museo Guggenheim a Bilbao realizzato da Frank Gehry. Mi son detto che non ero più in grado di fare l’architetto».
l testo integrale dell’intervento svolto dal presidente della Sardegna, Ugo Cappellacci al convegno "Finestra sul paesaggio" il 2 dicembre 2011. Lo regalo ai lettori di eddyburg nella calza della Befana. Benché vecchiotto è troppo bello per essere lasciato nei miei disordinati archivi. Ed è soprattutto istruttivo per l’uso palesemente stravolto che fa delle parole, dei concetti, delle idee, sue e soprattutto altrui, che allinea in un lungo serpentone accattivante e minaccioso. Sbobinato per eddyburg , gennaio 2013
Intervento svolto al convegno "Finestra sul paesaggio"sulla tutela e valorizzazione del Paesaggio, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, Formazione decentrata di Cagliari; Cagliari 2-3 dicembre 2011, Aula Magna del Palazzo di giustizia.Cagliari, 2-3 dicembre 2011 Qui il programma del convegno e alcune delle relazioni presentate.
Voglio partire proprio da un aspetto che tengo a sottolineare e credo sia molto utile portare da subito all'esame di questo consesso e poterne discutere immediatamente: è quello relativo al processo in corso del ppr sul quale ho colto la sottolineatura del professore delle possibili preoccupazioni legate al possibile tentativo di smantellamento. Allora, io credo che il tema del paesaggio sia un tema - così come quello dell'ambiente, del cosiddetto sviluppo sostenibile - sia un tema chiave per il futuro dei territori in questa epoca moderna che stiamo vivendo. E' un tema che è oggetto non solo di dibattito locale ma è un tema che è oggetto di un dibattito più ampio sul livello internazionale, sul livello europeo, in particolare il tema dello sviluppo sostenibile e della tutela dell'ambiente è un tema che è particolarmente dibattuto, sul quale ci sono differenti posizioni e confronti che sono in atto, e anche talvolta in modo molto vivace. La Regione, peraltro, partecipa a pieno titolo in questo confronto, anche quello che va oltre i confini del nostro territorio perché partecipa all'interno della commissione Empf del comitato delle Regioni, che è una commissione che si occupa di ambiente ed energia ed è una commissione che ha il compito di dare un supporto alla commissione europea e al parlamento europeo, supporto che poi è utilizzato ovviamente e che diventa base per le decisioni che questi organismi devono assumere.
E peraltro la Regione Sardegna avrà - a partire dal 2012 - l'importante responsabilità della presidenza di questa commissione. Questo lo dico a dimostrazione del fatto che la Regione è presente e vuole essere presente nel dibattito, vuole intervenire a pieno titolo nelle dinamiche che sottendono alle scelte che sono scelte che riguardano certamente il presente, che riguardano il destino del nostro ambiente e del nostro territorio ma in modo ancor più importante e significativo riguardano quello delle future generazioni.
Allora si è parlato e il professore mi ha parlato in termini a tratti anche veramente interessanti e affascinanti, direi, di quella che è la nuova sensibilità che peraltro è in qualche modo confermata nella Convenzione europea sul paesaggio ma che per quanto ci riguarda ha origini storiche ancora più lontane perché risale a quei passaggi che sono stati richiamati di Benedetto Croce, ovverosia quella sensibilità per l'ambiente che diventa un valore, un valore che addirittura va a coincidere con quello che è l'aspetto identitario delle popolazioni che nel paesaggio vivono e che il paesaggio devono percepire e che quindi in qualche modo devono tutelare, salvaguardare, valorizzare. Sono stati richiamati termini come valorizzazione, patrimonio, risorse e c'è stata anche spiegata quale può essere la differenza, quali possono essere le notazioni negative rispetto alle quali prestare particolare attenzione. Ecco, io allora credo che si debba uscire una volta per tutte da un equivoco, un equivoco che spesso è frutto di strumentalizzazioni perché comunque la vita è fatta anche di questo e in particolare l'agone della contrapposizione politica soprattutto in questi tempi, ahimè diventa spesso contrapposizione violenta, diventa spesso anche urlo, tentativo di prevaricare le ragioni, le argomentazioni altrui cercando di far valere la propria tesi o meglio talvolta non solo di far prevalere la propria tesi ma semplicemente di distruggere la tesi dell'avversario. Allora, se è vero come è vero, e credo che di questo non si possa non essere tutti convinti, che il tema del paesaggio è un tema che è un valore universale e come tale è riconosciuto, come tale è percepito da tutti, non è possibile, non è ammissibile, in termini di principio, che ci sia una contrapposizione così netta, così forte su un tema universale. Perché, se partiamo dal presupposto che esiste una contrapposizione, io credo che qualunque tipo di ragionamento, qualunque tipo di confronto sarebbe viziato alla base. Perché se il valore universale -io sono profondamente convinto di questo - è un valore che deve essere percepito nel modo corretto da tutti, che deve essere sentito nel modo corretto da tutti, deve essere interpretato nel modo corretto da tutti. E credo che la prima cellula, il primo momento di tutela del paesaggio e del riconoscimento di questo valore anche identitario del paesaggio sia quello che esercita il singolo individuo, che nel suo modo, con la sua sensibilità, nel suo modo di percepirlo, con le sue decisioni, con le sue azioni, è il primo elemento, il più importante che poi deve andare a declinare questo valore mettendolo appunto nella scala dei propri valori e quindi dando a questa accezione un significato importante. Se lo prendiamo, come lo prendiamo, come valore universale allora significa che deve essere sovraordinato rispetto a tutta una serie di questioni. Peraltro, mi sentirei anche di dire: è vero, sono comprensibili quei dubbi che nascono dalla diversa interpretazione che può essere data al termine valorizzazione. E in particolare, particolarmente interessante è la distinzione tra i termini patrimonio e risorsa, che sottende in qualche modo la conservazione, il tentativo di perpetrare primo il patrimonio invece una naturale destinazione al consumo delle risorse. E' anche vero che il mondo cambia i sistemi economici, la realtà dei mercati che stiamo vivendo interviene in questo tipo di classificazioni e di logiche e le cambia. E probabilmente qualche cosa è cambiato anche rispetto a quello che succedeva molti anni fa. E allora ci sono almeno due ragioni per cui non è assolutamente possibile arrivare a queste divisioni su questi temi. La prima è che stiamo parlando, come dicevo prima, di un valore universale, di un qualche cosa che è percepito ormai da tutti come un bene importante da tutelare e da difendere di cui bisogna usufruire in modo consapevole ed essere capace di trasmetterlo responsabilmente alle generazioni che verranno.
L'altro è anche l'aspetto direttamente commesso alla sostenibilità ambientale, direttamente connessa alle esigenze di sviluppo di un territorio, alle esigenze di un territorio di fare economia, che non sono oggi, non possono essere oggi, e tanto meno in una realtà quale è quella sarda, in contrasto con la tutela e la valorizzazione in senso positivo, in senso più virtuoso possibile del termine del paesaggio. E perché dico questo: perché assistiamo oggi in Europa a una discussione che cerca di orientare le comunità, le nostre comunità, gli enti locali, verso un uso cosiddetto efficiente delle risorse. La strategia europea - cosiddetta Europa 20 20 - è fondata su tre principi di base che sono quelli della crescita sostenibile, della crescita intelligente, della crescita inclusiva. La crescita sostenibile non è altro che una gestione efficiente delle risorse e un tentativo di modificare il sistema in un sistema cosiddetto verde - la green economy, più competitiva. Allora, se questo è vero, bisogna anche partire dal presupposto che ci sono delle risorse strategiche sulle quali dobbiamo ragionare perché non è possibile più consumarle. Perché queste risorse non sono illimitate, perché queste risorse sono limitate. E se questo è vero con le risorse di tipo energetico - è stato fatto riferimento al petrolio - e quindi si cerca di immaginare a delle forme di utilizzo delle energie rinnovabili, che si rinnovano, che non costituiscono un consumo definitivo, è a maggior ragione altrettanto vero, forse ancora più vero, per la risorsa ambiente e paesaggio. Noi in Sardegna viviamo, e non solo in Sardegna, ma certamente i territori deboli pagano un prezzo molto alto nei momenti di crisi e noi stiamo pagando un prezzo altissimo per la crisi generale che il mondo vive, che l'Europa, i paesi dell'Eurozona stanno vivendo. In Sardegna in particolare assistiamo a un fenomeno di cui leggiamo tutti i giorni sui giornali e talvolta molti di noi anche ne subiscono le conseguenze dirette perché sono drammi che riguardano le comunità alle quali apparteniamo, talvolta ci toccano anche direttamente, toccano la famiglia di un parente, di un amico, di un vicino. Ovverosia, il progressivo smantellamento dell'apparato industriale - faccio riferimento alla situazione di Porto Torres piuttosto che alla situazione di Porto Vesme - e non voglio citare questi casi per sottolineare la differente sensibilità anche ai temi paesaggistici perché probabilmente oggi, nella realtà che viviamo mai e poi mai potremmo anche solo concepire di realizzare strutture di quel tipo, così fortemente impattanti, non solo sul piano ambientale e paesaggistico, ma anche sul piano ambientale più riferito a quello dell'inquinamento e della salvaguardia dell'ambiente. Mi voglio riferire alle strutture che sono basate su un sistema ormai antico, desueto, che è quello di industrie energivore, talvolta anche inquinanti dicevo, che non hanno più la possibilità di stare sul mercato perché uno degli effetti della globalizzazione è quello che le multinazionali a distanza di migliaia di chilometri dal nostro territorio assumono delle decisioni, e le assumono come: le assumono andando a localizzare i propri impianti produttivi laddove i fattori della produzione si possono acquisire nei modi più convenienti, la logica del bilancio, la logica del conto economico. E allora questa delocalizzazione dei fattori della produzione comporta la delocalizzazione degli impianti e la Sardegna si trova a competere su territori nei quali è difficilissimo competere perché è difficile competere con paesi dove ci sono altre regole per quanto riguarda i meccanismi del mercato del lavoro, e quindi quella risorsa si acquisisce a costi ben più bassi, è difficile competere laddove il costo dell'energia ha valori molto più bassi. E allora qual è il primo ragionamento da fare, e mi riallaccio al tema iniziale che è quello della risorsa ambiente paesaggio e territorio. Che noi dobbiamo puntare sulla valorizzazione delle risorse, sui fattori della produzione che non sono facilmente de-localizzabili. E allora il paesaggio, il territorio, quel valore straordinario non è facilmente de-localizzabile. Lo dobbiamo valorizzare, ma valorizzare non nel senso di mercificare per cui va utilizzato perché va lottizzato, e va messo sul mercato, ma perché è un valore positivo che ci può ben far competere, diventa un fattore della produzione per tutta una serie di attività che ci può fare competere sul mercato internazionale, ci può dare una speranza di puntare su determinate iniziative che abbiano una prospettiva, una continuità, in termini temporali, capace di superare questo momento di crisi, capace di mantenere quelle realtà ancora sul territorio.
E allora lo voglio dire in modo chiaro - mi fa piacere che sia presente il presidente Soru, che sia arrivato l'onorevole Soru in questa sala, perché bisogna che si esca immediatamente da un equivoco: io credo che la Sardegna possa essere fiera di avere uno strumento che è il piano paesaggistico regionale, che è uno strumento moderno, che in termini anche di... anticipando quello che è il resto del territorio nazionale ma molto anche del territorio europeo, si è dotata di un quadro di regole che doveva servire a tutelare e salvaguardare il paesaggio, in particolare gli ambiti costieri. Io questo lo voglio dire, lo dico senza nessuna difficoltà, perché anche, ripeto, è ora, veramente, se vogliamo fare un dibattito, un discorso, un ragionamento serio sul tema, di uscire dall'equivoco, di uscire dai luoghi comuni. Quindi non è in discussione la valenza e io ne faccio di questo documento, di questo atto ne faccio un motivo di orgoglio come rappresentante di una Regione che ha dimostrato di essere all'avanguardia. Allora non c'è, partendo da questo presupposto, un interesse o un'intenzione di arrivare a una operazione di smantellamento. C'è un processo di revisione, peraltro che è obbligatorio, che è previsto dalla stessa norma di legge e che si vuole portare avanti sulla base comunque del rispetto dei principi che hanno originato il documento originario. Però, non possiamo non partire dal presupposto che se è vero - voglio citare passaggi che sono contenuti in quei documenti ai quali faccio riferimento - se è vero che quelle regole che sono state...- il piano paesaggistico in qualche modo rappresenta un quadro di regole - devono essere un paradigma per la tutela e la salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio, questo doveva avvenire attraverso l'assimilazione, la traduzione in principi dell'essenza e dell'identità del popolo sardo. Ma se questo è vero, allora come è possibile che quel documento, quel momento così alto di pianificazione abbia prodotto delle divisioni feroci, violente, fortissime nella nostra comunità; ha creato un momento di divisione quasi a metà, e ha creato una serie di problemi che nascono da dubbi interpretativi che ci sono, che ci sono stati, e che comunque le sentenze dimostrano che esistono. Ha creato problemi legati al non allineamento tra le norme del piano paesaggistico e la cartografia, problemi giganteschi, che hanno reso spesso impossibile per i comuni fare la pianificazione subordinata, tanto è vero che in cinque anni di vigenza del piano, solo meno di dieci comuni hanno potuto approvare il piano urbanistico.
E allora credo che il dovere del pianificatore regionale e del legislatore regionale sia quello di porsi il problema di verificare se ci sono delle criticità, sulle quali dobbiamo intervenire. E come abbiamo pensato di intervenire: abbiamo dato corso a quel meccanismo - mutuo un termine non riferito a questa fattispecie ma mi sembra che renda bene la situazione - della “dialettica cooperativa”. Abbiamo avviato un processo che dura da due anni, è un processo che ha coinvolto le amministrazioni locali, che ha coinvolto gli ordini professionali, che ha coinvolto le associazioni di ambientalisti, che ha coinvolto l'universo mondo, con il quale ci si è confrontati su quelle che erano le criticità, su quelle che erano le istanze di modifica, e siamo arrivati ad avere un quadro - che peraltro è una attività questa che è tutta pubblicata, è tutta presente, sulle risultanze di questa attività, anche in modo analitico, sono presenti nel sito della Regione, quindi chiunque cittadino può andare a vedere quale è stato il lavoro e quali sono stati i contributi alle criticità sollevate. Siamo partiti da quello per procedere verso questo lavoro di revisione del piano paesaggistico.
Adesso i prossimi passi quali sono: il primo è quello della approvazione, ci accingiamo ad approvare in giunta e quindi a portare in consiglio le «Linee guida» per la modifica, la revisione e la redazione. Perché abbiamo da modificare e revisionare il piano paesaggistico relativo agli ambiti costieri, ma dobbiamo predisporre, perché ancora non esiste, il piano paesaggistico delle zone interne.
Una prima riflessione vorrei fare: Le «Linee guida» sono già pronte, sono già all'esame della giunta e verranno licenziate a breve; le «Linee guida» che noi presentiamo e che presenteremo al consiglio, nella parte generale e nei principi generali sono esattamente le stesse che hanno guidato, che erano state predisposte per la realizzazione del primo piano paesaggistico regionale, a dimostrazione ulteriore che non c'è nessuna volontà demolitrice, che non c'è nessuna volontà di smantellare alcunché. C'è la volontà di confrontarsi. E di cercare di tener conto delle esigenze che sono emerse nel dibattito.
Ovviamente, ovviamente - e poi torno su questo aspetto - con una necessità, che è quella della responsabilità di chi governa, che è quella di arrivare a fare una sintesi del tutto.
Dicevo, e arrivo velocemente alla conclusione perché non voglio abusare del vostro tempo e della vostra cortesia, il processo prevede quindi l'approvazione delle «Linee guida», la prima approvazione in Giunta della revisione del piano paesaggistico, la pubblicazione perché chiunque possa avere interesse possa fare le sue osservazioni, la valutazione, l'approvazione, l'adozione in seno alla commissione consigliare competente, e quindi la pubblicazione e l'adozione in via definitiva. Questa, non prima di aver concluso il processo che è in corso con la Direzione regionale del Ministero per i beni culturali - ne approfitto anzi per ringraziare il direttore regionale, la dottoressa Lorrai per il lavoro di grande collaborazione che hanno dato rispetto a questo processo e naturalmente all'intera struttura. E poi la conclusione della valutazione ambientale strategica che è stata avviata ad aprile e che si concluderà a breve. E quindi arriveremo a quel punto.
E dicevo, quel documento sarà la sintesi. La sintesi di che cosa? Quali sono i principi che sottendono a una necessità di sintesi? Chi ha il governo regionale non ha la responsabilità di essere portatore - perché purtroppo spesso anche questo è uno degli equivoci che nascono - portatore di interessi. Che possono anche essere interessi generali, anche legittimi, di parti della società. Ha un dovere diverso, ha quello sui capisaldi, sui valori, e stiamo parlando di un valore universale, che è riconosciuto come tale da tutti, ha il dovere della sintesi che sia capace di affermare il bene comune, l'interesse comune. E allora, il bene comune non può mai comunque essere messo in dubbio rispetto a quelli che sono interessi di parte. E questo credo si vedrà, verrà dimostrato nella pratica. E stato richiamato in principio che io uso spesso richiamare - e concludo veramente - che è quello che nella cultura degli indiani d'America che riguarda l'approccio rispetto al territorio, che può essere facilmente parafrasato e riportato sull'ambiente e sul paesaggio, che è quello secondo il quale il territorio, l'ambiente, il paesaggio che viviamo e che percepiamo non è un qualche cosa che ci è stato trasferito in eredità, in proprietà dai nostri padri, ma bensì è un prestito che abbiamo avuto dai nostri figli e che dobbiamo restituire possibilmente valorizzandolo. Quel valorizzandolo, ovviamente, non potrà mai essere mercificandolo. Grazie.
Ampia e acuta analisi del pensiero e l'azione di Salvatore Settis a partire dal suo fortunato libro del 2010 e avviando, nelle ultime righe, una riflessione che Piccioni (ed eddyburg) proseguiranno certamente dopo il nuovo Azione popolare (2012). In calce il link al testo con note. Da Storica, anno XVIII, n. 52, 2012
1. Le ragioni di un successo
2. Un’opera bicefala e le sue radici più lontane
3. Le sue radici più prossime: la svolta paesaggista
4. Un ampio «cuore» storico e la sua funzione
5. Un’operazione concettuale forte, con qualche assolutizzazione e torsione interpretativa
L’operazione che sottende la narrazione è chiara e ambiziosa: dare piena legittimità a un robusto regime di tutela radicandolo da un lato nella necessità di salvare il salvabile in un Paese di immense ricchezze devastato dalla rapacità e dall’incuria e dall’altro in una grande tradizione nazionale di cura del bene pubblico che dal medioevo arriva al Codice passando per la pietra angolare dell’articolo 9 della Costituzione.
La sfida di Settis – e date queste premesse non può essere diversamente – passa per un largo e attento uso della ricerca storiografica, facendo confluire e portando a sintesi più filoni di studi: quello sulle legislazioni preunitarie, quello riguardante le politiche patrimoniali nei Paesi stranieri e in particolare in Francia, quello più recente riguardante la fissazione del canone legislativo italiano nei primi quaranta anni del Novecento, quello sulla genesi della Costituzione, sull’architettura dei suoi articoli e sulle sue successive interpretazioni, e infine quello sulle problematiche relative alla ripartizione delle competenze tra organi centrali dello Stato e autonomie locali. In qualche caso, infine, Settis fa personalmente ricorso all’archivio nei casi in cui la letteratura non offra i raccordi logici e narrativi a lui necessari. La conseguenza è che i quattro capitoli centrali finiscono col configurarsi come un vero e proprio manuale di storia della tutela italiana del patrimonio dal medioevo ai giorni nostri. Poiché – com’è del resto giusto in un «libro di battaglia» – gli assunti teorici e politici di Paesaggio Costituzione cemento sono molto forti, Settis adotta qui e là delle assolutizzazioni e imprime delle torsioni analitiche che pongono dei problemi e meritano una discussione dalla quale possono derivare spunti per ulteriori ricerche e proposte politiche.
6. La nozione di paesaggio e la sua lunga crisi
I motivi di una scelta del genere si comprendono bene, e possono anche essere condivisi: è giusto invocare e difendere tali valori mostrandone l’antichità, il loro sistematico ripresentarsi nella storia italiana, la ricchezza di senso che hanno saputo via via sprigionare e le opere, materiali e morali, che hanno saputo generare. È giusto e opportuno dimostrare come proprio nella nostra Penisola essi abbiano dato vita a esperienze legislative e amministrative pionieristiche e abbiano saputo creare approcci più attenti che in altri Paesi. È questa, lo abbiamo già sottolineato, la via maestra per dimostrare che non si sta parlando di ubbie di élites passatiste ma al contrario di questioni vitali per il presente e il futuro del Paese. Ma per conoscere e combattere meglio le contraddizioni e le debolezze della tutela italiana è necessario analizzare anche il contesto in cui i suoi valori sono nati e si sono consolidati e la loro evoluzione recente, tanto più in una società che ha sempre mostrato una grande resistenza a riconoscerli e a farli propri. Senza volersi addentrare in una – pur legittima – decostruzione di taglio etnografico delle categorie patrimoniali è opportuno anzitutto sottolineare come accanto alla storia italiana della publica utilitas, del patrimonio e del decoro nazionale andrebbe ricostruita la storia di tutto ciò che nel nostro Paese ha nel tempo congiurato in direzione opposta, dal particulare guicciardiniano al tetragono laissez faire postunitario sino alla proclamazione berlusconiana dei «padroni in casa propria».
Per quanto il sentimento di appartenenza nazionale non scompaia né nelle retoriche istituzionali né nella sensibilità popolare, la sottolineatura dell’unicità del proprio Paese e del suo destino storico e il forte richiamo alla conservazione dell’identità nazionale si affievoliscono sensibilmente. La centralità della tradizione, il culto di una identità basata su un patrimonio collettivo proveniente da un tempo remoto vengono progressivamente corrosi e resi marginali dalla crescente centralità simbolica del consumo e soprattutto dei consumi più moderni, cioè più innovativi e a maggior contenuto tecnologico .
Grazie alla rapida crescita del dopoguerra si verificano inoltre in molti Paesi europei profonde trasformazioni economiche che sconvolgono e in qualche caso cancellano gerarchie spaziali, sociali e culturali consolidatesi nel corso dell’Ottocento e della prima metà del Novecento ; anche questi cambiamenti fanno sentire il loro peso su una concezione del patrimonio che era nata all’interno di una sensibilità alto-borghese e che della borghesia rifletteva cultura e ideali .
Nel fuoco di tutte queste trasformazioni la legittimazione sociale di alcuni dei pilastri su cui era stata fondata la moderna idea di patrimonio (storico-artistico o ambientale che fosse) si indebolisce, la loro visibilità si appanna cosicché la necessità stessa della tutela finisce in molti casi per smarrirsi. Tanto più in un Paese come l’Italia, dall’identità nazionale tarda, incompiuta e sempre fragile.
7. Quale conflitto tra paesaggio e ambiente?
Gran parte dei fattori di crisi appena elencati non vengono presi in considerazione da Settis, che dedica invece ampio spazio a un fenomeno che ha avuto anch’esso un grande peso nel rimettere in discussione il concetto di paesaggio e l’impianto teorico delle politiche italiane di tutela affermatesi negli anni 1905-48: l’emergere, dalla metà degli anni sessanta in poi, dell’ambientalismo e del concetto di ambiente. Settis non nega l’estrema rilevanza della questione ambientale, quali che siano i contorni e i contenuti che le si vogliano attribuire, ma in vari punti del testo emerge una sua larvata sottovalutazione e un senso di disagio nei suoi confronti che avevamo già intravisto nell’ostilità del 2003 all’integrazione dell’articolo 9 della Costituzione. Questo disagio finisce involontariamente col trasparire già nel lessico, quando Settis – proprio in apertura del capitolo riguardante i rapporti tra paesaggio, territorio e ambiente – si lascia sfuggire che l’endemico conflitto di competenze tra Stato e Regioni «non è il solo nemico del nostro paesaggio» perché ad esso vanno aggiunti «il progressivo emergere della nozione di “ambiente” e, in anni più recenti, il rapporto fra la normativa italiana e la Convenzione europea sul paesaggio» . In un senso molto specifico Settis ha certamente ragione, e ne ha forse ancor più di quanto egli stesso non riesca a vedere. È ben vero che nella temperie politica e culturale degli anni sessanta-settanta la nozione «quantitativa» di ambiente finisce col riscuotere un successo molto maggiore di quella «di per sé essenzialmente qualitativa» di paesaggio fino alla tentazione di sussumere la seconda all’interno della prima, ma per ragioni che non hanno a che vedere con una pretesa «imperialista» degli ambientalisti e solo in qualche sporadico caso con la volontà delle Regioni di aggirare il controllo statale mediante il grimaldello di una nozione giuridicamente non ancora ben definita.
8. Un caso esemplare: Antonio Cederna 1975
Con questo siamo a una rivendicazione della possibilità di giudicare «quantitativamente», cioè in maniera relativamente oggettiva, ciò che fino a questo momento si è scelto di giudicare (e tutelare) «qualitativamente», con tutti i pericoli di soggettivismo conseguenti e con tutti i fallimenti della tutela poi puntualmente verificatisi. Non diverso è il giudizio sull’articolo 9 della Costituzione, in quanto nel corso della sua discussione è stato oltretutto eliminato qualsiasi riferimento alla stessa categoria, pur obsoleta, di «monumenti naturali» in favore del «termine vago e inafferrabile di “paesaggio”». Anche in questo caso le conclusioni sono impietose e – come si vede bene – diametralmente opposte a quelle di Settis: «Ai costituenti è dunque sfuggito completamente il significato, l’importanza del problema della conservazione della natura, le sue implicazioni urbanistiche e sociali, i suoi rapporti con la salute pubblica, l’impiego del tempo libero, la sicurezza del suolo.»
Alla luce della sua parabola di saggista e di figura civicamente impegnata sarebbe fuori luogo imputare ad Antonio Cederna un ambientalismo «imperialista», ignaro o incurante del valore dei beni storico-artistici e paesaggistici; tanto meno è proponibile pensarlo come simpatizzante delle accese rivendicazioni regionaliste degli anni settanta. Semmai il contrario.
9. Il nodo più problematico: la ricomposizione di paesaggio, territorio e ambiente
10. Uno stimolo a proseguire
Qui puoi scaricare il testo (in bozza) con note
Vedi, a proposito dell'ultimo libro di Settis, la recensione di Dino Piovan.
In alcune brevi affermazioni, il rinnovato ruolo del settore per il territorio, l’ambiente, l’alimentazione e il progresso della società. Documento redatto da Peter Carruthers, Michael Winter e Nick Evans e presentato alla Oxford Farming Conference, gennaio 2013 (f.b.)
Quello che segue è l’Executive Summary del rapporto Farming’s Value to Society: realising the opportunity, redatto da Peter Carruthers, Michael Winter e Nick Evans, delle università di Exeter e Worcester, presentato alla Oxford Farming Conference, gennaio 2013 – Traduzione di Fabrizio Bottini
Un tempo il valore dell’agricoltura per la società era compreso chiaramente e valutato. Non capitava certo che qualcuno ponesse la questione: “a cosa serve l’agricoltura?”. Ma a partire dagli anni ’70 e ’80, con l’affermarsi dei tipo di attività intensiva sul modello prevalente dal dopoguerra, l’atteggiamento collettivo nei confronti dell’agricoltura si è sempre più caratterizzato per i timori sull’impatto ambientale, o come vengono trattati gli animali, o la Politica Agricola Comunitaria (PAC), i finanziamenti, la sovraproduzione. Di conseguenza, gli agricoltori sono stati sempre più messi ai margini. Dai sondaggi di opinione emerge oggi che il pubblico ha di nuovo un atteggiamento favorevole all’agricoltura. E il settore e il suoi rappresentanti recuperano fiducia.
Una fiducia che però non può basarsi esclusivamente sull’immagine pubblica, ma richiede una migliore comprensione anche scientifica del perdurante valore sociale del settore. Questo studio cerca di rispondere all’esigenza. Utilizzando abbondanti fonti di altri studi pubblicati, il rapporto ricostruisce il valore dell’agricoltura per la società, almeno in Gran Bretagna, con l’obiettivo di aggiungere alcuni aspetti forse meno noti. “Agricoltura” vuol dire attività, persone, territorio. Quindi questo valore deve essere valutato usando molti indicatori. Al centro dello studio c’è l’analisi degli aspetti alimentari, territoriali, sociali, e del relativo valore. Si esaminano poi gli atteggiamenti della collettività nei confronti del settore, le principali sfide pubbliche per il futuro, e si esprimono alcune raccomandazioni.
L’atteggiamento del pubblico
L’atteggiamento del pubblico rispetto agli agricoltori e all’agricoltura risulta in genere positivo, anche se non manca una cospicua minoranza con opinioni negative. Ma l’argomento è comunque poco conosciuto. Gran parte delle persone considerano importante l’agricoltura per l’economia e sono convinte che giochi un ruolo altrettanto importante per la tutela dell’ambiente; esiste preoccupazione per il trattamento degli animali da allevamento e gli organismi geneticamente modificati.
Le sfide per la politica
Anche la nostra agricoltura nazionale ha di fronte le questioni della sicurezza alimentare globale, del cambiamento climatico e dell’energia, ma si deve agire sulla scorta sia dell’esperienza di quanto siano stati pesanti gli impatti ambientali del modello di coltura intensivo. La politica deve saper mettere al centro del settore agricolo e alimentare le esigenze attuali e future della società, e a tale scopo risulta essenziale comprendere quale valore abbia l’agricoltura per la società.
Il cibo
La produzione alimentare resta il valore principale dell’attività agricola, sia al momento attuale che nelle proiezioni future. Oggi in Gran Bretagna il settore dà da mangiare a una popolazione di 63,5 milioni di persone, e sostiene attività che complessivamente contribuiscono per quasi il 7% al valore aggiunto lordo. La sicurezza alimentare è un elemento molto apprezzato. Gran parte delle persone è convinta che dovremmo essere ancor più autosufficienti da questo punto di vista. Ma non si accetta sicuramente di farlo a costo di compromettere il benessere degli animali da allevamento o la tutela dell’ambiente. Esiste una parte notevole del valore attribuito a ciò che si mangia derivante dalla sua origine. Le persone apprezzano di sapere da dove viene il loro cibo, e come viene prodotto: di particolare significato il trattamento degli animali e la provenienza regionale, nazionale britannica, o locale. Il comparto del mercato alimentare “etico” (nazionale) è più che raddoppiato negli ultimi dieci anni, e oggi pesa per il 2,7% del totale della spesa alimentare. Per alcuni è importante un rapporto diretto coi produttori, come evidenziato dalla crescita dei negozi di vendita diretta, dei farmers’ markets e dell’agricoltura urbana partecipata.
Il territorio
Oltre alla produzione alimentare, il territorio agricolo esprime anche altre attività come quelle del turismo, della caccia o dell’equitazione, che svolgono un ruolo importante nelle economie e nelle società locali. Coltivare ha effetti sia positivi che negativi sull’ambiente naturale: quelli negativi oggi sono diminuiti, ma impongono ancora costi ambientali, c’è molto lavoro da fare. Il valore sociale e culturale dell’agricoltura si esprime nel paesaggio, nella natura, nei luoghi.
Valori
L’agricoltura è un valore perché corrisponde a idee di sostentamento, sicurezza, relazioni fra le persone e con la natura, tradizione, identità. Quest’ultimo aspetto rispecchia molti dei vantaggi sociali e culturali riassunti sopra. Per corrispondere alle aspettative si deve continuare a poter accedere alle campagne e all’agricoltura, a mantenere forti legami fra questa e la società tutta, proteggere l’ambiente naturale e la sua cultura. Una prospettiva etica dovrebbe spingerci ad andare oltre il solo pensare alla “produzione” in termini di costi e benefici, e considerare quello fra agricoltura e società come rapporto reciproco responsabile, di servizio e cooperazione. L’etica deve anche presiedere alla nostra considerazione del valore pubblico dell’agricoltura e al suo rapporto con la considerazione sociale.
Un valore complessivo
L’agricoltura risponde a dei bisogni e rappresenta una risorsa, offre una ampia serie di vantaggi e servizi (oltre a comportare dei costi). Coinvolge la vita delle persone in modo assai più complesso di altri settori. I vari tipi di valore inerenti l’agricoltura però, e i relativi indicatori sociali corrispondenti, non sono certo facili da ricondurre a una valutazione complessiva, che la osservi contemporaneamente da vari punti di vista. Per farlo, per comunicare queste prospettive di valori alla società, oltre che per trarne giovamento, il settore agricolo (sia in quanto tale, sia per le politiche che lo riguardano) deve rafforzare i suoi rapporti col pubblico, chiarire quale sia la massa critica di aziende e occupati necessaria agli obiettivi, come usare le politiche agricole comunitarie e di altro per obiettivi sociali. In futuro, il settore dovrà trarre ispirazioni e idee da un ampio ambito di risorse, anche esterne a sé: quello di cui c’è bisogno non sono tanto soluzioni tecniche, ma innovazioni sociali.
Raccomandazioni
Ad accrescere il valore sociale complessivo del settore agricolo si raccomanda di:
• Produrre più alimenti dei quali sia chiara l’origine e costruire una relazione diretta fra produttori e consumatori.
• Rafforzare la comprensione collettiva del ruolo alimentare dell’agricoltura e delle aziende.
• Aggiornare e riflettere sulle raccomandazioni del 2002 della Commissione Europea sul futuro agricolo e alimentare, riguardo al “recupero del contatto col pubblico” e sviluppare strategie per il futuro.
• Stimolare la biodiversità nelle champagne, riconoscendone gli ampi benefici sociali ed economici in un quadro di programmi agro-ambientali.
• Contribuire alle questioni sociali e della salute, aprendo a nuove accessibilità e frequentazioni, per attività fisiche nelle campagne, e sviluppando gli aspetti terapeutici, soggiorni brevi, care farming.
• Individuare i motivi per cui la collettività non sfrutta appieno i vantaggi offerti dalle campagne per l’attività fisica all’aperto, valutandone anche il potenziale in termini di risparmio per la salute e le terapie.
• Stimolare una maggiore partecipazione ai programmi di aperture delle aziende al pubblico
• Sfruttare il sistema dei valori economici e etici anche nei rapporti con la politica e le sue scelte.
• Sfruttare le tecniche della partecipazione alle decisioni come strumenti privilegiati per valutare i potenziali del settore e il coinvolgimento del pubblico.
Nota: credo sia di particolare interesse, questo breve estratto dalla Oxford Farming Conference, anche perché si inserisce in un filone di riflessione storico per l'organizzazione del territorio, ovvero quello del rapporto città-campagna declinato in salsa britannica, che ha prodotto solo per fare un esempio a suo tempo l'idea di Città Giardino di Howard; suggerisco per chi volesse ampliare il raggio delle conoscenze la lettura di un altro estratto, dal progetto Città Nuova del 1919, per una ricostruzione nazionale post-bellica equilibrata, appunto nel solco della città giardino ma con particolare riguardo alla produzione agricola. L'ho tradotto per Mall col titolo L'agricoltura nella Città Nuova (f.b.)
Corriere della Sera Milano, 7 gennaio 2013, postilla
La storia dei trasporti è una storia di rivoluzioni, caratterizzate prima dalla ricerca di maggiore rapidità negli spostamenti, in un secondo momento dai diversi tipi di carburanti disponibili e, negli ultimi anni, dai problemi ambientali che molte tipologie di trasporti generano. Si pensi che, quando venne introdotta l'automobile, i gas di scarico erano considerati meno inquinanti dei residui solidi e liquidi prodotti dai cavalli, che nell'Inghilterra urbana del diciannovesimo secolo furono stimati in circa 6 milioni di tonnellate all'anno. Oggi quando incontriamo un cavallo lo guardiamo felici e lo associamo a un ambiente sano e naturale.
Tutto cambia quindi, anche il concetto di tempo e spazio, i due fattori chiave legati alla mobilità. Oggi, soprattutto in città come Milano, non si misurano più le distanze in chilometri, ma in tempo necessario per percorrerle; e allora entrano in scena le opzioni. Spesso escludiamo a priori il mezzo primario per muoverci in città, e cioè le nostre gambe, camminare è una di quelle attività che in città sembra essere stata dimenticata. Ci sembra di camminare molto ogni volta che il nostro appuntamento è a 300 metri dall'uscita della metropolitana; si gira in continuazione cercando un impossibile parcheggio pur di non dover fare qualche metro a piedi. Ma se camminare nelle nostre realtà metropolitane è considerato ormai solo una perdita di tempo, per centinaia di milioni di persone nel mondo continua a essere l'elemento caratterizzante delle loro giornate. Escludendo, per le distanze più lunghe il sistema più antico, il più delle volte la macchina è l'opzione peggiore, in termini di tempo, in termini economici, in termini di stress e di inquinamento atmosferico.
Quest'ultimo aspetto è tuttavia un aspetto legato a un cosiddetto bene comune e, come tale, non sempre e non da tutti percepito come critico, nonostante la cultura politically correct ci dipinga una opinione pubblica disponibile a qualunque tipo di sacrificio per il supremo bene della collettività; purtroppo non è così. Ma quando il beneficio pubblico e il beneficio individuale coincidono si è forse trovata la strada più idonea per la ricerca di un sistema di mobilità urbana più sostenibile.
Da anni utilizzo il bike sharing del Comune di Milano, un sistema che elimina lo stress da furto di bicicletta, tristemente cosi diffuso a Milano, elimina il problema del parcheggio, spesso paradossalmente difficile da trovare nel centro di città, dove ogni palo a cui legare la bicicletta è ricercato come in una caccia al tesoro; è inoltre un sistema sostanzialmente economico e che introduce la condivisione, presupposto fondamentale per creare davvero un' attenzione generale verso i beni comuni. Sta faticosamente partendo anche il car-sharing, molto più diffuso in molte altre città europee, dove la rinuncia alla macchina di proprietà è una scelta sempre più diffusa, con ricadute positive per l'intero territorio. È la strada giusta, percorriamola con decisione.
Postilla
Pare quasi naturale tornare alle varie critiche pubblicate su questo sito al nuovo piano urbanistico di Milano, sia sui due aspetti di merito esplicitamente sottolineati negli interventi (la mancata scala metropolitana e la rete della mobilità), sia sul metodo, che parrebbe non garantire una minima qualità spaziale, se è vero come sostenuto che si affida sostanzialmente ai medesimi soggetti e alla loro discrezionalità il processo di trasformazione. E allora si comprende che l’auspicio di una mobilità più sostenibile, costruita su diversi stili di vita, potrebbe a breve termine cominciare a scontrarsi con l’insufficienza sia della buona volontà dei singoli, sia del sistema entro cui devono svilupparsi questi auspicati stili di vita. Basta scorrere di nuovo l’articolo, ad esempio, per capire a quale tipo di utenza media si sta pensando: uno spostamento urbano semplice, diciamo casa lavoro, andata e ritorno. Che percentuale coprono, nella loro forma pura, questi spostamenti? Sono davvero così preponderanti nel degrado ambientale complessivo a cui si vorrebbe rimediare? Non ci si rivolge, come spesso accade affrontando le questioni con questa prospettiva un po’ elitaria, ai soli vicini di casa o colleghi di chi sta scrivendo l’articolo, escludendo allegramente il famoso 99% del problema? Ecco, forse qualche riflessioni in più sulle decine di migliaia di poveracci che sono materialmente costretti a usare l’auto per pura mancanza di alternative decenti (che non sono solo linee di mezzi pubblici) non guasterebbe, se si vuole andare oltre le buone intenzioni e le mode di quartiere bene (f.b.)
Nota: per chi volesse leggere direttamente a proposito della faccenda della cacca di cavallo che inquinava più degli scarichi delle auto, consiglio il bell'intervento all'alba del '900 a un convegno europeo di una vera e propria leggenda dell'urbanistica moderna, l'autore del Piano di Chicago Daniel Burnham, che ho tradotto su Mall col titolo La Città del Futuro governata democraticamente (Londra 1910)
Il manifesto, “alias”, 6 gennaio 2013
«Sarebbe assurdo che una generazione precedente potesse limitare l’uso che (della terra, n.d.r.) faranno le generazioni successive, poiché la terra appartiene ad esse proprio come appartenne ai loro predecessori, al loro tempo». Sono parole che potrebbero provenire da uno dei tanti benemeriti difensori dell’ambiente, parole che figurerebbero benissimo anche in un editoriale del nostro manifesto. Sono invece tratte dalle Lezioni di Glasgow di Adam Smith, i corsi accademici che il maggior fondatore della moderna teoria economica tenne nell’università scozzese tra il 1762 e il 1764 (tradotte in italiano da Giuffré nel fatidico 1989). Già, proprio quello Smith di cui il neoliberismo, fuori e dentro d’Italia, si è – indebitamente – appropriato come padre nobile al fine di legittimare la propria ideologia imperniata sull’homo œconomicus, egoista e dedito solo al profitto immediato, tale quindi da giustificare anche lo sfruttamento senza tregua di quei beni comuni apparentemente gratuiti (perché senza cartellino di prezzo), che chiamiamo ambiente o territorio o, semplicemente, natura.
Il nesso tra neoliberismo e distruzione dei beni comuni è diretto e profondo, e il riconoscerlo è merito non piccolo di quest’ultimo libro di Salvatore Settis – Azione popolare Cittadini per il bene comune (Einaudi «Passaggi», pp. 240, € 18,00) –, l’archeologo che da anni si è trasformato in intellettuale militante per la tutela non solo del patrimonio storico-artistico, come pure ci si potrebbe attendere da un esperto del settore, ma di quel bene molto più fragile – perché perlopiù intangibile e quindi meno o per nulla difeso – che è il paesaggio italiano. Questo era appunto il tema di Paesaggio costituzione cemento (Einaudi 2010), che ricostruiva il dibattito secolare sulla difesa del territorio, partito addirittura prima dell’unità d’Italia, all’epoca degli stati italiani pre-risorgimentali, e che trovò una sintesi felice nell’articolo 9 della Costituzione, che considera i beni culturali e il paesaggio come un unico patrimonio culturale da salvaguardare. A quel libro e alle sue ultime pagine, che esortavano a resistere alla crescente devastazione attraverso forme di azione popolare da intraprendere per una più piena attuazione della condizione di cittadinanza, si riallaccia il titolo di questo nuovo testo, che fonde assieme una vasta serie di analisi che si nutre di apporti provenienti dalle più diverse discipline: storia, economia, sociologia, diritto, filosofia e persino biologia evolutiva.
Pur in tanta ricchezza e complessità, l’obiettivo è sempre chiaro e mai perso di vista: la rivalutazione del bene comune, al di là di ogni uso retorico o strumentale, e dei beni comuni, senza cui il primo diventa solo un slogan vuoto, da stiracchiare per l’ennesima campagna elettorale. Di beni comuni oggi si parla molto, e anche confusamente, finendo per comprendervi tante cose diverse, a volte troppe. Al primo posto non possono che esservi i «beni comuni materiali naturali», come li chiama Giovanna Ricoveri ispirandosi a Empedocle: terra, acqua, aria, energia (in Beni comuni vs merci, Jaca Book 2010, di cui è imminente l’uscita in inglese con il titolo Commons vs commodities, con prefazione di Vandana Shiva). Ma se questo può bastare per i cosiddetti paesi in via di sviluppo, non è così per un paese come l’Italia, la cui identità storica è fatta anche di luoghi, di paesaggi, di monumenti che fino a poco tempo fa erano parte del demanio pubblico e che lo sciagurato federalismo demaniale rischia di smantellare una volta per sempre, all’insegna di quello slogan «padroni a casa nostra» che riflette, come forse nessun altro, lo sgretolamento dell'idea stessa di una cittadinanza italiana.
La riflessione di Settis oscilla costantemente tra memoria storica,
battaglia politica e legale in nome disamina del presente e tensione
verso il futuro, tenacemente sorretta dalla convinzione che se non si sa guardare indietro, non si può sperare di saper guardare avanti.
Di qui l’ampia ricognizione
d
i carattere giuridico sull’antica sull’antica
nozione di usi civici o beni colletti
vi, «un altro modo di possedere»
(la definizione è del giurista Paolo Grossi) oggetto di una secolare battaglia politica e legale in nome dell’egemonia della proprietà privata che ha sempre cercato di ridurla ai minimi termini in quanto ostacolo al profitto dei ceti dominanti. Ma la proprietà collettiva, forma spontanea di auto organizzazione socio-economica pervasa da spirito comunitario, ha ricevuto anche di recente critiche drastiche da parte di scienziati sociali sulla base della teoria detta «tragedia dei beni comuni», secondo cui essi sarebbero inevitabilmente destinati a perire per l’eccesso di consumo collettivo. Una teoria che il lungo lavoro empirico di Elinor Ostrom, l’economista scomparsa da pochi mesi, ha rivelato privo di fondamenta, un puro asserto ideologico. È anche a lei che Settis guarda per rivalutare il principio di cooperazione che il neoliberismo ha sempre vilipeso in favore della competizione ossia del mercato, trattato come una sorta di entità metafisica, di nuova religione secolare, che l’autore smaschera come un falso mito. Così come smaschera come vera ed estrema antipolitica il tentativo di screditare come antipolitici tutti quei fermenti spontanei di protesta contro la politica ufficiale che esclude la voce dei cittadini proprio quando si tratta di decisioni vitali per la salute e il benessere della comunità (gli esempi al riguardo si sprecano, ma per chi scrive da Vicenza, già città del Palladio e ora di basi militari, il riferimento è immediato).
La Repubblica, e Corriere della Sera 6 gennaio 2013, postilla (f.b.)
la Repubblica
"Neve finta e boschi violati così le mie montagne sono diventate un luna park"
Intervista a Mauro Corona, di Caterina Pasolini
ROMA - «Hanno ucciso la montagna per quattro schei, hanno svenduto la sua innocenza per soddisfare chi ha la frenesia della vita breve, chi vuole neve firmata e vive cercando di sfuggire la noia usando, consumando tutto e gettandolo via velocemente. Tra piste illuminate di notte dai fari invece che dalla luna, elicotteri che rompono il silenzio e motoslitte che vanno come razzi e coprono le impronte delle volpi. E cosi, tra superficialità e improvvisazione, accadono le tragedie».
Mauro Corona, scultore, alpinista, scrittore innamorato della montagna, «che credo abbia voce e ci parli, solo che molti non la vogliono sentire perché ci mette a nudo», il giorno dopo la sciagura del Cermis se ne sta nella sua baita di Erto. Pochi metri quadri affollati da duemila libri e riscaldati dalla stufa vecchia trecento anni ereditata dai bisavoli. Pronto ad uscire con le ciaspole per andare in alto, nel silenzio che «rigenera, dà energia mentre i tuoi passi fanno scricchiolare la neve».
Chi ha violato la montagna? «I più grandi distruttori sono stati gli stessi montanari che hanno fiutato la ricchezza nel soddisfare i ricchi che non vogliono faticare, che vogliono tutto e subito e sempre. E così neve anche a bassa quota e piste sempre più in alto perché a furia di distruggere la natura non nevica più, e impianti di risalita invece delle ciaspole, motoslitte a velocità pazzesche in cerca di emozioni».
Perché tutta questa frenesia? «La gente ha capito che la vita è sofferenza, è breve e quindi molti sono diventati dei nuovi nichilisti in cerca del piacere immediato e forte. E le montagne sono diventate solo un oggetto da consumare come al luna park, qualcosa da vendere o comprare, non da capire o amare».
E la montagna si vendica? «No, è che non la conosciamo, non la rispettiamo e così accadono gli incidenti. Non abbiamo il senso della misura, della sua forza, della nostra piccolezza. Non abbiamo più un vero contatto con gli elementi, non vogliamo il freddo, non sopportiamo il silenzio: persino nei rifugi e sulle piste c´è musica, frastuono, nessuno ascolta più la musica degli vento tra gli alberi».
Valli e vette sfregiate? «Non solo, è tutta la montagna ad essere violata: ci sono le concessioni del taglio dei boschi che cosi vengono distrutti dai boscaioli per amore di denaro. E io li ho visti: ora al posto delle mucche nella stalla hanno la Ferrari. E poi le centraline elettriche che bloccano i torrenti, la ghiaia portata via con la scusa delle esondazioni. Senza dimenticare i servizi ai piccoli comuni montani cancellati: i negozi chiudono, dimezzano treni e bus e i ragazzi per andare a scuola devono fare dei viaggi. Così si uccide la montagna: spingendo, costringendo la gente a scendere a valle per sopravvivere».
Cosa fare per salvarla? «Riscoprire la lentezza, ora non si ha neppure il tempo di guardare quello che ci circonda tra motoslitte, skilift e macchine, e poi puntare sui bambini. Se i genitori sono teorici dell´usa e getta forse bisognerebbe mandare guide alpine nelle scuole ad insegnare ai ragazzini cos´è la vera montagna, ad avere rispetto e la giusta cautela. È tempo per tornare a insegnare ai bambini che l´alta quota non può essere solo divertimento. Non va bene. Se non nevica non si va a sciare, punto. Ma fortunatamente è arrivata la crisi».
La crisi è positiva? «Sì, la crisi economica aiuterà a riscoprire le cose vere, per quello che sono, senza macchine e tecnologia».
Corriere della Sera
La montagna degli eccessi che diventa pericolosa
di Isabella Bossi Fedrigotti
Sei turisti sono morti ieri notte in val di Fiemme e altri due sono feriti gravi; sono morti in vacanza, nel corso di un'escursione che doveva essere spensierata e, perciò, ogni parola rischia di essere eccessiva, fuori luogo, forse anche per qualcuno inaccettabile. E tuttavia, purtroppo, il concetto va suggerito e pronunciata la parola. Si chiama riminizzazione della montagna, ed è stata inventata da un albergatore della vicina val Badia che la montagna la ama moltissimo e da molti anni combatte per difenderla e per trovare adepti della sua difficile battaglia.
Definisce — la riminizzazione — quel fenomeno per cui la Disneyland nella quale si sono trasformate ormai da tempo le nostre principali spiagge è stata trasferita anche nelle più belle, più incontaminate valli alpine. Ciò vuol dire baite in quota praticamente trasformate in pub, dove, al suono frastornante di musiche da discoteca, si festeggiano interminabili happy hour, dalle dieci di mattina fino al tramonto, e dove lo sci si riduce spesso a un pretesto per sfoggiare magnifici, strabilianti completini sportivi.
Queste location — in che altro modo chiamare rifugi alpini svuotati della loro vera funzione? — sono circondate da tutti quegli orpelli che conosciamo dalle spiagge alla moda, e cioè bandiere, striscioni, palloncini colorati, video che mostrano se stessi in piena attività: giusto per il caso che qualcuno, forse sordo, non le avesse sufficientemente notate.
Nulla di male si è costretti a dire, tranne che per quanti ricordano i paesaggi incontaminati e le baite di un tempo, l'incanto silenzioso dei boschi e delle malghe, il calore protettivo dentro i rifugi dopo la fatica e il gelo delle piste, forzati — dall'avanzare della riminizzazione — a cercare tutto questo in luoghi sempre più lontani e più inaccessibili. Tuttavia le conseguenze che il fenomeno porta con sé non sono soltanto di natura estetica, non offendono solo occhi e orecchie: infatti, alla conclusione delle happy hour in quota, sfrecciano poi disordinatamente in pista sciatori e snowbordisti che spesso e volentieri hanno troppo alzato il gomito, e gli incidenti, anche mortali, purtroppo non sono più una rarità.
Ma la riminizzazione non termina con il tramonto, continua anche nella notte, forse ancora più pericolosa. E perciò piste illuminate, impianti che funzionano fino ad ora tarda, discese alla luce della luna dopo polente bene annaffiate nei rifugi, corse in slitta o in motoslitta. Nulla di più divertente, di più eccitante per chi ama il genere, facilmente portato a credere che la montagna sia davvero una specie di parco dei divertimenti, controllabile a piacere, versione più emozionante — perché più vera — della più emozionane delle giostre, dove basta pagare il biglietto per accedere allo spasso e, quando si è stufi o stanchi, basta fare un cenno per poter scendere. La montagna — e questi terribili, crudeli incidenti vengono periodicamente a ricordacelo — pur addomesticata, pur resa accessibile a chiunque, pur truccata da allegra e benevola Gardaland è, però, tutt'altro e chi la frequenta davvero lo sa bene: soprattutto di notte non vi si può mai essere al cento per cento sicuri.
Postilla
Premetto che una prospettiva come quella di Mauro Corona, allineata almeno nel linguaggio alla gran moda dell’ambientalismo nostalgico, non interesserebbe molto di per sé il sottoscritto. Ce ne sono fin troppi di nostalgici che guardano, spesso in modo abbastanza acritico, a una specie di passato mitico, di presunto equilibrio fra uomo e natura, e li lascerei volentieri alle loro dissertazioni davanti al fuoco: avranno pure qualche ragione.
Se non fosse che la questione della montagna, in sostanza l’unico vero e proprio brandello di territorio naturale italiano, pare del tutto assente dal dibattito sulle trasformazioni in senso urbano, mentre invece ne stanno avanzando a bizzeffe, con opposizioni anche aspre ma esclusivamente locali. Come implicitamente riconosce anche Isabella Bossi Fedrigotti nel suo lucido intervento sulla "riminizzazione". Nella mia purtroppo breve esperienza di titolare di un corso di Riqualificazione Urbana al Politecnico di Milano ho avuto quasi per caso, alcuni anni fa, spalancata una piccola prospettiva di progetti di trasformazione, alberghi, quartieri di seconde case, piani di iniziativa privata per valorizzazioni e rilanci vari.
Vere e proprie astronavi scaraventate in qualche valle, la cui (a volte) apparente relativa esiguità in termini di metri cubi nascondeva impatti immensi in termini di uso materiale del territorio, fatto di impianti di risalita, gente che va e viene su e giù dalla montagna come se fosse un supermercato, e praticamente paga alla cassa nella strettoia di valle prima di tornarsene a casa. Di queste cose non si parla mai, salvo quando succede qualcosa di tragico come l’allegra comitiva un po’ alticcia con la motoslitta scivolata nel burrone. Qualcuno ci fa caso, al copione esattamente identico a una strage del sabato sera contro un pilone di superstrada sotto l’insegna di una discoteca?
Copione identico perché identico è lo scenario, di fatto: sprawl a bassa densità, le piste invece degli svincoli, le pendenze invece della solita pianura, ma tutto deve rientrare nel modello cash & carry, che non ammette deviazioni. Le montagne stanno lì a fare da sfondo, come grosse grotticelle da madonnina in giardino.
Forse guardarlo in questo modo, quel territorio, esattamente come guardiamo al suo cugino sprawl di pianura, aiuta a capire meglio, lasciando il club dei gentlemen di campagna a rimpiangere i bei tempi, e poi a votare gli stessi amministratori che chiamano qualche improvvisato guru sociologico sviluppista a tenere una conferenza sul rilancio economico della valle, magari con lo slogan della Montagna Infinita (f.b.)
Il testo che pubblichiamo di seguito è stato scritto in occasione di un interessante dossier costruito dal sito Ecopolis Newsletter, di Legambiente - Padova, e ivi pubblicato in sintesi.
E’ accaduto così che vi siano comuni contermini, strettamente legati a Venezia, che rifiutano di aderire ad una città metropolitana dai poteri indefiniti e comuni capoluogo di altre province, come Padova, che chiedono improvvisamente di aderirvi forse per sfuggire a province indebolite e dai confini disegnati da ragionieri privi di cultura.
C’è chi scappa in una direzione, chi nell’altra, chi non sa che strada prendere come se si trattasse di sfuggire a un pericolo. In questo caos proviamo, dal mio punto di vista, a riprendere il bandolo della matassa. Solo all’ultimo momento Venezia è stata inclusa tra le “città metropolitane” previste dalla legge 142 del 1990. Tra le motivazioni che avevano indotto un gruppo di parlamentari veneziani a sostenerne l’inclusione, prevalevano problemi molto specifici interni al comune di Venezia. Si trattava della mal sopportata convivenza tra la Venezia storica e Mestre in un unico comune e dell’aspirazione della porzione orientale della provincia attuale a costituirsi in Provincia del Veneto Orientale. La previsione della costituzione della “città metropolitana” costituì infatti un argomento forte per sconfiggere le crescenti spinte separatiste che si manifestarono in ripetuti referendum in quanto prefiguravano un comune veneziano articolato in sei municipalità, ma non sufficiente ad impedire la secessione del Cavallino.
Nel 93 l’area metropolitana di Venezia viene delimitata dalla Regione prevedendo l’inclusione di soli quattro comuni contermini (Marcon, Mira, Spinea, Quarto d’Altino) in spregio del “Piano Comprensoriale” che, fin dal 1979 individuava due criteri cardine: l’unitarietà della laguna e il ripristino della continuità laguna-terraferma comprendendo in tale ambito l’area centrale della provincia, più Mogliano Veneto e Codevigo. Questa delimitazione era coerente con l’ ordinamento legislativo varato successivamente.
Nel testo unico sull’ordinamento degli Enti Locali, infatti, si stabilisce che nelle aree indicate e tra queste Venezia, “il comune capoluogo e gli altri comuni ad esso uniti da contiguità territoriale e da rapporti di stretta integrazione in ordine all'attività economica, ai servizi essenziali, ai caratteri ambientali, alle relazioni sociali e culturali possono costituirsi in città metropolitane ad ordinamento differenziato”. Il comune capoluogo per l’appunto, non due o tre comuni capoluogo! Non sembra dunque corrispondere a questo criterio l’idea di assorbire ben tre province nella città metropolitana di Venezia. Stretta integrazione dei servizi essenziali è scritto: vi rientrano certamente i servizi pubblici locali che gestiscono l’acqua, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti e l’energia come fanno Venezia e i comuni dell’area vasta con Veritas ma non certo Padova con Hera e neppure Treviso co AIM Vicenza.
La successiva riforma costituzionale rafforza tale previsione. Possiamo accettare che a guidare un riassetto istituzionale siano solo ragioni di risparmio economico? Con la dilatazione territoriale a ben tre province non solo si smarrisce l’identità sociale e culturale (non saprei dare un nome agli abitanti della PaTreVe dice giustamente Eddy Salzano) ma, oltre una certa soglia, s’interrompe il rapporto democratico tra i cittadini e le istituzioni. Undici anni fa, di fronte alla stessa proposta, osservava giustamente Flavio Zanonato: “vorrà pur dire qualcosa l’esistenza di tre amministrazioni comunali, di tre diverse diocesi (almeno quattro N.d.R), di associazioni sindacali ed economiche divise per provincia e se gli stessi quotidiani informano.. con edizioni provinciali distinte..” Cos’è cambiato? Basta un pasticciato e improvvisato decreto taglia province per rispondere a queste obiezioni? Potrà il prossimo governo porvi rimedio? Oppure dobbiamo per forza acconciarci alla logica della riduzione del danno di fronte alla logica autoritaria tipica della tecnocrazia?
Ciò non significa negare la negare la necessità di una specifica pianificazione dell’area centrale del Veneto, quanto mai necessaria. Compito questo che spetterebbe alla Regione d’intesa con i Comuni e le Province. E’ forse l’assenza di una enorme città metropolitana che ha impedito la realizzazione del SFMR e l’auspicato collegamento di Padova, Treviso e Mestre con l’aeroporto Marco Polo? Di considerare l’interporto di Padova come il naturale retroterra del porto senza così prevedere il saccheggio di altre aree lagunari? Di realizzare l’idrovia? Di considerare il territorio della Riviera del Brenta con le sue ville un’area da tutelare?
Quello di cui soffre quest’area e l’intero Veneto è l’assenza di una buona pianificazione urbanistica e di una razionale programmazione economica da parte di una Regione impegnata invece a saccheggiare il territorio per favorire la rendita, a volte se non spesso, d’intesa con i Comuni come nel caso del cosiddetto “bilancere veneto”.
Credo allora che sia necessario distinguere tra il bisogno di programmazione dell’area centro-veneta e il governo della città metropolitana. Nel primo caso si tratta di realizzare “integrazioni funzionali” mentre nel secondo si tratta di costruire “un’istituzione forte” dotata di un Sindaco e di un Consiglio della città metropolitana eletto direttamente dai cittadini se non vogliamo svilire ulteriormente la democrazia. Venezia resta fedele alla propria unicità: una città estremamente complessa, segnata da una crisi profonda al cui interno coesistono realtà disparate, e spesso in conflitto, come il centro lagunare e il declinante polo industriale di Porto Marghera, la città vasta di terraferma, la laguna, le isole, i litorali. Città dalla molte identità, tenuta insieme con gran difficoltà. Città bipolare d’acqua e di terra, arcipelago urbano: ecco, qui sta la specificità di Venezia. Basti questa caratteristica per indicare Venezia come la città che, forse più di altre, ha bisogno di un governo metropolitano. Il Comune di Venezia è, infatti, sovradimensionato per l'esercizio delle funzioni ordinarie e di converso è sottodimensionato per governare le dinamiche economiche. E' troppo grande per rispondere efficacemente alla richiesta dei cittadini di partecipare ad una migliore gestione e fruizione dei servizi alla persona. E' troppo piccolo per risolvere gli angosciosi problemi dei trasporti, della mobilità delle merci e delle persone, per una programmazione razionale delle zone industriali, commerciali e della logistica, per una gestione efficace dei servizi pubblici locali che già oggi sono gestiti a livello di area vasta. E' troppo piccolo per governare in modo unitario il sistema lagunare, disinquinare le sue acque che provengono da un ampio bacino scolante fortemente urbanizzato, per riconvertire Porto Marghera e sviluppare la sua portualità: in sostanza per un uso sostenibile del territorio. Di converso molti Comuni della Riviera e del Miranese hanno spesso la dimensione ottimale per gestire i servizi alla persona ma sono anch'essi troppo piccoli per governare un nuovo modello di sviluppo. Per queste ragioni va ripensato anche l'assetto del capoluogo potenziando le municipalità per giungere in un secondo tempo - quando la città metropolitana sarà a tutti gli effetti costituita come istituzione forte perché dotata di poteri e democratica perché eletta a suffragio universale- ad elevare le stesse a veri e propri Comuni metropolitani. In tal modo si rassicurerebbero anche i Comuni minori che temono di essere fagocitati dal Comune capoluogo. Gli stessi potrebbero fin d’ora costituire “unioni comunali” aderendo così all’idea di realizzare la “Città Metropolitana” in modo flessibile, cioè a “ordinamento differenziato” che favorirebbe un percorso processuale. Niente di nuovo se non fosse che dopo il “piccolo è bello” ora va di moda il “grande è bello” che però mal si concilia con l’esigenza di avvicinare i cittadini ai luoghi della decisione politica.
Proviamo a ragionare. Da oltre trent'anni è in corso nell'area veneziana un massiccio processo di redistribuzione della popolazione dal capoluogo ai comuni limitrofi. Se, da una parte, Venezia perde popolazione, resta comunque la sede delle principali strutture di servizio, oltre che il luogo in cui si localizza una parte rilevante dei posti di lavoro. Aeroporto, porto, centri decisionali istituzionali e amministrativi, le università e le altre istituzioni culturali fanno della città lagunare un luogo in cui si concentrano servizi rari al servizio di una più ampia area metropolitana. Allo stesso tempo molti comuni minori, sempre più connessi all'economia regionale, aumentano la popolazione e le attività manifatturiere ricorrendo ad un sempre più ampio bacino del mercato del lavoro. Questo processo va governato con un'istituzione forte onde evitare il rischio che l'urbanizzazione generata dalla logica della rendita e dall'impresa postfordista, determini un ambiente urbano a marmellata sempre più privo di forma e memoria dei luoghi . Per invertire le tendenze in atto alla sprawl urbano occorre progettare la metropoli policentrica, cioè con una qualità urbana diffusa, vivibile e bella in ogni sua parte.
Da qui nasce l'esigenza di un governo unitario dell'area metropolitana di Venezia. L'attuale Provincia va quindi sostituita da una Città metropolitana che riassuma in sé funzioni e caratteri oggi variamente distribuiti tra Regione, Provincia, Comune capoluogo, altre amministrazioni. Non, dunque, una Provincia ritoccata, ma un soggetto davvero nuovo. Il suo ambito, a mio parere, deve comprendere i territori del "sistema lagunare" - sotto il profilo geomorfologico – e quelli del "sistema giornaliero", sotto il profilo dell'integrazione socioeconomica. Sbaglieremmo a considerarla riduttiva, una sorta di ripiegamento rispetto alla Patreve, la grande "città centro-veneta", un'area che richiede una specifica pianificazione ed un esercizio coordinato di funzioni, a partire dal trasporto pubblico, obiettivi che possono essere però conseguiti con altri strumenti. D'altra parte l'importanza di una città non è data solamente dal numero dei suoi abitanti. Zurigo, ha 350 mila abitanti, 100 mila persone vivono a Oxford e Cambridge. I punti di eccellenza europei sono rappresentati da città come Strasburgo, Lione, Lille e Francoforte che non superano il milione di abitanti. Secondo tutti gli indicatori internazionali le città sono realmente "grandi" per la maggiore importanza del loro ruolo, per la varietà e complementarietà delle loro funzioni, per l'ampiezza della loro influenza sul territorio. Venezia ha tutte le potenzialità per essere una "grande" città metropolitana.
Perché appassionarsi a questo tema? Il territorio - spiega Focault - prima ancora di essere una nozione geografica, è una nozione giuridico politica e precisamente quel che è controllato da un certo tipo di potere; e se i poteri pubblici sono deboli e frammentati, il territorio è soggetto alle sole regole del mercato e dei poteri forti. Non è quello che noi auspichiamo.
Corriere della Sera Milano, 5 gennaio 2013, postilla (f.b.)
«Prima regola: abbassare la suoneria. Seconda: tutti devono essere a disposizione, anche per fare da segretario o portinaio. Terza: raccolta differenziata obbligatoria». Condividere un luogo di lavoro è un po' come entrare in un club. Non basta iscriversi, bisogna anche rispettarne le leggi. Ilaria Innocenti, 30 anni, viene da Modena, dopo gli studi allo Ied ha unito le forze con quelle di un gruppo di compagni di corso e amici. Coworking puro: un architetto, un fotografo, una designer, una grafica, una stilista che dal 2006 condividono aria, spazi, telefono, Internet, ma anche affari, clienti e conoscenze. Hanno affittato un ufficio da 200 mq in via Sciesa e così è nato lo Studio Morinn.
Come loro, sono ormai sempre di più, sulle tracce di un modello di lavoro importato, manco a dirlo, dai cluster informatici della Silicon Valley. Per esempio, i ragazzi di Meda36.it, società di comunicazione digitale e coworking: spazio asettico da 120 metri quadri, sono in due ma ospitano altre sette persone, scelte soprattutto per le competenze. Per riconoscere una realtà ormai diffusa in tutta Europa, quindi, il Comune di Milano sta procedendo a un censimento. Il passo successivo sarà un bando da 198 mila euro, a fine mese da erogare sotto forma di voucher da 1.500 euro l'uno, poco meno dell'affitto annuale di una postazione. «Una misura sperimentale per ora riservata ai minori di 40 anni e pensata di concerto con gli operatori già attivi sul territorio» spiega l'assessore comunale al Lavoro, Cristina Tajani.
Un intervento pubblico sollecitato dal «pioniere» Massimo Carraro. Lui ha fondato la rete Cowo che conta 15 uffici a Milano e 63 in Italia. Il primo è a Lambrate, in via Ventura, in un trionfo di luce, vetrate e colore bianco. «Abbiamo fatto da modello per altri. La nostra filosofia è quella di uno spazio al servizio delle relazioni». Aprire un'attività in proprio infatti richiede impegni a lungo termine, spesso insostenibili. «Noi offriamo postazioni anche solo per una mezza giornata». «Viviamo di passaparola online» racconta. Tra i più entusiasti ci sono Elisa Mori, 30 anni, architetto, e Michele D'Amore, scrittore e copywriter, 34. Sono loro a spiegare perché scegliere la condivisione allo stare a casa gratis. «Troppo alienante, io sono abituata a lavorare in squadra» dice Elisa, che progetta spa e centri benessere a misura di casa. «Venire qui serve ad autoregolamentarsi» conferma Michele, pronto a lanciare l'agenzia creativa Berlin1948.
Man mano che si esplora il mondo del coworking, inevitabilmente s'incrocia l'universo delle start-up, degli incubatori e degli acceleratori d'imprese. Come Avanzi, spazio da 750 mq in espansione a Città Studi, laboratorio di idee sullo sviluppo sostenibile da 15 aziende e 65 persone: «L'obiettivo è trasformare le idee in impresa, sottraendole a quella "valle della morte" dove finirebbero senza accompagnamento manageriale» spiega l'ad Matteo Bartolomeo. Cita le esperienze di un sistema di bike sharing universale, di una piattaforma per la riattivazione di spazi abbandonati e dell'incubatore organizzato per Expo 2015 insieme con Telecom Italia.
Oppure come The Hub, una rete in grado di mettere in contatto oltre 6.000 persone nel mondo nel campo dell'innovazione sociale: progetti ecologici, tecnologie per disabili, finanza etica, terzo settore. Profit. «Un brodo primordiale di idee — sintetizza Alberto Masetti Zannini — ben più strutturato della sola condivisione dello spazio». Altre iniziative in città sono Piano C, pensato per le donne, e Talent Garden, 3.000 mq in via Merano. Su eventuali altre aree pubbliche da destinare al coworking, l'assessore Tajani infine spazza i dubbi: «Stiamo valutando spazi, sì, ma per incubatori».
Le proposte di chi autorevolmente esprime le attese di una delle essenziali componenti, sociali e culturali, del fronte che contrasta l'abnorme consumo di suolo. La Repubblica, 4 gennaio 2013, con una postilla un po' lunga
Mancano meno di due mesi alle prossime elezioni, l’attenzione si concentra, come ovvio, sulle candidature e sulle future alleanze; tuttavia si avverte una diffusa sensazione di ripartenza, di possibilità di riscrittura che non si avvertiva da tempo. Complice una crisi di portata storica che coinvolge tutto e tutti: che attraversa l’economia, l’ambiente, la politica, la vita quotidiana delle persone. E quindi tocca pensare. Cosa vogliamo? O meglio: di cosa abbiamo bisogno? E cosa vogliamo fare per ottenerlo? Chiedere ai candidati di occuparsi di “politiche alimentari”, ovvero di ripensare, ridisegnare, quelle che finora sono state, in modo impreciso, inadeguato e insufficiente, chiamate “politiche agricole”, non è cosa di poco conto per il futuro di questo Paese. Su questo terreno vale la pena di sottolineare quelle che secondo me dovrebbero essere le priorità del prossimo governo centrale, ma anche dei prossimi governi regionali, dato che anche alcune regioni rinnoveranno i loro amministratori tra poche settimane. Quattro punti, quattro pensieri, quattro piccoli ma forti pilastri su cui appoggiare un nuovo modo di pensare l’agricoltura di questo paese; una miniagenda, se volete, quasi un foglietto di appunti.
1 — Politiche alimentari significa politiche condivise e interconnesse: ambiente, agricoltura, educazione, salute, economia, giustizia, sviluppo, industria, beni culturali. Dove inizia un settore e finisce l’altro? Non si può dire, non esiste confine. Se si fa politica per il cibo e per l’agricoltura si fa, finalmente, politica per tutti, si tutela il bene comune. Come si fa? Non lo sappiamo fare perché non l’abbiamo mai fatto. Ma un tavolo condiviso, un posto in cui tutti i ministri e tutti gli assessori verificano, prima di vararli, la coerenza dei provvedimenti di cui si fanno portavoce sarebbe un buon inizio.
2 — C’è un disegno di legge già approvato che attende di diventare legge. È stato ribattezzato “Salva suoli”. L’ha presentato il ministro Mario Catania, che l’ha scritto e migliorato con la collaborazione delle Regioni e della rete di associazioni della società civile. Serve a porre, sia pure con imperdonabile ritardo, fine alla dissipazione del suolo agricolo italiano, alla cementificazione ignorante che ha devastato il nostro territorio e di cui paghiamo il prezzo in dissesti e vite umane ad ogni temporale. È un lavoro facile, è quasi tutto fatto. È solo un lavoro da finire, e i candidati che nelle prossime settimane si diranno a favore della protezione del territorio italiano provino a dirlo in modo più chiaro: dicano che si impegneranno perché quel disegno di legge diventi al più presto una legge nazionale.
3 — Le nostre campagne hanno bisogno di ripopolarsi. Perché il made in Italy passa dai campi e dalle mani dei nostri produttori. E le mani dei produttori oggi sono rugose, sono stanche, sono mani anziane. E spesso sono mani che non sanno a chi consegnare tutta la loro esperienza e tutti i loro saperi. E, come si sa, i nostri giovani hanno bisogno di lavorare. E di sentirsi protagonisti di quello che producono e di quello che diventano. L’agricoltura può dare a un giovane tutto questo, a patto che smetta di essere sinonimo di emarginazione sociale e di difficoltà economica. E a patto che accedere al lavoro agricolo smetta di essere una specie di corsa a ostacoli, contro la burocrazia, le normative sproporzionate, l’impossibilità di accedere a crediti ragionevoli. Quindi i candidati che nelle prossime settimane intendono parlare di lavoro giovanile potrebbero intanto impegnarsi a facilitare questa fetta di lavoro giovanile: quello in agricoltura. Perché sono tanti i giovani che ci stanno provando, e, nonostante tutto, ci stanno riuscendo. Ma sono tantissimi i giovani che ci stanno pensando e che rinunciano prima di provare perché le difficoltà sono davvero troppe.
4 — E infine, un compito facile facile. Decidiamo una volta per tutte che agricoltura serve al nostro paese. Un paese fatto di milioni di piccole aziende agricole. Un paese che ha il biologico tra i suoi vanti. Un paese che basa la sua ricchezza sulla biodiversità di razze animali, varietà vegetali domesticate e spontanee, di prodotti tipici e delle tante biodiversità che quelle implicano: la biodiversità delle sementi tradizionali, dei microrganismi del suolo, delle agricolture tradizionali. Ecco, cosa serve a un paese così? Non serve un’agricoltura di brevetti, non serve un’agricoltura di multinazionali, non serve un’agricoltura di contoterzisti. Non servono gli Ogm. Semplicemente non servono. E già questo basterebbe a richiedere un impegno per fare in modo che vengano esclusi dal nostro futuro alimentare. Se a questo si aggiungono i tanti punti non ancora chiariti a proposito delle colture Ogm, la necessità di continuare ad investigare e a fare ricerca per definirne con chiarezza i possibili impatti sull’ambiente, sulla salute e sull’economia risulterà chiaro che appellarsi al principio di precauzione sarà la cosa più ovvia da fare, decidendo che il nostro paese resta Ogm free. Quindi quei candidati che nelle prossime settimane parleranno di green economy, potrebbero partire anche da qui: dal più vasto settore di green economy che abbiamo, da sempre, sotto gli occhi: l’agricoltura sostenibile. Ecco, una mini agenda, se volete; o meglio, un bigino – si parva licet componere magnis – da portare con sé lungo la prossima legislatura. Perché questo terzo millennio sarebbe proprio ora che iniziasse.
Postilla
L’articolo di Petrini sottolinea giustamente l’assenza totale, dall’Agenda Monti, di proposte relative all’agricoltura e alla politica alimentare. E’ una delle numerose facce della politica del territorio, che è assente in quell’Agenda. Un’assenza che non è casuale, ma è dovuta al fatto che nell’ideologia montiana il territorio è, nel suo insieme come nelle sue parti, una risorsa da spremere, non un patrimonio da gestire con accortezza e parsimonia. Se un’agricoltura industrializzata dà al PIL un contributo maggiore di un’agricoltura a km zero ben venga, e ben vengano le altre forme di land grabbing se il risultato economico (nell’economia data, che per i montiani è l’unica possibile) è lo stesso.
Chi non è d’accordo con i montiani e vuole difendere le prospettive di un futuro diverso dovrebbe proporsi due obiettivi, a mio parere essenziali: contrastare subito il consumo di suolo e promuovere una efficace politica del territorio. Sul primo punto nutriamo fortissimi dubbi sull’efficacia della proposta Calabria. Li esprimeva recentemente in queste pagine Vezio De Lucia, con una “opinione” su cui avremmo voluto che si aprisse un fruttuoso dibattito. Che fare? Se effettivamente vi fosse un Parlamento che volesse di contrastare subito e con efficacia il consumo di suolo derivante dalle irragionevoli espansioni delle aree urbanizzate, allora basterebbe riprendere la strada aperta nel 1985 dalla legge Galasso, e decidere che il territorio rurale poichèbappartiene a quel paesaggio che «è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive» (B. Croce) va tutelato al pari delle coste marine e dei corsi d’acqua, dei boschi e dei monti: nell’immediato con un vincolo, in prospettiva con una avveduta e lungimirante politica del territorio, Lo proponevamo del resto fin dal 2005 quando, a conclusione di una sessione della Scuola di eddyburg nella quale, allora solitari, lanciammo un’argomentata denuncia del consumo di suolo e un appello al suo contrasto Certo, per essere efficace in un contesto nel quale la maggioranza dei decisori vede il vincolo come un ostacolo allo “sviluppo” (quindi qualcosa di esecrando) una simile decisione deve giovarsi del potere di tutte le autorità dotate di poteri in questo dominio: quindi, in primo luogo lo Stato, che ha con il Codice del paesaggio un potere che nella Galasso non aveva.
Sul secondo punto (cioè sulla necessità di un approccio non settoriale (giustamente sollevato da Petrini) alle politiche territoriali dobbiamo domandarci che cosa significa promuovere una corretta politica territoriale. Occorre partire da un presupposto: se il territorio è un sistema, in cui tutte le cose (e tutte le scelte) interagiscono, allora si devericorrere a un metodo, e a un insieme di strumenti, che siano anche essi olistici: quindi quelli della programmazione e della pianificazione territoriali. Naturalmente concepiti, organizzati e gestiti in modo omogeneo ai principi essenziali della democrazia, così come questa è definita, nei suoi principi e nelle sue regole, dalla Costituzione che i padri della nostra Repubblica ci hanno dato. Sarebbe bello se nel concorrere alle prossime elezioni qualche formazione politica affrontasse con un po’ di rigore questi temi, cominciando magari col domandarsi perché la politica politicante (e le stesse istituzioni) abbiano abbandonato quei principi e manomesso alcune di quelle regole.
Avanti tutta, finché ci si mette di mezzo l’alluvione che un anno sì e l’altro pure fa macelli alle foci del Magra. Dove dovrebbe sorgere il porticciolo. “Conservazione attiva del territorio”, un’espressione che presto potrebbe entrare nel vocabolario (e negli incubi) degli ecologisti. O di chi semplicemente ha cura del paesaggio. Che poi significa anche turismo, cioè lavoro e anche sicurezza. Quindi vita.
In Liguria a tredici mesi dalla grande alluvione, tanti sembrano essersene dimenticati: le ruspe della cementificazione non hanno smesso di lavorare. Nella vicina Monterosso intanto i cantieri hanno continuato a scavare anche mentre si cercavano i morti del 2011. Le ha fermate la Procura della Spezia che ha sequestrato il cantiere per un maxi-parcheggio per 300 auto all’ingresso del paese, a 4 metri da un rio: dove le norme imponevano, salvo studi aggiuntivi qui assenti, una distanza di 40 metri. E quando la Regione, dopo l’alluvione, ha stoppato il cantiere, il Comune ha acconsentito che proseguisse. Il sindaco Angelo Maria Betta (Pdl, fedele dell’onorevole Luigi Grillo che qui ha casa) ha dichiarato: “Quella non è una zona alluvionata”. Chissà. Di sicuro a pochi metri c’è scappato il morto.
Stessa scena in val di Magra, sequestrato il cantiere per un centro commerciale. A pochi chilometri c’è anche il progetto per il mega outlet di Brugnato, che vede coinvolte figure vicine ai vertici del centrosinistra. L’assessore regionale all’Ambiente, Renata Briano, dopo l’alluvione 2011 dichiarava: “Intendiamo salvaguardare la zona con l’inedificabilità assoluta”. Nella stanza accanto la sua collega all’Urbanistica Marylin Fusco (Idv, poi dimessasi perché travolta da scandali e inchieste) rispondeva: “L’area di costruzione non è vicina a zone esondabili”. Per capire quale fosse davvero la situazione basta guardare le fotografie dell’alluvione 2011 in val di Vara, con i suoi morti.Ma anche l’outlet ha sponsor molti forti.
Un altro esempio di “conservazione attiva del territorio”. In attesa della prossima alluvione.
Ha davvero ragione il noto esponente della teologia della liberazione: non è lui a essere pessimista, ma la realtà che descrive dominata dalla cieca speculazione finanziaria accettata più o meno da tutti. Il manifesto, 3 gennaio 2013, postilla (f.b.)
La realtà mondiale è complessa. È impossibile fare un unico bilancio. Tenterò di farne uno relativo alla macro-realtà e un altro alla micro. Se consideriamo il modo in cui i padroni del Potere stanno affrontando la crisi sistemica del nostro tipo di civilizzazione, organizzata nello sfruttamento illimitato della natura, nell’accumulazione anch’essa illimitata e in una conseguente creazione di una doppia ingiustizia (quella sociale, con le perverse disuguaglianze a livello mondiale, e quella ecologica, con la destrutturazione della rete della vita che garantisce la nostra sopravvivenza), e se prendiamo anche come punto di riferimento la Cop 18 sul riscaldamento globale, realizzata alla fine di questo anno a Doha in Qatar, possiamo dire, senza esagerazione: stiamo andando di male in peggio.
Proseguendo su questa strada, ci troveremo di fronte, e non manca molto, a un "abisso ecologico". Finora non si sono prese le misure necessarie per cambiare il corso delle cose. L’economia speculativa continua a proliferare, i mercati sono sempre più competitivi, che equivale a dire sempre meno regolati, e l’allarme ecologico, rappresentato nel riscaldamento globale, viene posto praticamente di lato. A Doha è mancato solo che si desse l’estrema unzione al Trattato di Kyoto. E per ironia nella prima pagina del documento finale, che nulla ha risolto, rimandando tutto al 2015, è scritto: «Il cambiamento climatico rappresenta una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta e questo problema deve essere affrontato urgentemente da tutti i paesi». E non lo si sta affrontando.
Come ai tempi di Noè, continuiamo a mangiare, bere e apparecchiare le tavole del Titanic che sta affondando, ascoltando musica per di più. La Casa sta prendendo fuoco e mentiamo agli altri dicendo che non è niente. Ho due motivi per arrivare a questa conclusione realista che sembra pessimista. Voglio dire con José Saramago: «Non sono pessimista; è la realtà che è pessima; io sono realista». Il primo motivo è la falsa premessa che sostiene e alimenta la crisi: l’obiettivo è la crescita materiale illimitata (l’aumento del Pil), realizzato sulla base dell’energia fossile e con il flusso totalmente libero dei capitali, specialmente quelli speculativi. Questa premessa è presente nei programmi di tutti i paesi, compreso quello del Brasile.
La falsità di questa premessa sta nel fatto che non tiene per nulla in considerazione i limiti del sistema- Terra. Un Pianeta limitato non sopporta progetti illimitati, che non possiedono sostenibilità. Ovvero, si evita la parola sostenibilità che proviene dalla scienze della vita; la vita è non-lineare, è organizzata in reti di interdipendenza di tutti con tutti, reti che mantengono attivi i fattori che garantiscono il perpetuarsi della vita e della nostra civilizzazione. Si preferisce parlare di sviluppo sostenibile, senza tener conto che si tratta di un concetto contraddittorio perché è lineare, sempre crescente, che suppone il dominio della natura e la rottura dell’equilibrio ecosistemico.
Non si arriva ad alcun accordo sul clima perché le potenti multinazionali del petrolio influenzano politicamente i governi e boicottano qualsiasi misura che faccia diminuire i loro lucri e per questo non appoggiano le energie alternative. Cercano soltanto di aumentare ogni anno il Pil. Questo modello è rifiutato dai fatti: non funziona più né nei paesi centrali, come dimostra la crisi attuale, né in quelli periferici. O si trova un altro tipo di crescita che sia essenziale per il sistema-vita, ma che per noi deve rispettare la capacità della Terra e i ritmi della natura, o incontreremo l’innominabile. Il secondo motivo, per il quale mi sto battendo da oltre 30 anni, è più di ordine filosofico. Esso implica conseguenze paradigmatiche: il riscatto dell’intelligenza cordiale o emozionale per equilibrare il potere distruttore della ragione strumentale, sequestrata da secoli dal processo produttivo accumulatore.
Come ci dice il filosofo francese Patrick Viveret in Ripensare la ricchezza, «la ragione strumentale senza l’intelligenza emozionale ci può portare perfettamente alle peggiori barbarie »; basta considerare il ridisegno dell’umanità progettato da Himmler, che culminò nella shoah, nella eliminazione di zingari e deficienti. Se non incorporiamo l’intellighenzia emozionale alla ragione strumentale-analitica, non sentiremo mai il grido degli affamati, il gemito della Madre Terra, il dolore delle foreste abbattute e la devastazione attuale della biodiversità, nell’ordine di quasi centomila specie all’anno (E.Wilson). Con la sostenibilità deve venire la cura, il rispetto e l’amore per tutto quello che esiste e che vive. Senza questa rivoluzione della mente e del cuore andremo, si, di male in peggio.
L’opinione pubblica nazionale e internazionale è stata investita dalla vicenda del Palais Lumière: il nuovo complesso urbano, circa un milione di metricubi, che lo stilista Pierre Cardin sta ottenendo il permesso di costruire, in margine della Laguna. Il progetto per la realizzazione del quale è previsto un investimento di circa 2,1 miliardi di euro, ha la sua emergenza in una torre alta 256 metri: una struttura, alta 66 piani formata dalla sovrapposizione di più cerchi che uniscono 3 torri, nelle quali sono previsti alberghi, ristoranti, appartamenti di lusso La torre sorgerà come lo sgraziato pennacchio di un complesso urbano che comprende circa 35.000 mq di residenze, 25.000 mq di alberghi e ristoranti, 115.000 mq di servizi, direzionale e commerciale, 60 ettari di area verde e circa 100.000 mq di parcheggi, nonché un vasto groviglio di infrastrutture per la mobilità. Il formaggio nella trappola: una manciata di milioni al Comune per l’acquisto dell’area e la promessa di dare lavoro, secondo i promotori, a circa 10.000 persone per la costruzione e a 4.500 persone una volta costruito il complesso, cui si aggiungerebbero circa 2500 lavoratori dell’indotto. I capitali investiti saranno interamente privati (sebbene non si sappia chi li erogherà) Naturalmente anche il guadagno sarà interamente privato: a Parigi sono già in vendita gli appartamenti e i loft che si prevede di costruire.
La mano pubblica dovrebbe “limitarsi” a vendere l’area di sua proprietà (circa 20 ettari) e, soprattutto, ad agevolare le “pratiche burocratiche” che rendano possibile l’intervento, oggi ostacolato da vincoli e destinazioni alternative. Queste "pratiche burocratiche” comprendono la violazione di leggi statali quali quelle per la sicurezza del traffico aereo e quelle per la tutela del paesaggio (anche quelle “aventi il carattere di norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica” (come la legge Galasso del 1985) , e quella delle prescrizioni della pianificazione paesaggistica e urbanistica vigente il cui rispetto impedirebbe la realizzazione del complesso
Lo scempio del paesaggio e quello della legalità
Ma l'argomento meriterebbe un'analisi più attenta di quella che i media gli hanno dedicato anche per altri aspetti, rimasti in ombra, mentre sono decisivi per il futuro dell'area veneziana. Mi riferisco all’enorme spreco di risorse – e in primo luogo di territorio - che la scelta sciagurata degli amministratori di Venezia - ivi compresi i pavidi rappresentanti della sinistra radicale e ambientalista hanno compiuto.
Sembra che nessuno si renda conto che abbandonare qualche decina di ettari alle iniziative immobiliari del magnate franco-veneto significherebbe non solo compiere uno spreco gigantesco di risorse pubbliche ma con ciò stesso impedire interventi essenziali per riorganizzare in modo corretto e lungimirante una vasta porzione dell’area Veneziana : una porzione strategica per la sua posizione (tra le città di Mestre, Marghera e Venezia, la Laguna veneziana) e per la gigantesca dotazione di spazi, in gran parte di proprietà pubblica, abbandonati o in via di abbandono, riccamente infrastrutturati (e pesantemente inquinati).
L’alleanza egemone e la sua strategia
C’è in realtà un’alleanza, almeno implicita, tra chi favorisce o accetta un intervento, quale quello di Cardin, che impedisce ogni diversa utilizzazione dell’area di Porto Marghera, e chi si propone di rendere edificabili le aree rurali ancora intatte tra la Laguna e i fiumi. Quest’alleanza è parte di un più vasto intreccio di interessi (sociali, economici, politici), la cui forza non è solo nella somma degli interessi coinvolti, ma nel fatto di proporre una strategia, un disegno di futuro per l’area veneziana facilmente comprensibile dalla maggioranza dei cittadini: una strategia e un disegno che offrono “crescita e “sviluppo”, e di conseguenza maggiore ricchezza per tutti, facendo leva sulla valorizzazione mercantile di Venezia ottenuta dissipando nell’immediato il patrimonio accumulato nei secoli.
Una “valorizzazione” in cui tutto si lega: dalle operazioni immobiliari dei Benetton e dei Prada nella città storica alle nuove speculazioni al Lido di Venezia, dal mirabolante Palais Lumière di Cardin dalle torme di turisti “mordi e fuggi” gettate nelle calli e nei campi da Grandi navi sempre più capaci e frequenti, fino alle offerte di facili occasioni d’investimento immobiliare nelle new cities sul bordo della Laguna o sulle rive del Brenta (per l’economia di carta non serve edificare, basta la promessa di futura edificabilità). Tutto si tiene. E si scopre quanto sia fragile (sebbene benemerito e, allo stato degli atti indispensabile) l’argine eretto con l’appello alla difesa della bellezza e della legalità.
Per i dettagli tecnici, si rimanda ovviamente a lavoce.info. Ci si limita a riassumere qui gli aspetti più clamorosi e intuitivi di quella critica. Lo studio Fs riguarda la fattibilità socioeconomica dell’opera (“analisi costi-benefici per la collettività”). Non sono stati presi in esame gli aspetti finanziari dell’opera (soldi che entrano ed escono per lo Stato), dato che si assume che non vi siano ritorni finanziari di sorta, e che dunque lo Stato paghi tutto, fino all’ultimo euro.
Dunque, il raddoppio ad Alta Capacità/Alta Velocità della linea Napoli-Bari, lunga 162,3 chilometri, aveva un costo previsto al momento dello studio di 4,052 miliardi di euro. Lo studio è stato fatto da RFI (sezione di FS che si occupa di infrastrutture) un paio di anni fa. Dallo studio Rfi l’opera risulta fattibile, con un beneficio netto per la collettività di 683 milioni di euro. L’analisi critica della Voce, basata su una tesi del Politecnico di Milano, portava il risultato netto per la collettività da +683 milioni di euro a -837 milioni. Cioè l’infrastruttura determinerebbe una vistosa perdita netta di benessere sociale, uno straordinario spreco di soldi pubblici. Ma questo eliminando solo alcuni errori materiali riscontrabili (i principali legati ai costi ambientali), senza entrare in merito all’aspetto più spinoso della faccenda: le previsioni di traffico.
La nuova linea fa risparmiare, sulla base dei dati ufficiali, un’ora e un quarto ai treni passeggeri, e probabilmente un po’ di meno ai treni merci (il dato per questi non è specificato). L’esperienza e la letteratura internazionale evidenziano che se il tempo di viaggio dimezza, il traffico può anche raddoppiare. Ma qui siamo lontanissimi da quel valore! Il traffico previsto dallo studio FS arriva a quadruplicarsi con la nuova linea. Non vengono fornite spiegazioni sul modello usato per raggiungere quell’inverosimile valore. La sensazione è che si tratti di una lieve confusione tra l’offerta possibile (quanti treni ci possono passare), e la domanda (cosa verosimilmente ci passerà).
Ovviamente, se nella revisione dei calcoli sopra presentata si fosse assunta una domanda “verosimile” sulla nuova linea, i benefici sociali prima citati sarebbero ulteriormente crollati, a circa un quarto di quelli stimati (e da noi assunti comunque come veri per essere prudenti nel criticare uno studio altrui).
Uno degli argomenti in difesa delle grandi opere è il seguente: intanto facciamole, poi la domanda arriverà. Illuminante a questo proposito è la linea AV Milano-Torino, costata 8 miliardi, con una capacità di 330 treni al giorno: dopo quattro anni, ne passano 22. Meglio non parlare poi degli aspetti occupazionali: per euro pubblico speso, queste opere occupano pochissima gente.
Ma nei due anni trascorsi da quell’analisi qualcosa è cresciuto: non la domanda di traffico, purtroppo, ma i costi previsti, che sono passati da 4 a 7 miliardi. E parliamo solo di previsioni, i consuntivi tendono ad essere un po’ più alti. Le popolazioni locali qui non protestano, al contrario che nella Valsusa: la situazione economica e sociale è tale che qualsiasi euro pubblico è il benvenuto, e il settore delle opere civili a sud di Roma è spesso controllato da soggetti sociali che non è prudente contrastare, come dice la stessa Corte dei Conti.
Meglio non continuare a chiedere all’oste se il vino è buono.