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La Nuova Sardegna, 31 gennaio 2013 (f.b.)

La matita con cui disegnare la Costa Smeralda di domani, dal Qatar passa nelle mani del Comune. Il piano del petroemirato per cambiare il volto di Porto Cervo, cancellare le rughe della signora del turismo e rinfrescare il suo antico fascino, dovrà essere interpretato come uno schizzo. Una bozza da cui prendere spunto. Un piano non blindato, come sottolinea anche la lettera di accompagnamento al progetto strategico della Costa Smeralda, arrivati dal Qatar nelle mani del sindaco Alberto Ragnedda. Oltre 150 pagine in cui il nuovo proprietario del borgo mette nero su bianco l'idea di Costa Smeralda già illustrata a Doha. Quattro hotel di lusso da 500 posti letto, 70 ville per nababbi, 30 residenze di altissimo pregio, la riqualificazione dell'area di Porto Cervo, una eco-pista di go kart, un parco acquatico. Fra i 7 e i 10 anni i tempi entro cui realizzare l’investimento da un miliardo di euro. Con risposte a partire da quest'anno.

Costa Smeralda Academy. Fra i 500mila metri cubi di mattoni del mini master plan qatarino compare una università. Il sindaco Ragnedda annuncia con orgoglio l’accoglimento della sua personale richiesta. «Tutto il piano è interessante – spiega il primo cittadino –. Ma la parte che riguarda il polo universitario di livello internazionale lo è ancora di più. È un investimento sulla formazione per creare una scuola di alta formazione per manager del turismo. Esiste già un proposta di campus universitario, con discipline ben definite, la collaborazione con le più prestigiose università. Una grande opportunità non solo per i sardi, ma un richiamo per studenti in arrivo da tutto il mondo».

Gli alberghi. Quattro i nuovi hotel pensati per rilanciare il sistema ricettivo Smeraldo e portare i posti letto dagli attuali 400 a 900. Un albergo da 150 stanze a Liscia Ruja con il marchio Harrods; uno al Pevero da 90 chiavi; un family hotel da 200 stanze e uno per clientela giovane da 90 camere nel comune di Olbia, a Razza di Juncu.
Il borgo. Nel piano per completare il borgo vip non ci sono solo nuovi metri cubi da trasformare in edifici, ma anche interventi sulla viabilità, il potenziamento della rete idrica e fognaria, l’ammodernamento delle strade, la realizzazione di piste ciclabili, la costruzione di un parcheggio nel villaggio.

Superabile l'incognita Ppr. Il primo cittadino non nega che con la legge attuale il piano del Qatar rischia di restare solo virtuale. Ma il comune di Arzachena potrebbe aver trovato una strada alternativa alla modifica dello strumento urbanistico. «Non ce lo nascondiamo – commenta Ragnedda –. La normativa attuale non permette di portare avanti il progetto al 100 per cento. La Regione si è detta disposta a modificare il ppr. Ma ci sono procedure alternative che il nostro ufficio tecnico sta valutando. Abbiamo già un parere legale positivo. Esiste la possibilità, su interventi con un elevato interesse pubblico, di creare una sinergia fra Comune, Regione e ministero in grado di superare i vincoli del ppr. Una possibilità di cui parlammo già a novembre con il premier Monti».

Pista di go-kart e parco acquatico. Il Qatar pensa a una eco-pista. 1700 metri di percorso per adulti, più un baby circuito per far correre auto elettriche, capaci di sfrecciare fino a 200 chilometri senza creare inquinamento acustico e ambientale. Confermata la creazione di un parco divertimenti sull'acqua. «Al momento localizzato alle spalle di Liscia Ruja» dice il sindaco, quasi a ribadire che l’acquapark potrebbe traslocare.

Un piano plastico. Il progetto della Costa Smeralda terza edizione è in divenire. Ragnedda lo definisce un progetto plastico. «Come ha precisato lo sceicco nella sua ultima lettera si tratta di un proposta da discutere in un tavolo tecnico, non prendere o lasciare. Uno start per costruire un piano definitivo. Fino a oggi è stato instaurato un dialogo con l'investitore che ha portato all'inserimento della Costa Smeralda academy nello studio di fattibilità della Qatar Holding». Il sindaco risponde indirettamente anche a chi lo accusa di una gestione padronale dell'affaire Qatar. «Vengo accusato di non aver coinvolto il consiglio comunale – dichiara –, ma non so bene cosa avrei potuto portare all'attenzione dell’aula visto che la Qatar Holding ha consegnato il progetto solo ieri. La minoranza verrà coinvolta. Dirò di più. Questo è un piano che siamo pronti a discutere anche con gli ambientalisti».

I tempi. Da investitore a 5 stelle di livello mondiale la Qatar Holdingha le idee chiare anche sui tempi per realizzare la sua Costa Smeralda. Un piano da un miliardo di euro, già deliberato, da spalmare in 7-10 anni. Ma le risposte alla fattibilità del piano dovranno arrivare entro il 2013. L’emirato oggi è lo stato più corteggiato del mondo per la sua disponibilità finanziaria. Senza la certezza del diritto l'amore più volte dichiarato dallo sceicco Al Thani per Porto Cervo potrebbe non bastare.

Nella rubrica lettere del Corriere della Sera Milano, 31 gennaio 2013, rispunta l'idea di Jane Jacobs degli “occhi sulla strada”, che però rinvia a una certa idea di città. Postilla (f.b.)

Gentile signora Bossi Fedrigotti, qualche tempo fa Silvia Vegetti Finzi, ennesima vittima di un furto a domicilio, scrisse un accorato articolo segnalando questa piaga del nostro tempo: i sempre più frequenti furti d'appartamento, che le anime buone rubricano come microcriminalità e che invece sono odiosi reati che scombussolano la vita. I carabinieri le consigliarono di mettere le sbarre alle finestre. Anch'io ho delle sbarre alle finestre, molto robuste, sembrano quelle del terzo raggio. Ma non hanno scoraggiato i ladri che, facendo leva con un cric, hanno scardinato muro e inferriata. Noi eravamo a goderci i campi di lavanda in fiore in Provenza e loro sono entrati in casa dal bagno, hanno arraffato una pochette con dei preziosi e poi sono scappati alle grida di un vicino che aveva udito rumori sospetti.

Siamo tutti assicurati, ma il danno economico c'è sempre. In più ti rimane quel senso di sporco, di profanazione, privati di oggetti cari, carichi di ricordi. Tempo fa facemmo un bel viaggio nel New England per assistere alla spettacolare Indian summer tra i boschi del Vermont tinti di rosso. Ebbene, in ogni villaggio che attraversavamo c'erano i cartelli che segnalavano «Neighbourhood Watch», controllo del vicinato. Io do un'occhiata alla tua casa, tu alla mia, entrambi a quella del vicino, un segno di grande civiltà. Ne scrissi a un giornalino dell'hinterland e ora in alcuni comuni è stata istituita la «Zona controllo del vicinato» con tanto di cartelli che la segnalano. Non è che questo provvedimento risolva il problema alla radice, i malfattori sono bravi, controllano i movimenti degli abitanti, ma ha già sventato un paio di furti. E scoraggia. Altro aspetto importante è che i cittadini si incontrano, verificano, si sentono parte di una comunità, il tessuto sociale si rafforza. A costo zero. Mi rendo conto che nella metropoli questi accorgimenti sono di difficile attuazione, ma vi sono zone che si prestano e l'amministrazione dovrebbe valutare con attenzione e incoraggiare l'introduzione di un simile provvedimento, almeno in zone di villette che a Milano sono numerose.
Luigi Rancati

Questa preziosa attenzione reciproca, un tempo abituale nei piccoli centri, si chiama controllo del territorio e non riguarda solo la sicurezza delle case, ma anche quella dei soggetti più deboli del quartiere come bambini e anziani, facili prede dei malintenzionati. Riorganizzarlo in alcune contrade della metropoli potrebbe, chissà, essere compito dei Consigli di zona. Comunque nel caso suo direi che il controllo abbia funzionato: le urla del vicino hanno, infatti, impedito che i ladri facessero razzia peggiore.
Isabella Bossi Fedrigotti

postilla
Quello che forse l'intelligente lettore del Corriere non sa, è che sul tema della sicurezza nel quartiere, da Robert Parks attraverso Clarence Perry sino a Jane Jacobs e ai suoi infiniti epigoni, si sviluppa l'idea stessa di quartiere urbano, evoluzione scientifica di quella solidarietà proprietaria di villaggio che rileva nell'ambiente suburbano-rurale del Vermont. Una migliore consapevolezza di questo particolare rapporto fra spazio e società, forse eviterebbe anche certe distorsioni securitarie del pensiero progressista, magari a soli fini elettorali (f.b.)

Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2013, postilla (f.b.)

MILANO - Niente linea 4 della metropolitana milanese, né Pedemontana né Tangenziale Est esterna di Milano (Tem). Queste sono solo alcune delle opere infrastrutturali che non saranno realizzate in tempo per Expo 2015. Lo afferma Assolombarda, l'associazione che riunisce gli imprenditori milanesi, durante la presentazione del rapporto Oti avvenuta, ieri, a Milano. «L'unica infrastruttura autostradale che sarà completata in tempo utile – dice il vicepresidente Giuliano Asperti – è la Brebemi (direttissima Brescia-Milano), per la quale i lavori sono già al 65% e dovrebbero concludersi entro il 2015 senza problemi».

E le altre autostrade? «Di Pedemontana - continua Asperti - sarà nel migliore dei casi completata solo la bretella di collegamento tra le autostrade A8 e A9; per quanto riguarda la Tem si dovrebbe riuscire a ultimare soltanto il cosiddetto arco Tem, cioè quel tratto di tangenziale che unirà la Cassanese alla Rivoltana per smaltire il traffico di Brebemi ed evitare che la nuova autostrada sfoci in aperta campagna». Nubi si addensano sulla continuità finanziaria di Pedemontana e Tangenziale esterna: complessivamente occorre ancora reperire un miliardo di euro di capitale sociale e quasi 4,5 miliardi a debito sui mercati finanziari. Visti i tempi, con la crisi che continua a mordere, non c'è alcuna certezza che l'operazione vada in porto con successo.

Nemmeno la quarta linea della metropolitana milanese (M4) vedrà la luce entro il 30 aprile 2015, vigilia di Expo, mentre sono stati abbandonati i progetti per le vie d'acqua, per le vie di terra, per una sesta linea della metropolitana e per una variante della strada statale Varesina. Questi sono solo alcuni dei progetti che non prenderanno corpo in tempo per Expo 2015, mentre tra quelli a rischio slittamento Asperti individua «le aree a parcheggio, il collegamento tra la statale 11 e la Varesina» e altro ancora.

«Queste infrastrutture - commenta Alberto Meomartini, presidente di Assolombarda - sono opere vitali per la Lombardia e, di conseguenza, per l'Italia, che è collegata all'Europa e al mondo tramite questa regione. Chiunque governerà il territorio lombardo troverà in Assolombarda un alleato critico e autocritico, ma in ogni caso si dovrà insistere, insistere, insistere per adeguare le nostre infrastrutture agli standard mondiali e restare competitivi. Basta con gli escamotage, le merci e i passeggeri in circolazione nel mondo sono in aumento e c'è necessità di servizi adeguati al loro trasporto».

Postilla
Si parla negli ultimi giorni, dietro le quinte ma non troppo, della contraddizione abbastanza evidente fra dichiarate adesioni a un modello di sviluppo “sostenibile” per la ex padania felix, e realtà dei processi in atto, nonché di una consolidata cultura intrecciata con altrettanto consolidati interessi. Basta scorrere le dichiarazioni dei candidati (per esempio quelle riportate ieri anche su questo sito) per capire che spesso ci si arrampica parecchio sui vetri, nel tentativo di far quadrare il cerchio. L'alternativa, forse, potrebbe essere quella di scaricare, aiutati dalla fine della Emergenza Expo, anche il modello territoriale disperso ed energivoro che sinora si è portata appresso. Scaricando in modo esplicito e fermo anche certe culture, ahimè assai ben rappresentate nel sottobosco delle candidature “progressiste” e delle consulenze, elettorali e future. Si è ascoltato ultimamente qualcuno dire che “La Città Infinita è Finita”: non bastano le chiacchiere per gonzi, anche quando le si elargisce coi soliti toni ispirati e lo sguardo sognante (f.b.)

Il modello di sviluppo turistico suburbano costiero tanto amato da generazioni di amministratori sardi, e il suo automatico rovescio della medaglia: il degrado urbano, o peggio sociale

La Costa Smeralda si prepara ad accogliere ruspe e mattoni per il più consistente intervento edilizio dai tempi del Principe Aga Khan. Niente di nuovo sotto il sole: l'obiettivo dichiarato è quello di “svecchiare la clientela abituale” e attirare nuovi frequentatori, più giovani e super ricchi. Questo l'intento della nuova gestione della Costa Smeralda made in Qatar. Il tutto è ancora in fase di definizione e le proposte progettuali dovranno essere valutate dagli uffici, ma niente lascia presagire che gli attuali rendering non vedranno la luce.

Rendering di un progetto

La stampa dedica tutta l’attenzione sui progetti destinati alle coste, senza tuttavia occuparsi né della città di Olbia attorno a cui ruota questo processo, né del chiaro intento di archiviare definitivamente il Piano Paesaggistico Regionale varato dalla giunta regionale di Renato Soru. In questa parte di Sardegna la classica visione dello sviluppo territoriale saldamente legata a grandi flussi di denaro, volumi e aumenti di cubature beneficia, più che altrove, delle concessioni previste dai più recenti strumenti legislativi in materia di (sedicente) rilancio economico, ciclicamente riconfermati. Ora come allora.

Il processo di specializzazione turistica e di elitarizzazione della costa nord-orientale sarda sembra, dunque, più vivo che mai e volgendo lo sguardo verso l'entroterra la situazione, per altri versi, non appare meno segregata. Propongo di seguito alcune considerazioni sulla città di Olbia che scaturiscono da una riflessione più ampia maturata nell’ambito di una ricerca nazionale su “Spazi pubblici, popolazioni mobili e processi di riorganizzazione urbana”.

Olbia costituisce la realtà urbana più significativa dell’area nord-orientale della Sardegna per numero di abitanti, concentrazione di attività economiche e servizi e al tempo stesso rappresenta l'emblema della debolezza di un sistema territoriale incapace innanzitutto di individuare una propria vocazione che, da un lato, sia alternativa a quella di incubatore di manodopera estiva per i vari resort limitrofi e, dall'altro lato, si proponga semmai di investire e promuovere le risorse del luogo - e il luogo stesso - in una logica più articolata e di lungo termine.

Già a partire dall'organizzazione della città di Olbia è possibile cogliere una serie di elementi che tradiscono un certo caos di fondo. Attraversare la città è un ottimo esercizio per capire i meccanismi che regolano un sistema urbano e nel caso di Olbia questa pratica consente di mettere insieme vari pezzi di un puzzle che a fatica si incastrano perché l'immagine di città che dovrebbero formare non è affatto definita.

A titolo d'esempio può essere utile adottare come prospettiva di osservazione gli spazi pubblici urbani. In una città cresciuta freneticamente negli ultimi cinquant'anni, sulla scia del boom della Costa Smeralda, l'accumulazione disordinata di manufatti destinata ad accogliere le nuove popolazioni inurbate ha di fatto prevalso su qualsiasi ragionamento attorno alle modalità con cui governare l'espansione in atto. Con i risultati che si possono osservare oggi: una città largamente inclusiva per quanto riguarda la circolazione automobilistica e assai carente su molti altri versanti. Primo fra tutti, gli spazi destinati all'incontro e alla socialità.

Barriere all'acessibilità del parco
(foto Sara Spanu)

Basti pensare che è tutto sommato recente la riqualificazione di un'area ex demaniale, il cosiddetto parco urbano “Fausto Noce”, in pieno centro olbiese, forse l'unica area della città abbastanza estesa da consentirne un utilizzo diversificato in termini di attività sportive o più semplicemente per svago e intrattenimento. Seppur isola felice in mezzo al traffico, frequentata da numerosi visitatori, il parco urbano si presenta come un'occasione mancata. Intanto per via del fatto che non si apre per nulla agli spazi adiacenti, mentre risulta fortemente rinchiusa entro confini e recinti, addirittura fiancheggiata dalla presenza di corsi d'acqua invalicabili, quasi fosse una fortezza.

E in effetti l'idea di una realtà un po' segregata la trasmette: non solo per via degli orari e dei punti di accesso, che evidentemente ne regolano la fruizione, ma anche per come lo stesso spazio è organizzato all'interno. Parte del parco è riservata a strutture sportive anche importanti, il cui utilizzo tuttavia è prerogativa di atleti e società sportive, e l'accesso strettamente riservato. Gli spazi di libera fruizione si sviluppano attorno alle strutture presenti, talune persino in grave stato di degrado, e non sembrano rivestire la funzione prioritaria che ci si attenderebbe da un parco pubblico, ossia essere un luogo di identificazione, attrazione e destinato a favorire usi e accessi diversificati da parte di popolazioni eterogenee.

Gli utenti esclusi dal verde
(foto Sara Spanu)

Su piccola scala l'organizzazione di questo spazio ricalca ciò che si replica anche appena fuori dai cancelli, ovvero il prevalere di una fruizione della città fortemente individualizzata, a forte orientamento automobilistico sia dal punto di vista della percezione che della fruizione, che scoraggia un uso diffuso degli spazi collettivi: sia perché spesso mancano, sia perché sono colonizzati da altri usi. Anche in questo caso è sufficiente attraversarla a piedi (modo di trasporto evidentemente considerato marginale da chi la città la progetta e organizza e governa) per rendersi conto rapidamente che la mobilità pedonale non sempre è stata contemplata nelle scelte spaziali, stata lasciata più che altro al caso o a soluzioni di tipo fai-da-te. Analogamente, la crescita disordinata e non pianificata della città si intuisce anche dalla scarsità di slarghi e piazze, c'è poco o nulla per favorire le relazioni e il senso di identificazione, come coltura della dimensione pubblica e collettiva della città.

Certo ribaltare una situazione pregressa sarebbe operazione tutt'altro che semplice, ma forse basterebbe cominciare da iniziative che tendano a riqualificare sia gli spazi che gli usi. Molte realtà urbane ci sono riuscite, se si pensa alla riappropriazione del waterfront da parte di città come Barcellona e Genova in epoca recente. Anche a Olbia un po' è percepibile un tentativo del genere, che però non si configura certo come disegno complessivo entro cui gli interventi puntuali indichino una logica, una strategia. Viene da chiedersi: gli sforzi in qualche modo messi in atto, che tipo di effetti intendono produrre e, più in generale, a quale idea di città si ispirano?

Più che rientrare in un progetto di città a lungo termine, orientato ad accrescere la qualità urbana degli spazi, l'idea di Olbia che emerge osservando i suoi spazi e l'uso che i cittadini provano a farne, corrisponde alla logica cumulativa che se ieri è servita nel bene e nel male ad assecondare l'espansione demografica e territoriale, oggi non attribuisce né potrebbe attribuire agli spazi della città un'identità lasciata in sospeso, proprio a causa di una crescita troppo rapida e mal gestita. Per provare a farlo ci si affida ad una prassi consolidata in voga nelle città contemporanee, di ricorrere all'inserimento di manufatti architettonici di richiamo.

Invece di una piazza, un'architettura
(foto Sara Spanu)

Ma il dubbio torna: con quale finalità? L'inaugurazione della Piazza Mercato in seguito al restyling di qualche anno fa venne presentata come occasione per rilanciare il centro storico: una maestosa copertura di vetrate ondulate e ferro che sovrasta un parcheggio interrato. Anche non mettendo nel conto il fatto che un errore di progettazione rende ad oggi inutilizzabile quel parcheggio (e in sostanza anche la piazza un luogo malsano se non addirittura pericoloso) è difficile ritenere che il rilancio del centro antico olbiese possa dirsi in qualche modo iniziato: l'operazione, come altre, non sembra rientrare in strategie più complesse di intervento in grado di rispondere in maniera articolata a esigenze differenti. In altre parole, manca un ripensamento complessivo dell'organizzazione della città e dei suoi spazi non in termini di occasioni di rilancio economico o singoli manufatti da ostentare, ma di qualità urbana e quindi di accessibilità, flessibilità, sicurezza.

I centri commerciali di modello extraurbano, qui come altrove e probabilmente a maggior ragione, sopperiscono alla cronica mancanza di qualità urbana che Olbia evidentemente non è in grado di offrire, specie in termini di spazi in cui incontrarsi e stare insieme. E qui persino l'aeroporto si propone a sua volta - in un'accezione provocatoria - come “spazio pubblico” di supplenza, ma di fatto in aperta concorrenza alla città. Alla funzione originaria di scalo e terminale, se ne affiancano altre, localizzate qui e non a Olbia centro, che di fatto sottraggono energie e risorse alla città vera per spostarle altrove e sottoporle a ben altri meccanismi. In tutto questo, spicca l'assenza di una guida politica autorevole capace di porre un freno al progressivo impoverimento urbano, innanzitutto di tipo sociale e culturale, offuscato da investimenti miliardari e sedicenti piani di sviluppo locale.

La Repubblica Milano, 30 gennaio 2013 (f.b.)

LA CRISI ha colpito duro, negli ultimi anni, anche il settore delle costruzioni, con un calo della produzione del 22,1 per cento, che tradotto fa 44.500 occupati in meno nell’edilizia. Per il rilancio, ieri l’associazione dei costruttori, l’Ance, si è rivolta ai candidati presidenti che si sfidano per la Regione. Prima Roberto Maroni, poi Umberto Ambrosoli, infine Gabriele Albertini hanno ascoltato a lungo i delegati di tutta la Lombardia, dibattendo con loro sui singoli programmi e portando via, alla fine, il documento con le 22 richieste che l’associazione fa a chi vincerà. Le principali: con un occhio di riguardo alla green economy applicata all’edilizia, Ance chiede più incentivi per gli operatori virtuosi che utilizzino sistemi di costruzione ecologici e biocompatibili; un intervento sulla disciplina delle opere di urbanizzazione a scomputo; un piano di piccole opere infrastrutturali, con interventi immediatamente cantierabili da parte dei Comuni (questo creerebbe anche un circolo virtuoso sull’occupazione e sulle economie locali), l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti oggi nelle mani solo dei grandi cartelli. A proposito di appalti: visto l’aumento dei casi di infiltrazioni mafiose nell’edilizia lombarda, la richiesta è quella di un albo degli operatori da cui i Comuni e gli enti locali possano prendere nomi sicuri e puliti. E ancora, i costruttori chiedono — non solo loro — uno snellimento della burocrazia e un maggior coinvolgimento nelle scelte della Regione.

Ambrosoli:Stop alla Pedemontana e a tutte le opere inutili

LE INFRASTRUTTURE? Finire quelle già avviate, cancellando invece dal libro dei sogni (o degli incubi) quelle progettate e mai partite per mancanza di fondi. Il programma del candidato del Patto Civico Umberto Ambrosoli affronta ampiamente il tema delle grandi opere viarie, del consumo di suolo, del costruire ecosostenibile. Partendo sempre da un presupposto: vanno rivisti i piani “cesaristici” degli anni passati. Sulle autostrade, quindi, si concluderà la già quasi completa Brebemi e le opere previste nel dossier di presentazione di Expo (come le strade di accesso al sito), mentre è probabile — utilizzando il “metodo Castellano” usato per il piano parcheggi di Milano — l’addio a Pedemontana, Tem, alla Broni Mortara perché «bisogna non solo valutare costi non più sostenibili, ma anche se queste opere servono davvero », spiega Andrea Boitani, esperto di Economia dei trasporti e candidato nella lista Ambrosoli. L’idea è quella, in caso di vittoria, di commissionare una valutazione indipendente di tutte le opere infrastrutturali programmate per decidere quali salvare.

Punto fondamentale del loro programma è, poi, l’obiettivo zero consumo di suolo, attraverso il riuso delle aree urbanizzate e del patrimonio edilizio esistente: «Un progetto non in contrapposizione con le richieste dei costruttori — spiega il candidato presidente — , perché costruire vuol dire anche ri-costruire, utilizzando tutte le forme di risparmio energetico e ambientale, per coniugare lavoro, sviluppo e ecosostenibilità». Per fare tutto questo, però, c’è una precondizione: «Riformare la legge 12 sul governo del territorio», che è quello che chiede anche l’associazione dei costruttori.

Albertini:Ok ai progetti avviati edilizia a impatto zero
GABRIELE Albertini, candidato alla presidenza con la lista Movimento Lombardia civica e sostenuto anche dall’Udc, promette di colmare il “gap” della Lombardia sulle grandi opere autostradali rispetto alle altre reti europee. Al primo posto, «il completamento in tempi più rapidi» di Brebemi e Tem, la nuova tangenziale esterna. Progetti che definisce «nevralgici». Di primaria importanza non solo in vista di Expo Milano 2015, ma per rispondere alle esigenze di chi opera e produce.
Un capitolo a parte del suo programma è dedicato alla tutela del suolo. Albertini propone un piano di edilizia a impatto zero. Attraverso l’attuazione della legge Sviluppo già approvata dalla Regione che anticipa al 2015 gli standard edilizi europei fissati al 2020. Tutti gli edifici di nuova costruzione privati o pubblici dovranno essere ad altissima prestazione energetica con fabbisogno molto basso o quasi nullo e coperto in misura significativa da materiale rinnovabile.

Inoltre, Albertini promette una politica di governo del territorio che imponga a tutti i comuni lombardi criteri più razionali per la costruzione di nuovi edifici ad uso residenziale, produttivo di servizio. Privilegiando le aree già servite da reti di trasporto e di utilità; creando distretti ambientali e produttivi; recuperando aree dismesse; riqualificando il patrimonio edilizio esistente.
Nel programma, una nuova legge sulle cave e il settore estrattivo che favorisca il riutilizzo delle materie prime, impedisca l’abusivismo e obblighi alla bonifica e al recupero delle aree contaminate. Un nuovo piano straordinario per la valutazione dei rischi naturali, idrogeologici, sismici, industriali.

Maroni: Credito in volumetria a chi risparmia terreno

ROBERTO Maroni, candidato di Pdl e Lega alla presidenza nel suo programma punta sulle infrastrutture. Propone in primo luogo una forte accelerazione nella realizzazione di Pedemontana, Tem e Brebemi. Opere che definisce «prioritarie », già avviate dalla Regione con l’amministrazione uscente. «Ogni miliardo di euro destinato allo sviluppo delle infrastrutture — sostiene infatti Maroni — genera 20mila nuovi posti di lavoro». Un capitolo del programma del candidato del centrodestra è dedicato all’urbanistica. Al primo posto, l’attenzione alla qualità delle aree urbane. Tra le priorità: l’uso razionale del suolo; introdurre un credito in volumetria se si evita di consumare nuovo suolo; la definizione di parametri stringenti che permettano lo sviluppo di nuove realizzazioni solo in rapporto con l’aumento demografico; il rafforzamento del riuso dei terreni e degli immobili dismessi e del patrimonio sottoutilizzato; l’introduzione di norme per promuovere e premiare i progetti che riutilizzino il tessuto urbano.

Inoltre, Maroni propone di utilizzare la leva della defiscalizzazione per incentivare l’utilizzo delle aree dismesse. E di premiare i progetti edilizi che puntino al recupero dei centri storici. L’ipotesi è quella di determinare dei coefficienti per definire la superficie utile coperta meritevole di “premio” e favorire così interventi di recupero nei piccoli Comuni. Privilegiando quelli che riguardano edifici a uso residenziale o commerciale «e in misura inferiore i progetti per il recupero di edifici destinati ad attività di artigianato e servizi».

Un libro che racconta di un' Italia in cui si credeva, come negli altri paesi dell'Europa, che ogni livello di governo che ha competenze sulle trasformazioni del territorio, deve rappresentare i suoi programmi e progetti in un documento unitario: un piano territoriale o urbanistico. Anche lo Stato. Oggi chi decide è convinto che la confusione aiuti far dominare i più potenti... scritto per eddyburg, 30 gennaio 2013

Cristina Renzoni, Il Progetto '80: un'idea di paese nell'Italia degli anni Sessanta, Firenze, ed. Alinea, 2012.

Ancora una tornata elettorale nella quale le città e il territorio sono sostanzialmente assenti dal discorso pubblico. Dieci anni fa, una lettera aperta sottoscritta da molti autorevoli urbanisti chiedeva invano al direttore di Micromega le ragioni del silenzio della cultura progressista su questo tema. Oggi circolano in rete nuovi appelli, promossi da movimenti e associazioni, che testimoniano quanto meno un'accresciuta attenzione, anche al di fuori dell'esigua cerchia degli urbanisti. Dalla politica, tuttavia, nessuna risposta allora e nessuna novità significativa oggi.
Non è sempre stato così, come ci ricorda un libro di Cristina Renzoni, ben costruito e ben scritto, sul «Progetto 80», il Rapporto preliminare al secondo programma economico nazionale 1971-75 (1).

Per chi, come me, ne aveva una conoscenza superficiale, ricordiamo che si trattava di un documento ministeriale propedeutico alla formazione dei programmi economici quinquennali, con i quali il governo di centro-sinistra allora in carica si proponeva di guidare lo sviluppo sociale ed economico del paese in una fase di cruciale trasformazione. A questo scopo, le Proiezioni territoriali (2) delineavano, con il loro apparato di tabelle, cartogrammi e testi, uno scenario strategico di assetto territoriale a scala nazionale.
La tentazione di rileggere i contenuti del progetto 80 alla luce della situazione attuale è molto forte. Renzoni ci mette in guardia dal rischio di appiattire i giudizi sull’antinomia sviluppo-declino, invitando a liberarsi «dalla categoria scomoda e riduttiva del fallimento» dell’urbanistica. Con questa avvertenza, mi soffermo brevemente su alcune questioni, a mio avviso fondamentali per il periodo che stiamo attraversando.

Le scelte relative all’assetto del territorio, come è noto, hanno uno stretto legame con lo sviluppo economico, il benessere sociale e il progresso civile.
Il progetto 80 si spingeva fino a considerare la dimensione territoriale dello sviluppo come parte fondamentale di un complessivo «progetto sociale». Nelle proiezioni territoriali i caratteri specifici del territorio nazionale venivano posti a fondamento dell’assetto territoriale programmato, ipotizzando una relazione virtuosa tra un policentrismo organizzato ed equilibrato e la trama dei beni ambientali e culturali riassumibile nello slogan: una nazione di città inserite in un territorio-parco.
Nei decenni successivi le cose sono andate diversamente. L’approvazione del progetto 80 è avvenuta quando l’esperienza di governo nazionale del centro-sinistra si era di fatto esaurita. Da quel momento in poi, le politiche nazionali e locali hanno di fatto assecondato le dinamiche spontanee, con gli esiti che tutti conosciamo. In particolare, lo Stato ha rinunciato a definire le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale, non riconoscendo queste ultime come uno strumento essenziale per armonizzare l'attività delle regioni e degli enti locali (3).

Oggi sarebbe anacronistico e persino indesiderabile ipotizzare un programma nazionale, imposto dall’alto. Tuttavia, la definizione di una cornice strategica di ampio respiro potrebbe utilmente indirizzare tanto le politiche nazionali, quanto l’azione delle regioni e degli enti locali. Volendo essere ambiziosi, le linee fondamentali di assetto territoriale dovrebbero preludere ad una condivisione di responsabilità, fra Stato ed enti locali, ciascuno chiamato a svolgere il proprio compito alla scala di propria competenza. Senza arrivare a tanto, l’esistenza di un esplicito programma complessivo sarebbe comunque preferibile all’attuale sistema di selezione delle opere e dei settori beneficiari delle risorse pubbliche che, con molta benevolenza, possiamo definire opaco e miope.
Se è improbabile che, a breve, lo Stato torni ad occuparsi del territorio con l’attenzione e il respiro necessari, confidiamo che il prezioso libretto di Cristina Renzoni offra l’occasione almeno per tornare a parlarne, interrompendo un silenzio durato troppo a lungo.

Note.
(1) Il rapporto è stato pubblicato nell’estate del 1969 da parte del Ministero del bilancio e della programmazione e approvato dal Cipe nel dicembre dello stesso anno.
(2) Le Proiezioni territoriali sono un documento allegato al programma che venne pubblicato autonomamente. Una sintesi è contenuta nel numero 57 della rivista «Urbanistica», allora diretta da Giovanni Astengo.
(3) Nella ripartizione delle funzioni amministrative tra Stato e Regioni, prevista con il Dpr 616/1977 e sviluppata nel Dlgs 112/1998, lo Stato si è riservato il compito di identificazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale. Lo stesso compito, con «finalità di indirizzo» della pianificazione paesaggistica regionale, è attribuito al Ministero per i beni e le attività culturali dall’art. 145 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, approvato con Dl 42/2004.

Il Fatto quotidiano, 29 gennaio 2013, postilla (f.b.)

Il destino di una spina di verde selvaggio e planiziale padano – sorta spontaneamente nella porzione della Darsena dei Navigli semi-prosciugata e abbandonata per anni per colpa di un progetto poi abortito di parcheggio sotterraneo – ha agitato le anime del centrosinistra milanese. Quella spina verde ha attirato decine di specie di avifauna e qualche anfibio e su questa esperienza di natura urbana sono sorti il gruppo e le proposte di Darsena Pioniera.

Gli ultimi fatti

Nell’assemblea convocata dal Comune la sera del venerdì 25 gennaio per illustrare il progetto Darsena si è definitivamente consolidata ed esplicitata la posizione della Giunta Comunale di demolire la cosiddetta “oasi naturale” della Darsena. Le ragioni addotte da Confalonieri (responsabile per il Sindaco dei progetti Expo) e dalla De Cesaris (assessore all’Urbanistica) sono state quelle della tempistica tecnico-amministrativa che impedirebbe di mettere in atto la necessaria variante senza perdere il già difficile treno per arrivare a marzo 2013 con la Darsena rifatta. C’erano anche però vari esponenti (per lo più di area Pd e/o Comitato Navigli) apertamente contrari a quello che un oratore ha definito l’insulto che un paio di isole vegetali porterebbero alla monumentalità della Darsena. Hanno definito “saggia” la “decisione” del Comune, lasciando intendere di non credere che solo di valutazioni di tempistica si sia trattato (ma di una scelta di scartare l’Oasi).

Nel finale dell’assemblea, l’assessora De Cesaris ha accusato Darsena Pioniera di essersi fatta viva solo tre mesi fa (“ho le mail”). Ma Darsena Pioniera aveva indirizzato le sue prime missive post elezione diPisapia all’assessore Maran, ignorando che la questione fosse di competenza della De Cesaris. Gli assessori non comunicano tra loro? Al di là di questa curiosa diatriba restano due fatti: a) che la Giunta Pisapia e la maggioranza comunale, nonostante alcuni interessamenti episodici, non avevano considerato l’opzione rappresentata dall’oasi e dalla presenza dell’avifauna e b) che una forte battaglia di pressione, con coinvolgimento di stampa e consigli di zona è stata condotta da Darsena Pioniera e dai suoi alleati solo dopo le vacanze estive del 2012, quando già era stato approvato un progetto che non prevedeva l’oasi.

Milano potrebbe amare i suoi spicchi di natura?
L’Amministrazione Comunale e lo stesso consiglio comunale non hanno mostrato complessivamente una particolare sensibilità alle nuove tendenze internazionali sul tema verde urbano, con valorizzazione delle biodiversità e delle forestazioni naturali, e l’esperienza di Bosco in Città è rimasta più che altro fuori città.

Nello specifico dell’Oasi della Darsena c’è da dire però che contro l’ipotesi “pioniera” hanno giocato anche due potenti fattori, (che hanno anche influenzato la Amministrazione Comunale) ovvero: 1) ilmalumore della popolazione verso la situazione di stallo e di abbandono della Darsena, che portava in prima istanza a identificare i difensori dell’oasi come i difensori del degrado (sindrome della “pantegana”) e 2) la presenza di una corrente fondamentalista ‘rivogliamo la Darsena com’era’ che anche di fronte alla illustrazione di un’ipotesi di isolette non era disposta ad accettare alcuna mediazione. Non erano disposti neanche ad entrare nel merito dell’altezza degli alberi o della vastità delle isolette.

E’ probabile che di fronte a una presentazione “alla pari” delle varie ipotesi, quella di tenere viva una parte dell’oasi nella Darsena avrebbe potuto prevalere nell’opinione pubblica, come dimostra il 75% dei voti a un sondaggio aperto da Gazzetta.it. Ma non ce n’è stata la possibilità, e in ogni caso sarebbe stata dura.
E’ comunque notevole che la controversia abbia agitato non poche persone, in Internet, tra gli architetti, tra gli ambientalisti, nel mondo politico comunale e anche sui giornali.
Anche chi non ha capito che “dal letame nascono i fiori” e ha continuato a dileggiare “erbacce e rospi” potrà convenire che se le ruspe porteranno via il verde spontaneo della Darsena, però l’idea della opportunità e possibilità di oasi urbane di biodiversità si è fatta strada a Milano attaverso questa discussione. Anche perché – particolare da non trascurare – costano molto meno in termini di manutenzione rispetto al tradizionale verde artificiale urbano.

I rappresentanti dell’Amministrazione l’altra sera hanno detto che intendono realizzare nella stessa Darsena, o meglio nel suo lembo più occidentale, un’analoga vegetazione per 2.500 metri quadrati capace di attirare l’avifauna. Non sarà visibile come quella che viene soppressa, ma a questo punto è importante che ci provino davvero a farla, e da subito.
E poco più a sud, a poche centinaia di metri, tra i due Navigli c’è una fantastica Cascina mezza diroccata in mezzo a aree verdi non curate da anni, con alberi e cespugli, i rovi dell’abbandono, e una roggia che ha sempre acqua. Si rifugeranno lì anche le gallinelle e gli aironi? Dipende anche dagli umani, da chi vuole avere nella città spicchi di calma e di biodiversità.

Postilla
La questione forse non è tanto se amare o meno la natura, cosa che in un modo o nell'altro facciamo tutti, visto che ne facciamo parte e ci viene spontaneo. Dal punto di vista delle strategie urbane (e metropolitane), come pure ricorda Hutter, è indispensabile inserire coerentemente e gradualmente elementi naturali nella rete sinora artificiale e comunque squilibrata della città. Forse l'agire per progetti simbolo come quello della Darsena non basta e in fondo non serve, almeno finché le scelte puntuali non troveranno il modo per fare sistema, magari individuando priorità e sinergie che per ora appartengono solo alle "infrastrutture grigie" (f.b.)

Promesse elettorali, di solito a vanvera o regressive, sull'insediamento dei negozi: conta l'urbanistica, rigorosamente dimenticata. La Repubblica Milano, 29 gennaio 2013, postilla (f.b.)

È il mondo delle imprese e del commercio, che ieri ha lanciato il suo grido di dolore, che è diventato terreno di caccia nella corsa al Pirellone. Sono loro i grandi corteggiati dai principali candidati presidenti. Che cercano di gettare ponti e parlare il linguaggio delle imprese infarcendo le liste di nomi acchiappavoti che arrivano dalle stanze di Confcommercio. Candidature civiche, soprattutto, nelle formazioni che portano il nome di Umberto Ambrosoli (Alfredo Zini), Roberto Maroni (Anna Lucia Carbognin e Piergiorgio Trapani), nella lista di Gabriele Albertini (Costante Persiani) e in quella, apparentata con Pdl e Lega, di Giulio Tremonti (Alessandro Prisco). Ma anche, naturalmente, dettando le loro promesse. A cominciare dalla più ardita, quella del leader del Carroccio, che ingaggia una battaglia contro i giganti al grido di una «moratoria sulla costruzione di nuovi centri commerciali», per valorizzare «il piccolo commercio e i negozi di vicinato». Un nuovo tormentone scandito però, in quella stessa Lombardia governata negli ultimi 18 anni da Pdl e Lega. In cui, dal 2005 al 2012, i metri quadrati delle grandi strutture di vendita sono passati da 3 a 3,8 milioni: il 25 per cento in più.

Numeri e insegne. Spuntate alle periferie delle città. Dalla Bergamasca a tinte azzurro-verdi a Tradate. Nella culla del Carroccio, il Comune ha approvato la costruzione di un mega polo da 80mila metri quadrati. Manna per le casse del Comune (8,5 milioni di oneri di urbanizzazione) e un entusiasta (correva l´anno 2006) sindaco leghista: «Un progetto che cambierà il volto del territorio», disse Stefano Candiani, fedelissimo di Maroni e oggi responsabile della sua lista civica. Segrate (sindaco Pdl, vicesindaco leghista) sta aspettando il cantiere del "Westfield Milan", descritto come uno degli spazi vendite più grandi d´Europa. «L´accordo urbanistico porta anche la firma dell´allora assessore regionale Boni», spiega il sindaco Adriano Alessandrini. E, nonostante un voto contrario del Carroccio in Consiglio comunale nel 2009, assicura: «La maggioranza è a favore di un piano che porta servizi». Damiano Di Simine di Legambiente ricorda la battaglia (vinta) contro un grande punto vendita a Brugherio spinto «da un sindaco leghista». Perché, alla fine, i "sì" arrivano. Di ogni colore politico.

È la Regione ad avere voce in capitolo sugli spazi più vasti. Solo nell´ultimo anno, dalle conferenze di servizio sono arrivate 20 autorizzazioni per nuove costruzioni o allargamenti. Senza tornare al passato e ai casi giudiziari (ancora aperti), con l´ex assessore Boni coinvolto nell´accusa per una presunta mazzetta per l´ok della Regione alla «realizzazione di un centro commerciale in località Albuzzano (Pavia)». «Basta ipocrisia», protesta Arianna Cavicchioli del Pd. «Basta guardare quanti nuovi imponenti centri sono fioriti sotto l´era Formigoni-Gibelli per rendersi conto che la Lega non ha difeso gli interessi dei commercianti». Sel ricorda un ordine del giorno presentato a febbraio 2012 per «una moratoria di cinque anni per l´autorizzazione alla realizzazione di nuove strutture della grande distribuzione». Bocciato dal Consiglio.

Davide (che tutti i candidati vogliono tutelare) contro Golia. Il suo stop, Maroni l´ha lanciato proprio durante il convegno di Rete Imprese Italia. È sempre lì che Albertini (anche lui scandisce «lavoro, lavoro, lavoro») ha chiuso la porta alla proposta: «Anziché bloccare gli investimenti economici che comunque sono sviluppo, bisognerebbe cercare di favorire l´unione dei piccoli in consorzi». Ambrosoli, che la scorsa settimana è andato anche ad ascoltare le richieste di Confindustria, ha inviato un messaggio: «Ho deciso di puntare tutto sul lavoro, voglio mettere in moto un circuito virtuoso fatto di una ricchezza sana e duratura che riesca a non lasciare indietro nessuno», la sua promessa. Alla voce "commercio" del programma la necessità di un nuovo «impianto normativo» (tra i punti: «compatibilità con gli indirizzi urbanistici, salvaguardia ambientale, tutela della salute e del lavoro») per i centri commerciali con l´obiettivo di arrivare a un giusto equilibrio. E incentivi ai Distretti urbani del commercio.

Postilla
Ovvio, che in campagna elettorale si faccia di tutto per catturare consensi, ma colpisce egualmente che in un lungo articolo che trabocca di dichiarazioni (a vanvera, appunto) grondanti di temi territoriali, ambientali, urbanistici, trasportistici, nessuno si azzardi mai, nemmeno per scherzo, a nominare il territorio, l'ambiente, l'urbanistica, i trasporti. Le balle di settore per quei temi se le tengono per il convegno elettorale di domani, dove il tuttologo immancabile ci racconta la sostenibilità. A quando un po' più di rispetto per l'intelligenza dei cittadini, che magari frequentano entrambi i convegni? (f.b.)

La Repubblica 28 gennaio 2013, postilla (f.b.)

OLBIA — Cambia volto la nuova Costa Smeralda targata Al Thani. L’emiro del Qatar di recente ha comprato dal tycoon americano Tom Barrack l’impero fondato dall’Aga Khan e vuole evidentemente lasciare la sua impronta. Stile e architettura appaiono orientaleggianti, evocativi di tempi e realtà che richiamano mondi lontani. Lo si capisce dalle simulazioni grafiche della holding che si occupa dei progetti.

Colossale il piano d’investimenti nel Nord Sardegna. Quattro moderni hotel superlusso andranno ad aggiungersi agli altri esclusivi fatti costruire mezzo secolo fa dal principe ismailita. Ci sono poi in previsione 90 ville in posizioni strategiche, con panorami mozzafiato per i magnati che potranno permettersele. E trenta maxi-residenze, in prossima vendita per svariate decine di milioni. Quasi altrettanti gli stazzi galluresi da ristrutturare più nell’entroterra: in passato ospitavano tenute agro-pastorali, adesso sono destinate a qualche miliardario, magari proprio degli emirati arabi. E nella progettazione firmata Al Thani si valuta persino la costruzione di un enorme parco acquatico dietro la spiaggia di Liscia Ruja.

Ora naturalmente i piani dovranno confrontarsi con la legge salvacoste voluta da Renato Soru e con gli altri vincoli paesaggistici fissati da norme nazionali, come la Galasso. Sì, perché nell’isola gli investimenti annunciati dall’emiro stanno provocando reazioni contrapposte. Da un lato, molti politici locali, alla disperata caccia di un lavoro per i loro amministrati, sono schierati con Al Thani. E anzi sono andati con Monti sino in Qatar per assicurargli il loro appoggio i sindaci di Arzachena e Olbia, oltre al governatore Ugo Cappellacci. Dall’altro lato, manifestano dubbi e perplessità sulle mire espansionistiche del nuovo monarca della Costa Smeralda indipendentisti, ambientalisti e molti esponenti delle forze di centrosinistra che in questi ultimi anni si sono battuti contro il cemento selvaggio lungo i litorali.

Al Thani ha comprato per 600 milioni l’impero appartenuto sino ai primi anni Duemila all’Aga Khan e adesso vuole investirci un altro miliardo. Non si sa ancora con esattezza quale sarà l’impatto effettivo del nuovo master plan. Si parla di cubature che oscillano tra i 400mila e i 550mila metri cubi, circa un quinto di quelli previsti nel progetto di ampliamento presentato una quindicina d’anni fa dal principe ismailita e poi ripreso, mutato, da Barrack. Tutto, comunque, su un territorio che si estende per quasi 2.500 ettari in uno dei paradisi naturali più suggestivi di questa terra considerata tra le meraviglie del Mediterraneo. Nei progetti dell’emiro non ci sono sole le residenze ma anche tre parchi giochi, una pista da gokart e una scuola riservata ai manager del nuovo turismo d’élite. L’obiettivo è svecchiare la clientela abituale che ogni estate si dà appuntamento in questi dorati lidi tra Porto Cervo, Pitrizza, Romazzino e puntare sui giovani super ricchi non solo d’Italia ma anche dei paesi emergenti.

Postilla
Si può anche chiedersi poi cosa intendano, con questa “disperata caccia di un lavoro per i loro amministrati”, gli amministratori col cappello in mano. Una risposta la può dare un giretto a Olbia città: distesa di case senza marciapiedi, senza spazi pubblici, con le poche funzioni pregiate risucchiate in un aeroporto privato, manco fosse il più extraterritoriale degli shopping mall. In città le macerie, gente che per socializzare si arrangia come dopo un evento traumatico. Peccato che l'evento traumatico sia quello che è arrivato qui un paio di generazioni fa, col turismo suburbano, lasciando la città un guscio avvizzito. E la domanda si riformula: volete rifarlo, identico, un'altra volta? (f.b.)

Il manifesto, 26 gennaio 2013 (f.b.)

Trovo singolare che mentre se ne parla, o ci si litiga, e talvolta ci si accapiglia, intorno al ruolo che i movimenti dovrebbero assumere nel contesto politico generale, da quando è cominciata la campagna elettorale (spesso bagarre) nazionale i movimenti sembrano scomparsi di scena, quasi non esistessero più o addirittura non fossero mai esistiti. Talvolta mi sorge il dubbio che più se ne parla e meno li si conosca, e ancora meno li si pratichi. Proverò a dimostrare che è vero il contrario (tornando in conclusione su alcune questioni di ordine più generale). La Rete dei Comitati per la difesa del territorio, florida ormai da diversi anni in Toscana ma con propaggini in Liguria, Emilia, Veneto, Marche, ha indetto per il 3 febbraio, a Firenze, una grande assemblea.

L'iniziativa (alle ore 10 sala Stensen, viale don Minzoni, 25/g), si propone di discutere un ampio e complesso documento chiamato la "Piattaforma Toscana". Che rappresenta l'acme (provvisorio, s'intende) di un lavoro che dura da anni. Si tratta del tentativo di esplorare in tutti i loro aspetti e forme i problemi del territorio, dell'ambiente, del paesaggio, in una regione da più punti significativa come la Toscana. Nasce dall'azione unita e convergente dei Comitati, una galassia ormai dislocata sull'intero territorio toscano, e di gruppi intellettuali e professionali di alto livello, i quali prestano al movimento le loro competenze per fare di una miriade di casi locali una strategia complessiva, che renda ognuno di quelli più significativo ed efficace: è quello che io da tempo chiamo neoambientalismo.

Si tratta per ora di un tentativo inedito e precorritore a livello nazionale. Come mai? La Toscana, nella nostra prospettiva, rappresenta un vero laboratorio, che appunto può assurgere a una significazione nazionale. Essa non è crollata, come, ahimè, è avvenuto in altri casi, sotto il peso della speculazione, della corruzione, e del conflitto di interessi. Ma ha un buon numero di bubboni da estirpare, e soprattutto non ha imboccato ancora, con totale e irreversibile decisione, la strada di un ambientalismo privo di remore e di inverosimili complessi di colpa (come spesso ai politici lì e altrove capita). I casi dell'Amiata (geotermia gestita nella disinvolta assenza di corretti criteri tecnico-scientifici né rispetto per la salute dei cittadini), della Apuane (la distruzione vera e propria per fini speculativi di un territorio preziosissimo), del sottoattraversamento ferroviario di Firenze (inutile, costosissimo, catastrofico dal punto di vista ambientale, sostituibile facilmente con soluzioni di superficie), per la vera e propria distruzione, passata e presente, della Piana (la quale invece, se positivamente recuperata, potrebbe diventare lo straordinario polmone verde di Firenze città metropolitana), ma soprattutto, io direi, il «normale», devastante consumo di suolo per la speculazione edilizia, che raggiunge i suoi vertici lungo le coste e nell'immediato entroterra (ma non solo), rappresentano alcuni dei tanti esempi possibili in questo senso.

L'interlocutore principale della Rete è per forza di cose la Regione. In Toscana vige, in conseguenza della legge regionale 1/2005, quello che è stato definito enfaticamente un «pluralismo istituzionale paritetico», consistente in buona sostanza nell'eliminazione di ogni rapporto gerarchico e nell'assoluta equipollenza degli enti locali (Comune, Provincia, Regione). E' una stortura che va corretta, muovendosi nel senso di attribuire a «piani di area vasta» la responsabilità di determinare attraverso percorsi concordati il riordinamento degli strumenti urbanistici comunali. Abbastanza di recente la Regione ha promosso l'elaborazione di un piano paesaggistico regionale, affidata a qualificate élite universitarie: è una buona cosa, a patto che ne nasca un vero e proprio sistema di vincoli, e soprattutto che all'atto pratico lo si rispetti e gli si dia piena attuazione.
Ma soprattutto c'è da ridefinire il quadro complessivo del reticolo territoriale toscano, così complesso e ricco d'implicazioni, - città, paesi, campagne, mare, riviere, montagna, - al fine di andare incontro con una strategia complessiva alle esigenze insieme della conservazione e di un meditato sviluppo.

In un quadro nazionale, in cui il problema ambientale rimbalza da un capo all'altro della penisola (il caso Ilva ne rappresenta l'esempio più clamoroso, ma tutt'altro che unico) noi dimostriamo infatti con la "Piattaforma toscana" che, affrontandola per tempo, la questione ambientale può diventare persino un'occasione di difesa e incremento dell'occupazione. Per vecchi e non dismessi convincimenti gli operai c'interessano non meno dell'ambiente.

Ma diversamente dagli "sviluppisti" a tutti i costi, ciechi di fronte alla possibilità molto concreta che si vada insieme verso la catastrofe, pensiamo che sia possibile, ripeto: pensiamo che sia possibile arrivare a non contrapporre difesa e protezione dell'ambiente e difesa e protezione del lavoro: che esistano insomma concrete prospettive di farle muovere insieme verso il medesimo obiettivo.
Ora, penso che salti all'occhio che noi gettiamo tutto questo nel bel mezzo di una campagna politica elettorale nazionale. Ci siamo distratti? Siamo stati colti da un colpo di sonno mentre leggevamo le ultime notizie sulle ultime dichiarazioni di Pierferdinandocasini? Tutto il contrario: abbiamo scelto di farlo consapevolmente, per due motivi.

Innanzi tutto perché nel corso di questa campagna politica elettorale nazionale l'argomento di cui meno (o affatto) si discute è quello di cui vivono i Comitati, e di riflesso la Rete, e cioè, per l'appunto, l'ambiente, il territorio, il paesaggio, la salute, ecc. ecc.; e dunque in definitiva la possibilità-necessità di dar luogo, in Italia come altrove in Europa, a un nuovo modello di sviluppo fondato sulla riconversione ecologica dell'economia. Non potremo cambiare da Firenze, certo, il corso della storia, ma forse ha un senso che da Firenze ci si provi.

Il secondo motivo è di ordine più generale, e con questo mi ricollego alle prime affermazioni di questo articolo. Io non penso, - l'ho dichiarato in numerose occasioni, e soprattutto ho cercato di tenerlo presente nel mio ruolo (molto insoddisfacente, lo so) di militante-dirigente di un movimento ambientalista, - che i movimenti siano l'anticamera dell'"organizzazione politica". I movimenti sono un'altra cosa. Bisogna accettare, - e soprattutto praticare, - il principio che fra le istituzioni e la politica esiste una "terza forza", che non si identifica né con le une né con l'altra, ma rivendica pari dignità. Non esiste solo il voto a rappresentare la cittadinanza (anche se il voto è insostituibile): questa è la difficile soglia, oltrepassata la quale comincia il dialogo. Estremizzando: la società civile, oltre e più che farsi rappresentare dalla politica, si rappresenta da sé. Più cresce la forza della "terza forza", più le istituzioni e la politica sono costrette a tenerne conto (se non ne tengono conto, vanno in malora). Per ora, questa è la fase. E' bello che questo esperimento venga tentato in Toscana.

Fa paura quando da una cattedra prestigiosa, in una città tormentata dai rigurgiti della "modernità", alla domanda se non è grave che Venezia si consegni a una monocultura turistica, si risponde: «il turismo fa vivere la città. Siamo noi a parlare in negativo del turismo e a creare una distorsione nella percezione della gente». La Repubblica, 26 gennaio 2013

Progettisti e curatori si sono finora alternati alla direzione della Biennale Architettura. Adesso arriva Rem Koolhaas, olandese di Rotterdam, che definire solo architetto è irrimediabilmente riduttivo. È certo architetto, stella lucente nel firmamento internazionale. Ma è poi sociologo, ideologo, filosofo metropolitano. È stato giornalista e ha scritto per il cinema. È autore di libri intitolati Delirious New York, Junkspace e S, M, L, XL, che vengono sventolati come vessilli insieme alle formule in essi contenute, «cultura della congestione», «tecnologia del fantastico», «metropoli groviera». Suoi edifici sono in tutto il mondo, a Seattle la Central Library, a Berlino l’ambasciata olandese, a Porto la Casa della Musica, a Pechino il quartier generale della Tv.

A Venezia Koolhaas arriva dopo aver vinto il Leone d’oro alla carriera nel 2010, ma soprattutto sulla scia delle polemiche dell’anno scorso. Polemiche legate al suo progetto per il Fondaco dei Tedeschi, che anche oggi, il giorno della presentazione della “sua” Biennale fanno indispettire il presidente della rassegna Paolo Baratta che rimprovera una giornalista spagnola per aver fatto una domanda sulla questione. È la prova che anche in Spagna si conosce la vicenda del Fondaco, l’edificio rinascimentale affacciato su Canal Grande e ponte di Rialto, sul cui tetto l’architetto olandese immaginava una terrazza panoramica e la cui corte veniva attraversata da una scala mobile che segava balaustre e membrature laterizie. Ora il progetto, bersagliatodai ricorsi di Italia Nostra, bocciato dalla Soprintendenza, è stato modificato. La Soprintendenza l’ha accolto, Italia Nostra vuol vederlo prima di esprimersi, ma nutre ancora perplessità.

La Biennale del 2014, sarà intitolata Fundamentals, che a Venezia ricorda le fondamenta, i tratti di strada che costeggiano canali e rii, ma che nell’accezione dell’architetto olandese e di Baratta sta a indicare proprio i fondamenti dell’architettura, gli elementi basilari — le porte, i pavimenti, il soffitto… Sarà una Biennale sull’architettura e non sugli architetti, convengono Koolhaas e Baratta. E, aggiunge Baratta, nella scelta del tema, «siamo partiti dalla constatazione del divario tra la spettacolarizzazione dell’architettura, da un lato, e dalla scarsa capacità di esprimere domande ed esigenze da parte della società civile, dall’altro».

Però Koolhas, vedendo le sue architetture, così mosse, ardite, ci si domanda se lei si riconosce appieno nella riflessione sul divario crescente fra architetturaspettacolo e architettura che incontra i bisogni. Non pensa?
«L’architettura non è una disciplina isolata. L’hanno condizionata le guerre e le rivoluzioni. Adesso domina l’economia di mercato che ha reso difficile, anche per un architetto come me, misurarsi, per esempio, con l’edilizia sociale. Si è portata l’attenzione sullo stupore e sullo spettacolo, spostandola dalla responsabilità verso gli altri. Il mercato ha ridotto i campi di intervento dell’architettura. E l’architetto si è limitato a svolgere spesso il ruolo del clown»

E lei come reagisce?
«La mia ambizione è quella di estendere di nuovo quel campo».

Ma si può lasciare al mercato il disegno complessivo di una città?
«Certo che no. Però a chi ritiene che la dimensione commerciale di una città sia solo negativa, va ricordato che Amsterdam o Venezia sono state costruite su questo elemento e tuttora vivono di questo».

Lei lavora in Italia da trent’anni. A Roma. A Venezia. Quanto è complicato fare architettura in Italia?
«Gli italiani soffrono di un certo grado di narcisismo e credono che l’Italia sia il luogo più complicato in assoluto. È complicato fare architettura ovunque, non c’è nulla di unico nel complicato ».

Compreso per mettere mano al Fondaco dei Tedeschi sul Canal Grande?
«Sì, compreso».

Il presidente Baratta ha rimproverato una giornalista spagnola che le ha fatto una domanda sul Fondaco. Lei vuole rispondere?
«Quel progetto ha avuto un cammino difficile. Ora stiamo per raggiungere un risultato positivo. Ma, parlando in generale, io vivo l’architettura come partecipazione ai problemi. E non si voltano le spalle ai problemi. Il progetto è una forma di dialogo estremo con i problemi».

Dietro la vicenda del Fondaco, che diventerà un centro commerciale, c’è Venezia che si consegna a una monocultura turistica. Non è grave?
«Non è un problema. Se ne discute, lo so, ma non è un problema. Ieri ho camminato per le calli e ho incontrato metà italiani, metà stranieri. A Venezia non vorrebbero turisti per sentirsi più autentici? Il turismo fa vivere la città. Siamo noi a parlare in negativo del turismo e a creare una distorsione nella percezione della gente».

Ai junkspaces, agli spazi spazzatura, lei ha dedicato un libro. Sono passati più di dieci anni da allora: è cambiato qualcosa?
«Poco o niente. Junkspace è parte dell’architettura generata dall’economia di mercato. Io non la rigetto, voglio capirla. La mia mentalità non è giudicante, cerca di comprendere».

Lei ha lavorato nel cuore profondo dell’Europa, dall’Olanda alla Francia al Portogallo. E poi in Cina. Ha scritto di Singapore. Quale dei modelli urbani prevarrà nel futuro, quello occidentale o quello orientale?
«La domanda è mal posta. Non ci sono modelli puri. In Oriente i modelli sono una commistione di elementi occidentali e orientali. E poi, qual è il modello italiano? In Italia la gran parte delle città comprende zone medievali o rinascimentali e poi le nuove urbanizzazioni novecentesche,in cui dominano i contenitori commerciali. In Cina c’è bisogno di costruire città a velocità accelerata, perché l’urbanesimo è potente. L’Europa, invece, è satura».

Ma lei è convinto o no che, nel progettare un edificio, conti molto la creazione di spazio pubblico?
«È molto importante. Ma tutto ciò è sempre espressione di un sistema politico. Ora che domina il mercato gli spazi pubblici vengono erosi o non vengono da noi stessi mantenuti in quanto tali. Trent’anni fa in Olanda quando nevicava qualsiasi persona puliva davanti al portone di casa. Il marciapiede, pubblico, era sgombro e nessuno scivolava. Ora nessuno pulisce niente. Lo spazio pubblico è tutto ciò che rimane dopo che si è pensato a noi stessi».

Quella della Biennale sarà una mostra-ricerca. Come la interpreta?
«Ho chiesto di avere più tempo del solito per allestirla. Sarà divisa in tre parti. All’Arsenale rifletteremo sullo stato dell’architettura in Italia. Al Padiglione italiano cercheremo di raccontare la storia universale degli elementi architettonici. E lo stesso accadrà nei padiglioni nazionali. Chiederemo che ogni paese si confronti con l’idea di modernità, se è stata accettata o rifiutata. E verificheremo quanto di nazionale e quanto di globale vive in ogni tradizione».

Come convivono in lei i tanti mestieri che ha svolto, ai quali ora si aggiunge quello di curatore?
«L’influenza di quelle esperienze è grande. Ma quella che le contiene tutte è forse il giornalismo, basato su un livello di curiosità che guida la ricerca negli altri campi. Sono un sociologo amatoriale. Uno storico amatoriale. Forse solo la scrittura è per me professionale».

Ma fra lo sceneggiatore e l’architetto ci sono poche analogie. O no?
«Sbaglia. Entrambi lavorano sulla connessione di episodi. Creano momenti di suspense e momenti rilassati».

Due notizie buone e una impressione di vaghezza: la mobilità è integrata o non è, e qui si interviene per sostituzione, non per integrazione. La Repubblica Milano, 26 gennaio 2013, postilla (f.b.)

UNA flotta di mini auto è pronta a sbarcare in città. Vetture agili da prelevare per la strada con una tessera - o addirittura con lo smartphone - e da restituire dove è più comodo, ideali per spostamenti brevi e senza l’obbligo di prenotazione e l’aggravio di abbonamenti. Il car sharing in tutta libertà, sul modello berlinese dove sono addirittura cinque gli operatori che si contendono questo business.
Il rilancio del servizio di auto in condivisione passerà (anche) dai privati. È questione di settimane e il mercato delle auto in condivisione cittadino si aprirà ad altre società: probabilmente con un avviso pubblico, da parte di Palazzo Marino, con facilitazioni per chi è interessato a investire in città. E di candidati ce ne sono diversi. Car2Go, del gruppo Daimler- Mercedes, ha già iniziato a farsi promozione: con l’anno nuovo sono spuntati un “ufficio dedicato” nel concessionario Smart di piazza XXIV Maggio - su una vetrina campeggia fin d’ora la scritta “Registrati qui” e alcune city car esposte per strada. In più, corre voce che centinaia di mini auto siano già state trasferite nell’hinterland. Potrebbero essere interessate anche altre società, come la Zip Car, e giovani universitari imprenditori ideatori di una startup.

Comunque andrà, sarà una decisione che cambierà radicalmente questo servizio. Oggi in città c’è GuidaMi, gestito da Atm, che funziona pur con il limite della restituzione dell’auto nello stesso stallo dove la si è prelevata e la prenotazione obbligatoria. Gli abbonati sono saliti a 5.500, quasi il doppio dei 3mila del 2010 (anche se le auto restano 130). Secondo Amat, l’agenzia per la mobilità del Comune, la richiesta in città è tuttavia ancora più alta: 16mila i clienti potenziali, per i quali servirebbe una flotta di circa 600 auto. Già a ottobre l’assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran, si era espresso a favore della liberalizzazione di questa fetta di mercato per potenziare il servizio. Una strada che apre a uno o più operatori, con il rischio di concorrenza in casa (in Atm il primo azionista è proprio Palazzo Marino) anche se, per gli esperti, le due tipologie di car sharing avrebbero utenti diversi: GuidaMi, che prevede un abbonamento di 120 euro e un costo orario, si offre più come un sostituto dell’auto privata, mentre questo nuovo servizio sarebbe più complementare, per utilizzi brevi e costi vantaggiosi, in media 0,30 centesimi al minuto.

Un costo che, soprattutto in caso di traffico e di tragitto breve, sarebbe competitivo rispetto al taxi. «Per noi — ragiona Salvatore Luca, tassista dell’Unione artigiani — potrebbe essere in effetti una concorrenza, anche se credo che i nostri clienti non avranno voglia di cercare parcheggio. Certo, ai cittadini ruberebbero altri posteggi. Sarebbe un guaio per noi, invece, se anche le nuove auto dei privati, come succede già con le auto GuidaMi, potessero viaggiare sulle corsie preferenziali».
Guardando alle esperienze europee, i nuovi operatori in genere pagano all’amministrazione un forfait per la sosta delle auto sulla strada, possibile su strisce gialle e blu. Nel caso milanese, questa cifra comprenderebbe anche la quota di Area C: le nuove microcar potranno così girare libere in tutta la città.

Postilla
La cosa interessante è che entra in campo il mercato. La cosa discutibile è che entra in campo il mercato, coi suoi criteri economici. Interessante è che, ad esempio dopo lo scandalo dell'autonoleggio ciellino lombardo, e dei suoi appalti truccati a danno del resto del mondo (vedi il pezzo di Roberto Rotondo riportato alla fine di questa Postilla) una sana concorrenza fra vari operatori nel campo dei nuovi segmenti della mobilità metropolitana faccia capire al consumatore che si aprono davvero nuove prospettive. Sarebbe davvero ora di iniziare ad uscire dalle sole chiacchiere e azioni dimostrative, in materia di automobilismo (o di ciclismo) urbano e iniziare con le pratiche, magari tallonate col fiato sul collo da ricerche interdisciplinari sul campo e politiche pubbliche di sostegno e stimolo. Ma è discutibile che, come ci spiega l'articolo, si continui a ragionare da un lato sul solo mercato “denso” del nucleo metropolitano centrale, e lo si faccia puntando sul medesimo target degli utenti di taxi, ovvero evitando quelle fasce di potenziali utenti davvero innovativi che sarebbero i residenti di periferia extraurbana e/o attualmente proprietari di vetture usate prevalentemente per spostamenti interni. Dal punto di vista economico succede un po' come con la grande distribuzione: si distruggono posti di lavoro da una parte, e se ne creano di innovativi (ma un po' di meno) dall'altra. Dal punto di vista ambientale, territoriale, della ricerca e sperimentazione di nuovi modelli, l'avanzamento è minimo, se invece della fila di taxi trovo quella delle automobiline da guidare da solo. Si spera che emerga presto, se esiste, la serie delle innovazioni di processo proposta dal Comune, e magari in prospettiva da condividere almeno con le amministrazioni di prima fascia metropolitana, perché sarà una meraviglia del mercato, ma è davvero una sciocchezza, dover mollare l'automobilina in mezzo alla strada, magari sotto la pioggia, solo perché da quel punto in poi comanda un altro Sindaco … (f.b.)

Roberto Rotondo, L'auto elettrica non s'accende: il «flop» delle eco-utilitarie, Corriere della Sera Lombardia, 26 gennaio 2013
MILANO — È gestito da una società mista pubblico-privato, e ha visto in due anni migliaia di euro di investimenti. Ma il car sharing regionale, funziona oppure no? La domanda torna alla ribalta oggi, dopo l'arresto di Massimo Vanzulli, 49 anni, amministratore delegato della Sems, l'azienda nell'orbita delle Fnm regionali, che gestisce appunto il servizio di auto ecologica «E Vai», piccole automobili elettriche in grado di affrontare, senza inquinare, le insidie del traffico. In realtà, le vicende salite all'onore della cronaca giudiziaria sono del tutto separate. Nell'inchiesta milanese è stata coinvolta soltanto la società Kaleidos di Saronno (legata alla Compagnia delle Opere, di cui Vanzulli è manager), che però partecipa al 31,5 per cento con Fnm alla società del car sharing.

E dunque, in molti si chiedono se la sua presenza in una ditta che investe soldi pubblici sia giustificata. La risposta non è tuttavia semplice. Innanzitutto, la Sems non ha fornito al Corriere, che li aveva richiesti, i dati del servizio del car sharing «E Vai». Ma abbiamo comunque avuto modo di conoscerli grazie ad un'altra fonte. L'impressione di un esperto del settore è che il servizio sia ancora, quanto meno, sottoutilizzato.

Vediamo i numeri. Il car sharing parte nel dicembre del 2010. Qualche mese dopo, nell'agosto del 2011, ci sono 1.048 abbonamenti e vengono effettuati 108 noleggi singoli in tutta la Lombardia (sul territorio regionale vivono oggi poco più di 10 milioni di abitanti). Siamo agli albori del progetto, sono cifre ancora piccole. Ma a dicembre gli abbonamenti sono 3.048, e i noleggi 237. Nel corso del 2012 gli abbonamenti passano dai 3.210 di gennaio, a 3.615 ad aprile e poi iniziano a salire in modo esponenziale (anche gli utilizzi, che restano però intorno alla media del 10 per cento). Il bilancio di Sems pubblicato nel sito Internet delle Fnm indica che gli investimenti sono stati ingenti e vi è un utile ante imposte in leggera decrescita, 474 mila euro, rispetto ai 494 mila euro del primo semestre 2011: «Nel corso del primo semestre 2012 il servizio è stato esteso presso le stazioni di Lodi e Legnano, e sono stati acquisiti ulteriori 14 veicoli con un investimento complessivo di 343 mila euro».

L'esperto di mobilità sostenibile è Andrea Poggio, 56 anni, vicepresidente nazionale di Legambiente. Osserva che i risultati non sono ancora soddisfacenti: «Oggi il servizio è sottoutilizzato — afferma — e può stare in piedi solo perché c'è un forte investimento iniziale. Considerando che la Sems, fino a un mese fa, aveva 37 parcheggi in Lombardia, dai dati emerge che gli utilizzi sono inferiori a uno al giorno per parcheggio. Non è un buon risultato, ma può certamente migliorare, tenendo anche conto che l'utenza non è abituata alla presenza di una nuova opportunità di mobilità. La sostenibilità futura dipenderà dagli investimenti. Che in questo caso si può ipotizzare siano prevalentemente a carico della società pubblica».

Continua l’ossessione edificatoria: aumentano le case invendute e mancano le case costruite in edilizia sociale. E il Bel Paese scompare sotto queste contraddizioni. Corriere della Sera.it, 25 gennaio 2013 (m.p.g.)

Bel Paese? Mica tanto. L’Italia, più che sul lavoro, è diventata una Repubblica fondata sul cemento. E lì rischia di restare, con i piedi piantati nell’asfalto di un territorio sempre più urbanizzato, brutto e, per giunta, pericoloso. Non è una storia nuova, anzi, e proprio il fatto che risalga a tempi lontani la rende ancora più inquietante. «Non so, non so perché, perché continuano a costruire le case e non lasciano l’erba», cantava il “ragazzo della via Gluck” di Celentano nel 1966 e, alla fine, si chiedeva «se andiamo avanti così, chissà come si farà, chissà...».

SCAVIAMO COME TALPE - Quasi mezzo secolo dopo, produciamo cemento come nessun altro: una media di 565 chilogrammi per cittadino, di fronte a una media europea di 404. Per «vantare» questo primato ci servono quantità mostruose di sabbia, ghiaia e pietrisco, i cosiddetti «materiali inerti» con cui si realizza il cemento. Quindi scaviamo come talpe instancabili, deturpando il territorio: nel 2010 c’erano 5.736 cave attive e 13 mila dismesse, che al di là dell’ufficialità salivano a un numero non quantificabile, visto che molte Regioni italiane non le censiscono nemmeno, come risulta dall’ultimo studio sull’attività estrattiva di Legambiente. Le imprese del settore, vendendo sabbia e ghiaia, ricavano circa 1 miliardo e 115 milioni di euro all’anno, mentre nelle casse pubbliche, in cambio delle concessioni per le cave, entrano meno di 45 milioni. Sembra «materiale inerte» anche lo Stato, visto che la tassazione media sull’attività estrattiva è all’incirca del 4% e ci sono regioni come Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, dove si cava senza pagare un euro. In Inghilterra, tanto per fare un esempio, si paga il 20%.

SOLUZIONE - Per scavare e devastare di meno un sistema esiste, e negli altri Paesi europei lo si utilizza: si recuperano i materiali dalle costruzioni e dalle demolizioni, piccoli o enormi che siano. Nei Paesi Bassi il quantitativo di materiale edile riciclato è del 95,1%, in Danimarca il 94,9%, in Belgio il 90%, in Germania l’86,3%. Noi chiudiamo la classifica con un misero 10% (dati Eurostat e Ispra), mentre va a finire nelle discariche o negli inceneritori il restante 90%, con tutti i costi ambientali ed economici che questo comporta. Per spiegare questo comportamento anomalo va detto che in Danimarca, per esempio, buttare materiale edile in una discarica costa una tassa circa cinque volte più alta di quella che si paga in Italia. Da noi, in più, a incentivare l’«usa e getta» c’è anche l’ampia offerta delle convenienti discariche abusive nelle mani della malavita, e quindi è tutta una ruota che gira, dalla parte sbagliata.

LOGICA SBAGLIATA - In sintesi, siamo i primi a produrre cemento e gli ultimi a saperlo riciclare. Le ragioni di questa giostra stanno, in buona parte, nella quantità di nuove costruzioni realizzate negli ultimi anni: 260 mila solo nel 2009 tra abitazioni e fabbricati non residenziali. Secondo gli ultimi dati dell’Istat, nel decennio 2001-2011, di fronte a un incremento della popolazione stimato in un milione di nuclei famigliari, sono stati costruiti 1 milione e 571 mila nuovi alloggi residenziali. L’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis, autore di Paesaggio, Costitizione e cemento, ha profetizzato: «Vedremo boschi, prati e campagne arretrare davanti all’invasione di mesti condomini, vedremo coste luminosissime e verdissime colline divorate da case incongrue e palazzi senz’anima. Vedremo quello che fu il Bel Paese sommerso da inesorabili colate di cemento». Per la verità lo stiamo già vedendo: secondo l’Istat dal 1990 al 2005 la Sau (Superficie agricola utilizzata) in Italia si è ridotta di 3 milioni e 663 mila ettari, un’area grande come Lazio e Abruzzo messi insieme.

GLI ABUSI ALLA LOGICA - Non c’è zona che si salvi, da questo gioco del “Lego” in scala reale. Basta guardarsi in giro, a cominciare da Roma, caput mundi. In zona Laurentina, tanto per fare un esempio, ai bordi del raccordo anulare (all’altezza dell’uscita 25) sta sorgendo, molto a rilento per la verità, il quartiere Tor Pagnotta (il nome è già un programma), che prevede un totale di circa 25 mila nuovi residenti, di cui per ora circa 16 mila ancora virtuali, e che si è esteso anche su un’area che doveva essere parco pubblico vincolato, attorno a zona monumentale e paesaggistica. Decine di palazzine ad alveare, alte anche dieci piani, che sorgono in mezzo a torri medioevali e dove non sembra esserci una corsa ad andare ad abitare, considerato anche che i mezzi pubblici promessi tardano ad arrivare e i costi al metro quadro vanno dai 5 mila euro in su. Un’altra spianata sta facendosi largo nella zona di Barberino del Mugello dove, con i lavori per il raddoppio dell’autostrada, si sta puntando al record della più grande area di servizio d’Europa, che occuperà una superficie di decine di ettari, destinata a coprire i quasi tre milioni di metri cubi di «smarino», materiale di risulta delle escavazioni per i nove chilometri di tunnel fatti in zona. Come polvere buttata sotto il tappeto. Peccato che lì sotto passino anche gli affluenti del lago del Bilancino, fonte di approvvigionamento per gli acquedotti delle province di Firenze, Prato e Pistoia. Per una beffa del destino, che gli abitanti della zona ritengono intollerabile, l’area su cui sorgeranno decine di pompe di benzina, ristoranti, bar, un centro commerciale e un parcheggio che sembra il Madison Square Garden, si chiama «Bellosguardo». Per la cronaca va detto che, attualmente, sull’A1 c’è un’area di servizio a 10 chilometri in direzione nord e a 16 verso sud.

DANNI MATERIALI - Basta puntare il dito sulla cartina italiana, anche a caso, e difficilmente non ci si imbatte in costruzioni, piccole o grandi che siano. Moltissime abusive, visto che secondo un dossier di Fai e Wwf, dagli anni Cinquanta a oggi, si sono registrati 4,6 milioni di abusi edilizi: 75 mila all’anno, 207 al giorno. Ma al di là degli abusi alla legge, sono quelli alla logica e all’estetica che fanno venire i brividi. Come i due nuovi borghi residenziali, alberghi, parcheggio da 800 posti auto, cinque piscine, undici bar e altrettanti ristoranti, 97 posti barca che stanno sorgendo nella baia di Sistiana, a 20 chilometri da Trieste, e che occuperanno l’intero piccolo golfo lasciato vuoto da una cava abbandonata.

PIENI E VUOTI - Il paesaggio, anche quello urbano, è fatto di pieni ma anche di vuoti. Se si riempie tutto, si vive male. «Se affacciandosi dalla finestra si vedono solo muri e strade, invece di piante e prati, si ha una sensazione di sradicamento», dice Roberto Mazza, professore di psicologia dello sviluppo e di metodologia del servizio sociale all’Università di Pisa. «La sensazione è quella dello sradicamento: non ci si riconosce più nel panorama e l’ambiente che ci circonda assume toni ostili. In questo contesto anche la vicinanza di altre persone è soltanto fisica, ma priva di contenuto emotivo, priva di quel legame umano rappresentato da valori comuni». Mazza, su questi temi, ha scritto un libro: Psico(pato)logia del paesaggio. Disagio ambientale e degrado psicologico, insieme con l’epidemiologa Silvia Minozzi. La sintesi è chiara: «Patologie come schizofrenia, o disturbi come anoressia, bulimia o depressione si manifestano con frequenza molto maggiore in aree ad alta densità di urbanizzazione. Per esempio un’analisi condotta su dieci recenti studi compiuti in Europa e negli Usa evidenzia che l’incidenza della schizofrenia è più che doppia nelle aree urbane rispetto a quelle rurali». In più, a rendere inguardabile questo orizzonte costellato di gru, c’è anche il fatto che si continuano a costruire case destinate a restare in gran parte vuote. In totale sono 5 milioni e 320 mila gli alloggi dove non abita nessuno: quasi 250 mila solo a Roma. Ma anche nelle ricche province del Nord, la situazione non è diversa: in quella di Bergamo le case disabitate sono circa 100 mila, a Brescia città 82 mila.

LA RIVOLTA DELLA NATURA - Secondo un dossier del 2011 sul mercato edilizio italiano, firmato dalla commissione Ambiente e lavori pubblici della Camera, «tre anni di mercato in flessione hanno prodotto il dato allarmante di uno stock di “giacenze” che si attesta attorno ai 120 mila alloggi invenduti». I prezzi delle case non sono più accessibili ai normali lavoratori; dice infatti la stessa Commissione: «Nel 1965 per acquistare una abitazione semicentrale di una grande città servivano 3,4 annualità di reddito di una famiglia a reddito medio, mentre nel 2008 tali annualità sono diventate nove». «Siamo a un vero e proprio punto di crisi delle costruzioni in Italia», commenta Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. «Malgrado milioni di case costruite negli ultimi due decenni c’è una grave emergenza abitativa nelle città. Proprio la crisi deve portare a un cambiamento, ora la priorità devono essere lo stop al consumo di suolo e gli investimenti nelle aree urbane, dove demolire e ricostruire per dare case a chi ne ha veramente bisogno e con consumi energetici azzerati, dove portare tram e metropolitane, e per mettere in sicurezza il territorio». Infatti il Paese asfaltato si ribella, a suo modo, senza preavviso: frane, smottamenti, esondazioni. In Liguria, tanto per puntare a caso il dito in un’altra zona, secondo la Protezione civile, il 98% dei Comuni (232 su 235) «presenta un’elevata criticità idrogeologica» e «155 mila persone vivono o lavorano in aree considerate pericolose». «Se andiamo avanti così, chissà come si farà, chissà....». Aveva già senso chiederselo nel 1966, figuriamoci adesso.

La farsa che si svolge attorno all'anfiteatro flavio, usato come gadget elettorale e merce di scambio della politica. Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2013 (m.p.g.)
Il Colosseo è una rovina. Non è precisamente una notizia, ma il sindaco di Roma non riesce a farsene una ragione. Due giorni fa Gianni Alemanno ha attaccato frontalmente la soprintendente archeologica della capitale, Mariarosaria Barbera, accusandola di «creare una situazione di elevato allarme». Quest’ultima aveva il torto di essersi preoccupata dei frammenti di pietra che, specie con le piogge forti, si staccano e precipitano al suolo, rischiando di rendere davvero indimenticabile la visita di qualche turista. Da qui l’esigenza di imporre una sorta di ‘zona rossa’ che tenesse i visitatori fuori pericolo: ma siccome per Alemanno il Colosseo è soprattutto un grande spartitraffico (la battuta è di Antonio Cederna), non gli sembrava pensabile spostare nemmeno una fermata dell’autobus: e dunque Comune e Soprintendenza si erano accordati per la soluzione (indecente) di avvolgere il gigante in grandi reti di protezione.

Tuttavia, di fronte alla (comprensibile) gragnuola di critiche ricevuta dalle opposizioni, Alemanno ha rovesciato il tavolo e ha telefonato direttamente al capo dell’odiata soprintendente, il ben più malleabile ministro per i Beni culturali, Lorenzo Ornaghi. E ha fatto bingo: dopo una «chiacchierata cordiale», i due politici hanno deciso di «affidare ad un tavolo tecnico presso il dicastero i temi relativi alla sicurezza delle aree circostanti l’anfiteatro Flavio, presieduto dal segretario generale [del Mibac] Antonia Pasqua Recchia». Tradotto dal burocratese, si tratta di una clamorosa sconfessione della soprintendente, alla quale il suo stesso ministro spara alla schiena, sottraendole di fatto la competenza sul principale monumento archeologico della città.

Questo grottesco teatrino apparirà ancora più sconcertante a chi ricordi il trionfalismo con cui Alemanno aveva annunciato, nel giugno 2011, il salvifico super-restauro del Colosseo sponsorizzato da Diego Della Valle. Ebbene, che fine ha fatto il progetto-pilota della nuova, risolutiva sinergia tra pubblico e privato? È mestamente arenato alla II sezione del Tar del Lazio, dove pende il ricorso delle imprese escluse dal restauro, mentre il Consiglio di Stato dovrà decidere sul ricorso del Codacons contro l’affidamento della sponsorizzazione a Mister Tod’s. Insomma, il Comune e il Ministero avevano concepito un autentico capolavoro amministrativo.

Al di là dell’umiliante cronaca spicciola, questa vicenda è assai interessante perché permette di vedere con estrema chiarezza ciò che condanna il patrimonio storico e artistico italiano ad una fine così ingloriosa.

La prima cosa da dire è che se Roma fosse la capitale di un qualunque altro stato europeo, tutta l’area del Colosseo e dei Fori imperiali sarebbe stata pedonalizzata da decenni. E la riduzione delle vibrazioni e delle emissioni di scarico sarebbe un passo decisivo per la conservazione e la sicurezza dell’anfiteatro: oltre che per la vivibilità e la godibilità di uno dei luoghi più sacri della civiltà occidentale. Ma quest’ultima ovvietà è, d’altra parte, difficilmente comprensibile ad un’amministrazione che tollera il circo equestre dei ‘gladiatori’ che staziona di fronte al Colosseo.

In secondo luogo, il miglior restauro è quello che non si deve fare: quello che viene prevenuto dall’umilissima manutenzione ordinaria. Un’operazione per cui è difficile trovare un paperone in cerca di visibilità globale, e che è invece il precipuo compito delle soprintendenze.

E qua veniamo al punto centrale. Che Ornaghi abbia delegittimato la soprintendente di Roma cedendo alle sguaiate pressioni di Alemanno è gravissimo, ma non è una novità. Il fatto che il Colosseo perda pezzi è, infatti, la diretta, necessaria conseguenza dei micidiali tagli ai fondi e al personale che i governi di ogni colore hanno inferto per decenni al sistema delle soprintendenze, umiliando e svuotando il sistema di tutela migliore del mondo e pensando semmai alla giostra degli eventi.

Ciò che è quasi impossibile far capire alla classe politica italiana, e spesso anche ai giornali e all’intera classe dirigente, è che i danni straordinari del patrimonio si prevengono con la cura ordinaria e con la competenza tecnica degli addetti ai lavori, non con i restauri-evento.

In piena età barocca, il grande scrittore Emanuele Tesauro scriveva che il Colosseo simboleggiava una Roma che «non cessa di ritorcer gli occhi alle deboli vestigia delle sue fuggite potenze, e vi mira sparse per terra le marmoree sue viscere». E che «in quello anfiteatro invece di gladiatori, l’arte con la natura combatte». Oggi, dopo quattrocento anni siamo invece ridotti a guardare sparsi per terra i frammenti di pietra che cadono dal monumento, e a veder combattere l’assenza della politica con l’assenza della tutela.

La Repubblica Milano, 23 gennaio 2013, postilla (f.b.)

I DIRITTI degli animali che lì vivono e hanno fatto il nido sarà preservato. Ma la vegetazione spontanea cresciuta nella Darsena, quell’oasi della biodiversità come la definiscono i suoi difensori, verrà tagliata e tutta l’area sarà ripulita per far partire, quando sarà il momento, i lavori per la riqualificazione promessa da Expo. La decisione del Comune, dopo mesi di braccio di ferro con le associazioni ambientaliste, è nero su bianco in una determinazione dirigenziale firmata dalla direzione centrale Mobilità, trasporti e ambiente che fissa in 589.986,60 euro la spesa per l’intervento affidato direttamente ad Amsa e già iniziato pochi giorni fa.

Si spiega, nell’affidamento dell’incarico, che «le operazioni prevederanno la rimozione della vegetazione spontanea cresciuta in luogo, essendo la stessa non compatibile con le esigenze di navigabilità e di funzionalità portuale della Darsena, e non essendo pervenute da parte del settore tecnico Arredo urbano e verde, interpellato a riguardo, limitazioni alle operazioni di taglio». Via, insomma, a tutte le piante spontanee, anche nella parte di Darsena rimessa a posto dopo la chiusura del contenzioso sul mega-parcheggio ormai stralciato dai progetti del Comune.

Amsa si dovrà occupare, ora, del «taglio, sfalcio e pulizia dell’area » nella prima fase dei lavori, di «caratterizzazione dei rifiuti, movimentazione, trasporto e smaltimento terre, rocce e asfalto giacenti nell’area» nella seconda fase. I quasi 600mila euro necessari all’operazione — compresi 13mila euro per la sicurezza del cantiere — sono quelli che Palazzo Marino ha dai canoni di concessione lungo il canale, visto che la Darsena rientra nel demanio comunale. Il vero lavoro arriverà in seguito, quando partirà la vera riqualificazione della Darsena e dei navigli compresa nel progetto di Expo: l’obiettivo è quello di farla tornare ad essere porto di Milano, con spazi per il tempo libero, per il commercio, per manifestazioni di vario genere.

Ma alcuni comitati di cittadini contestano da tempo che, per realizzare quel progetto, si debba fare piazza pulita dell’oasi spontanea in cui si sono insediati gli esemplari di alcune specie animali. «Non c’è nessun bisogno di eliminare tutta quella terra, quegli alberi e quei nidi, e farli rimuovere come fossero detriti o rifiuti dall’Amsa sarebbe un atto di forzatura e di intolleranza, anche inutilmente costoso rispetto al modesto intervento di ingegneria naturalistica necessario per trasformare l’oasi», è la posizione degli ambientalisti, che nei giorni scorsi hanno scritto anche al sindaco Pisapia e che, attraverso alcuni simpatizzanti — come il candidato di Sel alle Politiche Paolo Oddi — chiedono alle istituzioni di fermarsi e continuare il dialogo, nonostante la partenza dei lavori di Amsa induca a credere che ormai sia impossibile fermarli.

Postilla
Fra le varie riflessioni che stimolava l’auspicio a una ecologia della mente di Gregory Bateson, c’era l’accettazione quasi fatalista di una complessità che a volte riusciamo a intuire solo confusamente. Un approccio difficilmente praticabile a scala individuale, e figuriamoci quando ci sono di mezzo sia la collettività, che la politica, che una lunga e consolidata tradizione culturale e amministrativa ad agire per vasi non comunicanti. La scelta, tutto sommato di compromesso al ribasso, di spazzar via la piccola colonia di natura metropolitana, trasformandola in una variante postmoderna di certe rovine romane ritagliate nel giardino di un condominio, forse era inevitabile dati i tempi e il contesto. Ma vicende del genere non possono non far tornare alla mente altre infinite questioni pressoché identiche in tante altre città e aree metropolitane del mondo, e che certo non si riassumono con il frettoloso assimilare aironi e nutrie a Titti e Silvestro, o certe stravaganti e ingombranti erbacce al geranio sul davanzale: urbanizzazione del pianeta, in una prospettiva ragionevole di sostenibilità, significa anche transustanziare l’idea stessa di urbanizzazione, ad esempio interpretando in modo aperto e processuale il concetto di infrastruttura verde. Che non può essere ridotto, come osservava giustamente George Monbiot, alla funzione ingegneristica e mercificata di servizio all’ecosistema, che poi qualche ragioniere valuta con la sua tabellina costi-benefici. Ma che si deve studiare e calibrare sia negli aspetti urbani classici che in quelli che la natura ci sta suggerendo, con segnali come quello della nicchia ecologica sui Navigli milanesi, ma anche dei cervi e coyote nei parcheggi di qualche centro commerciale degli Usa, fino ai leoni che pare si aggirino molto ammansiti in certe periferie suburbane dell’Africa, frugando nei bidoni della spazzatura, versione terzo millennio extralarge delle ormai integrate volpi europee, o dei procioni. Insomma non si tratta di riflessioni filosofiche sui diritti delle specie, ma di intervenire in modo assai pratico sulla sostenibilità del territorio e dell’equilibrio natura-artificio, all’interno del quale incidentalmente stiamo anche noi (f.b.)

Il manifesto, 19 gennaio 2013
Interi quartieri sorti nel nulla e disabitati per l'esplosione della bolla immobiliare. Una città nella città, fatta di 300 mila case vuote, mentre ogni anno 2500 famiglie vengono sfrattate
Madrid e Roma. Le modalità di osservazione sono le stesse. Diversi i risultati. A Madrid prendi la metropolitana (direzione nord) e vedi - dopo molto, il tragitto è lungo - i vagoni svuotarsi completamente.
Scendi dove il treno finisce e, da una deserta stazione, arrivi in una selva di centri commerciali dove, con tutta evidenza, si va esclusivamente in automobile. Una sorta di mura che ti lasci alle spalle per spingere lo sguardo al contrario, verso il luogo di partenza al centro della città.
Ti accorgi della marea di case. La qualità tipologica è buona e ti stupisci, anche, della loro varietà, del mix tra tipi edilizi. T'incammini convinto di rifare a piedi il percorso che, poco prima, avevi fatto in sotterranea e, solo allora, ti accorgi che le case sono vuote.
Gli ingressi sbarrati, lo zoccolo dei negozi murato. Case e strade fantasma dove, ogni tanto, come patetiche fessure di piccoli occhi, niente di più di qualche foro all'interno delle porzioni murate, è segnalata la presenza di un ufficio immobiliare con incollate sulle vetrine offerte, riproduzioni di interni, piante. Nessuno dentro, neppure un impiegato.
A Roma, accade di notare più o meno lo stesso fenomeno. Solo che prendere la metropolitana non basta. Arrivi, mettiamo a sud, partendo dalla stazione Termini, ma i vagoni non mollano neppure un passeggero. Emergi dal buco dell'Anagnina e qui le case ci sono, c'è il traffico e una folla costante diretta oltre il raccordo anulare.
Volendo seguirla per un po' la consistenza tipologica non cambia. Analoga in qualsiasi direzione: la ressa dei centri commerciali e case e ancora case. Anche se il tuo occhio non è pronto a cogliere le differenze, ti accorgi presto che molte di queste costruzioni sono tra loro uguali.
Stesso disegno, stessi materiali, strade larghe e ancora: qualche capannone che contende a qualche rudere edilizio l'occupazione di lotti miracolosamente residui.
È dal progressivo stato di abbandono, da strade solo accennate, da malinconici vialetti sterrati che conducono verso il nulla, da cancelli e passi carrabili assediati da piccole dighe di terra e arbusti che li rendono così inespugnabili, da avanzi di cantiere, da buche e da mucchi di terra (tanti mucchi), da enormi cartelloni di Ufficio vendita, che t'accorgi che sei all'interno del regno dell'invenduto.
Pochi i segni di vita, pressoché inesistente il numero delle finestre aperte, quello delle caldaie in funzione, qualche rarissima parabola. Anche qui, come a Madrid, le case sono tante , le case anche qui sono vuote e, ancora anche qui, le molte gru - ormai parte integrante del paesaggio circostante - segnalano che si continua a costruire.

Roma e dintorni
Per restare, per il momento, a Roma, partiamo dal paesaggio di riferimento. Per capire dove sono localizzate queste case, facciamo un piccolo passo indietro andando a vedere la consistenza del costruito e il numero degli abitanti prendendo in esame gli ultimi dieci anni.
Dal 2003 al 2007 (anno in cui si registra la prima contrazione del fenomeno costruttivo) sono stati costruiti 10 mila alloggi privati all'anno per un totale di 52 mila unità. Dal 2003 al 2010, tuttavia, 163 mila persone hanno lasciato Roma per trasferirsi in provincia, alla ricerca di case dai prezzi più bassi.
Questo ha determinato una sorta di mutazione territoriale/geografica. Abitiamo un territorio urbanizzato a bassa densità che, espandendosi da Roma verso tutta la provincia, si rappresenta attraverso frammenti di città, aree isolate, isole più o meno grandi.
Luoghi dove non ci sono servizi. Senza infrastrutture e urbanizzazioni non comunicano tra loro, né sono connessi con nulla.
È all'interno di questo paesaggio, che senza alcun elemento di identità si autodefinisce per parto genesi dalle stesse case, che vengono costruite ed è localizzata la maggior parte del patrimonio abitativo interrotto e inaccessibile. È la nuova nebulosa geografica.
Quale corona, irta dalle spine dello sprawl (la diffusione edilizia), cinge lo spazio urbano da cui ha espulso (continua ad espellere) chi non può più sfruttare fino in fondo al'interno di quella parte del territorio che vuole tutto produttivo. Questo ha prodotto, e continua a produrre, un doppio fenomeno: il perdurare di un patrimonio edilizio bloccato, rappresentato da case vuote e da case invendute.

Case vuote, case invendute
Le prime, secondo stime pressoché unanimi, sono, su un totale di un milione e 700 mila appartamenti censiti, di poco al disotto delle 250 mila unità. Un numero che le porta a poter essere considerate superiori per numero di abitanti possibili da insediare (500 mila dato che 2,3 è la media che viene considerata come numero degli occupanti possibili per casa) a quello di città come Firenze o Bologna.
Le case invendute sono intorno ai 51 mila alloggi. Di questi il 60% è esistente solo "su carta", trattandosi di interventi che hanno ottenuto tutte le concessioni per dare inizio ai lavori, ma si aspettano gli acquirenti prima di aprire i cantieri. Ma anche se non realizzati, in forza dell'acquisizione del permesso a costruire, producono reddito avendo rappresentato, almeno fino a qualche tempo fa, un valore negoziabile per l'acquisizione di mutui spendibili sul mercato finanziario.
Oggi per la crisi economica le banche non erogano più mutui alle imprese né ai possibili acquirenti, ma sono state proprio le banche a determinare questo stato di fatto.

L'anteprima spagnola
Per andare a vedere cosa è successo, torniamo, ora per qualche riflessione, a Madrid e alle sue case prive di abitanti. Il fenomeno che oggi vediamo intorno a noi è avvenuto, nella capitale madrilena in anteprima e con qualche anticipo, lungo la nuova direttrice urbana che prolunga nel territorio la "gran via" cittadina.
La Spagna nel corso degli anni '80 si è caratterizzata per il varo e la sperimentazione di politiche di riforma urbana, caratterizzate sia da una preponderante presenza dell'operatore pubblico che dalla centralità della governance pubblica. Una doppia condizione che attribuiva al programma espansivo delle città un grande valore sociale.
A partire dalla fine degli anni '90 si assiste ad un progressivo passaggio all'operatore privato, che immette massicci investimenti nelle grandi infrastrutture e nel real estate (investimento immobiliare). Dalla città "sociale" si passa alla città "offerta" sui mercati internazionali.
L'esempio di Barcellona, con la costruzione del Forum 2004 lungo la spiaggia, è indicativo della trasformazione della politica urbana. Si sono costruite attrezzature ricreative, porti turistici, centri commerciali per turismo internazionale, senza alcun legame con il tessuto urbano.
Si parlava di miracolo spagnolo quando, nel 1998, Aznar innescava il boom dell'edilizia con la "legge del suolo" e con forti incentivi per l'acquisto della casa. Ma era già dal 1985 che lo sviluppo edilizio e la lievitazione dei prezzi avevano gonfiato il mercato. Le banche erogavano mutui su mutui a bassi tassi d'interesse con estrema facilità e il settore immobiliare era motore del boom economico del paese, artefice di una crescita scomposta e drogata. Nel 2005 e nel 2006 si era arrivati alla cifra record di 900 mila compravendite immobiliari all'anno.
La fase del mercato che vedeva i prezzi aumentare vertiginosamente in un breve arco di tempo a causa di una forte domanda (tra il 1996 e il 2006 il valore degli immobili si era rivalutato del 160 per cento) è finita nel 2008, quando si è determinato un calo del valore degli immobili pari al 34 per cento.
Oggi in Spagna ci sono 1 milione di case invendute. Le banche spagnole hanno nei loro portafogli circa 150 mila case che non riescono a vendere.
Ne sono tornate in possesso perché molte famiglie non sono più state in grado di pagare i mutui che avevano contratto e molte imprese di costruzione sono fallite. L'aumento della disoccupazione dal 2008 a oggi e la trasformazione della maggior parte dei contratti da tempo indeterminato a tempo determinato ha costretto molte famiglie a rinunciare all'acquisto della casa e a non poter più pagare gli affitti e i mutui contratti, così che oggi in Spagna gli sfratti sono divenuti una piaga sociale.
A novembre dell'anno passato una donna di 53 anni ha visto dalla finestra arrivare i poliziotti insieme all'ufficiale giudiziario. Sapeva che erano lì per lei e si è gettata di sotto. Non poteva più pagare il mutuo residuo di 214 mila euro per la sua casa di due stanze, bagno e cucina.
Ogni giorno nel 2012 l'ufficiale giudiziario si è presentato con la notifica di sfratto da 317 cittadini. Dall'inizio della crisi sono 350 mila le persone buttate in mezzo alla strada. E tante sono le case tornate sul mercato.
Così il mattone si è trasformato da motore di un'economia drogata, a responsabile di una crisi che non vede via d'uscita. Da un eccesso di domanda nel comprare case si è passati ad un eccesso di vendite, dettato da una offerta smisurata e conseguente ribasso del loro valore.
A Madrid ci sono, come detto, interi palazzi nuovi con appartamenti vuoti, senza compratori, presenze inquietanti e testimonianza di quella ricchezza immobiliare produttrice dell'attuale miseria urbana, del saccheggio delle città operato a colpi di valorizzazioni immobiliari da parcheggiare e far viaggiare nel circuito della finanza mondiale, del fenomeno mondiale delle "case di carta".
Il bambino che fa scorrere il suo triciclo in una strada deserta lo fa su una lunga striscia di un largo marciapiede disegnato al di là della strada. Pur nell'assenza di persone, si nota una certa, seppur non soddisfacente, opera di manutenzione; una sorta di cura, un tentativo impossibile per fare di quelle case un pezzo di città.
Impossibile perché quelle finestre sbarrate, quei portoni inaccessibili dimostrano che quella ricchezza immobiliare era stata pensata per produrre e continuare a produrre plusvalore attraverso uno schema uguale in tutto il mondo: vendere sui mercati finanziari tutti i tipi di crediti (i mutui richiesti da chi costruisce e quelli di chi acquista), accrescere il numero e il valore delle transazioni, rendere liquidi i beni immobili.
Un processo totalmente indifferente alla localizzazione, pensato per fare profitto rivendendo pacchetti finanziari da alimentare attraverso l'imposizione di un sempre maggior numero di mutui alle famiglie.
Le case stanno lì, appoggiate le une alle altre , ma è come se fossero state fate sparire dalla città essendo destinate a non essere abitate.

In Italia si replica
Lo stesso è avvenuto a qualche anno di distanza in Italia, dove fra il 1997 e il 2007 sono stati realizzati 1,1 miliardi di metri cubi di nuova edilizia residenziale. La crisi finanziaria globale, bloccando il flusso del credito, ha trasformato il rallentamento iniziato nel 2006 dell'attività edilizia, dovuto a sovra-produzione, nel crollo a picco che si riscontra oggi. Gli ultimi cinque anni hanno visto aumentare lo stock di invenduto, senza che i prezzi delle abitazioni subissero un calo evidente, restando fra i più alti d'Europa.
Oggi, secondo i dati Nomisma, in Italia esistono 694 mila alloggi invenduti, a fronte di una domanda di edilizia sociale pari a 583 mila alloggi (dati Federcasa). Uno studio del Politecnico di Milano afferma che tra il 2002 e il 2008 il 75% delle costruzioni ha riguardato l'edilizia libera, mentre la domanda di edilizia sociale si attesta sul 42,5%.
Nel 2011 in Italia sono stati ordinati 63 mila sfratti di cui ben 56 mila per morosità, di questi 28 mila sono stati eseguiti dalle forze dell'ordine. In testa Milano con il 30% del totale.
Nei prossimi tre anni sono previsti in Italia altri 220 mila sfratti (dati Ministero dell'Interno). Spesso si stratta di sfratti per "morosità incolpevole", cioè non si paga l'affitto perché non si è materialmente nelle condizioni di farlo.
Con la legge di stabilità si è decisa solo una proroga di sei mesi degli sfratti per finita locazione in scadenza al 31 dicembre 2012, per le sole fasce deboli.

Che succede nella capitale?
A Roma ogni anno 2.500 famiglie perdono la casa, 10 famiglie al giorno, che cercano rifugio da amici e parenti o finiscono per strada od occupano un alloggio dei tanti vuoti che ci sono. Sono circa 10 mila quelli che vivono nelle occupazioni. Una città fatta di case su case, vuote.
Dove sono le 51 mila unità che abbiamo visto all'inizio rappresentare lo stock dell'invenduto romano da sommare alle 250 mila unità di quelle tenute vuote disseminate nel corpo dell'intera città? Andiamo a vedere.

Dove si trovano le case invendute?
Non tutte queste case sono state realizzate, lo saranno quando ci sarà l'acquirente. Anche a Roma si registra il crollo del rilascio dei permessi di costruire, che nei grandi comuni, rispetto solo quattro anni fa, è pari all'85%, essendo passato dai 1821 rilasciati nel 2008 ai 263 nel 2011 ! A Roma, secondo dati dell'assessorato alle politiche urbanistiche, oltre 400 permessi di costruzione non sono stati ritirati mettendo in crisi , a Roma come altrove dove si registra analoga tendenza, la strategia di molte amministrazioni, che hanno ceduto suolo su suolo alla ricerca dei contributi finanziari relativi alle urbanizzazioni primarie, secondarie e al costo della monetizzazione degli standard.
Oggi la geografia cittadina di cantieri finiti e da aprire vede le zone nord (Talenti, Cassia, Salaria) nelle prime posizioni. A nord est nel quartiere di Bufalotta si stima che il 60% di quanto realizzato sia invenduto.
Una gran parte di patrimonio d'invenduto è presente nella zona est (Tiburtina, Ponte di Nona, Tor Sapienza, Collatina, Lunghezza). Si stima che questa "fetta" di case sia pari alle 20 mila unità. Quantità più contenute si trovano ad ovest (Casetta Mattei, Boccea, Aurelia); mentre numeri consistenti si ritrovano nella zona sud (Laurentina, Torrino, Grotta Perfetta,Ostiense fino a Parco Leonardo). Acilia, Laurentina, Ostia, Romanina, Massimina sono le località che aspettano di vendere prima di partire con la colata di cemento.

Quante e come sono?
Stime prudenti valutano che il tasso di "assorbimento" (alloggi acquisiti rispetto quanti costruiti) oggi non superi il 30% . Nel 2007 questa percentuale era pari all'80%. La tipologia richiesta è cambiata a Roma come nel resto del paese L'appartamento per la famiglia si disintegra, sezionandosi per alloggi destinati a fasce deboli: studenti, immigrati, anziani. La risposta è del tutto insoddisfacente sia per tipologia degli alloggi ritagliati all'interno di modelli esistenti né pensati come tipologia specialistica e sia perché localizzati nelle periferie urbane prive di servizi.

Cosa trovano intorno a loro?
Paradossalmente le zone dove si registra la maggiore consistenza di invenduto sono le medesime su cui si abbatterà il diluvio cementizio contenuto in molte delle 64 delibere relativa alla manovra urbanistica. Nello stesso luogo, contendendosi palmo a palmo metri di terreno uno dopo l'altro, case che ci sono e resteranno vuote e case che si vogliono realizzare, consumeranno ulteriore suolo invece di pensare a recuperare il tanto spreco edilizio.
Questo a fronte delle stime dell'Agenzia del Territorio che, analizzando i dati dell'ultimo trimestre disponibili del 2012, stima il decremento delle transazioni immobiliari precipitare dal -17,8% del primo trimestre all'attuale -25,8%.
Nel periodo compreso tra gli anni 1966 e il 2006 le compravendite di case erano raddoppiate arrivando alla cifra monstre di 900 mila del 20026 con un incremento per quel che riguarda gli scambi pari al 3,1. Lo scorso anno con l'1,8% dello stock scambiato si è ritornati ai valori di 26 anni fa.

Saranno mai abitate?
A lungo si è parlato dell'Italia come di un paese di "proprietari di casa". È ancora così? In effetti dagli anni '50, quando era proprietario della casa in cui abitava il 40% degli italiani, si è passati a circa l'80% attuale, mentre la media europea è intorno al 64%. In realtà sono stati soprattutto i figli della classe media impiegatizia ad accendere mutui per comprare la casa, mentre la maggior parte dei figli della borghesia ne è entrata in possesso per via ereditaria.
La contrazione del credito da parte degli istituti finanziari e la maggiore disoccupazione e precarietà del lavoro hanno di fatto impedito la possibilità dell'acquisto, o il pagamento di mutui già contratti.
Ed è così che si rivolgono al mercato dell'affitto giovani italiani e immigrati, mercato che non è stato mai incentivato e che non è in grado di rispondere alla attuale domanda in ascesa.
Gli enti previdenziali hanno svolto un ruolo importante nel mercato dell'affitto, ma la dismissione del loro ingente patrimonio, tutt'ora in atto, ha trasformato una parte degli inquilini in proprietari e ha messo sulla strada gli altri.
Dal 2001 al 2012 a Roma sono state vendute agli inquilini 90 mila case a prezzi molto bassi. Poi la vendita degli alloggi è stata delegata a Fondi Immobiliari che, protagonisti dei processi di cartolarizzazione, hanno preteso, per rientrare dei mutui acquisiti per permettere i sopradescritti processi finanziari, sia per l'acquisto che per l'affitto i prezzi di mercato, troppo alti per poter essere sopportati da famiglie colpite dalla crisi.
Un fenomeno che sembrava finito, quello della coabitazione di più nuclei familiari, conosce invece una ripresa e un forte incremento.
Sono sempre di più le persone che condividono un appartamento per dividere le spese di affitto, il cui costo negli ultimi dieci anni ha visto un aumento di circa il 150% e rimane la voce che incide in maniera sostanziale nelle spese delle famiglie. E sono, come detto, quasi 10 mila le persone che vivono in case occupate (lasciate vuote o invendute). Tante quanti sono gli abitanti di San Lorenzo, fanno parte di un quartiere che non c'è in case che ci sono. Si è costruito tanto. Si è consumato tanto suolo. Si continuano a costruire case destinate a non essere abitate.
Così il 6 dicembre scorso un percorso nomade varcando molte soglie di queste case ha detto che quelle case debbono essere abitate perché ogni casa lasciata vuota, non abitata, cancella insieme alle tracce di tutte queste esistenze anche l'abitare di tutti noi.

Sievocano atmosfere e terminologie americane per un progettointeressante, ma che rischia di nascere monco proprio di queglielementi di innovazione. La Repubblica Milano, 20 gennaio 2013,postilla (f.b.)

L’ISOLAcerca di ricucire una “ferita” vecchia di 60 anni. È ilcavalcavia “Eugenio Bussa”, lungo 300 metri, sospeso sopra iventi binari della stazione Garibaldi e il super trafficato vialeSturzo. Che fare di questa striscia d’asfalto, così inospitale edegradata ma fondamentale per unire l’Isola all’area di corsoComo? Il modello c’è ed è l’High Line, la vecchia ferrovia diNew York trasformata in un giardino sopraelevato con passeggiatapanoramica.

Conla differenza che qui si manterrebbe la percorribilità in auto, ma abassa velocità. I progetti elaborati all’Isola sono ricchi diproposte, per la prima volta cittadini, tecnici del Comune, designere architetti si sono messi insieme e hanno elaborato otto progetti.Il filo conduttore che li unisce tutti è quello di rendere vivibilee bello il cavalcavia con tanto verde, spazi per i bambini, ilmantenimento della pista ciclabile e un percorso per le auto, più unbar, una piazza attrezzata per incontri e un posto per gli spettacolie speciali strutture per godersi il panorama: da una parte i nuovigrattacieli di Garibaldi e dall’altro le montagne, una vistaspettacolare nei giorni in cui il cielo è limpido.

Negliotto progetti si ridisegna tutto, compresi gli innesti del cavalcaviada via Quadrio e da via Borsieri, in modo tale da ricucire per semprequella ferita, frutto di un “asse attrezzato” di un pianoregolatore del 1953, che intendeva spazzare via un’ampia fetta delquartiere. Il piano per rilanciare il ponte Bussa si chiama “Lacharrette”» ed è un esempio di “progettazione partecipata”che gli assessori Lucia De Cesaris (Urbanistica) e Daniela Benelli(Area metropolitana) intendono utilizzare anche per altre iniziativemilanesi, “in modo da ridisegnare la città insieme ai cittadini”.I progetti elaborati all’Isola sono stati messi in rete (“Garibaldie l’Isola partecipata”) ma il “confronto creativo” continueràa breve con l’esposizione dei rendering e dei modellini di cartoneall’Urban Center in Galleria. Poi la parola passerà al Comune, cheall’Isola, quartiere in grande evoluzione, intende realizzare ancheun Centro Civico, sempre consultando gli abitanti della zona.

Postilla
Esistonodue tipi di sogni: quelli belli dove progettiamo a modo nostro il mondo ideale, e quelli un pochino disturbati e contraddittori. Il secondo è tipico di quando si sonomangiati i peperoni della zia a cena, con quella sua cucina troppograssa e pesante: questo sogno della High Line alla milanese, a unirenon solo idealmente due quartieri separati dalla ferrovia (e cheferrovia) certamente non è un incubo, ma del tormentato su e giùimposto dalla peperonata della zia conserva più di qualcosa. Saràche non siamo abituati alle pietanze americane, ma almeno raccontatacosì la faccenda manca di qualche ingrediente essenziale alla buonadigestione. Che quel ponte a galleggiare da parecchi anni nel nullafosse un'occasione sprecata per la città lo sanno tutti, tranneovviamente le ex amministrazioni di centrodestra, che l'hannolasciato lì, al massimo a fare da sfondo ai videoclip del generealienazione metropolitana de noantri, o alle occasionali sfilate deiguru della moda. A questo si aggiunge lo strampalato (a esseregentili e non pensare proprio male) approccio dei progettoni ditrasformazione privata in corso, attentissimi a guglie vertiginose eindici di metri cubi, ma a dir poco svogliati quando si tratta dicostruire qualità urbana tangibile. Però la High Line originale di New York non è unprogetto principalmente spaziale. Nasce da una lunga riflessione di ordinesocioeconomico, piuttosto partecipata localmente, per il rilanciodelle attività e dei valori immobiliari di un ambito degradato dapolitiche di trasporto e zoning funzionale miopi. Gli architetti, gliagronomi a studiare e sperimentare essenze che crescono anche senzamanutenzione, a studiare il recupero della vecchia infrastruttura apasseggio e parco, sono arrivati dopo. La “charrette” (termineripreso dagli esami finali della parigina Ecole de Beaux Arts, dove icandidati saltavano anche all'ultimo minuto sulla carriola che ritirava i voluminosi rotoli degli elaborati, per ritoccare i disegni) è invece un processopartecipativo sì, ma che di solito è verso il basso, finalizzatosoprattutto a convincere i cittadini, recependone solo spuntisuperficiali e formali. Insomma ottima cosa cercare di allontanarsidall'urbanistica delle densità regalate agli amici e perequate da unangolo all'altro della città, ma perché i cittadini saltino davverosul carro delle politiche urbane bisogna farne ancora, della strada(f.b.) Qui sotto un esempio di uso "scenografico" tamarrissimo della futura High Line alla milanese, nell'epoca trionfante del socialismo craxiano locale



1. La Rete e il Neoambientalismo

La ReTe è un'Associazione che nasce da un movimento e intende restar fedele a tale origine. Il radicamento in Toscana, anche se non esclusivo (presenze in Liguria, Emilia, Lazio, Marche e Veneto lo documentano), è attualmente una delle sue caratteristiche dominanti. La ReTe mette in rapporto le esperienze di decine di Comitati, le indirizza verso i medesimi obiettivi generali e ne fa nascere una strategia complessiva, che rafforza ognuna di quelle esperienze e ne facilita l'affermazione.

Il neoambientalismo della ReTe consiste in questo:
la moltitudine delle esperienze e delle lotte, distribuite ormai in maniera molecolare sull'intero territorio toscano, si collega alle capacità elaborative e progettuali di gruppi intellettuali e professionali, che si mettono al servizio di queste cause al di fuori di ogni schema sovraimposto o burocratico. Il rapporto è inscindibile:
una delle due componenti non potrebbe fare a meno dell'altra, e in effetti è stato così in maniera sempre più integrata fino a sboccare coerentemente nell'Assemblea dei Comitati del 3 febbraio, di cui qui di seguito si fornisce l'impianto complessivo. Questo impianto è il frutto di un lungo lavorio di scambio fra Comitati e ReTe: ed è destinato a essere ancora perfezionato nel percorso che ci separa dall'Assemblea del 3 febbraio e in seguito allo svolgimento dell'Assemblea medesima.

2. L'Assemblea del 3 febbraio e la consultazione politica elettorale nazionale

L'Assemblea indetta dalla ReTe per il 3 febbraio cade nel pieno di una campagna politica elettorale nazionale. Non si tratta di mancanza di attenzione o di una vera e propria distrazione: è invece una scelta fortemente voluta, del tutto intenzionale, per due motivi.

Innanzi tutto: senza teme di smentite possiamo affermare che, da parte delle forze politiche nazionali più rappresentative, il posto riservato nel proprio dibattito pubblico e nei propri programmi ai temi dell' ambiente, del territorio, del paesaggio, dei beni culturali, è finora più che modesto, per non dire inesistente. Intendiamo reagire, proponendo ai nostri interlocutori politici e istituzionali di pronunciarsi esplicitamente sulle tematiche che noi solleviamo. Sarebbe davvero disdicevole, anzi impensabile, che al nostro appello, in una condizione del genere, non si risponda.

In secondo luogo: intendiamo rimarcare con chiarezza che i problemi e le tematiche che solleviamo non sono una delle tante aree d'interesse cui una forza politica di ambizioni nazionali dovrebbe guardare ma, nello stato presente delle cose, quella che determina tutto il resto.

Dietro le nostre critiche e osservazioni e dietro il nostro progetto si cela un diverso modo d'intendere e concepire le fondamentali scelte civili e una diversa gerarchia delle scelte e dei valori. E' facile rendersene conto. Ma per chi ancora non se ne rende conto, lo diciamo con chiarezza in esordio. Non siamo dei critici a tutti i costi: siamo i portatori di un nuovo progetto, alternativo e calato profondamente nella società civile (di cui oggi molti parlano, ma pochi sanno di cosa si tratti, e ancor meno sono disposti e tenerne realmente conto); ed è su questo che chiediamo a politici e istituzioni di pronunciarsi.

3. La valenza nazionale del progetto e dell'Assemblea

E' su questo insieme di motivi che pensiamo che l'Assemblea del 3 febbraio e la discussione che intendiamo promuovervi abbiano un'origine e una documentazione prevalentemente toscane, ma una valenza nazionale. Spesso ci è stato chiesto di valutare come la Toscana si collochi rispetto alle altre regioni italiane in merito alle questioni di cui la "Piattaforma" si fa portatrice. Non abbiamo nessuna difficoltà a riconoscere che, se la discussione da noi impostata nasce e si colloca in Toscana, ciò si deve al fatto che qui i confini dell’inarrestabile logica del "profitto a tutti i costi" non sono stati ancora del tutto, - non del tutto, lo ribadiamo – superati.

Questo tuttavia rende le manifestazioni di rottura di questo precario equilibrio tra "sviluppo" fondato sullo sfruttamento e difesa dell'ambiente ancor più clamorose. Lo abbiamo già detto più volte ma lo ripetiamo con la forza di argomenti sempre più raffinati e inconfutabili: i casi dell'Amiata, delle Apuane, la devastazione delle coste, la sciagurata scelta del sottoattraversamento ferroviario di Firenze, la battaglia per una definizione ultimativa e soddisfacente dei problemi riguardanti il corridoio tirrenico, le politiche urbanistiche in molti casi dissennate, le "città d’arte" ridotte a “città merce”, il devastante consumo di suolo ai danni del paesaggio e dell'agricoltura, le questioni (ancora tutte in sospeso) legate alla costituzione dell'area metropolitana di Firenze, connesse a loro volta con la destinazione dell'area strategica della Piana (su cui torniamo più sotto), impongono alle Amministrazioni toscane una rapida inversione di rotta ancora possibile qui più che altrove, destinata, se adottata con chiara decisione, a diventare un elemento propulsivo per l'intera situazione nazionale italiana.

4. I documenti preparatori della "Piattaforma toscana" 


I documenti preparatori della "Piattaforma toscana" si articolano in tre fondamentali Sezioni:

I. Energie, risorse, acqua, rifiuti;

II. Urbanistica e Territorio aperto;

III. Infrastrutture e Grandi Opere.

Nel loro insieme esse costituiscono la base essenziale e organica della "Piattaforma toscana". Andrebbero lette nel loro complesso. Ognuna di loro rimanda infatti alle altre due. Le articolazioni interne di ognuna di loro costituiscono d'altra parte l'inizio di un altro possibile discorso fondato su di una documentazione di prima mano, che andrebbe ulteriormente sviluppato.
L'idea generale, che presiede all'insieme dei documenti, è che, a ogni posizione critica, corrisponde un progetto alternativo. Questo significa che un diverso orientamento e una diversa prospettiva sono realmente possibili nei campi che abbiamo scelto di privilegiare. Difficile d'ora in poi considerare tale "Piattaforma" come puramente negativa.

5. Considerazioni Politico-Istituzionali 


Attiriamo ora l'attenzione su quelle questioni che, preliminarmente, e in una prospettiva più vasta, comportano la necessità di un orientamento politico- istituzionale diverso da quello che ha dominato nel corso degli ultimi anni (in taluni casi, decenni). L'enunciazione di tali materie chiarisce ancor meglio l'intreccio fra questioni toscane e questioni nazionali, sia in termini ampiamente culturali sia, come si diceva, in termini di scelte politico-istituzionali.

Ad esempio: che il nostro orientamento non sia privo di realismo e di prospettive attuabili lo dimostrano vari fattori ed esperienze anche molto recenti (confermando anche da questo punto di vista la valenza nazionale delle nostre battaglie).

Ci richiamiamo fra gli altri al fatto che il 16 novembre il governo ha approvato il Disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo, che in una prima versione (settembre) era già stato oggetto di dibattito e di osservazioni da parte di comitati e associazioni, inclusa la ReTe. Va osservato che la nuova versione ha recepito alcune delle critiche anche se è suscettibile di ulteriori miglioramenti. Nonostante che non vi siano le condizioni perché questo testo di legge venga discusso nell’attuale legislatura, riteniamo che i principi che esprime vadano riproposti come base di una nuova politica del territorio. Non si può non concordare con quanto affermato nell’art. 1, comma 3, secondo cui «le politiche di sviluppo territoriale nazionali e regionali perseguono la tutela e la valorizzazione della funzione agricola attraverso la riduzione del consumo di suolo e l’utilizzo agroforestale dei suoli agricoli abbandonati, privilegiando gli interventi di riutilizzo e di recupero di aree urbanizzate».

Il secondo esempio tocca più da vicino la situazione toscana. La legge regionale 1/2005 ha esasperato la spinta verso il decentramento, che in materia urbanistica era cominciata con la legge 5/1995, producendo macroscopiche distorsioni. Il modello toscano è stato definito "pluralismo istituzionale paritetico", consistente in buona sostanza nell'eliminazione di ogni rapporto gerarchico e nell'assoluta equipollenza degli Enti locali (Comune, Provincia, Regione). E' dunque indispensabile attribuire a "piani di area vasta" la responsabilità di determinare, attraverso percorsi concordati, il riordinamento degli strumenti urbanistici comunali. Continuare con l'assoluta, inappellabile autonomia comunale in materia di previsioni di crescita costituisce uno dei primi fattori della dilapidazione del territorio.

Per restare in argomento con un esempio particolarmente significativo, osserviamo che la scelta d'identificare come "area metropolitana" [ o "ciuttà metropolitana"? -ndr.] l'insieme delle Province di Firenze, Prato e Pistoia (FI-PO-PT), avrebbe il merito di non spezzare in due(o in tre) la rete delle interdipendenze funzionali e struttura1i di tale importantissima realtà urbanistica e territoriale, e potrebbe dar luogo in Toscana al progetto più significativo (appunto, di livello nazionale) di una pianificazione di "area vasta". Il cuore di tale progetto, il cardine di tale interdipendenza, è la Piana. Come sappiamo, le questioni che oggi affliggono la Piana sono numerose e complicate: il deprecabi1e progetto di ampliamento dell’aeroporto, il completamento del progetto Fondiaria-Ligresti, il termovalorizzatore dell' Osmannoro, la terza corsia dell' A11, il raccordo stradale Signa-Prato. Questioni tutte di difficile soluzione in una logica che continui a vedere la Piana come periferia di Firenze: invece, nella prospettiva della Città metropolitana esse emergerebbero come incompatibilità troppo vistose per non essere risolte al più presto e in via definitiva. Lo stesso auspicabile progetto di Parco agricolo,

6. Difesa del territorio e sviluppo economico: il “laboratorio Toscana”

La prospettiva politica in cui si colloca la ReTe salda la difesa e la valorizzazione di territorio, ambiente e paesaggio con le questioni dell'occupazione e del reddito. L'atteggiamento delle istituzioni e dei politici, anche di quelli che hanno mostrato o mostrano timide aperture verso gli obiettivi della ReTe, è stato di considerare il patrimonio territoriale (nelle sue declinazioni di ambiente e paesaggio) come un'esternalità dello sviluppo di cui devono essere mitigati e risarciti gli aspetti negativi. Solo lo sviluppo inteso come incremento del PIL, secondo questa fede, produce occupazione e reddito, indipendentemente dalla natura degli investimenti. Nello sfondo una fede cieca nei mercati. Occorre perciò sottolineare un principio fondamentale dell'azione della ReTe. Investire in ambiente e paesaggio produce reddito e occupazione. Gli investimenti in ambiente e paesaggio e in generale nei cosiddetti 'beni comuni' si traducono fra l'altro in beni salario. Detto in altri termini, un incremento del reddito dei lavoratori può essere monetizzato, ma può anche essere materializzato come possibilità di usufruire di servizi alla famiglia, di un ambiente pulito, di scuole accessibili, di un sistema sanitario efficiente, di, parchi e occasioni di loisir, di forme alternative di commercio. Investire sui 'beni comuni' è perciò una importante chance di occupazione e reddito ed è in grado di saldare movimenti e comitati verso obiettivi unificanti. Su questo terreno l'importante esperienza del referendum per impedire la privatizzazione dell'acqua.

La Toscana, proprio per la natura e la storia del suo territorio, può proporre straordinari modelli di produzione della ricchezza futura in forme durevoli, in cui molte cose devono decrescere (consumo di suolo, grandi opere, grande distribuzione, grandi apparati industriali, grandi dipendenze dalla finanza globale, grandi metropoli e grandi periferie), altre devono crescere (cittadinanza attiva, reti corte fra produzione e consumo, spazi pubblici, sistemi di economie locali, ripopolamento rurale e montano ecc). I percorsi del ritorno ai campi hanno lo scopo di nutrire le città con cinture di agricoltura peri-urbane (fattorie didattiche, orti, frutteti giardini) e parchi agricoli con cibo sano a km zero), con l’obiettivo di fermare i processi di deruralizzazione, riqualificare i margini urbani e avviare il ripopolamento produttivo con forme di “neoruralità” fondate sul modo di produzione contadino; di ridurre l’impronta ecologica con la chiusura locale dei cicli dell’acqua, dell’energia, dell’alimentazione; di elevare la qualità

ambientale (salvaguardia idrogeologica, qualità delle reti ecologiche e del paesaggio); di elevare la qualità abitativa delle periferie (standard di verde agricolo “fuori porta fruibile”), di riqualificare i margini urbani (qui finisce la città, là comincia la campagna); di restituire un ruolo produttivo ai paesaggi rurali storici con regole sapienti ambientali, idrogeologiche, ecologiche, produttive, in grado di dare indicazioni per la multifunzionalità dell’agricoltura e per affrontare le conseguenze del cambiamento climatico.

7. Un'altra idea di partecipazione

Le altre questioni, grandi e piccole, che riguardano il territorio e l'ambiente toscani, sono minuziosamente analizzate nei testi che seguono. Ma qui, per concludere, vogliamo introdurre un tema di riflessione di primaria importanza: quello della partecipazione. Siamo decisamente favorevoli a qualsiasi forma, giuridica e istituzionale, di promozione e regolamentazione della partecipazione. Ma la forma primaria della partecipazione è quella che prevede forme organizzate delle esperienze e delle lotte dei cittadini, che, muovendosi dal basso e da ogni possibile luogo del conflitto, presentano alle forze politiche e alle istituzioni richieste di correzione, mutamento e miglioramento.

Insomma, bisogna accettare il principio che fra le istituzioni e la politica si muove una terza forza, che non si identifica né con l'una né con le altre, ma rivendica nei loro confronti pari dignità. Non esiste solo il voto a rappresentare la cittadinanza. La ReTe e il neoambientalismo costituiscono un'esperienza decisiva in questa direzione.

La nostra idea di partecipazione prevede la consultazione preventiva dei soggetti popolari interessati, quando siano in gioco il mutamento o la trasformazione di fondamentali beni comuni. La democrazia partecipata non viene dopo ma prima: quella che cresce insieme con le decisioni dei poteri costituiti e passa, dall’inizio alla fine, attraverso un confronto continuo, da cui non possono prescindere le decisioni conclusive. E’ in questo modo che la democrazia si allarga a macchia d’olio sul territorio, invece di rimanere chiusa come spesso accade, nei Palazzi del potere.

Perciò l'Assemblea del 3 febbraio è così importante: potrà infatti costituire un momento serio di democrazia partecipata intesa in questo senso, se istituzioni e forze politiche accetteranno seriamente il confronto invece di rifugiarsi, come troppo spesso accade, in una pretesa di autosufficienza. Con questo spirito la ReTe va al confronto, chiamando i Comitati e i cittadini a esservi attivamente presenti.

Qui il testo completo del documento.

A leggere il virtuoso documento della Commissione europea sembra di leggere Manzoni: "sopire" bisognava che facesse Don Abbondio, per servire i prepotenti, "limitare, mitigare, compensare" dice oggi l'Europa, per contrastare il consumo di suolo . Per di più, sapendo già che la "compensazione" diuventerà un "green washing". L'articolo e il documento sono ripresi dal sito web Salviamo il paesaggio, 15 gennaio 2013

Con il documento “Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo” la Commissione Europea ha di recente posto l’attenzione all’eccessivo consumo di suolo nel Vecchio Continente. La sfida – peraltro ambiziosa come ammette lo stesso Janez Potočnik commissario europeo per l’ambiente – è quella per cui ogni Stato membro dovrà tener conto delle conseguenze derivanti dall’uso dei terreni entro il 2020, con il traguardo di un incremento dell’occupazione di terreno pari a zero da raggiungere entro il 2050.

“La posa di superfici impermeabili nel contesto dell’urbanizzazione e del cambiamento d’uso del terreno, con conseguente perdita di risorse del suolo, rappresenta una delle grandi sfide ambientali per l’Europa d’oggi” scrive nella prefazione al documento Potočnik.

Prima di addentrarsi a spiegare quali possono essere gli approcci tesi a limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo, la Commissione Europea indica un elemento di base necessario per raggiungere l’obiettivo “consumo di suolo = zero”: la piena collaborazione tra tutte le autorità pubbliche competenti, non solo dei dipartimenti preposti alla pianificazione e alle questioni ambientali ma anche, e in particolare, quegli enti governativi (Comuni, Province e Regioni) che gestiscono un territorio. È quindi ora che il consumo di suolo diventi un’aspirazione condivisa.

Dalla metà degli anni ’50 la superficie totale delle aree urbane nell’UE è aumentato del 78% mentre la crescita demografica è stata di appena il 33%.Questo significa che in tutta Europa la tendenza a “prevedere” piani di espansione urbanistica senza un’equilibrata correlazione con le effettive esigenze demografiche è prassi comune.

Attualmente, le zone periurbane presentano la stessa estensione di superficie edificata delle aree urbane, tuttavia solo la metà di esse registrano la stessa densità di popolazione. Lo sprawl è un fenomeno pericoloso: la diffusione di nuclei caratterizzati da bassa densità demografica costituiscono una grande minaccia per uno sviluppo urbano sostenibile. Inoltre l’espansione della città eleva i prezzi dei suoli liberi entro i confini urbani incoraggiando così il consumo verso l’esterno, consumo che a sua volta genera nuove domande di infrastrutture di trasporto e pendolari che si spostano per raggiungere il proprio posto di lavoro.

Passiamo all’aspetto dell’impermeabilizzazione. Oltre a ridurre gli effetti benefici che un terreno ha sull’ecosistema, l’impermeabilizzazione di un ettaro di suolo significa far evaporare una quantità d’acqua tale per cui viene impiegata l’energia prodotta da 9000 congelatori, circa 2,5 kWh, per rendere quel terreno arido. Supponendo che l’energia elettrica costi 0,2 EUR/kWh, un ettaro di suolo impermeabilizzato fa perdere circa 500mila euro a causa del maggior fabbisogno energetico. Limitare l’impermeabilizzazione del suolo è sempre prioritario rispetto alle misure di mitigazione ma laddove questo non avviene verde pubblico e uso di materiali permeabili sono i due principali elementi per tendere verso il risparmio energetico. Tale risparmio è un vantaggio per le economie europee vessate dalle spese: ad esempio un tetto verde riduce i costi energetici di un edificio dal 10% al 15%. Per non parlare dell’inquinamento: un albero calato all’interno di un contesto urbano può catturare 100 grammi netti di polveri sottili l’anno. Calcolando i costi di riduzione delle polveri, piantare un albero in città significa investire 40 euro all’anno.

Queste sono solamente alcune delle buone prassi che l’Europa caldeggia in fatto di limitazione del consumo di suolo e indica come ultima spiaggia la “compensazione”, sempre che questa non si trasformi in mero “green washing”.

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Un documentario tedesco per documentare il degrado cui il turismo selvaggio ha ridotto la città più bella del mondo. La Nuova Venezia, 18 gennaio 2012 (m.p.g.)

Folla, Grandi navi, caro-case nel lavoro del regista altoatesino Andreas Pichler. Gran successo di pubblico in Germania: «Residenti ribelli, ma rassegnati». Un film-documentario che racconta Venezia e i veneziani, ma che, per ora, hanno potuto vedere solo i tedeschi e altoatesini. È "Teorema Venezia" del regista Andreas Pichler, in prima nazionale ieri a Bolzano, in replica fino a fine mese, ma già proiettato con molto successo in una ventina di sale della Germania, con il titolo "Das Venedig Prinzip". Quello di Pichler è una via di mezzo tra il film e l'inchiesta, su una Venezia che ben conosciamo: la città dai 56 mila abitanti in costante calo e i 21 milioni di turisti in continua crescita. «Venezia è il simbolo di quel che accade se di uno spazio urbano si fa puro business», spiega il regista in un'intervista, «turismo di massa e speculazione immobiliare emarginano le persone, anche se Venezia resta ancora un incredibile viaggio nel tempo». Alle scene accelerate della folla impazzita fanno da contrappunto immagini poetiche di silenzi e tramonti viola e rosa: Venezia senza turisti, pochi giorni, poche ore all'anno. E poi ci sono le scene-choc, come quelle che riprendono le immense navi da crociera.
Due anni di preparazione, uno di riprese: Andreas Pichler ha intervistato, seguito a casa, nei loro spostamenti quotidiani al mercato o in ufficio, una manciata di "veri" veneziani. Tuddy è una vivace e ribelle nobildonna 80enne che si batte per salvare quello che ancora si può salvare della sua città. Pietro è un agente immobiliare che una volta restaurava i palazzi e ora assiste al loro degrado. Flavio trasporta cose e persone per i canali di Venezia. Federica fa la guida. Il film parteciperà al concorso tedesco Dok Leipzig, uno dei più importanti Festival internazionali del documentario. Nato a Bolzano nel 1967, Andreas Pichler ha frequentato la Scuola di documentario Zelig, quindi ha studiato Filosofia e Cinema all'Università di Bologna e Berlino. Nel 2004 ha vinto con "Call me Babylon" il prestigioso premio tedesco Adolf Grimme . Oggi lavora come autore e regista in Germania, Italia, Austria e Svizzera e vive tra Terlano, con la moglie e tre bambini, e Berlino. «Venezia è l'esempio più eclatante del degrado, la città più bella e che soffre dei mali peggiori», racconta il regista, «la conosco bene, ho molti amici e la frequento da anni. Mi piace lo spirito ribelle dei veneziani che fa parte del film, ma in generale manca la volontà di cambiare le cose, anche se la gente è esasperata. I veneziano sono delusi perché i tanti interventi internazionali non hanno portato a niente, sono combattuti tra i loro interessi economici e la salvaguardia della loro città. Sanno che il turismo porta benessere, ma anche degrado: ma i veneziani sono anche combattivi e ribelli, come la Tuddy...».

Una sentenza utile per chiunque, in Italia, sappia usare le regole nel modo corretto La Repubblica on-line, 16 gennaio 2013.

IL TAR della Sardegna ha scritto una parola forse definitiva sull'interminabile vicenda della necropoli fenicia di Tuvixeddu, nel cuore di Cagliari. Ed è un no al cemento che da anni minaccia di invadere, e in parte ha già invaso, questi colli dove dal VI secolo avanti Cristo si installò una città funeraria che durò fino all'Alto Medioevo. Un luogo di mirabile fascino, non solo archeologico, ma anche per il paesaggio che si è andato formando. Una vicenda fra le più tormentate della tutela in Italia. Il Tribunale amministrativo ha accolto l'istanza della Regione, della Soprintendenza ai beni paesaggistici e di Italia Nostra e respinto quella di Coimpresa, la società che vorrebbe costruire 270 mila metri cubi di palazzine e di ville affacciate sulle tombe.

La questione è molto tecnica e si inerpica fra ricorsi e controricorsi che vanno avanti da anni e si avvolgono in una spirale avvocatesca senza fine. In sostanza, il Tribunale amministrativo di Cagliari ha stabilito che il vincolo di inedificabilità assoluto posto su cinquanta ettari di Tuvixeddu dal Piano paesaggistico dell'amministrazione regionale di Renato Soru è valido e insormontabile. La prevalenza di quel vincolo era stata già stabilita da una sentenza del Consiglio di Stato del 2011, la quale a sua volta sembrava aver chiuso completamente al mattone. Ma i costruttori sostenevano che il vincolo non annullava un accordo di programma sottoscritto nel 2000 con il Comune (allora retto dal centrodestra), accordo che consentiva di edificare un quartiere di palazzine a ridosso delle migliaia di sepolture antiche. La sentenza emessa ora dal Tar sgombra il campo dagli equivoci: il vincolo annulla l'accordo di programma. Punto e basta. Teoricamente l'impresa costruttrice potrebbe di nuovo ricorrere al Consiglio di Stato, ma sembra inverosimile che il supremo tribunale amministrativo smentisca se stesso.

Dunque per Tuvixeddu si apre un futuro di tutela integrale, non solo nell'immediata vicinanza delle tombe, ma in un'area che raggiunge i cinquanta ettari e che garantisce ai reperti archeologici una zona di protezione sufficiente. I cinquanta ettari, inoltre, sono inclusi in un'area ancor più vasta - centoventi ettari - anch'essa vincolata dal Piano paesaggistico di Soru. Secondo il Consiglio di Stato, che si pronunciò nel 2011, "cura dell'interesse pubblico paesaggistico concerne la forma circostante, non le strette cose infisse o rinvenibili nel terreno con futuri scavi". La questione viene giudicata fondamentale ed estensibile anche oltre la vicenda di Tuvixeddu. Dove, per altro, dopo l'accordo fra Comune e costruttori furono rinvenute diverse centinaia di nuove tombe che resero necessario l'allargamento dell'area da tutelare.

Il colle di Tuvixeddu, insieme al vicino colle di Tuvumannu, sorge nel centro di Cagliari, affacciato sullo stagno di Santa Gilla. Tutt'intorno è cresciuta disordinatamente la città e negli ultimi anni si sono alzati edifici altissimi che oscurano la vista dello stagno dai colli. Inoltre ai piedi di Tuvixeddu, lungo via sant'Avendrace, si è sviluppata nei decenni una cortina di palazzi, alcuni dei quali costruiti proprio sulle tombe. Tutta intera la necropoli è inaccessibile, se non intrufolandosi fra i palazzi e salendo carponi. Molte tombe sono abbandonate al degrado, usate come discariche. E tante altre sorprese potrebbe riservare il colle se solo si potesse avviare una campagna di scavo accurata.

Il comitato Portuale approva il piano operativo in contrasto con gli strumenti urbanistici comunali e regionali. La Regione aderisce al Piano; il Comune non si oppone ma si limita ad astenersi. Senza perdite prosegue insomma, con un piano illeggittimo ma finanziato, il cammino dei distruttori della Laguna e del degrado mercantile della città. La nuova Venezia, 16 gennaio 2013


«L’off shore? Fino a qualche anno fa sembrava un miraggio, adesso è un progetto concreto, finanziato dalla Legge di Stabilità. Quello approvato ieri è un importante manifesto programmatico per il Porto del futuro». Comune e Provincia si astengono, la Regione invece ha votato a favore del Piano portuale. «Un voto convinto», spiega l’assessore alle Infrastrutture di palazzo Balbi Renato Chisso, da sempre un sostenitore dei progetti di Costa, «perché così possiamo rilanciare il porto e anche l’economia della regione»

Piano approvato. Ma con l’astensione di Comune, Provincia e Comune di Mira. Il Pot (Piano operativo triennale) riceve il via libera dal Comitato portuale. Il presidente Paolo Costa canta vittoria e i grandi progetti come il porto d’altura e il nuovo canale Contorta per le grandi navi in laguna fanno un passo avanti. Ma con Ca’ Farsetti è soltanto tregua. «Ci siamo astenuti», dice il delegato del sindaco, l’assessore alle Aziende Antonio Paruzzolo, «perché non possiamo approvare un Piano che non recepisce le linee dei nostri Piani regolatori. Sulle linee strategiche siamo anche d’accordo, ma molte questioni restano aperte». Astenuto anche il Comune di Mira, che chiede di approfondire la ricaduta dei nuovi traffici ferroviari merci sulla linea dei Bivi che passa per Oriago. E il rappresentante della Provincia Giovanni Anci, da sempre contrario al terminal d’altura, che ha chiesto di verificare soluzioni immediate e alternative per rilanciare il traffico portuale. Un pacchetto di interventi pronti a partire.

Nello scenario a lungo termine, ma anche negli interventi immediati, come il via alle banchine per le autostrade del mare che saranno inagurate a Marghera entro la fine dell’anno. E il Porto Franco, che dovrà essere spostato in terraferma per dar fiato ai traffici nell’area metropolitana. Il Piano racchiude in sé gli obiettivi del Porto per i prossimi tre anni. Rilancia la questione dell’off shore («È un progetto che va avanti, non è più un’idea», dice Costa), ma anche la Marittima come «unica soluzione» per le navi. Uno studio comparativo fatto da Ca’ Foscari proverebbe che al momento non vi sono alternative praticabili a parte lo scavo del canale Contorta Sant’Angelo, che sarà portato da 2 a dieci metri di profondità, larghezza circa cento metri. Bocciata dunque, ancora una volta, la proposta avanzata dal Comune, che ha inviato a Roma un progetto per spostare le grandi navi a Marghera. «Non ci stanno, bisognerebbe chiudere il traffico commerciale», obietta Costa.

Nel Piano si parla anche di scavo del canale Malamocco Marghera e nuove aree di sosta per le navi, del raddoppio della darsena di Lio Grando. E della destinazione futura di alcuni immobili dell’Autorità portuale. Come la sede delle Zattere, per cui è stata bandita una gara per l’affitto a uso uffici ma anche residenza e commerciale. E poi i garage. Partita aperta anche questa con il Comune nell’ambito dell’Accordo di programma su San Basilio. Il tram arriverà alla vecchia stazione Marittima, in cambio il porto chiede di realizzare un nuovo garage. Ma il Comune ha detto no. Approvando la delibera che riapre alla città kle aree dismesse di San Basilio e vincolando il nuovo garage a una serie di condizioni. Il Pot intanto è stato approvato, anche se non ha valore di strumento urbanistico. «Per quello si dovrà attendere il nuovo Piano Regolatore portuale, che andrà fatto d’intesa con il Comune. «Una forzatura del presidente del Porto», scrive il capogruppo di In Comune Beppe Caccia, «un Piano approvato senza il consenso di Comune e Provincia è soltanto il libro dei sogni, anzi degli incubi del presidente

Paolo Costa
«Sugli obiettivi da conseguire siamo tutti d’accordo»
«Le astenioni di Comune, Provincia e Mira? Sfumature. Chi si è astenuto lo ha fatto per proporre idee interessanti. Ma sugli obiettivi siamo tutti d’accordo». È famoso per essere piuttosto deciso, il presidente dell’Autorità portuale Paolo Costa. E ieri ne ha dato dimostrazione. Uscendo (quasi) indenne da un Comitato portuale che si annunciava infuocato, per via della contrapposizione tra Porto e Comune su alcune questioni, a cominciare dalle grandi navi e dalle aree di San Basilio. Invece il Pot è stato approvato dopo sole due ore di discussione. E il presidente sprizza soddisfazione. «Dibattito costruttivo, i nostri progetti vanno avanti», dice. «I 100 milioni che abbiamo ottenuto della Finanziaria per il porto d’altura significano che lo Stato ha deciso di puntare su quella grande opera. Il terminal off shore va fatto, anche per riutilizzare un impianto portuale che ha quasi un secolo. Allora era all’avanguardia, oggi ha bisogno di essere ripensato».

E le conseguenze ambientali? «Questa secondo me è una grande opera di riequilibrio ambientale», continua il presidente, «perché altrimenti avremmo dovuto scavare i canali in laguna fino a 14 metri». Invece l’off shore, garantisce Costa, «rilancerà l’economia portuale dei prossimi decenenni». Nessun problema nemmeno per le rotture di carico: «Stiamo studiando con gli Industriali soluzioni operative all’avanguardia. Le merci saranno smistate durante il percorso in chiatta tra l’off shore e le banchine di Marghera. «Non perderemo tempo, guadagneremo in operatività essendo in grado di svolgere quelle operazioni in mare come fossimo in banchina». Con il Comune restano alcuni nodi aperti, a cominciare dalle grandi navi. Costa e il suo Piano approvato ieri rilanciano l’ipotesi del canale Contorta Sant’Angelo come «unica alternativa realizzabile».

Un’idea che l’ex sindaco ha in testa almeno dal 2004, quando allora commissario contro il moto ondoso, aveva proposto di utilizzare il canale Vittorio Emanuele per far arrivare le navi in Marittima da Malamocco. «Allora fu proprio l’ingegnere D’Alpaos a dirmi che era meglio scavare il Contorta. Lui nega, ma io lo devo dire. E sono convinto: anche quella potrebbe essere un’operazione di ricostruzione ambientale. Nella zona di partiacque non avrebbe conseguenze negative dal punto di vista idraulico. E l’alternativa è lasciare tutto com’è». Infine, le aree di San Basilio. Il contenzioso è aperto, e il Porto vuole «mettere a reddito le sue proprietà». «Io devo applicare le norme, non faccio politica», ripete Costa. Dal Comune dovrebbe ricevere 14 milioni e mezzo per l’uso della Stazione d’arrivo del tram (ex stazione Marittima). Poi ci sono i garage. Quello nuovo, ma anche quello mai nato, che dovrebbe dare 1.500 posti auto ai residenti. «Noi siamo pronti, aspettiamo il Comune», dice Costa

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Si svuota della sua funzione e del lavoro che l'ha alimentata per oltre un secolo la cartiera Burgo di Mantova, monumento di architettura moderna. Corriere della Sera Lombardia, 16 gennaio 2013, postilla (f.b.)

MANTOVA — Non è solo una fabbrica, la cartiera Burgo di Mantova, che l'altro giorno ha annunciato la chiusura il 9 febbraio, lasciando a casa 188 dipendenti. Piuttosto, l'altra faccia della città, quella che si specchia sulla sponda opposta dei laghi. Di là il profilo suggestivo disegnato dai palazzi dei Gonzaga. Di qui la cartiera, anch'essa opera d'arte, la «fabbrica sospesa» disegnata nel 1961 da Pier Luigi Nervi, che aveva appeso con tiranti d'acciaio il tetto dell'edificio a due enormi alzate in cemento armato. Non per una ragione estetica, ma per far stare sotto la fabbrica, in un'unica campata, un potente macchinario americano, da 300-400 metri di carta al minuto.

C'era fame di carta da giornale, all'epoca. Non come adesso, che di quotidiani se ne vendono sempre meno. Ma per scriverla tutta, la storia della cartiera, bisogna partire da ancora più indietro. Marzo 1902. La società Binda Lamberti &C. compra 12 ettari di terreno in zona Poggioreale. Un imprenditore inglese, Arturo Burton Buchley, a fine Ottocento ci aveva impiantato una piccola raffineria, che aveva avuto vita breve. Nel 1904 apre il primo impianto di produzione di cellulosa. Dopo una serie di passaggi di proprietà, nel 1931 l'ingegnere genovese Luigi Burgo la compra dai banchieri svizzeri Vonwiller.

La cartiera diventa più grande, risorge anche dalle ceneri di un incendio del 1938 e, durante la guerra, viene militarizzata: la cellulosa serve infatti a produrre esplosivi. Scampato alla guerra e al fascismo, l'ingegner Burgo intuisce che, nella nuova Italia democratica, la carta da giornale può trasformarsi in cartamoneta. Si lancia su quel mercato e ne diventa il leader. A metà anni Sessanta gli operai sono quasi 700. Nel 1974, quando un altro disastroso incendio la devasta, la fabbrica produce quasi la metà di tutta la carta da giornale italiana.

I primi problemi, con vertenze e licenziamenti, si fanno sentire già negli anni Ottanta, ma il declino irreversibile avviene quattro anni fa, con la riduzione della domanda, l'aumento della concorrenza straniera e l'impennata dei costi. Nel frattempo l'azienda cambia ancora proprietà, passando nelle mani delle banche e della famiglia di imprenditori vicentini Marchi. Lunedì pomeriggio, Burgo Group, annuncia la chiusura.

«Dal 2008 — racconta Gian Paolo Franzini, segretario provinciale Slc Cgil — insistiamo per una riconversione o una diversificazione della produzione, che forse avrebbero potuto limare le perdite (un milione al mese nell'ultimo anno) e l'indebitamento (oltre 900 milioni)».
I lavoratori, riuniti ieri in assemblea, continuano a sperare in una rivoluzione produttiva, nell'ingresso di nuovi capitali. Ma da Confindustria dicono: «Per ora non ci sono strade aperte in tal senso».

Postilla

Naturalmente i migliori auguri e auspici perché la questione occupazionale, per i lavoratori e le famiglie che dipendono direttamente e indirettamente dalla cartiera, trovi rapidamente e positivamente sbocco. Il caso del complesso progettato da Pierluigi Nervi, un manufatto che si studia ovunque su tutti i testi di Storia dell'Architettura, com esempio mirabile di “moderno che dialoga alla pari con l'antico”, può però diventare emblematico di un tema urbanistico di grande attualità, nel nostro paese e non solo, proprio per la sua rilevanza, nonché per la collocazione in un territorio come quello mantovano, generalmente piagato dalle classiche distese di capannoni vuoti e inutili, a consumare ex fertili campagne, come la distesa che si può ammirare giusto alle spalle della cartiera, appena oltre la circonvallazione est. Se si vuole davvero dialogare alla pari con l'antico, con la qualità unica paesistica ambientale e culturale rappresentata dal centro storico e dal lago su cui si affaccia l'imponente struttura, è essenziale rivederne il rapporto col suolo, che un'idea di manufatto industriale vetusta ma tecnicamente accettata ha sinora ridotto quasi a nulla. Per diventare parte integrante della città, oltre al suo rapporto sociale ed economico attraverso il lavoro, il monumento deve recuperare continuità territoriale, e non chiudersi nel beato isolamento, magari sfruttando la storia industriale per riciclarsi in una gated community sui generis. Cosa che invece avviene spesso e volentieri con tanti complessi industriali dismessi, come a Londra recentemente con la centrale di Battersea, quella famosa in tutto il mondo per la copertina dell'album Animals, dei Pink Floyd, diventata quello che in gergo viene definito uno “yuppodromo”. Un caso da seguire, quindi, nella sua evoluzione, perché paradigmatico e potenziale modello, in positivo o in negativo (f.b.)

I promotori e i firmatari del presente appello chiedono a chi si candida a governare l’Italia impegni programmatici per il rilancio della cultura intesa come promozione della produzione creativa e della fruizione culturale, tutela e valorizzazione del patrimonio, sostegno all’istruzione, all’educazione permanente, alla ricerca scientifica, centralità della conoscenza, valorizzazione delle capacità e delle competenze.
La crisi economica e la conseguente riduzione dei finanziamenti stanno mettendo a dura prova l’esistenza di molte istituzioni culturali, con gravi conseguenze sui servizi resi ai cittadini, sulle condizioni di lavoro e sul futuro di molti giovani specificamente preparati ma senza possibilità di riconoscimento professionale. Questa situazione congiunturale è aggravata dalla crisi di consenso che colpisce la cultura, che una parte notevole della classe dirigente – pur dichiarando il contrario – di fatto considera un orpello inattuale, non elemento essenziale di una coscienza civica fondata sui valori della partecipazione informata, dell’approfondimento, del pensiero critico.
Noi rifiutiamo l’idea che la cultura sia un costo improduttivo da tagliare in nome di un malinteso concetto di risparmio. Al contrario, crediamo fermamente che il futuro dell’Italia dipenda dalla centralità accordata all’investimento culturale, da concretizzare attraverso strategie di ampio respiro accompagnate da interventi di modernizzazione e semplificazione burocratica. La nostra identità nazionale si fonda indissolubilmente su un’eredità culturale unica al mondo, che non appartiene a un passato da celebrare ma è un elemento essenziale per vivere il presente e preparare un futuro di prosperità economica e sociale, fondato sulla capacità di produrre nuova conoscenza e innovazione più che sullo sfruttamento del turismo culturale.
Ripartire dalla cultura significa creare le condizioni per una reale sussidiarietà fra stato e autonomie locali, fra settore pubblico e terzo settore, fra investimento pubblico e intervento privato. Guardare al futuro significa credere nel valore pubblico della cultura, nella sua capacità di produrre senso e comprensione del presente per l’avvio di un radicale disegno di modernizzazione del nostro Paese.

Per queste ragioni chiediamo che l’azione del Governo e del Parlamento nella prossima legislatura, quale che sia la maggioranza decisa dagli elettori, si orienti all’attuazione delle seguenti priorità.
Puntare sulla centralità delle competenze
Promuovere e riconoscere il lavoro giovanile nella cultura
Investire sugli istituti culturali, sulla creatività e sull’innovazione
Modernizzare la gestione dei beni culturali
Avviare politiche fiscali a sostegno dell’attività culturale

I promotori e i firmatari del presente appello chiedono di accogliere nei programmi elettorali queste priorità e di sottoscrivere i dieci obiettivi seguenti, che dovranno caratterizzare il lavoro del prossimo Parlamento e l’azione del prossimo Governo. Il nostro sostegno, durante e dopo la campagna elettorale, dipenderà dall’adesione ad essi e dalla loro realizzazione.
1) Riportare i finanziamenti per le attività e per gli istituti culturali, per il sistema dell’educazione e della ricerca ai livelli della media comunitaria in rapporto al PIL.
2) Dare vita a una strategia nazionale per la lettura che valorizzi il ruolo della produzione editoriale di qualità, della scuola, delle biblioteche, delle librerie indipendenti, sviluppando azioni specifiche per ridurre il divario fra nord e sud d’Italia.
3) Incrementare i processi di valutazione della qualità della ricerca e della didattica in ogni ordine scolastico, riconoscendo il merito e sanzionando l’incompetenza, l’inefficienza e le pratiche clientelari.
4) Promuovere sgravi fiscali per le assunzioni di giovani laureati in ambito culturale e creare un sistema di accreditamento e di qualificazione professionale che eviti l’immissione nei ruoli di personale non in possesso di specifici requisiti di competenza. Salvaguardare la competenza scientifica nei diversi ambiti di intervento, garantendo organici adeguati allo svolgimento delle attività delle istituzioni culturali, come nei paesi europei più avanzati.
5) Promuovere la creazione di istituzioni culturali permanenti anche nelle aree del paese che ne sono prive – in particolare nelle regioni meridionali, dove permane un grave svantaggio di opportunità – attraverso programmi strutturali di finanziamento che mettano pienamente a frutto le risorse comunitarie; incentivare formule innovative per la loro gestione attraverso il sostegno all’imprenditoria giovanile.
6) Realizzare la cooperazione, favorire il coordinamento funzionale e la progettualità integrata fra livelli istituzionali che hanno giurisdizione sui beni culturali, riportando le attività culturali fra le funzioni fondamentali dei Comuni e inserendo fra le funzioni proprie delle Province la competenza sulle reti culturali di area vasta.
7) Ripensare le funzioni del MiBAC individuando quelle realmente “nazionali”, cioè indispensabili al funzionamento del complesso sistema della produzione, della tutela e della valorizzazione dei beni culturali, per concentrare su di esse le risorse disponibili. Riorganizzare e snellire la struttura burocratica del ministero, rafforzando le funzioni di indirizzo scientifico-metodologico e gli organi di tutela e conservazione, garantendone l’efficienza, l’efficacia e una più razionale distribuzione territoriale.
8) Inserire la digitalizzazione del patrimonio culturale fra gli obiettivi dell’agenda digitale italiana e promuovere la diffusione del patrimonio culturale in rete e l’accesso libero dei risultati della ricerca finanziata con risorse pubbliche.
9) Potenziare l’insegnamento delle discipline artistiche e musicali nei programmi di studio della scuola primaria e secondaria e sviluppare un sistema nazionale di orchestre giovanili.
10) Prevedere una fiscalità di vantaggio, compreso forme di tax credit, per l’investimento privato e per l’attività del volontariato organizzato e del settore non profit a sostegno della cultura, con norme di particolare favore per il sostegno al funzionamento ordinario degli istituti culturali. Sostenere la fruizione culturale attraverso la detraibilità delle spese per alcuni consumi (acquisto di libri, visite a musei e partecipazione a concerti, corsi di avviamento alla pratica artistica); uniformare l’aliquota IVA sui libri elettronici a quella per l’editoria libraria (4%); prevedere forme di tutela e di sostegno per le librerie indipendenti.

Promotori:MAB Musei Archivi Biblioteche
AIB – Associazione Italiana Biblioteche
ANAI – Associazione Nazionale Archivistica Italiana
ICOM Italia- International Council of Museums
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