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Ancora una volta c'è un'amministrazione locale che non sa proprio fare il suo mestiere, e si tira la zappa sui piedi per puro vuoto culturale e approccio contabile. Il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2013, postilla (f.b.)

Il fatto era stato già denunciato su questo giornale in un articolo a firma di Tomaso Montanari: nonostante a quasi quattro anni dal sisma il centro storico de L’Aquila sia ancora “una città fantasma” e le pratiche relative alla ricostruzione siano “ferme e confinate in un limbo istituzionale”, il sindaco Massimo Cialente (Pd) di recente ha presentato un progetto per costruire, sotto la grande Piazza del Duomo, un centro commerciale sotterraneo con negozi “di lusso” e con annesso un parcheggio da 500 posti, il tutto, per intendersi, in stile “Galleria Alberto Sordi”, che è a Roma di fronte a Piazza Colonna.

Il progetto agli occhi degli esperti appare come “l’ennesima negazione di una corretta ricostruzione del centro storico, sia dal punto di vista storico-culturale, sia per quanto riguarda la sua rivitalizzazione, indice di una gestione della città che fin dall’inizio ha rifiutato una visione d’insieme e si è invece adagiata in una posizione inerziale, disponibile a ogni sorta di proposte avanzate da chicchessia”. E proprio per evitare che ciò avvenga, perché “L’Aquila si merita di essere più di un ‘salotto’ commerciale di lusso scavato sotto un centro monumentale in rovina” è stato lanciato in Rete l’“Appello per L’Aquila”, sottoscritto da personalità e urbanisti di fama nazionale, per chiedere al Comune il ritiro immediato del progetto.
Irritata la risposta del sindaco Cialente: “Delle due cose, l’una: o non si sa cosa sia un project financing, con la relativa normativa, oppure si sta facendo di tutto per strumentalizzare le mie parole – perché, prosegue – questo è il primo vero project financing del dopo terremoto che ci viene presentato, un progetto che impegna l'amministrazione, per legge, a dire se sia di interesse pubblico o meno, entro 150 giorni”. Il progetto presentato da Cialente, invece, per i sottoscrittori dell’Appello è in perfetta continuità culturale con la distruzione del tessuto civile provocato dalle new town di Berlusconi e Bertolaso: “Se in quel caso si rimuoveva il cadavere della città storica andando a cementificare la campagna, qui sembra gli si voglia scavare la fossa, letteralmente e metaforicamente”.
Postilla
Se solo non ci fosse sempre questo atteggiamento pronto all'individuazione del salvatore della patria, che si materializza (come ovvio) nelle forme di un prodotto preconfezionato chiavi in mano, perché così funziona il suo modus operandi! E se si provasse a riflettere, e guardarsi attorno, a proposito della differenza abissale fra l'ambiente a vuoto pneumatico extraurbano (dove è stato allevato il format) e la delicata cristalleria della città tradizionale! E invece sulla base di conti di solito truccati ci si tira in casa entusiasti, alla Nando Mericoni, lo slogan del project financing. Il quale non è cattivo come metodo in sé, ma deve essere riplasmato sulle specifiche esigenze spaziali e socioeconomiche di un tessuto diverso. Ad esempio: che squilibri induce nelle attività consolidate? Qualcuno l'ha verificato l'impatto? E quello sul traffico? Insomma, prima di mangiarsi un bue intero, il consiglio della zia è almeno, prima, di arrostirlo, salarlo, tagliarlo a fettine. Non trangugiarlo in un boccone entusiasti perché l'insegna al neon ci propone il fantastico "Beef Gulping"! (f.b.)

Le reazioni diffuse alla crisi economica se non altro dimostrano alcune potenzialità per il territorio, la città, le aree periurbane, da non sottovalutare. Corriere della Sera Lombardia, 13 febbraio 2013, postilla

MILANO — Meno carne, pesce, ortaggi e frutta in tavola. Più uova, farina, pane, riso e pasta. Sulle tasche dei lombardi la crisi pesa e li costringe anche a cambiare il menu. E nel carrello della spesa non solo si impoverisce la qualità, ma diminuisce anche la quantità, tanto che i consumi alimentari nel 2012 sono scesi del -5,7%. «Sono tagli e rinunce degni di un'economia di guerra», dice Giuseppe Elias, assessore regionale all'agricoltura, esaminando il rapporto di Unioncamere sullo stato di salute del settore. Un comparto «green» che, come spiega il presidente Francesco Bettoni, anche negli ultimi tre mesi dello scorso anno «conferma una situazione difficile»: trimestre negativo per il lattiero-caseario e per le carni bovine, positivo solo per il mercato di suini, cereali e vini, grazie all'export (+6,5% a novembre), che rimane il salvagente per tante aziende agricole, considerato il continuo calo della domanda interna.

Non solo però i lombardi cambiano stile e abitudini a tavola. Infatti, in tempi di portafogli più magri, c'è anche un ritorno del «fai-da-te» casalingo: l'impennata di vendite di farina, uova e burro sta a indicare che le famiglie hanno la tendenza a preparare pane, biscotti, torte e pasta in casa, rinunciando ad acquistarli al supermercato. Così come è boom dell'orto «fai-da-te»: in giardino, o sul balcone, dilagano le coltivazioni domestiche di insalata, pomodori, piante aromatiche, zucchine, melanzane, piselli, fagioli, basilico. E non è tutto: perché, con i consumatori sempre a caccia di sconti e risparmi, da Sondrio a Pavia sono precipitati (-3,3%) gli affari per i piccoli negozi di alimentari, come per fruttivendoli e macellerie; mentre sono volati quelli per i discount (+3%) e per i mercati contadini dove c'è un miglior rapporto qualità/prezzo.

Ma, se le famiglie tirano la cinghia, anche le 50.258 aziende agricole della Lombardia non sorridono. Anche perché, negli ultimi tre mesi del 2012, hanno chiuso 248 fattorie, mentre il 78% degli imprenditori della terra ha già annunciato che non farà investimenti nel 2013. Numeri allarmanti, tanto che l'assessore Elias parla di «scenario preoccupante», mentre il ricercatore Luca Marcora, che ha messo a punto per Unioncamere l'analisi congiunturale del quarto trimestre 2012, spiega che «l'aumento dei costi di produzione e la debolezza dei consumi interni continuano a penalizzare gli agricoltori». E il futuro è tutt'altro che roseo: perché all'orizzonte si affaccia la minaccia di nuove multe europee per il probabile sforamento delle quote latte, perché la siccità che ha falciato (-25%) l'ultimo raccolto di mais, perché chi produce latte, Grana Padano, carne bovina, ortaggi e frutta continua a lavorare in perdita.

Postilla
La spinta verso l'agricoltura fai da te è certamente il sintomo di una crisi, che non è congiunturale ma di sistema. Ma pensare che indichi una soluzione proponibile per l'intera umanità sarebbe come se, ai tempi di Marx, si fosse pensato di uscire dal capitalismo della borghesia proponendo di tornare all'autoconsumo del feudalesimo. E' certamente più difficile pensare (e costruire) un domani che superi il presente anziché riproporre il passato. Purtroppo è l'unica via che consenta di uscire dalla barbarie presente senza ricadere (se pure fosse possibile) in quella dei bel tempi andati

Certe pensate sedicenti futuribili per la città, spesso hanno un che di parecchio vintage nella cosa più importante, e cioè il metodo: tecnocraticamente autoritario, e per sua stessa natura insostenibile

Quante volte abbiamo letto o ascoltato delle infinite lamentele degli inquilini di case popolari a molti piani che si trovano male per questo o quel motivo. A volte si tratta di cose abbastanza lampanti e del tutto condivisibili, ovvero il degrado degli impianti o degli stessi edifici, altre volte di disagi più sottili come l'assenza di identità o qualità degli spazi, o la loro scarsa difendibilità (per dirla col neologismo inventato dal profeta della sicurezza Oscar Newman). A volte si tratta invece di disagi talmente vaghi e vari da essere davvero incomprensibili, salvo a certi opinionisti conservatori: le case popolari sono una soluzione sbagliata al problema dell'abitazione, pensata da architetti cresciuti in una logica culturale totalitaria, tendenzialmente comunista, dove ai bisogni dell'individuo non si presta alcuna attenzione, tutti impegnati a costruire grandi macchine ideologiche in forma di quartiere. Il problema è che, a parte il linguaggio tagliato con l'accetta, e il parlare spesso e volentieri a vanvera, questi opinionisti conservatori colgono nel segno.

Infatti è almeno dall'esplosione delle prime critiche radicali (quelle progressiste intendo) al modello della città-macchina, con William Whyte, Jane Jacobs e l'infinita serie dei loro epigoni in tutto il mondo, che laboriosamente altrettante generazioni di progettisti si cimentano con forme diverse da quelle codificate nei mitici schizzi razionalisti della prima metà del '900. Ma d'altra parte non ha neppure torto chi osserva come, nonostante alcune varianti minime, quel vituperato modello in fondo si applichi invece con straordinario successo economico, sociale, di qualità spaziale apprezzata, all'edilizia e ai quartieri borghesi delle nostre città. Che i borghesi abbiano gusti totalitari e comunisti? Quantomeno improbabile. Il che fa sospettare come in fondo (cosa assai prevedibile) il difetto stia probabilmente nel manico, ovvero più nel metodo che nel merito dei progetti. L'accettazione della città-macchina da parte della cultura delle avanguardie, pur metabolizzando la sfida della complessità che ciò comportava, non aveva davvero esteso questa complessità alle forme di interazione e di partecipazione, relegando i bisogni sociali all'ambito delle questioni astratte da affrontare in laboratorio.

Producendo poi due tipi di soluzioni spaziali: una pura e una spuria, una autoritariamente sulla testa di chi non aveva la forza di imporre mediazioni partecipate, un'altra appunto mediata dal potere del mercato. Si spiega in gran parte così, la famosa soddisfazione relativa della famiglia di ceto medio nel suo condominio di matrice razionalista, rispetto al disagio dell'inquilino popolare nel complesso analogo ma percepito come un alveare. Un errore di metodo che pare però destinato a perpetuarsi, almeno finché esisteranno gli studi di progettazione. Come appare ad esempio nel numero di gennaio del bollettino di ARUP, uno dei principali che operano a scala globale, dedicato – nientepopodimeno – alla città vivente, proprio quando l'editore italiano Einaudi propone la ristampa dell'omonimo classico di Frank Lloyd Wright.

Con l'ottimo accattivante titolo It's Alive! ARUP affronta da par suo l'ormai classicissimo tema dell'urbanizzazione del pianeta in una prospettiva di sostenibilità ambientale, con lo sguardo rivolto a una data precisa: 2050. Più o meno, viene da dire, il medesimo traguardo di tante fosche previsioni, dal potenziale esaurimento delle fonti energetiche e di altre risorse, all'esplosione demografica sino a nove miliardi, tre quarti dei quali urbani, ad altre emergenze assortite fra cui spicca quella climatica: di quanti gradi si sarà riscaldato in pianeta a metà secolo? E la soluzione del grande studio di progettazione integrata, non poteva che essere al tempo multiforme ma riassumibile in un modello sfaccettato, in grado di contenere tutte le qualità all'altezza del compito.

Alcune componenti dell'edificio interattivo ARUP
L'edificio urbano del futuro si trasforma (come da titolo) in un organismo vivente, in grado di interagire in modo continuo con ambiente e società, evolvendosi via via. È sensibile al caldo e al freddo ovviamente, ma anche a stimoli assai più sottili e complessi, luce, usi, ambiente, rischi, sollecitazioni. Composto di parti modulari sostituibili e/o autorigeneranti, interfacce con l'esterno ad assetto variabile reattivo, al tempo stesso pelle, abito, anticamera e atrio di una specie di stazione collegata alla mobilità urbana e dolce, agli spazi delle relazioni sociali, fisiche e virtuali (come poteva mancare la qualità smart tanto in voga?).

In tutta questa interattività, sensibilità, flessibilità, emerge però una questione di metodo, evidente nelle conclusioni, da cui si intuisce qualcosa di troppo simile all'antica Unità d'Abitazione. Per carità, niente di più lontano, nei disegni e nei concetti, dal contenitore schematico introverso di ogni funzione urbana, posato qui e là sul territorio a costruire una non-città, e forse proprio per questo mai davvero uscito dai laboratori mentali del razionalismo, se non in alcuni prototipi socialmente indigeribili. Il metodo, è il metodo che non va. Quella specie di “ghe pensi mi” tecnologico-ambientale, simil-sociologico senza essere davvero tale. Quell'idea a ben vedere stramba, ma a quanto pare diffusa nella comunità dei progettisti, di città come somma aritmetica di edifici, meglio se tutti uguali così si amalgamano meglio.

E in questa prospettiva dove andrebbero a finire tutte le interazioni, le sensibilità, le possibilità di variare, di evolversi verso direzioni inusitate? Da nessuna parte, perché se funzionasse davvero sarebbe in sostanza la fine dell'idea di grande studio di progettazione internazionale, sostituito al massimo da una rete diffusa di think-thanks i cui eventuali portati tecnologici poi si diffondono via rete, si riproducono in stampa tridimensionale, e si aggregano secondo gli schemi ad assetto comunque variabile via via suggeriti dalla rete sociale che esprime la domanda. Ergo, escludendo un volontario suicidio di ARUP, gesto artistico supremo, sublime, ma alquanto improbabile, resta una possibilità. Che il bollettino It's Alive! altro non sia che l'ennesimo, brillante opuscoletto pubblicitario, pieno di storielle edificanti, ma anche di piccole bugie, da proporre a noialtri, sperando che un pezzo qui, un pezzo lì, si riesca a piazzare qualcosa. L'unica forma di città vivente davvero tangibile restiamo noi, che gli edifici interattivi o meno li riempiamo, conferendogli un senso che di solito ai progettisti giustamente sfugge.

Chi non ci crede provi a dare un'occhiata direttamente all'opuscolo It's Alive. Non pretendo certo di avere ragione.

Consumo di suolo, paesaggio, agricoltura. Il Forum per i territori chiede ai candidati un impegno preciso. Comunicato stampa e un'iniziativa su cui impegnarsi, prima e dopo il 25 febbraio, postilla

La rete delle 879 organizzazioni che danno vita al Forum nazionale per la difesa del territorio e del paesaggio inizia da oggi a sottoporre ai candidati di tutti gli schieramenti in lizza alle elezioni. zioni
politiche del 24/25 febbraio – attraverso la diretta azione dei suoi 143 comitati locali “Salviamo il Paesaggio” – un proprio documento di priorità sui temi connessi al concreto contenimento del consumo di suolo e alla salvaguardia dei territori e del paesaggio, con postillaSi tratta di otto punti “secchi”, ovvero otto leggi prioritarie che il Forum nazionale invita a promuovere o a eliminare sin dall’inizio della nuova legislatura, richiedendo ai candidati di esprimere la propria condivisione e, dunque, a sottoscrivere un preciso impegno.

Le adesioni dei candidati verranno puntualmente segnalate sul nostro sito e costituiranno dunque una mappa documentale per tutti gli elettori sensibili al tema del consumo di suolo (ormai al centro dell’agenda politica nazionale).

LE LEGGI DA FARE SUBITO

1. Approvare il DDL dedicato alla valorizzazione delle aree agricole e al contenimento del consumo del suolo, approvato a fine legislatura dal Consiglio dei Ministri e ancora da dibattere nelle commissioni e in aula, apportando nel contempo una serie di miglioramenti suggeriti dal Forum.

2. Una legge che regoli, tramite la partecipazione dei cittadini, la pianificazione e la salvaguardia dei suoli liberi e del paesaggio, secondo lo spirito delle “linee guida” formulate dal Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio.

3. Una legge che regoli il ciclo di vita degli immobili, includendo obblighi di recupero degli inerti che ne riducano drasticamente lo smaltimento in discarica.

LE LEGGI DA ELIMINARE SUBITO

1. La cosiddetta “legge Obiettivo”, così da riportare le attuali 390 opere in essa contenute nell’ambito delle procedure ordinarie.
2. I commi 1, 2 e 3 della cosiddetta legge “Sviluppo bis”, così da azzerare gli incentivi per la realizzazione di grandi opere infrastrutturali (di importo superiore a 500 mln di euro) anche in mancanza di un equilibrio del piano economico.
3. Il cosiddetto “silenzio assenso” e il “piano per le riqualificazioni delle città”.
4. La possibilità di dichiarare siti “di interesse strategico per la difesa militare della nazione e dei nostri alleati”, così da non più consentire l’autorizzazione di progetti edificatori in deroga alle vigenti leggi urbanistiche (è il caso, ad esempio, del Muos di Niscemi …).

E INFINE …

Una ultima richiesta: l’assunzione dell’impegno a non approvare norme in campo urbanistico, edilizio, paesaggistico, culturale o ambientale, in contrasto con i principi di tutela del territorio, dei beni culturali, del paesaggio, dei suoli liberi e dell’ambiente in genere. Questa richiesta di impegno può apparire semplicistica, ma nel corso degli anni (nel recente periodo, in particolare) l’approvazione di norme in stridente contrasto con l’articolo 9 della Costituzione o con quelle di rispetto urbanistiche e paesaggistiche, ci suggeriscono di non dare nulla per scontato …

qui potete cercare, e trovare, il testo integrale del documento


Postilla

Eddyburg è stato tra i fondatori del Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio, ed ha l'orgoglio e la responsabilità di aver sollecitato la critica al consumo di suolo quando le istituzioni e l'urbanistica ufficiale tacevano. Anche per questo condividiamo l'iniziativa. Ma sentiamo l'obbligo di ribadire la nostra convinzione. Finchè non si ripristinano i principi che (1) l'edificabilità di un'area è il risultato d'una concessione attribuita dalla mano pubblica, sulla base di una pianificazione democratica,(legge Bucalossi) e che (2) i plusvalori degli immobili derivanti dalle decisioni collettive non appartengono ai proprietari, fino sd allora i più generosi tentativi rischieranno d'essere vanificati.

Nel frattempo, in attesa che la corretta percezione del valore dei paesaggi da parte della popolazione (Convenzione europea) da obiettivo da perseguire sia raggiunto nelle cose un lavoro di lunga lena), non c'è altra soluzione che il vincolo ope legis con l'inserimento tra le aree tutelate (legge Galasso) delle aree rurali (agricole + naturali. Ma attenzione a ciò che succede nelle aree già urbanizzate.

Il veneziano Ponte di Calatrava non è l’unico caso di opera inutile per i cittadini e costosa per i contribuenti. Lo dimostra la Corte dei Conti, nella relazione annuale, il cui testo integrale potete scaricare in calce. La Nuova Venezia, 11 febbraio 2013
L’Italia delle truffe o dei soldi buttati via: dal ponte di Venezia scivoloso, alle barche senza pilota, ai palazzi mai utilizzati

Oltre all’Italia delle tangenti e dei condoni, c’è anche quella degli sprechi pubblici, dei furbi con relativi complici. La Corte dei Conti ha messo in fila una serie impressionante - in qualche caso incredibile - di frodi e scialo di denaro pubblico. Un elenco che va dal ponte di Venezia scivoloso al ladro di merendine in una materna, dal parcheggio sotto sequestro perché realizzato in area vincolata alle mazzette nelle camere mortuarie degli ospedali milanesi.

L’Italia degli sprechi e delle frodi è stata fotografata in un dossier preparato dalla procura generale della Corte dei conti, quantificando il danno all’erario in poco più di 293 milioni di euro. Oltre ai casi classici di malasanità, corruzione, consulenze fasulle ci sono le spericolate operazioni con i derivati e persino omissione nella riscossione dei tributi. I casi sono numerosi e riguardano tutta l’Italia. A Venezia, per cominciare col primo esempio, il ponte della Costituzione, realizzato dall’archistar Santiago Calatrava è scivoloso e causa cadute e ruzzoloni al punto che il danno erariale è di 3 milioni e mezzo di euro grazie ai «comportamenti colpevoli del progettista e del direttore dei lavori».

La citazione per un danno di circa 43 milioni ha riguardato invece la gestione del contratto per la bonifica e lo stoccaggio dei rifiuti nel litorale Domizio Flegreo e nell’Agro Aversano. In Abruzzo i faldoni più cospicui riguardano i contributi per i lavori avviati dopo il terremoto del 2009. Ma le vertenze in corso d’istruttoria sono state avviate anche per la «mancata riscossione di contravvenzioni al codice della strada da parte di diversi Comuni « grazie ad «amicizie tra multati e funzionari pubblici». In Sicilia la Regione è sotto inchiesta per presunti illeciti nella nomina dei consulenti, per danni riguardanti il patrimonio immobiliare: sarebbero state assunte delle persone per determinati incarichi senza avere i necessari requisiti professionali.

La Regione Sardegna ha invece acquistato un certo numero di barche che sono rimaste ormeggiate per la mancanza di personale adeguato. Sempre in Sardegna, un funzionario di un Comune affidava lavori ad un’impresa chiedendo in cambio opere per la propria abitazione. C’è il caso del Museo di Trieste: un contributo di 600 mila euro dalla Regione Friuli venezia Giulia è stato erogato a una «nota Fondazione di fotografie antiche» ma non è mai stato realizzato. Danno consistente di 6 milioni di euro è invece stato causato in Molise: la società mista della Regione era irregolare ed è dunque saltato il collegamento Termoli-Croazia. L’ufficio Inail distaccato a Casalecchio di Reno deve rispondere di un danno erariale di 3,3 milioni a causa dell’acquisto, sovrastimato e sovradimensionato, di un palazzo mai utilizzato. Ombre si allungano sul Grinzane Cavour che avrebbe sottratto illecitamente fondi della Regione Piemonte. Emerge anche il caso del G8 di Genova: la Corte dei Conti del Lazio sta indagando per accertare «l’ipotesi di possibile danno erariale subita dall’amministrazione per gli Interni». A Firenze infine premi a pioggia ad addetti comunali per 50 milioni. Per errore.

Nota

A proposito del Ponte di Calatrava (o "ponte di debole costituzione" come è ironicamente titolato il libretto di Elena Vanzan per la collana "occhi aperti su Venezia") vedi su eddyburg numerosi articoli nella cartella Vivere a Venezia.. Per connessione di materia vedi anche gli articoli su Benettown, digitando la parola sull'apposita finestrella di ricerca in cima alla pagina. Il testo integrale del documento della Corte dei Conti è scaricabile qui

Forse non è proprio vero che la natura stia invadendo la metropoli, piuttosto è il contrario, abbiamo disturbato il can che dorme, e adesso sono cavoli nostri. La Repubblica, 11 febbraio 2013, postilla (f.b.)

C’è qualcosa di ancestrale in un cinghiale che ti grufola in giardino. Evoca quella rivalità mai conclusa tra uomo e animale selvatico per il dominio degli spazi vitali. La fauna ora rivuole i suoi. Per la prima volta in Italia ci sono più di un milione di cinghiali, i caprioli hanno quasi raggiunto il mezzo milione, gli orsi da quasi estinti sono diventati un’ottantina. E poi i lupi. Erano cento alla fine degli anni. Sessanta, oggi sono più di mille.

Buone notizie per la tutela della biodiversità, che però si accompagnano a quelle pessime di attacchi all’uomo, vigne e coltivazioni distrutte (50 milioni di euro di danni solo nel 2012), pecore sbranate, incidenti stradali. Perché quando l’animale selvatico si avvicina alla città non sempre finisce bene.
In Toscana sono esasperati. Nella regione con la maggiore presenza di ungulati in Europa, i 150 mila cinghiali e i 140 mila caprioli hanno causato 20 milioni di euro di danni a colture e allevamenti dal 2005 al 2010, e ben 3.290 incidenti stradali. Il problema non sono solo loro. A Camporgiano in Garfagnana il 21 gennaio un pastore ha dovuto assistere impotente alla carneficina del suo gregge di pecore, attaccato da quattro lupi. Problemi anche in Emilia. Sui colli bolognesi, è notizia di pochi giorni fa, un uomo di 62 anni è stato azzannato da un cinghiale. In Trentino una parte dei cittadini non sopporta più la convivenza con i 45 orsi bruni reintrodotti col programma “Life ursus”. E una lupa con due cuccioli, manco a farlo apposta, fu avvistata vicino Roma, nel parco dei Castelli, durante la nevicata dell’anno scorso.

L’emergenza fauna è scattata in più di una metropoli in Europa. A Londra una volpe ha addirittura aggredito nella culla un neonato di quattro settimane. L’animale è riuscito a infilarsi nella sua cameretta e lo ha azzannato ad una mano, prima che la mamma riuscisse a scacciarlo. È successo a Bromley, sud-est della capitale, non proprio il cuore di una sperduta foresta. Eppure si stima che in città vivano 20 mila volpi. Londra non è un caso isolato. A Berlino un cinghiale di 120 chili a ottobre ha ferito quattro persone nel quartiere di Charlottenburg prima di essere ucciso a colpi di pistola da un poliziotto esterrefatto. Stessi problemi di convivenza nello stato di New York. «I cinghiali fanno i cinghiali, le volpi fanno le volpi — sintetizza il professor Francesco Petretti, zoologo dell’università di Camerino — non sono peluche, è sbagliato dar loro da mangiare come se fossero cani. E l’uomo si deve attrezzare a convivere, costruendo recinti in cemento per proteggere le greggi o mettendo l’autovelox su una strada come la Barrea-Pescasseroli nel fondovalle del parco d’Abruzzo, attraversata ogni notte da mille animali. Altrimenti in futuro i conflitti aumenteranno». Ma a cosa si deve questa esplosione di fauna alle porte delle città?

Gli esperti della Guardia forestale sostengono che sia conseguenza dell’aumento delle superfici boschive, dell’abbandono delle campagne e dei programmi di tutela della biodiversità. Nel 1985 i boschi occupavano 10 milioni di ettari di territorio, oggi 12 milioni. Il resto l’ha fatto l’istinto animale. I cinghiali si sono riprodotti in modo esponenziale, invadendo il centro Italia. «I lupi — spiega Ettore Randi, capo dipartimento all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale — cibandosi anche di cinghiali si sono moltiplicati e, per trovare nuovi spazi, si sono spostati dai parchi dell’Abruzzo e del Pollino fin sulle Alpi ». Per caprioli e camosci sono stati utili i piani di reintroduzione, così come per gli orsi marsicani ha funzionato la tutela. «Ora sono diventati confidenti — spiegano alla Forestale — si avvicinano ai paesi, non si spaventano al passaggio delle automobili». Tanto che un orso un paio d’anni fa ha ripulito la cantina di una guardia forestale, mangiandosi 26 forme di caciocavallo. Quando si dice un eccesso di confidenza.

Postilla

Forse invece di chiedere agli esperti, ovviamente per risparmiare tempo, il giornalista avrebbe fatto meglio a chiedere ai suoi colleghi che in tutto il mondo accumulano cronache parziali come la sua, di animali fra i più inusitati che spuntano nei più improbabili contesti urbani. Ne avrebbe ricavato almeno una ipotesi, come quella che da tempo provano a sostenere diversi studiosi di discipline urbane. E' un discorso che provo a sviluppare in modo più sistematico su Mall, come in questo articolo di ieri – Compagno cittadino, sorella pantegana - ispirato proprio dal caso horror della volpe londinese scoperta nella culla del neonato (f.b.)

Anche chi se ne frega della sicurezza del territorio, della bellezza del paesaggio, della qualità urbana, almeno due conti dovrebbe saperli fare. Corriere della Sera, 10 febbraio 2013 (f.b.)

Allerta ai Comuni: fotografate subito i vostri territori, se ci tenete. La storia dimostra che appena spunta la promessa d'un condono edilizio c'è chi corre a tirar su nuovi edifici abusivi. E chi ci perde, oltre ai cittadini perbene, sono proprio i municipi. Costretti a farsi carico degli oneri d'urbanizzazione avendo in cambio una pipa di tabacco. Se proprio non è interessato al paesaggio o alla moralità fiscale e urbanistica degli italiani, il Cavaliere dovrebbe riflettere su questo: tutti i condoni agli abusivi sono stati un harakiri. Paesaggistico, burocratico, finanziario. E se quarant'anni di sanatorie varie hanno fatto incassare in tutto 123 miliardi di euro, quanto viene evaso in un solo anno, con quelle del mattone è andata ancora peggio: dalle casse pubbliche, alla fin fine, sono usciti molti più soldi di quanti ne fossero entrati.

Ma partiamo dal panorama d'insieme. Spiega un dossier Cresme per Legambiente che «sono non meno di 258.000 gli immobili abusivi sorti tra il 2003 e il 2011, per un fatturato complessivo stimato in 18,3 miliardi di euro». Tutti edifici praticamente al riparo dalle ruspe. Spiega infatti il Rapporto Ecomafia 2012 che le ordinanze di demolizione firmate dal 2000 al 2011 sono state 46.760 ma solo 4.956 sono state eseguite e solo in alcune porzioni del territorio. A Napoli gli abbattimenti sono stati 710 su 16.837 decisi, pari al 4,2%. A Palermo neppure uno su 1.943, a Reggio Calabria neppure uno su 2.989. E tutto questo in un territorio fragile, tra i più esposti del mondo ai rischi sismici e idrogeologici, colpito nella storia da decine di terremoti e inondazioni devastanti. Avvenute spesso in aree dove più alta è la presenza di case costruite senza alcun controllo e alcun criterio: il 19,8% delle abitazioni abusive italiane è in Campania, il 18,2% in Sicilia, il 12,8% in Puglia, l'8,8 in Calabria.

Sappiamo che non è facile raddrizzare una situazione piuttosto compromessa. Proprio per questo, però, occorre dire basta: non vogliamo più piangere nuovi lutti per i crolli di palazzine o intere contrade costruite là dove non si poteva. Non vogliamo più piangere e non vogliamo più pagare i costi stratosferici di interventi che arrivano sempre «dopo». Dice l'ultimo rapporto Ispra che mentre nel resto d'Europa è ricoperto dal cemento il 2,3% del territorio, da noi questa quota si impenna fino al 6,9%: il triplo. Nonostante proprio la difesa del paesaggio dovrebbe essere uno degli obiettivi centrali di un Paese che, come Berlusconi non si stanca mai di sbandierare, «è il più bello del mondo».

Bene, la storia dice che la sola promessa di un condono edilizio scatena la corsa a fare nuove porcherie cementizie fingendo di averle fatte «prima» del varo della legge. Gli abusi commessi a Roma «dopo» la sanatoria berlusconiana del 2003 e spacciati per vecchi, stando ai rilievi della società che gestiva le pratiche comunali del condono, furono 3.713. Tra i quali, per esempio, l'aggiunta di un attico terrazzatissimo di un'ottantina di metri quadri sul tetto di un elegante palazzo accanto alla Fontana di Trevi. Numeri che lasciano pensare come in giro per il Paese, e soprattutto nel Sud, gli abusi «retrodatati» siano stati almeno dieci volte tanti. Almeno.

Oltre ai danni al paesaggio e al vivere civile, perché quell'abuso a Fontana di Trevi offende tutti i cittadini per bene, ci sono poi come dicevamo i danni economici. È frequentissimo, infatti, il caso di chi paga solo il primo acconto per bloccare le inchieste giudiziarie e le ruspe e poi se ne infischia di portare a termine la pratica nella certezza che nessuno verrà mai a disturbare. Tanto per dare un'idea, quando Totò Cuffaro cercò di smaltire gli immensi arretrati dei tre condoni con una «sanatoria delle sanatorie», gli abusivi siciliani che aderirono furono l'1,1% a Palermo, lo 0,37% a Messina, lo 0,037% a Catania.

A Roma, denunciava qualche mese fa il Sole 24 Ore, restano da smaltire «210 mila pratiche, circa il 37% delle oltre 570 mila presentate fra tutte e tre le sanatorie». Compresi fascicoli che oggi hanno 28 anni. «Ogni volta che c'è un condono lo Stato si ritrova in cassa pochi milioni, relativi agli anticipi pagati dagli abusivi e una moltitudine di incartamenti che gli uffici comunali non riescono a smaltire», accusano Paolo Polci e Roberto Mostacci del Cresme ipotizzando un milione di pratiche inevase, «Questo "sfasciume amministrativo" impegna centinaia di funzionari pubblici e dà un gettito di 10/20 milioni di euro contro gli 80/100 milioni di costi stimati». Autolesionismo. Dieci anni fa, ribellandosi alla nuova sanatoria della destra, lo stesso Comune di Roma fece i conti. E accertò di avere incassato 922 euro per ognuna delle 506.578 domande dei condoni del 1985 e del 1994. Pochissimo, in confronto alle spese per portare nelle nuove case condonate i servizi del vivere civile, dalle strade alle condutture. Perfino quelli che avevano usato il condono berlusconiano (meno generoso del craxiano) avevano pagato per regolarizzare un villino fuorilegge circa 10 mila euro di cui 5 mila al Comune. E portare l'urbanizzazione primaria e secondaria costava da un minimo di 22 mila a oltre 30 mila euro. Proprio un affarone…

Consumo di suolo non è solo devastazione del paesaggio e della natura. E' anche minaccia all'alimentazione. Una riflessione per eddyburg sollecitata dal rapporto ISPRA presentato lo scorso 5 febbraio a Roma.

I dati presentati dall'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) lo scorso 5 febbraio fanno fare un passo in avanti al nostro Paese, aumentando la consapevolezza verso un temadi enorme attualità ed urgenza e mettendo le istituzioni in una posizione di rapidadecisione in merito. Ma il tema del consumo dei suoli è anche urgente perché èstraordinariamente legato alla contrazione della produzione di cibo. Insommaper forza di cose, se avanza il cemento, indietreggia il cibo. E seindietreggia il cibo, aumenta la dipendenza di una nazionedall’approvvigionamento di materia prima agricola dal mercato estero. Eprobabilmente il continuo aumento di questi ultimi anni della nostra spesa perimportare rispetto a quella per esportare cereali e prodotti agricoli di basenon è disgiunto dai consumi di suolo agricoli. Nel 2011 il saldo tra import edexport agricolo è di molto peggiorato andando a -1,2 Miliardi di EURO contro i-768 milioni del 2010…insomma spendiamo sempre di più per comprare materiaprima per cibo e sempre meno la esportiamo (fonte: Ministero delle PoliticheAgricole Alimentari e Forestali - Rivista telematica – www.aiol.it).

Ma non solo aumenta la dipendenza conl’estero. Aumenta anche l’esposizione al rischio di non essere più in grado diassicurare cibo ai propri abitanti con le risorse di suolo esistenti. Questo sichiama attacco alla sovranità alimentare o alla sicurezza alimentare (e ilministro Catania lo aveva ben evidenziato nel rapporto tecnico che accompagnavala prima proposta di legge). E in effetti se si fanno due calcoli trasformandoi consumi di suolo in cibo, vengono fuori cose sorprendenti.
Se accettiamo per un italiano una dieta calorica di 2500kcal/giorno e assumiamo, rielaborandole, le indicazioni di uno studio INEAriportato da Luca Mercalli (1) con cui si stabiliva la corrispondenza trafabbisogno calorico, varietà della dieta mediterranea (cereali, latte, grassi,carne, burro, uova, etc.) e superficie agricola necessaria per sostenere quelladieta, esce che occorrono circa 1500 m2 per persona per garantire il propriofabbisogno annuo. In altri termini vuol dire che con 1 ettaro mangiano 6,6persone.

Si tratta di una cifra di molto approssimata e indicativa che nontiene conto di tanti altri fattori ma che qui ci è molto utile per farci unordine di grandezza di cosa significhi il consumo di suolo in termini di contrazionedel cibo. Se quegli 8 m2 al secondo fossero terreni agricoli, sarebbe come direche ogni ora 19 persone in meno sono alimentabili in questo Paese con lerisorse di terra del Paese. Gli italiani stanno attentando a se stessi!Con quelle cifre, secondo me ancora sottostimate rispetto adun fenomeno che è probabilmente molto più acuto e diffuso (2), ogni anno non simettono a tavola 167.000 persone. È come se una città come Perugia o ReggioEmilia si trovasse da un anno all’altro senza cibo. E tutto questo calcolo èfatto immaginando di destinare tutta la produzione nostrana al mercatonazionale, cosa che sappiamo bene non essere vero, visto che il nostro ciboviene esportato in tutto il mondo e attrae eno-gastronauti da tutto il mondo. Pertantoi dati dovrebbero esser ancor più gravi. Quindi, come ho cercato di dire conquesto semplice esercizio sicuramente perfettibile ma sufficiente a farcicomprendere una parte importantissima del problema, il consumo di suolo insidiail Paese su più fronti e lo sta mettendo in ginocchio.

Gli strumenti con cui gestiamo il suolo sono vecchi e inadatti.Abbiamo leggi inadeguate (il testo unico ambientale definisce il suolo come leinfrastrutture e gli abitati…leggere per credere: art. 54 L. 152/06) e non vi èconsapevolezza che il suolo sia una risorsa ambientale fornitrice di serviziecosistemici per tutti (anche questo si è detto a Roma in quel convegno: vd.relazioni di Terribile, Claps, Marchetti, Gardi, etc.). Ma non solo. Ladimensione ambientale della risorsa suolo non è affatto intercettata tra lecompetenze urbanistiche dei comuni e delle altre amministrazioni. L’uso delsuolo continua ad essere dominato dalla rendita. Gli effetti ambientali deiconsumi non entrano in alcun bilancio. Ogni comune pianifica se stessotrattando il proprio territorio come una sorta di regno completamente disgiuntodal vicino. Rarissimi i casi di cooperazione sull’uso del suolo. E questo nonva bene perché paesaggio, suolo, ambiente, acqua…sono risorse in confinabiliche richiedono cooperazione pianificatoria che abbiamo perso del tuttosoggiogati da ben altri interessi.

Così anche l’urbanistica oggi deve farelucidamente i conti con le sue responsabilità che prendono nuovi nomi, come adesempio la responsabilità verso la tutela della sovranità alimentare. Ma moltiamministratori e urbanisti ancora sono lontani dal misurarsi con questadimensione che invece è urgente e grave (solo 8 italiani su 10 possono mangiaredai nostri campi).
Anche per tutto ciò credo sia urgente che, parlando dicontenimento del consumo di suolo si parli di riforma seria delle competenzedelle amministrazioni locali per quanto riguarda la materia ambientale e quindianche per l’uso del suolo. I comuni non possono più governare da soli, comesono stati di fatto ridotti ad essere (le province sono state svuotate e leregioni hanno spesso delegato tutto verso il basso), un patrimonio collettivodi interesse generale e comune (3), verso il quale occorre una dimensione diresponsabilità che supera i propri confini. Occorre aiutarli con strutture diaccompagnamento e di cooperazione per centrare un obiettivo comune, ben diversospesso dall’obiettivo del Comune.

(1) Mercalli L. e Sasso C. (2004), Le mucche non mangiano cemento, SMS, Torino, p. 225

(2) Solo in Lombardia sono 1,7 i m2/secondo di terreniagricoli persi. Fonte CRCS (2010), Centrodi ricerca sui consumi di suolo. Rapporto 2010, INU edizioni
(3) Di questo abbiamo recentemente discusso in Pileri P. eGranata E. (2012), Amor Loci. Suolo,Ambiente e cultura civile, Raffaello Cortina Editore, Milano

Il Fatto Quotidiano, 9 febbraio 2013

Costruttori vicini a Comunione e liberazione e cooperative rosse. Ma sopratutto le banche, con Intesa Sanpaolo in prima fila. Sono i beneficiari di uno degli ultimi provvedimenti di Roberto Formigoni. Un colpo di coda che per l’istituto che per anni è stato nelle mani di Corrado Passera vale almeno 300 milioni di euro. Il regalo si nasconde dietro alla Città della salute, il mega ospedale che verrà costruito sull’ex area Falck di Sesto San Giovanni. La struttura riunirà due istituti pubblici di ricerca e cura, il neurologico Besta e l’Istituto nazionale dei tumori, in un progetto che mette la sanità lombarda al servizio di banche e mattone.

Nel 2011 sull’area di Sesto, la stessa al centro dell’inchiesta sull’ex campione del Pd Filippo Penati, è stato approvato un piano di intervento faraonico, che prevede un milione di metri quadrati di nuovi edifici, tra residenze, alberghi, uffici, servizi e un grande centro commerciale. Una nuova città da 20mila abitanti dentro a quello che è già uno dei comuni più densamente abitati d’Italia e che “con il nuovo insediamento salirà al quarto posto dopo tre comuni della cintura vesuviana”, accusa Orazio La Corte, ex consigliere comunale di Sesto San Giovanni e membro del direttivo lombardo di Legambiente. Valore di mercato stimato: 4 miliardi di euro. Ma il rischio è grosso: nei tempi di magra del settore immobiliare gran parte di quel cemento potrebbe rimanere invenduto. E allora il nuovo ospedale è l’elemento che mancava, il volano per tutta l’operazione: perché i suoi 660 posti letto si portano dietro il fabbisogno di alloggi per il personale e l’offerta di spazi ricettivi per i parenti dei pazienti.

E fa niente se tra gli addetti alla sanità qualcuno considera insensata la costruzione di un ospedale che costa 450 milioni. O se la nuova struttura si mangerà ben 205 metri quadri di quel parco da 450 che il piano originario aveva già promesso ai cittadini per il riequilibrio delle zone verdi di Sesto. Non sono certo un po’ di alberi in meno a preoccupare la Sesto Immobiliare di Davide Bizzi, la società che nel 2010 ha rilevato l’area dall’indebitatissima Risanamento che fu di Luigi Zunino. Fanno parte della cordata guidata da Bizzi anche le cooperative rosse del Ccc, il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna finito nelle carte di un’indagine della procura di Monza parallela a quella su Penati. Loro non si fanno toccare da questioni di verde o di efficienza sanitaria. E nemmeno le banche, che così avranno ottime probabilità di recuperare parte di vecchi crediti rimasti bloccati per anni. Intesa, Unicredit e Popolare di Milano, infatti, negli anni d’oro avevano finanziato Zunino a piene mani, salvo poi diventare azioniste di Risanamento per evitarne il fallimento. E’ stato quindi sotto la loro regia che si è conclusa la vendita a Bizzi dell’area, operazione che vide le banche investire complessivamente più di mezzo miliardo contro i 16,6 milioni di Bizzi e prendersi in pegno tutte le azioni della Sesto Immobiliare a fronte di crediti che a fine 2011 superavano i 400 milioni (oltre 300 quelli in capo a Intesa) senza contare i prestiti diretti ai soci di Sesto. Unico l’obiettivo: che il progetto vada in porto, le case si vendano e i crediti divengano solvibili.

Allora ben venga “l’ospedale modello”, come lo definisce l’archistar che firmerà il progetto, Renzo Piano, mentre nei piani alti di Palazzo Lombardia lo slogan recita: “Prende forma la sanità del futuro”. Un futuro fondato su un binomio piuttosto vecchio, quello di mattone e finanza, che fa felice anche la giunta di centrosinistra alla guida di Sesto San Giovanni che si è aggiudicata il progetto dopo un derby con il Comune di Milano. Il sì definitivo è arrivato in fretta e furia in autunno, prima della fine anticipata della legislatura, mentre il progetto è stato presentato in pompa magna sotto Natale. Un’accelerazione del processo burocratico che come effetto collaterale, tra l’altro, potrebbe evitare indagini della Corte dei Conti sui 3,2 milioni già spesi per la Città della Salute, quando ancora si pensava di farla nella zona di Vialba, a nord di Milano.

Il derby tra Sesto e Milano – Il progetto della Città della salute parte da lontano. Se ne fa carico lo stesso Formigoni, che nell’aprile 2009 arriva alla firma di un accordo di programma per realizzare una struttura che dovrebbe riunire il Besta, l’Istituto dei tumori e il Sacco. Viene costituito, sotto la guida di Luigi Roth, un consorzio che riunisce i tre enti e che avvia uno studio di fattibilità. Il nuovo ospedale dovrebbe sorgere accanto al Sacco, nella zona di Vialba. A favore del consorzio viene impegnata sul bilancio regionale del 2010 una somma di 28 milioni di euro, con due decreti del direttore generale della Sanità Carlo Lucchina. Ma a fine 2011 il progetto salta per problemi di tipo logistico e per la presenza di un corso d’acqua, che sino a quel momento nessuno ha preso in considerazione. Il consorzio viene sciolto, ma intanto sono già stati bruciati almeno 3,2 milioni di euro. Serve un nuovo spazio e Giorgio Oldrini, il sindaco del Pd successore di Penati a Sesto San Giovanni, candida l’ex area Falck. Si fa avanti anche Giuliano Pisapia, che per mantenere le strutture sanitarie sul territorio milanese propone l’area della caserma Perrucchetti. Ma il Celeste sin da subito sembra non voler concedere a Palazzo Marino il tempo necessario per arrivare a un accordo con il ministero della Difesa, proprietario della Perrucchetti. Così a fine maggio 2012 Milano esce di scena e lo studio di fattibilità pensato per Vialba viene preso per buono anche per l’area di Sesto. Un esito scontato, dopo un balletto di scadenze, rinvii sulla decisione e divergenze tra il Pd milanese che sostiene Pisapia e i democratici di Sesto San Giovanni e consiglio regionale, favorevoli all’operazione sull’ex area Falck.

Interessi ‘rossi’ (e non solo) – La decisione della giunta formigoniana, infatti, piace anche ai consiglieri regionali del Pd. Del resto sull’area di Sesto sono forti gli interessi delle cooperative rosse del Ccc, già in prima fila per aggiudicarsi i lavori di bonifica, i cui costi sono a carico della Sesto Immobiliare. Il progetto della bonifica è stato firmato dallo studio di Claudio Tedesi, ingegnere vicino al ras della sanità pavese Giancarlo Abelli. Tedesi ha già lavorato con il defunto Giuseppe Grossi a progetti controversi, come quello del quartiere Santa Giulia anch’esso della galassia che fu di Zunino e finito al centro di un’inchiesta della Procura di Milano per lavori di bonifica mai eseguiti.

Nella partita giocherà da protagonista anche la Compagnia delle opere, il braccio economico di Cl che, oltre a Formigoni, in Lombardia ha tra i suoi maggiori esponenti politici Maurizio Lupi, vicino a Bizzi.

I costi di un progetto “monco” – L’unione di Besta e Istituto dei tumori, però, non piace a tutti. Il progetto è troppo costoso e, dopo l’esclusione del Sacco, è diventato pure monco, sostiene Alberto Maspero, ex direttore medico del Besta: “Manca un ospedale generalista con la possibilità di avere un pronto soccorso e reparti adatti a gestire patologie concomitanti che possono colpire un malato neurologico”. Paolo Crosignani, primario dell’unità Registro tumori ed Epidemiologia ambientale dell’Istituto dei timori, non vede alcuna sinergia tra il suo ospedale e il Besta: “Che hanno in comune oncologia e neurologia? L’una cerca di distruggere cellule tumorali, l’altra di fare sopravvivere cellule deteriorate. Forse in comune ci sono solo la caldaia e la farmacia”. Ma il progetto si farà. In Regione sono tutti d’accordo: il Besta deve traslocare dalla propria sede, ormai troppo obsoleta, e la Città della salute consentirà di integrare ricerca e nuovi strumenti di cura. Dei 450 milioni che verranno spesi, il Pirellone ne mette 330, lo Stato 40, gli altri 80 dovrebbero arrivare dai privati. Il finanziamento regionale, però, non è a fondo perduto, ma proviene da un fondo di rotazione, cioè un prestito che nei prossimi anni peserà sui due istituti pubblici come un debito. “Avremo meno risorse per comprare tecnologie, strumentazioni, per assumere un buon chirurgo e investire nel personale”, aggiunge Crosignani. Il tutto a scapito dell’offerta sanitaria, visto che le risorse vengono investite in un intervento di edilizia.

La Salute con il cemento attorno – Il super ospedale sorgerà al centro di una nuova città con 607mila metri quadri di nuovi alloggi. A cui si aggiungono 100mila metri quadri di centro commerciale e negozi, 147mila di terziario, 27mila di strutture ricettive, 81mila di strutture produttive e 49mila di servizi. Oltre a 60mila metri quadri di edilizia sociale, benedetta dall’ex assessore regionale alla Casa Domenico Zambetti appena qualche mese prima di finire in carcere con l’accusa di aver comprato voti dalla ‘ndrangheta. Il suo arresto ha dato il colpo di grazia alla giunta, ultima mazzata dopo gli scandali della sanità lombarda. E, ora, proprio alla sanità è dedicata la riga più importante del testamento di Formigoni. Prossimo passo, la pubblicazione ad aprile del bando di gara per i lavori dell’ospedale. Fine prevista nel 2017, collaudo e trasloco nel 2018. Celeste eredità.

Continua, tenacemente, anche contro le ottusità dei privati,la tutela e il rilancio della regina viarum da parte della Soprintendenzaarcheologica. Corriere della Sera, ed. Roma, 8febbraio 2013 (m.p.g.)

L'Appia Antica sarà protetta dalle sbarre. Ieri ladirettrice Rita Paris ha annunciato ai residenti il progetto dellasoprintendenza speciale ai Beni archeologici che prevede l'installazione di 8sbarre di controllo per il traffico, una nuova illuminazione e 72 cassonettiper la raccolta dell'immondizia. I residenti si sono divisi. «Il demanio dagiugno ci ha affidato la completa tutela della strada», dice Paris. Per AndreaCatarci, presidente del XI municipio, «la gestione dell'Appia prevede oneri eonori».
L'Appia antica tornerà ad essereun monumento, certo molto particolare poiché abitato da centinaia di residenti.E sarà protetta dalle sbarre. Ieri c'è stato il primo incontro tra cittadini esoprintendenza speciale ai beni archeologici di Roma per annunciare l'avvio delprogetto, «di protezione complessiva della strada in condivisione con leesigenze dei residenti», spiega Rita Paris, direttrice dell'Appia antica.
La «Regina viarum» sarà tutelatada otto sbarre, lungo circa sette chilometri, la prima all'altezza del civico244 (dopo la tenuta di Capo di Bove), contemporaneamente sarà rifattal'illuminazione all'altezza del sepolcro degli Orazi e dei Curiazi e sarannoistallati 72 nuovi contenitori per l'immondizia in ferro, progettati in armoniacon il luogo.

La proposta della soprintendenzacondivisa dal municipio XI, ma anche dall'ente parco, dall'Ama, dall'Acea, ieriha suscitato una vivace discussione tra i residenti non favorevoli, «non potetechiuderci nelle nostre case», «le pietre non possono venire prima dellepersone», «i basoli già non permettono di camminare con i tacchi alti, oraanche le sbarre», «sarebbe meglio realizzare un comprensorio»; e quelli cheinvece apprezzano il lavoro della soprintendenza. Come Marisela Federici: «Noncapite che la nostra strada è molto migliorata con il loro lavoro, e lo saràancora di più quando sarà protetta».
Il progetto, il cui costo previstoè di 160mila euro (ma si farà una gara a ribasso), prevede l'istallazione dellesbarre poggiate a cippi antichi ispirati a quelli già esistenti dei primi del'900. «In un primo tempo resteranno alzate, poi in accordo con i residenti sideciderà la loro gestione». Le propostearrivate ieri sono state tante: affidare la cura della protezione ad unaguardiania privata, collegare le sbarre a videocitofoni o a dei microchippersonalizzati.

«Siamo pronti a scegliere con i cittadini la soluzione migliore, l'importante ècapire che da giugno l'Appia è stata consegnata a noi dal Demanio e siamocompletamente responsabili della sua tutela», precisa Paris. I lavoripotrebbero iniziare a primavera inoltrata e concludersi in quattro mesi circa.«Amministrare e vivere in un territorio prezioso come l'Appia antica - diceAndrea Catarci, presidente XI municipio - comporta oneri e onori, ovviamentenoi collaboreremo con la soprintendenza perché chi vive in questa strada neguadagni in sicurezza, senza penalizzare nessuno».

Un'autorevole conferma dei dati sulla devastante dimensione della sottrazioni di suolo alla naturalità, senza contare le altre forme di land grabbing. Quando tutela del paesaggio e urbanistica non s'incontrano. La Repubblica, 8 febbraio 2013, postilla

OTTO metri quadrati al secondo, per ciascun secondo degli ultimi cinque anni: questo il ritmo del forsennato consumo di suolo che sta consumando l’Italia. Questo dato, che colpisce come una mazzata, emerge dagli studi dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) che ricostruiscono l’andamento del consumo di suolo in Italia dal 1956 al 2010. Siamo passati da un consumo di suolo di 8.000 kmq nel 1956 a oltre 20.500 kmq nel 2010, come dire che nel 1956 ogni italiano aveva perso 170 mq, nel 2010 la cifra è salita a 340 mq pro capite. Tra i divoratori di suolo trionfa la Lombardia, seguita dal Veneto e dal Lazio. Cifre impressionanti, che trascinano l’Italia fuori dall’Europa, dove il consumo medio del suolo è del 2,8%, a fronte di un devastante 6,9 % per il nostro martoriato Paese. È come se ogni anno si costruissero due o tre città nuove, delle dimensioni di Milano e di Firenze, e questo in un Paese a incremento demografico zero.

Dimensioni e natura del disastro non si colgono appieno senza un dato ulteriore: questa dissennata cementificazione si compie a danno dei più preziosi suoli agricoli (pianura padana, Campania un tempo felix, cioè feconda), colpendo al cuore l’agricoltura di qualità, coprendo i suoli con una spessa coltre di cemento (soil sealing) con perdita irreversibile delle funzioni ecologiche di sistema e fragilizzazione del territorio: cresce così la probabilità di frane e alluvioni, se ne rendono più gravi gli effetti. La morfologia del territorio italiano lo rende esposto a terremoti, eruzioni vulcaniche, alluvioni e altre calamità, il cui impatto cresce quando si alterano i già precari equilibri naturali.

Per chi dunque costruiamo, e perché? Da cinquant’anni trova credito in Italia la menzogna secondo cui l’edilizia (comprese le “grandi opere” pubbliche) sarebbe uno dei principali motori dell’economia. È per questo che si sono succeduti, da Craxi a Berlusconi, irresponsabili condoni dei reati contro il paesaggio. In nome di una cultura arcaica, l’investimento “nel mattone” continua ad attrarre investimenti, anche per “lavare” il denaro sporco delle mafie, stabilizzandolo nella rendita fondiaria. Sfugge a politici e imprenditori che la presente crisi economica nasce proprio dalla “bolla immobiliare” americana. Peggio, essi si tappano gli occhi per non vedere che la crisi che attanaglia l’Italia è dovuta, anche, alla mancanza di investimenti produttivi e di capacità di formazione. Si utilizza, invece, il nostro suolo come se fosse una risorsa passiva, una cava da fruttare spolpandola fino all’osso.

Che questo accada nel Paese che per primo al mondo ha posto la tutela del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato (articolo 9 della Costituzione) è un paradosso su cui riflettere. Se agli altissimi principi costituzionali corrispondono pessime pratiche quotidiane, è prima di tutto perché al boom post-bellico, con la sua fame di benessere, non è corrisposta una crescita culturale (né mai vi sarà finché la scuola pubblica viene trattata come un fastidioso optional, secondo la filosofia delle destre). Ma è anche per il peccato d’origine della normativa prebellica: alla legge Bottai sulla tutela del paesaggio (1939) seguì infatti la legge urbanistica del 1942, ma non fu creato fra le due il necessario raccordo, quasi che fosse possibile chiedere alle Soprintendenze di tutelare un paesaggio senza città, ai Comuni di gestire città senza paesaggio.

La Costituzione radicalizzò il contrasto, ponendo le competenze sul paesaggio in capo allo Stato e quelle sul territorio e l’urbanistica in capo alle Regioni (che di solito sub-delegano i Comuni), con una giungla di conflitti di competenza che coinvolge i ministeri dei Beni Culturali, dell’Ambiente e dell’Agricoltura, ma anche regioni, province e comuni. È negli interstizi di questa normativa deficitaria e barcollante che si insediano gli speculatori senza scrupoli, i divoratori del suolo, i nemici del pubblico bene.

Interrompere queste pratiche stolte, si sente ripetere, è impossibile perché vanno protette la manodopera e le imprese. Non è vero. Di lavoro per imprese e operai ve ne sarebbe di più e non di meno se solo si decidesse di dare priorità assoluta alla messa in sicurezza del territorio (il recente rapporto congiunto dell’Associazione nazionale costruttori edili e del Cresme-Centro di ricerche economiche e di mercato dell’edilizia fornisce dati impressionanti su necessità e inadempienze in merito). Se si decidesse di dare priorità al recupero degli edifici abbandonati, di abbattere gli orrori che assediano le nostre periferie sostituendoli con una nuova edilizia di qualità anziché catapultare grattacieli nel bel mezzo dei centri storici.

Se si verificassero i dati sulle proiezioni di crescita demografica prima di autorizzare nuove edificazioni. È falso che vi siano da una parte i “modernizzatori” che cementificano all’impazzata e dall’altra i “conservatori” che non costruirebbero più una casa e condannerebbero alla disoccupazione gli operai. La vera lotta è un’altra: fra chi vuole uno sviluppo in armonia con il bene pubblico e la Costituzione, e chi vede nel suolo italiano solo una risorsa da saccheggiare a proprio vantaggio.

Postilla
I risultati delle analisi dell’autorevole Ispra confermano i dati quantitativi sul consumo effettivo di suolo degli ultimi anni misurati in più sedi . Il trend a livello nazionale (i mediatici 8 mq al secondo) calcolato dall’Istituto conferma l’ordine di grandezza di grandezza delle valutazioni compiute localmente in varie parti d’Italia (la Toscana, l’Emilia-Romagna, la Lombardia): circa 35mila ettari vengono sottratti al territorio ogni anno rurale (agricolo + naturale). Non si tratta più di valutazioni approssimative fondate sulle statistiche della riduzione della superficie delle aziende agricole, ma di dati che misurano l’effettiva trasformazione di terreni porosi e in vario modo caratterizzati da “naturalità” in terreni laterizzati: la “repellente crosta di cemento e asfalto”, per dirla con Antonio Cederna, che sigilla il suolo (soil sealing) tagliando una delle radici che legano la città dell’uomo dalla vita del pianeta. Chi promosse nel 2005, l’edizione della Scuola di eddyburg dedicata a questo innaturale fenomeno, allora ignorato alle istituzioni della cultura e della politica, può oggi essere soddisfatto almeno per la presenza di dati quantitativi attendibili e per l’attenzione dell’opinione pubblica. Siamo però ancora lontani non solo da provvedimenti efficaci per contrastare il fenomeno, ma perfino dalla generale consapevolezza del carattere radicale delle soluzioni necessarie.

Corriere della Sera Milano, 7 febbraio 2013, postilla (f.b.)

L'inaugurazione della prima tratta e il completamento dell'intera linea 5 permetteranno a Milano di fare un enorme passo avanti in termini di estensione di rete metropolitana. Oggi si aggiungono 4,1 km agli attuali 83,5 km di rete complessiva di metropolitana e in futuro altri 8,5 km. Si arriverà a un totale di oltre 96 km di rete. Milano ha quindi raggiunto, anche se faticosamente e lentamente, reti metropolitane presenti in città europee quali Monaco di Baviera (95 km) e Barcellona (102 km). La crescente capillarità del servizio collettivo di Milano è dimostrata anche dal fatto che la neonata linea lilla interscambierà, quando sarà ultimata, con tutte le linee di metropolitana, il passante ferroviario e numerose linee suburbane su ferro. La completa automazione (sistema driverless) della marcia garantisce elevati livelli di innovazione tecnologica e permette di offrire un servizio più sicuro impedendo gli investimenti di persone e, al gestore, una maggiore economia e un aumento del numero dei treni in servizio. Questa elevata automazione deve però essere affiancata da un elemento fondamentale quale la percezione di sicurezza delle stazioni.

Oltre a questi aspetti positivi è necessario riflettere e cercare soluzioni sul perché a Milano e in Italia i poli attrattori e generatori di spostamenti si costruiscano senza pensare alle dovute infrastrutture di trasporto, se non anni dopo. Infatti solo ultimamente è stato collegato il forum di Assago alla rete metropolitana; da ora la linea 5 servirà l'università Bicocca, l'ospedale Niguarda e il Cto e in futuro lo stadio di San Siro, non certo costruito recentemente, mentre le linee di metropolitana progettate (si veda la linea 4) raggiungeranno l'aeroporto di Linate unendolo finalmente alla città con una linea di forza, come succede in tutte le maggiori città europee. Ora, e sempre di più, esiste un'alternativa al trasporto privato e di conseguenza si rende necessario convincere in tutti i modi, Area C inclusa, i cittadini ad usare meno l'auto e più i trasporti collettivi.

Un incentivo sarebbe l'esistenza di una rete metropolitana che si estendesse maggiormente verso l'hinterland, permettendo di svolgere lo spostamento integralmente su mezzo collettivo. È però doveroso sottolineare che la linea lilla manca di parcheggi di interscambio per invogliare gli utenti ad abbandonare l'auto ed utilizzare la metropolitana. Parcheggi che potrebbero, in maniera innovativa, prevedere una condivisione degli spazi destinati alla sosta di interscambio con funzioni tipicamente di natura commerciale, con una condivisione della spesa tra pubblico e privato.
Infine dopo aver raggiunto standard europei in termini di estensione di rete metropolitana, è ora necessario potenziare e sfruttare al meglio la rete di superficie composta da tram e autobus, la cui estensione è superiore a tantissime città europee. Per avere servizi affidabili e di elevata qualità si deve proteggere e dare priorità al trasporto collettivo.

Postilla
Figuriamoci se è possibile non essere d'accordo con questo articolo: che però si limita a sfiorare quello che, in buona parte, è il vero problema, ovvero la dimensione extraurbana. Ulteriormente sottolineata dal fatto che tutti i nodi di prossima realizzazione citati si trovano ancora, rigorosamente, nel comune di Milano, nel microscopico comune di Milano, per chi non lo conoscesse direttamente. Mentre gli spostamenti col mezzo privato, lei mi insegna, hanno quasi sempre origine (a volte anche destinazione) suburbana. Certo non è cosa che si possa risolvere dall'oggi al domani, ma dare le giuste proporzioni a queste poche centinaia di metri di percorso in sotterranea della nuova Linea 5 aiuta a capire l'entità della sfida. Per ora rinviata (f.b.)

Ancora una documentata denuncia della devastazione del territorio prodotto dall'ideologia dominante e dalle conseguenti pratiche. Il Fatto quotidiano online, 7 febbraio 2013
Otto metri quadrati di terreni vergini vengono ricoperti di cemento e asfalto ogni secondo. Ogni cinque mesi viene cementificata un’area pari a quella di Napoli; ogni anno una superficie uguale all’estensione di Milano e Firenze. Sono questi i dati impressionanti che l’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ha presentato ieri in un affollato e qualificatissimo convegno.

L’Ispra ha avuto lo straordinario merito di aver sistematizzato tutti gli studi e le ricerche che negli ultimi anni avevano riguardato il fenomeno e di aver ricostruito per la prima volta l’andamento del consumo di suolo in Italia dal 1956 al 2010. Cinquantatré anni fa era urbanizzato il 2,8% del territorio, contro la media europea del 2,3%. Al 2010 il consumo di suolo italiano è pari al 6,9% e manteniamo il triste record europeo. Nel 1956 la graduatoria delle regioni più cementificate vedeva la Liguria superare di poco la Lombardia con quasi il 5% di territorio “sigillato”, distaccando, Puglia a parte (4%), tutte le altre. Dopo mezzo secolo la situazione cambia:la Lombardia supera la soglia del 10%, ponendosi in testa alla classifica, seguita da Puglia, Veneto, Campania, Liguria, Lazio e Emilia Romagna, ma quasi tutte le altre (14 su 20) oltrepassano abbondantemente il 5% di consumo di suolo.

Il dato è ancor più impressionante se si pensa che il territorio italiano è morfologicamente tormentato, presenta vaste zone collinari e montagne dove è pressoché impossibile costruire e cementificare. Il consumo di suolo ha dunque aggredito le parti pianeggianti ed è ancora l’Ispra ad aver documentato che lungo la costa adriatica, quella ligure, quella romana e della conurbazione napoletana i valori di occupazione del suolo raggiungono valori anche superiori al 40%. Per la pianura padana compresa tra Bergamo e Venezia era già stato l’Istat due anni fa ad aver denunciato la esistenza di un gigantesca conurbazione a bassa densità che ha divorato milioni di ettari di campagna e non ha rispettato neppure i fiumi.

Ed ecco la prima conseguenza della follia italiana: con cadenza regolare le aree pianeggianti vengono investite da gigantesche ondate di acqua che non riesce più a defluire negli alvei fluviali. Alessandria, Genova, le Cinque terre,la Lunigiana, Vicenza e tanti altri tragici esempi, forniscono la misura dell’insensata strada che l’Italia ha intrapreso. Piangiamo centinaia di morti innocenti, di devastazioni urbane e paesaggistiche, di miliardi di euro di danni. Uno sviluppo cieco imposto dalla rendita fondiaria speculativa sta riducendo il nostro paese in una gigantesca colata di cemento.

La seconda conseguenza sta nel disordine urbano e nelle disfunzioni che verifichiamo nella vita di ogni giorno. Ci si muove a fatica nelle nostre città: stiamo diventando un paese immobile perché prigioniero del cemento. E perdiamo così preziose occasioni di lavoro in questi tempi di crisi. La delocalizzazione che nei decenni precedenti prediligeva i paesi più poveri, oggi riguarda la Svizzera o la Carinzia, dove chi investe trova aree funzionali, trasporti che funzionano, servizi tecnologici di avanguardia.

E mentre i paesi europei, Germania per prima, approvano regole che limitano l’espansione urbanistica, nel Veneto dove i capannoni industriali abbandonati rappresentano il 50% della “capannonia” costruita negli anni della crescita economica si sta ad esempio dando il via alla costruzione di 5 nuove “città del divertimento” che divoreranno altri 200 ettari di campagna. Tutte le città, piccole e grandi, continuano ad espandersi senza fine mentre aumentano le case vuote. Si costruisce per favorire gli investimenti della grande finanza internazionale, anche con le grandi opere inutili: dal Ponte sullo stretto, all’Alta velocità della Val di Susa, dal raddoppio dell’aeroporto di Fiumicino, alla folle corsa a costruire porti turistici che, come ad Imperia, nascondono il malaffare. L’Ispra ha compiuto dunque un atto di grande rilevanza: ha reso noti i dati nazionali e ha dato l’allarme su quanto potrebbe accadere se non blocchiamo per sempre l’espansione urbana.

Ma di questo, come noto, i tre maggiori contendenti (Pd, Monti e Pdl) non parlano in campagna elettorale. Il sistema Sesto San Giovanni, e cioè l’assoluta discrezionalità con cui si aumentano a piacere le volumetrie da realizzare è un comodo giocattolo che permette guadagni illeciti e consenso sociale.

Stop al consumo di suolo e Salviamo il paesaggio sono invece le due grandi spine nel fianco di questo sistema di potere cieco e insensibile al bene comune. E sarà la voce delle popolazioni che non ne possono più di vedere devastato il paesaggio italiano a invertire il corso degli eventi. Anche grazie al prezioso lavoro dell’Ispra.

Il manifesto, 5 febbraio 2013

Convincere gli enti locali - e in prospettiva gli stessi governi nazionali - a fare marcia indietro sul «modello di sviluppo insostenibile» adottato negli ultimi vent'anni è missione quasi impossibile. Anche se nell'assemblea fiorentina della Rete dei comitati per la difesa del territorio c'è stato un piccolo passo avanti. «Aver avuto qui il presidente Rossi e l'assessore Marson - osserva Alberto Asor Rosa - venuti non per una visita ma per parlare e soprattutto ascoltare, è importante. Ancor di più lo è l'invito di Rossi a presentare all'intera giunta regionale la Piattaforma Toscana».

Un documento complessivo, elaborato grazie al lavoro dei comitati diffusi in tutta la regione, che partendo da una miriade di casi locali individua alcuni temi generali di discussione. Divisi in tre grandi sezioni (Energie, risorse, acqua, rifiuti; Urbanistica e territorio; Infrastrutture e grandi opere) fra loro interconnesse. E con un esame fortemente critico che non si ferma alla denuncia ma offre alle istituzioni progetti alternativi. In grado di difendere e tutelare il territorio e l'ambiente da progetti di presunto sviluppo che, nei fatti, sono altrettante aggressioni al tessuto urbano, rurale e paesaggistico. Dalle grandi opere agli inceneritori, passando per le espansioni residenziali, turistiche e produttive che portano ad un ulteriore consumo di suolo, per finire con lo sfruttamento indiscriminato di altre risorse naturali come la geotermia amiatina e il bacino marmifero apuano.

L'assemblea della Rete in un auditorium Stensen molto affollato sarà ricordata anche come prima occasione di incontro fra rappresentanti delle istituzioni e il comitato fiorentino No tunnel Tav. «Dopo sei anni di porte chiuse - ricorda Tiziano Cardosi - ora possiamo spiegare al presidente regionale che la nostra opposizione non è preconcetta. Anche dall'ultima inchiesta della magistratura sui lavori dell'alta velocità emerge un quadro disperante. Si va dall'imprenditoria italiana che si dimostra ancora una volta incapace di gestire i lavori, alla stessa ragione ultima di grandi opere che non rispondono ad esigenze sociali ma solo agli interessi di grandi gruppi di potere».

Fatte le proporzioni, la logica dei gruppi di potere interconnessi con la politica si ripresenta in ogni intervento. Come quello dei comitati della Val d'Elsa: «A Casole cinque anni di lotta alla speculazione edilizia hanno portato a successi giudiziari e urbanistici, con il blocco dei progetti e il coinvolgimento di cittadini, professionisti e anche di imprenditori, a difesa di un territorio agricolo di grande pregio. Ma le amministrazioni comunali continuano ad andare avanti, come se noi non esistessimo». Poi la Val di Chiana, dove fa scandalo una gigantesca centrale a biomasse spacciata come progetto di riconversione industriale di un ex zuccherificio, sulle cui ceneri si vuole invece realizzare un complesso immobiliare. Mentre nella Piana fiorentina, gravata da un carico già insostenibile di funzioni industriali, residenziali e della mobilità, a ulteriori piani di espansione urbanistica si assommano i progetti di un nuovo inceneritore, e il potenziamento dell'aeroporto con una nuova pista. «Con il parco agricolo della Piana la Regione ha inviato un segnale condivisibile - osserva Eriberto Melloni - ma come si può immaginare la compatibilità fra questa realtà e tutto quanto c'è attorno?»

Di fronte ai guasti provocati da leggi e regolamenti che incrementano il consumo del territorio, Enrico Rossi replica ricordando il nuovo corso regionale dell'assessore Anna Marson. Quanto al resto però non si torna indietro: «So di deludervi ma non possiamo non rispettare gli impegni presi, difficile rimettere in discussione le opere già varate». Dunque nessuno stop. Neanche al tunnel Tav. Anche se Rossi ammette: «Noi abbiamo controllato, lo stato no». Alla fine Asor Rosa chiede ai comitati un piccolo sforzo: «Guardiamoci dal 'disilluso scetticismo' che ci impedirebbe di vedere le novità». Che ci sono state. Anche se, specialmente nell'area fiorentina, non ci si fanno illusioni.

La Repubblica Milano, 5 febbraio 2013 (f.b.)

C’È IL progetto dell’Arci, che sogna la cascina Cotica a Lampugnano per la sua nuova sede aperta alla città. Ma c’è anche un’associazione di cittadini che vorrebbe trasformare la Sella Nuova, in zona Bisceglie, in una sorta di “università delle buone pratiche”. In tutto, sono 79 i progetti presentati a Palazzo Marino da associazioni e privati, che coinvolgono tutte e 16 le cascine comunali alle quali si vuol dare una seconda vita. È il risultato dell’indagine pubblica preliminare che l’amministrazione ha svolto per salvare il patrimonio, spesso storico, di immobili in condizioni disastrate.

Tecnicamente, le proposte pervenute si chiamano manifestazioni d’interesse, risultato di un’iniziativa del Comune per testare la disponibilità dei cittadini a rilanciare questi edifici. Ed è sulla base proprio di queste indicazioni che l’amministrazione modellerà i bandi da lanciare entro l’estate, in modo graduale. La città ha risposto con progetti di attività sociale, agricola, di accoglienza, ma anche con proposte per realizzare incubatori d’impresa e centri di co-working. Pensati per tutte e 16 le cascine da recuperare. Casanova, Taverna, una parte di Monluè, Colombè, Vaiano Valle, San Bernardo, Campazzino, Monterobbio, Carliona, Case Nuove, Lampugnano, Torchiera (dove oggi c’è un centro sociale), nessuna esclusa. Per la Sella Nuova il progetto presentato dall’omonima associazione punta a trasformare la cascina in un centro didattico con cantierescuola sul restauro, una scuola di cucina biologica e orti urbani.

Un centro dedicato all’agricoltura è l’idea per la cascina Brusada, in via Caprilli, e un’intenzione simile c’è anche sulla Sant’Ambrogio, in zona Forlanini. Alla Cotica l’Arci vorrebbe traslocare la sua sede provinciale, oggi in zona Porta Romana. «È un progetto aperto alla città che vorremmo realizzare a impatto zero — spiega Emanuele Patti, presidente di Arci Milano — . Una nuova sede ma anche uno spazio di aggregazione, orti didattici. Un luogo aperto alla cittadinanza attiva, polifunzionale ».

C’è, però, un problema risorse. Il progetto della giunta è di dare le cascine a chi si impegna a recuperarle in concessione fino a 90 anni e ad affitti calmierati, a fronte della garanzia che i progetti abbiano una funzione pubblica e siano sostenibili dal punto di vista finanziario. Ma in media, ogni piano di riqualificazione costa dai tre ai quattro milioni. E chi si è fatto avanti con i progetti è anche lo stesso che fa notare che servirà qualche agevolazione per recuperare tutti i fondi, da banche e investitori privati. «Abbiamo chiesto per esempio che oltre al comodato d’uso della cascina ci venga ceduto anche il diritto di superficie in modo da poter chiedere un mutuo — aggiunge Patti — qualche garanzia per il credito per darci una mano».

Il Comune esulta: «Siamo molto soddisfatti — dichiara l’assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris — per la qualità delle proposte. Molti progetti provengono da organizzazioni che operano sul territorio che, spesso, hanno anche un rapporto diretto, oltre che affettivo, con questi luoghi. Questo significa che i milanesi hanno colto lo spirito con il quale desideriamo avviare la riqualificazione delle cascine: sono spazi storici, belli e preziosi che dobbiamo cercare di rendere il più possibile aperti attraverso attività di tipo sociale, culturale, ma anche imprenditoriale ».

«Fluida, dinamica, mobile e temporanea, spesso strategia di sopravvivenza, la "kinetic city" ricicla le proprie risorse, imponendo una presenza con mezzi molto limitati». Il manifesto, 5 febbraio 2013

Le città dell'India che, con ogni probabilità, diventeranno alcuni dei più grossi conglomerati urbani del ventunesimo secolo, sono caratterizzate da una serie di contraddizioni sia fisiche che visive che convivono in un contesto di «pluralismo». Ma questo non è un fenomeno recente: se storicamente, soprattutto durante il dominio britannico, i vari mondi di queste città - economico, sociale o culturale - occupavano spazi diversi e operavano secondo regole differenti, al fine di massimizzare il controllo e minimizzare la conflittualità fra mondi opposti, oggi i medesimi mondi condividono lo stesso spazio, ma lo interpretano e lo utilizzano con modalità divergenti. Le enormi ondate di povera migrazione rurale, iniziata negli anni Cinquanta, hanno promosso la convergenza di questi mondi in una realtà unica ma composita. Abbinato all'insufficiente disponibilità di territorio urbano e alla mancanza di nuovi centri urbani, questo fenomeno ha determinato un'altissima densità demografica nelle città esistenti. Inoltre, con l'emergenza di un'economia postindustriale basata sui servizi, questi mondi sono divenuti sempre più interconnessi all'interno dello stesso spazio.

Oltre la monumentalità


Oggi le metropoli indiane comprendono due componenti che si dividono lo stesso spazio fisico: la «città statica» e la «città cinetica». La prima, costituita da materiali più permanenti come cemento, acciaio e mattoni, viene percepita come un'entità monumentale e bidimensionale presente sulle cartine tradizionali. La città cinetica - incomprensibile come entità bidimensionale - viene percepita come una città in movimento, un costrutto tridimensionale in progressivo sviluppo. Ha una natura temporanea, ed è spesso costruita con materiali riciclati - fogli di plastica, rottami metallici, tela e legname di scarto. Si modifica e si reinventa costantemente. La città cinetica non viene percepita in termini architettonici, piuttosto in termini di spazi caratterizzati da un valore associativo e un'esistenza ausiliaria. La sua forma e la sua percezione sono determinate da modelli di occupazione. Si tratta di un'urbanizzazione indigena con la sua particolare logica «locale». Non è necessariamente la città dei poveri, come potrebbe essere suggerito dalla maggior parte delle immagini; è piuttosto un'articolazione temporale e un'occupazione dello spazio che non solo dà vita a una percezione più chiara dell'occupazione spaziale, ma suggerisce anche il modo in cui i limiti spaziali possono venire espansi per incorporare usi precedentemente inimmaginabili in popolose situazioni urbane.
La città cinetica offre una visione potente, che facilita la comprensione dei contorni sfumati dell'urbanizzazione contemporanea e del ruolo in costante evoluzione degli abitanti e degli spazi della società urbana. Le crescenti concentrazioni dei flussi globali hanno esacerbato le disuguaglianze e le divisioni spaziali delle classi sociali. In un siffatto contesto, un'architettura o un urbanesimo di uguaglianza, in una situazione economica sempre più iniqua, richiedono un'esplorazione approfondita che permetta di reperire un'ampia gamma di spazi per evidenziare e commemorare la cultura di coloro che sono stati esclusi dagli spazi dei flussi globali. Questi non provengono necessariamente dalla produzione architettonica formale; anzi, spesso la mettono in discussione. Qui l'idea di una città è una condizione urbana elastica - non una grandiosa visione, ma un grandioso «adattamento».
La città cinetica, con il suo aspetto simile a un bazaar, è un po' la rappresentazione simbolica della condizione urbana emergente dell'India. Processioni, matrimoni, festival, venditori ambulanti e di strada, e abitanti degli slum, creano tutti insieme un paesaggio urbano in costante trasformazione: si tratta di una città in continuo movimento, il cui tessuto sociale è appunto caratterizzato dalla sua natura dinamica. Nel frattempo, la città statica - dipendente, per la propria realizzazione, dall'architettura - cessa di essere l'unica chiave di lettura della città. Di conseguenza, l'architettura non è l'aspetto «spettacolare» della città, anzi non ne rappresenta più nemmeno l'immagine dominante. Per contro, i festival come Diwali, Dussera, Navrathri, Muhharam, Durga Puja e Ganesh Chathurthi sono emersi come espressione della città cinetica, e la loro presenza nel paesaggio quotidiano pervade e domina la cultura popolare visiva delle metropoli indiane.
Rapporti simbiotici

Ovviamente, la città statica e quella cinetica trascendono le loro evidenti diversità per instaurare un rapporto molto più ricco, sia a livello spaziale che metaforico, di quanto non venga suggerito dalle loro manifestazioni fisiche. Affinità e rifiuto coesistono in uno stato di equilibrio mantenuto da una tensione apparentemente irrisolvibile. L'economia informale della città illustra efficacemente l'esistenza amalgamata e interconnessa di città statica e città cinetica. In quest'ultima, l'imprenditoria è un processo autonomo, una dimostrazione della possibilità di fondere formale e informale in un rapporto simbiotico. Numerosi servizi informali, da servizi bancari a trasferimento di fondi, da corrieri a bazaar elettronici, stimolano la nascita di reti e rapporti all'interno della comunità che permettono di utilizzare abilmente la città statica e le sue infrastrutture al di là dei margini prestabiliti.
Queste reti creano una sinergia che dipende dall'integrazione reciproca, senza ostinarsi a ricorrere a strutture formalizzate.
La città cinetica è il luogo in cui l'intersezione fra bisogno (spesso ridotto a mera sopravvivenza) e potenziale non utilizzato delle infrastrutture esistenti dà luogo a nuovi servizi innovativi. Quindi, riversa la saggezza locale nel mondo contemporaneo senza temere la modernità, mentre la città statica aspira a cancellare la dimensione locale per ricodificarla in un ordine scritto «macro-morale».
L'espansione del «margine»
La questione degli alloggi illustra molto efficacemente il processo di riorganizzazione della città cinetica da parte della città statica. A Mumbai, ad esempio, circa il 60% della popolazione non ha accesso a un alloggio formale. Questa popolazione occupa circa il 10% dello spazio urbano in insediamenti che vengono localmente definiti slum. Si ritiene che circa il 70% della popolazione sia impiegata in attività informali. Questo numero è aumentato con la nuova economia liberale che limita il potere contrattuale frammentando la forza lavoro delle città.
La popolazione subalterna che vive negli spazi interstiziali delle città - ai margini delle strade, in canali di drenaggio (nalla), ai margini delle ferrovie - deve fare i conti con i mezzi innovativi utilizzati nella vita di ogni giorno. Antenne paraboliche e una rete di fili elettrici si affiancano ad abitazioni coperte di fogli di plastica, o i cui muri sono costituiti da bidoni vuoti. Questi sviluppi rappresentano un caleidoscopio di passato, presente e futuro, compressi in un tessuto organico di stradine e vicoli ciechi, di un paesaggio urbano labirintico che si modifica e si reinventa costantemente. La città cinetica, come un organismo vibrante, si colloca e ricolloca nell'ambito di una città in incessante movimento. Flusso, instabilità e indeterminatezza sono fondamentali per la città cinetica.
Le soventi demolizioni indeboliscono la già tenue occupazione del territorio da parte degli abitanti di questi insediamenti, inibendo qualsiasi volontà di investimento volto a migliorare le proprie condizioni di vita fisiche da parte degli occupanti. Così la città cinetica è fluida e dinamica, mobile e temporanea (spesso come strategia volta a evitare lo sfratto) e non lascia rifiuti dietro di sé: ricicla di continuo le proprie risorse, facendo efficacemente sentire la propria presenza con mezzi molto limitati.
L'urbanizzazione dell'India rappresenta un'affascinante intersezione in cui la città cinetica, un paesaggio fisico di distopia, e pur tuttavia un simbolo di ottimismo, sfida la città statica, codificata all'interno dell'architettura, a riposizionare e ricreare la città nel suo complesso. La città cinetica costringe quella statica a reintegrarsi nelle attuali condizioni dissolvendo il suo progetto utopico e spingendola a fabbricare dialoghi multipli con il suo contesto. Potrebbe diventare questa la base per una discussione razionale sulla coesistenza? O l'emergente urbanizzazione dell'India è intrinsecamente paradossale, e la coesistenza delle città statiche e cinetiche, con i rispettivi stati di utopia e distopia, è semplicemente inevitabile? La configurazione spaziale che permette tale simultaneità può essere concepita formalmente?
Nonostante le molte potenziali disgiunzioni, ciò che viene celebrato da questa lettura della città sono i processi dinamici e pluralisti che costituiscono il paesaggio urbano dell'India. All'interno di tale urbanizzazione, le città statiche e cinetiche coesistono e sfumano, inevitabilmente, in un'entità integrata, anche se momentaneamente, creando i margini di adattamento che le loro simultanee esistenze richiedono.
Traduz. di Adriana Tortoriello

Il testo qui pubblicato - per gentile concessione dell'autore - è un estratto della ricerca che Rahul Mehrotra, 52 anni, sta conducendo riguardo il concetto di «Kinetic City», uno studio sugli spazi emergenti che funzionano da fattori agglomeranti per nuove comunità. Mehrotra è architetto praticante, urbanista ed educatore. Presso la Graduate School of Design dell'Harvard University, è docente di Progettazione urbana e di Urbanistica e direttore del Dipartimento di pianificazione e progettazione urbana, nonché membro del comitato direttivo dell'Harvard's South Asia Initiative. Lo studio di Mehrotra, Rma Architects, ha sede a Mumbai. Fondato nel 1990, ha eseguito un gran numero di progetti in tutta l'India, che vanno dalla progettazione d'interni all'architettura urbanistica, alla conservazione e alla pianificazione. Mehrotra è membro del consiglio di amministrazione dell'Urban Design Research Institute (Udri) e di Partners for Urban Knowledge Action and Research (Pukar), entrambe con sede a Mumbai, e ha scritto e tenuto numerose conferenze sull'architettura, la conservazione e la pianificazione urbana. Ha realizzato alcuni importanti edifici, come l'Hewlette Packard a Bangalore. Il «Giornale dell'architettura» l'ha indicato, in una ipotetica mappa del potere, fra i cento personaggi più influenti nel suo campo.

Il Fatto quotidiano, 5 febbraio 2013, postilla (f.b.)

Milano. Costruttori vicini a Comunione e liberazione e cooperative rosse. Ma soprattutto le banche, con Intesa in prima fila. Sono i beneficiari di uno degli ultimi provvedimenti di Roberto Formigoni. Un colpo di coda che per la banca che per anni è stata nelle mani di Corrado Passera vale almeno 300 milioni. Il regalo si nasconde dietro alla Città della Salute, il mega ospedale che verrà costruito sull’ex area Falck di Sesto San Giovanni. La struttura riunirà due istituti pubblici di ricerca e cura, il neurologico Besta e l’Istituto nazionale dei tumori, in un progetto che mette la sanità lombarda al servizio di banche e mattone.

Nel 2011 sull'area di Sesto, la stessa al centro dell’inchiesta sull’ex campione del Pd, Filippo Penati, è stato approvato un piano di intervento faraonico, che prevede un milione di metri quadrati di nuovi edifici, tra residenze, alberghi, uffici, servizi e un grande centro commerciale. Una nuova città da 20 mila abitanti dentro a quello che è già uno dei comuni più densamente abitati d’Italia. Valore di mercato stimato: 4 miliardi. Ma il rischio è grosso: nei tempi di magra del settore immobiliare gran parte di quel cemento potrebbe rimanere invenduto. Il nuovo ospedale è l’elemento che mancava, il volano per tutta l’operazione. E fa niente se tra gli addetti alla sanità qualcuno considera insensata la costruzione di un ospedale che costa 450 milioni. O se la nuova struttura si mangerà 205 metri quadri del parco da 450 che il piano originario aveva già promesso ai cittadini per il riequilibrio delle zone verdi

Non sono certo un po’ di alberi in meno a preoccupare la Sesto Immobiliare di Davide Bizzi, la società che nel 2010 ha rilevato l’area dall’indebitatissima Risanamento che fu di Luigi Zunino. Fanno parte della cordata guidata da Bizzi anche le cooperative rosse del Ccc, il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna finito nelle carte di un’indagine della Procura di Monza parallela a quella su Penati. Loro non si fanno toccare da questioni di verde o di efficienza sanitaria. E nemmeno le banche che avranno ottime probabilità di recuperare parte di vecchi crediti rimasti bloccati per anni. Intesa, Unicredit e Popolare di Milano, infatti, negli anni d’oro avevano finanziato Zunino a piene mani, salvo poi diventare azioniste di Risanamento per evitarne il fallimento.

È stato sotto la loro regia che si è conclusa la vendita a Bizzi dell’area, operazione che vide le banche stesse investire complessivamente più di mezzo miliardo nel progetto contro i 16,6 milioni di Bizzi e prendersi in pegno tutte le azioni della Sesto Immobiliare a fronte di crediti che a fine 2011 superavano i 400 milioni (oltre 300 quelli in capo a Intesa) senza contare i prestiti diretti ai soci di Sesto. Ben venga, quindi, “l’ospedale modello”, come lo definisce l’archistar che firma il progetto, Renzo Piano, mentre nei piani alti di Palazzo Lombardia lo slogan recita: “Prende forma la sanità del futuro”. Un futuro che fa felice anche la giunta di centrosinistra alla guida di Sesto che si è aggiudicata il progetto dopo un derby con il Comune di Milano. Il sì definitivo è arrivato in autunno, prima della fine anticipata della legislatura, mentre il progetto è stato presentato sotto Natale. Una decisione che come effetto collaterale potrebbe evitare indagini della Corte dei Conti sui 3,2 milioni già spesi per la Città della Salute, quando ancora si pensava di farla a nord di Milano.

La scelta della giunta formigoniana, poi, piace anche ai consiglieri regionali del Pd, mentre il Ccc è già in prima fila per aggiudicarsi i lavori di bonifica, il cui progetto è stato firmato dallo studio di Claudio Tedesi, ingegnere vicino al ras della sanità pavese Giancarlo Abelli. Tedesi ha già lavorato con il defunto Giuseppe Grossi a progetti controversi, come quello del quartiere Santa Giulia anch’esso della galassia che fu di Zunino e finito al centro di un’inchiesta della Procura di Milano per lavori di bonifica mai eseguiti. Nella partita giocherà da protagonista anche la Compagnia delle opere, il braccio economico di Cl che, oltre a Formigoni, in Lombardia ha tra i suoi maggiori esponenti politici Maurizio Lupi, vicino a Bizzi. Il super ospedale, però, non piace a tutti. Il progetto è troppo costoso e monco, visto che manca un polo generalista (inizialmente doveva essere il Sacco). Paolo Crosignani, primario dell’unità Registro tumori ed Epidemiologia ambientale all’Istituto dei tumori, si chiede: “Che hanno in comune oncologia e neurologia? Forse solo la caldaia e la farmacia”. Ma il progetto si farà: la Regione ci mette 330 milioni, lo Stato 40, gli altri 80 dovrebbero arrivare dai privati. Il finanziamento regionale, però, nei prossimi anni peserà sui due istituti pubblici come un debito. Celeste eredità.

Postilla
Ecco, forse sono le ultimissime battute dell'articolo, ben oltre i classici - giustificati - toni un po' complottardi tipici del Fatto quotidiano, a dare il senso agli esiti di tutta l'operazione: investimenti immobiliari anziché in qualità dei servizi sanitari, come si sarebbe potuto fare anche senza alcuna cittadella ospedaliera. Si spera se non altro che coi nuovi equilibri politici auspicabili dopo le elezioni si cominci a riflettere in questo senso. Per i retroscena degli interessi economici in gioco, ovviamente, gli appassionati possono stare tranquilli: cambio di nomi a parte, lo spettacolo è destinato a proseguire. Solo, si spera, più lontano dalle aule dei tribunali (f.b.)

La Nuova Sardegna, 4 febbraio 2013

Quatar Quatar , la Costa Smeralda, ilnuovo mini master plan. Sarebbe utile un riassunto delle puntate precedenticome per i lunghi sceneggiati televisivi. Ma qui, per comodità di sintesi, basta ricordare i vecchi famigerati master plan di taglia larghissima,spazzati via con ignominia (nonostante le regole permissive e scombinate, aloro volta cassate dai giudici).Non sono neppure rimasti negliarchivi ma hanno monopolizzato a lungo il dibattito, eccitato dai tentativi diprodurre consenso per le mirabolanti prospettive del ciclo edilizio. Del qualeoggi, nonostante la crisi senza tregua, è difficile nascondere i guasti.Bastano le immagini di Avenida de la Ilusion – le migliaia di case vuote schierate attorno algolf di Benalmádena nella Costa del Sol –, per spiegare ildissesto economico in Spagna e i rischi della bolla globale.
Per questo fa impressione lafiducia verso il mini master plan confezionato per i sindaci di Arzachena eOlbia. Ancora incoerente con le disposizioni del piano paesaggisticocorroborato da una lunga serie di sentenze che hanno dato torto ad agguerritiricorrenti.
Non si può fare quasi nulla diquello che nei disegni colorati simula il futuro radioso di quei lidi. Neppureaggiungendo “un tocco d'Oriente in quel tratto della costa orientale sarda” –com'è nelle espressioni più temerariesuggerite dagli addetti stampa della Costa Smeralda2, sempre rassicuranti suimpatto dolcissimo e rispetto della tradizione non si sa quale.
Evidente l'obiettivo dialimentare il solito groviglio di speranze con il noto programma nebuloso:il miliardo che sarà investito (chi ecome certificherà i flussi di spesa ?), gli alberghi, le villone e le villette“spalmate”, “nascoste nel verde”, senzaspiegare la suddivisone dei 500/600mila mc. (e infatti i conti non tornano). Epoi i soliti investimenti aggiuntivi a soccorso (università, trasporti,ospedali), le ricadute dappertutto, fino ai ritocchi da luna park (kartodromo eacquafan) che fanno rimpiangere le terrazze di Marta Marzotto.
Ma finalmente, tra le notiziesulle fantastiche intenzioni della holding con il cuore d'oro, si ammette che, insomma, senza un dietrofront delle disposizioni invigore il progetto della banca d'affari araba sarebbe respinto perché lesivodel paesaggio.
Ma com'è che un imprenditoreavanza proposte in contrasto con le leggi della Regione? La risposta è nel vento cagliaritano: neipalazzi della Regione dove si cerca affannosamente il modo per domare il pianopaesaggistico in funzione delle attese del Qatar. E' assurdo che le rigorose certificazionisulla bellezza di un luogo possano essere contraddette per compiacere interessisoggettivi. Ma siamo talmente abituati all'idea di leggi fatte su misura chenessuno chiede al sindaco di Arzachena di spiegare cos'è “la sinergia per superare i vincoli del Ppr” evocata nella intervista a «La NuovaSardegna» del 31 gennaio scorso. “Unapossibilità di cui parlammo già a novembre con il presidente Monti” – aggiunge, lasciando intendere incautamente che lo Stato sarebbe pronto a ricredersi su Monti Zoppu o Razza diJuncu che sarebbero indegni di tutela perché lo chiedono a Doha.
Colpisce questa propensioneall'inchino: una postura che diventerà definitiva “naturalmente” (“s'arvure torta nons'adderectat prusu” “l'albero storto non si raddrizza più” ) se la Sardegnacontinuerà a subire i disegni altrui. Occorre invece allacciarsi alle più moderne e evolute strategie di governo del territorio. Anche perinnovare la ricettività alberghiera in Costa Smeralda. Ma non con visioni e strumenti novecenteschi.Com'è paradossalmente il decaduto programma di fabbricazione (?) di Arzachena– degli anni Settanta! – renitente ad adeguarsi alle leggi dellaRegione Autonoma ma pronto ad accogliere, tempestivamente e docilmente, iprogrammi di un emirato.

Corriere della Sera, 4 febbraio 2013 (f.b.)

LONDRA — L'asfalto di un parcheggio aveva inghiottito l'ultimo Plantageneto. Quel re usurpatore e sanguinario era lì sotto, a Leicester, dimenticato da oltre cinque secoli. Le ossa ancora intatte, con i segni sul cranio dell'ultima battaglia, la spina dorsale incurvata. Shakespeare a Riccardo III aveva dedicato un capolavoro teatrale: «Ho tramato complotti di ogni genere / ho iniettato negli animi il veleno con profezie, calunnie, fantasie / per seminare mortale inimicizia». E con poche parole all'inizio del primo atto, recitate dallo stesso monarca-protagonista, ne aveva dato una magistrale descrizione. Qual è stata la sua sorte?

Riccardo III entrato nella storia inglese con una pessima fama. Sparito. Ritrovato per caso. L'università di Leicester ormai è certa, il margine di errore è ridotto al lumicino. Oggi diranno pubblicamente e definitivamente che lo scheletro scoperto all'inizio dello scorso settembre è proprio di Riccardo III, undicesimo figlio del duca di York, capitolo finale della casata sconfitta dai Tudor. Gli esami del Dna hanno dato il loro responso. La scienza ha consentito di prelevare un campione genetico dai resti e di metterlo a confronto con il profilo di un mobiliere canadese residente a Londra, Michael Ibsen, diretto discendente di Anna di York, sorella di Riccardo III. «Ormai, lo possiamo dire, al 99,9 per cento, è proprio lui», ha confidato al Sunday Times Philippa Langley, membro della «Richard III Society».
Quando, nel 2012, gli archeologi chiesero il permesso di scavare nel centro di Leicester, città che è nel cuore dell'Inghilterra, pensavano ad altro. Non al Plantageneto cresciuto nello Yorkshire, divenuto duca di Gloucester, incoronato il 6 luglio 1483 a Westminster. Pensavano piuttosto di andare alla ricerca di un antico convento distrutto nel Cinquecento, volevano e ne erano sicuri che saltassero fuori le fondamenta della chiesa francescana. Ma è accaduto il più classico degli imprevisti. Buttando all'aria la colata di cemento e scavando un po' hanno visto quello scheletro con i segni evidenti di una sofferenza spinale, con i segni di una lama conficcata in un gamba e con il cranio che mostrava l'affossamento per un colpo ricevuto.

Era morto in battaglia Riccardo III, la battaglia di Bosworth Field il 22 agosto 1485 contro l'esercito dei Lancaster guidato da Enrico Tudor. Il futuro Enrico VII. Che fossero proprio di Riccardo III le ossa intrappolate nella terra per cinque e più secoli sotto il parcheggio? Da almeno tre anni gli archeologi dell'università di Leicester sostenevano che sarebbe stato possibile rinvenire le testimonianze dello scontro armato fra l'ultimo degli York e il primo dei Tudor. E che forse anche i resti di Riccardo III erano lì, nonostante dalle tradizioni arrivasse il racconto delle spoglie fatte bruciare da Enrico VII. Avevano ragione?
Gli esami del Dna, pur lasciando una lievissima porta aperta al dubbio, sciolgono il giallo: lo scheletro è di Riccardo III. Non che tutti siano d'accordo. Ad esempio il professor Mark Horton dell'università di Bristol è scettico: «Il Dna non è la panacea che risolve i misteri storici». E non si fida. Più sicuro Mike Pitts del «Council for British Archeology» che al Guardian dichiara: «I test scientifici aggiunti alle evidenze storiche offrono risposte attendibili». Il dibattito è aperto.
Poi, c'è chi già invoca solenni funerali di Stato per quelle ossa. Li chiede il parlamentare conservatore Chris Skidmore. Forse troppo entusiasta della scoperta. Ma è certo che, una volta superate le diatribe accademiche, Riccardo III troverà degna tumulazione: sarà nella cattedrale di Leicester, proprio di fronte al parcheggio che lo ha tenuto sepolto dal 1485.

A venti giorni da un voto nazionale e regionale importantissimo che può chiudere un ventennio di berlusconismo distruttivo per la cultura e per l’identità nazionale, un ventennio di inquinamento profondo dei pozzi dei saperi fondamentali e di esaltazione provinciale dell’individualismo più becero, bisogna con maggior forza far entrare nel dibattito politico la “ricostruzione” della cultura italiana in ogni ambito. Essa è la leva forte per uscire dall’orrendo pantano in cui il Paese è stato cacciato, per una sua effettiva, durevole rinascita internazionale. Su questo punto altamente strategico il governo Monti purtroppo non è servito ad invertire la spinta berlusconiana verso un degradante declino. Anzi, il ministro Lorenzo Ornaghi è stato, per negatività, pari se non peggiore dei predecessori Galan e Bondi. Il budget del Ministero, già modesto rispetto ai Paesi sviluppati, è stato ancora tagliato con l’accetta: del 40 % nell’ultimo decennio. Per la parte riguardante la cultura la stessa Agenda Monti si è rivelata di una pochezza, di una banalità disarmanti confondendo cultura e turismo.

Il compito strategico di risollevare la cultura in generale e di farne, con la ricerca, la leva essenziale della rinascita generale del Paese spetta dunque al centrosinistra, alla sinistra, spetta al Partito Democratico anzitutto e al suo alleato Sel, a quanti sostengono questo blocco riformatore. Ma nel dibattito elettorale ciò si avverte ancora troppo poco rispetto al disastro in cui siamo precipitati: con archivi e biblioteche (eccezionali per storia e dotazione) ridotti a luoghi spenti e disertati, oggetto di autentiche ruberie come la vicenda dei Girolamini documenta, con grandi musei, alcuni da poco finiti di restaurare splendidamente, che lottano per rimanere aperti come devono, con la rete essenziale dei musei civici che rischia di sfibrarsi, con la didattica in generale, a partire da quella museale, azzerata, con Soprintendenze che non hanno mezzi né personale tecnico per garantire una vera tutela del patrimonio aggredito da ogni parte, specie nel paesaggio sfigurato e nei centri storici oggetto di nuovi insidiosi assalti. Mentre il Paese frana e smotta ad ogni pioggia appena battente, avendo anche in questo caso disossato le Autorità pubbliche, mentre la Lega Nord proponeva di gestire tragicomicamente regione per regione persino il Po e il centrodestra non istituiva le Autorità di Distretto votate in Europa. O si faceva avanzare lo smembramento, allo stesso barbaro modo, di Parchi Nazionali come Stelvio e Gran Paradiso, e si lasciavano gli altri Parchi in una condizione di indigenza che vuol dire impotenza contro speculatori edilizi, bracconieri, cacciatori, disboscatori, ecc.

Il Malpaese rischia dunque di sopraffare il Belpaese e anche gli appelli – come quello recentissimo per l’alluvione di Sibari (e parlo di Sibari, tesoro archeologico) – rischiano ormai di cadere nel vuoto, di non venire raccolti da una stampa sorda e dalla stessa Rai che ha cancellato le trasmissioni culturali o le ha relegate a notte fonda oppure all’ora dei pasti, se va bene. A Appiattita dunque sui peggiori modelli della tv commerciale.

Nell’era berlusconiana, proseguita, come una inarrestabile “onda nera”, anche col governo dei tecnici, si sono tagliati i viveri di sopravvivenza al cinema, pericolante e però sempre creativo, al teatro, che pure continuava a conquistare spettatori, alla musica di ogni genere, dal gregoriano al jazz, alle avanguardie. Certo che in passato vi sono stati, specie negli ex Enti lirici, sprechi, rendite parassitarie e ve ne sono ancora. Ma non è così che si interviene su un corpo malato se lo si vuole, se lo si deve curare. E lo si deve perché cinema, teatro, musica, balletto, arte, paesaggio sono o erano la nostra grande forza. Coi tagli lineari alla Tremonti si sono letteralmente amputate parti del corpo vivo della cultura. Il taglio dei trasferimenti erariali ha spinto i Comuni da un lato a schiacciare l’acceleratore dell’edilizia speculativa pur di fare cassa (senza curarsi dell’impatto orrendo sui paesaggi), dall’altro a ridurre l’attività culturale decentrata, a spegnere le luci di teatri storici restaurati e di moderne sale da musica e da prosa, con effetti a cascata di incalcolabile gravità.

Mille altre cose vi sarebbero da denunciare e quindi da proporre. Ma qui mi fermo, sottolineando soltanto come la formidabile “rete” dei nostri parchi e paesaggi, dei nostri quattromila musei, delle duemila aree archeologiche, delle centomila chiese, dei quarantamila castelli e torri, dei ventimila centri storici, di migliaia di biblioteche antiche e di decine di migliaia di archivi ecclesiastici e civili, degli ottocento teatri storici e di tanto altro ancora sia la nostra identità storica e sia anche, se tutelata adeguatamente, se fatta vivere decorosamente, gran parte dell’attrattiva turistica. Di oggi e ancor più di domani.

Eppure si calcola che il sistema produttivo della cultura occupi quasi 1 milione e mezzo di addetti. Perché il centrosinistra, la sinistra, il Pd non rilancia – a partire dall’”Unità” - una grande, generosa, illuminata battaglia per la Cultura come la madre di tutte le battaglie, anche del lavoro e dell’occupazione qualificata?

Nelle idee di sviluppo sociale e territoriale della sinistra oggi c'è qualcosa che colpisce forse più del risorgente mito da utopia regressiva: una certa schizofrenia e assenza di visione, che finisce per penalizzare anche le idee migliori, astraendole dal contesto. Una proposta di metodo alternativo

Una mamma al volante con figlia adolescente sul sedile del passeggero attraversa la città, alla disperata ricerca di un parcheggio, incrociando via via tutti gli esasperanti guai della congestione da traffico. Strade troppo strette, spesso piene di buche, ma per ripararle c'è bisogno di chiudere una corsia e peggiorare ancor di più la situazione. E poi il furgone delle consegne fermo nell'unico posto disponibile per scaricare, che obbliga a fermarsi dietro di lui, o l'automobilista prepotente che ti ruba l'unica piazzola che si era appena liberata. Ma ecco che dal cielo arriva la voce ferma, seria, competente di un uomo che ha le idee chiare: Robert Moses, un tecnico-amministratore che da trent'anni sta trasformando la metropoli mondiale per eccellenza, New York, nel paradigma della modernità che tutti conosciamo e che tutto il mondo invidia. C'è un modo concettualmente facile di risolvere i problemi della signora al volante, spiega Moses a un pubblico di pensosi ascoltatori, ma non è cosa che si possa improvvisare, o liquidare con uno schiocco di dita. Perché se le strade attuali non bastano a contenere la voglia e il bisogno di muoversi, bisogna fare un piano almeno decennale, di investimenti corposi, e seguirlo in tutti i suoi sviluppi. Visione, serietà, impegno, almeno questo si meritano la signora e la figlia sadicamente e un po' passivamente sballottate nel traffico. Come dargli torto?

In realtà qualcuno che gli darebbe subito torto, e senza pensarci troppo su, forse lo trovate semplicemente uscendo sul pianerottolo, o aprendo la vostra pagina di Facebook e scorrendo la prima mezza dozzina di post degli amici. Sono tutti coloro che, a distanza di mezzo secolo dallo spot pubblicitario appena descritto, Semaforo Verde per le Autostrade, ne hanno ampiamente sperimentato gli effetti reali sulla vita quotidiana, e non ne possono più. Perché i viadotti multicorsia attraverso i quartieri, presentati come la soluzione pigliatutto del traffico urbano, non solo non hanno eliminato la congestione, ma di fatto hanno eliminato i quartieri, come ben sappiamo anche nella nostra piccola Italia, dove almeno c'è stata la resistenza passiva, in qualche modo virtuosa anche se contraddittoria, dei tessuti storici e degli stili di vita che hanno conservato. Ma anche perché quelle corsie infinite, infinite per vocazione, dopo aver attraversato e distrutto i quartieri sono dilagate sulle campagne, facendole a fettone e fettine, producendo in serie quella nuova città battezzata negli anni '30 da Frank Lloyd Wright Broadacre, ma che presto ha cambiato nome diventando la cosiddetta villettopoli, che tutti detestano anche se non tutti riconoscono al volo.

Ma Robert Moses, ai suoi seri spettatori e alle casalinghe bloccate in cerca di parcheggio, non proponeva un sogno di asfalto, per quanto liscio e ben illuminato: proponeva una visione. Una visione fatta sì di strade, ma anche di tutto quanto a quelle strade stava attorno, scambi, produzione, lavoro, reddito, vita quotidiana migliore per tutti. Non a caso il documentario Semaforo Verde è esplicitamente proposto dalla General Motors, vero e proprio motore immobile dell'universo, per così dire. L'auto come nucleo centrale del modello di sviluppo, dove il territorio solcato dalle corsie asfaltate riorganizza non solo gli spazi della residenza, del lavoro, del consumo e tempo libero, ma anche l'intera vita di chi lo percorre. Non a caso già Henry Ford una generazione prima aveva saputo esprimere il nucleo centrale di questa idea: una nuova frontiera di crescita economica, più che di pura mobilità fisica, che cancellava l'idea di città, l'idea di campagna, e magari pure quella di classi sociali (forse escludendo i padroni, immagino così a spanne). E appunto, vi diranno giustificatamente i contestatori di quel modello che incontrate sul pianerottolo o su Facebook, guarda come siamo conciati oggi, oggi che l'automobile tra l'altro dopo aver fatto tutti quei danni ci lascia anche senza reddito, chiude le fabbriche, abbandona i territori, ammucchia solo macerie e desolazione. Che fare?

Hanno ragione a ricostruire le contraddizioni di un percorso a dir poco accidentato, i nostri critici della frontiera infinita, della città infinita che in fondo non è mai stata città, riproducendone solo le infrastrutture meccaniche in forma quasi caricaturale, con quel metodo della catena di montaggio che applicato alla natura ha prodotto tanti mostri. E ci dicono torniamo al pensiero tradizionale, alla prevalenza della campagna, dei tempi lenti, della civiltà slow. In fondo anche la loro è una visione. Ma c'è qualcosa che non va: hanno davvero messo nel conto tutte le variabili? Oppure anche i nostri interlocutori, diciamo neo-contadini, involontariamente ci stanno proiettando un loro spot pubblicitario, titolo provvisorio Semaforo Rosso? E ancora e soprattutto: può funzionare davvero quel tipo di comunicazione tutta in negativo, parziale, dove si promettono tanti sacrifici e pochi vantaggi? L'operaio della fabbrica di automobili, che ha sperimentato sulla propria pelle il passaggio dalla sottomissione contadina dei genitori ai suoi diritti sindacali e di cittadinanza, non se la beve più di tanto l'idea di ritorno alla vita tradizionale. La signora pur ancora bloccata nel traffico , con figli e spesa nel baule, vi manderà prontamente al diavolo se col migliore dei sorrisi da imbonitore tenterete di sfilarla dal suo abitacolo, e di infilarle invece una bicicletta sotto il sedere. Entrambi colgono al volo, istintivamente, che la visione di Moses, pur piena di lacune e forzature, guardava avanti, e guardava a loro, mentre la contemplazione dell'ottocentesco terroso Angelus di Millet diventata immagine del mondo, manca di un motore affidabile. La signora dello spot General Motors si chiede e ci chiede: “What can I do?”

A lei rispondeva Robert Moses, uomo di destra, uomo del capitale, uomo autoritario e persino razzista quando costruiva superstrade per andare in spiaggia dove (è stato ricostruito da uno storico serio, non è una battuta) i ponti erano troppo bassi per far passare gli autobus. E i neri si spostavano quasi tutti in autobus, quindi le superstrade erano progettate coi soldi di tutti, ma solo per i bianchi. Quale sarebbe una risposta di sinistra, ma propulsiva, progressista, visionaria? Bella domanda, alla quale si può solo provare a dare una piccola risposta parziale, del tipo nani sulle spalle del gigante: il mondo automobilistico ce lo siamo costruito per due o tre generazioni, e da lì ci tocca volenti o nolenti partire, senza immaginare o peggio sognare ecatombi anti-industriali o tardo-ruraliste. Che dalle nostre parti in fondo evocano quel cosiddetto "Grande Statista del Novecento" che trebbia a torso nudo alla periferia di Littoria, dichiarando di accettare legittimamente solo quelle attività economiche che derivano “dalla terra e dal mare”. Diffidate di sparate simili. Perché gira e rigira negano il diritto sindacale del figlio di contadini diventato operaio metalmeccanico, o il diritto della signora di portare i figli a scuola, fare la spesa, e poi avere anche un po' di tempo per sé, per pensare, per vivere. Lui non è una macchina da reddito, lei non è una macchina da riproduzione forza lavoro.

Lo slogan che gira da un po' è demotorizzazione, e anche qui lo si può leggere da destra o da sinistra, lo si può provare a governare oppure lasciare ai famosi spiriti animali, col loro noto comportamento da bestie. Demotorizzazione sono quelle statistiche abbastanza spaventose sul crollo di vendite e immatricolazioni, o i tira e molla dei manager di questo o quello stabilimento sui contratti, gli ammortizzatori sociali, l'eventuale delocalizzazione e riuso dell'area. E le idee di farci, sempre e comunque, o centri commerciali (idea di destra) o orti urbani (idea di sinistra). Domanda: non si può declinare la demotorizzazione a sinistra, iniziando a riflettere su una visione che riprenda la Broadacre di Wright, la rete delle Highways di Moses (ovvero la produzione in serie di un prototipo artigianale griffato italiano, l'Autolaghi del 1924), in una prospettiva postmoderna? L'automobile e quanto le sta attorno, nell'epoca della condivisione, che in inglese si chiama sharing. Automobile condivisa, solidale diciamo, dove dal mezzo si passa al sistema, pensando anche l'occupazione per produrre nuovi veicoli sostenibili da immettere in una rete altrettanto sostenibile. Dove la casa automobilistica fornisce un servizio dalla culla alla tomba, del veicolo, della rete, dell'energia, delle fasi di manutenzione, rinnovamento, riciclo. Manca una cosuccia, ma è quella che distingue appunto la destra dalla sinistra: il diritto proprietario valore assoluto, a cui si sostituisce la condivisione.

Terra terra: se non sono più proprietario unico della mia auto (e magari neppure della lavatrice, che come l'auto se ne sta ferma e vuota il 90% della sua vita), mi libero di un sacco di complicazioni burocratiche, e libero il territorio da un aggeggio che di suolo ne consuma anche direttamente tantissimo, fra box standard a parcheggio sparsi ovunque e sezioni stradali da ora di punta. Se chi investe nella riconversione si rivolge alle masse popolari anziché a una miriade di Fantozzi presi uno per uno, magari ha un interlocutore più tosto sul mercato, ma ci guadagna in certezza. Riconvertire stabilimenti, rete di assistenza e informazione, produzione e distribuzione di energia sostenibile. Riconvertire il territorio, recuperando ad altre funzioni, o rinaturalizzando per quanto possibile, tutti gli spazi già destinati alla fatale impermeabilizzazione. E proviamo a riformulare la domanda: è un Semaforo Rosso, minaccioso, autoritariamente ammonitore, oppure un convincente (e realistico) Semaforo Verde che indica un buon equilibrio fra oneri e onori? Sicuramente è di sinistra, perché guarda avanti. Recuperando al meglio lo spirito del bel filmato anni '50, che consiglio a tutti di guardarsi per intero: niente nostalgia, è proprio convincente, se lo si guarda bene e si dà retta all'istinto.

Che i programmi elettorali si siano dimenticati anche dell'urbanistica se ne sono dimenticati anche i giornalisti più attenti. Corriere della sera, 2 febbraio 2013



Non sono solo l'antica Sibari coperta dalle acque del Crati esondato e la «Pompei preistorica» di Nola allagata da una falda perché la pompa è rotta da anni: è tutto il patrimonio storico, monumentale, artistico a essere sommerso. Dalla verbosità di una campagna elettorale che parla d'altro.

Nell'ultimo mese, dice l'archivio Ansa, Mario Monti si è guadagnato 2.195 titoli dei quali due abbinati alla cultura, Berlusconi 1.363 (cultura: zero), Bersani 852 (cultura: uno), Grillo 323 (cultura: zero), Ingroia 477 (cultura: zero), Giannino 74 (cultura: zero). Vale a dire che in totale i sei leader in corsa hanno avuto 5.284 titoli di cui solo 3 (tre!) che in qualche modo facevano riferimento alla cosa per la quale l'Italia è conosciuta e amata nel mondo.

Per carità, può darsi che anche i giornalisti si eccitino di più a dettare notizie sugli insulti e le scazzottate. Può darsi. Ma la stessa verifica sui leader principali estesa all'ultimo anno dice che su 5.803 notizie titolate su Berlusconi quella in cui il Cavaliere parla di «beni culturali» è una, quando ospitò a villa Gernetto il Fai (Fondo Ambiente Italiano). E lo stesso si può dire di Bersani (5.562 notizie, due sul tema citato) o di Monti: 13.718 lanci, nei quali una volta si disse dispiaciuto di non poter «sostenere maggiormente le iniziative» dello stesso Fai, una seconda promise il rilancio di Pompei e una terza, alla fiera del Levante, discettò che «il binomio turismo-beni culturali è ovviamente un binomio vincente». Ovviamente...

Una manciata di accenni su quasi venticinquemila notizie titolate su di loro. Tutta colpa dei cronisti? Ma dai! I programmi presentati per il voto del 24 febbraio, del resto, confermano: la cultura è per (quasi) tutti un tema secondario.

Certo, nella sua Agenda, Mario Monti (il primo a dar ragione a Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito sul ministero della Cultura) dedica un capitoletto all'«Italia della bellezza, dell'arte e del turismo», dove vengono dette cose di buon senso come quella che per noi è «una scelta strategica "naturale" puntare sulla cultura, integrando arte e paesaggio, turismo e ambiente, agricoltura e artigianato, all'insegna della sostenibilità e della valorizzazione delle nostre eccellenze». È difficile però dimenticare come il decreto Cresci Italia montiano, in 188 pagine, non facesse cenno alla Cultura. Della serie: fatti, please.



E il Partito Democratico? Tra i dieci capitoli del programma su www.partitodemocratico.it (Europa, democrazia, lavoro, uguaglianza, libertà, sapere, sviluppo sostenibile, diritti, beni comuni, responsabilità) i beni culturali non ci sono. Anzi, non c'è un solo accenno manco sparpagliato qua o là ai musei, alle città d'arte, ai siti archeologici, alle gallerie, alle biblioteche... Niente. Che siano sotto la voce «Sapere»? No, lì si parla di istruzione, ricerca, formazione... Tutti temi fon-da-men-ta-li, sia chiaro: ma le proposte sul patrimonio culturale dove sono? Pier Ferdinando Casini si allinea. Ha qualcosa da dire sulla famiglia e la vita, la scuola e il lavoro, le imprese e la casa, la salute e la sicurezza, il federalismo e l'immigrazione... E la cultura? No. Assente.

La parola cultura è quasi assente anche nel decalogo degli «Io ci sto» della «Rivoluzione civile» di Antonio Ingroia. Movimento impegnato, legalità e solidarietà, laicità e sanità, università e antimafia e un mucchio di altre cose ma sul nostro tema assai stitico: «Vogliamo che la cultura sia il motore della rinascita del Paese». Fine. Che ci sia qualcosa nel programma dell'Idv? Mai la parola cultura, mai beni culturali, mai patrimonio culturale...


E nel programma de «La Destra» di Storace? «Lo stiamo scrivendo...», spiegano. Per ora, a tre settimane dalle elezioni, c'è solo il «Manuale della sovranità» dove si parla di tutto, dal ritorno alla lira alla lotta alla corruzione, dalla giustizia all'immigrazione, tranne che di queste cose. La Lega Nord? Unica proposta, abolire le Soprintendenze per «attribuire alle Regioni ogni potestà decisionale in materia di beni culturali, trasferendo le competenze ai territori». Nessuna meraviglia: su 16.064 notizie Ansa in cui lui è nel titolo a partire dal 1992, Maroni si è occupato del tema pochissime volte, di cui una per Varese e un paio per invocare la stessa cosa di oggi. Per dire: abbinando Bobo alle parole calcio e Milan di notizie ne escono 110.



Anche il «Movimento 5 Stelle» è interessato ad altro. Nulla nei capitoli principali (Stato e cittadini, energia, economia, informazione, trasporti, salute, istruzione) nulla sparso qua e là. Propongono di tutto, i grillini. Dall'abolizione dei rimborsi elettorali alla «incentivazione della produzione di biogas dalla fermentazione anaerobica dei rifiuti organici», dallo studio dell'inglese alle materne fino ai ticket sanitari proporzionati al reddito. Decine e decine di proposte. Ma non un cenno, nel programma online, ai beni culturali, al patrimonio artistico, ai musei, ai siti archeologici...



Nichi Vendola e Giorgia Meloni: sono loro a formare la coppia più inaspettata. Loro quelli che, nel programma di Sel e di Fratelli d'Italia, dedicano più spazio alla necessità di puntare sulla cultura per uscire dalla crisi. Loro a ribadire con più convinzione che non solo devono essere coinvolti i privati ma che lo Stato deve investire di più, puntare sulle intelligenze, la creatività, i giovani.


E il Pdl di quel Berlusconi che in uno spot diceva che l'Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall'Unesco» decuplicando (ne abbiamo 47 su 936) per vanità patriottica la nostra percentuale? Dedica al tema, in coda, 7 righe su 379. Dove sostiene che vanno separati cultura e spettacolo «nell'assegnazione di risorse pubbliche», che i musei devono «svuotare le cantine» (tesi assai controversa) o che occorre «avviare la sperimentazione dell'affidamento in concessione ai privati dei musei più in difficoltà». Ma si guarda bene dal promettere il ripristino degli investimenti, crollati dal 2001 al 2011, decennio berlusconiano (con parentesi prodiana) dallo 0,39 allo 0,19% del Pil. Il contrario di quanto ha fatto in Germania (tirandosi addosso, paradossalmente, perfino la critica di aver un po' esagerato) la «nemica» Angela Merkel.

Peccato. Se la cultura non entra nel dibattito politico neppure in campagna elettorale...

Il Fatto Quotidiano on-line, 2 febbraio 2013 (m.p.g.)
Qualche giorno fa Ernesto Galli Della Loggia e Roberto Esposito hanno proposto di cambiare il nome e la missione del Ministero dei Beni culturali in quelli di «Ministero della Cultura».
Proprio ciò di cui c’è bisogno, no?
Tra gli entusiasti plaudenti, si segnala il noto archeologo Andrea Carandini, che ha sobriamente dichiarato: «Questa ipotesi è verosimile solo a un patto: che un nuovo governo dimentichi le tristi vicende di un Ministero dei Beni culturali ormai morto, e sposi una concezione della cultura come ingrediente caratterizzante qualsiasi produzione legata al marchio Italia» (Corriere della sera, 26 gennaio 2013).

Il ‘marchio Italia’: ecco un’idea originale. Proprio quello che ci aspettiamo da un intellettuale: asservire la cultura all’onnipotenza del mercato.
Ma da tempo Carandini è un ardente sostenitore della privatizzazione del patrimonio storico e artistico della nazione: perfettamente in sintonia con il programma di Ilaria Borletti Buitoni, l’ex presidente del Fai che Mario Monti ha voluto capolista in Lombardia perché secondo lui rappresenterebbe «un’eccellenza nella conservazione dei Beni Culturali» (Corriere della sera, 1° febbraio 2013). Non uno storico dell’arte, un soprintendente, un archeologo: ma una gentile ed edificante dama della carità. Charity e Brand Italia: un binomio perfetto.

E infatti, notizia del 1° febbraio (sempre il «Corriere»), Andrea Carandini è in pole position per succedere alla signora Borletti Buitoni alla presidenza del Fai.

Un ammirevole caso di ripensamento, visto ciò che, nel 2000, Carandini scriveva della fondatrice del Fai, l’affascinante e carismatica Giulia Maria Crespi: «Giulia Maria Crespi, breve incontro. Ho incontrato a una cena Giulia Crespi. Walter Veltroni l’ha nominata nel Consiglio Nazionale dei Beni Culturali, immagino in quanto presidente del FAI. “Chi è lei? – mi ha chiesto – e io: Andrea Carandini, nipote di Luigi Albertini”. Ha capito subito, avendo contribuito i Crespi a far fuori Albertini da il ‘Corriere della Sera’, che era stato lui a creare come grande giornale nazionale. Ho pensato, quella sera, a quanto aveva sofferto mio nonno per quel nome, che ora davanti a me sentenziava nel suo esponente attuale. A un certo punto ho parlato della legge 1089 e del problema che manca ad esso un regolamento … A quel punto lei mi suggerisce: “Mi scriva, la prego, sull’argomento…” Ho cercato di spiegare alla signora che la cosa era semplice, e non abbisognava di petizione alcuna. Poi lei candidamente: “Mi dica Carandini, cosa è la 1089?”, che è una debolezza per un consigliere nazionale dei beni culturali. … Sì, una patina di borghesia la vedevo depositata sul suo volto stanco, ma continuavo a sentirmi in imbarazzo, per ragioni sociologiche ed emotive». (Giornale di scavo, Torino, Einaudi, 2000, pp. 79-80).

Ora Carandini deve aver superato l’imbarazzo, e Giulia Maria Crespi non deve sembrargli più sentenziante, o debole. Né il suo volto così stanco.
Certo, forse avrebbe preferito essere al posto di Ilaria Borletti Buitoni, candidata di Monti al Ministero dei Beni culturali. Ma anche prenderne il posto alla presidenza del Fai è meglio di nulla.

E il resto è noia. Patinata di borghesia.

La Repubblica Milano, 1 febbraio 2013, postilla (f.b.)

(foto Corriere della Sera)

È PROBABILE che di fronte a una presentazione “alla pari” delle varie ipotesi, quella di tenere viva una parte dell’oasi nella Darsena come isola avrebbe potuto anche prevalere nell’opinione pubblica. Ma non ce n’è stata l’occasione, e in ogni caso sarebbe stata contrastata. È comunque notevole che la controversia abbia appassionato non poche persone, tra gli architetti, gli ambientalisti, nel mondo politico comunale, sui giornali e soprattutto in rete. Anche chi accetta che “dal letame nascono i fiori” e ha continuato a parlare di “erbacce e rospi”, potrà convenire che se le ruspe portano via il verde spontaneo della Darsena, però l’idea della opportunità e possibilità di oasi urbane di biodiversità si è fatta strada a Milano attaverso questa discussione.
Anche perché — particolare da non trascurare — costano molto meno in termini di manutenzione rispetto al tradizionale verde artificiale urbano.

I rappresentanti dell’amministrazione hanno detto che intendono realizzare nella stessa Darsena, nel suo lembo più occidentale, un’analoga vegetazione per 2.500 metri quadrati capace di attirare l’avifauna. Non sarà visibile e centrale come quella che viene soppressa ora, ma a questo punto è importante che ci provino davvero a farla, e da subito: anche per una questione di coerenza. E poco più a Sud, a poche centinaia di metri, tra i due Navigli c’è una fantastica Cascina semidiroccata in mezzo ad aree verdi non curate da anni, con alberi e cespugli, i rovi dell’abbandono, e una roggia che ha sempre acqua. Si chiama Sieroterapico. Si rifugeranno lì anche le gallinelle e gli aironi? Dipende anche dagli umani, da chi vuole avere nella città spicchi di calma e di biodiversità.

Postilla
L'invito è anche a chi non è particolarmente interessato alle cose milanesi, a riflettere davvero su quanto intuito un po' confusamente dai cittadini a proposito di questo specifico progetto: la natura in città, stavolta davvero ragionando in termini “globali” (l'urbanizzazione del pianeta ecc.), deve essere oggetto di profonda riflessione e trasformazione di prospettive. Quindi anche di modus operandi delle pubbliche amministrazioni, magari sostenuto da apposite leggi, norme, politiche di informazione e animazione, sinergia fra i vari settori (f.b.)

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