loader
menu
© 2025 Eddyburg

Marino: «È il primo atto per realizzare il parco archeologico più grande del mondo». Un Parco che cambia la città e la rende migliore per tutti. Sulle periferie sta intanto già lavorando da un paio di decenni, l'assessore all'urbanistica: forse perciò Marino lo ha scelto, pensando alle periferie prima ancora che al centro. Il manifesto, 9 luglio 2013

Una giornata impegnativa quella di ieri per Ignazio Marino e la sua squadra, iniziata la mattina con la "maxi-giunta" di regione Lazio e Roma Capitale riunite, presieduta dal sindaco e dal governatore Nicola Zingaretti e terminata con una lunga conferenza stampa per illustrare il progetto di pedonalizzazione dei Fori Imperiali.La maxi-giunta ha inaugurato un modello di governo nuovo e integrato degli enti locali, favorito dalla grande sintonia tra la giunta Zingaretti e il nuovo governo di Roma.

Diversi i temi affrontati, in primo piano i debiti della Regione Lazio con Roma Capitale, su cui Zingaretti si è impegnato con cifre chiare, ma anche lo sviluppo economico, i servizi sociali, le discariche e lo sviluppo urbanistico e la casa, tema caldo a cui i movimenti per il diritto all'abitare, da mesi in agitazione con manifestazioni e occupazioni, chiedono agli enti locali di rispondere in maniera concreta coordinando sforzi e competenze. Alla fine dell'incontro la formalizzazione: gli incontri congiunti si ripeteranno e ogni assessore lavorerà con il suo omologo gomito a gomito.

Nel pomeriggio dopo una decisiva conferenza dei servizi, Marino con l'assessore alla Cultura Flavia Barca e l'assessore ai Trasporti Guido Improta, ha presentato il piano per la pedonalizzazione dei Fori Imperiali dopo gli annunci e le polemiche. Un atto fortemente voluto da Marino che assieme ai prevedibili "no", ha incassato appelli entusiasti di molti intellettuali e le reazioni favorevoli dei cittadini del centro storico, delle associazioni ambientaliste e di quelle dei ciclisti.

E' proprio il sindaco ad illustrare l'operazione che prenderà il via alla fine del mese con il divieto di traffico per i Fori ai mezzi privati, una nuova legislazione per i bus turistici e le conseguenti modifiche al trasporto pubblico e al traffico. La secondo fase prenderà il via a fine 2013 con il raddoppio del marciapiede, una pista ciclabile e l'allargamento della Ztl. Tra dieci giorni, poi, «partiranno i lavori per il restauro del Colosseo da parta della Tod's di Della Valle, con la cessione immediata delle aree adiacenti dal comune di Roma alla sovraintendenza», assieme a una «operazione di decoro antiabusivismo nel centro storico» che evidentemente non può mai mancare nell'agenda di ogni sindaco.

Annuncio spot? Operazione d'immagine? Le decisioni presentate potrebbero essere derubricate a semplici interventi sulla viabilità o alla necessità politica e simbolica del nuovo governo della città di lasciare subito il suo segno sul centro storico. Del rischio è consapevole anche Marino che spiega: «E' solo il primo atto per realizzare il vecchio progetto di Cederna: fare a Roma il più grande parco archeologico del mondo, dai Fori Imperiali all'Appia Antica». Una continuità ideale con le giunte rosse degli anni '80 di Argan e Petroselli, la volontà di dare forma a un progetto ambizioso di cui si parla da decenni ma sempre rimasto nel cassetto. Sui tempi di realizzazione il sindaco non si sbilancia: «Non crediamo nella politica degli annunci, procederemo passo passo informando e confrontandoci con la città».

Interpellato dal manifesto il nuovo assessore all'urbanistica Giovanni Caudo spiega la politica di due tempi: «C'è bisogno prima di tutto di dare un segnale di attenzione al centro storico dopo anni di abbandono da parte dell'amministrazione Alemanno. Questo non risolve i problemi di traffico né la debolezza cronica del trasporto pubblico, ma mostra in maniera concreta una volontà a tutti, ai cittadini e al mondo». La speranza di Caudo è che «si proceda realizzando il sogno di Cederna. Ma questo è molto più difficile, serviranno risorse e la collaborazione di competenze e istituzioni diverse».

All'obiezione che si poteva iniziare dalla periferie, queste sì davvero abbandonate dalla passata amministrazione di centrodestra, per dare un segnale alla città, l'urbanista risponde: «Una cosa non esclude l'altra. Ci stiamo impegnando a censire le proprietà comunali e a lanciare progetti di recupero e messa a valore del patrimonio urbanistico già costruito».

La scala sovracomunale è la dimensione adeguata per la soluzione sostenibile di tantissimi problemi di efficienza ed equità, come hanno ben capito i sindaci dell'est milanese nella loro lettera aperta sul rilancio delle iniziative per la Città Metropolitana

il naviglio Martesana a Vimodrone

Qualche volta per fortuna i temi dell’agenda politica intrecciano le istanze dei territori, e in questi casi sono formidabili occasioni per riforme che, partendo dalle reali esigenze degli attori locali, diventano esperienze per ridisegnare i tradizionali percorsi di governance. L'istituzione delle città metropolitane, di cui nei termini attuali si parla dagli anni Novanta, e che salvo colpi di mano dell’ultima ora vedrà finalmente la luce il prossimo gennaio, rappresenta un’importante occasione, per la regione urbana di Milano, di risolvere pluriennali (a dir poco) problemi di governance a scala vasta, soluzione sinora impedita dalla frammentazione del quadro istituzione e delle competenze fra i diversi livelli di governo. Nei territori dell’est Milanese, nella zona denominata e conosciuta come Adda-Martesana, il contesto politico/amministrativo, sommato ad alcune condizioni contingenti di carattere insediativo, rende strategico il tema del governo metropolitano se si vuole avviare una stagione di cooperazione intercomunale: indispensabile non solo per sopravvivere ai tempi della spendig review, ma anche per elaborare una visione efficacemente condivisa di sviluppo locale.

MM2 Villa Fiorita

Le pratiche di collaborazione tra le amministrazioni comunali di quest’area vantano in tempi recenti una storia quasi ventennale. La più significativa è certamente quella che ha portato all’elaborazione del Piano d’area, strumento di coordinamento urbanistico approvato nel 2006 da tutti i 27 consigli comunali della zona. Un'esperienza nata dall'iniziativa di amministrazioni lungimiranti che, di fronte ai nuovi processi di natura economica (la delocalizzazione a partire dagli anni '80, poi l'attuale crisi economica dal 2008), territoriale (progressiva disponibilità di aree dismesse), infrastrutturale (grandi opere in progetto) e sociale (mutamento delle dinamiche demografiche), hanno avviato un percorso volontario di pianificazione associata. Il Piano Adda-Martesana prevedeva di ricostruire un’identità territoriale chiara e riconoscibile, carattere venuto meno nel corso del tempo, attraverso strategie che sapessero coniugare in particolare il miglioramento dell’accessibilità e la valorizzazione del sistema ambientale.

Naviglio e MM2 a Cassina de' Pecchi

La cooperazione sovracomunale ha però scontato le debolezze dello strumento esclusivamente volontario: con l’avvicendarsi delle giunte il dialogo si è di fatto interrotto. Una stagione di localismi ha condotto all’elezione di diversi sindaci da liste civiche cittadine, con orientamenti politici vari ma tutte accomunate da un approccio tutto rivolto entro i propri confini amministrativi: una sorta di leghismo di fatto, miope, autoreferenziale e di corto respiro. Molte di queste esperienze amministrative hanno fortunatamente già evidenziato a tutti i propri limiti, identificabili anche negli effetti tangibili, in quanto la parzialità dei processi decisionali ha generato anche frammentazione di natura territoriale. Insediamenti residenziali, commerciali e terziari (soprattutto legati alle attività di logistica) previsti come urbanizzato in espansione, che rompono la continuità del sistema agricolo ed ambientale; o aree di trasformazione localizzate in modo indipendente dal sistema infrastrutturale pubblico esistente.

Sono i più ricorrenti esiti sul territorio locale di questa stagione, resi possibili dalle politiche urbanistiche lombarde, che fanno della deroga e della deregulation le proprie parole d’ordine. Analizzando le dotazioni territoriali di quest’area sono due gli elementi principali: un ambiente di qualità e un’offerta di infrastrutture che determina un’alta accessibilità. In particolare l'articolato sistema di mobilità fa di questo territorio un organico corridoio insediativo, la cui gestione, soprattutto in chiave di accessibilità derivata, non può che rappresentare una delle principali sfide a scala metropolitana.
In questo contesto si inserisce la lettera firmata pochi giorni fa da 23 primi cittadini dell’Adda-Martesana (Basiano e Masate, Bellinzago Lombardo, Bussero, Cambiago, Cassano d’Adda, Carugate, Cernusco sul Naviglio, Gorgonzola, Gessate, Grezzago, Inzago, Liscate, Melzo, Pessano con Bornago, Pioltello, Pozzo d’Adda, Pozzuolo Martesana, Rodano, Settala, Trezzano Rosa, Trezzo sull’Adda, Vignate e Vimodrone) che chiedono al Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, la convocazione, urgente e non più prorogabile, di una conferenza metropolitana dei Sindaci. Al fine di elaborare un processo condiviso di governance a partire dalle quattro materie fondamentali (pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali, coordinamento della gestione dei servizi pubblici locali, mobilità e viabilità, promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale) che, per legge, saranno di competenza della città metropolitana dal gennaio 2014.
La lettera rappresenta un’iniziativa politica importante, riassume i percorsi di cooperazione intercomunale di fatto già in corso come, ad esempio, alcune proposte legislative elaborate tramite il neo-gruppo interparlamentare “Amici dei Comuni, Città e Città metropolitane” a promuovere collaborazione fra Comuni compresi nei territori delle future città metropolitane. Senza un quadro normativo e istituzionale adeguato, i contenuti della nota sarebbero destinati a rimanere un (buon) elenco di intenzioni, difficilmente convertibili in programmi operativi o azioni di governo concrete. Ma la scadenza di gennaio rende questa un’occasione imperdibile per avviare una vera riforma dei processi di governance di scala vasta, che a partire dalle funzioni fondamentali sappia esplorare e governare i processi di trasformazione economici, sociali e territoriali ad una scala pertinente, e tutelare l’interesse della collettività, al riparo dai rischi di un inadeguato localismo.
Centro storico di Gorgonzola

Una buona metafora e sintesi dei problemi e potenzialità dell'intero spicchio orientale dell'area metropolitana, è quella costituita dall'asse insediativo a forte infrastrutturazione delle tre città lineari lungo il naviglio Martesana, la strada Padana Superiore, binari e stazioni della Linea Metropolitana 2. Per molti versi, basta un colpo d'occhio allenato a cogliere l'altissimo valore urbano e ambientale del sistema (sviluppato su una ventina di chilometri circa), le forti potenzialità di integrazione e sviluppo, e insieme le innumerevoli occasioni perse, di sicuro per colpa di prospettive di respiro insufficiente.

Piazzale della stazione a Bussero

Fra gli aspetti positivi di forte integrazione, sia interna che col nucleo metropolitano centrale di Milano città, è il sistema lineare del naviglio e relativo percorso ciclabile, e qui non a caso è evidente il ruolo dell'unico ente che sinora ha svolto pur in modo parecchio lacunoso un ruolo di governo sovracomunale, ovvero la Provincia. L'asse della mobilità dolce rappresenta forse il più importante interessante e continuo trait-d'union est-ovest fra i territori, e su di esso si attestano sino a costruire potenzialmente una entità continua sia i nuclei residenziali di parecchi quartieri urbani, sia i corridoi secondari locali di comunicazione con altre zone a nord e sud a varia destinazione, sia e soprattutto la struttura articolata del verde pubblico. Una rete a dimensione e qualità variabile, che comunque lega direttamente la città centrale, i comuni di prima cintura, la fascia suburbana-esurbana e sfocia nella valle dell'Adda.

Per contrasto, un elemento che potrebbe essere potenzialmente di unione ma che non si rivela affatto tale è l'asse della Padana Superiore, in questo spicchio della regione urbana evidentemente in bilico fra i due ruoli che la storica arteria via via svolge nel lungo percorso trasversale da Torino a Venezia: strumento di convergenza dei flussi di traffico e smistamento sia a scala locale che territoriale, asse di arroccamento comunale. In particolare, specie nei punti di strozzatura dove la strada è costretta ad attraversare direttamente gli abitati anche con traffico pesante, essa costituisce una linea di cesura, anche se fra funzioni segregate. In altri tratti recupera il proprio ruolo di scorrimento, ma su distanze talmente brevi da risultare del tutto superfluo. Inconsistente, e forse in modo desiderato e in parte pianificato, il rapporto con gli altri due assi della mobilità metropolitana nell'area.
La pista ciclabile verso Inzago

Terzo e ultimo elemento dell'insediamento lineare continuo, la linea della MM2 che collega nel tratto extra-milanese la fascia della tangenziale est a Gobba con l'inizio della fascia esurbana a Gessate. Oltre a svolgere col fascio dei binari un ruolo di margine a volte positivo, a volte meno auspicabile, la linea della metropolitana interagisce naturalmente con territorio negli ambiti delle stazioni e relativi quartieri. Qui appare più che mai evidente la frammentazione nel tempo e nello spazio di strategie locali a dir poco differenziate, e soprattutto prive di qualunque consequenzialità: si va dalla buona integrazione nel tessuto urbano, con però qualche difficoltà a servire le zone circostanti per problemi di accessibilità, al classico modello della stazione terminale suburbana, poco più di una piattaforma circondata da parcheggi. Con una unica, interessantissima quanto carente eccezione, manca del tutto un rapporto chiaro tra stazioni della metropolitana e attività economiche, sino al caso limite di un grosso office park che dista pochi metri da una delle stazioni, ma che per la collocazione in altro comune ne è totalmente tagliato fuori.

Questi brevi cenni alle forme insediative, ai loro problemi, alle loro potenzialità, solo per mettere in luce cosa possa significare qui il governo a scala metropolitana della pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali, il coordinamento della gestione dei servizi pubblici locali, della mobilità e viabilità, la promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale, così come previsti dalle leggi. Sapranno le istituzioni, nazionali e locali, rispondere davvero alla sfida? Sapranno coinvolgere davvero i cittadini, ormai ampiamente inseriti nel sistema della “patria metropolitana” che va oltre l'ambito localistico? Sembrano esattamente queste, le preoccupazioni e le urgenze espresse dai sindaci nella loro lettera aperta al collega della grande città centrale, su cui in particolare pesa la responsabilità di farsi carico di un ruolo guida e di stimolo verso il governo centrale. Per non trovarsi di nuovo nella situazione degli anni '70-'80 quando, varati i comprensori alla fine di un lunghissimo e contraddittorio processo di riforma istituzionale, la loro incerta situazione dal punto di vista delle competenze e della rappresentatività ne decretò il rapido accantonamento.

Si potrebbe intitolare questa intervista, pubblicata dal Messaggero l'8 luglio, "l'urbanistica di Luciano Canfora". E metterla poi nell'elenco di stravaganze e sciocchezze detto "stupidario". Noi invece la prendiamo sul serio, e nella postilla spieghiamo perchè.

«È molto più importante occuparsi delleperiferie romane che delle zone pedonali nel pieno centro». Non usa mezzitermini Luciano Canfora, illustre storico e saggista italiano, profondoconoscitore della cultura classica, ordinario di Filologia greca e latinapresso l'Università di Bari, che interviene a gamba tesa sul progetto dipedonalizzazione di via dei Fori Imperiali.

Professor Canfora, cosa pensa del piano lanciato dal sindaco Ignazio Marino?
«Il mio pensiero si articola per punti: sette, tanti quanti sono i colli diRoma. Punto primo, mi sembra più opportuno che ci si occupi delle periferie diRoma piuttosto che di pedonalizzazioni del centro. E soprattutto un sindaco,presumibilmente di sinistra, dovrebbe avere una tale sensibilità. Punto secondo,i problemi del traffico non si risolvono con iniziative estetizzanti, cioè cheinseguono la bellezza. Così come non si risolvono con iniziative estemporaneeche rischiano di fare impazzire la circolazione stradale con conseguenzeimprevedibili. Punto terzo».

Non ha fiducia nel piano traffico proposto dal Campidoglio?
«Infatti. Punto quarto, bisogna occuparsi forse dei tempi di percorrenza di chiva al lavoro usando un mezzo proprio, anziché creare difficoltà supplementaririspetto alle moltissime esistenti già, in una città come Roma».

In molti l’hanno definito un provvedimento demagogico o ideologico.
«Non mi piacciono questi termini. Direi più uno spot elettorale. Punto quinto,già ci bastano le bizze di Renzi col Ponte Vecchio a Firenze, non vorremmoquelle di Marino sui Fori Imperiali. Mi sembra tanto il desiderio di lasciareun segno nei secoli a venire».

Lei ama parlare con molta schiettezza, liquidando i giri di parole.
«Preferisco essere d’accordo con Lucrezio: usare poche parole per dire moltecose».

Il suo sesto punto?
«Se l’obiettivo esibito, o meglio ostentato, dal piano di Ignazio Marino èquello di salvaguardare il Colosseo dall’inquinamento da smog dovuto altraffico, il fatto stesso di far passare gli autobus nella corsia preferenzialedimostra che il problema non viene affatto risolto».

Molti studiosi, come Eugenio La Rocca, Cesare De Seta e Francesco Buranelli,hanno richiamato l’attenzione sui rischi per il Colle Oppio e il suo patrimonioarcheologico.
«Ecco il punto settimo, un sindaco dovrebbe conoscere profondamente la città dicui diventa sindaco».

Pensa che Marino non la conosca?
«Temo di no. Prima sembra sia stato tanto in America. D’altronde la suabiografia non è ancora compresa nella Treccani. Ma quando andava in televisionee pontificava tanto sulle università, faceva solo confronti con l’Americaraccontando delle sue esperienze. Il mio è un sommesso pensiero, ma un sindacodeve poter vantare una profonda conoscenza sociale della città. È una legittimaipotesi: gli amici di Marino possono dire che è una malignità, ma è unaconstatazione di fatto».

E se le chiedessimo una considerazione su via dei Fori Imperiali, lontano datermini ideologici (che non le piacciono), ma almeno storici? Andrea Giardinariconosce piena dignità di monumento a questa strada.
«Sono d’accordo con Andrea Giardina, persona seria. Via dei Fori Imperiali nondeve essere toccata. Analogamente dovremmo disfare i grandi boulevard di Parigiche furono fatti costruire da Napoleone III. L’intervento di Mussolini equivalealla stessa operazione urbanistica compiuta a Parigi, fa parte della storiaurbanistica di Roma. Dire che si debba sbancare la strada mi pare un segno diinfantilismo. La storia ha preso questa forma, non si può infierire sullastoria. Roma è una metropoli, non un giocattolo. Quando si fece lacommemorazione dei primi 50 anni dell’Unità d’Italia, nel 1911, fu costruito ilVittoriano, una mostruosità. È come dire, abbattiamo l’Altare della patria eportiamo il Campidoglio alla forma che aveva prima. Demenziale».

Postilla
Stupisce molto questa intervista. Perun urbanista che conosce Roma e il “progetto Fori”, così come è stato elaboratonel corso da qualche decennio, il giudizio sul contenuto dell' intervista èsintetizzabile nella parola che la conclude: “demenziale”. Per un polemista chevolesse contrapporre una sua frase a quelle di Canfora, all’affermazione che «unsindaco dovrebbe conoscere profondamente la città di cui diventa sindaco» lareplica sarebbe: un intellettuale, anche quando parla fuori dal suo campo,dovrebbe conoscere con una certa profondità ciò di cui parla. Per direttore diquesto sito la decisione sarebbe: ignoriamo quell’intervista oppure pubblichiamolanella cartella “stupidario”. Per un appassionato lettore di molti libri di Canfora, tra i quali Demagogia, verrebbe da chiedere se la politica culturale di Renato Nicolini avesse giovato al centro contro le periferie o alle periferie contro il centro, o se avesse per caso giovato ad entrambe (alla città, che è una).
Ma abbiamotroppa stima per Luciano Canfora per ridurre il commento a una di queste possibilirepliche. E allora ci domandiamo e domandiamo: ma che cosa è mai successo, eper colpa di chi o di che cosa, perché i saperi e i mestieri si siano cosìprofondamente separati che chi opera all’interno di un campo non comprende chelavora nel campo vicino? Ci torna in mente quella frase di Lemontey citata daMarx in Miseria della filosofia alla quale qui rinviamo. E ci domandiamo poi, inparticolare, che cosa mai dobbiamo e possiamo fare, noi urbanisti perché inostri progetti siano compresi da tutti, quale che sia il campo nel quale operanoe la profondità con la quale lo coltivano?

«Giù dalla torre: le luci di "Palais lumière" si spengono», è il titolo del più recente libretto della collana, Occhi aperti su Venezia, di Corte del fòntego editore. ne pubblichiamo gli ultimi due paragrafi. E' la storia puntuale di una minaccia sventata. Forse era solo un bluff nel quale troppi (da Napolitano a Orsoni, e tanti altri) sono caduti.


9. La fine di un bluff

28 giugno. Pierre Cardin recede dalle opzioni di acquisto delle aree. Basilicati annuncia «abbiamo dovuto recedere dalla Bozza d’accordo, una scelta inevitabile per i troppi ritardi e ostacoli».

Uno dei proprietari delle aree, Damaso Zanardo, dichiara: «Sono tutte assurdità ... ha opzionato le ultime aree il 17 giugno scorso. La commissione Via aspettava da tempo la presentazione del progetto per poterlo valutare. È più corretto ammettere che il progetto non ha una base economica per essere portato avanti» e il sindaco Orsoni: «Effettivamente sembrava ci fossero problemi di reperimento dei finanziamenti, come più volte sottolineato»56.

Sandro De Nardi, legale di Pierre Cardin, rivela: «Pesa molto il vincolo paesaggistico del ministero che avrebbe potuto bloccare la costruzione. L’opzione sulle aree scade oggi, a fronte di un altro esborso a fondo perduto di non poco conto abbiamo preferito desistere». In merito, il sindaco dichiara: «Il Ministero dei beni culturali dice che quella zona di Marghera è soggetta a vincolo e invece non lo è. Dobbiamo chiarire per il futuro cosa dovremo fare in quell’area e come farlo». Quando finalmente si sarà preso atto della tutela paesaggistica vigente ci si deciderà a lavorare seriamente per la «riqualificazione delle aree compromesse e degradate e l’individuazione delle linee di sviluppo compatibili», individuando nel piano paesaggistico «gli interventi di recupero, riqualificazione e valorizzazione compatibili con le esigenze della tutela» (art. 135 e 143 del Codice del paesaggio).

10. Pianificare e progettare con qualità e visione di lungo respiro

Forse in un sussulto di dignità questa città potrebbe riprendere la capacità di scegliere con cultura, di costruirsi una visione di lungo respiro e progettarsi una prospettiva.

Negli anni ’60, i fondatori dello IUAV e nostri maestri, da Egle Trincanato a Bruno Zevi, da Ignazio Gardella a Carlo Aymonino a Carlo Scarpa, da Giovanni Astengo a Giuseppe Samonà, insegnavano a progettare partendo dalla lettura storica delle città e del territorio, dalla rigorosa conoscenza e interpretazione del contesto, dalla valutazione delle criticità e dei fabbisogni sociali e culturali.

LLe proposte devono partire dallo stato di fatto esistente per riqualificare e innovare, inserendosi in modo corretto nella realtà esistente, rispettando le qualità del passato (tutela attiva, restauro e rivitalizzazione dei centri storici), rimuovendo o almeno mitigando i gravi errori soprattutto del ’900, proiettandosi verso nuovi valori edilizi, architettonici, urbanistici e del paesaggio, di qualità, vivibili e rispettosi dell’ambiente.

Negli anni più recenti si è cominciato a inserire ovunque qualunque intervento a prescindere dal contesto morfologico, ambientale e paesaggistico; si è proseguito legittimando qualsiasi nuovo ‘segno’ con la teorizzazione “de-costruttivista” che contesta la necessità millenaria di una coerenza tra gli aspetti funzionali, strutturali e formali nei piani e nei progetti, puntando gli interventi alla promozione di qualsivoglia investimento finanziario e operazione immobiliare validi di per sé a prescindere dall’uso e consumo del territorio, risorsa non riproducibile, dalla storia e dal contesto.

Ma siamo ancora capaci di pianificare e progettare in risposta alle criticità e ai bisogni di Marghera, Mestre e Venezia, con un corretto riuso degli edifici (con trasformazioni che non ne stravolgano le caratteristiche e re-insediandovi funzioni compatibili) e lasciando invece totale libertà di espressione nelle nuove opere (fissando solamente le massime dimensioni consentibili). Possiamo riprendere il filo, promuovere nuovi valori e disegni urbani realmente compatibili con il contesto e vivibili.

Man mano cresce anche nel nostro paese la consapevolezza e l'applicazione pratica del contenimento del consumo di suolo, spunta automaticamente un altro problema: la ri-colonizzazione degli spazi urbani da parte dei vari soggetti: chi prevale?

Alcuni anni fa, ero a Catania per un convegno, e alloggiavo in un albergo sulla centralissima via Etnea. Uscendo diretto all'università, avevo in mente tutt'altro che la contemplazione del panorama, visto che dovevo tenere una relazione da lì a una manciata di minuti, e me la stavo mentalmente ripassando già sull'ascensore. Beh, devo dire che quella volta il mio ritorno ad un rapporto fisico diretto e consapevole con la città, è avvenuto in modo assai più brusco del solito: sono andato a tutta velocità a sbattere la faccia contro un muro. Il perché è presto spiegato. Giusto dopo l'insegna del tale marchio di abbigliamento avevo imboccato la via trasversale … ma non c'era alcuna via trasversale da imboccare, solo una solida parete di muratura. Né ero stato vittima di improvvisi lavori pubblici o privati iniziati nella notte: subivo solo nel modo più patetico gli effetti della cosiddetta Città Clone.

Si tratta di un fenomeno piuttosto noto, e stigmatizzato da tempo dagli studiosi della britannica New Economics Foundation: soprattutto quando le politiche urbanistiche e commerciali provano a contenere la dispersione e i grandi contenitori extraurbani a forte orientamento automobilistico, le catene della distribuzione organizzata trasferiscono dentro il tessuto della città consolidata il proprio modus operandi classico, organizzandosi in una specie di shopping mall all'aperto, che ricalca pari pari sulle vie cittadine accostamenti e complementarità che di solito sperimentiamo dentro ambienti ad aria condizionata. Io in particolare avevo confuso addirittura una città con l'altra, scambiando via Etnea con una familiare via Manzoni un migliaio di chilometri più a nord. Da qui il brusco incontro con quell'intonaco che non stava dove doveva stare. Un incontro brusco che, in un modo o nell'altro, può però riguardare molte altre persone e interi sistemi socioeconomici locali: la grande superficie non necessariamente atterra in città nelle forme che diamo per scontate nei territori della dispersione.

Cosa che ha anche potenziali risvolti positivi, a ben vedere. Perché di sicuro se il panettiere dell'angolo non ce la fa più per motivi di età, e il figlio invece di imparare a stare dietro al banco ha preferito studiare violoncello, ben venga magari la catena in franchising La baguette d'aujourd'hui invece di lasciar vuoti i locali o riempirli con l'ennesima sede di finanziaria o agenzia immobiliare, che di solito durano poco e non danno alcuna vivacità al quartiere. Però esiste, come provavo a riassumere con la mia tragicomica esperienza di scontro frontale, anche il rischio di uno shopping mall virtuale, tale cioè da riprodurre sia il tipo di concorrenza che di solito fa uscire dal mercato gli esercizi non di catena, sia il rischio che a un solo abbandono seguano rapidissimamente come pedine del domino tutti gli altri, desertificando di colpo un'intera via o zona, e rendendo poi molto difficile una rigenerazione efficace.

Questa nota trae spunto dall'articolo firmato oggi su la Repubblica da Francesco Merlo e intitolato “Benvenuti a Souvenir City quella strada che unisce il nuovo mondo globale”, dove, come spesso succede alla nostra stampa nazionale, si scoprono certi fenomeni non solo in ritardo, ma da una prospettiva a dir poco folkloristica. Racconta Merlo, sostanzialmente, della sua delusione nello scoprire che la maglietta con la scritta curiosa, faticosamente recuperata scarpinando per una strada di Singapore, poi si trova in una via diventata del tutto identica e con la medesima offerta commerciale, a qualche centinaio di metri da casa propria. Il disappunto del borghese un po' fighetto è di aver perso un vantaggio di posizione e prestigio rispetto alla massa internazionalpopolare. Mentre passa del tutto in secondo piano come questo genere di colonizzazione non solo finisca per minare certe particolarità urbane locali che sono la base su cui si regge il turismo, ma metta a rischio la stessa risilienza minima delle aree interessate.

Ergo ci sono due problemi distinti, che spesso colpevolmente si confondono nella solita contrapposizione manichea fra esercenti locali (buoni per definizione) e grandi catene o marchi (cattivi perché invasori alieni): grande superficie, grande organizzazione. Il primo tema è quello classico, legato alla dispersione insediativa, al modello di trasporto e consumo a orientamento automobilistico che oggi si mette sempre più in discussione per motivi ambientali, energetici, sociali. Il secondo tema non salta così immediatamente all'occhio, come dimostra la prospettiva scelta dall'articolo de la Repubblica, ma può rappresentare uno sbocco automatico delle politiche tese ad arginare il consumo di suolo: possiamo intervenire anche su questi aspetti? E in che modi? Difficile dirlo senza sperimentare modelli di intervento, come quelli tentati proprio in Gran Bretagna da una agenzia pubblica (Commissione Portas) che non solo elargisce sostegni ai piccoli operatori, ma lavora soprattutto in termini di immagine per il consumatore e di integrazione col resto delle attività urbane. In pratica costruendo in forma di rete ciò che le grandi catene fanno agendo in proprio coi potenti mezzi a loro disposizione.

Prima, però, occorrerebbe separare i due aspetti, dell'occupazione di spazio urbano, e del tipo di organizzazione che si insedia. Solo così si inizia a valutare davvero chi induce vitalità o meno, chi accresce o diminuisce identità locale, chi può accompagnare virtuosamente processi di riqualificazione, o garantire in qualche modo che non ce ne sia affatto bisogno. Come dimostrano ad esempio le lotte infinite delle associazioni di esercenti contro pedonalizzazioni o limitazioni simili, non sempre essere piccoli e locali significa essere automaticamente virtuosi. Allo stesso tempo, senza una chiara politica pubblica ad esempio di coordinamento della partecipazione di piccoli e grandi soggetti a iniziative di gestione congiunta (sul modello modificato dei Business Improvement District internazionali) la trasformazione in shopping mall virtuale dominato da pochi grandi soggetti e poco resiliente, con parallela desertificazione delle zone adiacenti, pare un destino segnato. Il che è sicuramente più grave sia del mio scontro col muro, sia dello sconcerto del giornalista per aver perso l'esclusiva dei prodotti esotici.

QUI scaricabile il citato articolo di Francesco Merlo da la Repubblica 6 luglio 2013

Luigi Petroselli fu il grande sindaco, che ebbe il merito storico di avviare la trasformazione di Roma utilizzando il progetto fortemente voluto da Antonio Cederna. Il migliore augurio che possiamo fare al nuovo sindaco Ignazio Marino e ai suoi collaboratori è di portare a compimento quell'impresa. Articoli di Vittorio Emiliani e Jolanda Bufalini, l'Unità 6 luglio 2013


Roma rinasce dai Fori
di Vittorio Emiliani

L’invocazione, dell’allora sindaco di Roma, il grande storico dell’arte Giulio Carlo Argan, «o le automobili o i monumenti», risale al 1978. L’inquinamento aveva raggiunto livelli così alti da mettere in pericolo i marmi romani. Nasce allora l’idea dagli studi di Leonardo Benevolo, dalle denunce di Antonio Cederna di chiudere al traffico tutta l’area dei Fori. In seguito ci fu la proposta di un grande Parco urbano ed extra-urbano, dal Campidoglio all’Appia Antica, ai Castelli, su cui Cederna lavorerà alla Camera, in Campidoglio, al Parco dell’Appia, fino alla morte, nel 96.

Con felice e coraggiosa intuizione il neo-sindaco Ignazio Marino imprime alla politica capitolina, degradata e svilita nel quinquennio di Alemanno, una svolta netta, ripropone quell’idea antiveggente, assieme alla sua Giunta e al I° Municipio, per invertire la rotta, per rimediare ad uno dei peggiori disastri dell’urbanistica-spettacolo di Mussolini: Via dell’Impero. Che spacca in due l’area dei Fori diventando un autostrada urbana con vista sui monumenti (magari sul loro didietro) e riversa insensatamente una marea di veicoli su piazza Venezia, sul centro storico. Siamo tanto abituati a questo melodrammatico stradone che però consentiva al duce di vedere il Colosseo da Palazzo Venezia da averne dimenticato l’origine e la funzione. Magnificare la nuova romanità del fascismo picconando a tutta forza quanto si opponeva alla cavalcata inaugurale del Capo, con tanto di pennacchio, nel decennale della Marcia su Roma. Basti ricordare il prodigio che tale opera rappresentò, scrive all’epoca il pur colto Giuseppe Bottai, infatti, nel termine ristretto di soli sette mesi, si sono demoliti ben 5500 vani d’abitazione, si sono scavati e asportati 300.000 metri cubi di terreno, di cui la sesta parte, circa, costituita da roccia e da vecchi calcestruzzi romani.

In realtà ci ha spiegato uno storico e urbanista della statura di Italo Insolera in Roma moderna fu sbriciolata l’edilizia medioevale e completamente distrutto il quartiere costruito all’inizio della Controriforma, furono atterrate due chiese, cancellate almeno dodici vie e tranciata, abbassata la collina della Velia, fra Colle Oppio ed Esquilino, uno dei Sette Colli dell Urbs più antica. Tant’è: gli abitanti di quelle malfamate casupole erano come i loro simili della Spina di Borgo proletari e sovversivi da deportare nella nuova borgata di Primavalle. Un annientamento. Già sperimentato in periodo umbertino e replicato ossessivamente da Mussolini all’Augusteo e altrove. Facendo oltre tutto di una città policentrica (San Pietro, San Giovanni in Laterano, Quirinale, ecc.) come osserva uno degli studiosi più acuti, Mario Sanfilippo, nelle Tre città di Roma (Laterza) una metropoli nevroticamente monocentrica attorno alla ingestibile piazza Venezia.

Ma torniamo al grido di Argan, ripreso dal soprintendente Adriano La Regina. Luigi Petroselli, che nel 1979 subentra al dimissionario, stremato Argan, ha già un saldo rapporto con gli intellettuali più avanzati e pone mano alle prime misure concrete: lo smantellamento della via che separa Foro e Campidoglio e la creazione dell area pedonale fra Colosseo e Arco di Costantino. Così si ricostituisce la continuità Colosseo-Via Sacra-Clivo Capitolino, mentre Colosseo e Arco di Settimio Severo vengono salvati da veleni e scosse del traffico. Nell’81 un ministro dei Beni Culturali, spesso dimenticato, il repubblicano Oddo Biasini, vara la legge speciale n. 92 con cui si assegnano 168 miliardi in cinque anni alla Soprintendenza di Roma per lavori di restauro. Il Messaggero da me diretto (lasciatemelo ricordare) dove scrivono Vezio De Lucia e Italo Insolera sostiene senza riserve il progetto del grande Parco. Sul Corriere della Sera (14 marzo 81) 220 intellettuali e dirigenti del Ministero firmano un appello per il Parco stesso (a favore del quale si esprimerà nell 82 anche il ministro Enzo Scotti).

Purtroppo, prima che finisca l’81, muore all’improvviso Petroselli, sindaco coraggioso e deciso. Cambia l’assessore al Centro Storico, con Carlo Aymonino al posto di Vittoria Calzolari autrice del piano di assetto dell Appia. La spinta si affievolisce. Il cantiere aperto nel Foro di Nerva non procede.
Alcuni intellettuali di sinistra esprimono dubbi di sostanza sullo straordinario parco urbano-metropolitano da piazza Venezia ai piedi dei Castelli (per il quale Cederna presenterà poi un disegno di legge). Nell’83 il ministro Nicola Vernola ha rovesciato l assenso del predecessore Scotti. La leva fondamentale assieme allo SDO della riqualificazione ambientale e urbanistica di Roma, della sua stessa immagine finisce in archivio. Tanto più dopo l’avvento, nell’85, di amministrazioni a guida Dc, fragili e spente.

Ignazio Marino, il marziano, ne fa ora, dopo 35 anni, un autentico cavallo di battaglia per coniugare felicemente antico e moderno, per ridare dignità e decoro ad una capitale degradata e imbruttita, invasa ovunque da auto, furgoni, pullman. Ed è proprio sull intera città antica, sugli usi distorti ai quali è stata piegata una volta espulsi i residenti (ridotti ad appena 85.000) che si dovrà esercitare il nuovo fervore, la nuova attenzione culturale suscitata dalla proposta, chiara e netta, del nuovo sindaco della capitale. Con misure graduali e però risolute, fondate su studi e piani del più alto livello. Come Roma merita.

«Il parco dal Colosseo all’Appia Antica»
di Jolanda Bufalini

ROMA - Per ora è solo una limitazione, una rivoluzione del traffico intorno al Colosseo ma tanto basta a far riscoprire il sogno di una Roma restituita ai suoi abitanti, ai ciclisti, ai bambini e ai turisti, «ma loro dice una giovane mamma vengono comunque a vedere i Fori e il Colosseo, siamo noi romani ad avere diritto a una città più vivibile».
Sulla scena spettacolare dei Fori in un assolato e tardo pomeriggio romano, i residenti dell’area interessata allo sconvolgimento del traffico discutono con due assessori, Flavia Barca (cultura), Guido Improta (trasporti), la presidente del primo municipio Sabrina Alfonsi e con l’ingegnere Alessandro Fuschiotto di «Roma servizi per la mobilità» che, in equipe, ha studiato i cambiamenti che saranno sperimentati alla fine di luglio, per chiudere, ad agosto, l’ultimo tratto di via dei Fori Imperiali al traffico privato.
Gli interventi dei comitati, dal Celio a via Merulana a Monti, ai ciclisti, sono a favore, anche quando esprimono preoccupazione. Soprattutto piace, lo dice Roberto Crea di Cittadinanza attiva, che «siamo alla secondo incontro pubblico partecipato da parte di una giunta e di un municipio che si sono insediati da sette giorni». Apprezzato il metodo nuovo, si espongono i problemi e le speranze: «Tutto il centro storico deve essere pedonalizzato», «Il trasporto pubblico deve essere una priorità», «I pullman turistici affogano il traffico». Si chiede il prolungamento del tram 8 al Colosseo, l’ampliamento della Ztl. L’ingegnere Fuschiotto spiega che, per ora, la Ztl non verrà ampliata.

Lunedì si riunirà la conferenza dei servizi con le soprintendenze per studiare tutti i passi. Soprattutto per non creare una zona archeologica di serie A, e una di serie B. Spiega Daniel Modigliani ex direttore del Prg di Roma: «il centro archeologico monumentale non è solo l’area dei Fori, ma è individuato nel piano regolatore come area da tutelare e comprende anche Colle Oppio con le Terme di Traiano, le Terme di Tito e la Domus Aurea».

Lo studio della riduzione del traffico che entrerà in vigore a fine mese è iniziato su input delle soprintendenze archeologiche, quando è partito il cantiere della metro C e c’erano preoccupazioni per le vibrazioni intorno al Colosseo. Il sindaco Marino che, in campagna elettorale accusava Alemanno di lasciare nel cassetto gli stessi studi dei suoi tecnici, ha colto l’occasione al volo per rilanciare l’idea di Antonio Cederna: «Il progetto attuale vuole rendere orgoglioso il nostro Paese nei confronti del mondo. Stiamo parlando del più grande parco archeologico della terra. È solo l’inizio: il progetto si completerà quando avremo realizzato il parco archeologico dell’Appia antica». Il presidente della Regione, Nicola Zingaretti, apprezza il coraggio del sindaco: «È una grande occasione per dare all’Italia una spinta alla crescita ripartendo dalla cultura, un simbolo di una nuova fase che andrà vissuta come una sfida». Se si creeranno problemi nel traffico, aggiunge Zingaretti, «li affronteremo».

In piazza, ai cittadini, l’assessore Guido Improta spiega: «Ci sarà il coinvolgimento di più assessori, non è tanto un progetto trasportistico ma un progetto che mette al centro della scena mondiale la valorizzazione di un’area archeologica che tutto il mondo ci invidia». Le criticità nel traffico «si supereranno con un’analisi molto attenta dei flussi fatta dall’Agenzia per la mobilità, e anche grazie ad una responsabilità nuova e condivisa da parte dei cittadini».

A proposito del Parco dei Fori vedi su eddyburg la cartella Appia antica>Pagine di storia

Come porre tutte le precondizioni perché si riduca, drasticamente, la circolazione delle auto private in città e nell'area metropolitana? Tante soluzioni coordinate, ma resta un mistero ..

Il comune di Milano dopo una gestazione che si sarebbe forse voluta più breve, si dota finalmente di un nuovo Piano per la mobilità. Forse i lettori si ricordano di quando, proprio in assenza di tale piano a coordinare i singoli interventi, la cosiddetta Area C, ovvero l'accesso a pagamento alla zona centrale più interna, aveva rischiato di naufragare per il ricorso di un gestore di parcheggi, economicamente danneggiato (e per forza, che altro?) dai flussi di traffico ridotti. Con il Piano urbano integrato dei trasporti invece, si riconosce la natura complessiva di programma per migliorare salute, benessere, qualità abitativa dell'area metropolitana, dell'insieme così come delle singole parti componenti.

Se ne possono citare alcune, di queste componenti, ricordando che prese singolarmente in fondo significano poco più di esperimenti puntuali, nessuna esclusa. Ci sono le cosiddette Zone 30 dove anche grazie alla conformazione stradale i veicoli possono entrare ma non scorazzare. Oppure i mezzi pubblici non solo rafforzati e coordinati in rete, ma anche gestiti con un occhio di riguardo a una utenza post-industriale, ovvero su tempi diversi da quelli classici, e con sistemi tariffari coerenti. Naturalmente nel piano si dà massima attenzione alla mobilità non motorizzata, fornendole aree di condivisione, percorsi dedicati per pedoni e ciclisti, spazi e attrezzature per intermodalità. E sostegno e innovazione nei servizi di bike sharing e car-sharing, oggi alle fasi sperimentali iniziali.

Poi c'è il rapporto fra le scelte sui trasporti e l'urbanistica vera e propria, quella che regola le trasformazioni edilizie e le localizzazioni. Qui non è chiarissimo quanto si vogliano davvero legare due aspetti di solito e perniciosamente slegati. Ad esempio l'ultimo numero del Journal of the American Planning Association - monografico sulla mobilità - propone un interessante articolo che esamina sistematicamente il rapporto non sufficientemente studiato fra spazio e flussi, ovvero sino a che punto le amministrazioni cittadine hanno saputo tradurre le potenzialità di questa nuova forma organizzativa in norme e standard urbanistici, a partire dai parcheggi. Più in generale, è il coordinamento fra la relativa rigidità della conformazione fisica, e l'estrema variabilità dei flussi che la attraversano, la sfida del futuro: che ne sarà dei contesti ancora sostanzialmente auto-oriented? Faranno fallire anche le migliori intenzioni, con la loro rigidità? Per Milano di questo non si parla molto, o forse non si parla affatto.

E ecco invece un esempio di contraddizione, forse piccola ma sintomatica. Quasi contemporaneamente agli annunci sull'approvazione del PUMS, i giornali pubblicavano un'altra piccola notizia: nel plinto urbano dei giganti terziari del quartiere di Porta Nuova si farà un Superstore Esselunga. Chiunque conosce quel formato commerciale, sa benissimo quanto faccia a cazzotti con mobilità dolce e mezzi pubblici. Un solo esempio delle tante cose da cambiare, prima o poi. Qui non abbiamo riportato gli articoli dei giornali, che tendevano a soffermarsi appunto e soprattutto su aspetti parziali, fornendo una immagine poco realistica-. Abbiamo per una volta scelto di far riferimento alla documentazione ufficiale: il Piano del traffico lo si può leggere tutto nei particolari a questo LINK (f.b.)

Tenace nei vizi Venezia, che poteva insegnare al mondo di domani come si governa consapevolmente il rapporto tra società e ambiente, ma si riduce a maestra del degrado di sé stessa, mercificando la propria immagine. La Nuova Venezia, 3 luglio 2013, con postilla dedicata a Lewis Carrol

VENEZIA Sublagunare da Tessera alle Fondamente Nuove fino al Lido. Il progetto sembrava archiviato, visti i numerosi pareri tecnici contrari, la carenza di soldi e le tante perplessità emerse. Invece rispunta in due righe seminascoste nel «Documento previsionale programmatico 2013-2015», approvato dalla giunta e adesso all’esame delle Municipalità e del Consiglio comunale. Curioso che le modalità siano le stesse di dieci anni fa. Quando nel bel mezzo del dibattito sulla sublagunare l’allora sindaco - oggi presidente dell’Autorità portuale - Paolo Costa e il suo assessore Avvocato dello Stato Marco Corsini avevano inserito il progetto di sublagunare Tessera-Fondamente Nuove tra le priorità del Piano triennale. Adesso lo scenario è cambiato. Il progetto di sublagunare - che nel frattempo ha quadruplicato i costi - è stato più volte bocciato dagli organismi tecnici. Nel Pat (Piano di assetto del territorio) la sublagunare non c’è. Nel Pum (Piano urbano della mobilità) si parla genericamente di “linea di forza”, con un tratto di penna sulla laguna nord. Adesso nel Piano triennale si riparla del progetto, per giunta allungandolo fino al Lido. A pagina 281 del Piano, punto 8.2.7 la dizione non lascia spazio a dubbi: tra le opere di trasformazione urbana si parla di «attuare il sistema metropolitano sublagunare (Tessera-Murano-Fondamente Nuove-Lido) pur «subordinandolo alla verifica della sostenibilità economica, ambientale e sociale». Dunque, si ricomincia.

Il sindaco Giorgio Orsoni, anche in campagna elettorale, non ha mai nascosto le sue opinioni favorevoli alla sublagunare. Ma negli ultimi tre anni lo scenario sembrava cambiato. Costi esagerati e soprattutto la possibilità che dal lato nord possano arrivare ancora turisti, aggiungendosi a una cifra già insostenibile della Venezia d’oggi. Contro la sublagunare si era espresso anche l’assessore all’Urbanistica Ezio Micelli, prudente il nuovo assessore Andrea Ferrazzi. Le associazioni per la tutela del territorio sono pronte a ricominciare la battaglia, già vinta vent’anni fa quando - sindaco era l’attuale assessore alla Mobilità Ugo Bergamo - si voleva portare il treno sotto la laguna da Tessera a San Marco e Lido. «Sarebbe l’ultimo colpo a Venezia, definitivamente omologata alle città di terraferma», dice Italia Nostra. La sublagunare, cavallo di battaglia del sindaco Costa e del governo Berlusconi era stata inserita anche tra le opere del Cipe. Il suo costo iniziale previsto era di circa 200 milioni di euro, diventati 800 nell’ultimo progetto di massima. Per realizzarla occorrerebbe cementificare la laguna nord, con stazioni e uscite di sicurezza sull’acqua ogni 500 metri.

Postilla

Il gatto del Ceshire, figura d'una leggenda popolare che l’autore di Alice nel paese delle meraviglie rielabora, ha la proprietà di apparire e sparire all’improvviso. Rispetto alle altre analoge figure fiabesche ha la particolarità di sparire a cominciare dalla coda , cui segue via via lo svanire delle altre parti del corpo, finché non rimane che il suo sorriso (in alcune versioni, il suo ghigno).

L’invasione del turismo mordi e fuggi, alimentato oggi dalle Grandi navi e dai pullman transeuropei, domani dalla metropolitana sublagunare, riesumata oggi dopo essere stata stralciata dal Piano di assetto del territorio, farà scomparire la stessa immagine della bellezza della città che degli smisurati flussi turistici è la calamita. Di quell’immagine conserveremo il ricordo, come il sorriso del gatto del Ceshire, mentre speriamo di dimenticare il ghigno dei suoi distruttori.

Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2013

Con l'eliminazione del vincolo di rispettare la sagoma negli interventi di demolizione e ricostruzione del patrimonio edilizio esistente per effetto del Dl 69/2013 (decreto "del fare") si potrà rimodellare profondamente la conformazione delle città, superando gli indici di edificabilità assegnati dai piani regolatori alla sola condizione di non aumentare la volumetria preesistente.
Secondo il Testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001) gli interventi di ristrutturazione edilizia consistono nelle opere rivolte a trasformare gli organismi edilizi «mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un edificio in tutto o in parte diverso dal precedente». Questi interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nella ristrutturazione edilizia è compresa anche la demolizione e ricostruzione. Mentre la possibilità di modificare la sagoma era già riconosciuta dal Testo unico per le opere che non comportano la demolizione integrale, il decreto "del fare" consentirà di modificare la sagoma anche nelle operazioni di demolizione e ricostruzione.

Le possibilità di intervento
La norma entra in vigore con la legge di conversione del decreto, quindi al più tardi il 21 agosto. A breve sarà possibile, ad esempio, trasformare un'autorimessa composta da più piani interrati (a cui il titolo edilizio originario riconosceva la permanenza di persone per lo svolgimento di attività lavorative), in una palazzina che trasferisce la volumetria nel soprassuolo (aumentando l'altezza dell'edificio preesistente o erigendo ex novo sull'area sovrastante), collocando nel sottosuolo i parcheggi senza permanenza di persone.
Il caso può apparire irragionevole, ma corrisponde alla realtà di diversi interventi realizzati in Lombardia durante la vigenza dell'articolo 27, comma 1, lettera d), della legge regionale 12/2005, che per primo aveva eliminato l'obbligo del rispetto della sagoma negli interventi di demolizione e ricostruzione. La norma era stata annullata dalla sentenza della Corte Costituzionale 309/2011 per il contrasto con il principio fondamentale contenuto nella definizione di ristrutturazione del Testo unico sull'edilizia. Ma la definizione ora è stata riscritta nei termini citati eliminando così il vizio di incostituzionalità.

Senza giungere al caso limite appena illustrato, si deve rimarcare che il solo vincolo del rispetto della volumetria consentirà agli interventi di demolizione e ricostruzione infedele di superare l'indice edilizio (generalmente espresso dal rapporto tra la volumetria o superficie edificabile e la superficie dell'area di intervento) assegnato dallo strumento urbanistico comunale, tutte le volte in cui esso sia inferiore alla volumetria esistente. Questo è un caso molto frequente nei tessuti consolidati delle nostre città, dove gli edifici sono stati costruiti ben prima dell'approvazione del primo piano regolatore (che ha poi imposto indici inferiori all'esistente), se non prima della stessa legge urbanistica nazionale del 1942.

Con le grandi trasformazioni urbane del tutto proiettate sullo scenario globale e sganciate dagli interessi locali, diventa sempre più essenziale passare dalla contrattazione all'applicazione intelligente e trasparente di regole condivise. Corriere della Sera Milano, 2 luglio 2013 (f.b.)

Una volta c'erano i Ligresti e i Cabassi. L'Ingegnere, il Sabiunàt, soprannomi che già da soli raccontavano un mondo del mattone nelle mani di proprietari-costruttori. Oggi ci sono i fondi americani come Hines, sovrani come quello del Qatar, italiani come Idea-Fimit, le assicurazioni Generali e Allianz azioniste di Citylife, Risanamento in mano alle banche e così via. La metropoli immobiliare che riscrive la geografia e lo skyline, che attende l'Expo e moltiplica i cantieri oggi è finanza, industria che ha separato la filiera fra chi possiede, vende e costruisce, istituti di credito che finanziano progetti e talvolta ne diventano anche i "padroni".

A Milano, ancor più che altrove, il mondo dei vecchi Re del mattone è tramontato. Con qualche passaggio «storico». Come è avvenuto per la Torre Velasca, un simbolo della città: Ligresti ha cercato di venderla prima del crollo del suo impero. L'impresa non è riuscita e ora il grattacielo «con le bretelle» è passato alla compagnia della lega delle coop, l'Unipol. Un corollario del salvataggio che ha visto il gruppo bolognese di via Stalingrado comprare dai Ligresti una Fonsai "spolpata" per benino. Solo un dettaglio, che certo non rientrava negli obiettivi dell'acquisizione: anch'esso descrive però un mondo in rapido cambiamento. L'area ex Fiera, Porta Nuova-Varesine-Garibaldi, Sesto San Giovanni con l'ex Falck, Santa Giulia Nord e Sud, Porta Vittoria, Via Ripamonti: palazzi e grattacieli, uffici e appartamenti, sono i grandi cantieri che stanno ridisegnando Milano. Con investimenti stimati complessivi intorno ai 9-10 miliardi, per circa due terzi finanziati dalle banche. Prospettive che si orientano intorno all'Expo fra auspici e timori, e che guardano a una metropoli che sta dimostrando vitalità europea nonostante l'11% degli uffici in città sia sfitto, quota che sale al 30% nell'hinterland e al 40% in periferia, e un terzo degli spazi vuoti non risulti più idoneo alla funzione "direzionale".

Fra i cantieri centrali destinati al maggior impatto sulla città c'è Citylife. Anche in questo caso si è consumato un passaggio storico nel luglio di due anni fa quando Salvatore Ligresti, che molto aveva puntato su quell'impresa, getta la spugna, vende a Generali ed esce appunto da Citylife, la società titolare del progetto di riqualificazione dell'area dove sorgeva il polo fieristico milanese. Il Leone di Trieste sale dunque quasi al 67% del capitale e la parte restante è detenuta da Allianz. A Milano è il cantiere delle tre supertorri progettate dagli archistar Arata Isozaki, Daniel Libeskind e Zaha Hadid, confermate nei giorni scorsi. Generali con ogni probabilità trasferirà il quartier generale milanese e gli uffici nel grattacielo «Storto» di Hadid, Allianz farà lo stesso nella torre Isozaki, la più alta di Milano. Gli investimenti previsti sono pari a oltre 2 miliardi, finanziati per due terzi dalle banche: Intesa Sanpaolo, Unicredit, Bpm, Crédit Agricole, Mediobanca e Hypotekenbank. È previsto che l'area, destinata nei piani ad abitazioni per 164 mila metri quadri, uffici per oltre 100 mila, shopping e servizi per 20 mila e il terzo parco pubblico della città (168 mila metri quadri), ospiti 10 mila residenti e 4.500 persone che (soprattutto attraverso la linea che avrà fermata al centro dell'area) affluiscano ogni giorno per lavoro. Le prime 400 abitazioni, secondo l'operatore, saranno consegnate a settembre. È stata poi accordata una variante con maggiore flessibilità nelle tempistiche con la possibilità di costruire la parte residenziale nei pressi del Vigorelli entro il 2023. Il costo medio delle abitazioni, sempre secondo l'operatore, è compreso fra 6 mila e 8.500 euro al metro quadro con punte fino a 12 mila.

Altro progetto destinato a cambiare lo skyline cittadino è quello Porta Nuova-Garibaldi-Isola, gestito da Hines Italia, controllata dal colosso americano Hines con una partecipazione dell'imprenditore Manfredi Catella, amministratore delegato della società. Il progetto, dal quale sempre Ligresti è uscito a fine 2011 vendendo a Hines, è stato sotto i riflettori delle cronache anche finanziarie per due ragioni: l'ingresso del fondo sovrano del Qatar e la destinazione a Unicredit del grattacielo. Il 18 giugno è stato firmato il closing e Qatar holding è diventato investitore diretto al 40% nei tre fondi di investimento immobiliare di Porta Nuova, sottoscrivendo quote di nuova emissione, mentre il restante 60% resta agli attuali sponsor. Unicredit ha trasferito lì il quartier generale in febbraio e oggi oltre la metà della parte destinata a uffici dell'area è locata. Il calendario dei lavori prevede diverse fasi: la prima di Porta Nuova Garibaldi è quasi completata, la seconda sarà ultimata per l'Expo mentre la parte Porta Nuova Varesine e Isola sarà realizzata nel 2014. Anche qui è previsto un parco di 90 mila metri quadri e anche qui l'investimento stimato è di circa 2 miliardi, per l'80% finanziato da banche (quota destinata a scendere al 60% con l'ingresso del fondo sovrano). Il prezzo al metro quadro medio del venduto della parte residenziale (400 abitazioni in tutto) secondo l'operatore, si colloca in una media di 9 mila euro al metro quadro.

E poi c'è Santa Giulia di proprietà di Risanamento. Altra storia travagliata, altro capitolo di un tramonto. Luigi Zunino l'ha coperto di 3 miliardi di debiti, la Procura di Milano ha chiesto il fallimento ma alla fine il Tribunale ha detto sì all'accordo con le banche creditrici (Intesa, Unicredit, Montepaschi, Banco Popolare e Bpm) che sono diventate le azioniste principali della società, mentre una minoranza del 25% è rimasto alle holding in liquidazione dello stesso Zunino. Che ora ambirebbe a un'Opa, finanziata a debito. Nelle scorse settimane dopo i lavori di bonifica è stata dissequestrata l'area di Santa Giulia Sud. In questa parte è stata realizzata l'edilizia convenzionata, mentre vanno completati i palazzi Sky. Per la terza torre Sky i lavori dovrebbero partire entro l'estate e l'investimento si aggira sui 50 milioni. Per l'Nh hotel ci vorranno circa 24 mesi e risorse per altri 50 milioni. Per l'area Nord ex Montedison deve essere presentato un progetto definitivo, in base al quale verrà messo a punto la bonifica. Poi potranno essere avviati gare d'appalto e lavori. Per questa parte Risanamento sta trattando in esclusiva con Idea Fimit ma per il momento un accordo ancora non c'è. Il progetto originale dell'archistar Norman Foster è stato ampiamente rivisitato.

Si può andare avanti con Beni Stabili. Società che in passato è stata di Bankitalia, Bastogi, Romagnoli, istituti di credito e oggi fa capo a Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica. I principali cantieri sono le tre torri Garibaldi (investimento: 270 milioni) e Via Ripamonti (lavori da settembre 2013 a dicembre 2019), con un impegno di 490 milioni, il cantiere comprende il perimetro Via Ripamonti, Università Bocconi e Stazione di Porta Romana, con riqualificazione di un'area industriale attraverso uffici e «light industry» per circa 100 mila metri quadri. Beni Stabili ha emesso un bond convertibile da 225 milioni e la componente di debito bancario è scesa al 51%. Quasi la totalità dell'offerta è business.

Infine c'è Porta Vittoria (Danilo Coppola): nell'area della ex stazione si lavora a residenze, un centro commerciale, un albergo, uffici per una superficie complessiva di 142 mila metri quadri. Parte commerciale esclusa, è stata decisa la vendita in blocco. L'iniziativa, (che l'operatore valuta in 600 milioni), è finanziata per oltre 200 dalle banche, principalmente Banco Popolare, e i lavori dovrebbero essere conclusi nel giugno 2014.

Fra investimenti, progetti, archistar, skyline c'è la città che cambia. Fra prospettive e spazi vuoti. Fondamentale, in tutto questo, è la condivisione fra le parti privata e pubblica. Che si traduce spesso in un negoziato fra i «padroni» del mattone e l'amministrazione che deve salvaguardare le esigenze dei vari «stakeholder», a cominciare dai cittadini. Secondo il vicesindaco con delega all'Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris, «in questo periodo la regia pubblica acquista maggiore importanza. Negli interventi le opere di urbanizzazione e quelle pubbliche devono avere la precedenza nella realizzazione. Solo così ci può essere la garanzia della conclusione con l'idoneità rispetto al contesto e l'appetibilità del mercato». Un modo forse un po' tecnico per dire che nella metropoli che riscrive se stessa, anche il mercato dipende dalla vivibilità che può essere assicurata dall'esistenza di spazi pubblici adeguati. E poi c'è un appello: «Gli operatori si dedichino anche al recupero e alla riqualificazione del patrimonio esistente. Solo in questo modo è possibile rimettere in moto il mercato, curando la bolla esplosa qualche anno fa». Una bolla che anche osservatori specializzati come Nomisma o Scenari immobiliari ritengono al momento superata da cenni di ripresa. Ma che tuttavia può ripresentarsi. L'asimmetria fra domanda e offerta è un fatto che, soprattutto se si esagerano aspettative e si mitizzano traguardi, può diventare un grande problema in poco tempo.

Il portavoce del comitato "no grandi navi" va alla radice di problema, non giocherella ai suoi margini. Prima delle tattiche individuare la strategia. Dal sito No grandi navi, giugno 2013. con postilla

Il necessario divieto al transito delle grandi navi davanti a Piazza San Marco non può essere pagato al prezzo della definitiva devastazione della laguna, e dunque le cose vanno valutate anche da un altro punto di vista. Nelle righe che seguono, cerchiamo di mettere in luce tutti i termini del problema, così come noi li vediamo.

Negli ultimi 15 anni il traffico croceristico è cresciuto a Venezia in maniera esponenziale: i passeggeri sono aumentati del 439 per cento e il numero delle toccate (gli attracchi delle navi) è passato da 206 nel 1997 a 655 nel 2011 (1418 toccate complessive calcolando anche traghetti e navi veloci). Con un milione e 795 mila passeggeri imbarcati o sbarcati nel 2011, Venezia è diventata il primo “home port” croceristico del Mediterraneo e il trend si è confermato anche nel 2012 con un milione e 775.944 passeggeri per 661 toccate.

Le navi da crociera attraccano in Marittima, cioè in città, entrando e uscendo dalla bocca di porto di Lido: ciò significa che a ogni toccata esse passano per due volte in Bacino di San Marco e nel Canale della Giudecca, nel cuore storico di Venezia, a 150 metri dal Palazzo Ducale. Il confronto è istruttivo: non si può dire che le navi siano grandi come palazzi, perché lo sono molto di più: 300 metri di lunghezza, 50 di larghezza, 60 d'altezza; stazzano migliaia di tonnellate. E aumenteranno ancora, di numero e di dimensioni. Il 2 giugno 2012 è arrivata in Marittima la Msc Divina, la nave più grande mai entrata in laguna: 333 metri di lunghezza per 139 mila tonnellate di stazza lorda.

L'impatto visivo delle navi in Bacino è impressionante: sono evidentemente fuori scala con la città. Ma a chi ha cominciato a temere per il numero e la mole crescenti delle navi è apparso chiaro che ci sono ben altri problemi di cui preoccuparsi: gli effetti idrodinamici provocati dal passaggio delle navi su un tessuto urbano antico, fragile e delicato o sull'ambiente lagunare (dislocano migliaia di tonnellate, quando passano l'acqua nei rii cala d'un colpo di 20 e più centimetri per il risucchio); i rischi per la salute, dato che l'Arpav ha dimostrato che il traffico croceristico è a Venezia il maggior produttore di inquinamento atmosferico: la produzione di polveri sottili è praticamente pari a quella prodotta dal traffico automobilistico di Mestre (Apice, Common Mediterranean strategy and local practical Actions for the mitigation of Port, Industries and Cities Emissions, Modelli e Metodi per l'indagine, tab. 19 pag. 30), ogni nave inquina come 14 mila automobili, soprattutto quando è all'ormeggio.

Ricordiamo che il tenore di zolfo nel carburante di queste navi è del 3,5% in navigazione e solo dal 20 maggio 2012 è stato ridotto allo 0,1% in laguna com'era da qualche tempo all'ormeggio. Tanto per capire, il tenore di zolfo nel diesel delle automobili è dello 0,001%, cioè 3500 volte inferiore al limite in navigazione e 100 volte inferiore al limite lagunare. L'anidride solforosa trasforma in gesso i marmi dei monumenti veneziani e danneggia malte e intonaci.

Il parlamento europeo, dopo aver valutato che almeno 50 mila persone muoiono ogni anno in Europa a causa dell'inquinamento delle navi, ha votato a fine maggio una direttiva che imporrà per tutte le navi il limite dello 0,5%, ma solo dal 2020, ed è probabilmente in questa prospettiva che le compagnie da crociera hanno graziosamente accondisceso con un accordo volontario (Venice Blue Flag) al limite dello 0,1% dall'entrata alle bocche di porto, ma un paese civile avrebbe definito un provvedimento che le obblighi a ciò in tutti i porti, e non solo a Venezia, mentre resta insoluto il problema dei controlli, rarissimi e per campione.

Il Porto garantisce che l'inquinamento verrà reso nullo all'ormeggio con l'alimentazione elettrica da terra (cold ironing). Al riguardo, sia chiaro, esiste solo uno studio di fattibilità dell'Enel, non finanziato, per alimentare solo 4 navi delle 9 che a breve la Marittima potrà ospitare, contro le 7 di oggi, mentre la produzione di energia elettrica viene spostata dalle navi alla centrale di Fusina: ovvero, ammesso che il progetto sia realizzato, l'inquinamento prodotto domani sarà identico a quello prodotto oggi. “Come si può vedere – riporta sempre Apice (pag. 51) – il decremento medio delle concentrazioni di PM2.5 risulta attorno all’1% ed interessa in particolare il centro storico. Si osserva che complessivamente nessuno degli interventi di mitigazione ipotizzato consente di contenere l’effetto dovuto all’incremento dello sviluppo portuale previsto al 2020”.

Ci sono poi l'inquinamento elettromagnetico per i radar sempre accesi (e ci si preoccupa per i telefonini) e quello marino per le pitture antivegetative delle carene; i rumori assordanti, giorno e notte, delle navi all'ormeggio praticamente a ridosso delle case; le vibrazioni che liquefano i leganti delle malte di case e monumenti; il rischio di incidenti (perdita di rotta, incendi, spandimento di carburante) o – perchè no? - di attentati in Bacino San Marco.

I cittadini hanno cominciato a mobilitarsi, e negli anni l'Autorità portuale ha cercato di rassicurare la gente con una serie di studi autoassolutori che hanno tutti il difetto di essere di parte. Ad analizzarli con attenzione, gli studi sono parziali, carenti, superficiali. Ad esempio, per quanto riguarda gli effetti idrodinamici, l'Autorità Portuale ha strumentalmente continuato ad affrontare solo il tema del moto ondoso di superficie, spacciandolo in tutti i suoi comunicati come l'unico problema, ma su quanto avviene su rive e fondali per il dislocamento non esiste nulla, probabilmente non per caso, anche se si sa che l'Ismar Cnr ha analizzato alcuni aspetti del problema senza rendere mai noti i risultati. Gli studi pagati coi fondi pubblici devono essere resi pubblici!

C'è poi l'impatto turistico: nel luglio 2011 da sei navi ormeggiate contemporaneamente in Marittima sono sbarcati in città in un solo giorno 35 mila croceristi, che si sono aggiunti ai 60 - 70 mila ospiti presenti quotidianamente in una città il cui numero di abitanti è già sceso sotto la soglia dei 59 mila. Venezia si sta trasformando (se non lo è già) in un parco tematico, ma se il turismo è ricchezza, come dicono gli operatori, le compagnie di navigazione, l'Autorità portuale, non si capisce come mai la città in quanto tale si stia spegnendo e il Comune debba vendere i suoi più bei palazzi per garantire i servizi.

Lo stesso presidente dell'Autorità Portuale, Paolo Costa, in più occasioni (l'ultima sul Corriere della Sera del 4 giugno 2012) riconosce che il contributo economico dei croceristi alla città è modesto, mentre la vera ricchezza portata dal crocerismo sarebbe l'indotto. Ma quali sono le cifre? Chi ne guadagna? Quali sono le società? Dove sono localizzate? Quali ne sono i capitali? Che contratti hanno i lavoratori? E dove vivono? Perché se le risposte a queste domande facessero capire che una parte o molto dell'indotto va altrove, Venezia farebbe (come al solito) solo la parte della mucca da mungere.

Nel tempo Autorità Portuale e Venezia Terminal Passeggeri hanno dato al riguardo cifre diverse senza mai rendere pubblici gli studi che le avrebbero determinate. Ad esempio gli occupati sarebbero 5785 (maggio 2013); 5470 (giugno 2013); 7600 (febbraio 2013); 4255 (giugno 2013); 5470 (agosto 2012, “A Venezia dal Mare”); 6000 (Cruise Venice 13 giugno 2013); 6800 (Cruise Venice 28 giugno 2013). L'indotto sarebbe 500 milioni di euro (settembre 2010); 405 milioni di euro (febbraio 2013); 435 milioni di euro (febbraio 2013); 221 milioni di euro (giugno 2013); 1 miliardo di euro (Cruise Venice 13 giugno 2013). L'indotto avrebbe pesato per il 5,4 per cento sul Pil del Comune a febbraio 2013 mentre ora, dopo lo studio del prof. Giuseppe Tattara (vedi oltre), è dichiarato al 3,96 per cento. L'Autorità Portuale è un ente pubblico, gli studi che sostanzierebbero questi dati contraddittori vanno resi pubblici.

In ogni caso, coloro che prendono per oro colato le valutazioni sui vantaggi economici che il crocerismo porterebbe alla città dovrebbero porsi anche il problema dei suoi costi ambientali, fisici, sociali, ma su questo tema l'unico studio non di parte che noi si conosca è stato prodotto non da un'Autorità italiana, come sarebbe doveroso, ma dall'Ente croato per il Turismo, dato che le navi da crociera che partono da Venezia costeggiano la Dalmazia e fanno tappa anche a Ragusa (Dubrovnik) dove la popolazione è scesa sul piede di guerra. Ebbene, lo studio ha concluso che il beneficio economico annuale del crocerismo per la Croazia può essere stimato in una cifra tra i 33,7 e i 37,2 milioni di euro, mentre il danno ambientale va calcolato in almeno 273 milioni di euro, con un saldo negativo di ben 238 milioni di euro!

Uno studio del prof. Giuseppe Tattara, docente di Economia politica al Dipartimento di Economia dell'Università di Ca' Foscari, ha valutato che l'indotto complessivo prodotto dal crocerismo sia pari a 280 milioni di euro all'anno e che i costi ambientali connessi ammontino a 270 milioni di euro all'anno. Costi e benefici, dunque, praticamente si equivalgono, ma per calcolare i costi il prof. Tattara ha considerato solo quei parametri sui quali la comunità scientifica internazionale ha definito un valore monetario, e dunque non sono stati valutati i costi derivanti dall'inquinamento da polveri sottili, i danni ai monumenti, la devastazione morfologica della laguna. Lo studio del prof. Tattara è consultabile da chiunque, nessuno di quelli di Autorià Portuale e Vtp è leggibile.

Il sindaco, Giorgio Orsoni, aveva dapprima proposto assieme al presidente dell'Autorità portuale, Paolo Costa, una sorta di “senso unico”: le navi, cioé, entrerebbero dalla bocca di porto di Malamocco passando dal Canale dei Petroli e uscirebbero da quella di Lido, dimezzando il numero dei transiti in Bacino San Marco. Poi il “senso unico” è stato negato dall'Autorità Portuale, che ha sostenuto che le navi dovrebbero anche uscire dalla bocca di Malamocco, ma mai dalla Venezia Terminal Passeggeri che lo ha sempre sostenuto.

E' la proposta che i ministri Clini (Ambiente) e Passera (Infrastrutture) hanno tradotto nel decreto 2 marzo 2012 sulla protezione dei siti marini sensibili, all'interno dei quali è vietata la navigazione alle navi che superino le 500 tonnellate di stazza lorda: per Venezia, però, si prevede il divieto del passaggio in Bacino San Marco solo delle navi oltre le 40.000 tonnellate di stazza lorda.Per capire, il Titanic ne stazzava 46.000, e nessuno sa come sia stato determinato questo limite di “sicurezza”. Perchè, in ogni caso e invece, non si fa mai riferimento al dislocamento?

Questa alternativa, però, prevede lo scavo del piccolo canale Contorta Sant'Angelo che dalla profondità di 1,80 m. verrebbe portato a 10 m. e dalla larghezza di 6 m. verrebbe portato a 190. A 250 tenendo conto degli argini che nel progetto si vogliono far passare per barene destinate al “miglioramento” ambientale della laguna! La cartografia storica mostra che lì non sono mai esistite “barene”; le “barene” non sono reti riempite di sassi a contenere fanghi e sabbia come prevede il progetto: quelle sono isole artificiali destinate a confinare all'interno del canale i devastanti treni d'onda prodotti dal passaggio delle grandi navi. Noi giudichiamo la proposta peggiore del male, dato che portare le navi in Marittima dalla porta di servizio manterrebbe tutte le criticità e in primis l'inquinamento devastando definitivamente la laguna.

Diamo lo stesso giudizio anche sull'ultima proposta del sindaco, Giorgio Orsoni, che ora ha rinnegato il progetto Contorta e ha invece ipotizzato la realizzazione di un nuovo terminal croceristico a Porto Marghera, anche se non ha mai spiegato dove, per quali navi, se provvisoriamente in vista di una soluzione fuori dalla laguna o a tempo indeterminato. Entrambe le proposte prevedono lungo tutto il già intasatissimo Canale dei Petroli una pericolosissima commistione di navi da crociera in mezzo a petroliere, chimichiere, gasiere, portacarbone, portacontainer. Se accadesse un incidente come quello della Zenith del 25 giugno 2013?

Per il Comitato, insomma, le grandi navi, quelle incompatibili con la città e con la laguna, vanno estromesse immediatamente, come chiesto con una petizione firmata da 12.600 cittadini. L'Autorità portuale, ad esempio, ha avviato la realizzazione 8 miglia al largo di Malamocco di due terminali in mare aperto per petroli, container, rinfuse, dunque se si vuole si può.

Al riguardo, una spiegazione. La laguna di Venezia è un ambiente artificiale nel quale, per un millennio, gli interventi del governo della Serenissima hanno sfruttato i fenomeni naturali per mantenerne l'equilibrio, garanzia di sopravvivenza della città. Il destino di ogni laguna, infatti, è interrarsi o divenire un braccio di mare, ma se oggi Venezia è ancora in parte protetta dalla sua laguna lo si deve appunto alle sagge politiche di conservazione attuate nei secoli passati dai suoi reggitori.

Caduta nel 1797 la Repubblica, saperi e attenzione ambientale si sono persi e si è iniziato un lungo percorso di adattamento della laguna alle esigenze di una moderna portualità che ha finito per rompere un delicato equilibrio e per devastarla. Le bocche di porto sono state allargate e approfondite, sono stati scavati canali artificiali profondi e rettilinei, sono stati interrati migliaia di ettari di “barena” col risultato che oggi, se non fosse per la sopravvivenza del catino fisico e dei cordoni dei lidi che la separano dal mare, non si potrebbe più parlare veramente di laguna dal punto di vista morfologico, biologico, idrodinamico. Il Canale dei Petroli è un cancro che ogni giorno divora la laguna (e con le loro proposte Orsoni e Costa lo vogliono utilizzare ancor più massicciamente finendo per portarlo in Piazza San Marco). Al riguardo segnaliamo “Fatti e misfatti di idraulica lagunare”, del prof. Luigi D'Alpaos, docente di idraulica all'Università di Padova (Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, Memorie, Venezia 2010). Cent'anni fa in laguna vi erano 150 km quadrati di “barene”, oggi ridotte a 47 km quadrati. Cent'anni fa la profondità media della laguna era di 40 cm., ora per la perdita di circa 750 mila – 1.000.000 di tonnellate di sedimenti all'anno è di 1,50 m. e tra cinquant'anni, se non si porrà mano per davvero al suo recupero morfologico, sarà di 2,50 m. Cioè non ci sarà più una laguna.

Le leggi speciali per Venezia prescrivono da quasi quarant'anni (legge n. 171 del 1973) l'estromissione almeno del traffico petrolifero dalla laguna, ma finora non vi si è ottemperato e solo oggi, non per ragioni ambientali ma per adeguare la portualità a nuovi traffici e per temperare gli intralci e i ritardi all'entrata delle navi in laguna che il “Mose” comporterà, l'Autorità portuale ha lanciato il progetto dell'avamporto in mare aperto per i petroli e per i container. Se si estromettessero anche le navi da crociera, per la prima volta da duecento anni a questa parte si potrebbe cominciare a pensare di invertire davvero il degrado della laguna, arrivando forse in futuro alla chiusura del Canale dei Petroli, rimuovendo cioè le cause del dissesto morfologico così come prescritto dalle leggi speciali (legge n. 798 del 1984).

Noi oggi suggeriamo un percorso che ha per obiettivo l'estromissione dalla laguna delle navi incompatibili col complessivo benessere della città e col recupero morfologico della laguna. La vera alternativa è cambiare modello, rifiutare la corsa al gigantismo che fa gli interessi solo delle compagnie da crociera ma non della città. Sul piano istituzionale è inaccettabile che per il Governo le uniche alternative per dare corpo al decreto Clini – Passera siano quelle oggi incidentalmente sul tavolo, al di fuori di un percorso che tenga in considerazione tutti gli aspetti del problema, e non solo il passaggio delle navi davanti a San Marco, e senza valutare tutte le opzioni possibili.

Si facciano studi seri, autorevoli, non di parte per definire questa soglia di compatibilità, fondata su stazze, dislocamento, pescaggio, carburanti puliti, e poi si fissi un limite di sostenibilità turistica complessiva assegnandone una quota invalicabile al crocerismo: indicate queste due precondizioni – compatibilità fisica e sostenibilità turistica – si potrà decidere quali e quante navi potranno continuare a entrare in laguna e venire ad attraccare in Marittima e quali e quante saranno destinate all'estromissione, e solo allora sarà possibile, anche col sostegno di un attento studio costi – benefici, riempire di contenuto quel “fuori le navi dalla laguna”. Il range va dall'opzione zero (nessuna altra nave oltre a quelle che possono entrare), all'attracco in altri porti e il trasferimento con altri mezzi dei croceristi a Venezia, al terminale in mare aperto come per petroli, container e rinfuse, al terminale incardinato su uno dei lidi veneziani.

Questo, secondo noi, deve fare il sindaco, promuovendo un percorso partecipato che ponga un argine ai disegni autoreferenziali dell'Autorità Portuale e della Venezia Terminal Passeggeri, che stanno immaginando una laguna trasformata in Rotterdam. Serve, insomma, un nuovo Piano Regolatore Portuale (l'attuale è del 1908!) costruito d'intesa con la città e non contro la città, come vuole la legge. Il Porto è di Venezia non è Venezia del Porto.

A parte i problemi ambientali, il nuovo Prg dovrebbe partire dal riconoscimento di tre vincoli strutturali che nel giro di pochi anni metteranno fuori gioco il porto lagunare: il crescente gigantismo navale, già oggi incompatibile coi fondali della laguna; il Mose coi suoi intralci alla navigazione; l'aumento del livello del mare che l'Ipcc (Intergovernmental Panel for Climate Change) stima prudenzialmente in 30 – 35 cm al 2050, limite che il Centro Previsioni e Segnalazioni maree del Comune rileva già in via di superamento, con la necessità di chiudere le paratoie alle bocche di porto centinaia di volte all'anno. Se davvero si vogliono salvare Porto, indotto, lavoro, fin dal prossimo 25 luglio bisogna pensare a soluzioni che prevedano le grandi navi fuori dalla laguna.

Postilla

Finalmente una proposta che, a partire dalla follia visibile delle grandi navi, vede la radice nascosta del problema e accenna alla strada della sua soluzione . Dice il portavoce di No grandi navi – Laguna bene comune”: «Si fissi un limite di sostenibilità turistica complessiva assegnandone una quota invalicabile al crocerismo: indicate queste due precondizioni – compatibilità fisica e sostenibilità turistica – si potrà decidere quali e quante navi potranno continuare a entrare in laguna e venire ad attraccare in Marittima e quali e quante saranno destinate all'estromissione, e solo allora sarà possibile, anche col sostegno di un attento studio costi – benefici, riempire di contenuto quel “fuori le navi dalla laguna”. Il range va dall'opzione zero (nessuna altra nave oltre a quelle che possono entrare), all'attracco in altri porti e il trasferimento con altri mezzi dei croceristi a Venezia, al terminale in mare aperto come per petroli, container e rinfuse, al terminale incardinato su uno dei lidi veneziani». Il ragionamento non dovrebbe riguardare solo le grandi navi, ma l’insieme della massa turistica che la città può ospitare senza degradarsi. Il tema è: quale turismo vogliamo per una città che è un gioiello , se vogliamo che rimanga tale tale e non svanisca in un ricordo? E se, al tempo stesso, vogliamo che l’insegnamento e la gioia che una simile città può ancora procurare non sia riservata solo ai ricchi? Problema non semplice da risolvere, ma impossibile da rimuovere se si vuole essere radicali, andare cioè alla radice del problema: per Venezia e la sua Laguna come per qualunque altro luogo particolarmente ricco di qualità e fragile in un sistema nel quale la qualità dei patrimoni naturali e storici viene utilizzata come merce da dissipare.
Silvio Testa è portavoce del Comitato “No Grandi Navi – Laguna Bene Comune”, ed autore del piccolo saggio sull’argomento, E e chiamano navi, scritto per la collana “Occhi aperti su Venezia” dell’ Editore Corte del Fòntego

La Nuova Venezia, 30 giugno 2013

Il progetto di Veneto City nella sua nuova versione, definita “green”, è utile per riflettere e per decidere alcune questioni importanti e decisive per il prossimo futuro del nostro territorio. Lo sforzo dei progettisti e della committenza a far apparire “green” la costruzione di 718 mila metri quadrati di nuova edificazione nei campi è evidente e apprezzabile sia nei disegni che nelle parole utilizzate per illustrare il progetto. Il problema però è un altro: per quanto sia ammirevole che una nuova committenza si renda consapevole e ingaggi validissimi progettisti e per quanto il progetto si proponga ambiziosi standard e certificazioni energetiche, resta il fatto che la costruzione di un “polo terziario” in mezzo alla campagna, comunque si faccia, è obsoleto nella sua concezione e sbagliato perché estremamente dannoso da molti punti di vista: contraddice la politica del consumo di suolo zero ormai sostenuta da tutti a livello disciplinare e, finalmente e ultimamente anche dalle istituzioni e dalla politica; ignora l’esistenza di eccedenza di costruito riutilizzabile provocandone l’ulteriore fatiscenza; conferma antistoricamente una mono-funzionalità degli insediamenti che ha dimostrato tutta la sua inefficienza e nocività ambientale e sociale; conferma con i suoi orgogliosi 280 mila metri quadrati di parcheggio (e a dispetto della fermata della Sfmr) ancora una volta il modello disviluppo del territorio basato prevalentemente sull’ automobile.

Riguardo a tali questioni, purtroppo, il bel disegno paesaggistico e le sofisticate strutture lignee delle nuove architetture, sono assolutamente insignificanti se non addirittura fuorvianti, in quanto operazione sofisticata di marketing. Sono e rimangono 718 mila metri quadrati costruiti nella campagna circondati da 280 mila metri di parcheggi e avviluppati da migliaia di metri lineari di strade e svincoli. Se si vuole veramente, come recentemente si sente finalmente dire da più parti e da molti rappresentanti delle istituzioni locali e regionali, affrontare seriamente l’opera di manutenzione e di ricostruzione del nostro territorio non è più possibile nascondersi dietro ambiguità e raffinate confusioni: suolo zero vuol dire suolo zero, riciclo dell’esistente vuol dire riciclo dell’esistente, abbandono della monofunzionalità e ripristino della complessità - sociale e funzionale - vuol dire non costruire più centri commerciali e poli terziari separati dal tessuto urbano abitato, promozione del trasporto pubblico su ferro vuol dire attivare la creazione di reti di relazioni e di sistemi morfologici, stili e abitudini di vita che rendano meno necessario l’uso dell’auto. Su questi temi si sta lavorando in tutta Europa, con protocolli condivisi a livello comunitario, con visioni di lungo periodo, con programmazioni decennali, con progetti coerenti a quegli obiettivi e a quei quadri e i risultati sono già visibili e misurabili in molte regioni metropolitane; gli studi esistono anche qui ma sembra che ancora vengano ignorati e scavalcati.

Le strade da percorrere sono alternative; bisogna scegliere e cittadini e rappresentanti dei cittadini devono saper chiedere agli operatori quale sia la qualità richiesta dalla comunità prima che quale sia la qualità richiesta dal mercato; il progetto di Veneto City può essere utile a far chiarezza: proseguire ciecamente nella devastazione del territorio facendosi inebriare dalla “rifinitura” green, oppure finalmente ricercare quella visibilità mondiale non costruendo nella campagna un “landmark da archistar” ma facendo scelte nuove, di reti avanzate, coerenti, veramente green, evitando di costruire a discapito della natura. Continuare a ripetere gli errori degli ultimi decenni appare anacronistico e sciaguratamente improvvido.


Postilla

Nell’icona un’immagine delle “colline” articiali di calcestruzzo abitato, che l’architetto pennacchione adopera per verniciare di “green” e di “sostenibilità il suo devastante progetto.

Le trasformazioni urbanistiche della città, va da sé, dovrebbero anche nei casi più perversi essere determinate dall'evoluzione economica e sociale, ma la cosa ahimè non dipende per nulla da variabili che la città è in grado di gestire da sola. Corriere della Sera Milano, 1 luglio 2013 (f.b.)

Dal dopoguerra a oggi il dibattito accademico (e poi mediatico) sull'urbanistica e, in generale, sulla forma della città ha occupato prima gli addetti ai lavori, quindi l'economia, la finanza e i grandi eventi, fino a esaurirsi in una serie di auspici che, in qualche maniera e con non tanta chiarezza, si collegano oggi a Expo. La verità è che, nel frattempo, Milano ha cambiato pelle tante volte, perdendo la sua vocazione industriale e sostituendola con i servizi fino alla finanza, che ha continuato a sostenere l'edilizia finché ci è riuscita. E mentre Milano cambiava pelle, cambiava anche il suo paesaggio: capannoni abbandonati o spesso lasciati a metà, depositi vuoti, centinaia di fabbriche chiuse.

Il paradosso è che nei decenni si sono accumulate generazioni e generazioni di manufatti e di capannoni, con una logica «consumistica», da mass market; quasi un «usa e getta permanente» che ha occupato una buona parte del territorio, con effetti paesaggistici devastanti e un'ininterrotta filiera che accompagna le nostre periferie, seguendo le direttrici e le autostrade che portano fuori dalla città.

Ora, la vera domanda che si pone è collegata al problema reale del Millennio: il lavoro. O meglio la sua mancanza. Che fare quindi di questi manufatti? La verità è che tutto questo sistema è stato in piedi fino a che il lavoro è stato il collante fra compratori e acquirenti, fra produttori e consumatori. Nel momento in cui decresce la popolazione attiva (e diminuiscono anche le sue garanzie) e quella non attiva vive molto più a lungo (mentre la città implode) la vera domanda viene ancora una volta elusa. Quali lavori serviranno ancora, che tipo di economia si potrà immaginare? Si continuerà a usare crisi e crescita come sinonimi di tempo brutto e tempo bello. Il premier inglese Cameron ha fatto fare un'indagine su quali potrebbero essere i lavori del 2030 (praticamente dopodomani).

Vengono fuori lo smaltitore (non l'analista) di dati, lo specialista di contenuti verticali, figure senza tempo come gli insegnanti associati a figure virtuali come gli avatar e tanti altri profili e scenari che andranno comunque verificati. Se esisterà energia, nel senso più ampio del termine, sarà data dalla conoscenza, dalla capacità di metabolizzare la qualità e la quantità dei saperi, per applicarne poi i risultati. Potrebbe anche accadere che i paradigmi vengano rovesciati, per cui si studierà sempre e si lavorerà solo part time. Pasolini, già 40 anni fa, parlava di liberazione dal lavoro grazie alla tecnologia, intuendo che l'industrializzazione italiana sarebbe passata attraverso l'incremento dei beni privati e non delle infrastrutture pubbliche (scuole, ospedali, ferrovie) e che questo non avrebbe portato un vero benessere.

Il traguardo del lavoro si preannuncia difficile, alla fine di un percorso che prevede formazione, mediazione, prevenzione e informazione a ciclo continuo. E dei nostri capannoni, che occupano città e territori limitrofi senza soluzione di continuità, che ne faremo, in uno scenario siffatto? Li raderemo al suolo, intitolando a Pier Paolo Pasolini i parchi che sorgeranno dalle loro ceneri? O continueremo a parlare di crisi e di crescita, a fasi alterne?

Un bel caso esemplare di recupero di tecnica tradizionale di gestione del territorio per scopi modernissimi di recupero ambientale e valorizzazione del paesaggio. Il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2013 (f.b.)

Una delle emergenze ambientali della penisola è il processo di desertificazione e salinizzazione dei suoli che, secondo gli studi più avanzati, vede nel Salento il primo avamposto. Per contrastare tale emergenza sette anni fa, in provincia di Lecce è nato un progetto pilota, che tenta di contrastare il deserto catturando l’acqua dal vento e consentendo così di irrigare un orto botanico senza apporto meccanico di acqua.

Si chiama Orto dei Tu’rat , esperienza sorta su un terreno di macchia arida situato nel comune di Ugento, dove sono state realizzate 12 mezze lune di pietra a secco, i Tu’rat, che consentono di catturare come in un retino il vento più umido prevalente, che in quella zona è il libeccio. L’obiettivo è che questo, insinuandosi tra i pertugi delle pietre, rilasci all’interno delle strutture acqua sotto forma di rugiada e che poi, per percolamento, scende al suolo consentendo di irrigare un orto botanico impiantato secondo i principi del massimo rispetto per il territorio.

Racconta Cosimo Specolizzi, fondatore del progetto: “La possibilità di irrigare a goccia in zone aride fu studiata per la prima volta nel 1959 da Simcha Blass e da suo figlio Yeshayahu che introdussero in Israele il primo metodo che all’epoca suscitò l’entusiasmo di un miracolo. Decine e decine di ettari desertificati ritornarono ad essere coltivati, a produrre frutta e verdura, a nutrire popolazioni che sopravvivevano a stento. La bellezza delle strutture, così come le abbiamo costruite ci è quasi sfuggita di mano tanto che le persone che vengono nell’Orto rimangono prima incantate dal fascino paesaggistico del posto, dall’effetto di straniamento che suscitano i tu’rat, per il loro essere disposti in modo tale da farli sembrare dune del deserto e al tempo stesso paesaggio lunare, fascinazione che poi, solo in seconda battuta, rivela la ricaduta ambientale di tale bellezza”.

Specolizzi, laureato Dams e artigiano a Bologna, ha deciso di avventurarsi in questa iniziativa, creando così la scenografia di un orto votato alla risoluzione delle emergenze ambientali. Intorno al suo sforzo iniziale, è poi nata l’associazione culturale omonima, che oltre a curare la messa a dimora e lo stato di salute delle piante, si occupa di organizzare eventi culturali.

Premio Legambiente nel 2012 come innovazione intelligente, L’orto, pur essendo riconosciuto come un progetto di valore dagli assessorati della Regione Puglia e dal Comune di Ugento, per ora non ha ancora ottenuto alcun contributo pubblico che gli consenta di essere portato a termine, tanto che gli associati stanno tentando attraverso piattaforme di crowd funding di attivare micro finanziamenti dal basso. Certo, i propositi della Regione sembrano buoni e l’associazione sta aspettando la firma di un protocollo di intesa con il comune di Ugento, che pare imminente.

Le speranze, però, sono passate in secondo piano quando il 15 giugno l’Orto dei Tu’Rat ha subito il terzo attacco incendiario, segno evidente della volontà di boicottarne l’esistenza.

Il rogo ha reso cenere le più importanti strutture in legno, un gazebo, un palcoscenico e undici ulivi pluricentenari. Un colpo durissimo a tutto ciò che l’associazione aveva fin qui realizzato.

Sulla piaga degli incendi che ogni anno danneggiano centinaia di ettari di macchia mediterranea, in quella zona del Salento, circolano tante voci. Ciascuno ha una ipotesi su chi abbia la consuetudine di dare fuoco agli uliveti e alle campagne. Ma in questo caso, dopo il terzo incendio subito, l’Associazione comincia a sospettare che l’evento non sia del tutto casuale e soprattutto comincia a temere che ci sia qualche volontà ostile al loro modello di dialogo con il territorio. “Insieme alle piante e alle strutture si è affumicata anche la nostra determinazione e l’illusione di essere accettati nel territorio” spiega Gianna Milo. Al momento del rogo l’associazione aveva appena messo a punto la stagione estiva, con il patrocinio della Regione e del Comune, con eventi di teatro, concerti, serate di poesia ed action painting dal 29 luglio al 7 agosto. Il rogo ha trasformato tutto in cenere. Le piante dell’orto botanico hanno sofferto molto, e la maggior parte sono seccate.

Così un progetto pilota, premiato e apprezzato a livello europeo, dovrà ripartire da capo, e potrà farlo solo con l’aiuto di tutti. “Non intendiamo arrenderci - assicura Laura Abatelillo - di fronte a questi gesti di spregio, reimpianteremo l’orto, pianta per pianta, il giuggiolo, il pero spinoso, il corbezzolo, e chiederemo alla Guardia Forestale di avere dei giovani ulivi da reimpiantare per dare una risposta di vita alla scempio che abbiamo subito”. Come scrive il poeta salentino Antonio Verri: “... quello che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi”.

In una intervista a Cino Zucchi, emerge la grande capacità comunicativa dei progettisti, rispetto allo schematismo burocratico degli urbanisti, che invece sarebbero per natura portatori privilegiati di una visione organica di città migliore. La Repubblica, 30 giugno 2013, postilla (f.b.)

Qual è il modello di sviluppo della città del futuro? In che modo sarà possibile costruire una viabilità sostenibile? E quale sarà il ruolo delle automobili nella nuova città? Ne abbiamo parlato con Cino Zucchi, architetto e urbanista, professore di Composizione architettonica e urbana al Politecnico di Milano, John T. Dunlop Visiting Professor in Housing and Urbanization alla Graduate School of Design di Harvard: «In fondo il modello della città antica, “a misura d’uomo” e con la compresenza di diverse attività negli stessi luoghi resta ancora, se aggiornato al contemporaneo, quello più valido», spiega Zucchi, fra i relatori del recente seminario “Infrastructural Monumental Center for Advanced Urbanism” del Mit.
«Con la rivoluzione industriale la città si è trasformata in metropoli attraverso la creazione di infrastrutture legate al movimento che hanno lacerato la continuità del tessuto urbano, dividendo tra loro le funzioni e creando grandi periferie collegate al centro da arterie “a misura d’auto”», continua l’architetto, in perfetta sintonia con gli ultimi studi internazionali sullo sviluppo urbano. Le ricerche più all’avanguardia in questo senso condotte dal prestigioso Massachusetts Institute of Technology, che con il suo progetto City Science, distribuito in ben ventisette laboratori di ricerca sparsi per il mondo, studia il futuro della città, sono arrivate alle stesse conclusioni: la ridensificazione del tessuto urbano, accompagnata da una razionalizzazione dei sistemi di trasporto, è la chiave di volta per mettere in armonia individuo e città. È l’obiettivo del masterplan per l’area di Keski Pasila a Helsinki dello studio Cza, Cino Zucchi Architetti, che negli anni ha elaborato proposte urbane per Monaco, Groningen, Deventer, San Pietroburgo, Herten, Lugano, dove ha appena terminato il nuovo ingresso della galleria Vedeggio-Cassarate.
A Helsinki il concetto è creare un luogo urbano denso e funzionalmente vario in modo da ridurre quasi del tutto la mobilità privata. «Nel progetto di Helsinki», racconta Zucchi nel suo studio di Milano affacciato sui binari della stazione Cadorna, «abbiamo pensato edifici alti con funzioni pubbliche alla base, uffici nella porzione inferiore, residenze ai piani superiori inframmezzate da serre collettive di incontro e gioco, ristoranti e palestre in cima. L’obiettivo era quello di miscelare tra loro le funzioni intorno a una sequenza di spazi comuni modo da ridurre al minimo l’uso dell’auto in un’area servita dal trasporto pubblico, treni regionali, tram e metropolitana». Ci saranno ancora automobili nella città futura? «Resteranno in circolazione, certo, ma avranno una funzione diversa.
A iniziare dalla Robo-Car, un’auto pieghevole per quattro persone, ideata al Mit e dal prossimo anno in produzione in Spagna», continua l’architetto. «Si stanno oggi studiando motori a energia alternativa e forme sempre più sofisticate di pilota automatico, in modo da integrare mobilità pubblica e privata secondo nuove modalità», riflette Cino Zucchi, che lavora da anni sul rapporto tra le nuove forme urbane e il paesaggio esistente alla ricerca di nuovi ambienti urbani sostenibili. «Studi recenti dimostrano quanto il modello suburbano, ovvero quello della città diffusa basata su strade a cul-de-sac e case unifamiliari, ancorché piacevole dal punto di vista individuale, rappresenti dal punto di vista energetico uno spreco inaccettabile: senza contare il consumo di territorio, un abitante dei sobborghi consuma circa due volte l’energia elettrica e tre volte l’energia combustibile di uno della città.
Un giornalista del New York Times, David Owen, racconta nel suo libro Green Metropolis come un abitante di Manhattan necessiti di molta meno energia di uno del bucolico Vermont». E se fra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso si è affermato il modello dello sprawl suburbano basato sul mezzo di trasporto privato, oggi molti vedono i caratteri di sostenibilità e di qualità della vita nel ritorno alla città. «In quegli anni il punto di vista in movimento di un ipotetico guidatore era diventato una nuova modalità di osservazione di una città-territorio non più riconducibile ai canoni classici», continua Zucchi. «Penso a libri importanti come The View from the Road di Kevin Lynch, AS in DS: An Eye on the Road di Alison Smithson - che viaggiava a bordo della sua Citroën DS per studiare il paesaggio - eLearning from Las Vegasdi Bob Venturi e Denise Scott Brown. Ma molte ricerche progettuali contemporanee - alcune delle quali documentate nella mostra “Energy. Architettura e Reti del Petrolio e del Post-Petrolio” curata da Pippo Ciorra per il Maxxi di Roma - tentano di capire quale sarà il rapporto tra la forma delle nostre città e l’evoluzione delle tecnologie di trasporto, considerando il ritorno alla densità urbana come uno dei principali strumenti per raggiungere una dimensione ecologica dell’abitare».
E proprio il Museo Nazionale dell’Automobile di Torino, rinnovato da Cza, racconta il rapporto tra evoluzione dell’automobile e stili di vita. «Un’auto è un frammento di cultura materiale, e spesso ci racconta dei costumi e dei valori di una società. Se la Ford T rappresentava il sogno dell’auto per tutti in un territorio in costante espansione, l’attuale miniaturizzazione della tecnica e il suo carattere sempre più interattivo corrispondono alla nostra presa di coscienza della limitatezza delle risorse e alla necessità di ripensare ambienti urbani dove la mobilità si integri con la salvaguardia del paesaggio».
Postilla
Il linguaggio dell'utopia, magari dell'utopia perfettamente a portata di mano: è lo strumento che ha fatto nascere l'urbanistica moderna tra le due guerre mondiali, la disciplina letteralmente esondata fuori dagli uffici municipali e andata a occupare le pagine delle riviste patinate, dai grandi concorsi per i piani regolatori e le nuove città negli anni '30, alle idee per la ricostruzione pianificata nel dopoguerra, alle unità di vicinato o alle new town … poi qualcosa è cambiato, e la capacità di comunicazione, addirittura la voglia o interesse a trovare consenso, a comunicare progettualità, pare sparita nel nulla. A comunicare idee, quelle che secondo il grande Daniel Burnham “rimescolano il sangue nelle vene” sono rimaste le cosiddette archistar, quasi sempre ridotte a poco più che testimonial pubblicitari di grandi interessi immobiliari, veri motori immobili della città contemporanea. Forse qualcosa sta cambiando, non tanto per iniziativa di chi dovrebbe darsi una mossa, ma grazie ai cittadini che si muovono per conto proprio. Ci vorrebbe davvero qualcosa in più, e l'ottima capacità di sintesi di Cino Zucchi in questo articolo ne è un esempio: si può imitarlo nel metodo? Se la buona urbanistica vuole riconquistare il consenso della civitas deve saper riproporre la sua visione della città (dell'habitat dell'uomo), esprimendosi con parole e immagini comprensibili a tutti. (f.b.)

L’ intervento per le associazioni No Mose e Ambiente Venezia,svolto nella riunione della commissione consiliare del 28giugno 2013, riassume gli elementi centralidell’attuale stato di crisi della Laguna di Venezia. Solo sullo sfondo la causaprincipale: la mercificazione della città. Con postilla

Le associazioni che rappresento in questa sede si sonosempre interessate a vario titolo dell’ambiente lagunare, della laguna comebene comune, laguna come bene collettivo, un bene che in quanto tale non può enon deve essere disponibile per interessi e tornaconti particolari.Un territorioquello lagunare peraltro altamente tutelato anche dalla legislazione specialeper Venezia , quella vigente e quella presente nei vari disegni di leggerecentemente depositati .
Parto da quiperché tutti devono avere la consapevolezza che ci troviamo in presenza di unadrammatica situazione della laguna che, se non si ricorre ad urgenti rimedi, ilprocesso erosivo in corso la trasformerà in breve tempo in un braccio di mare.E la salvaguardia di Venezia passa inevitabilmente attraverso la salvaguardiadella sua laguna.
Regola generale dovrebbe essere che qualsiasi intervento in laguna deve nonsolo dimostrare che non produce erosione, non solo che arresti il processo didegrado, ma che crei anche le condizioniper invertire tale processo. Il transito delle grandi navi crociera nei canalilagunari provoca in continuazione la sospensione di migliaia di metri cubi disedimenti fini che privati della loro struttura colloidale vanno poi dispersiin mare attraverso le correnti di marea, alimentando così il processo erosivo. Lanavigazione delle grandi navi crociera per la loro dimensione in termini didislocamento, forma delle carene e pescaggio va correlata con i campi di motolocali riferiti ai fondali, alle scarpate ed ai bassifondi che affiancano icanali lagunari di percorrenza: è soprattutto da questa interazione che emergel’incompatibilità tra queste grandi navi crociera e la ristretta sezione deinostri canali lagunari. La grande nave crociera non regge con l’idrodinamica e la morfodinamica lagunare. Sarebbesufficiente solo questo elemento legato alla morfodinamica a giustificarel’allontanamento dalla laguna delle grandi navi crociera.Naturalmente sonoanche altri i fattori negativi ( qualiinquinamento , sicurezza ecc) evidenziati e denunciati dal Comitato No Grandi Navi che impongono la fuoruscita delle grandi navicrociera dalla laguna. E’ da tempo, molto tempo prima dei tragici incidentidell’isola del Giglio e di Genova, chenell’ottica della fuoruscita dalla laguna delle grandi navi crociera siindicava come soluzione la collocazione del terminal crocieristico alla bocca delLido.
Ed a noi sembra cheil progetto De Piccoli [prevede larealizzazione di un porto del tutto nuovo all’esterno della Laguna, al Lido di Venezia] nella suaelaborazione vada in quella direzione. Pertanto lo condividiamo, naturalmentecon tutti i dovuti rigorosi approfondimenti e verifiche di legge che qualsiasiprogetto di tale natura comporta. Progetto su cui non mi soffermo dal momentoche lo stesso De Piccoli ha illustrato aqueste commissioni e presentato alle autorità ministeriali competenti. Tral’altro va ricordato che anche il Comune di Venezia , all’epoca dei confronticon i progetti alternativi al Mo.s.e., considerava valida una simile soluzioneper le grandi navi crociera. E questo progetto può anche avvalersi di quelvalore aggiunto legato a studi effettuati allora sull’idrodinamica, lo scambiomare laguna, velocità di correnti ecc. Inoltre risulta che anche il Comune di Mira propende per questa soluzione.
Per correttezzadevo dire che questa indicazione di merito non è quella del Comitato No GrandiNavi di cui tutti noi siamo parte attiva ed integrante, perché esso sostienel’allontanamento delle grandi navi crociera dalle laguna senza esprimersi sullaloro allocazione.
Un altro elemento che può interagire con le grandi navicrociera è rappresentato dalla profondità della bocca del Lido fissata dalprogetto definitivo del Mo.s.e. a –12 metri. Non voglio in questa occasionericordare la vertenza ancora aperta in Europa sul progetto Mo.s.e. ed inparticolare sulla presenza della risonanza e dell’instabilità dinamica delleparatoie; vorrei però segnalare che quella quota di profondità al varco di S. Nicolòè stata decisa a suo tempo per garantire il transito di queste grandi navicrociera. Dal momento però che queste grandi navi non transiteranno (comunque ) per quella bocca , va rimosso quel vincolo della profondità riportandoi fondali ad una quota ( -7 metri ) piùfunzionale al riequilibrio idromorfologico della laguna.
Detto questosappiamo che per il transito delle grandi navi crociera, anche per ottemperareal decreto Clini-Passera, circolano, in aggiunta a quella di De Piccoli, altreipotesi quali quelle dell’Autorità Portuale: canale Contorta, S. Maria delMare, del Sindaco: Marghera; tutte ipotesi progettuali (non condividiamoovviamente quelle proposte che non allontanano per niente le grandi navi crociera dalla laguna ) convari gradi di conoscenza e con documentiallegati che al massimo si presentanoallo stato di prefattibilità; e si sache è in programma a Roma il 25 lugliouna riunione ministeriale che affronteràla questione.
Noi chiediamo che l’argomento delle grandi navi crociera aVenezia rientri nelle normative del Codice dell’Ambiente di cui al decretolegislativo n. 152 del 2006 relativamente alle disposizioni in materia diValutazione Ambientale Strategica (VAS), di Valutazione di Impatto Ambientalein sede statale (VIA), di Valutazione di Incidenza (VINCA), diAutorizzazione Integrativa Ambientale (AIA), e che allo scopo venganogarantiti i relativi finanziamenti, anche ricorrendo per la copertura a quei100 milioni di euro che il Cipe nel 2012 ha stanziato per il porto off-shore lacui fattibilità è ancora tutta da definire.
Chiediamo inoltre che nelle analisiarticolate di confronto dei parametri ambientali e socio-economici tra le varieipotesi dei sopraindicati progetti vengano tenuti nel debito conto e portati aconoscenza della cittadinanza per ogni progetto:
- la connessione esistente tra l’abnorme dimensionamentodegli scafi ( dislocamento, pescaggio e stazza) e la sezione dei canalinavigabili interni alla laguna da rapportare con l’equilibrio idromorfologicodell’intera laguna;
- il grado di inquinamento atmosferico, delle acque edelettromagnetico con la ricaduta sulla salute della popolazione, il grado disicurezza a bordo per incendi, esplosioni e spandimento carburanti nonché ilrischio di incidenti
- una analisi socio-economica sui costi-benefici cheun’attività portuale crocieristica di tale natura attuale e di svilupporappresenta per la città, con particolare riguardo al dato occupazionalelocale;
-la soglia del carico massimo turistico del crocierismolegata a quella complessiva e compatibile per la città di Venezia;
- l’impatto della mole dei meganatanti con la tipologiaurbanistica ed architettonica della città, anche ai sensi di quel codice deibeni culturali e del paesaggio che può a pieno titolo autorizzare gli organipreposti ( in primis la Sovrintendenza ) ad esercitare le conseguenti azione ditutela e garanzia;
- le strategie che tale fenomeno prevede sullapianificazione del territorio.

Postilla
Restando in una logica un po' "migliorista" le proposte delle due associazioni non affrontano il problema di fondo, strategico, della città: vogliamo conservare, e addirittura incrementare il turismo squalificato di massa, quello "mordi e fuggi", e proseguire con la mercificazione dell'immagine di Venezia, oppure vogliamo sviluppare il turismo di visita e conoscenza rendendolo accessibile a tutti quelli che, a prescindere dalle risorse disponibili, vogliono visitare la città e il suo territorio per comprenderli davvero? La giunta attuale - come del resto quelle che l'hanno preceduta, hanno scelto la prima strada e stanno provocando il degrado alla fine del quale rimarrà solo il lontano ricordo della città com'è ancora oggi, come il sorriso del gatto del Cheshire in Alice nel paese delle meraviglie?.Il progetto dell'ex vicesindaco De Piccoli ci sembra inserirsi in pieno in questa logica. Se non si vuole che di Venezia rimanga solo il ricordo non c'è che da dire "basta grandi navi, basta sublagunari, e torniamo alla strategia del "razionamento programmato dell'offerta turistica", proposto vent'anni fa da Luigi Scano e, a suo tempo, accettato anche dall'attuale governatore del porto.

La tutela dei beni paesaggistico-ambientali è un principio fondamentale della Costituzione perché riguarda la «persona umana nella sua vita, sicurezza e sanità, con riferimento anche alle generazioni future, in relazione al valore estetico-culturale assunto dall’ordinamento quale “valore primario ed assoluto” insuscettibile di essere subordinato a qualsiasi altro» (Ordinanza della Corte costituzionale n. 46 del 6 marzo 2001). Eppure fino al 2004, prima dell’emanazione della legge «salva coste» - che impose come misura di salvaguardia l’inedificabilità dei territori entro i due 2 chilometri dalla battigia - la distruzione della Sardegna sembrava inarrestabile. Dopo soli due anni, ci fu l’approvazione del primo stralcio del piano paesaggistico che dichiarò la fascia costiera bene d’insieme e adeguò la tutela alle caratteristiche dei luoghi. Singole misure di protezione imposero l’inedificabilità per le aree più a rischio, fino all’adeguamento degli strumenti urbanistici, da effettuarsi entro il limite massimo di un anno per i 102 comuni interamente ricompresi negli ambiti costieri.

Il pericolo sembrava scongiurato. Ma bisognava ancora fare i conti con l’avidità e le continue aggressioni dei soliti “gufi dal gozzo pieno”. Immediatamente fioccarono i ricorsi per ottenere l’annullamento del piano. Respinto quello alla Corte costituzionale ne arrivarono centinaia davanti ai giudici amministrativi, tutti conclusi con la conferma dell’intero impianto normativo e solo in pochi casi con la soppressione di qualche comma privo di rilevanza. Ci fu addirittura un referendum popolare abrogativo, fallito per il mancato raggiungimento del quorum.

E’ naturale che un simile clima rallentasse le procedure per l’adeguamento dei piani urbanistici al Ppr, protraendo l’efficacia delle norme di salvaguardia, che difesero i beni comuni sino al varo del primo “Piano casa” («Disposizioni straordinarie per il sostegno dell’economia mediante il rilancio del settore edilizio e per la promozione di interventi e programmi di valenza strategica per lo sviluppo») introdotto nell’ottobre 2009 dalla nuova maggioranza politica, eletta con il compito di smantellare il Piano paesaggistico regionale.

Da quel momento sono state sospese tutte le misure di protezione vigenti e si ammette persino la realizzazione di nuove opere all’interno dei 300 metri dalla linea di battigia. L’illegittimità dell’operazione è chiara, perché tutto avviene in applicazione di una norma che, dettando «principi e direttive», da applicare in sede di revisione del Ppr, dichiara testualmente che solo quest’ultimo - non, quindi, una legge - può predisporre «misure di salvaguardia» e indicare le «opere eseguibili sino all’adeguamento degli strumenti urbanistici comunali» (art. 13, Legge Regionale 21 novembre 2011, n. 21). Sfruttando le esitazioni delle Soprintendenze, Regione e comuni, imperterriti, continuano a rilasciare autorizzazioni su autorizzazioni, violando il Codice dei beni culturali e del paesaggio e precedenti pronunce del giudice amministrativo.

Intanto le “disposizioni straordinarie”, inizialmente previste dalla legge regionale per un anno e mezzo, sono state integrate e prorogate fino a novembre 2013 con tre successive edizioni del “piano casa” originario, quando, forse, scadrà la sua ultima edizione.Una lotta impari: quattro Piani casa contro un Piano paesaggistico.

Eppure, nonostante tutto, 58 comuni hanno avviato le procedure di adeguamento e 16 le hanno concluse. Certo, mancano ancora Comuni importanti, come quello di Cagliari, ma l’inerzia sembra dovuta più alla volontà di evitare le misure di salvaguardia, che alla complessità del procedimento: le deroghe introdotte dal Piano casa si applicano fino all’approvazione dei nuovi piani urbanistici e solo pochi sindaci virtuosi sono disposti a rinunciare a simili “vantaggi”.

Nel giugno 2010, inoltre, ha avuto ufficialmente inizio il procedimento di revisione del Ppr, con l’esordio pubblico del progetto Sardegna Nuove Idee e l’attivazione dei «laboratori del paesaggio» - conclusi nel febbraio 2011 - creati per accogliere le richieste dei sindaci, interessati all’annullamento delle «misure di tutela talebane». Nello stesso anno viene emanata anche la legge sullo «sviluppo golfistico», che introduce nuove deroghe al Ppr per costruire ville e alberghi intorno a 25 nuovi campi da golf: altri tre milioni di metri cubi di cemento su oltre 3 mila ettari di territorio, prevalentemente agricolo.

Nel frattempo la Regione lavora alacremente per elaborare le nuove norme di attuazione del Ppr, Tutto avviene nel più stretto riserbo, ma le notizie che filtrano sono molto inquietanti. Si parla della cancellazione di importanti disposizioni di salvaguardia, comprese quelle che vincolano la fascia costiera, i centri storici e gli insediamenti rurali, tutti declassati da bene paesaggistico a semplice “componente di paesaggio”.

Nel luglio 2012 il Consiglio regionale approva le nuove «Linee guida» che rinviano alle procedure della legge sul Piano casa. Mai formalmente coinvolti il Mibac e le associazioni ambientaliste, nonostante la loro partecipazione sia considerata obbligatoria ai fini della validità dell’intero processo: i numerosi appelli inoltrati da Italia Nostra alla Regione e al Ministero sono rimasti a lungo inascoltati. L’arroganza della Regione arriva al punto di approvare le «Norme di interpretazione autentica in materia di beni paesaggistici» al fine di ridurre la tutela prevista per le zone umide, aggirando anche una sentenza del Consiglio di Stato. L’opera di demolizione del piano paesaggistico prosegue, dunque, inesorabile e senza soste.

Nessun cedimento da parte della giunta Cappellacci neanche quando, pochi mesi dopo, il governo Monti impugna la nuova legge sulle zone umide davanti alla Corte costituzionale; o quando nel gennaio 2012 finiscono davanti alla Consulta alcune disposizioni della legge sul Piano casa per avere violato le norme del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Erano stati del resto impassibili anche l’anno prima, quando fu addirittura il governo Berlusconi a impugnare alcune norme della Legge sul golf.

Troppo forti gli interessi in gioco e ognuno deve avere la sua parte, dal piccolo imprenditore locale all’emiro del Qatar. Per difenderli la Regione acquista perfino due pagine dei maggiori quotidiani locali, ricordando ai cittadini la necessità di revisione perché «le regole di oggi vietano e bloccano».

Nel marzo 2013, finalmente, dopo che la Regione ha agito in completa solitudine per tre anni e col dichiarato intento di annientare il sistema di tutela, il Mibac firma il disciplinare d’intesa per la verifica del Ppr dell’ambito costiero. L’attività di revisione diviene di colpo necessaria per l’adeguamento delle norme di attuazione alle decisioni del giudice amministrativo (cioè per cancellare qualche comma da alcuni articoli), per recepire le leggi sul piano casa, sul golf e sull’interpretazione autentica del Ppr, nonché per eliminare le incongruenze rilevate negli elaborati del piano.

Compaiono improvvisamente anche le attività “obbligatorie” richieste dal Codice fin dal 2008: la ricognizione - con le prescrizioni d’uso - degli immobili e delle aree dichiarati beni paesaggistici da singoli provvedimenti (art. 136), dalla legge (art. 142) e dallo stesso piano paesaggistico ai sensi dell’art. 134, comma 1, lettera c) del Codice. Ma per questi ultimi, in violazione alla normativa vigente, il disciplinare non prevede l’obbligo di dettare le prescrizioni d’uso. Tutte le attività, inoltre, dovranno svolgersi in soli 210 giorni - per garantire l’approvazione del nuovo piano entro la fine della legislatura - nonostante il Ppr comprenda la puntuale individuazione di oltre 10 mila beni paesaggistici. La revisione - si precisa - avverrà secondo il procedimento indicato dal Piano casa, malgrado tale disposizione sia stata impugnata dal Governo e si trovi ancora al vaglio della Consulta. Come si è detto, infine, vengono recepite norme certamente incostituzionali, impugnate dallo stesso Governo di cui fa parte il Ministero che ha siglato l’accordo.

L’illegittimità di tutta l’operazione è sempre più evidente. Gli adempimenti richiesti dal Codice, del resto, devono rendere più efficaci i sistemi di tutela vigenti, non annullarli.

Di avviso contrario, ovviamente, il presidente Cappellacci. Intervistato dalla Nuova Sardegna un mese dopo l’accordo con il Ministero egli afferma: «le modifiche al Ppr vanno nella direzione di qualsiasi tipo di intervento e investimento, non solo del Qatar. Se oggi si vuole fare un intervento di rilevanza strategica è necessario levare alcuni vincoli. Ma non solo. All’interno di quel processo di revisione c’è anche il recepimento dei progetti strategici previsti dal Piano casa che richiedono una attenzione straordinaria e un approccio multidisciplinare». “Progetti strategici” che pare valgano 50 milioni di metri cubi. Come diecimila palazzi di sei piani. Un nuovo capoluogo di oltre 300 mila abitanti sparpagliato lungo le coste della Sardegna.

La decisione, ora spetta al Mibac. Il futuro della Sardegna è nelle sue mani. Svolgerà con coraggio e fermezza il proprio ruolo istituzionale o abbandonerà la Sardegna alla triste profezia di Antonio Cederna, lasciandola sprofondare sotto il peso del cemento?

In un paese un pochino più avvezzo al giornalismo attento, forse sarebbe sbucata già nel titolo la parola chiave: sprawl, o equivalente. E magari qualche giornalista più preparato avrebbe perfino accennato al fatto che gli enti sovracomunali, e i loro compiti di pianificazione, sono necessari. Corriere della Sera Lombardia, 29 giugno 2013 (f.b.)

MILANO — La rivoluzione verde? In Lombardia tarda ancora ad arrivare. Se è vero che biciclette e trasporti pubblici hanno sempre più appeal è altrettanto vero che, nonostante la crisi, le auto circolanti in tutta la regione sono ancora in crescita: 674.673 quelle contate in più in 16 anni, dal 1995 al 2011 (ultimo dato disponibile). Sono i numeri dell'Aci elaborati dall'Anfia, l'associazione nazionale filiera industria automobilistica che ha fotografato però una realtà molto variegata all'interno della regione. Mentre in quasi tutti i dodici comuni capoluogo il parco auto circolante (cioè le macchine immatricolate in un dato anno più quelle immatricolate negli anni precedenti e non rottamate) è in diminuzione, nelle province è in aumento.

Nel comune di Mantova, per esempio, le auto circolanti nel 1995 erano 31.055, mentre al 31 dicembre 2011 sono scese a 29.131. In provincia, invece, erano 209.791 nel '95, sono salite a 255.297 nel 2011. Stessa dinamica a Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Milano, Pavia, Sondrio e Varese. Fanno eccezione solo Lecco, Lodi e Monza (di cui si ha il dato del comune dal 2005, mentre quello della provincia nel '95, nel 2000 e nel 2005 è compreso in quella di Milano), dove il parco auto è in aumento sia nei comuni che nelle province. Fatto sta che in 16 anni nei dodici comuni capoluogo le auto si sono ridotte di più di 84 mila unità, mentre nelle province sono aumentate di quasi 760 mila. E anche se il possesso di un mezzo non implica automaticamente il suo utilizzo, è comunque probabile che all'aumentare del parco circolante corrisponda un traffico maggiore sulle strade.

Secondo gli esperti, diversi sono i motivi. Il primo è quello demografico. «Da molti anni ormai le grandi città si stanno svuotando a favore dei piccoli centri in provincia», prova a spiegare Andrea Boitani, docente di Economia politica alla Cattolica di Milano ed esperto di mobilità e trasporti. «Qui la vita e le case costano meno, la popolazione quindi aumenta e con questa il numero delle auto. E dal momento che la maggior parte delle sedi di lavoro si trova nei capoluoghi, aumentano anche gli spostamenti e quindi il traffico dalle cinture extraurbane alle città».

Secondo motivo, la scarsa capillarità dei trasporti pubblici. «A Milano e nelle altre grandi città le aziende di trasporti locali soddisfano abbastanza bene la domanda di mobilità — dice Dario Balotta, responsabile trasporti di Legambiente Lombardia —. Tenuto anche conto che si hanno meno soldi a disposizione, si tende a usare meno la macchina. Nelle province, invece, e nelle città più piccole i servizi sono carenti. Le aziende di trasporti tendono a privilegiare i centri dove la domanda è maggiore e così, nonostante la crisi, molti sono costretti comunque a usare la macchina. Il servizio pubblico, però, proprio in quanto tale dovrebbe essere presente ed efficiente ovunque».

Per decongestionare le province, dunque, parecchio ci sarebbe da fare. «Bisogna intervenire sugli spostamenti sistematici casa-lavoro — dice Boitani — garantendo collegamenti migliori con gli autobus tra i piccoli centri e le stazioni ferroviarie». Utile anche l'integrazione tariffaria: «In Lombardia servirebbe un biglietto unico per tutti i mezzi gestito dallo stesso soggetto, cioè la Regione», aggiunge Balotta. «E poiché la maggior parte degli spostamenti che si fanno in auto sono a media e corta percorrenza, il Pirellone dovrebbe smetterla di costruire nuove autostrade per concentrarsi invece solo sulle strade che davvero servono».

Strategie possibili per unire politiche di sostenibilità e ed equità: uno sguardo sulle metropoli del mondo ma in particolare le grandi città-regione italiane. Temi per una discussione di rilievo planetario che è urgente avviare, e magari, da noi, concludere prima che vengano istituite le "città metropolitane. La critica sociologica, estate 2013. (f.b.)

Che cos’è oggi la città? La sua aria rende ancora liberi i suoi cittadini? Quali le forze scatenanti della nuova grande urbanizzazione globale? Il gigantismo urbano, la metropolizzazione del territorio, le grandi città globali, gli slum e le baraccopoli, le mega-regioni, le mega-city, sono compatibili con la nostra idea di democrazia ? Possiamo parlare di crisi della Polis, intesa nel senso di politica e di città? Quali i valori fondanti di un nuovo urbanesimo?

La città moderna non sarebbe esistita senza la città comunale indipendente, caratteristica dell’Italia e della Germania. La rinascita delle città intorno all’anno Mille avvenne in Europa sotto il segno della libertà di commercio e dell’ autonomia dei suoi membri dal controllo dei feudatari. Qui si sperimentarono le prime forme di democrazia attraverso le libere elezioni dei propri rappresentanti. In Italia questo processo fu anticipato con la nascita e lo sviluppo delle libere repubbliche marinare che segnarono l’inizio di una egemonia italiana nel commercio e nell’economia mondiale.
Le città hanno creato un ordine sociale basato sul diritto alla cittadinanza per tutti quelli che vi risiedevano, non basato su vincoli di sangue o etnici, compreso il diritto alla protezione e alla sicurezza per lo ‘straniero’. Perché oggi le città, soprattutto le più grandi, invece che alla sicurezza, sono sempre più associate alla paura e al pericolo? Non ho risposte esaustive a tutte queste e ad altre domande simili. Proverò a darne qualcuna.

L’esplosione/decadenza urbana nel mondo

Più della metà degli abitanti della terra oggi risiedono nelle aree urbanizzate. Ad espandersi in maniera tumultuosa sono soprattutto le cosiddette megalopoli, aree metropolitane con più di 10 milioni di abitanti. Le aree urbanizzate occupano solo il 2% della superficie terrestre, ma consumano tre quarti delle risorse del pianeta, producendo una massa enorme di gas inquinanti, di rifiuti e di sostanze tossiche. Le città che superano i 10 milioni di abitanti nel 2015 dovrebbero essere 40, in gran parte nei paesi emergenti e nell’Africa. Quelle che superano il milione di abitanti sono più di 500. Cent’anni fa la città più popolosa al mondo era Londra con 6,5 milioni di abitanti. Il gigantismo urbano è fonte di enormi problemi ambientali e sociali, produce conseguenze catastrofiche dal punto di vista della sicurezza urbana, dell’aumento delle malattie, dello smaltimento dell’entropia accumulata.

Negli ultimi quindici anni sono enormemente cresciute il numero delle baraccopoli o slum, oggi ci vivono più di un miliardo di persone: a Dhaka in Bangladesh, a Joannesburg, a Karachi in Pakistan, a Nairobi, a Rio de Janeiro, a Calcutta, a Mumbai, a Istanbul, ecc.. L’Africa sub-sahariana ha la più estesa popolazione di baraccopoli: secondo le stime delle Nazioni Unite sono 199,5 milioni, ovvero il 61,7% della popolazione urbana complessiva.

Le mega-città oggi formano mega-regioni che si diffondono nel mondo, città infinite raccordate da relazioni amministrative, geografiche ed economiche. Le 25 maggiori città della terra producono più della metà della ricchezza del pianeta. Le 5 più grandi città della Cina e India producono il 50% della ricchezza dei rispettivi paesi. Sono 40 le mega-regioni, di cui parla il Rapporto UN Habitat 2010-2011 delle Nazioni Unite, nelle quali vivono un quinto degli abitanti della Terra e si svolge il 66% delle attività economiche e l’85% di quelle tecnologiche e scientifiche. Esse hanno un’economia intorno ai 100 miliardi di dollari minimo, che le pone al di sopra della 40a più grande nazione in termine di PIL. La mega-regione in pratica svolge la funzione che una volta era svolta dalla città ma semplicemente su scala molto maggiore. Secondo il Rapporto, Hong Kong- Senhzn-Guangzhou in Cina è la mega-regione più estesa e popolata del mondo, un’area abitata da 120 milioni di persone.

Questo modello urbano è ecologicamente e democraticamente sostenibile? L’impronta ecologica sostenibile del pianeta, necessaria a produrre le risorse utilizzate per assorbire i nostri rifiuti, equivale a un indice di 1,78 ha pro-capite. Ma un americano ne necessita di 9,5 ha, un italiano di 4,8 ha, il Lazio di 3,98 ha. Ad una città come Londra serve per sostenere il suo modello di consumi e di smaltimento un’area 125 volte più grande, a Milano ne serve per 300 volte. L’intero continente africano ha invece un’impronta ecologica inferiore ad un ha pro capite. Oggi consumiamo il 23% in più delle risorse che la Terra riesce a produrre in un anno. Per essere ancora più chiari le risorse che la biosfera produce in 365 giorni noi le bruciamo in 282. Più la città è estesa, più questa impronta è forte. L’impronta ecologica è direttamente connessa al consumo di suolo sottratto alla natura e al suo uso produttivo primario.

L’eccessivo consumo di suolo è al centro delle attenzioni anche nell’ Unione Europea che, con il documento Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo ha fissato il traguardo di “consumo zero” da raggiungere entro il 2050. Dalla metà degli anni ’50 la superficie totale delle aree urbane nell’UE è aumentata del 78% a fronte di una crescita demografica del 33%. Circa il 2,3% del territorio europeo è ricoperto di cemento. Fra il ’90 e il 2000 la quota di suolo occupato era di circa 1000 kmq l’anno, con un incremento del 6%. Dal 2000 al 2006 la quota di terreno occupato è sceso a 920 kmq annui, mentre le aree di insediamento sono aumentate di un ulteriore 3%, con un aumento complessivo tra il ’90 e il 20006 del 9% , a fronte di un incremento della popolazione del 5,5% nello stesso periodo.

Circa il 75% della popolazione europea vive in arre urbane con un aumento previsto all’80% entro il 2020. In uno studio dell’ISPRA sull’andamento del consumo di suolo in Italia dal 1956 al 2010, emerge che il nostro paese è passato da un consumo di suolo pari a 8.000 kmq nel 1956, ai 20.500 kmq nel 2010, equivalente a 343 mq pro capite rispetto 170 mq nel 1956, pari ad un consumo medio di territorio del 6,9% a fronte di una media del 2,8% nel 1956. Sono stati consumati più di 7 metri quadrati al secondo per oltre 50 anni. Le media europea di consumo di suolo equivale al 2,3% . Le regioni che si segnalano per essere le capofila di questo non invidiabile primato sono la Lombardia (12%), il Veneto(10,5%) e il Lazio(9%). La distruzione di territorio colpisce in particolare la pianura padana e le zone costiere, sottraendo terreno fertile all’agricoltura e alla biodiversità.

Nuove gerarchie urbane nella globalizzazione
La globalizzazione ha sicuramente favorito il rapporto tra il capitale e la trasformazione spaziale ed urbana del mondo. Alle grandi città dell’epoca fordista, che attraevano popolazione e forza-lavoro per alimentare i processi di industrializzazione, subentrano oggi città che diventano sempre più luoghi dove estrarre plusvalore attraverso la loro valorizzazione immobiliare e la loro rifunzionalizzazione alle esigenze di mobilità delle persone e delle merci, luoghi di estrazione di forza-lavoro a basso costo, di consumi di massa, dove si concentra il potere finanziario e direzionale dell’economia globale.

Si parla tanto di reti delle città globali. In realtà dobbiamo parlare di una nuova gerarchia urbana globale che risponde alle diverse esigenze di una divisione internazionale del ruolo delle megacity in base alle diverse funzioni loro assegnate nella riproduzione dei meccanismi di dominio e di controllo economico, sociale, culturale del mondo: con al vertice le grandi città sedi della finanza e del potere globale descritte da Saskia Sassen; a seguire le grandi metropoli terziarie occidentali orientate ai consumi di massa e le grandi città industriali dell’Asia in crescita spaventosa; alla base infine le grandi megalopoli del terzo e quarto mondo con le periferie più povere del mondo che raccolgono gli scarti umani (Bauman) e le sacche di miseria e di degrado umano degli slum raccontate da Mike Davis, vere discariche umane, provocate dalla privatizzazione della terra e dell’acqua ( Vandana Shiva).

Queste città sono abitate da una umanità frastagliata e segmentata dove, accanto alle élite globali, non interessate agli affari pubblici della loro città, vive l’umanità in eccesso, superflua, esclusa dal progresso, chiusa in enclave identitarie anche a base etnica, che lottano per la vita ai margini o fuori della legalità nelle anonime periferie periurbane, dove regnano lo sradicamento, la solitudine, l’esclusione sociale e dove sembrano smarrite le speranze di emancipazione e integrazione sociale. Gli squilibri sociali ed economici tra queste grandi aree urbane alimentano i flussi migratori che, simili al principio dei vasi comunicanti, si dirigono dove maggiori sono le possibilità di sopravvivenza e di riproduzione vitale. I capitali obbediscono agli stessi principi e si dirigono dove maggiori sono le aspettative della loro valorizzazione, alimentando una gara competitiva tra città e territori, in un logica spesso di tipo neocoloniale.

Le conseguenze di questo processo modificano la tradizionale peculiarità dell’economia urbana delle metropoli del Nord del mondo, che tendono a perdere la loro caratteristica di specializzazione produttiva tipica dell’epoca fordista. Alle vecchie città “fortificate” e compatte, si sostituiscono, infatti, città sempre più “liquide” e al vecchio policentrismo delle piccole e medie città, si sovrappone oggi un nuovo megacentrismo territoriale caratterizzato da forti relazioni produttive, direzionali, commerciali, di consumi, con forti pressioni sul territorio di domande sociali, abitative, di mobilità sempre più difficili da soddisfare anche per effetto di un duplice movimento in atto: da una parte di concentrazione delle attività attrattive e produttive e, dall’altra, di diffusione di nuovi insediamenti abitativi in luoghi economicamente accessibili e lontani dai luoghi di lavoro.

Questo disastro urbano è la conseguenza della crisi della politica ma anche del fallimento di architetti e urbanisti che non hanno saputo o potuto impedire la decomposizione del tessuto urbano, la cementificazione del territorio, la distruzione dell’ambiente. Anzi, una parte consistente della cultura urbanistica e della politica progressista ha nobilitato queste scelte sciagurate attraverso l’assunzione di nuove teorie e modelli di governance urbana improntate alla cultura neoliberista del pianificar facendo e dell’urbanistica contrattata.
Il risultato è l’esplosione dell’urbano che sta travolgendo e snaturando le nostre città, e con esse la nostra democrazia trasformandola progressivamente in oligarchia e forse in tirannia. “La città non riesce più a produrre società. Le periferie in Europa e in gran parte del resto del mondo simboleggiano questo brusco arresto della funzione civilizzatrice della città”(Ferrarotti, Macioti 2009). È questa la nuova ‘questione urbana’ a cui è legato il futuro della democrazia.

Roma e la nuova periferia metropolitana e regionale
Cos’è un’area metropolitana? Cittalia (2010) ha proposto una definizione di cosa siano le aree metropolitane e le aree urbane proponendo una classificazione basata su tre criteri in base ai quali è possibile distinguere: ‘aree urbane’ “caratterizzate da continuità edilizia e minima presenza al loro interno di suoli destinati ad uso agricolo”, ‘aree metropolitane’ “caratterizzate da integrazione di funzioni e intensità dei rapporti che si realizzano al loro interno” e ‘regioni metropolitane’ “identificate con le aree di influenza delle prime e delle seconde” . Su questa base sono individuate le città della metropolizzazione e le città della regionalizzazione. Nelle prime: “Si verificano processi di diffusione delle residenze fuori dalla città. Tale fenomeno non è tuttavia accompagnato in modo evidente dalla ri-localizzazione delle attività sul territorio. I residenti fuori comune continuano ad ‘usare’ la città per accedere ai posti di lavoro. La mobilità in ingresso nelle città è in aumento”. È, questo, il caso di Roma e del suo entroterra metropolitano.

Nell’ultimo decennio si sono accentuati i processi di diffusione urbana nei comuni della provincia rispetto al comune capoluogo. Secondo il recente Rapporto CNA-CRESME tra il censimento 2001 e le risultanze anagrafiche del 2010, la popolazione della provincia di Roma è cresciuta del 13,3%, attestandosi a 4.194.068 abitanti, mentre nel solo capoluogo la crescita demografica è risultata dell'8,4%, giungendo a 2.761.477 abitanti. In poco più di nove anni, con riferimento all'intera provincia, si è realizzato un aumento netto di quasi 500 mila residenti, mentre nel comune di Roma la crescita è stata di quasi 215 mila unità. Il tasso di incremento demografico della provincia e del capoluogo, quindi, è stato nettamente superiore alla media italiana (6,4%).La popolazione residente nei comuni di prima cintura è passata dai 578mila abitanti del 2001 ai 730mila del 2010, un incremento del 26% in nove anni e nei comuni di seconda cintura invece, la popolazione residente è passata da 243mila a 315mila abitanti, pari ad un incremento che giunge a sfiorare il 30%. Ma l'espansione urbana ha investito anche i comuni di terza cintura, dove la popolazione residente è passata da 232mila a 278mila abitanti, segnando un incremento di poco inferiore al 20%.

La dinamica urbana che interessa l’area metropolitana romana corrisponde a una fase espansiva di urbanizzazione e soprattutto di suburbanizzazione della cintura metropolitana, mentre nel centro storico della capitale prevalgono da una parte processi di riduzione di residenza con la perdita di abitanti in termini assoluti e dall’altro processi di riurbanizzazione attraverso la sostituzione di popolazione autoctona con ceti medio-alti, anche stranieri, caratteristici della gentrification. Secondo il CENSIS e il Rapporto della RuR 2009, sui 120 comuni che formano la cintura metropolitana, 46 sono comuni a più alto tasso di sviluppo integrati nel sistema metropolitano, collocati entro una fascia di 30 km dalla capitale, equivalente al 88% dell’intera popolazione della provincia.

L’area metropolitana romana si caratterizza, infatti, da una parte con il decrescere dell’integrazione col crescere della distanza dalla Capitale, dall’altra con comuni che presentano un’elevata quota di superficie territoriale investita da processi di consumo di suolo, con diffusione insediativa a bassa densità di popolazione che caratterizza l’urban sprawl. Tra il 1993 e il 2008 il 12% del territorio comunale è stato urbanizzato, pari a 4.880 ha di suolo agricolo e di aree naturali. La popolazione è cresciuta di soli 30.000 abitanti. Le case vuote sono invece 250.000 e quelle invendute, costruite negli ultimi sette anni ad un ritmo di 10.000 all’anno, ammontano a circa 50.000. Nello stesso periodo oltre 160.000 romani si sono trasferite nei comuni limitrofi in cerca di case a costi più bassi.

La città metropolitana presenta così tutte le caratteristiche negative di una urbanizzazione non governata oltre ad essere fattore di grande attrazione e centralizzazione della maggiore ricchezza prodotta nel paese. “Nel periodo 1998-2008, il rapporto tra il PIL complessivo delle 11 città metropolitane e il PIL nazionale ha mostrato una crescita del 6,8%. Nel caso di Roma e Genova oltre l’80% del PIL provinciale è realizzato dal comune capoluogo, mentre il restante 20% circa nell’area provinciale. Nelle città di Milano, Torino, Palermo e Bologna tale percentuale varia tra il 47% e il 50%. (Cittalia 2008).

Ma nelle grandi aree urbane sono anche più evidenti i fenomeni di polarizzazione sociale nella distribuzione della ricchezza e i rischi di povertà con un conseguente aumento delle differenti forme di marginalità. Il Rapporto UPI Lazio 2011 fotografa queste diseguaglianze nella distribuzione del reddito: il 7,5% dei contribuenti percepisce tra i 33,5 mila e i 40 mila euro, il 6,1% tra i 40 e i 50 mila euro, il 5,3% 50-70 mila euro, il 3,3% 70-100 mila euro e il 2,8% oltre 100 mila euro. Tali dati evidenziano la presenza di una distribuzione poco omogenea, in cui il 25,6% della popolazione meno abbiente detiene appena il 7,7% dei redditi distribuiti, mentre il 25% della popolazione più ricca assorbe il 54,3% dei redditi complessivi.

Il Lazio si colloca, nella graduatoria nazionale, in quarta posizione con un reddito medio familiare pari a 35.030 euro, dopo il Trentino Alto Adige (38.306 euro), la Lombardia (37.235 euro) e l’Emilia Romagna (35.579 euro). All’interno della regione si rilevano significative differenze, con un valore decisamente alto a Roma (38,5 mila euro) dove il reddito medio familiare risulta superiore a quello delle altre province di circa il 40%. Il Lazio risulta essere, infatti, una delle regioni italiane, dopo la Sicilia la Campania e la Calabria , dove si registra la più alta diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra i diversi ceti sociali, con l’indice GINI 2009 pari a 0,312, davanti a Lombardia e Piemonte che seguono con indice 0,301.

Un nuovo urbanesimo: Ecopolis versus Metropolis. La città laboratorio di una nuova democrazia
È indubbio che un nuovo urbanesimo non può che partire da una radicale critica del modello urbano generato dallo sprawl e dal rifiuto del connubio sviluppo-crescita urbana dominato dagli interessi e dalla logica del mercato e del profitto. Si tratta di un modello insostenibile sul piano ecologico, ambientale, umano, democratico. È un cancro da combattere con potenti cure chirurgiche che riducano le escrescenze che hanno infestato, come una metastasi, il corpo martoriato dei territori del nostro pianeta. A partire dalle nostre città che abitiamo e che amiamo.

Nel nostro paese è sotto gli occhi di tutti ed è oggetto della cronaca quotidiana il disastro provocato alle bellezze delle nostre antiche città e dei nostri territori da un industrialismo selvaggio e da una urbanizzazione anti-ecologica che ne hanno compromesso l’identità e gli equilibri ecologici. Penso in particolare al drammatico destino di una città che mi è cara, Taranto, distrutta nelle sue millenarie bellezze culturali, naturali, paesaggistiche, marinare, da una sciagurata scelta di cattiva industrializzazione che ne ha deturpato il volto e intossicata l’aria - oltre all’anima e ai corpi dei suoi cittadini - in nome del mito dello sviluppo a cui purtroppo non è stata estranea una cultura ‘sviluppista’ della sinistra politica e sindacale. I paesaggi delle città avvelenate da insediamenti inquinanti e nocivi costellano il nostro territorio da nord a sud. Se questo nostro paese avrà un futuro, questo sarà legato alla nostra capacità e volontà di saper uscire da quella storia passata riconsegnando i suoi territori martoriati e le sue città alla loro antica bellezza, oggi sfigurate dalla crisi e dalla decadenza della città fordista e da una urbanizzazione selvaggia.

Và innanzitutto recuperata la dimensione simbolica delle città, che le renda riconoscibili nei suoi spazi ed edifici pubblici, favorendo la riappropriazione da parte dei suoi abitanti di un senso di appartenenza smarrita. Và ridata alla bellezza delle città, dei suoi quartieri, dei suoi edifici pubblici, la funzione centrale che storicamente hanno sempre avuto. Le moderne periferie, non solo delle grandi città, sono invece un inno alla bruttezza architettonica che spesso coincide con la bruttura alienante e inumana della sua vita sociale.

Per sfuggire a questo destino dobbiamo riprendere nelle nostre mani il destino delle nostre città. All’origine della crisi della polis c’è la crisi e il fallimento della politica. E il rimedio, dice Latouche, deve essere “politico”prima ancora che “ urbanistico e architettonico”, per cui ”il progetto della decrescita passa necessariamente attraverso una rifondazione del politico e quindi anche della polis, della città e del suo rapporto con la natura”. Concordo con questa affermazione. Dobbiamo abbandonare il modello della città metropolizzata (Metropolis) e passare alla progettazione e ri-costruzione della città ecologica ( Ecopolis), e immaginare le città non più come indifferenziati agglomerati urbani, ma come una comunità di liberi cittadini che si autogovernano, riconciliando la politica con le virtù e le responsabilità civiche.

La globalizzazione e la de-territorializzazione dell’economia hanno determinato una riduzione del potere delle comunità locali nell’orientare le scelte dello sviluppo locale e il governo e la politica locale non governano più le città in nome dei cittadini e per il bene comune. Il gigantismo urbano da cui siamo afflitti è effetto e conseguenza della riduzione delle città a merce e della loro privatizzazione a favore dei poteri forti della speculazione finanziaria e immobiliare, della rendita urbana: i comuni si finanziano con l’espansione urbana e il consumo di territorio, svendendo e privatizzando i propri beni comuni. La politica che oggi detiene il monopolio della rappresentanza, è ormai prevalentemente ridotta ad ancella al servizio di questi poteri.

Le conseguenze del gigantismo urbano sono da un parte la sua insostenibilità ecologica che produce effetti devastanti nella qualità della vita urbana e sul territorio circostante, penso alla mobilità, alle discariche e agli inceneritori dei rifiuti, all’inquinamento dell’aria, della terra, dell’acqua, alla desertificazione della campagna; dall’altra la centralizzazione del sistema decisionale in nome della necessità di governare le emergenze ambientali, le grandi opere infrastrutturali e i ‘grandi eventi ‘ ( sportivi, religiosi, culturali), attraverso il conferimento di poteri eccezionali che aggirano le regole e le norme di legge, con effetti quasi sempre disastrosi, come l’esperienza di Roma insegna. Le forme di governo basate sulle istituzioni regionali e provinciali hanno fallito nella loro funzione di assicurare il governo del territorio e nell’impedirne la sua devastazione.

La legge 42/2009 sul federalismo fiscale, istitutiva delle 11 città metropolitane, ci promuovere una vera democrazia locale e un governo sostenibile del territorio. Le grandi città non possono essere più governate democraticamente in maniera centralistica, e la soluzione della città metropolitana così come prefigurata non sarebbe il rimedio adeguato. Che fare? Un’alternativa possibile alla crisi urbana può trovare le sue radici nel rilancio di un nuovo municipalismo e in un nuovo policentrismo territoriale e metropolitano ecologicamente auto-sostenibile, basato sulle bioregioni e sulla cooperazione municipale. In sostanza, mettere in campo il progetto di una “società ecologica” (Murray Bookchin).

Il primo passo è stabilire un nuovo rapporto tra urbano e rurale, tra città e campagna, mettendo fine all’espansione urbana e al consumo dissennato di suolo. I temi di un tale approccio possono essere così sintetizzabili:
a) incoraggiare forme innovative di cooperazione orizzontale tra comuni virtuosi per riconnettere e riunificare ambiti territoriali di area vasta partendo dalle specifiche peculiarità storiche, culturali, ambientali, morfologiche e geologiche del territorio, per promuovere sviluppo locale autosostenibile;
b) individuare in questo modo le nuove bioregioni, anche oltre gli attuali confini amministrativi, da governarsi attraverso la cooperazione e/o patti federativi tra comunità locali;
c) rimettendo in discussione l’attuale assetto delle regioni e delle province; d) instaurare una nuova democrazia urbana a partire dalle grandi città metropolitane, che assumerebbero la configurazione di città-regioni policentriche, con una forte decentralizzazione degli ambiti decisionali e di governo a scala di comune e di quartiere.

Territorio, ambiente e paesaggio devono tornare ad essere considerati come beni comuni non alienabili, da assoggettare ad un governo collettivo da parte delle comunità locali. Nel campo della pianificazione territoriale, gli ‘spazi aperti’ devono diventare ‘centrali’ al fine di contenere e riqualificare i modelli insediativi diffusi che sotto la forma della metropolizzazione hanno invaso il territorio periurbano, riconnettendo lo spazio urbano con quello rurale, riqualificando le periferie degradate, trasformando le aree e regioni metropolitane in “bioregioni urbane” ( Magnaghi, Fanfani 2010) e ridurre la loro impronta ecologica.

Dobbiamo uscire dalla logica del modello metropolitano centroperiferico, per abbracciare in pieno la logica e il modello policentrico e multipolare della bio-regione come eco-sistema urbano e rurale dotato di una forte capacità di auto sostenibilità. Il bioregionalismo si basa su un nuovo patto tra città e campagna e su un policentrismo municipale fatto di città autogovernate, di federazioni di comuni e di municipi urbani e rurali.

“Decentrare le grandi città in comunità a misura d’uomo è condizione indispensabile per una società ecologica” (Murray Bookchin). “Una nuova politica dovrebbe implicare la creazione di una sfera pubblica ’di base’ estremamente partecipativa, a livello di città, di paese, di villaggio, di quartiere” (Murray Bookchin ).
Questa nuova democrazia deve basarsi sulla rivitalizzazione e riscoperta del valore della comunità e sulla capacità di autogoverno dei cittadini e dei lavoratori a partire dal proprio quartiere e dalla gestione dei beni in comune: dalla vivibilità urbana agli spazi pubblici e agli spazi culturali, dalla modello ibrido di complicata gestione, legata alla adesione volontaria dei singoli comuni e non consegna un ancora definita sulle funzioni e i poteri fondamentali, gli organi e il sistema elettorale.

Si presenta come un modello di governance senza un’anima e senza uno spirito fondativo e costituente, non in grado di battersi affinché le bioregioni così individuate acquisiscano nel tempo sempre maggiori autonomie, fino alla possibilità di arrivare alla sovranità vera e propria, mobilità al recupero dei rifiuti urbani, fino alla partecipazione al governo dei beni e servizi pubblici primari. Penso ad una vera e propria riforma della rappresentanza politica e del sistema decisionale a favore di un co-governo tra istituti della democrazia rappresentativa e nuove forme di democrazia diretta e partecipata.

Dobbiamo inoltre immaginare un modello urbano diverso da quello che abbiamo ereditato dalla società industriale, insediato in prevalenza nelle pianure e nelle zone costiere fortemente antropizzate, e ridare invece centralità alle zone interne e appenniniche (Castronovi 2012), ora marginali, e ai piccoli comuni oggi semi-spopolati. Qui permangano risorse preziose di biodiversità, di terre incontaminate, di salubrità ambientale, di sedimenti culturali, che possono essere valorizzati in funzione di un modello alternativo di sviluppo, convivenza, di tutela e di valorizzazione delle risorse naturali, agricole e culturali del territorio.

Un nuovo urbanesimo passa attraverso le parole d’ordine della decentralizzazione urbana e della sua democrazia e di uno sviluppo locale auto-sostenibile che leghi i destini delle popolazioni a quello delle loro città e dei propri territori, sottraendo il loro controllo e il loro futuro alle logiche e al dominio della rendita e alle filiere lunghe della globalizzazione. Ma passa anche attraverso la costruzione e formazione di un carattere e di una integrità etica dei suoi cittadini (la paideia nell’antica democrazia ateniese), di una educazione a coltivare l’ethos pubblico come bene comune, con istituzioni e leggi che le promuovano e sorreggano. L’antidoto al rischio incombente di consegnare il nostro futuro ad oligarchie ed élite locali e globali predatorie, estranee ad ogni considerazione e legame di tipo comunitario, può essere rappresentato solo dall’emergere di un nuovo protagonismo e impegno civico, da cui può rinascere la polis come nuova democrazia saldamente ancorata in città a misura d’uomo, non più in conflitto con la natura.

Riferimenti bibliografici:
BAUMAN ZYGMUNT, Fiducia e paura nella città – Milano, Mondadori 2005

BAUMAN ZYGMUNT, Vite di scarto –Bari, Economica Laterza 2007
BONORA PAOLA ( a cura di ), Visioni e politiche del territorio. Per una nuova alleanza tra urbano e rurale - Quaderni del Territorio N. 2 -Gennaio 2012
BOOKCHIN MURRAY , Per una società ecologica- Milano, Eleuthera 1989
BOOKCHIN MURRAY, L’ecologia della libertà – Milano, Eleuthera 1984
CITTALIA 2008, Ripartire dalle città
CITTALIA 2010, La riforma metropolitana e i suoi dilemmi
DAVIS MIKE, Il pianeta degli slum – Milano, Feltrinelli 2006
FERRAROTTI FRANCO / MACIOTI MARIA IMMACOLATA, Periferie da problema a risorsa – Roma, Sandro Teti Editore 2009
ISPRA, Tabelle consumo di suolo in Italia- http://www.isprambiente.gov.it/it/events/il-consumo-di-suolo-lo-stato-le- cause-e-gli-impatti-1
LATOUCHE SERGE, Urbanesimo ecocompatibile e decrescita- Roma Congresso Eurosolar, Maggio 2011
MAGNAGHI ALBERTO, FANFANI DAVIDE, Patto città campagna, un progetto di bioregione urbana per la Toscana centrale- Firenze, Editrice Alinea 2010
MAGNAGHI ALBERTO, “Dalla città metropolitana alla (bio)regione urbana” in Anna Marson (a cura di), Il progetto di territorio nella città metropolitana- Firenze, Alinea 2006
RAPPORTO UPI LAZIO 2011
RAPPORTO DELLA RUR – CENSIS 2009
RAPPORTO CNA_CRESME 2012
RAPPORTO UN HABITAT 2010-2011 delle Nazioni Unite
SASSEN SASKIA, Le città globali - Torino,UTET 1997
SHIVA VANDANA, Le guerre dell’acqua – Milano, Feltrinelli 2003
SHIVA VANDANA , Il bene comune della terra – Milano, Feltrinelli 2006

«La recente conclusione a Bruxelles dei negoziati sulla nuova PAC, delude chi ha a cuore l’ambiente e l’agricoltura sostenibile di piccola scala. L’Europa sembra rimanere ancorata ai vecchi schemi del liberismo e delle lobbies multinazionali ». La Repubblica, 28 giugno 2013

Siamo uniti nella diversità o diversi nell’unità? La recente conclusione a Bruxelles dei negoziati sulla nuova Politica Agricola Comune, la Pac, pur con qualche interessante novità delude chi ha a cuore l’ambiente e l’agricoltura sostenibile di piccola scala, ma più di tutto ci pone domande sull’Europa. Ci interroga sulle prospettive future, su che cosa è comune e su che cosa non lo è.

La riforma che dovrebbe orientare la qualità del nostro cibo, un possibile e auspicabile ritorno alla terra delle nuove generazioni, la cura dell’ambiente e dei territori, ha perso un’occasione storica. È stata dibattuta come non mai, partecipata dalla società civile e dalle associazioni che hanno fatto sentire forti e chiare le loro istanze, ha coinvolto per la prima volta il Parlamento europeo per dar voce ai cittadini. Ma gli obiettivi di una politica agricola più verde, equa e in grado di destinare fondi pubblici (il 40% del budget europeo) in favore di beni pubblici come il paesaggio, la qualità dei suoli e la salute, sono stati in gran parte non raggiunti oppure demandati a decisioni degli Stati membri.

Ecco, al di là delle considerazioni su che cosa è stato deciso, è importante vedere che cosa invece non è stato deciso, lasciando libertà di scelta ai singoli Stati: la questione sul supporto ai piccoli agricoltori; la riduzione dei pagamenti più corposi (il 20% delle aziende prendeva l’80% dei sussidi) o del tetto massimo percepibile in un anno; la facoltà di dedicare buona parte delle risorse destinate allo sviluppo rurale – cioè a pratiche ecologiche, sociali e produttive all’avanguardia – in favore delle rendite fondiarie (i pagamenti diretti in funzione di quanta terra si possiede) o per forme assicurative private che possono diventare deleterie.

Ora ai cittadini toccherà fare pressione sui loro Governi, il lavoro non è finito. Ma a cosa serve una Politica Agricola così importante in termini di budget e di argomenti, che dovrebbe sin dal nome essere Comune, se comune non lo è? Se non è in grado di proporre idee forti, che paghino con i nostri soldi qualcosa per cui tutti potremo avvantaggiarci? Qualcosa che ha a che fare con i beni comuni? C’è chi ha fatto notare che s’intravede nella mancanza di certe decisioni una sorta di “de-europeizzazione”.

È questione non da poco, perché ci sono diversi “fronti” che la Pac dovrebbe avvicinare, su cui dovrebbe mediare o essere dirimente in favore dei cittadini. Il primo lo potremmo chiamare “agroindustria contro piccola agricoltura”. Ci si può accapigliare all’infinito se era meglio o no obbligare tutte le aziende a destinare una piccola percentuale dei loro terreni al mantenimento di aree con funzione ecologica (3, 5 o 7%? Per la cronaca ha “vinto” il 5), ma di cosa stiamo parlando di fronte al fatto che da un lato abbiamo aziende che percepiscono 300.000 euro all’anno di sussidi mentre per i piccoli agricoltori gli Stati possono scegliere di dare un contributo annuo fino a 1.250 euro? Cosa cambiano queste cifre nell’economia di un’azienda? Lecentinaia di migliaia di euro mantengono in piedi un sistema monoculturale e non sostenibile; il migliaio sembra invece un “regalino” che certo non cambia il lavoro e la vita di una piccola azienda. È vero, ai piccoli agricoltori sono stati tolti molti obblighi burocratici, ma un aiuto concreto è un’altra cosa. In proporzione il contributo che loro restituiscono in cibo sano e buono, in cura del territorio e in beni di tutti è infinitamente più prezioso di mille euro all’anno. Da questo punto di vista la riforma Pac sembra abbia “cambiato affinché nulla cambiasse”: il grosso della torta continua ad andare ai grossi.

Un altro fronte sono le agricolture degli Stati membri di lungo corso contro quelle degli ultimi arrivati, i Paesi dell’Est. Queste ultime sono agricolture fragili, meno moderne e per questo ancora ricche di diversità naturale e produttiva: hanno diritto di crescere, ma anche di essere in qualche modo tutelate. Si parlava di “convergenza interna” per equiparare i sussidi, ma anche in questo caso alla fine decideranno i singoli Stati.

Poi c’è la questione “Europa contro Paesi in via di sviluppo”. In questo caso, se si guarda fuori dai confini continentali, ecco che magicamente torna l’unione: non è stato previsto nessun meccanismo di monitoraggio sugli effetti delle politiche commerciali della Pac – come i sussidi alle esportazioni o prezzi artificiosamente bassi – nei confronti dei piccoli agricoltori in Asia e in Africa.

Sono rimasti tutti uniti anche per annacquare le misure di “inverdimento” o “greening” delle pratiche agricole. È importante che il concetto sia stato introdotto, ma sono state anche previste così tante eccezioni nei regolamenti attuativi che il 60% delle terre coltivate europee alla fine potrebbe esserne esentato. Un buon indirizzo, ma un obbligo soltanto sulla carta.

Anche se si registrano alcuni aspetti positivi, come il già citato snellimento burocratico o l’aumento di risorse per i giovani agricoltori, questa è una Pac che lascia l’amaro in bocca. L’Europa sembra rimanere ancorata ai vecchi schemi del liberismo e delle lobbies multinazionali, senza il coraggio di proporre veri cambiamenti legati a prospettive nuove, mondiali, moderne. Quest’Europa ha generato una Politica Agricola Comune che ha poco di comune, che sembra nascondersi dietro le frammentazioni invece di imporre a tutti un indirizzo alto e nobile, severo e nell’interesse pubblico.

In tema di cibo e agricoltura, questa stessa Europa ci spinge a ripartire dalle nostre diversità per raggiungere un’unità che evidentemente è ancora tutta da definire. Mentre i piccoli agricoltori lottano da soli, i giovani hanno difficoltà a tornare alla terra, l’agroindustria continua a dominare e lo sviluppo di nuovi paradigmi sociali, economici, culturali, agricoli e alimentari, è lasciato tutto in mano a quei cittadini e contadini europei (loro sì!) dotati di tanta buona volontà e di copiose fresche idee. A ben pensarci, forse, sono proprio loro gli unici che ci fanno intravedere come sarà la vera «unione europea » del futuro.

Il problema della sostenibilità o meno delle attività umane, dipende ovviamente anche da quanti sono, gli umani che svolgono queste attività. Non sempre ci si pensa. Corriere della Sera, 27 giugno 2013 (f.b.)

Il World Population Prospect per il 2012, rapporto Onu sugli andamenti della popolazione mondiale pubblicato il 13 giugno, raffredda gli ottimismi circa un rallentamento della crescita demografica. Invece dei 10,1 miliardi in arrivo per la fine del secolo del precedente rapporto, nel 2100 si arriverà agli 11 miliardi, pur con l'aleatorietà che previsioni a così lunga distanza possono presentare. La maggior parte dell'aumento si avrà, come previsto, nelle popolazioni in via di sviluppo, che passeranno dai 5,9 miliardi del 2013 agli 8,2 del 2050, mentre quelle delle regioni sviluppate rimarranno abbastanza stabili attorno a 1,3 miliardi. In Africa la popolazione salirà dagli 1,1 miliardi attuali ai 2,5 miliardi nel 2050. In questo continente nel 1950 vivevano 227 milioni di persone, nel 1975, 419 milioni e nel 2009 erano già più di un miliardo.

Nel recente libro di Lester Brown, presidente dell'Earth Policy Institute pubblicato in Italia col titolo 9 miliardi di posti a tavola a cura di Gianfranco Bologna, la veloce crescita demografica, accoppiata a uno sviluppo incontrollato dei consumi, colpisce tutte le basi della vita sulla Terra. Aumenta la richiesta di acqua per usi irrigui e già oggi gran parte delle acque dei grandi fiumi è oggetto di contese tra le nazioni rivierasche; il progressivo inurbamento in molte aree fa aumentare a dismisura le esigenze idriche; nel contempo la distruzione delle foreste per sopperire alla carenza di terre coltivabili e di pascoli per il bestiame (in Africa i capi di bestiame sono passati da 352 milioni nel 1961 agli 894 milioni attuali) aggrava lo stato di erosione e la perdita di suoli fertili con gravi conseguenze sul clima e sulle barriere coralline. Infine i prelievi di risorse ittiche per una popolazione in crescita sia nei numeri sia nelle esigenze alimentari, stanno mettendo a rischio per sovrasfruttamento l'80% delle riserve ittiche oceaniche in tutto il Pianeta. Questa situazione pone l'Umanità di fronte a un grave dilemma: o proseguire imperterriti nel consumo delle risorse e nella crescita demografica o imparare a vivere nei limiti di una sola Terra, l'unica che abbiamo.

Pubblichiamo questa testimonianza di un protagonista della politica e dell'ambientalismo veneziano, con cui non sempre siamo d'accordo ma di cui condividiamo pienamente l'accorata denuncia delle colpe dei singoli e delle istituzioni chiamati in causa

Lettera aperta

Nei prossimi giorni giungerà a sentenza a Roma un processo che dura da anni, che riguarda una storia importante che forse molti hanno dimenticato e di cui magari non importa quasi più niente a nessuno, ma che potrebbe pesare molto sulla mia vita così come, in verità, sta già accadendo da tempo. E’ un processo che, a latere, ma non tanto, dell’argomento scatenante, per le modalità in cui si è svolto, chiama in causa anche la natura stessa della rappresentanza democratica e la possibilità, attraverso atti istituzionali così come attraverso la libera stampa, di porre domande scomode, di cercare la verità anche su fatti scabrosi.

E’ una storia che ri-comincia alcuni anni fa, nel 2005, ma che rinvia a qualcosa che è accaduto in tempi più lontani, nel 1990 a Porto Marghera, e che oggi sta per giungere a un primo epilogo, dopo un lungo processo presso il tribunale di Roma, nel quale sono coinvolto come imputato. Rischio di essere condannato a pagare un milione di euro più le spese legali, somma che (perfino in dimensioni molto minori di queste) naturalmente non possiedo, con tutte le conseguenze del caso a mio carico. A scanso di equivoci, anticipo subito che lo scopo di questa mia nota è solo di far conoscere una storia che ha implicazioni pesanti di natura generale, non solo per me. Per quanto riguarda la mia vita, in ogni caso, cercherò di arrangiarmi. Qui vi chiedo soltanto, per favore, di leggere con un po’ di attenzione il racconto che segue.

Nel febbraio del 2005 a firma del giornalista Riccardo Bocca il settimanale “L’Espresso”, nel quadro di una più vasta inchiesta che si occupava tra l’altro delle piste seguite da Ilaria Alpi prima di essere assassinata insieme a Miran Hrovatin a Mogadiscio nel 1994, pubblicò un articolo su un traffico di rifiuti tossici e nocivi. In particolare si occupò del carico trasportato dalla motonave “Jolly Rosso” che nel 1989 il governo italiano aveva inviato a Beirut per recuperare circa 2 mila tonnellate di rifiuti tossici, contenute in circa 10 mila fusti, scaricate tempo prima da un’azienda lombarda (la Jelly Wax), secondo una prassi che aveva visto per anni molte aziende italiane smaltire, spesso con complicità mafiose e perfino di apparati dello Stato, rifiuti tossici in altri paesi, oppure affondandoli in mare (dopo averli a lungo smaltiti sul territorio nazionale in discariche abusive, avvelenando buona parte di certe regioni). Rientrata in Italia, la Jolly Rosso rimase dapprima all’ancora in rada e poi entrò nel porto di La Spezia in attesa che si decidesse come e dove smaltirne il carico tossico, cosa che infine fu stabilito dovesse avvenire in alcuni siti industriali, tra i quali Porto Marghera, precisamente nell’impianto SG31 della Monteco nell’area del petrolchimico.
E’ a questo punto che la storia di quei rifiuti diventa anche una nostra storia, e infine una storia mia.All’epoca ero consigliere di quartiere a Marghera e, insieme ai Verdi e agli ambientalisti della città, in diretto contatto con operai delle fabbriche chimiche, partecipai attivamente alla mobilitazione per conoscere l’esatta composizione di quei rifiuti. Dall’interno della fabbrica, infatti, ci avevano segnalato alcune inquietanti anomalie a proposito dei fusti trasferiti qui nell’aprile 1989 dalla “Jolly Rosso” che, tra l’altro, tendevano a gonfiarsi. Sempre da dentro la fabbrica ci venne detto che, nei rifiuti, sarebbe stato presente anche una certa quantità di URANIO. Malgrado le proteste - compresa una petizione all’Ulss veneziana (allora la n.36) sottoscritta da 50 operai del petrolchimico che denunciava “l’insostenibile situazione creatasi in seguito alle continue emissioni di fumi e per altre sostanze di origine ignota” - a partire dall’8 novembre i rifiuti tossici vennero bruciati nell’impianto SG31.

Di fronte alle proteste, il direttore del servizio di Igiene pubblica dell’Ulss 36 reagì contestando le valutazioni espresse dagli operai sottoscrittori della petizione e dagli ambientalisti e, anzi, presentò un esposto alla Procura di Venezia perché si sarebbe contribuito a “diffondere disinformazione per creare allarme tra la popolazione”. L’esposto fu archiviato.

Di questa storia si tornò a parlare, appunto, nel febbraio 2005 quando L’Espresso, ricordando quella vicenda, citò una relazione dell’Ulss 36 datata 28 febbraio 1990 nella quale, analizzando la condensa dei fumi usciti dal forno SG31 in due momenti diversi, 19 gennaio e il 7 febbraio 1990, si conferma la presenza di uranio. L’Espresso riportò anche il commento di Gianni Mattioli, allora docente all’Università di Roma, il quale, sottolineando come “le concentrazioni rilevate dall’Ulss 36 sono certamente preoccupanti e superano le percentuali allora fissate per legge”, anche considerando che i fumi del camino “prima di toccare terra subiscono una significativa diluizione”, sostenne che “nessuno può negare che sia stata smaltita una sostanza radioattiva. Anzi, è necessario aprire un’inchiesta per capire che tipo di uranio fosse, visto che l’Ulss non lo indica. Si trattava di combustibile esaurito di reattori? O di uranio impoverito? O, ancora, di combustibile nucleare?”

Nel febbraio 2005 ero Prosindaco della città (lo rimasi fino all’aprile di quell’anno) e consigliere regionale (lo sarei rimasto fino al 2010). In questa duplice veste chiesi a chi di dovere spiegazioni su tale vicenda, di cui come si è visto mi ero già occupato molti anni prima, alla luce degli elementi nuovi che L’Espresso aveva pubblicato. Presentai, dunque, un’interrogazione al presidente della giunta regionale del Veneto, nella quale, dopo aver sommariamente riassunto la vicenda, chiedevo alla giunta “se è a conoscenza dei fatti; qual è l’entità e la natura dell’inquinamento radioattivo, se intende rendere pubblico il referto dell’Ulss tenuto segreto per 15 anni”.

La pubblicazione dell’articolo e la mia interrogazione (oltre a una, analoga, presentata alla camera dei deputati dall’allora parlamentare Luana Zanella) provocarono l’immediata reazione dell’ex responsabile del servizio di igiene pubblica dell’Ulss, il dott. Corrado Clini, che nel frattempo, dall’inizio del 1990 si era trasferito a Roma al Ministero dell’Ambiente, del quale diventerà e resterà a lungo Direttore generale (e, di recente, com’è noto, anche ministro, fino all’aprile 2013). Clini contestò in toto, con dichiarazioni riprese dalla stampa e dagli altri media, la ricostruzione dell’Espresso e contro il settimanale e contro gli autori delle due interrogazioni in sede regionale e parlamentare, il sottoscritto e Luana Zanella, presentò querela in sede civile presso il tribunale di Roma.

Al dottor Clini, sia il sottoscritto sia Luana Zanella, risposero, con un comunicato ufficiale, che nelle interrogazioni in Regione e in Parlamento il suo nome veniva citato solo a proposito delle critiche che egli aveva rivolto, all’epoca dei fatti, agli ambientalisti e che nessuna insinuazione o affermazione esplicita era rivolta nei suoi confronti e ogni riferimento a fatti specifici era posto al condizionale, quando non supportato da precisi referti e che dunque il solo fine dei nostri atti istituzionali era la piena conoscenza di quanto avvenuto intorno alla vicenda Jolly Rosso, cosa in seguito ribadita in diverse occasioni.

Alla vigilia del processo, il parlamento tutelò, come da prassi, l’on. Zanella rifiutando l’autorizzazione a procedere in quanto l’atto istituzionale - l’interrogazione - è prerogativa inviolabile di deputati e senatori. Sulla stessa linea si mosse la giunta regionale di allora (2005 - 2010) presieduta da Giancarlo Galan, che incaricò il prof. Mario Bertolissi, docente di Diritto costituzionale all’Università di Padova, di stilare un ricorso per conflitto di attribuzione presso la Corte Costituzionale la quale, dopo alcuni anni nel corso dei quali il processo rimase sospeso presso il Tribunale di Roma, stabilì che la Regione dovesse porre la questione all’apertura effettiva del processo.

Si giunse quindi, nel 2010, all’apertura del processo nel quale, come imputati, eravamo rimasti soltanto il sottoscritto e il giornalista Riccardo Bocca autore del servizio pubblicato dall’Espresso. Nel frattempo era mutata la giunta regionale, ora presieduta da Luca Zaia, e il sottoscritto, non più consigliere regionale, provvide a segnalare alla Regione la necessità di procedere secondo l’indicazione della Corte Costituzionale e secondo la stessa prassi seguita dalla Regione da sempre, volta a tutelare il diritto dei suo eletti a porre, attraverso interpellanze, interrogazioni e altri atti ispettivi, qualunque domanda si ritenga necessaria per conoscere una data situazione e un dato problema.

La Regione, tuttavia, non ha mai provveduto a sollevare il conflitto di attribuzione, non ha mai difeso, in questo processo, il diritto dei propri rappresentanti - che sono, nella regione, rappresentanti del popolo esattamente come i parlamentari lo sono a livello nazionale - a essere tutelati nelle proprie prerogative. Le quali non sono affatto dei privilegi ma rappresentano la garanzia che, in nome dei cittadini tutti, si possano porre anche le domande più scomode, anche nei confronti di chi è potente, persona o istituzione che sia.

La Regione, a differenza di come si è sempre comportata in passato, ha lasciato aprire il processo, lo la lasciato continuare e infine chiudere, senza muovere un dito. Creando, così, un precedente pericolosissimo sia sul piano istituzionale e formale sia su quello sostanziale. Se passa il principio che si può querelare un’interrogazione, un atto ispettivo (insieme alle dichiarazioni che lo illustrano), si crea un vulnus letale nella rappresentanza e nei suoi diritti e poteri. Ignoro il motivo di questa scelta: si può pensare a sciatteria oppure a precisa volontà politica di discriminare il sottoscritto o ad altri motivi ancora. L’effetto è che comunque viene minata la pienezza del mandato istituzionale e che uno strumento indispensabile per l’accertamento delle verità viene svuotato.

Non ho niente da dire sul dott. Corrado Clini. Egli - assistito dal grande studio legale che presta anche consulenza giuridica al ministero per l’Ambiente - esercita una possibilità che l’attuale normativa lascia a chiunque, specie se potente, scambi le critiche per reati e dunque voglia e possa tenerti per anni in un processo, costoso, lungo, scomodo, scoraggiante per chiunque non disponga di mezzi per sostenere questa pesante prova. E’ la legge che andrebbe cambiata, come da tempo sostengono in molti, dall’Associazione art. 21 a giornalisti e operatori dell’informazione ad associazioni e attivisti che si vedono opporre querele milionarie e processi insostenibili per modi e tempi. Ed è la Regione del Veneto a dover essere indicata come un ente che non rispetta sé stesso né i propri esponenti, che non ha avuto in questo caso la dignità di rivendicare il proprio ruolo non certo a difesa di un privilegio bensì a tutela del diritto di tutti i cittadini alla piena e inviolabile rappresentanza.

Ora, infine, sto aspettando la sentenza, che dovrebbe giungere a giorni, se non a ore. L’aspetto con un carico di vera angoscia determinato sia dal rischio concreto - pagare una cifra esorbitante, che non possiedo, e restare magari per altri anni inchiodato a un processo che anche in caso di assoluzione continuerebbe in Appello e in Cassazione, con altre spese e altre complicazioni, e con rischi immutati - sia dalla prospettiva di veder dissolversi, per l’ignavia o a causa della complicità attiva della Regione Veneto, forme consolidate di tutela per chi, per ruolo istituzionale (come i consiglieri o gli amministratori) o per attività professionale (come i giornalisti), ha il diritto e il dovere di porre anche le domande più scomode, di continuare a cercare la verità su vicende in cui siano in gioco l’interesse pubblico e il diritto a sapere di tutti i cittadini.

Venezia, giugno 2013

La moratoria, pur positiva in sé, sulle nuove concessioni commerciali, sembra nascere da una filosofia sostanzialmente protezionista e reazionaria, senza troppo futuro. Corriere della Sera Milano, 26 giugno 2013, postilla (f.b.)

Stop ai nuovi super e ipermercati in Lombardia. Da qui alla fine dell'anno. L'obiettivo in questi sei mesi è mettere a punto una riforma della legge regionale del commercio. Restrittiva rispetto alla grande distribuzione.

Il congelamento dei nuovi progetti ieri è stata votato all'unanimità. Tutti favorevoli, dal Pdl alla Lega, passando per Pd e M5S. Il testo iniziale è stato addirittura reso più severo: bloccati anche gli ampliamenti delle strutture già esistenti. Si fermano gli accordi di programma di Cinisello Balsamo (Immobiliare Europea spa); Cerro Maggiore e Rescaldina (Cr Sviluppo); Como (Esselunga, area Camerlata); l'ampliamento Esselunga a Calco (Lecco); il progetto di Curtatone, in provincia di Mantova (Comet spa); Marmirolo (sempre Mantova, Cgi srl); Leroy Merlin a Solbiate Arno; Locate Triulzi (Locate District srl). Potrà andare avanti, invece, il progetto nel nuovo quartiere milanese di Citylife, «salvato» da un emendamento che preserva le iniziative legate a Expo.

A nessuno sfugge che la vera partita inizia ora. Con il confronto per arrivare a una nuova legge regionale sul commercio. La Lombardia di Roberto Maroni non ha nessuna intenzione di spingere sull'acceleratore della concorrenza. I segnali sono inequivocabili. Da una parte mercoledì 19 giugno il consiglio regionale ha invitato con una mozione la giunta a intervenire presso il governo per una revisione delle disposizioni in materia di liberalizzazioni degli orari. Dall'altra è stata bloccata la sperimentazione che permetteva di ribassare i prezzi anche nel mese prima dei saldi.

«Quello di ieri è un primo passo verso la valorizzazione dei negozi di vicinato — chiarisce l'assessore regionale al Commercio, Alberto Cavalli —. E' evidente a tutti che oggi a essere in difficoltà sono i punti vendita di vicinato. Anche in vista di Expo non possiamo permetterci centri cittadini desertificati». Determinante per l'evoluzione della partita lombarda saranno gli esiti in parlamento del dibattito sulla normativa del commercio. Sempre più il decreto Salva Italia varato dal governo Monti è sotto assedio. Una sua revisione, nella direzione di una maggiore libertà a ciascuna Regione di stabilire le proprie regole, lascerebbe alla Lombardia le mani libere. «Il nostro obiettivo è salvaguardare l'occupazione nel settore e nello stesso tempo garantire un modello commerciale sostenibile. Salva Italia permettendo», puntualizza Angelo Ciocca, Lega, a capo della commissione Commercio del Pirellone».

La grande distribuzione sa di dover nuotare controcorrente: «Contro la restaurazione del commercio andremo in tutti gli antitrust di questo mondo». Dal canto suo Confesercenti fa pesare in ogni sede le 150 mila firme raccolte contro il Salva Italia. Sul fronte delle dinamiche interne al consiglio, da segnalare l'approvazione dell'emendamento che blocca anche gli ampliamenti di super e iper, nonostante il parere contrario della maggioranza. Soddisfatto il Pd. «Abbiamo chiesto noi il voto segreto — fa notare Dario Violi del M5S —. Questo ha evitato che il provvedimento venisse annacquato».

Postilla

Da quanto emerge dall'articolo, e da segnali precedenti comparsi sulla stampa, appare abbastanza chiaro che si stia girando attorno al solito nodo: il commercio tradizionale di vicinato, inteso come piccoli operatori al dettaglio (che portano più voti) contro i grandi contenitori prevalentemente periferici o extraurbani della distribuzione organizzata. In modo complementare e collegato, rientra anche la questione dei tempi di apertura, i festivi, i notturni e via dicendo. Insomma, invece di un percorso decisamente orientato, per quanto nelle difficoltà, verso la riqualificazione invece dello spreco di suolo, la valorizzazione delle economie urbane e locali (dell'Expo si parla a proposito di tutto, salvo delle produzioni agricole regionali distribuite localmente), la rivitalizzazione di quartieri, rieccoci al vetusto muro contro muro di modernizzatori e conservatori. Anche se nel caso specifico poi destra e sinistra politica si mescolano parecchio negli schieramenti di merito. Certo da una presidenza della Lega non era lecito aspettarsi chissà cosa, ma la speranza è l'ultima a morire. Se dal letame nascono i fior, magari anche dall'ennesima baruffa tra bottegai di quartiere e spietati manager globalizzati potrebbe venire qualcosa di buono, chissà (f.b.)

il Fatto quotidiano online, 25 giugno 2013

Il disegno di legge ‘sulle semplificazioni’ varato dall’ultimo Consiglio dei Ministri prevede che le opere d’arte nei depositi dei musei italiani possano essere prestate a pagamento a musei stranieri che vogliano esporle (fino a venti anni) in spazi ‘dedicati alla cultura italiana’.
Noleggiare il patrimonio non è un’idea nuova: una analoga trovata era contenuta in un disegno di legge di un certo Domenico Scilipoti, e poi nei pensamenti dei famosi Saggi Maschi Anziani nominati da Napolitano. Prima ancora era una proposta dell’ultraliberista Istituto Bruno Leoni, nonché una bandiera del Giornale. E ci si chiede che idea abbiano tutti costoro della dignità e del prestigio dell’Italia, che si ridurrebbe ad escort della vita culturale internazionale.

L’idea è sbagliata perché i depositi dei musei non sono magazzini polverosi, ma una riserva (visitabile per tutti coloro che lo chiedano) che funziona come la cassa di espansione di un fiume: il museo si allarga e si contrae, ed è un unico campo di ricerca, che non si può smembrare a piacimento per decenni. Sarebbe come noleggiare, per anni, i volumi meno richiesti delle nostre biblioteche.

Ed è un’idea anche pericolosa, perché per la prima volta una norma di legge prevederebbe non una valorizzazione culturale (come impone il Codice dei beni culturali), ma una messa a reddito diretta del patrimonio: e di qui alla vendita il passo sarebbe quasi automatico, e giustificabile con gli stessi (pessimi) argomenti.

È poi facile immaginare che le stesse pressioni che oggi i direttori dei musei subiscono per prestare i ‘capolavori’ alle mostre, domani le subirebbero per periferizzarli nei depositi: e metterli così a disposizione dei noleggiatori. E, a quel punto, chi potrebbe resistere ai fondi sovrani dei paesi arabi, che si accingono a comprare l’Alitalia?

Dal ministero dei Beni culturali replicano che questa sarebbe solo una ‘facoltà’, e che i direttori dei musei potrebbero sempre opporsi. È un’obiezione curiosa: lo strapagato staff centrale del Mibac apre una falla confidando che venga chiusa dai sottopagati e umiliati direttori dei musei! Quegli stessi direttori che (insieme ai funzionari responsabili del territorio, vera trincea della tutela) una pessima circolare diramata proprio in questi giorni dal segretario generale del ministero, Antonia Pasqua Recchia, sottopone alla vessazione di una rotazione triennale che è il frutto avvelenato di una pedissequa applicazione di alcune norme internazionali per la prevenzione della corruzione.

La circolare rischia di stroncare ogni serio progetto di ricerca e divulgazione museale: e la motivazione appare pretestuosa, perché i musei italiani non sono (purtroppo) autonomi centri di spesa. Se proprio qualcuno deve essere a rischio di corruzione, si tratta semmai dei gradi superiori: i soprintendenti e i direttori regionali. E invece questa norma rischia di avere risultati paradossali: potrebbe dover ruotare Antonio Natali (che è lo specchiato direttore degli Uffizi dal 2006) e invece rimanere fermissima al suo posto Cristina Acidini (dallo stesso anno sua superiora diretta come soprintendente di Firenze), che è in attesa di giudizio alla Corte dei Conti per un danno erariale di 600.000, per aver fatto comprare allo Stato un Crocifisso ligneo implausibilmente attribuito a Michelangelo. La verità è che i direttori di museo sono spesso gli ultimi argini che proteggono il patrimonio da una valorizzazione selvaggia: e invece di rafforzarne la dignità e l’autonomia (come da tempo sarebbe necessario), con questa assurda norma una parte della burocrazia centrale del Ministero sembra cercare una facile resa dei conti.

E in tutto questo che fa il ministro Massimo Bray, che tanta fiducia ha suscitato nei ranghi periferici della tutela, e nei cittadini che amano il patrimonio culturale? L’impressione è che non sia facile risalire la china di anni in cui i ministri dei Beni culturali sono stati soggiogati dai colleghi dell’Economia e dello Sviluppo (i quali si permettono di proporre per decreto modifiche al Codice dei Beni culturali), ma anche immobilizzati da una alta burocrazia interna che è ormai la vera guida del Mibac.

Bray si sta dedicando con passione ed energia a risolvere le singole, quotidiane emergenze partorite da un sistema al collasso. È riuscito ad arginare l’imperialismo della Protezione Civile, e ha rigettato l’ipotesi di cedere alla gestione dei privati con fini di lucro i monumenti economicamente improduttivi: ma non è riuscito a bloccare il noleggio ai musei stranieri, e ha potuto leggere la circolare sui direttori dei musei (approvata da Ornaghi) quando ormai era stata diramata.Gli alti papaveri del Mibac (benevolissimi verso gli imbelli Bondi, Galan e Ornaghi) osteggiano e ora criticano apertamente Bray, perché è fin troppo evidente che ha davvero voglia di cambiare lo stato delle cose.

Ma se questa voglia non si trasforma velocemente in una visione precisa e coerente, e nella forza di attuarla, la maledizione dei Beni culturali rischia di colpire anche Bray. E se anche questi dovesse fallire, per il nostro povero patrimonio storico e artistico ci sarebbe ben poco da fare.

© 2025 Eddyburg