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Partecipando con Paolo alla manifestazione contro le Grandinavi mi ha interessato molto una sua riflessione che andsva oltre oltre l’eventoe il tema. Gli ho chiesto di scrivere un pezzo. Eccolo. Per sconfiggere i mostri è necessarioun lavoro di lunga lena, a partire dalle teste.

Sono stato dentro una “grande nave” solo una volta, più di dieci anni fa, alla Fincantieri di Marghera in occasione del varo di un nave da crociera della Disney. Mi impressionò il kitsch degli arredi. Davvero inimmaginabili. Il Titanic al confronto era un esempio di sobrietà. Lampadari finti Murano anche nei bagni, specchi e quadri ad olio fatti a mano in serie con cornici massicce d’oro, maniglie, cerniere, passamani, viti… d’ottone in ogni dove, moquette blu, arancio, gialle con esplosioni di disegni floreali. Palestre fitness con biciclette con vista sul mare. Saune stile Trentino con legno di plastica. Cinema, teatrino, negozi. Ma soprattutto slot machine dappertutto. Mi spiegarono che una grande nave ha due gioielli: uno è il casinò (due, tre, quattro a seconda della grandezza della nave), l’altro la sala comandi di sicurezza, collocata in un caveau inaccessibile ed inespugnabile nel ventre basso della nave, che entra automaticamente in funzione in caso di attacco terroristico.

Non si va in crociera, si “fanno”. Ascoltate le conversazioni tra i frequentatori: “Quest’anno ho fatto Istanbul e Cairo”. “Io invece ho fatto Algeria e Marocco”. “Il prossimo anno mi faccio le Maldive”. Non si va in un luogo. Non si visita una città. Non si viaggia. Ci “si fa” un viaggio. Lo si compra in agenzia, lo si colleziona e lo si confronta con quello dell’anno precedente: con quale compagnia si mangia meglio, c’é gente migliore, ci si diverte di più. Lo scopo è stare in una nave più giorni possibile spendendo di meno. La nave è un parco divertimenti galleggiante da frequentare in famiglia, con gli amici o da soli in cerca di avventure.

In una delle ultime manifestazioni del comitato contro le Grandi navi abbiamo cercato di bloccare gli accessi alla Marittima. C’era da avere più paura dei crocieristi inferociti che arrivavano al Tronchetto da Piazzale Roma e dalla Stazione trascinandosi dietro valige, bambini e nonni, che non della polizia. Avevano paura di arrivare tardi all’orario dell’imbarco.

Ho avuto allora la precisa sensazione che la battaglia contro le grandi navi (che vorrei fuori dal Bacino di San Marco, dalla Laguna, dall’Adriatico e da ogni mare) fosse perduta in partenza. Come quella contro la droga, il gioco d’azzardo o la prostituzione. Inutile sperare di eliminare gli spacciatori, i biscazzieri o i procacciatori di schiave sessuali fino a quando esisterà – in un mondo dominato dal libero gioco del mercato – una domanda incontenibile di questo tipo di “beni e servizi”.

Anche nel nostro caso, la questione giusta da porsi è allora questa: cosa spinge centinaia di migliaia di persone a spendere tutti i sudati risparmi di un anno per fare una crociera su una supernave? Cosa ci trovano tante brave e comuni persone in quel tipo di “vacanze”? Quali modelli culturali e comportamentali colonizzano le menti del consumatore di crociere? Chi e come riescono ad indurre simili gusti e preferenze “di massa”? Io credo che l’origine di tutto ci sia la televisione. (Ricordate che una delle campagne elettorali di Berlusconi iniziò in una “grande nave” in Bacino San Marco?). Si entra in una crociera come se si entrasse in un set di un reality show. Per una settimana si diventa i protagonisti di “Scherzi a parte”, “I pacchi”, “Saranno famosi”… e di non so quali altri spettacoli televisivi vengono inoculati quotidianamente da tutte le reti ad ogni ora del giorno e della notte.

Mi torna alla mente il grandissimo Aldous Huxley de Il mondo nuovo (scritto nel 1932), in cui si immagina un “governo centrale”, un “super stato” e una “superorganizzazione” che riescono ad ottenere “l’abolizione del libero arbitrio mediante il condizionamento metodico, la soggezione resa accettabile grazie alla felicità indotta clinicamente, a dosi regolari, l’ortodossia martellata in capo alla gente” (Ritorno al mondo nuovo, Arnaldoo Mondadori, 1991). Si ottiene così un controllo su tutto e su tutti, inducendo ogni individuo ad una condotta prestabilita. Gli individui, avviliti e delusi, in stato cronico di ansietà, perdono la capacità di ragionare, diventano suggestionabili. Il risultato è la creazione di “creature subumane”, disindividualizzate, in uno stato di “amenza frenetica” e di “idiozia morale”. Sempre Huxley cita Erich Fromm: “La nostra società occidentale contemporanea, nonostante il progresso materiale, intellettuale e politico, è sempre meno capace di condurre alla sanità mentale, e tende a minare la sicurezza interiore, la felicità, la ragione, la capacità d’amore nell’individuo; tende a trasformarlo in un automa che paga il suo insuccesso di uomo con una sempre più grave infermità morale, con la disperazione che si cela sotto la frenetica corsa al lavoro e al cosiddetto piacere”.
Venezia, 23 settembre 2013

Poteva (potrebbe) essere la città modello per un equilibrato rapporto tra storia e natura, tra sapere e potere, tra conservazione e trasformazione. Invece è diventata il modello della mercificazione di un patrimonio universale. Il Fatto quotidiano, 22 settembre 2013

L’assedio perpetuo e invincibile delle Grandi Navi non è che il culmine teatrale e simbolico della morte di Venezia, e del suicidio del nostro Paese. Venezia non è più una città: i suoi cittadini sono espulsi, giorno dopo giorno, da un processo (ormai avanzatissimo) di trasformazione in macro-oggetto di consumo con servitù inclusa nel prezzo. I numeri sono chiari: contro 8 milioni di turisti che vi trascorrono almeno una notte e 12 milioni di turisti-cavallette giornalieri, a Venezia resistono meno di 59.000 residenti (calati del 66% in sessant'anni: erano 174 mila all'inizio degli anni Cinquanta).

Perché? Perché una classe dirigente a metà tra l’incapace e il criminale ha trasformato una città in un prodotto di marketing, svendendo, distruggendo, privatizzando, banalizzando. Un processo ricostruito nei dettagli da Raffaele Liucci in un pamphlet urticante e azzeccatissimo: Il politico della domenica. Ascesa e caduta di Massimo Cacciari (Stampa Alternativa, 2013). Non era obbligatorio: come fa notare Sergio Pascolo in Abitando Venezia (Corte del Fontego, 2012), “a New York nel 2011 ci sono stati 50 milioni di turisti. A qualcuno verrebbe in mente di specializzare Manhattan come isola turistica?”.

Ma questa malattia non riguarda solo Venezia, riguarda un po’ tutto il Paese. Non si contano i profeti di quella che Joseph Stiglitz chiama “economia della rendita”: l’idea di sfruttare il “petrolio” (cioè la bellezza del paesaggio e del patrimonio artistico italiano) per arricchirci senza ricerca, senza innovazione, senza merito. E proprio come succede nei paesi del Terzo mondo dotati di grandi riserve di materie prime, lo sfruttamento di queste ultime non crea un ciclo economico virtuoso o una redistribuzione di ricchezza , ma alimenta monopoli e produce desertificazione sociale.

E a farne le spese non sono solo il paesaggio e il patrimonio (anche: a quando una Costa Concordia incastrata in Palazzo Ducale?). È lo stesso futuro di un Paese che immagina se stesso come una nazione di soli osti e albergatori, capace di sopravvivere solo grazie alla rendita del turismo. L’esodo dei cittadini dai centri storici, e la trasformazione delle città d’arte in luna park sono tra gli esiti di questa monocultura turistica anti-imprenditoriale e anti-culturale. La vera sfida è che il turismo non si risolva necessariamente nell’ennesima manifestazione del consumismo e dell’omologazione universale, ma riesca a diventare un momento di liberazione personale e di incontro sociale. L’alternativa è tra continuare a coltivare una rendita desertificante e decidersi a costruire le condizioni per un turismo sostenibile: un turismo “spalmato” su tutto il tessuto culturale del Paese, e non ossessivamente concentrato sulle sue emergenze; un turismo di formazione e non solo di intrattenimento; un turismo che entri in rapporto con le città e non solo con la top ten delle opere d’arte feticcio.

La morte di Venezia è ormai un tema antico: legato alla fine della Repubblica e alla inesorabile decadenza del tessuto civile e quindi di quello urbanistico. Già nel 1876 John Ruskin (l’autore di Le Pietre di Venezia) poteva scrivere di “provare fortissimo l’orrore e la pena di Venezia”, una “città morente, magnifica nella sua dissipazione”. Ma gli ultimi quarant’anni hanno reso letteralmente, e temo irreversibilmente, concreto questo motivo letterario.

In un famoso discorso tenuto nel 1993 all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, Manfredo Tafuri parlò di Venezia come di un “cadavere”. Da allora, ha scritto Giorgio Agamben nel 2009, “sindaci, architetti o ministri” hanno avuto l’ “indecenza di continuare a imbellettare e svendere il cadavere” di una città ormai ridotta a spettro: “Un morto che appare all’improvviso, preferibilmente nelle ore notturne, scricchiola e manda segnali. A volte anche parla, sia pure in modo non sempre intellegibile”.

Se di notte lo spettro di Venezia torna a parlare, almeno a qualcuno, le sue lunghe giornate di turismo selvaggio inducono a cercare metafore meno elette. A Venezia la Repubblica tradisce l’articolo 9 della Costituzione: perché non tutela né il paesaggio, né il patrimonio storico e artistico. Né tantomeno favorisce il pieno sviluppo della persona umana: al contrario, persegue lo sfruttamento del cliente pagante. Le città, le poleis, sono da sempre in Italia specchio e palestra della politica. Nel governo delle nostre città d’arte, esattamente come nella vita pubblica, siamo passati dalla Costituzione alla prostituzione: ma sarà dura spiegare ai nostri nipoti che pensavamo che anche Venezia fosse una nipote di Mubarak.

Commentando le sagge parole del presidente del Worldwatch Institute l'autore sostiene che sarebbe bello, se esistesse un “ambientalismo maturo capace di distinguere, capace di criticare caso per caso. Non sa che c’è già. La Repubblica, 22 settembre 2013, con postilla

L’interrogativo può risultare senz’altro intrigante, sia per gli ambientalisti sia per i loro interlocutori: “È ancora possibile la sostenibilità?”. Con questo titolo, il Rapporto 2013 del Worldwatch Institute sullo stato del mondo — presentato venerdì a Padova — ripropone in termini provocatori una questione fondamentale che riguarda la nostra esistenza sulla Terra. Possiamo, cioè, imparare a vivere in una prosperità equa e condivisa con gli altri esseri umani, entro i limiti fisici e biologici del nostro pianeta? Si tratta, evidentemente, di una domanda che interpella tutti.

“Quella in cui viviamo — scrive nel capitolo introduttivo Robert Engelman, presidente del Worldwatch Institute, coniando un efficace neologismo — è l’epoca della “sosteniblablablà”, una profusione cacofonica di usi del termine “sostenibile” per definire qualcosa di migliore dal punto di vista ambientale o semplicemente alla moda”. In origine, l’aggettivo — diventato poi il vessillo dell’ambientalismo moderno — significava propriamente “capace di continuare a esistere senza interruzione o diminuzione”. Ma ormai viene sottoposto spesso a una banalizzazione mediatica che in genere si associa a una strategia di greenwashing — letteralmente “lavaggio verde” — adottata da molte aziende a fini commerciali e di marketing, realizzando di fatto un inganno o addirittura una truffa.

Dalla riduzione delle emissioni di gas serra che inquinano l’atmosfera e provocano il riscaldamento climatico del pianeta alla raccolta differenziata dei rifiuti, dalla diminuzione del consumo di carne all’acquisto di automobili a basso consumo, molti pensano che la sostenibilità si possa esaurire in una serie di comportamenti virtuosi individuali. E non c’è dubbio che tutto ciò contribuisce al rispetto e alla difesa dell’ambiente, a condizione ovviamente che non si riduca a gesti occasionali o isolati. Per gli ambientalisti, tuttavia, l’uso “smodato” di questa parola che imperversa sui media minaccia di occultare la vera questione: vale a dire “se la civiltà possa continuare in questa direzione senza compromettere il benessere futuro”.

Non è, dunque, soltanto una questione mediatica. Bensì di sostanza, di trasformazione culturale ed economica. Bisogna correggere perciò il modello di sviluppo e intervenire sui cinque grandi fattori che causano la disgregazione dei sistemi naturali: 1) il degrado del clima; 2) i processi di estinzione delle specie; 3) la perdita della diversità degli ecosistemi; 4) l’inquinamento crescente; 5) l’aumento della popolazione e dei livelli di consumo.

È il nostro modello di sviluppo, insomma, che deve cambiare per adeguarsi a questi valori, tanto più di fronte al rapido sviluppo dei Paesi cosiddetti emergenti. Altrimenti, a cominciare dalla salute, ne va della stessa sopravvivenza della Terra e del genere umano. E gli studiosi fissano al 2050 la scadenza entro la quale si verificheranno situazioni molto gravi di sofferenza.

Sarebbe sbagliato, tuttavia, disconoscere il fatto che anche la “sosteniblablablà” rappresenta comunque un successo dell’ambientalismo sul piano della comunicazione di massa e quindi della coscienza collettiva. Finora ha prodotto forse più benefici di un certo allarmismo o catastrofismo di maniera. Ben venga, allora, quell’ambientalismo “maturo” capace di valutare anche le Grandi Opere “una per una”, come ha dichiarato coraggiosamente nei giorni scorsi al Manifesto il sindaco di Genova, Marco Doria, eletto come indipendente nelle liste di Sel.

In tempi non sospetti, su questo giornale, chi scrive ha già usato più volte provocatoriamente l’espressione “ambientalismo sostenibile” per invocare un atteggiamento più concreto e costruttivo. A volte, è proprio il radicalismo verde, al limite del fanatismo ideologico o del fondamentalismo, che rischia di suscitare una reazione contraria di rifiuto, di avversione o di ostilità. Così, senza volerlo e senza saperlo, si finisce per favorire i veri nemici dell’ambiente. E se anche questa alla fine fosse “sosteniblablablà”?

postilla

L’autore non si è probabilmente accorto che « quell’ambientalismo “maturo” capace di valutare anche le Grandi Opere “una per una”» è nato e agisce da decenni. Non conosco una sola Grande Opera denunciata dai comitati, reti e associazioni per la quale non ci siano state puntuali analisi e proposte alternative, in generale ignorate da chi aveva il potere di decidere: dalla Torino-Lione al MoSE, dal Ponte sullo stretto alla Mestre-Orte, ai diversib tronchi della TAV alla Gosseto Civitavecchia e via infrastrutturando. Se gli manca qualche riferimento possiamo fornirglielo volentieri.

Un migliaio alle Zattere con fischietti, trombe, pentole e coperchi. «Via dalla laguna». I giganti del mare partono in ritardo. Ieri il record di presenze. Contestazione pacifica e festa alle Zattere. Le navi procedono in colonna. Blitz no global in aeroporto. La Nuova Venezia, 22 settembre 2013

Alle18.20, con mezz’ora di ritardo sull’orario previsto, La Msc Divina molla gliormeggi e sfila davanti alle Zattere. Una massa enorme, 135 mila tonnellate e11 piani di cabine, oltre 300 metri di lunghezza, che oscura il sole e proiettala sua ombra minacciosa sulle rive. I quasi 4 mila passeggeri stipati sul pontesalutano con la manina e forse non capiscono davvero cosa sta succedendo.Sessanta metri più in basso, ad accoglierli è un frastuono di pentole, trombe,fischietti. Slogan, manifesti e bandiere sventolate da centinaia dimanifestanti. È il momento clou del presidio non stop contro le grandi navi inlaguna orgenizzato ieri dai comitati. Cominciato due ore prima con i «Giochisenza frontiere, sfida a nuoto tra i veneziani, i dirigenti del Porto e dellaVtp»: una quarantina di ragazzi in acqua a nuotare in mezzo al canale dellaGiudecca. In fondamenta un migliaio di persone, una postazione con glialtoparlanti, allegria e slogan. Ragazzi dei centri sociali, ma anche anziani,famiglie, turisti francesi che sventolano le bandiere. «Una follìa, passano diqui?». La mobilitazione del 21 settembre, primo giorno di autunno che ha stabilitoil nuovo record delle navi a Venezia – 12 tra enormi e medio grandi – ha giàcolpito nel segno.

Sulla riva delle Zattere sferzata dalle onde e guardata avista da centinaia di poliziotti e carabinieri, ci sono tv e fotografi di mezzomondo, giornalisti italiani e stranieri. Il tam tam corre ormai sui mediainternazionali. Grazie ai comitati, alla stampa indipendente e tante prese diposizione come quella di Adriano Celentano che ha comprato una pagina dipubblicità per denunciare la «morte di Venezia» assediata dalle grandi navi «Ecco il mostro dei mostri!» urla al microfono lo speaker «queste crociereuccidono la laguna, qui non siete i benvenuti». Una giornata che aveva avuto ilsuo prologo di primo mattino. Quando un gruppo di giovani aveva smantellato lawelcome area, allestita dalla Save – socia di Vtp – all’aeroporto Marco Polo diTessera. Banchi e sedie smontati e portati all’esterno, sala sigillata. Unsegnale, secondo i manifestanti, tutti denunciati, per contrastare l’aumentoindiscriminato del turismo.

Alle Zattere il presidio comincia intorno alle 14.Festa, musica e bibite per tutti. Palloncini colorati e poi la sorpresa.«Organizziamo qui i nostri Giochi, tutti in acqua per bloccare le grandi navidi Costa e Trevisanato». I ragazzi si tuffano. Quasi tutti hanno la muta, moltii salvagenti con la papera, i canotti. Qualcuno viene trascinato dalla fortecorrente calante verso San Marco e deve essere recuperato. Alla fine vengonotrainati a riva dalle barche con un lungo seprentone umano. Qualche lievemalore, ma nulla di grave. «Ne valeva la pena», abbiamo vinto», diconosoddisfatti.Intanto polizia e carabinieri identificano e fotografano tutti.

Paolo Lanapoppi, nella sua barca con la bandiera, viene «verbalizzato» permanifestazione non autorizzata. Identificati anche i conducenti delle altrebarche e i nuotatori che non hanno rispettato il divieto di balneazione. Ma adifferenza dello scorso anno la manifestazione scorre via tranquilla.Vaporetti, taxi e Gran Turismo passano, a bassa velocità e sotto riva. LaCapitaneria blocca l’uscita delle navi.

La prima a passare, alle 17.55, èl’Azamara Quest. Fumo nero e due radar in azione. Non è nemmeno tra le piùgrandi, nonostante i suoi sette piani. Subito dietro la gemella AzamaraJourney. «Fuori dalla laguna», urlano da riva. Neanche dieci minuti dopo eccola Msc. La più grande di tutte. Il passaggio è imponente, due rimorchiatori aprua e poppa la controllano. «Riusciranno a fermarla in caso di emergenza?» sichiedono da riva. Poi fino a notte escono in fila indiana anche le altre naviormeggiate in Marittima. Ieri esaurita come un megaparcheggio.

Nel weekend, davenerdì a oggi, sono state ben 28 le navi in arrivo. Dodici soltanto ieri. Unasituazione esplosiva, ormai sotto gli occhi del mondo. Da anni comitati ecittadini segnalano il continuo aumento dei crocieristi e delle dimensionidelle navi.

Sbilanciamoci.info, 20 settembre 2013

Pochi hanno colto il significato più profondo della sostituzione dell’Imu con una tassa sui servizi (1). Il provvedimento del governo Letta non rappresenta “soltanto” una misura fiscale regressiva – cioè che alza le tasse ai più poveri per abbassarle ai più ricchi. È anche e soprattutto una nuova vittoria del “blocco edilizio”, una formazione sociale che da 50 anni condiziona la politica economica del nostro paese, condannando l’Italia ad un modello di sviluppo basato sulla rendita immobiliare e sull’immobilismo sociale – a scapito dei redditi dei lavoratori ma anche dello sviluppo industriale.

Di “blocco edilizio” parlò per la prima volta Valentino Parlato in un articolo sul manifesto. Si tratta di una formazione sociale, una lobby potremmo dire, capitanata da palazzinari, grandi costruttori, proprietari terrieri e colossi immobiliari - in parte spalleggiati dalle banche cui questi soggetti sono legati a doppio filo - e in grado di mobilitare quando necessario una moltitudine di piccoli proprietari della classe media, tramite i propri mezzi di comunicazione (ad esempio i giornali di proprietà dei grandi costruttori) e i propri referenti politici.

La prima grande mobilitazione del blocco edilizio avvenne nel 1962 per affossare la legge urbanistica proposta dal ministro democristiano dei lavori pubblici Fiorentino Sullo, mirata a limitare fortemente la rendita fondiaria. Oggi il blocco è forte almeno quanto allora, indebolito dalla crisi delle costruzioni ma ancora più influente politicamente. Non soloBerlusconi, esso stesso grande costruttore, con i suoi condoni edilizi e i “piani casa”, ma anche amministrazioni comunali di centro-sinistra estremamente compiacenti (si pensi alla Roma di Rutelli e Veltroni). Se negli anni ’60 e ’70 il blocco edilizio era in concorrenza con il capitale industriale nell’influenzare la politica – e spesso gli interessi erano contrapposti, ad esempio perché i prezzi alti delle case provocavano pressioni al rialzo sui salari – oggi il blocco edilizio ha come unici veri avversari le associazioni della società civile che lottano in difesa del territorio e qualche isolata amministrazione locale virtuosa.

Certo il settore delle costruzioni ha un ruolo importante nell’economia italiana e la crisi lo sta impattando in modo devastante, con conseguenze drammatiche anche sui lavoratori del comparto. Per cui si potrebbe pensare che in questa fase aiutare le costruzioni, o almeno non penalizzarle, sia nell’interesse del paese. Ma sarebbe sbagliato, oggi, identificare gli interessi del “blocco edilizio” con quelli del settore delle costruzioni nel suo insieme. Quest’ultimo rappresenta più che mai un settore complesso, e il blocco edilizio ne è soltanto la parte più potente e conservatrice, quella che vince tutti gli appalti, strizzando a volte l’occhio all’illegalità e al crimine organizzato. Lo Stato dovrebbe intervenire a sostegno del settore non abolendo l’Imu, ma con una politica industriale che aiuti quelle imprese che innovano puntando sulla qualità, sulla bioedilizia, sulla riqualificazione energetica del patrimonio immobiliare.

Detassare la proprietà immobiliare servirà solo a rallentare la necessaria discesa dei prezzi immobiliari, dando una temporanea e illusoria boccata d'aria a chi ha costruito troppo durante il boom dei primi anni duemila e a chi gli ha prestato i soldi. Le costruzioni italiane dovrebbero invece essere accompagnare dall'intervento pubblico in un processo di selezione e riconfigurazione, per passare dall'essere il settore del cemento a quello della riconversione energetica. Solo in questo modo le costruzioni potrebbero tornare a “trainare” l’economia, contribuendo alla ripresa e alla crescita dei redditi. Purtroppo tra il dire e il fare c’è il governo del blocco edilizio.

(1) una delle poche eccezioni è questo articolo di Paolo Berdini sul
manifesto

Per far esplodere la guerra civile bisogna essere in due. Da soli non bastano né i terroristi né i fanatici della Grande opera inutile e dannosa. La Repubblica, 20 settembre 2013

CHIOMONTE (TORINO)
E chissà, forse ai sostenitori della Grande Opera potrebbe far comodo ridimensionare a controparte irresponsabile quello che è stato indubbiamente un movimento di popolo No Tav, talmente vasto da avere regalato al Movimento 5Stelle percentuali di voto superiori al 40% perfino in comuni moderati come Susa. Al cantiere di Chiomonte provano la soddisfazione del fatto compiuto: nessuno la fermerà più, la talpa, immenso
trapano teleguidato da una cabina di comando degna di un’astronave. Nel giro di due anni sarà completato il tunnel geognostico che poi dovrebbe diventare una galleria d’emergenza perpendicolare al colosso: il tunnel profondo di 12 km in territorio italiano, sui 54 km totali necessari alla Torino-Lione per correre sotto le Alpi.
Manteniamo il condizionale, dovrebbe, perché nonostante la sicurezza manifestata dal capoprogetto, Mario Virano, c’è chi immagina che la Tav possa finire come il Ponte sullo Stretto di Messina. Cioè che tra qualche anno a Roma il governo accampi ragioni di forza maggiore –la crisi si prolunga, i soldi non ci sonoper dire che non se ne fa più nulla. «Impensabile — replica Virano — siamo confermati fra le priorità della Ue. E la linea ferroviaria attuale andrà comunque a morire, se non la rifacciamo con standard adeguati».
Virano oggi si compiace: i No
Tav non sono riusciti a replicare al cantiere di Chiomonte la spallata riuscita nel 2005 a Venaus, dove le recinzioni furono travolte da una grande manifestazione popolare e i lavori non ebbero mai inizio. Ma resta da chiedersi, mentre la talpa scava, se potrà andare liscia pure a Susa quando, fra non molto, verranno espropriate le aree su cui deve sorgere la stazione dell’Alta Velocità. Per garantire i lavori qui si sono dovuti cintare 7 ettari di vigneto in cui si produce l’ottimo rosso Avanà: le forze dell’ordine filtreranno chiunque partecipi anche alla prossima vendemmia. Tanto basta perché fra i No Tav prenda piede
la tentazione di radicalizzare le forme di lotta. La parola che fa paura, perché ciascuno la intende a modo suo, è: sabotaggio.


Scena seconda, in un appartamento
di Bussoleno.
Beviamo un tè a casa di Valerio Colombaroli a Bussoleno con un gruppo di attempati militanti, quelli che 22 anni fa diedero vita al movimento No Tav, ne hanno allargato le prospettive culturali fino a farne una visione del mondo alternativa e, chissà, forse ora se lo vedono sfuggire di mano. Nel tinello si aggira il cane lupo involontario protagonista di un allarme, lassù alla rete di Chiomonte, dove Valerio lo portava a passeggio. La povera bestia era saltata nel cantiere per far festa a una persona che conosceva bene, il signor Benente, cognato di Valerio e titolare della Geomont, incaricato dei primi sondaggi del terreno. Gran confusione, chiarito l’equivoco. Fatto sta che mentre noi discutiamo le ragioni di un movimento alle prese
con gli ultimi episodi di intimidazione violenta, giù al piano di sotto il fratello della moglie di Valerio conta i danni subiti: la distruzione notturna di due compressori e una trivella.

Lacerazione familiare, se ne contano molte, in valle. Benente subisce accuse di tradimento per il fatto di lavorare alla Tav, il clima si è fatto pesante.
Chiara Sasso, Claudio Giorlo e gli altri “saggi” che hanno costruito il consenso popolare No Tav, definiscono “esagerato” l’allarme del giudice Caselli. Guardano con sospetto alla vicenda del costruttore Fernando Lazzaro, quello che denunciò il clima intimidatorio in tv e la notte stessa subì un attentato. Non aiuta il ricordo degli episodi di 15 anni fa, falsi attentati No Tav dietro cui la magistratura riconobbe l’azione di personaggi legati ai servizi e alle mafie. Non dimenticano che Bardonecchia, qui vicino, è stato il primo comune del Nord sciolto per ’ndrangheta.
Condannare i violenti, oppure limitarsi a denunciare la provocazione come “opera di infiltrati”? Eterno dilemma dei movimenti alle prese con la degenerazione delle forme di lotta. I vecchi No Tav rivendicano di ispirarsi alla nonviolenza di Alexander Langer, ma anche loro declinano quella parola minacciosa, sabotaggio, di cui lo scrittore Erri De Luca s’è vantato solo per il fatto di aver partecipato a un blocco autostradale.


«Sabotaggi popolari notturni ce ne sono stati», spiega Chiara Sasso. «Vi parteciparono una quarantina di persone, tutti dai 50 anni in su. Fu messa fuori uso una torrefaro, tagliate delle reti. Nessun attacco alle persone. Poi si sono innescati episodi più pesanti, come il compressore bruciato dentro il cantiere. Francamente nessuno di noi, e neanche dei centri sociali torinesi, riesce a capire chi possa essere stato».Il sindaco di Avigliana, Angelo Patrizio, e il presidente della Comunità montana, Sandro Plano, sono No Tav moderati, che non esitano a dissociarsi dai violenti, ma aggiungono: «Se qualche ragazzo in vena di teppismo si lascia andare a comportamenti ingiustificabili, potrà magari far comodo a chi addita perfino noi come pericolosi estremisti. Ma il primo blocco da rimuovere è la sordità opposta alle ragioni dei valligiani. Perché abbiamo a che fare con personaggi come Stefano Esposito, deputato del Pd, cui pare
redditizio trasformarci in estremisti ideologi dell’Alta Velocità».


La novità politica è che in Parlamento siede ormai una rappresentanza numerosa di oppositori dell’Alta Velocità. La vedremo in azione fra pochi mesi, quando dovrà essere ratificato il trattato italofrancese senza cui non può costituirsi la società che deve (dovrebbe) avviare i lavori del lungo tunnel-base. Solo allora il braccio di ferro esercitatosi finora intorno a un’opera secondaria come il tunnel geo-gnostico, potrebbe dirsi concluso. Per questo i No Tav guardano con fiducia al loro senatore grillino di Bussoleno, Marco Scibona, che a febbraio ha strappato il seggio a Angelo Napoli del Pdl. Il passaggio attuale è delicatissimo, giacché prima di allora la leader-ship del movimento potrebbe essere spintonata di lato dagli antagonisti che agiscono nell’ombra. E l’accusa di terrorismo, in un drammatico revival delle dinamiche degli anni di piombo, precipiterebbe su tutti loro. Esacerbato da questa manovra, di cui attribuisce la responsabilità a una cricca di politici, imprenditori chiacchierati e mass media, finora il portavoce più
noto dei No Tav, l’ex bancario Alberto Perino, lancia proclami di combattimento ma non accenna dissociazioni nette. Col rischio che a intimidirsi sia la popolazione della Val di Susa: «Se io fossi un Pro Tav, questi terroristi li pagherei», dice il sociologo Bruno Manghi, che resta scettico sulla realizzabilità dell’opera. «Il risultato è che già oggi nel conflitto sono coinvolte in
tutto 500 persone, portate alla ribalta dai giornali e dalla televisione. Passa in secondo piano il sottobosco mafioso affaristico che pure c’è, e che in passato aveva praticato l’incendio delle macchine».


Scena terza, all’Hotel Napoléon
di Susa.
La serata fresca preannuncia l’autunno e, per fortuna, sembra
tranquilla. I poliziotti fuori turno hanno dismesso la divisa e passeggiano in tuta fra il ponte sulla Dora Riparia e l’Hotel Napoléon che li ospita. Ma restano guardinghi perché nel luglio scorso a più riprese i campeggiatori No Tav convenuti da tutta Europa si dilettavano a radunarsi di fronte all’albergo, nel cuore della notte, producendo frastuono per impedire loro di dormire.
«Ci ha fatto male riconoscere fra gli urlatori anche dei nostri paesani», racconta il signor Vanara, titolare da più di 40 anni dell’albergo. «Noi possiamo dire solo meno male che c’è la Tav, perché le fabbriche hanno chiuso e il lavoro altrimenti non ci sarebbe. Ma nel paese si è prodotta una lacerazione dolorosa da cui non so se ci riprenderemo». Gli altri, quelli del movimento, ricordano che apparteneva alla famiglia Vanara un parroco coraggioso partigiano, detto Don Dinamite, e accusano i valligiani che lavorano per il cantiere di intelligenza col nemico. Risuona la stupida accusa di tradimento. La sindaca di Susa è schierata a favore della Tav, ma il quartiere che dovrà subire degli espropri per allestire il terrapieno su cui sorgerà la grande stazione intermedia della Torino-Lione, ha molte bandiere con il treno sbarrato esposte sui balconi.
Riaffiorano vecchie divisioni sul territorio che rischia la militarizzazione già vissute altrove, dall’Alto Adige alla Barbagia all’Aspromonte. «Bastano poche persone a rovinare tutto», si preoccupa Bruno Manghi. «Il barista che rifiuta il caffè al carabiniere. L’imprenditore e il sindaco Pro Tav intimiditi come capitava ai capireparto della Magneti Marelli negli anni Settanta. E, dall’altra parte, le buone ragioni della popolazione schiacciate dall’avanguardismo
estremista».
La Val di Susa è lunga. È già stata traforata da grandi opere che hanno avvantaggiato solo delle
minoranze, creando disagi pesanti. In alto ci sono i paesi benestanti del turismo invernale come Sestrière. discendendo da Susa, dove la presenza operaia e la Resistenza hanno impresso un forte segno rosso nelle comunità, il fondovalle si rivela un’estensione periferica della grande Torino.


Così avverto la strana impressione di una lotta politica, simulacro della vecchia lotta di classe, che da Torino si ritira e si contrae nella retrovia della valle. Con i suoi detriti ideologici, i suoi antichi conti da regolare. C’è chi ricorda la filiera di terroristi di Prima Linea cresciuti a Bussoleno; e chi denuncia improbabili complicità fra i No Tav e la società autostradale Sitaf, che dalla ferrovia veloce sarebbe danneggiata. La dietrologia
impazza. Anche gli apparati repressivi rivivono la stagione in cui dalla Val di Susa transitavano i fuggiaschi che volevano espatriare in Francia. Un sottobosco che ha alimentato settori di imprenditoria malavitosa ingolositi dal nuovo business.

«Lei sbaglia se ci riporta agli anni della sua gioventù », replica Claudio Giorlo. «Qui in oltre vent’anni di lotta è cresciuto davvero un fenomeno nuovo, la cultura dell’economia sostenibile, la democrazia partecipata, la critica feconda del sistema giunto al collasso». Sarà. Purché la valle da cui transitarono le armate di Annibale, Carlo Magno e Napoleone, scavata ora da una talpa d’acciaio che non ha nulla a che fare con quella di Karl Marx, sappia liberarsi dall’invasione straniera dei violenti in cerca di rivoluzione.

Non è aumentando la “moneta urbanistica” (i metri cubi edificabili), magari con la conferma di atti illegittimi della Giunta Alemanno, che si rigenerano la periferie, ma eliminando la stretta creditizia. La Repubblica, ed. Roma, 20 settembre 2013

ASSESSORE Caudo, i costruttori di Roma chiedono al Comune regole certe e tempi brevi per ottenere le concessioni. Anche perché, dicono, senza certezze le banche non aprono le borse...
«Con le associazioni dei costruttori, fin dall’insediamento, abbiamo aperto un tavolo operativo. Concordo con il presidente Bianchi, quando indica la rigenerazione urbana come un’opportunità anche per gli imprenditori. Delle sue argomentazioni mi sembra centrale quella dell’accesso al credito che è questione di rilevanza strategica».

Come risolvere il problema?
«Intanto diciamo che è un problema comune, perché la difficoltà di accesso al credito per le imprese ha fatto lievitare nei nostri uffici le giacenze dei permessi a costruire, già pronti ma non ritirati. I cantieri non aprono e le imprese sono in difficoltà. In difficoltà è anche il Comune che vede diminuire l’incasso degli oneri di urbanizzazione. Erano circa cento milioni di euro l’anno, prima della crisi, oggi siamo intorno ai 41 milioni di euro. E questo è un problema di risorse per le politiche sociali e i servizi ».

Perché i permessi non vengono ritirati?

«Per la mancanza di risorse economiche. Ad oggi abbiamo circa 700 permessi di costruzione non ritirati. Dall’aprile di quest’anno sono aumentati di ben 200».

Come sbloccare la situazione?
«Va sbloccata insieme: il Comune, le imprese, il sistema economico della città da una parte e il sistema creditizio dall’altro. Riporto qui quanto è emerso negli incontri che ho organizzato in proposito con gli istituti di credito.

Qual è la soluzione?
«Le banche sarebbero disposte ad aumentare la loro disponibilità al credito verso le imprese a fronte di una maggiore presenza anche di garanzie del sistema regionale ».

Come ci si può muovere?
«Proponiamo un patto civico tra Comune e imprese per rendere credibile nei confronti del sistema creditizio le proposte progettuali. L’obiettivo potrebbe essere di ridurre del 20% le giacenze entro l’anno. Oggi le difficoltà di finanziamento spingono le imprese a ricorrere a quella che viene definita la “moneta urbanistica”».

Ossia?
Le quantità edificabili sono utilizzate come garanzia ma il ricorso alla sola “moneta urbanistica” deforma il sistema economico e costruisce una città poco vivibile ».

In concreto?
«Riconosciamo l’esigenza di poter utilizzare queste garanzie ma dobbiamo anche riportare il ragionamento alla qualità dei quartieri che si realizzano, che non è solo misurabile in metri cubi. Per questo il patto che proponiamo è “civico”, perché aiuta le imprese e rende gli interventi urbanistici più sostenibili sotto il profilo sociale e ambientale».

Riferimenti

A proposito degli atti illeggittimi della maggioranza Alemanno vedi l’articolo di Giuseppe Paglino e la documentazione sul sito carteinregola

Basta il titolo (Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d'Italia) per comprendere quant'è interessante e utile. «L'originalità del saggio di Armiero consiste essenzialmente nel progetto di fare la storia di un vasto ambito di natura “selvaggia”, la montagna, di un paese come l'Italia nel quale, da millenni, la natura è inseparabile dalla cultura»

Arriva di tanto in tanto qualche folata di aria fresca nella storiografia dell'Italia contemporanea, ormai sempre più accartocciata e isterilita nella monocultura della storia politica. Mentre la politica praticata, quella dei partiti e dei governi, disegna oggi gli arabeschi di un'abiezione civile ormai senza fondo, gli storici della nostra epoca non sembrano conoscere altra dimensione del reale che quella narrata da leader, parlamentari, giornalisti, attori multiformi della sfera pubblica contemporanea. Quasi che la degradazione di questa particolare dimensione della realtà calamitasse perversamente l'interesse degli storici per il suo passato. Perciò si legge con un di più di interesse il libro di Marco Armiero. (Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d'Italia.Secoli XIX e XX, Einaudi Torino 2013, pp 213, Є 28) che, oltre a introdurre un tema insolito nelle patrie istorie, lo fa con materiali e argomentazioni di indubbio interesse. Armiero è uno storico dell'ambiente, con alle spalle varie peregrinazioni intellettuali, soprattutto negli USA e poi in Spagna e Portogallo. E le pagine del suo libro ne portano i segni, documentati dall'ampiezza non comune di riferimenti bibliografici internazionali. Ma esse testimoniano al tempo stesso, più in generale, la condizione di esuli intellettuali di tanti nostri giovani di talento, che sono fuggiti dall'Italia in cerca di luoghi e istituzioni in grado di sostenere i loro studi.

L'originalità del saggio di Armiero consiste essenzialmente nel progetto, a mio avviso riuscito, di fare la storia di un vasto ambito di natura “selvaggia”, la montagna, di un paese come l'Italia nel quale, da millenni, la natura è inseparabile dalla cultura. Da noi, paese di remota e sistematica antropizzazione e civilizzazione, la wilderness americana è una dimensione inesistente, quasi fuori dalla possibilità della storia scritta. Perciò Armiero ha scelto la strada originale e fruttuosa di « studiare la nazionalizzazione della natura italiana, usando le montagne come caso di ricerca » : vale a dire l'inglobamento della montagna come parte della narrazione nazionale, elemento e luogo caratteristico di alcuni suoi miti fondativi.

Il racconto che ne risulta, a partire dall'Unità sino ai giorni nostri, non ha un andamento unico, né un omogeneo segno culturale e ideologico. La montagna entra ed esce nell'immaginario della nazione disegnando di volta in volta miti contraddittori. Perciò tanto le Alpi che gli Appennini, all'indomani dell'unificazione nazionale, costituiscono il luogo di una alterità da soggiogare, sia perché sono «montagne ribelli », come nel caso dell'Appenino meridionale, percorso dal brigantaggio, sia perché sono le aree del paese dominate dai commons: vale a dire l'ampio territorio di boschi e foreste demaniali o soggette a usi civici. Nella seconda metà dell'Ottocento la progressiva privatizzazione di questi beni collettivi verrà fatta valere come un processo di modernizzazione, di fuoriuscita da un mondo arcaico e primitivo. Senza grande considerazione per gli effetti ambientali che, soprattutto al Sud, ebbe in seguito lo sfruttamento agricolo di tante terre destinate dalla saggezza antica a esclusivo presidio idrogeologico.

Nel XX secolo sono le Alpi, che entrano in maniera decisa in una narrazione destinata ad alimentare il nuovo immaginario nazionalista, e che ha al centro la prima guerra mondiale. «La politicizzazione del paesaggio alpino – scrive Armiero – all'indomani della Grande Guerra ha interessato sia la natura sia gli esseri umani. Le Alpi sono state esaltate come bastione naturale del paese e confine invalicabile della comunità italiana, mentre i suoi abitanti diventavano l'archetipo del vero patriota, il prototipo dell'italiano che veglia sull'integrità della nazione. E' allora che nasce il mito degli Alpini, destinato a durare a lungo nella memoria collettiva». Ma, certo, quei monti hanno poi avuto scarso rilievo nella coscienza nazionale quale realtà ambientale, sede di fragili equilibri e di mondi viventi minacciati e sconvolti.

Sul finire della seconda guerra mondiale « una rivoluzione copernicana» viene a rovesciare «la geografia politica e morale della nazione, il cui cuore pulsante erano ora le montagne». Per la prima volta, con la lotta dei partigiani, si creano evidenti « legami tra democrazia e montagne nella storia d'Italia. L'esperienza della Resistenza è profondamente radicata nelle montagne, simbolo tangibile di libertà ». Il mito fondativo viene ora a sostenere la storia dell'Italia repubblicana, a dare base morale alla democrazia e alla nuova Costituzione, quali espressioni del riscatto del popolo italiano dopo venti anni di dittatura fascista.

1l manifesto, 19 settembre 2013. Con postilla

Il 2 agosto 2013, a seguito dell'approvazione da parte del ministero per i Beni Culturali, la Giunta Regionale della Puglia presieduta da Nichi Vendola ha finalmente potuto adottare il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale, predisposto dall'ottimo assessore alla qualità del territorio Angela Barbanente, frutto di un complesso e lungo lavoro, che ha visto all'opera una grande équipe di specialisti coordinata da Alberto Magnaghi, uno dei più grandi urbanisti a livello internazionale.

Com'era prevedibile si è scatenato un fuoco di fila di opposizioni, di distinguo, di cautele, di timori. Una dura opposizione che vede attivi non solo i partiti del centrodestra ma anche pezzi del Pd, oltre ad esponenti del mondo delle imprese e delle professioni e a sindaci di entrambi gli schieramenti: tutti a difesa di un vecchio modo di intendere lo sviluppo, basato sulla cementificazione, sul consumo delle risorse, sulla distruzione dei beni comuni, accomunati nella richiesta di rinvii o addirittura di revoche.

Le motivazioni dichiarate si basano su una presunta mancata condivisione. La motivazione reale è, invece, il terrore per un Piano che disegna una Puglia diversa, innovativa, con progetti di sviluppo sostenibile e compatibile con le peculiarità del territorio; un Piano che blocca il bulimico consumo di territorio; un Piano fondato su una solida base conoscitiva e dotato di una Carta Regionale dei Beni Culturali nella quale sono censiti oltre diecimila siti di interesse culturale; un Piano che non si limita a proporre un approccio estetico e a proteggere alcune énclaves, isole di "bel paesaggio" in un oceano di brutture e di cemento, ma che si occupa dell'intero territorio regionale, delle periferie, delle coste, delle aree interne; un Piano che è ormai considerato un modello, studiato e imitato da molte altre regioni italiane. Un vero primato pugliese, anche perché è effettivamente il primo Piano Paesaggistico adottato in Italia, con le nuove norme.

Assurda appare proprio la tardiva critica di mancata condivisione. Quello della Puglia è, infatti, un Piano largamente condiviso, frutto di un'impostazione realmente democratica e partecipata. Non solo perché ci hanno lavorato nel corso di molti anni decine di specialisti provenienti dalle quattro università della Puglia e di altre regioni italiane e un ampio gruppo di giovani ricercatori e di professionisti, con l'apporto di numerose associazioni e di migliaia di cittadini, ma perché è stato presentato e discusso in molte conferenze d'aria (non meno di 13) tenute tanto nelle città principali quanto in piccoli centri della Puglia. Il Piano è stato, inoltre, oggetto anche di numerose pubblicazioni ed è interamente consultabile fin dal 2010, data della prima approvazione regionale, su uno specifico sito web ( http://paesaggio.regione.puglia.it ).

Gli attacchi sono chiaramente strumentali e denotano anche una sostanziale ignoranza del Piano. Gli oppositori, inoltre, si affannano a presentare quanti hanno contribuito a predisporre il Piano e quanti ora ne difendono la filosofia, come dei talebani, illiberali, centralisti, vincolisti, fanatici che vogliono affamare la Puglia e bloccarne lo 2sviluppo". Nulla di più sbagliato! Il Pptr della Puglia è tutt'altro che vincolistico, ma insiste sulle premialità, sugli incentivi, sulle buone prassi da diffondere. Non pensa di trasformare la Puglia in un immenso museo o in un grande Parco naturalistico, ma di favorire nuove e più innovative procedure di sviluppo del territorio. Si tratta, dunque, di obiettivi che anche gli ambienti più avveduti degli imprenditori, degli stessi costruttori, dei professionisti dovrebbero condividere, ampliando lo sguardo alle realtà più evolute del mondo.

Mi auguro che i partiti della sinistra, le associazioni culturali e ambientali, i settori più avveduti e avanzati delle professioni e della società civile, facciano sentire forte la propria voce, per evitare che prevalgano gli interessi particolari nel bloccare o stravolgere il Pptr, sollecitando tutti semmai a contribuire a migliorare ulteriormente questo straordinario strumento democratico di pianificazione del futuro della Puglia.

Non mancano anche attacchi da parte di chi considera il Piano addirittura eccessivamente permissivo e accomodante. A costoro ricordo l'esperienza della giunta di Renato Soru in Sardegna, caduta proprio sul Piano Paesaggistico. Cosa è successo successivamente con le politiche di Ugo Cappellacci è sotto gli occhi di tutti.
In Puglia è aperto un confronto tra diverse visioni, non solo politiche ed economiche ma anche culturali, tra chi cerca di difendere e valorizzare i beni comuni, i patrimoni culturali, i monumenti e siti archeologici, i paesaggi unici, l'agricoltura sana, lo sviluppo turistico di qualità, l'industria culturale, la ricerca e innovazione, e chi propone ancora retrive e disastrose politiche di un malinteso sviluppo basato solo su cementificazione, inquinamento, consumo di territorio, devastazione di paesaggi, degrado delle periferie, deturpamento delle coste, avvelenamento dell'agricoltura, a vantaggio di pochissimi e con gravi danni economici, sociali, sanitari e culturali della stragrande maggioranza dei cittadini pugliesi,che certamente non intendono tornare ad un passato che solo pochissimi nostalgici rimpiangono. Un confronto che ha una valenza non solo regionale ma anche nazionale ed europea.

Puglia e Sardegna: due piani paesaggistici formati secondodue diversi modelli ma caratterizzati da un’identica volontà: tutelare ilpaesaggio, patrimonio delle comunità in tutte le sue scale dalla locale allaplanetaria. Tutelarlo a partire dalle aree più a rischio a causa dellepressioni del dilagare della “città della rendita”. Più che di modelli parlereidi diversi “modi”, con l’attenzione focalizzata su visioni e aspetti diversi manon contrastanti: l’uno orientato alla lenta, difficile, ma necessariaformazione di una consapevolezza diffusa, virtualmente maggioritaria, dellaqualità e del valore (parliamo ovviamente di valor d’uso, non di valore discambio) del patrimonio costituito dal paesaggio, l’altro diretto primariamentealla difesa nell’immediato di ciò che del Belpaese è ancora sopravvissuto eperciò è minacciato più rapidamente d’essere travolto e cancellato per sempredagli attacchi della speculazione fondiaria, resa più potente dal fulgore delnuovo moloch, il Mercato. Sulle differenze e sulla necessità d’integrazione traquesti due modi mi propongo di tornare più distesamente. Per ora voglio limitarmi ad annotare che ledue esperienze, quella pugliese e quella sarda, sono accomunate oltre che dalleintenzioni, da una circostanza: entrambe sono violentemente attaccate daifautori della mercificazione delpaesaggio e dalla cementificazione del territorio nel silenzio assoluto deimezzi d’informazione (si fa per dire) dell’opinione pubblica, pronti a denunciaregiustamente ogni fiammelle dell’incendio che devasta l’Italia , a deprecare,altrettanto giustamente, il consumo di suolo, e mai a difendere l’unicostrumento capace – se usato a fin di bene- di tutelare il territorio in tutti i suoiaspetti: la pianificazione.

In limine una precisazione all’articolo di Volpe. Il primopiano paesaggistico regionale approvato aisensi del Codice del paesaggio è stato quello della Sardegna, pienamentevigente dal settembre 2006. A partire dalla sconfitta di Renato Soru è iniziataun’operazione di svuotamento del PPR con leggi regionali della giunta del berlusconiano Cappellacci in pienocontrasto col piano, sottoposte al giudizio della Corte costituzionale ma, inattesa delle sentenze d’incostituzionalità, pienamente operanti benché illegittime. Nel silenzio generale dell’opinione pubblica nazionale.

Incredibili i nomi delle persone indagate. Speriamo che non sia vero. «Coinvolte le coop rosse. Reati ipotizzati: truffa allo stato, corruzione, frode e associazione a delinquere. 31 indagati». Il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2013

Secondo i carabinieri e la Procura di Firenze le gallerie dell’Alta velocità ferroviaria in costruzione a Firenze da parte del general contractor, Nodavia (il cui socio principale è la Coopsette di Reggio Emilia) sono rivestite con materiali che mettono a rischio la sicurezza dei passeggeri dei treni in caso di incendio. Oltre a essere fatti male i lavori del Tav sono pagati troppo perché i costi sono stati gonfiati.

Il costo del passante di Firenze, infatti, è lievitato da 500 milioni a 800 milioni di euro grazie alle riserve, cioè il meccanismo inventato dai grandi appaltatori per sollevare problemi imprevedibili al momento della gara. Fondamentale il ruolo di Maria Rita Lorenzetti. Presidente dell’Umbria per il Pd fino al 2010 è indagata per associazione a delinquere, abuso di ufficio e corruzione in qualità di presidente della società pubblica Italferr. Doveva controllare la Coopsette e invece avrebbe svolto il suo ruolo nell’interesse proprio, della sua famiglia e della coop rossa legata al suo partito. Indagato anche Lorenzo Brioni, responsabile relazioni istituzionali di Coopsette e marito dell’ex sottosegretario e deputato Pd, Elena Montecchi.

Lorenzetti, per i pm, ha agito “nell’interesse e a vantaggio della controparte Nodavia e Coopsette” e ha messo “a disposizione dell’associazione a delinquere le proprie conoscenze personali, i propri contatti politici”. L’ex presidente umbra è indagata anche perché avrebbe conseguito “incarichi professionali nella ricostruzione del terremoto in Emilia in favore del di lei coniuge”, un architetto. Fortunatamente, di fronte a un manager pubblico come la Lorenzetti che fa i suoi interessi e quelli della Coop rossa, interviene l’Autorità il Garante dei lavori pubblici. A favore della stessa coop rossa però. Il membro dell’Autorità di Vigilanza dei Lavori Pubblici in carica, Piero Calandra, scrive un bel parere per favorire la Coopsette permettendole di ottenere il pagamento delle riserve per centinaia di milioni di euro, nonostante la legge del 2011. Piccolo particolare: anche Calandra, ex collaboratore di Cesare Salvi al ministero, è considerato di area Pd. Non basta. Per i pm lo scavo si svolge sotto una scuola in funzione determinando “crepe evidenti che hanno concretamente reso possibile distacchi di intonaco o di parti vetrate che avrebbero potuto seriamente mettere in pericolo la incolumità delle centinaia di persone che frequentavano la scuola, ragazzi e insegnanti”. Per completare il quadro non poteva mancare la criminalità: centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti sono stati smaltiti illegalmente da un’azienda vicina alla camorra.

Eccola qui l’alta velocità all’italiana secondo i pm di Firenze Giulio Monferini e Gianni Tei che coordinano l’indagine del Ros dei carabinieri su 36 persone per associazione a delinquere e altri reati, dalla truffa alla corruzione, dal traffico illecito di rifiuti alla violazione delle norme paesaggistiche.

Prima di approvare a occhi chiusi il Tav in Val di Susa, dove i lavori sono stati affidati con il plauso del Pd a un’altra cooperativa rossa di Ravenna (che certamente userà metodi diversi dalla Coopsette di Reggio Emilia) sarebbe il caso di dare un’occhiata all’inchiesta sul passante di Firenze. Una brutta tegola per il partito di Bersani alla vigilia delle elezioni . Anche se nessun dirigente è indagato, sono decine le telefonate di politici intercettate nel corso dell’indagine e dall’area Pd provengono molti soggetti coinvolti, con l’eccezione rilevante di Ercole Incalza, il “rieccolo” delle indagini sull’alta velocità. Amministratore del Tav, all’epoca di Lorenzo Necci, dal 1991, uscito indenne da una dozzina di indagini, Incalza è stato tirato fuori dalla naftalina da Pietro Lunardi e confermato al ministero da destra e sinistra e infine dai tecnici fino a tutto il 2013 (nonostante il suo nome fosse uscito sui giornali nel 2010 per i rapporti con Diego Anemone) a capo della Struttura tecnica di missione del ministero. Incalza è indagato per associazione a delinquere perché avrebbe favorito la Nodavia di Coopsette insieme a un architetto della sua unità di missione del ministero, Giuseppe Mele, “a cui insistentemente , viene chiesto di firmare una attestazione, preparata dagli stessi uffici di Italferr, in cui falsamente si attesta che i lavori dell’opera sono iniziati entro i cinque anni e che la autorizzazione ambientale e paesaggistica non è scaduta”. La questione più impressionante però è quella del rischio incendio. Scrivono i pm: “la legislazione comunitaria, per prevenire disastri quali quelli avvenuti nella galleria del Monte Bianco, ha imposto specifiche tecniche di resistenza al fuoco e al calore dei materiali di rivestimento”. I quantitativi di materiale ignifugo invece sono “dolosamente ridimensionati... e il risultato non è solo un risparmio economico illecito per il subappaltatore, ma la fornitura di un prodotto concretamente pericoloso”. I manager delle società, compresa quella pubblica che dovrebbe controllare, sono consapevoli del rischio: “come risulta dalle prove a cui i conci (il rivestimento del tunnel, ndr) sono stati sottoposti in laboratori sia in Germania che in Italia. Dai test ripetuti si è manifestato evidente il fenomeno dello spalling, ossia di un collassamento della struttura dovuto al calore e al fuoco”. Per i pm non solo i manager del subappaltatore, Seli, sapevano. I rischi erano noti “anche a Morandini di Italferr”. Tutti però “hanno trovato una compiacente copertura in relazioni tecniche del professor Meda Alberto, leggendo le quali non è dato ricavare l’esito sostanzialmente negativo delle prove eseguite”

L’ignobile schifezza delle “compensazioni“ difesa da un accordo bipartisan nella maggioranza consiliare che dice di sostenere Ignazio Marino mentre difende il lascito del devastatore Alemanno. Poi dichiarano di voler contrastare il consumo di suolo e difendere la legalità. Il Fatto quotidiano online, 17 settembre 2013

Cancellare e ritirare tutti gli atti dell’amministrazione Alemanno che aggravano il consumo di nuovo suolo agricolo”. Questa la promessa fatta in campagna elettorale dal candidato sindaco di Roma del centrosinistra, Ignazio Marino. “La città – recitava ancora il programma elettorale ‘Roma è vita’ – deve sapere con assoluta chiarezza che quel modello di sviluppo urbano è definitivamente concluso”. Ed effettivamente uno dei primi provvedimenti dell’ex senatore Pd, indossata la fascia tricolore, è stato – insieme alla discussa pedonalizzazione dei Fori imperiali – proprio quello di cancellare una delle scelte urbanistiche più contestate all’amministrazione Alemanno: il bando per il reperimento di aree agricole per la realizzazione di alloggi per l’housing sociale.

Nonostante l’impegno preso da Marino con i propri elettori, l’Agro romano potrebbe però essere ugualmente coperto da una nuova colata di cemento. Si dice infatti “allibito” il comitato cittadino Carte in regola, dopo la denuncia su Facebook del consigliere comunale del M5S, Daniele Frongia. Le commissioni congiunte Urbanistica e Patrimonio, entrambe presiedute da due esponenti del Pd (Antonio Stampete e Pierpaolo Pedetti), “si sono espresse in modo bipartisan (Pd-Pdl), con il solo voto contrario di Frongia e l’assenza dei consiglieri di Sel e Lista Marchini, a favore della immediata pubblicazione” di una delle delibere più contestate, tra quelle approvate in tutta fretta nell’ultima seduta di Consiglio comunale targato Alemanno lo scorso 10 aprile. E’ la 69/2012, con la quale vengono riconosciute all’Ater, Azienda territoriale per l’edilizia residenziale, e a numerosi proprietari privati di aree situate a Casal Giudeo compensazioni edificatorie. Per un totale di 1,3 milioni di metri cubi.

“Una delibera con forti dubbi di illegittimità” denuncia il comitato Carte in regola. Perché quei terreni nel 2003, con l’adozione del nuovo piano regolatore generale, vennero modificati da zona edificabile (secondo quanto prevedeva il P.R.G del 1965) a zona agricola con valenza ambientale. Nel merito si è espresso anche il Tar che, nei mesi scorsi, ha respinto il ricorso di un privato, confermando l’argomentazione formulata nel 2006 dal Comune di Roma, in risposta alle osservazioni presentate dallo stesso richiedente (“l’area in oggetto costituisce parte integrante del sistema ambientale”). E dunque: “Non tutte le volumetrie legittimamente soppresse per una scelta di riduzione delle quantità edilizie da parte dell’Amministrazione sviluppata nelle ultime tre Varianti, possono essere “compensate” senza vanificare le scelte urbanistiche dell’Ente locale – si legge nella sentenza del Tar del Lazio del novembre 2012 – (…) E’ necessario tener conto del perseguimento degli obiettivi di interesse pubblico o generale, fra i quali assume essenziale rilievo la riduzione delle volumetrie generali, cardine del NPRG”. Perciò “se venisse confermata – paventa il comitato Carte in regola – la delibera costituirebbe un precedente in grado di innestare un “effetto domino” devastante, perché autorizzerebbe tutti gli esclusi dalle “compensazioni” derivanti dalla Variante delle Certezze e previste dal PRG a pretendere dal Comune lo stesso trattamento”.

Intervistato da Franco Marcoaldi lo scienziato spiega l'illusione della crescita continua, la razzia dell’ambiente accompagnata a rapporti sociali violenti, perché la natura non è una reliquia. Ma il tempo della politica non combacia con quello dell’ecologia. La Repubblica, 16 settembre 2013

Era nelle cose che questa inchiesta sui rischi della “fine del limite” affrontasse anche il limite ultimo e ineludibile rappresentato dalla Terra, verso la quale continuiamo a comportarci secondo una logica di rapina cieca e scriteriata. Per rendersene conto basta leggere, tra i tanti, i bei libri che Pascal Acot ha pubblicato in Italia da Donzelli,
 Storia del clima 
e Catastrofi
 climatiche e disastri sociali.
 Ma la posizione del ricercatore francese è tanto più interessante perché non si appiattisce sulle tendenze ecologiste oggi più in voga. Con le quali anzi, spesso e volentieri, polemizza apertamente.


«Se pensiamo al nostro rapporto con la Terra, il problema del limite si pone sia in materia di risorse (energetiche, minerali, biologiche), che di crescita demografica. Entrambe oggetto di valutazioni controverse. Secondo alcuni, grazie a tecnologie sempre più raffinate, l’umanità sarà comunque in grado di trovare nuove risorse e occupare nuovi spazi. Dunque la crescita, in termini di ricchezza, non cesserà mai. Si tratta di una semplice credenza, perché nessun dato scientifico ci consente di suffragare tale ipotesi. Per contro, coloro che considerano le risorse limitate si appoggiano su costanti di ordine termodinamico: il globo terrestre è un sistema fermo perché non può scambiare materia con il resto dell’universo, pur utilizzando l’energia di calore che proviene dal sole. L’obiettivo dunque diventa quello
del riciclaggio o della scoperta di nuovi tipi di risorse, ma non sempre questo è possibile. Senza contare che il rinnovamento naturale di alcune di esse, come per esempio il fosforo sotto forma di fosfati, è troppo lento. Questa posizione è fatta propria dai fautori delle politiche di austerità e dai partiti ecologisti, che difendono l’ossimoro della cosiddetta “abbondanza frugale”».


Sembrano due posizioni assolutamente
inconciliabili.

«Almeno in linea di principio si può però superare tale antagonismo ponendo la questione in questi termini: le risorse del pianeta non sono affatto illimitate, ma non sono neppure limitate in modo fisso e predeterminato.
Bisogna far propria un’idea dinamica di limite, utilizzando al meglio i progressi compiuti e concentrando l’attenzione su una gestione razionale delle risorse. Innanzitutto proscrivendo tutte quelle produzioni che soddisfano soltanto bisogni immaginari o dettati da una mera logica di profitto e sopraffazione. Penso ad esempio agli Ogm, alle monocolture su base industriale che mettono in ginocchio le coltivazioni tradizionali. E penso anche al ritardo criminale in materia di transizione energetica al fine di rimpiazzare le risorse fossili con risorse rinnovabili. Senza contare, da ultimo, gli effetti disastrosi delle delocalizzazioni e della mondializzazione, a partire dai costi spropositati dei trasporti».


Lei insomma sposta l’attenzione dal rapporto ecologico uomo-natura a un piano più squisitamente politico.

«Assolutamente sì. La qualità delle relazioni tra gli esseri umani e la natura è strettamente legata al rapporto che gli esseri umani instaurano tra di loro. Il saccheggio delle risorse umane si accompagna sempre
al saccheggio delle risorse naturali. Se i rapporti sociali sono brutali e violenti, allora si verifica ciò a cui assistiamo oggi: la razzia indiscriminata dell’ambiente e la devastante mercificazione del patrimonio comune. Al contrario, in un mondo in cui prevalessero rapporti sociali più equi e rispettosi, si potrebbero creare le condizioni di un rapporto più armonioso anche con il pianeta».


Da qui anche una sua vis polemica contro certo ecologismo.


«Io riconosco a tutto il movimento ecologista uno straordinario merito: quello di aver posto all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale il rischio enorme dell’attuale situazione. Però non condivido alcuni aspetti dell’ideologia ecologista, lo svilimento dell’umanità rispetto a una fantasmatica “natura” che va protetta come una reliquia. Ad esempio, i fautori della decrescita felice non vedono che il problema vero è quello della ripartizione più equa delle risorse. Oppure, tanti ambientalisti pensano che tutto possa risolversi con un generico appello alla coscienza individuale. Ma che senso ha affermare che l’Uomo, in quanto tale, è colpevole? Che siamo tutti colpevoli in eguale misura? Che tutto si risolve attraverso il mutamento delle nostre abitudini? Non è vero. E sono i numeri a dircelo. Io posso anche convertirmi all’auto elettrica, ma il mio gesto risulterà ininfluente se si continua a perseguire la logica folle
della mondializzazione nella circolazione delle merci, con l’emissione spropositata di combustibili fossili necessaria al loro trasporto. Mi chiedo: quando finirà l’assurdità di gamberetti pescati nella baia di Baffin, sgusciati in Marocco e impacchettati in Danimarca che arrivano poi sugli scaffali dei nostri centri commerciali? Magari ad opera di quelle stesse catene distributive che hanno anche la faccia tosta di spingerci ad acquistare buste di plastica ecologiche con il logo del Wwf».


Lei però è anche molto critico sull’eventualità che la politica affidi le sue scelte a quanto indicato dalla comunità scientifica.

«È un’idea rovinosa. Intanto perché la scienza non è affatto neutrale. È condizionata da mille fattori: i pregiudizi del momento, l’ideologia delle classi dominanti, la logica del profitto, il percorso biografico degli scienziati, gli investimenti verso questo o quel settore di ricerca a scapito di altri. No, io continuo a credere che solo all’interno di un autentico processo democratico gli uomini possano finalmente riappropriarsi del loro destino, e invertire la rotta che ha condotto a mille catastrofi: da Bhopal a Chernobyl. I veri produttori della ricchezza – coltivatori, tecnici, allevatori, pescatori – sono stati espropriati degli strumenti necessari per intervenire sui processi che hanno portato a quelle sciagure. E questo è accaduto sia all’interno delle società cosiddette socialiste che in quelle liberali. Ciò detto, certo, la politica deve saper ascoltare quanto la scienza le dice. E la scienza ci dice in modo inequivocabile che l’attività dell’uomo influisce sul clima del pianeta e che, se non si fa nulla per bloccare il riscaldamento globale, si va verso il disastro».


Lei ritiene che siamo già arrivati a un punto di non ritorno?

«Posso solo dirle questo: il tempo della politica e quello dell’ecologia non combaciano. La politica ha uno sguardo sempre più corto, mentre, se anche noi oggi prendessimo finalmente le decisioni giuste, gli effetti benefici si vedrebbero soltanto dopo molto tempo, a causa delle inerzie ecologiche su scala planetaria. Provo a spiegarmi con un’immagine che ho già utilizzato in altre occasioni: è come se fossimo a bordo di un camion e, nell’imminenza di un potenziale incidente, decidessimo all’improvviso di frenare. Ma l’inerzia è tale che il camion, prima di fermarsi, percorrerà ancora un bel tratto di strada. Inutile aggiungere che non stiamo affatto frenando, ma al contrario
continuiamo a correre a rotta di collo….».


Quindi?

«Quindi, sulle cause astronomiche dell’andamento climatico non possiamo certo intervenire, ma sui fattori che dipendono da noi sì: in particolare, sulle emissioni di gas a effetto serra. Non è detto che tutto ciò sia sufficiente, ma è evidente che non si può assolutamente eludere quel passaggio. L’ho già scritto e lo ripeto qui: siamo nella stessa situazione di Pascal rispetto a Dio; pur non esistendo la prova, lui scommise sulla sua esistenza. E noi a nostra volta dobbiamo scommettere che non sia troppo tardi per salvare la specie umana e il pianeta Terra. Anche se le confesso che, a momenti, mi sembra una scommessa disperata».

project financing e l'inerzia culturale nella tutela del territorio»
Un grazie molto sentito e sincero al Presidente Clodovaldo Ruffato e un saluto molto cordiale a tutti voi. In questi giorni ho pensato molto a questo incontro per dare al grido del digiuno non un significato di contrapposizione, ma di coinvolgimento.
Lo sapete che il digiuno prolungato mette le persone in uno stato di grande debolezza fisica per cui costituzionalmente si ha bisogno degli altri e qui anche istituzionalmente.

Voi forse vi aspettate che venga subito al nocciolo per quanto concerne la nostra Regione, il campo dove lavorate come nostri rappresentanti.
Invece sono obbligato da un'altra partenza. Non spetta a me e nemmeno sono competente per suggerire soluzioni tecniche. Ho scelto di esporvi il mio travaglio, senza pretese, ma con grande schiettezza pur nel rispetto e nella riconoscenza per quello che ognuno di voi cerca di realizzare per il bene comune. (Tenete presente che da anni la mia attività si muove su due versanti: quello sociale con le situazioni più povere e precarie; nello specifico oggi con le persone che hanno perso il lavoro e il settore dei sinti e rom. Sul versante politico alcuni interventi di interposizione nonviolenta in zone di conflitto armato ed educazione alla nonviolenza e alla pace; anche conoscenza e partecipazione alle attività di molti comitati ambientali grazie al servizio di informazione con Radio Cooperativa.

Il mio digiuno è partito alla chetichella la sera di ferragosto, ma è stato come avessi levato il tappo a una bottiglia.
Esiste una sofferenza diffusa per quanto concerne le scelte ambientali. Non avrei mai pensato che il digiuno sarebbe stato scelto come modo di impegnarsi per l’ambiente e per sensibilizzare la popolazione.
Vengo al mio percorso.
Quello che mi ha scioccato da due anni a questa parte sono due dati uno generale e uno locale.

1. Il pianeta.

Cito: “ Ci troviamo di fronte a una svolta nella storia del pianeta, in un momento in cui l’umanità deve scegliere il suo futuro (...) La scelta sta a noi: o creiamo un’alleanza globale per proteggere la Terra e occuparci gli uni degli altri, oppure rischiamo la distruzione, la nostra e quella della diversità della vita”. Ho citato dalla “Carta della Terra”.
Le due principali fonti di distruzione:
a) la macchina di morte della tecno-scienza: armi nucleari, chimiche e biologiche (25 modi diversi per distruggere l’umanità) b) il caos che abbiamo creato nel sistema Terra e che si manifesta attraverso il riscaldamento globale. Negli ultimi 5 anni si sta registrando, non solo il disgelo delle calotte polari, ma anche lo scioglimento del permafrost, il suolo perennemente ghiacciato del Canada e della Russia, con l’immissione in atmosfera di milioni di tonnellate di metano, che è 23 volte più dannoso dell’anidride carbonica per l’effetto serra. L’ossido nitroso, liberato dai fertilizzanti è 40 volte più distruttivo. Secondo l’ultimo rapporto ONU di valutazione degli Ecosistemi del Millennio, dei 24 elementi che sono fondamentali per la vita, 15 registrano un elevato grado di degenerazione; il pianeta è esausto, la madre Terra ha raggiunto il limite di sopportazione.

Il 20 agosto scorso l’umanità ha esaurito le risorse naturali che aveva a disposizione per l’intero 2013; in meno di 8 mesi sono state consumate le riserve di cibo (vegetale e animale), acqua e materia prime che sarebbero dovute bastare fino al 31 dicembre, immettendo nell’ambiente (suolo, fiumi, mari, atmosfera) una quantità di rifiuti e inquinanti superiore alla capacità di smaltimento del pianeta.

Questi dati, probabilmente noti a molti di voi, li sentite come una notizia pur importante o come una emergenza reale? E se è vera emergenza va affrontata direttamente e subito, o dobbiamo aspettare che tutti siano d’accordo per partire?
Quelli forniti non sono sentimenti, sono dati. Questo mondo in cui siamo cresciuti è finito, la crisi sta imprimendo un velocità imprevedibile. Qualcuno pensa che in qualche modo la crescita sarà una via d’uscita? Questa crisi non è solo economico finanziaria, è entropica.

Il pianeta così come stanno le cose, oggettivamente non ce la fa più.

2. Il Veneto

Vengo al secondo dato: il Veneto.

La mia origine è stata segnata dall’appartenenza alla Terra. I miei genitori, che vivevano da fittavoli in una grande famiglia patriarcale, hanno scelto di passare a una condizione di mezzadri pur di crescere una famiglia come sembrava loro giusto. La penultima categoria della società, dopo c’erano i braccianti.

Devo confessarvi che i dati riguardanti il consumo di suolo nel Veneto per me sono stati alla base della decisione del digiuno, perché sono direttamente collegati a quanto riferito sopra sulla situazione globale.
Il Veneto è una delle Regioni più attive nel mondo nell’affaticare il pianeta. C’è stata una crescita esponenziale delle infrastrutture viarie e delle urbanizzazioni, una crescita indifferente alla storia, alla natura dei luoghi e ai valori del paesaggio veneto, accompagnata dalla polverizzazione delle imprese diffuse ovunque, che hanno comportato la dispersione insediativa e la conseguente congestione delle infrastrutture della mobilità.

La cementificazione dei suoli riguarda quindi anche i terreni più fertili della pianura veneta, mentre la costruzione di sempre nuove strade, autostrade e superstrade, svincoli e tangenziali hanno determinato una ulteriore frammentazione degli spazi destinati all’agricoltura.

È stato un crescendo dagli anni 80 in poi: dai 72 milioni di mq all’anno di perdita di Suolo Agrario Utilizzato degli anni Ottanta, ai 97 milioni mq/anno negli anni Novanta, ai 182 milioni mq/anno dal 2000 in poi.
Un consumo di suolo pari a 38 ettari al giorno. Tra il 2000 e 2010, a fronte di un incremento della popolazione di 429.274 abitanti, sono state costruite 367.354 nuove abitazioni per una popolazione di 1 milione di abitanti.

Il Veneto così risulta la regione più cementificata d’Italia. Un modello di sviluppo la cui insostenibilità viene evidenziata anche dai dati relativi all’impronta ecologica dei suoi abitanti . Nel 2009 al Piano Regionale di Coordinamento (PTRC) si riscontra che, a fronte di una media nazionale pari a 4,2 ettari pro capite/anno, l’impronta ecologica degli abitanti del Veneto è pari a 6,43 ettari pro capite/anno . Cioè per sostenere i consumi e assorbire l’inquinamento di ogni abitante veneto sono necessari 6,43 ettari di terreni “biologicamente attivi”. Ma la “ bio-capacità ” del Veneto è pari a 1,62 ettari/abitante, quindi un “deficit ecologico” di 4,81 ettari pro capite/anno; deficit finora compensato con lo sfruttamento di risorse di altre regioni e continenti, ma che è facile prevedere, con la rapida crescita economica di Paesi emergenti, non sarà più praticabile in un prossimo futuro.

Il Veneto già oggi non ha l’autosufficienza alimentare.
So che conoscete bene i dati che vi ho esposto. Ma averli tutti davanti rimane comunque indispensabile per guardare a quello che stiamo facendo e cercare di trovare risposte per andare avanti.
Sono cifre che basta conoscere o cifre che ci impongono una svolta?
È in emergenza reale anche il Veneto o si trova soltanto in una situazione un po’ critica?
Al camper durante il digiuno erano appesi i 30 progetti iniziati o in partenza di strade e autostrade, i vari poli ospedalieri e le opere marittime. Non c’erano Veneto city – Tessera city – Motor city – né le cave, le discariche (a parte quella di Vianelle) le centrali idroelettriche, a biogas, a biomasse, né i dati rispetto alla fragilità idrica del territorio e all’inquinamento dell’aria. La pianura padana è una delle zone più inquinate e inquinanti d’Europa .

E pensare che a livello comunitario al 2050 dovremo ridurre del 70% il consumo energetico nei trasporti rispetto al 2009 e ridurre del 60% le emissioni di gas climalteranti rispetto al 2008!
Un documento della Chiesa italiana del settembre 2012 è intitolato “Educare alla custodia del creato per sanare le ferite della Terra” e testualmente dice: “Ritessere l’alleanza tra l’uomo e il creato significa anche affrontare con decisione i problemi aperti e i nodi particolarmente delicati, che mostrano quanto ampie e complesse siano le questioni legate all’intreccio tra realtà ambientale e comunità umana”.
Accanto all’annuncio infatti, è necessaria anche la denuncia di ciò che viola per avidità la sacralità della vita e il dono della Terra”.
E continua: “L’ambiente naturale non è una materia di cui disporre a piacimento, ma un’opera mirabile del Creatore, recanti in sé una grammatica che indica finalità e criteri per un uso sapiente, non strumentale e arbitrario.”
Veniamo tutti da un pensiero unico e cioè che lo sviluppo e la modernità ruotano attorno alla centralità dell’economia e della finanza, per cui anche il futuro si apre se saremo capaci ancora di crescita quantitativa.

Direi che siamo prigionieri, chi più chi meno, di questa concezione. A chi di noi è mai venuto in mente di prendere sul serio il punto di vista della Terra e dei suoi diritti, l’organismo vivo che fornisce gli elementi della vita a tutti gli altri esseri, viventi, noi compresi?

Mettiamoci con sincerità davanti a tutte le opere pubbliche e private, Mose compreso. Quante appartengono alla programmazione politica per un servizio alla popolazione e alla cura del paesaggio, quante invece rispondono allo sviluppo e al consolidamento di interessi di grandi gruppi della finanza e dell’economia? Vedete come i conti non tornano per gli enti pubblici, né a livello nazionale né a livello degli Enti locali. Sono sempre meno le risorse a disposizione. Eppure tanti privati si offrono a investire; per chi? Per il bene comune? Si fa sempre più ricorso al project financing pensando a benefici pubblici: un assunto del tutto falso. I privati realizzeranno le opere solo se l’Amministrazione pubblica si impegna a coprire i costi, anche qualora gli investimenti fossero maggiori del previsto o il traffico (nel caso delle opere viarie) minore del previsto. Dunque per i privati proponenti, rischio zero e guadagno certo. Per la collettività, utilità incerta e altissimo rischio di costruzione di un debito differito di ingenti proporzioni, addossato alle future generazioni. Questo è il nodo centrale, questo è il futuro. Progetti partiti in tempi ormai lontani e che non rispondono né ai servizi veri per la popolazione, né al restauro e alla bellezza del territorio e del paesaggio. Andando di questo passo non vi pare che di usufruibile gratuitamente da tutta la popolazione non rimarrà più niente neanche spostarsi da una località all’altra?

Sono in programma anche campi da golf, naturalmente con villette attorno e solo per ricchi....
Sto pensando al recupero fatto nelle città medioevali dell’Umbria, della Toscana, delle Marche. A tutti noi si allarga il cuore per questi scrigni recuperati e conservati di città e borghi. Perché deprezziamo il Veneto così ricco di arte, di gioielli disseminati ovunque e spesso ormai abbandonati, con bellezze naturali ineguagliabili e produzioni agricole di pregio? Nostalgia rivolta al passato o valore aggiunto per il futuro? Perché il territorio e il paesaggio in quanto tali non diventano il centro di interesse collettivo, capace di attirare gli investimenti necessari per mettere in sicurezza il sistema acqua bene comune, invece di fare le scelte più impattanti, mettendo a rischio le falde e le ricariche e rubando suolo alle coltivazioni?

Perché non è possibile un piano trasporti integrato ferrovia-strade a partire dai bisogni della popolazione, che si sposta sempre più con i mezzi pubblici per necessità, invece di privilegiare solo la fetta ricca della società, con TAV e fantomatici corridoi, che esistono solo nella testa di alcuni politici, ma certamente non nella realtà né all’est né all’ovest dell’Italia? Eppure una pioggia di miliardi. Perché non consolidare e rendere più efficiente e meglio coordinato l’esistente con un’occupazione costante?

Sappiamo tutti che ci sono molte falle di trasparenza e di legalità, conflitti di interessi in atto, non solo per il Mose. È una questione morale ineludibile, anche per il rischio ormai documentato di infiltrazioni mafiose.

Quanto avvenuto con gli ingegneri Baita e Mazzacurati non è un incidente di percorso; è la creazione e il funzionamento di un sistema di corruzione ramificato e stabilizzato.
Ho domandato ormai a tutti; nessuno mi ha fornito una risposta. Perché né ai parlamentari, né ai senatori, né ai consiglieri regionali è stato finora possibile accedere ai dati riguardanti il piano economico di un’opera pubblica della portata dell’autostrada pedemontana veneta? È un’opera pubblica; dovrebbe essere un diritto poter accedere agli atti. Ci sono due sentenze del TAR consolidate rispetto al mantenimento del commissario Silvano Vernizzi, che personalmente non conosco e che può essere la persona più straordinaria di questo mondo, ma che di fatto ricopre ruoli (presidente Veneto Strade e responsabile delle valutazioni del VIA) che comportano evidente conflitto di interessi.

Sapete che dopo le sentenze del TAR e il decreto del Governo Monti di riconferma del commissario si è aperta una eccezione di costituzionalità che finirà alla Corte Costituzionale. Penso sarebbe più onorevole per tutti, prima di tutto per l’istituzione regionale, mantenere il controllo e la vigilanza in corso d’opera invece che dover affrontare amare sorprese con perdita secca di credibilità a opera compiuta! Sarebbe veramente triste pensare che il palinsesto e il calendario della politica debbano dipendere dalle sentenze dei tribunali.

C’è un altro problema cruciale: il lavoro. Da sempre viene riproposto solo con le grandi opere pubbliche o private, con i grandi investimenti ad alto impatto ambientale e con ricavi esclusivamente a vantaggio dei privati. Sapete che c’è molta propaganda per giustificare scelte, che non sono per il bene della collettività. Ci sono esempi ormai eclatanti di modalità di lavoro diffuso, che concilia maggior risparmio e maggiore occupazione.

Faccio un semplice esempio. Con un miliardo di euro di investimento in raccolta differenziata spinta (porta a porta) e riciclo, si creano 200 mila posti di lavoro permanente. Per gestire la stessa quantità di rifiuti con l’incenerimento il costo si aggira sui 15 miliardi di euro con 3000 occupati.

Per l’occupazione, con la stessa spesa, c’è un rapporto di 1 a 1000 senza ricorrere a grandi opere. È quanto avvenuto a Ponte nelle Alpi: riciclo oltre il 90%; costo smaltimento rifiuti da 475.000 euro/anno a 40.000; occupazione da 5 operai a 13; con soddisfazione dei cittadini.

Oltre al Presidente di questo Consiglio regionale al camper del digiuno sono venuti altri rappresentanti politici di vari partiti. Mi sembra di capire che la linea sia quella di portare a termine quanto approvato e poi, un po’ alla volta rivedere programmi e progetti. Siamo di fronte a un impoverimento della popolazione sempre più veloce e diffuso. Partiamo dalle opere o partiamo dalle persone per affrontare la crisi? Non è problema di poco conto, sia per riorganizzare i servizi sociali nei singoli Comuni, che quelli sanitari e ambientali.

Una volta detto alle persone che sono esauriti i fondi per l’assistenza, non sono risolti i problemi, anzi. Rischiamo a breve di trovarci con una società a due velocità e con il rischio di conflitti sempre più forti per le necessità dei più poveri.

Per questo vi supplico di esercitare la vostra responsabilità umana e istituzionale verso tutti i cittadini: a partire dal riconoscimento dell’emergenza sociale e ambientale del Veneto (siamo in una crisi entropica e non solo strutturale) diamo un segnale di grande discontinuità con una moratoria su tutte le opere pubbliche e private che comportano un’ulteriore sottrazione di suolo coltivabile e una devastante colata di cemento e asfalto, snaturando ancora di più la realtà e la vocazione agricola del Veneto.

Infine una parola sui comitati. Da anni con Radio Cooperativa ho avuto modo di seguirne le vicende.
Generalmente si tenta di liquidarli tacciandoli di negatività fine a se stessa.
Devo confessare che, mai come in questi anni, i comitati hanno sviluppato competenze tecniche e giuridiche e soprattutto sono stati aperti al dialogo, se viene accettato, per offrire alternative. Tante volte mi sono domandato perché non venga preso in considerazione la ragionevolezza delle loro proposte, sapendo che nessuno di loro lavora per interessi privati o particolari.

Per me sono le sentinelle e i parafulmini della società e della Terra. Veramente la passione per il bene comune ha guidato in questi anni la loro attività e la loro dedizione. Se la vitalità della democrazia si misura dalla partecipazione attiva alle scelte importanti per tutti, dobbiamo ai comitati grande riconoscenza.

Vi prego di accogliere quanto esposto non come una pretesa, ma come una preghiera pressante.
Di nuovo grazie per avermi accolto e ascoltato.

Don Albino Bizzotto

Venezia, 3 settembre 2013


Record in Laguna: 12 navi in un giorno per fare “schei ”. Il 21 settembre assalto storico. L’assessore Bettin: «polveri a tonnellate». Ma è molto peggio di quanto appare.Il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2013, con postilla

Venezia. Un treno infinito, improbabile, sconcertante, lungo tre chilometri, che arriverà a Venezia il 21 settembre prossimo. Provate a immaginarlo. Ecco. No, non così, perché un treno lungo tre chilometri di sconcertante ha solo la lunghezza. E poi i treni non entrano a Venezia, non la attraversano. Non la sventrano. Arrivano laddove inizia, a Santa Lucia. E si fermano. Da lì in poi tocca solo ai vaporetti. Quindi quello che avete immaginato è infinitamente minore, meno dannoso e meno inaudito di ciò che quel giorno accadrà a Venezia.

Già, pare che per inaugurare al meglio l’autunno (o per salutare al peggio l’estate, a seconda dei punti di vista), il Porto di Venezia abbia deciso di entrare nel Guinness dei primati. Un primato che tanti avrebbero preferito non infrangere. Tanti, non tutti. Tanti, molti veneziani sono felici di questo, invece. Pensate che bello: il 21 settembre 2013 arriveranno a Venezia tre chilometri di transatlantici.

So che può sembrare un refuso, una svista, un’esagerazione. Invece è tutto vero: dodici grandi navi, 771.987 tonnellate di stazza lorda, 30mila persone a bordo. E se considerate che Venezia non arriva a 60mila abitanti complessivi... Serve altro? Eppure, ecco, tocca pure commentarla una roba del genere. Perché nel Paese delle piccole e grandi anomalie, le grandi navi a Venezia sono ovviamente considerate normali. L’assessore all’Ambiente Gianfranco Bettin ieri ha preso una posizione dura in proposito: “Il Comune di Venezia, con l’assessorato all’Ambiente sosterrà il prossimo 21 settembre uno sforzo straordinario di monitoraggio sotto ogni profilo della eccezionale situazione che si creerà in quella giornata a Venezia. Cercheremo di misurare in particolare il rumore, le polveri sottili e gli ossidi di azoto emessi (polveri e ossidi certamente a tonnellate) dai giganti del mare entrati in laguna e in città e di osservare gli spostamenti di masse d’acqua e le variazioni di marea che provocheranno.

Si tratterà, in un certo senso, di un esperimento enorme sulla pelle viva dei veneziani, al quale, certamente, ci saremmo sottratti volentieri”. Ora, davvero: come si fa a commentare una notizia del genere? Proprio in questi giorni, poi, che dopo più di un anno e mezzo inizia - forse - a essere rimosso il relitto della Costa Concordia dallo sguardo ormai estenuato degli abitanti dell’Isola del Giglio . Ma tanto ce lo ripetono ogni giorno, i responsabili del Porto di Venezia. Impossibile possa succedere qualunque incidente, in laguna. Lo ripetono, lo garantiscono, lo giurano. E noi glielo auguriamo che sia così, che abbiano ragione loro, anche se il punto non è questo. È l’oltraggio quotidiano all’intelligenza di un transito assurdo a dover essere messo in discussione. È lo sventramento quotidiano subìto dalle acque fragili della laguna da parte di questi mastodonti sul quale riflettere.

E quelle dodici navi tutte insieme, dopo le polemiche recenti, sembrano una sorta di sfida finale. Una dimostrazione di forza definitiva. Di cui vantarsi, ovviamente. Chi abita a ridosso delle rive sia veneziane che giudecchine, al passaggio delle navi subisce il black out delle tv. Roba di due, tre minuti, nulla più. Ma anche questo la dice lunga su quei così enormi che passano a poche decine di metri dalle nostre case. E se adesso state immaginando che dopo una notizia del genere la conseguenza più naturale sia che i veneziani quel 21 settembre scendano in calle o in campo o in riva a protestare in massa contro questa cosa, toglietevelo dalla testa. Se questo è un Paese ormai rassegnato e amorfo, Venezia lo è ancora di più. Peggio. Per una gran parte dei veneziani, forse la maggioranza, le navi “porta schei”. E allora cosa volete che siano quasi tre chilometri e ottocentomila tonnellate di ferraglia? Poi, che anche su quegli “schei” ci sia da discutere, poco importa. Allora viene proprio da dirlo: non so voi, ma io il 21 settembre, a differenza delle navi, girerò al largo da Venezia.

postilla
l passaggio dei grattacieli flottanti nei canali della città storica è solo l’aspetto più vistoso del danno inferto alla città e al territorio della Laguna. Certamente non l’unico, e forse neppure il più grave. Basta leggere l’ultimo libretto di Lidia Fersuoch, Confondere la Laguna, della collana Occhi aperti su Venezia, per comprendere la posta in gioco. Perché solo una combattiva minoranza si oppone alla devastazione? Perché tutti sono pervasi dall’ideologia dello “sviluppo”. Per assicurare il benessere occorre, secondo il pensiero comune, mercificare e vendere per quattro baiocchi qualsiasi bene, senza curarsi del degrado ce così si produce. Storia e futuro sono dimensioni scomparse dalle teste di chi governa – e, ahimè, di chi si lascia governare.

«Per OGNI famiglia Che Vedrà legalizzato un Abuso, Una famiglia Che avrebbe invece diritto all'abitazione Secondo Le regole e le graduatorie Perdera la casa». Corriere della Sera, 13 settembre 2013
Circola in Italia strana Una idea di legalità. I Suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare Il Ruolo improprio di «controllori» ma non Appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per Calcolo elettorale. E Il Caso di Napoli, città-faro del Movimento giustizialista Visto Che ha Eletto sindaco un pm, colomba has been Appena approvata, Praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle casi comunali. Nel capoluogo partenopeo si Tratta di un Fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le Domande di condono Giunte al Comune per altrettanti Alloggi. Per OGNI famiglia Che Vedrà legalizzato un Abuso, Una famiglia Che avrebbe invece diritto all'abitazione Secondo Le regole e le graduatorie Perdera la casa. NON C'E Modo Migliore di sancire la legge del Più forte, del Più Illegale; e di Invitare Altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare Alloggi Destinati: ai bisognosi.

Ma Nelle PARTICOLARI Condizioni di Napoli la sanatoria Non E assolo iniqua; E Anche un premio alla Camorra Organizzata. E Stato infatti provato da Inchieste giornalistiche e Giudiziarie Che «l'Occupazione abusiva di caso è i clan per la Modalità Privilegiata di Occupazione del territorio», vieni ah Detto un Pubblico Ministero. In rioni diventati tristemente famosi, un Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per Mettere al posto Loro Gli Affiliati oi clientes della famiglia camorristica e Il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le Strutture architettoniche dell'Edilizia popolare per Creazione e veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di Blocco, Praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga.

Non Che tutto this non lo Sappia il sindaco de Magistris, il Che a Napoli ha Fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la Responsabilità of this Scelta. L'ha però lasciata tariffa al Consiglio Comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non e Una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa ». E in Effetti e Una delibera Che riconosce il diritto alla casa a chi Già ce l'ha, avendola Occupata con la forza o l'astuzia.

This Genere di arretramento del diritto, dettato da interesse politico, populismo sociale o connivenza vera e propria, ha Fatto di Napoli la città sregolata e dolente Che ë. QUANDO una New York si decise di applicare la teoria della «tolleranza zero", si Comincio con il controllare Quelli che viaggiavano Sulla metropolitana senza biglietto. La Polizia Municipale fu stupita di Scoprire Che la Maggioranza dei Fermati era ricercata Dalla Giustizia per Altre Ragioni. Se de Magistris volesse osare un colpo serio alla Criminalità Organizzata Nella SUA città, potrebbe forse cominciare col GUARDARE nell'elenco di occupanti abusivi Che il Suo Comune ha Appena DECISO di legalizzare.

Infrastrutture a casaccio, inseguendo gli affari anziché la programmazione, come si fa in Europa ma non in Italia per «scellerate politiche di deregulation che hanno cancellato i pochi strumenti di pianificazione dei trasporti che si era data con fatica». Il manifesto, 13 settembre 2013

Un Paese che guarda al futuro deve avere una struttura di programmazione pubblica in grado di avere il controllo del quadro complessivo delle opere da realizzare in coerenza con l'Europa. E al variare dei parametri in gioco questa struttura dovrebbe essere in grado di compiere scelte nell'interesse generale.

Ritorna dunque il nodo scorsoio cui l'Italia è stata appesa dalle scellerate politiche di deregulation che hanno cancellato i pochi strumenti di pianificazione dei trasporti che l'Italia si era data con molta fatica. Era infatti costata venti anni di discussione l'approvazione nel gennaio 2001 del Piano generale dei trasporti e della logistica, un quadro certo imperfetto, ma simile a quelli in uso negli altri paesi europei, e cioè una bussola per orientare il sistema paese. Nel dicembre dello stesso anno nasce la cultura delle «grandi opere» senza alcuna coerenza tra loro ma guidate dagli appetiti delle lobby: Con il secondo trionfo elettorale berlusconiano nasce la legge Obiettivo (443 - dicembre 2001). Con la consueta bravura mediatica subito amplificata dalla disinformazione imperante, quella decisione fu descritta come il passaggio da una "visione burocratica" alla modernità. In realtà era il contrario: si colpiva al cuore la già debole funzione pubblica e ci allontanavamo dai paesi che conservano gli strumenti programmatori.

Un solo esempio. Il primo programma delle infrastrutture strategiche del dicembre 2001 conteneva 115 opere mentre attualmente esse sono diventate 390: un gigantesco puzzle senza coerenza e efficacia. E mentre il primo fiume di soldi pubblici che doveva sostenere le opere spesso inutili era giustificato da segnali economici flebili ma positivi, dal 2008 siamo piombati nella più grave crisi economica mondiale. Eppure tutto continua peggio di prima: il primo programma prevedeva di 126 miliardi pubblici; oggi sono diventati 367. Contemporaneamente si continua a colpire senza pietà il welfare urbano e le reali condizioni di vita dei cittadini.

A causa della crisi economica mondiale, il 21 marzo 2012 il governo portoghese ha annunciato l'abbandono dell'alta velocità ferroviaria e sono note le disastrose condizioni dei paesi dell'Est europeo. La fantastica spina dorsale dell'Europa - così è stata descritta - Lisbona-Kiev si è ridotta alla modesta tratta Torino - Lione. E addirittura il 12 luglio di quest'anno il Sole24Ore riporta la seguente affermazione di Mario Virano, commissario di governo per l'opera: «La ratifica del trattato internazionale da parte di Francia e Italia e l'ok dell'Europa a garantire il 40% di copertura dell'opera» sono le condizioni per partire. Condizioni senza le quali, aggiunge il Sole, «probabilmente i francesi potrebbero tirarsi indietro forse anche prima degli italiani».

Dunque abbiamo una grande "operetta" inutile di fronte ad una prospettiva del corridoio del San Gottardo in grado di garantire l'ancoraggio tra nord e sud Europa entro pochi anni. Se avessimo quella struttura pubblica di controllo scientificamente competente e indipendente dalle lobby che fu cancellata dalla cultura berlusconiana ci sarebbero le condizioni per ripensare il sistema di trasporto transnazionale alla luce delle mutate condizioni. Non se ne vedono le condizioni. Il ministro Lupi presidia la cassaforte per le grandi opere e il governo pensa solo a misure di polizia contro la popolazione della Val di Susa. Ma non è con la criminalizzazione di tutte le persone che non sono d'accordo con i cacciatori di soldi pubblici che si risolvono i problemi di prospettiva del sistema Italia. Bisogna invece prendere atto che è la deregulation che ha dominato il paese negli ultimi 20 anni la causa principale della mancanza di un moderno sistema di infrastrutture e del fallimento economico in cui ci dibattiamo. E' questa l'unica prospettiva per uscire dal tunnel.

La merce va al nord: centomila euro per ricostruire un’intera zona
di Giuliano Foschini

Un pezzo di paesaggio pugliese in una villa in Brianza: l’ulivo secolare, il muretto a secco, il trullo. La scogliera sarda in una piscina sul litorale romano. Un casale umbro in Veneto, la terra rossa della Valle d’Itria all’Argentario. In Italia esiste un mercato assai particolare in grado di annullare la geografia, alterare l’ambiente e molto spesso consegnarsi al kitsch: è il mercato dei ladri di paesaggio. Sono contadini, vivaisti, architetti di esterni che si offrono di prendere un pezzo di un territorio e di riproporlo uguale e identico in qualsiasi parte d’Italia, anche a migliaia di chilometri di distanza.

Non lo fanno per bellezza, ma per denaro. Tanto: un albero secolare può costare anche diecimila euro, compreso di espianto e reimpianto. Mentre per ricostruire una zona si arriva a centomila euro. La regione che più delle altre viene saccheggiata è la Puglia, che ha nel suo territorio agricolo specificità chiare, a tratti uniche: gli ulivi secolari, per l’appunto. Ma anche la terra rossa nella quale crescono, i muretti a secco e addirittura i trulli. Ci sono vivai che vendono pacchetti interi mentre basta fare un giro su Internet per comprare un ulivo secolare. I prezzi variano dai mille ai cinquemila euro (compresi di trasporto e impianto), per realizzare un trullo non si va sotto i ventimila a cono mentre i muretti a secco, con pietre originali, non costano meno di 300 euro a metro quadrato. « mercato è florido, da quanto ci risulta le richieste sono molto alte» spiegano le forze di polizia che da anni hanno dichiarato guerra a questi predoni. Soltanto quest’anno ci sono stati un centinaio di sequestri: l’ultimo, effettuato dalla Finanza, è di sabato scorso quando su un camion sono stati trovati tre ulivi appena spiantati pronti a partire per un vivaio del Nord.


« vero problema - spiega il vice presidente nazionale di Legambiente, Edoardo Zanchini - è che non esistono leggi che tutelano un bene importante come il paesaggio. Proprio la Puglia ha, col governo Vendola, varato una legge importante per tutelare gli ulivi secolari. Ma evidentemente c’è qualcosa che non funziona, visto che il mercato non si è mai fermato: proprio l’altro giorno, con Goletta Verde, eravamo all’Argentario e ci siamo accorti che improvvisamente era spuntato un enorme ulivo secolare». Legambiente ha avviato una ricognizione per verificare i danni dei predoni del paesaggio. «È incredibile quello che è successo sulla costa dove è cambiata la morfologia: per creare spiagge laddove non ce n’erano, e creare accessi al mare dove esistono scogliere, sono state sbancate dune, rubata spiaggia qui e là che ha cambiato proprio la linea della costa».

«Effettivamente questo è un fenomeno nuovo però dal nostro punto di vista molto affascinante» commenta Mauro Agnoletti, professore della facoltà di Agraria dell’Università di Firenze e coordinatore della commissione di paesaggio agrario al ministero dell’Agricoltura. «Si sta riscoprendo l’importanza del paesaggio e non della singola pianta, ma dell’intero ambiente. Però il paesaggio va curato, restaurato ma non stravolto come sta accadendo anche perché non esistono catalogazioni e normative specifiche». Il professore cita per esempio il caso di querce secolari «prenotate l’anno precedente e poi spiantate con i bulldozer e le gru per essere trasportate in ville private. Ma anche alberi di agrumi, magari caratteristici della Sicilia, che finiscono al Nord. Il problema è che deve esistere una differenza tra una pianta e un soprammobile

Salviamo quei tesori dagli sfregi estetici
di Carlo Petrini

Mentre attraversavo il Salento non riuscivo a credere che per anni gli ulivi secolari e i muretti a secco che stavano rendendo il mio viaggio più piacevole fossero stati regolarmente estirpati dal territorio per finire in qualche spazio privato. Dopo anni di sciacallaggio del paesaggio (scusate la rima, ma questo è) ora in Salento ci sono controlli ferrei e i recenti arresti lo provano. Godevo di quegli scorci, di alberi che sono meglio di un’opera d’arte, di muretti che esprimono la cultura contadina meglio di qualsiasi parola, al pari di tanti buoni prodotti. Provavo a immedesimarmi nel ladro di paesaggio, o nel “mandante”: complici in un’azione criminale e responsabili di un’aberrazione estetica doppia. Data dal depauperamento del paesaggio, ma anche dall’idea triste, da parvenu ignorante, di poter mettere quei tesori altrove, fuori dal proprio contesto territoriale come in un giardino di una villetta. Mi dicevano che durante il boom di questo nefasto commercio gli ulivi venivano venduti per un paio di centinaia di euro. Ora divieti e controlli avranno fatto lievitare i prezzi sui mercati clandestini, ma quelle cifre comunicano perfettamente la bassezza di ladri e acquirenti: vengono i brividi solo al pensiero di dover quantificare in denaro il valore inestimabile di un ulivo cresciuto poderoso e produttivo, avvoltosi su se stesso in infinite forme per cento anni, sotto il sole cocente, battuto dal vento. Quell’ulivo è del proprietario della terra, certo, ma la combinazione esatta di quell’ulivo su quella terra sono un bene comune per chi ci si può perdere con gli occhi e con l’immaginazione. Sradicarlo e venderlo significa privatizzare un bene di tutti. Ed è una zappa sui piedi clamorosa per chi abita questa terra magica, oggi meta turistica molto popolare, ma che senza ulivi secolari e muretti a secco perderebbe identità riempiendo così di deserto gli spazi tra spiagge iperaffollate e svuotando di contenuti quella cosa che ci pregiamo di chiamare territorio. Vale per il Salento ma vale per ogni angolo di questa Nazione ancora bellissima: una “grande bellezza” (per dirla come il regista) più di tutto e nonostante tutto, che non merita ulteriori scempi.

Il Fatto Quotidiano, 13 settembre 2013

Se volete vedere, annusare, toccare con mano il più grande disastro ambientale della storia d’Italia dovete venire qui, a Giugliano, Napoli, Campania, terra di camorre, malapolitica e veleni. La gente ieri si passava di mano in mano la prima pagina de Il Mattino che ha pubblicato i risultati di una indagine dell’Istituto superiore di sanità. Tutti l’hanno letta, ma nessuno si è meravigliato. “Sappiamo da anni che il nostro destino è di morire avvelenati. Ci ha ucciso la camorra con il traffico della monnezza, i politici che prendevano i voti, ma anche lo Stato che ha trasformato questa nostra terra in una enorme Monnezza Valley”. Nino è ai cancelli della Resit, una delle discariche della vergogna, il regno dell’avvocato Cipriano Chianese, colletto bianco dei casalesi. Lì sotto c’è di tutto. “È peggio dell’Aids”, disse il pm dell’Antimafia di Napoli, Alessandro Milita, davanti ai parlamentari della commissione d’inchiesta sui rifiuti. Alle tre del pomeriggio davanti alla Resit ci sono ambientalisti, normali cittadini e preti come don Maurizio Patriciello, che da anni si batte contro camorra e monnezza e che tre giorni fa si è inginocchiato davanti al Papa. “Vai avanti così”, gli ha detto il Pontefice. E lui va avanti con questa umanità che non vuole crepare nella “terra dei fuochi”. L’analisi dell’Istituto superiore di Sanità è terribile. Tutta l’area che va da Giugliano a Villaricca fino al litorale Domiziano è inquinata, ma c’è una zona rossa dove ormai l’avvelenamento di suoli e acque ha raggiunto livelli di irrecuperabilità.

Terre morte. Per sempre. Duecentoventi ettari gravidi di veleni, un livello di inquinamento che si estende alle falde acquifere per 2 mila ettari. Qualcosa come 2600 campi da calcio. Questa una volta era Campania felix, qui si facevano tre raccolti l’anno di ortaggi pregiati e frutta ottima. Da decenni il paesaggio è mutato, ora accanto ai campi ci sono le discariche. Una ogni mille abitanti, 40 in un solo chilometro quadrato, 15 milioni di rifiuti solidi urbani interrati. I casalesi e i loro referenti politici si sono arricchiti col business della monnezza. Nella Resit del colletto bianco avvocato Chianese (ottimi rapporti col padrone del Pdl casertano Nicola Cosentino) hanno interrato i veleni dell’Acna di Cengio. “Duecentomila tonnellate di sostanze tossiche – ha rivelato da pentito l’ex trafficante di rifiuti Gaetano Vassallo – ci furono pagate 10 lire al chilo”. Di cosa si trattava? Quale morbo è stato iniettato nel ventre di questa terra disgraziata? Vassallo e i suoi amici casalesi non se ne curavano. “Quella roba friggeva, era così potente che squagliava anche le bottiglie di plastica nel terreno”.
Mario De Biase, commissario di governo in Campania per le bonifiche, è terribilmente esplicito. “La bonifica è impossibile. Se qualcuno pensa che in quei terreni si possa ricreare l’ambiente bucolico di cent’anni fa sbaglia e di grosso. Ci vorrebbero i soldi di una finanziaria intera. E poi come si fa a scavare e riportare alla luce acidi, veleni, percolato inquinato. Dove li smaltiamo?”. E allora? “Allora il mio compito è quello di mettere in sicurezza quell’area. C’è già un progetto, i soldi, 6 milioni e mezzo, le gare partiranno presto. La falda è inquinata ma si tratta di vedere il tipo di inquinamento, e poi deve essere chiaro che in tutta quella zona attorno alla Resit e alle altre discariche, si devono espiantare le coltivazioni di frutta e piantare alberi no-food. L’area deve essere isolata rispetto al resto”. Il commissario insiste, carte alla mano dimostra che “non c’è passaggio diretto di Cov (composti organici volatili, ndr) e frutta e ortaggi”, ma la gente non si fida più. A Giugliano basta andare a Taverna del Re per capire che hanno ragione.

Qui, tra pescheti e campi coltivati a ortaggi, c’è il monumento alla più grande vergogna italiana: il deposito di ecoballe. Sei milioni di tonnellate di involucri che pesano una tonnellata ognuno, pieni di rifiuti. Sono lì da anni impilate in piramidi alte decine di metri, erano i cosiddetti rifiuti trattati destinati all’inceneritore di Acerra. Balle, menzogne raccontate ai cittadini della Campania da tutti, politici di destra e di sinistra, prefetti e alti commissari. In quei grossi sacchi c’è di tutto e non possono essere inceneriti se non vengono trattati nuovamente. Altri soldi, altri miliardi. E un altro inceneritore che la Regione Campania ha deciso di costruire qui, a Giugliano, nella Monnezza Valley. Era la Campania felix, una volta, prima che gli abusi edilizi divorassero la campagna, prima della monnezza, prima della camorra e dei sindaci compromessi con i boss. Ora, scrive la Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, “la catastrofe ambientale che è in atto costituisce un pericolo di portata storica, paragonabile soltanto alla peste settecentesca”.

Riferimenti


Vedi nell’archivio di eddyburg gli articoli raccolti nelle cartelle SOS Campania felix e Rifiuti di sviluppo

L'Unità, 13 settembre 2013

Il governo ha bloccato tutto. E per la magnifica struttura da oltre 700 ettari adagiata nelle Crete senesi, confiscata alla mafia per volere del giudice Giovanni Falcone, adesso può iniziare davvero una nuova vita. Il grande pressing sul governo partito dalla Toscana all’indomani della decisione dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati di metterla all’asta (era il 21 agosto scorso) e culminato nella grande manifestazione di domenica scorsa, ha avuto l’esito sperato. Ieri il viceministro dell'Interno Filippo Bubbico ha incontrato il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e con lui si è impegnato a modificare nel più breve tempo possibile la norma a cui aveva fatto riferimento l'Agenzia nazionale per i beni confiscati prendendo la decisione di vendere la tenuta, e renderla quindi compatibile con il progetto regionale di valorizzazione. Un progetto elaborato con le associazioni antimafia e gli enti locali che punta alla produzione agricola di qualità unita ad una serie di importanti attività sociali.

«È un bellissimo risultato dice soddisfatto il presidente Rossi alla fine del lungo e proficuo incontro romano che conferma la sostenibilità e il valore sociale del progetto che abbiamo condiviso con gli enti locali interessati e con tante associazioni impegnate sul fronte antimafia. Vendere la tenuta avrebbe voluto dire correre il rischio di farla nuovamente cadere nelle mani sbagliate o esporla a rischio di speculazioni. Adesso ci mettiamo subito al lavoro per concretizzare il nostro sogno».

La storia della tenuta di Suvignano è lunga e tortuosa. Azienda agricola dal potenziale enorme, è da anni in amministrazione giudiziaria, il che rende particolarmente difficile anche la gestione quotidiana. Il banale acquisto di un trattore, per esempio, richiede almeno due anni di attesa. Ciò nonostante, la struttura non ha mai smesso di lavorare e produrre, seppure con strumenti ridotti. Centinaia di ettari coltivati a grano, foraggio, olivi, foreste e poi 1800 pecore, maiali di cinta senese, un agriturismo e molto altro. Il pericolo che questo patrimonio dallo straordinario valore economico e paesaggistico potesse passare in mano a qualche privato aveva sollevato una vera e propria ondata di proteste.

Era stato per primo il presidente della Toscana a farsene interprete inviando una lettera al presidente del consiglio Enrico Letta e al ministro dell’Interno Angelino Alfano. Un primo passo seguito dalla decisione della Regione di ricorrere al Tar, infine la manifestazione di domenica scorsa che ha raccolto a Suvignano mille persone tra cittadini, volontari, politici insieme a Libera, Cgil, Coop, Legambiente, Arci, Avviso Pubblico e almeno altre 40 associazioni. In prima fila Franco La Torre, figlio di Pio, il parlamentare ucciso dalla mafia che trentuno anni fa firmò la legge sulla confisca dei beni ai mafiosi. Anche don Luigi Ciotti e Maria Falcone, sorella di Giovanni, avevano voluto partecipare inviando i loro messaggi. «Da questa gente arriva una richiesta alla quale il governo non può non rispondere» aveva detto il sindaco di Monteroni d’Arbia, Jacopo Armini. All’indomani del corteo, infatti, ci sono stati contattitelefonici tra Rossi e Bubbico culminati nella riunione di ieri alla quale hanno partecipato anche il sottosegretario all'Interno Domenico Manzione, il prefetto Giuseppe Caruso, direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, e il direttore generale della Regione Toscana Antonio Davide Barretta. «Il progetto regionale ha tenuto a sottolineare Rossi rispetta le finalità sociali previste dalla normativa, con il proseguimento dell'attività produttiva di un'azienda che occupa 12 dipendenti per un valore delle attività e dei beni di circa 30 milioni di euro. Questo territorio continuerà ad essere produttivo e nello stesso tempo attivo nella battaglia per la legalità».

L'azienda di Suvignano fu sequestrata nel 1996 a Vincenzo Piazza, imprenditore edile appartenente a Cosa Nostra, e confiscata in via definitiva nel 2007. La produzione agricola biologica, insieme alla filiera corta sono al centro del progetto di gestione della tenuta presentato dalla Regione. Parte della produzione dovrà essere destinata al mercato locale (per esempio nelle mense pubbliche e private), e poi si punterà all'allevamento di bestiame, sulla fattoria didattica, sull'ospitalità rurale, l'uso delle fonti alternative e sostenibili, l'impegno sociale e la diffusione delle cultura della legalità.

Se Suvignano è un simbolo, sia per l’estensione territoriale che ne fa il bene più grande confiscato alla mafia nel centro nord Italia, sia per il legame con il nome di Falcone, in Toscana i beni confiscati alle organizzazioni criminali sono in tutto 57: 32 sono stati consegnati dall'Agenzia ai soggetti che dovranno gestirli (il tempo medio fra la confisca e l'assegnazione è di 5 anni e mezzo), mentre per 19 ancora non è stata definita la destinazione finale e quindi rimangono come patrimonio dello Stato in gestione dell'Agenzia.

Greenreport, 6 settembre 2013

Nel maggio 2012 abbiamo celebrato in un convegno internazionale - e con giusta enfasi - novanta anni di storia esaltante e per lunghi periodi drammatica del Parco Nazionale d’Abruzzo, oggi anche del Lazio e del Molise. Il convegno, i cui atti sono già stati editi in Italia e stanno per uscire in Gran Bretagna in edizione inglese, ha testimoniato la ricchezza di questa storia, la sua profonda e duratura risonanza nazionale e internazionale, il suo carattere pionieristico, le molteplici e straordinarie influenze che ha esercitato in più fasi sulla vita del territorio ma anche sulla politica e sulla cultura nazionale.

Uno straordinario patrimonio di esperienze e di conoscenze, insomma, un punto fermo nella coscienza ambientale locale, nazionale e internazionale e un’esperienza gestionale che ha pochi paragoni in Europa, come dimostra anche una messe di studi che si stanno ampliando di anno in anno. Arrivare – pur tra contraddizioni e contrasti a volte, ripetiamo, drammatici – ad accumulare questo eccezionale patrimonio che dal 1967 è riconosciuto da un importante diploma europeo ha implicato un formidabile contributo sia delle migliori energie locali, a partire dal fondatore Erminio Sipari, sia di una messe di tecnici, studiosi, politici di livello nazionale e internazionale. Per Pescasseroli e per il Parco sono passate in novanta anni figure che hanno fatto la storia della protezione della natura in Italia e nel mondo e vi hanno lasciato tracce spesso durature: da Riccardo Almagià a Pietro Romualdo Pirotta, da Ansel Hall a Filippo di Edimburgo, da Franco Pedrotti a Carmelo Bordone e tanti altri. Se si guarda agli organigrammi dei parchi nazionali e regionali italiani, all’informazione naturalistica, all’associazionismo ambientalista difficilmente si trova qualcuno che non abbia compiuto una parte della propria formazione o della propria esperienza professionale al Parco. Ciò è potuto avvenire, salvo brevi periodi, soprattutto grazie a un alto livello dei vertici gestionali, cioè dei presidenti e dei direttori dell’Ente.

Lungo novant’anni si può dire che soltanto per una ventina d’anni (dal 1933 al 1951 e dal 1963 al 1969) il Parco non ha avuto dei vertici di livello nazionale e internazionale, cioè grandi direttori come invece sono senz’altro stati Nicola Tarolla, Francesco Saltarelli, Franco Tassi e grandi presidenti come Erminio Sipari, Giulio Sacchi, Angelo Rambelli, Michele Cifarelli, Fulco Pratesi, Giuseppe Rossi. Persino la discussa esperienza di Aldo Di Benedetto, che noi stessi abbiamo avuto modo di criticare aspramente, rappresentava l’ambientalismo nazionale ad alti livelli e aveva una notevole esperienza di tutela alle spalle. Queste nomine, insomma, hanno sempre significato che la politica è stata in grado oppure è stata efficacemente indotta a riconoscere l’altissimo valore del Parco e a dotare il suo Ente di vertici adeguati, tecnicamente e culturalmente.

Questa lunga - ed estremamente feconda, come abbiamo visto - tradizione sembra ora interrompersi drammaticamente con la designazione da parte del ministro dell'Ambiente Andrea Orlando alla presidenza dell’Ente di un politico locale, sicuramente un galantuomo e un buon amministratore che però non possiede alcuna esperienza gestionale e soprattutto non possiede un profilo adeguato rispetto allo straordinario bagaglio che sarebbe chiamato a gestire. Questa scelta, perfettamente legittima sotto il profilo istituzionale, rappresenta però un cedimento inedito e assai grave a interessi di basso profilo: alla necessità di dotare un Ente, che peraltro viene da una storia recente difficile e paga il prezzo del progressivo decadimento della politica delle aree protette italiane, di un amministratore esperto, capace e inventivo viene infatti preferito il bilancino degli equilibri di potere provinciali.

La presidenza di una figura dalla storia straordinaria come Giuseppe Rossi meritava e merita senz’altro, coi suoi innegabili successi gestionali e d’immagine, un consolidamento e non si comprende come si sia potuto pensare di mettere da parte il suo prezioso contributo; il fatto – ancor peggiore – che a un costruttore del sistema delle aree protette nazionali come Rossi possa succedere un amministratore locale del tutto privo di esperienza non getta soltanto una luce sinistra sulle derive della politica delle aree protette italiane ma anche sul futuro del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise. La sua capacità di rappresentare un faro nell’universo delle aree protette europee, capacità che sembrava essere stata faticosamente ripristinata, è infatti destinata in questo modo a indebolirsi irrimediabilmente mentre non è difficile immaginare rischi ancor maggiori sul piano gestionale.È essenziale insomma che la scelta di un nuovo presidente per una riserva di eccezionale importanza nazionale e internazionale come il Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise cada su una figura di alto profilo gestionale e/o scientifico, ripetiamo: un profilo nazionale e anche internazionale, come è stato negli anni migliori della sua lunga esistenza. La conferma di Giuseppe Rossi, a nostro avviso, sarebbe la strada più semplice e ovvia; un’eventuale alternativa a questa scelta non potrebbe in ogni caso che contemplare una figura di profilo non inferiore.

Due note per concludere questa riflessione. Per chi ha memoria sufficientemente lunga si può anzitutto osservare che paradossalmente proprio dalle file del partito che dovrebbe essere l’erede storico delle politiche più avanzate sulle aree protette, cioè il Pd, viene la vendetta postuma di Domenico Susi, cioè di colui che negli anni Settanta tentò tenacemente – e per fortuna vanamente – di aggiogare direttamente ed esclusivamente il Parco d’Abruzzo al notabilato locale di partito.

Infine, sorprende e amareggia come su questa vicenda si siano espressi soltanto gli amministratori locali mentre una spessa coltre di silenzio è stata stesa dall’associazionismo ambientalista.Un ulteriore segnale, se ce ne fosse bisogno, dei pericoli che ogni giorno di più incombono sulle aree protette italiane.

Il manifesto, 7 settembre 2013

Stop alla difesa completa delle coste sarde.
La giunta di centrodestra riscrive le regole del Piano paesaggistico regionale
di Costantino Cossu
Sulle coste sarde torna l'incubo cemento. Ai primi di ottobre Ugo Cappellacci, presidente della giunta di centrodestra che governa la Sardegna, presenterà in consiglio le proposte di modifica del Piano paesaggistico regionale (Ppr) varato nel 2004 dall'esecutivo guidato da Renato Soru. Sono però già note le linee guida del contro piano e sono più che sufficienti a rendere chiaro che l'obiettivo di Cappellacci e della sua maggioranza è quello di azzerare le misure di tutela che per quasi dieci anni hanno messo a riparo la Sardegna dagli appetiti degli speculatori immobiliari e degli impresari edili. Cappellacci ha fretta perché nella primavera del prossimo anno si terranno le elezioni regionali. Il leader del Pdl si ricandiderà e del via libera al partito del mattone vuole fare una dei due pilastri della sua campagna elettorale. L'altro pilastro sarà la proposta di fare della Sardegna un'unica zona franca, con lo scopo di garantire alle industrie già presenti sul territorio e a quelle che nell'isola vorranno investire consistenti riduzioni fiscali. Una ricetta semplice semplice, quindi: cemento e sgravi fiscali. Così il centro destra vorrebbe portare la Sardegna fuori dal tunnel di una crisi devastante, segnata dallo smantellamento di buona parte dell'apparato industriale e dal crollo dei tradizionali settori dell'agricoltura e della pastorizia. Il contro piano Nelle linee guida proposte da Cappellacci cambia tutto rispetto al Ppr. Le coste della Sardegna, che il Ppr considera un «bene paesaggistico» nel loro complesso, diventano un «sistema ambientale ad alta intensità di tutela». La salvaguardia non è più complessiva: si deciderà caso per caso con «regole più precise e quindi più trasparenti» - si legge nel documento - e una «maggiore qualità della pianificazione, con la massima cura delle peculiarità paesaggistico-ambientali». Che cosa esattamente significhino queste formule, lo chiarisce un altro passaggio della bozza approvata dalla giunta regionale e poi dal consiglio: «È necessario mediare tra la tutela delle risorse primarie del territorio e dell'ambiente e le esigenze socio-economiche della comunità, all'interno delle strategie di sviluppo territoriale e sostenibilità ambientale». Tutela sì, ma se questa blocca le «strategie di sviluppo territoriale» va eliminata o drasticamente ridotta. E siccome non è un mistero per nessuno che per la stragrande maggioranza dei comuni costieri le «strategie di sviluppo» coincidono con la lottizzazione del territorio per costruire alberghi e villaggi turistici, è chiaro dove vada a parare il contro piano di Cappellacci. Tanto più che il documento, subito dopo avere aver affermato la necessità di armonizzare «la tutela delle risorse primarie del territorio e dell'ambiente e le esigenze socio-economiche della comunità», fa riferimento sia al Piano casa lanciato da Berlusconi e per ben tre volte prorogato nell'isola da Cappellacci, sia ad una legge regionale, approvata da centro destra nel 2011, che prevedeva la costruzione di venti nuovi campi in tutta l'isola con altrettanti alberghi e strutture ricettive, soprattutto vicino alla costa (legge impugnata dal governo Monti che l'ha rimandata alla Corte costituzionale). Tutti alla corte dell'emiro. Ma c'è un altro motivo per cui Cappellacci vorrebbe chiudere al più presto la partita della revisione-cancellazione del Ppr. Lo scorso aprile la Costa Smeralda è stata acquistata dalla Qatar Holding, il fondo sovrano che è il braccio finanziario della famiglia reale dell'emirato arabo. A vendere è stato l'attuale socio di maggioranza del Consorzio Costa Smeralda, cioè la Colony Capital del milionario americano Tom Barrack. Con una quota del 14,3% la Qatar Holding era già socio della società che detiene quattro tra i più prestigiosi alberghi a cinque stelle del mondo, Cala di Volpe, Pitrizza, Romazzino e Cervo Hotel, oltre alla Marina e al Cantiere di Porto Cervo e al Pevero Golf Club, tra i più importanti campi da golf a livello internazionale. Ora la Qatar Holding possiede il 100 per cento della proprietà. Il complesso turistico alberghiero acquistato dalla Qatar Holding fu creato nel 1962 dall'Aga Khan e poi venduto a Barrack nel 2003. L'Aga Khan aveva deciso di disfarsi della sua creatura per le difficoltà che aveva incontrato ad ottenere dalla Regione Sardegna le autorizzazioni necessarie a realizzare un faraonico progetto di raddoppio della Costa Smeralda: una cosa come 2.300 ettari tra il comune di Arzachena e quello Olbia, sui quali sarebbero dovuti sorgere altri alberghi e strutture ricettive extra lusso. Barrack dal canto suo aveva investito 315 milioni di euro per diventare proprietario dei terreni e degli alberghi un tempo posseduti dall'Aga Khan. Ad aprile il magnate statunitense ha venduto agli arabi per 600 milioni. Anche lui, come l'Aga Khan, ha cercato di ampliare i limiti dell' insediamento turistico nato nel 1962, sia pure con obiettivi più modesti rispetto al principe ismailita. E anche lui ha dovuto cedere, bloccato dalle leggi di tutela, soprattutto dai vincoli stabiliti dal Piano paesaggistico voluto da Soru. Dalla Regione Barrack ha ottenuto solamente l'autorizzazione a restaurare alcuni degli alberghi storici. Troppo poco. Come l'Aga Khan, anche Barrack, non potendo costruire, è andato via, considerando la gestione dell'esistente poco remunerativa rispetto all'investimento sostenuto al momento dell'acquisto. Costa Smeralda 2 Il fondo sovrano Qatar Holding, che fa capo all'emiro Tamin al Thani, da poco succeduto al padre Hamad bin Kalifa al Thani, è un colosso della finanzia. In Europa investe nel settore turistico e dell'intrattenimento (in Italia ad esempio ha acquistato l'Hotel Gallia e in Francia la squadra di calcio del Paris Saint Germain). E come tutti sanno possiede l'emittente televisiva Al Jazeera. Con Barrack è socio nella proprietà dei Fairmont Raffles Hotel e della Miramax Film. In Costa Smeralda il fondo sovrano del Qatar cercherà di fare ciò che non è riuscito all'Aga Khan e a Barrack: gettare quanto più cemento possibile sui terreni acquistati non ancora edificati. Già sono stati presentati dei progetti di massima che danno un'idea molto precisa di quelle che sono le intenzioni dei manager dell'emiro. Sono quattro i nuovi alberghi che la Qatar Holding ha annunciato di voler costruire: uno col marchio Harrods da 150 camere, un family hotel da 200 posti letto con piscine e attività sportive e due hotel più piccoli, al Pevero da 90 stanze e a Razza di Juncu da 75. E siccome gli arabi vogliono anche diversificare e puntare ad un target un po' meno di élite, nei loro piani c'è anche un grande parco acquatico a Liscia Ruja, una delle zone più incantevoli della Costa Smeralda, ancora del tutto intatta. L'idea è quella di una maxi area del divertimento con scivoli e piscine a ridosso di una delle spiagge più belle del Mediterraneo. E poi ci sono le ville, queste sì per super ricchi: trenta extra lusso di altissimo pregio più altre novanta definite «normali». Ovviamente per fare tutto questo il Piano paesaggistico regionale deve andare in soffitta. Prima di comprare la Costa Smeralda, l'emiro (allora era sul trono c'era ancora Hamad bin Kalifa al Thani) ha incontrato a Doha Cappellacci, il quale ha garantito che presto il Ppr sarebbe stato modificato in modo da rendere possibili i progetti di espansione edilizia che né all'Aga Khan né a Tom Barrack era riuscito di realizzare. Non solo, il presidente della Regione Sardegna ha anche spiegato all'emiro che utilizzando il Piano casa regionale i suoi manager avrebbero potuto ristrutturare, fuori dai vincoli del Ppr, quasi una trentina di case coloniche dalla tipica architettura gallurese (gli stazzi) per trasformarle in ville di lusso. Cappellacci ha dato all'emiro la sua parola, ed è fermamente intenzionato a mantenerla. Se qualcuno non lo ferma prima.

Bray fermi il progetto di Cappellacci,
la tutela non può essere a singhiozzo»
di Renato Soru

«Confido in Massimo Bray, spero che non si vorrà rendere complice della cancellazione di una buona pratica, di un progetto che in questi anni ha mostrato il suo valore, diventando un modello studiato in Italia e fuori dei confini nazionali». È l'appello di Renato Soru al ministro per i Beni culturali perché impedisca che le modifiche al Piano paesaggistico della Sardegna allo studio da parte della giunta guidata da Ugo Cappellacci (Pdl) diventino realtà. Il Piano paesaggistico regionale (Ppr) è un'emanazione delle norme previste dal Codice Urbani per l'ambiente. Il che significa che così come l'approvazione del Ppr ha avuto bisogno dell'avvallo del governo, così dev'essere anche per ogni sua modifica. Quindi, se Bray dice «no», Cappellacci non può fare niente, il suo progetto di cancellare le misure di tutela varate nel 2004 dalla giunta Soru diventa impraticabile. Ce la farà, Bray, stretto nella morsa delle larghe intese, a resistere? Soru si augura di sì, e in questa intervista spiega quali rischi corrono il suo piano e le coste sarde.

A che cosa mira il contro piano di Cappellacci?
«Se le modifiche previste dalla giunta di centrodestra passeranno sarà cancellata l'idea che la fascia costiera sarda rappresenti un bene paesaggistico unitario. Le coste della Sardegna non sono la somma di tante cartoline, alcune belle e altre brutte. Sono nel loro insieme una cartolina. Sono nel loro insieme un valore paesaggistico da tutelare. Non c'è un pezzo più bello e un altro meno bello, un pezzo da difendere di più e un pezzo da difendere di meno. Nella visione del Ppr va difeso tutto allo stesso modo. «
Il Codice Urbani ha fatto un passo in avanti rispetto alle vecchie impostazioni: parla di paesaggio come insieme unitario e noi abbiamo utilizzato questa impostazione. Cappellacci ritorna alle singole cartoline e sceglie quali sono meritevoli di tutela e quali no. Si entra nel campo della discrezionalità: quello che decido che non merita di essere tutelato non lo merita perché a me sembra meno bello oppure perché ci sono interessi che devono essere favoriti?
«D'altra parte Cappellacci ha cercato di forzare il Ppr sin dalle prime settimane dopo la sua elezione. Anche prima. Durante la campagna elettorale Cappellacci diceva che il centro destra stava per liberare la Sardegna dal Ppr. Poi, dal governo, ci hanno provato in tutti i modi. Innanzitutto con il Piano casa, che in Sardegna si è cercato di utilizzare non solo per chiudere una veranda o per fare una stanza in più, ma per rimuovere il Ppr. Hanno cercato di introdurre norme che facessero rivivere i vecchi piani di lottizzazione cancellati da Ppr. Alcune di queste norme sono state cassate come illegittime, altre le abbiamo bloccate in consiglio regionale. Poi ci hanno provato con una legge che prevedeva la costruzione di un numero spropositato di campi di golf. Ma è stata impugnata dal governo perché anticostituzionale: contraddice il Ppr, che è una legge di valore superiore, emanazione del Codice Urbani, modificabile soltanto con il consenso del governo centrale.
«E ora c'è questo contro piano. Ci stiamo avvicinando alla conclusione della legislatura regionale, siamo già di fatto in campagna elettorale e Cappellacci per l'ennesima volta promette di cancellare il Ppr. Cappellacci ha dichiarato in maniera esplicita che modificare il Ppr serve, tra le altre cose, a rendere possibili sia gli investimenti in Gallura dell'emiro del Qatar sia altri simili. Certo. E prima diceva che le modifiche servivano a consentire gli investimenti di Tom Barrack e di tanti altri imprenditori che, secondo lui, sono scoraggiati dalle norme di tutela. Ora che Barrack ha venduto, bisogna venire incontro alle richieste dei nuovi proprietari, con i quali persino segretamente, nel passato, Cappellacci si è incontrato, andandoli a trovare a casa loro, a Doha, e promettendo di tutto e di più».
In Sardegna il centro sinistra le sembra sufficientemente attrezzato a condurre la battaglia contro la restaurazione del vecchio modello di turismo fondato sul mattone?
Dobbiamo lavorare perché i limiti politici e culturali ancora presenti nello schieramento di centro sinistra sulle questioni ambientali siano definitivamente superati. C'erano problemi nel 2004, quando la giunta che ho guidato ha cominciato il suo lavoro, e ci sono problemi oggi. Non siamo andati molto avanti. Credo però che in questi anni sia molto cresciuta un'opinione pubblica attenta alle questioni della difesa del paesaggio e dell'ambiente.
«E' aumentata la consapevolezza che il modello di sviluppo fondato sulla cementificazione delle coste non ha portato in passato alcun reale beneficio e che anche per il futuro non possa essere la risposta alla crisi pesantissima che la Sardegna sta attraversando. Ma vorrei dire anche che in Sardegna il centro destra è indietro persino rispetto agli stessi imprenditori, i quali oggi se anche avessero altri metri cubi a disposizione sulle coste non li utilizzerebbero, semplicemente perché le case non si vendono più. Nel passato la politica nazionale copriva i guasti di una pessima gestione della cosa pubblica stampando carta moneta. In Sardegna la illusoria via di uscita era un'altra, c'era un'altra carta moneta: i metri cubi. Non stampavano carta moneta, ma metri cubi. Ne hanno dato a chiunque. Il metro cubo era la carta moneta della cattiva politica in Sardegna. Oggi quella moneta è troppo inflazionata, non l'accetta più nessuno».

I lavori per il Modulo sperimentale elettrostatico non finiscono mai e non si sa quanto costeranno. Le due cose sono un bene o un male? e i conti sono "solo"così sballati, o c'è di peggio?" Sette" del Corriere della sera, 6 settembre 2023, con postilla

L'inaugurazione della protezione di Venezia fu annunciata per il '95. Oggi la realizzazione é ancora in corso e il costo é quadruplicato. Ma perché i lavori non finiscono mai? La scadenza? Resta quella dei 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Cosa direbbero certi padani gonfi di orgoglio nordista e certi sprezzanti nemici del Sud se una frase così ottimista l'avesse detta, un quarto di secolo fa, un ministro «terrone»? Apriti cielo! «Un "piccolo slittamento"! E devono ancora finire i lavori! Devono ancora finire i lavori».

Era il 4 novembre 1988, quando l'allora vicepresidente del Consiglio Gianni De Michelis, coi riccioloni che mulinavano sotto le folate di vento, garanti che i lavori del Mose, il Modulo sperimentale elettromeccanico che doveva salvare Venezia dall'acqua alta, sarebbero finiti da lì a sette anni. Gongolante, spiegò: «Lasciatemelo dire: è una vittoria del partito del fare contro quello del non fare, del rimandare, del temporeggiare all'infinito». Ne sono passati, di anni, 25. E la prima delle 78 paratoie, come ricordava il Corriere dei Veneto, è arrivata a Venezia solo ai primi di giugno, due mesi e mezzo fa. In questi giorni la Nuova Venezia ha spiegato che «tra poche settimane inizieranno alla bocca di porto di Lido le prove di funzionamento delle prime quattro paratoie, con lavori che proseguiranno poi per tutto l'inverno, provocando anche l'interruzione da novembre ad aprile del prossimo anno del passaggio delle navi da crociera». Dopo di che, se tutto va bene, «si potrà procedere alla costruzione delle restanti 74». Per arrivare a finire tutti i lavori nel 2016. Auguri.

Spiegò quel lontano giorno del battesimo De Michelis, colmo di entusiasmo: «Chiamiamolo Mosé», con l'accento. Battuta sfigatissima Se va avanti così, Il progetto ipotizzato nel 1981 e lanciato nel 1985 rischia di impiegare più tempo di quello passato dal Profeta nel deserto: «La durata del nostro cammino, da Kades Barnea al passaggio del torrente Zered, fu di trentotto anni, finché tutta quella generazione di uomini atti alla guerra scomparve dall'accampamento, come il Signore aveva loro giurato...».

Conti sballati e imprecisi

Doveva costare 2.500 miliardi di lire, secondo le previsioni, il Mose. Più o meno un miliardo e trecento milioni di euro di oggi. Poi le cifre sono andate sempre più su, sempre più su, sempre più su. A questo punto? Boh... «Io mi auguro che il Mose venga concluso davvero e funzioni per sanare Venezia dalle alluvioni. Siamo al 1996, manca oltre un miliardo, spero che il governo e il Cipe rispettino gli impegni. Sarebbe tragico che diventasse la Gioia Tauro del Nord, una vergogna mondiale», ha detto Luca Zala (ignaro che Gioia Tauro è oggi di gran lunga il primo porto italiano sul «transhipment» dei container) in una intervista ad Albino Salmaso.

A quel punto Fernando de Simone, un architetto della Norconsult, colosso norvegese che impiega i.300 tra ingegneri, architetti e geologi in opere pubbliche avveniristiche, ha preso carta e penna per dire che lui proprio non capisce: «II Consorzio Venezia Nuova ha dichiarato in recenti interviste che lo stato di avanzamento dei lavori è ormai vicino all'80%. Fino a ora sono stati stanziati 5 miliardi di euro, su un costo complessivo fissato a 5 miliardi e mezzo. Ora, l'80%; di 5 miliardi e mezzo di curo è 4 miliardi e 400 milioni, ma il Consorzio ha invece già ricevuto il 90,9% dell'intero costo dell'opera. Mancano solo i 500 milioni, che dovranno finanziare la realizzazione di opere connesse e accessorie. II concessionario dello Stato per le opere in Laguna ha già ricevuto un anticipo di 600 milioni in più del lavoro fatto, e vuole, sempre in anticipo, anche gli ultimi 5oo milioni? Perché?». Ecco, è la stessa domanda che si fanno in tanti, soprattutto dopo gli scandali e gli arresti delle scorse settimane: perché? Perché i lavori non finiscono mai? E perché i costi si sono moltiplicati almeno per quattro volte? Quelli che sballarono i conti iniziali hanno preso almeno uno scappellotto o sono stati perfino premiati?


postilla


Due commenti. (1) Moltipensano che il MoSE non sia una buona cosa. Non ripeto per l’ennesima volta leragioni di questa posizione e mi limito a rinviare ai numerosissimi scrittiraccolti nella cartella di eddyburg dedicata appunto al suddetto progetto devastante,inutile e dannoso. Poiché costoro (ai quali appartengo)conservano lasperanza che la ragione alla fine prevalga per essi, i ritardi sono una buonanotizia. (2) C’è qualcuno che pensa che i ritardi dipendono da una circostanzache Stella non esplora: che i ritardi dipendono dal fatto che sotto il profilo tecnico il progetto non è in grado di funzionare. Se questo sarà dimostrato laCorte dei Conti avrà un bel da fare per ottenere il recupero da parte dellacollettività dei miliardi spesi invano. Temo che pagherà il solito Pantalone,ma mi piacerebbe che almeno, nel caso, si possa conoscere il nome e cognome ditutti quelli che, avendo avuto modo di conoscere, hanno reiteratamente detto disi.
Concludo con una battuta personale. Negli anni lontani incui ero assessore a Venezia e Feliciano Benvenuti rettore di Ca’ Foscari ilsaggio amministrativista mi disse un giorno: ”si spenderebbe molto meno e siotterrebbe un risultato molto migliore se di regalasse ogni anno un paio distivali nuovi ai cittadini veneziani”. Non si trattava di un “asin bigio” che“rosicchiava un cardo”, ma una persona intelligente che, conoscendo Venezia egli italiani, sapeva guardare lontano, al di là dei veli della “modernità”(e.s.)

l manifesto, 6 settembre 2013

Sabotatore e ben contento. Rivoluzionario? «Non c'è nessuna rivoluzione da fare, nessun potere da prendere: bisogna semplicemente impedire quell'opera». Cattivo maestro? «Mi assegnano un titolo professionale che non ho conseguito: non ho fatto l'università e dunque non ho potuto aspirare alla docenza. Però ad essere cattivo per quei poteri costituiti, io ci sto: intendo essere cattivo, anzi inservibile, alle ragioni di quei poteri costituiti che assediano la Val di Susa». Armi? «Finora sono bastate e basteranno pezzi di resistenza ordinaria, acquistabili in ferramenta».

Non è contrario a tutte le "grandi opere", Erri De Luca, che a ogni definizione, scrittore o ex dirigente di Lotta continua che sia, sta un po' stretto. È contrario - anzi «resistente» e non certo «dal salotto di casa» - solo e soltanto a quel buco nella montagna che «stupra la terra, l'aria e l'acqua» di quella valle.

Arriva la notizia che la società Ltf, incaricata della realizzazione del tratto ad alta velocità della Torino-Lione presenterà nei prossimi giorni una denuncia contro di lei per aver sostenuto che «i sabotaggi sono necessari per far comprendere che la Tav è un'opera nociva e inutile». Sconvolto?
«Non sono pratico di procedure, ma l'annuncio della denuncia è un cosa ridicola, come si fossero sbagliati: invece che all'ufficio legale si sono rivolti all'ufficio stampa. A me non è arrivato nulla, tranne gli annunci pubblicitari. Roba della peggiore Italia, quella delle minacce a chiacchiere. Aspetto di avere le carte in mano per sapere di cosa in tratta».

Siamo nel pieno processo di demonizzazione del movimento?
Processo di diffamazione, piuttosto, che usa le fandonie sul rischio terrorismo per passare a un livello di repressione più alto. In quella valle c'è già uno stato di assedio, con l'esercito e i posti di blocco, ma evidentemente non bastano più e dunque inventano la fandonia del terrorismo per aumentare la militarizzazione. Esibiscono il sequestro di materiali da ferramenta - chiodi, tronchesi, guanti - e non la gran quantità di computer sequestrati alle persone della Val di Susa. Il computer è sacro, non si può toccare, ma intanto lo sequestrano. Come da noi, negli anni '70, quando ci sequestravano il ciclostile pensando così di ammutolirci.

Riesce a vedere delle similitudini con quei movimenti?
No, solo dalla parte della magistratura che ha un desiderio di ritrovarsi nelle stesse condizioni di allora. Ma in realtà quella lotta dei valsusini è una lotta civile che utilizza materiale da ferramenta per tagliare simbolicamente una rete abusiva. Perché tali sono, quelle recinzioni.

In molti hanno solidarizzato con lei e con il movimento NoTav «fondato sui principi di nonviolenza e resistenza». Ma a volte il limite tra resistenza, rivoluzione e violenza è molto sottile. E c'è sempre qualcuno che potrebbe fraintendere, non crede?
Non c'è nessuna rivoluzione da fare, nessun potere da prendere bisogna semplicemente impedire quell'opera.

Costi quel che costi?
Sta già costando tanto alle persone di quella valle e quello che senti dire da loro è che non moleranno, non gliela daranno vinta perché non hanno una valle di ricambio. È la più forte, unanime e continua resistenza civile degli ultimi 20 anni. Il più alto esempio di democrazia dal basso: vengono a studiarlo da altri paesi del mondo.

Si potrebbe obiettare con la sindrome Nimby, non nel mio giardino.
Per niente. A casa mia si possono fare delle opere molto utili. Per esempio adesso in Sicilia stanno perforando una montagna vicino Caltanissetta e nessuno dice niente perché è un'opera utile evidentemente. Lì invece si tratta di un'opera inutile oltre che nociva, e lo si vedeva da molti anni, già da quando facevano i calcoli sbagliati sulla previsione di incremento del traffico. Come per il corridoio Genova-Rotterdam, assai più utile e sostenibile, con il traforo del San Gottardo già ultimato e con la Svizzera che preme sull'Italia per completare il percorso.

Dunque non tutte le grandi opere sono da avversare.
Delle grandi o piccole opere non mi interessa. Sono stato convocato da una popolazione che si sta battendo contro lo stupro e la riduzione in servitù della loro valle. Un'opera è sostenibile se è appoggiata dalle popolazioni. Io sostengo le loro ragioni. E da militante, non è che lo faccio dal mio domicilio. Si vuol parlare di violenza? L'occupazione militare, quella è violenza.

Il volto territoriale del capitalismo nell'età della globalizzazione. Per arricchire i potenti a spese dei posteri esportano su tutto il pianeta il modello distruttivo applicato nei "paesi sviluppati", e lo chiamano progresso. Il manifesto, 5 settembre 2013

La recessione continua e la «ripresina» ritarda? Torniamo a un sano interventismo degli stati, magari a partire dalle solite grandi opere. Sembra questo uno dei messaggi emerso dalla preparazione del G20 che si apre oggi a San Pietroburgo, sotto la presidenza della Russia. Riallacciando le discussioni avviate sin dal 2010 sul finanziamento delle infrastrutture nei paesi in via di sviluppo, oggi il G20 eleva questo tema a cardine delle nuove politiche per la crescita.

In realtà a inizio 2013 la presidenza russa aveva intavolato la questione in maniera molto più mirata e pro domo sua: il Cremlino voleva discutere come gestire l'accesso e il transito per nuovi e vecchi oleodotti e gasdotti ed eventualmente come finanziare opere internazionali strategiche nell'energia. Argomento alquanto spinoso, visto che la Russia si è sfilata anni fa dall'unico trattato multilaterale sugli investimenti in vigore, l'Energy Charter Treaty, promosso dalla Ue dopo la caduta della cortina di ferro. Così, per evitare troppi conflitti, il negoziato è stato allargato all'intera questione degli investimenti per le infrastrutture.

Dietro le apparenze, non si tratta affatto di un intervento pubblico «keynesiano». Dopo la privatizzazione delle grandi aziende di stato e delle reti infrastrutturali, le società privatizzate hanno avuto grandi difficoltà a finanziarsi i propri investimenti sul mercato. Da qui la necessità di promuovere partnership pubblico-privato, spesso finite malamente, lasciando un conto salato al pubblico e gran parte dei profitti ai privati. Oggi questo modello non è più possibile, vista l'austerità e i vincoli sui bilanci pubblici. La sfida è come garantire mercati di capitale privati e globalizzati capaci di investire in progetti infrastrutturali privati molto rischiosi nel lungo termine.

Come formulato da Goldman Sachs, la più influente banca d'affari Usa, nel suo rapporto 2010 «Costruire il mondo», lo stato dovrà avere ancor più un ruolo chiave nel creare mercati di capitale privati più estesi e «profondi» tramite cambiamenti nella regolamentazione finanziaria. In questo modo investitori istituzionali, quali i fondi pensione o le assicurazioni, potranno immettere denaro in opere rischiose, o ricevere ulteriori sgravi fiscali. Il tutto per rendere possibili opere gigantesche che oggi il mercato reputa finanziariamente ed economicamente non fattibili, quali la diga di Grand Inga nel bacino del Congo, mega gasdotti nel Centro Asia e connessioni elettriche che attraversano interi continenti. Si tratta di creare le condizioni per una privatizzazione perenne che risolva la crisi di accumulazione in cui versa l'economia mondiale, in presenza di una mole enorme di capitale privato che trova ben poche opportunità di investimento altamente profittevoli.

Lo scorso marzo, al vertice di Durban in Sud Africa, per finanziare solo infrastrutture i paesi Brics hanno addirittura proposto di creare una propria banca multilaterale. Però oggi sembrano rallentare e chiedono alle economie avanzate di cofinanziare un aumento di capitale delle banche internazionali esistenti, quali la Banca mondiale, per far sì che queste ultime sostengano i loro mega progetti. Ma questa volta i paesi «ricchi» non hanno risorse sotto la scure dell'austerità e per tale ragione propongono le alchimie dei mercati finanziari - quali l'ultima trovata dei project bond, già testati in Europa - per soddisfare i paesi emergenti e concedere nuovi extra profitti a Wall Street e alla City di Londra. Ringraziano anche Dubai, Hong Kong e Singapore, piazze del «Sud del mondo» sempre più integrate nella finanza globale predatrice di ricchezza.

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