L'archistar – intervistato da Teresa Monestiroli - sviluppa a modo suo il tema della densità, da molti anche coerentemente accoppiato a quello della sostenibilità: lui fa il suo mestiere, e noi? La Repubblica Milano, 6 novembre 2013, postilla (f.b.)
«Se Milano vuole crescere in maniera intelligente, deve farlo sviluppandosi su se stessa, in altezza. Le grandi città hanno solo due strade per crescere: espandersi in orizzontale o salire in verticale. La seconda è l’unica sostenibile ». Cesar Pelli, architetto argentino trapiantato negli Stati Uniti che a Milano firma per Hines il masterplan di Porta Nuova e la torre di Unicredit, apre oggi il ciclo di incontri “MI/arch” organizzato dal Politecnico in occasione dei suoi 150 anni. La sua lezione (in Triennale alle 18) partirà dal progetto di Porta Nuova per estendere la riflessione su Milano, città che l’architetto ultraottantenne famoso per le torri costruite in tutto il mondo (tra cui le Petronas Tower in Malaysia) ama in particolare, «perché sembra molto vivibile. Firenze e Venezia sono sicuramente più interessanti da visitare per un turista, ma se dovessi vivere in Italia non avrei dubbi: sceglierei Milano, unica città del XXI secolo».
Si riferisce ai grandi progetti di trasformazione urbana degli ultimi anni?«Da quando frequento Milano per il progetto di Porta Nuova ho visto la città cambiare in meglio, soprattutto le aree intorno a Garibaldi. Questo è un sintomo di grande vitalità».
Eppure gli interventi urbanistici più importanti, da Porta Nuova a Citylife, hanno sollevato diverse polemiche, generando un acceso dibattito sull’opportunità di costruire grattacieli a Milano.«Essere contrari ai grattacieli significa essere contrari alla crescita. Perché una città che si sviluppa in orizzontale è una città che mangia il territorio circostanze, che ruba aree verdi alla collettività, che costruisce nuove infrastrutture, che aumenta le auto in circolazione. La crescita in verticale è più sostenibile: l’ascensore è il mezzo di trasporto più ecologico che esista».
Anche la sua Unicredit Tower, simbolo della nuova Milano, ha diviso la città. Nonostante sia diventata in fretta parte del tessuto urbano, alcuni critici l’hanno definita “un esempio di manierismo tardomodernistico”.«La sua forma è funzionale alla piazza sottostante. Ho sempre pensato che fosse più importante la parte pubblica di quella privata. In questo caso sono tre edifici che salgono insieme, in maniera circolare, per creare uno spazio pubblico al centro, pensati per delinearlo e in un certo senso difenderlo. Ho aggiunto la spirale per rendere l’edificio un riferimento visibile da ogni punto della città. Quello che amo di più di questa torre è che segna il territorio».
D’altronde è il grattacielo più alto di Milano.«Non è un grattacielo, almeno non secondo la mia accezione, che ammetto non essere condivisa da molti. Un grattacielo è un edificio molto specifico. Prima di tutto deve essere molto più alto degli edifici che lo circondano, poi ha bisogno di avere una linea verticale molto definita, una sorta di retta immaginaria che collega la terra al cielo, che mi piace chiamare “axis mundi”. Il Chrysler di New York è un esempio molto chiaro di questo modello, così come le Petronas Tower. Un vero grattacielo non sarebbe stato appropriato per Porta Nuova».
Perché?«Quello che abbiamo voluto creare non è un punto, ma un piano urbanistico che si connettesse con la città esistente. Avrei potuto concentrare tutte le volumetrie dei tre edifici in una torre sola, più alta, ma non sarebbe stato efficace per il tipo di progetto che stavamo realizzando. Quello che abbiamo creato è molto più fresco e innovativo di un grattacielo».
Fra qualche anno Milano avrà altre tre torri a Citylife firmate da Libeskind, Hadid e Isozaki. Ha visto i progetti? Che cosa ne pensa?«Sono scenografiche, icone dalle forme inusuali pensate soprattutto per finire sui giornali».
Che cosa manca a Milano per essere una grande città europea?«Soprattutto gli spazi all’aperto. Ci sono piazze bellissime usate solamente come luoghi di attraversamento dove nessuno si ferma. Eppure la velocità con cui Milano si è appropriata di piazza Gae Aulenti dimostra la voglia di avere spazi all’aperto da vivere».
postilla
Non è affatto curioso che sia proprio uno di quelli troppo spesso accusati di essere i “colpevoli” di certo degrado urbano, ne denunci uno degli aspetti più vistosi: la carenza e scarsa qualità degli spazi pubblici. Piuttosto è l'accusa contro gli archistar a sbagliare bersaglio: manca un'idea di città forte e condivisa, e la si delega vuoi a questi abili evocatori di immaginario, vuoi ad altri evocatori di mitici passati, tradizioni, sempre sfumati nei toni della nostalgia. Entrambe, idee che poi trovano pochi riscontri nella realtà, da costruirsi invece giorno per giorno, anche ponendone le basi in strategie di lungo periodo. Per esempio, la Milano che tanto piace a Cesar Pelli, quella del quartiere su cui lui e il suo studio hanno avvitato alcuni edifici e spazi (non è vero che abbiano progettato un quartiere, quella è strategia di comunicazione), non si stacca molto dal modello novecentesco in cui il rapporto fra densità e spazio aperto è scandito esclusivamente dalle grandi arterie stradali, anche se nel caso specifico esse vengono molto costosamente scavalcate da verde e percorsi. Ma non è certo scopando la città autocentrica sotto questo mega-tappeto, che si risolve il problema. E neppure delegando qualunque responsabilità alla discrezione di progettisti e costruttori: non è il loro mestiere (f.b.)
trovare unità d’azione? Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2013
La grandiosa Cittadella di Alessandria (estesa su venti ettari) è una delle più importanti testimonianze sopravvissute dell’arte della fortificazione monumentale in età moderna. Candidata a entrare nella lista dei siti Unesco, nel 2012 è arrivata prima nella classifica dei “Luoghi del cuore” promossa dal Fai: sono stati 53.953 i cittadini italiani che l’hanno segnalata. Ed è sui suoi bastioni che, il 10 marzo 1821, ha sventolato per la prima volta il tricolore nazionale.
Nel 2007 la Cittadella è stata ceduta dal ministero della Difesa al Demanio: è dunque tornata alla comunità civile? Manco per sogno, è sprofondata nel più completo degrado. Denunciando il quale degrado, Gian Antonio Stella ha scritto sul Corriere della Sera: “È una questione di scelte: o la manutenzione quotidiana, che forse è noiosa e ripetitiva ma salva i monumenti, oppure l’abbandono in attesa, di anno in anno, di decennio in decennio, di un mega-progetto sbandieratissimo e complicatissimo e costosissimo... Scelte: solo una questione di scelte. Certo, in un Paese che vive di proclami roboanti e di promesse di ponti giganteschi e tunnel fantasmagorici ed Expo planetarie, la quotidiana manutenzione del buon padre di famiglia non porta voti, non porta gloria, non porta titoli sui giornali...”. Era il luglio 2011: dopo oltre due anni siamo ancora a quel punto. Poche settimane fa il Demanio ha esplicitato la propria intenzione di affidare in gestione la Cittadella a un concessionario privato.
Quel che è peggio è che il Comune di Alessandria e le associazioni come il Fai sono state tagliate fuori dalla delicatissima fase di costruzione del bando, tanto che il sindaco Maria Rita Rossa ha dovuto dichiarare che bisognerà “mettere dei paletti per la tutela del Bene e la salvaguardia delle legittime aspettative della cittadinanza alessandrina”. Nelle migliori tradizioni: all’incuria segue la privatizzazione, l’incapacità di chi dovrebbe tutelare l’interesse pubblico fa largo al profitto privato. Non era questo il progetto della Costituzione.
Hanno ucciso una città, e hanno pure frodato per farlo. Altro che bunga-bunga! Ma molti altri silenzi sono censurabili, oltre a quello dell’Europa. La Repubblica, 4 novembre 2013
OGNI appartamento è costato il 158 per cento in più del valore di mercato, il 42 per cento degli edifici è stato realizzato con i soldi dei contribuenti europei (e non con quelli del governo italiano, come ha sempre sostenuto l’ex premier Silvio Berlusconi), solo il calcestruzzo è stato pagato 4 milioni di euro in più del previsto. E 21 milioni in più i pilastri dei palazzi.
Cifre ufficiali della Corte dei Conti europea, tutte richiamate nel report di Søndergaard. Dove si censura il silenzio dell’Europa che è stata a guardare mentre qui si sperperava, dove si «deplora » l’invio di dati «apparentemente non corretti» trasmessi a Bruxelles dal Dipartimento della Protezione Civile, dove si elenca minuziosamente tutto ciò che lui stesso ha riscontrato nelle sue missioni. Su prefabbricati, acciaio, ammortizzatori sismici, bagni chimici, contratti a imprese. Sempre oltre i costi preventivati, soprattutto quelli fissati dai «manuali». E anche di tanto.
Il suo dossier sarà discusso al Parlamento europeo giovedì 7 novembre e presentato questa mattina, in anteprima all’Aquila, nelle sale del consiglio regionale. È la sintesi di una lunga «istruttoria» condotta in Abruzzo da Søndergaard - membro della Cont, la commissione di controllo del bilancio di Bruxelles - insieme al suo collaboratore Roberto Galtieri per indagare su dove erano finiti gli stanziamenti comunitari dopo la potentissima scossa di quella notte, trecentonove morti, decine di migliaia di sfollati e un business infinito intorno ai cinquantasei comuni abruzzesi dentro il «cratere ». La prima volta sono arrivati all’Aquila l’8 ottobre del 2010. Poi hanno cominciato a investigare mese dopo mese, fino a ultimare questo report che giovedì prossimo dovrà vagliare il Parlamento di Bruxelles.
Il dossier del deputato danese comincia dalla fine, dall’ultima visita all’Aquila: «La situazione del centro storico rimane sostanzialmente invariata. In quattro anni solo un paio di edifici (uno pubblico e uno privato) sono stati ricostruiti nella cosiddetta zona rossa…». Poi informa la sua commissione dei sopralluoghi negli edifici del progetto CASE (Complessi Antisimici Sostenibili ed Ecocompatibili) e in quello dei MAP (Moduli Abitativi Provvisori), dove ha verificato con il suo «ispettore» Galtieri cosa c’era cosa e cosa non c’era: «Nelle case e nelle scuole non ci sono pannelli a indicare che sono state costruite con i fondi Ue… ma al contrario ci sono pannelli che specificano “edifici realizzati con donazioni da enti privati e amministrazioni locali”. Ciò è in contraddizione con le norme europee... ». Poi ancora segnala alla commissione la qualità delle costruzioni dei MAP: «Il materiale è generalmente scarso... impianti elettrici difettosi... intonaco infiammabile... alcuni edifici sono stati evacuati per ordine della magistratura perché “pericolosi e insalubri”... Quello di Cansatessa è stato interamente evacuato (54 famiglie) e la persona responsabile per l’appalto pubblico è stato arrestato e altre 10 persone sono sotto inchiesta».
Un capitolo intero è dedicato alla criminalità organizzata e alle infiltrazioni nei lavori della ricostruzione. Primo punto: «Un numero di sub appaltatori non disponeva del certificato antimafia obbligatorio». Secondo punto: «Il Dipartimento della Protezione civile ha aumentato l’uso del sub appalto consentito dal 30 al 50 per cento». Terzo punto: «Un latitante è stato scoperto nei cantieri della Edimo, che è una delle 15 imprese appaltatrici ». Quarto punto: «Una parte dei fondi per i progetti CASE e MAP sono stati pagati a società con legami diretti o indiretti con la criminalità organizzata… ma le competenti autorità italiane non hanno ancora reso pubblici questi dati... ». Quinto punto: «La commissione bilancio Ue ha dichiarato di avere scoperto casi di frode, ha comunicato tali risultati al Dipartimento della Protezione Civile, che successivamente ha scambiato questi progetti connessi con la frode con progetti nei quali non è stata scoperta alcuna fro-de...».
Nel report Søren Søndergaard elenca le denunce dell’associazione Libera e di Site. it (la testata online che ha sollevato fin dai primi giorni lo scandalo della ricostruzione) e poi bacchetta il governo europeo dopo l’ispezione di una delegazione in Abruzzo nel 2010: «Nella sua relazione non menziona nessuno dei problemi che sono stati portati alla sua attenzione da diversi deputati. Un caso di evidente negligenza». È un’accusa di omesso controllo. E infine, il deputato danese ricorda come la commissione bilancio Ue abbia anche elaborato una propria valutazione dei conti, tenendola però segretissima. Solo i deputati della Cont l’hanno potuta conoscere - e solo il 15 luglio del 2013 - con divieto di prendere appunti e divieto anche di commentare citare il contenuto di quanto avete appena letto. Tutto top secret. Per quattro anni, i contribuenti europei non hanno avuto il diritto di sapere come era stato speso il loro denaro.
Nelle ultime pagine del dossier Søndergaard cita ampiamente la relazione della Corte dei Conti con sede in Lussemburgo. «In questo documento vengono fornite al Parlamento e ai cittadini europei risposte ad alcune delle domande riguardanti la gestione dei fondi Ue in Abruzzo», scrive il deputato danese. E riferendosi alla corte di giustizia europea, ribadisce quale è stata la sua «raccomandazione » al governo di Bruxelles: «È la richiesta all’Italia di rimborsare i fondi europei in caso, nel futuro, derivasse profitto dai progetti finanziati dall’Ue». È uno dei punti centrali del dossier. I regolamenti Ue impongono che i soldi dirottati ai vari Stati non debbano «generare reddito», ma nelle case nuove dell’Abruzzo fra un po’ si pagherà l’affitto.
È già in corso un censimento per capire chi e quanto dovrà sborsare per abitare in quegli edifici dopo il terremoto. Se accadrà, stando alle norme comunitarie, l’Italia dovrebbe restituire all’Europa parte di quei fondi. Sono all’incirca 350 milioni sui 493,7 ricevuti dopo il terremoto. La relazione della Corte dei Conti è finita alla Commissione europea nel mese di febbraio di quest’anno. In un primo momento, Bruxelles ha giustificato le scelte del governo italiano («Il progetto Case corrisponde pienamente agli obiettivi Ue…»), ha ignorato le «violazioni» denunciate ma giovedì sarà costretta a esaminarla con più cura quel documento insieme al report del deputato danese. E questa volta, non in segreto. Ma in seduta pubblica e con diretta streaming dal sito del Parlamento europeo. La Corte aveva già fornito numeri espliciti. Aveva fatto una premessa la Corte, sul post terremoto in Abruzzo: «Ai costi è stata assegnata scarsissima importanza relativa». E aveva tirato le sue conclusioni: «A giudizio della Corte il progetto Case non ha rispettato le specifiche disposizioni del regolamento europeo... la Commissione dovrebbe anche riesaminare, alla luce dei criteri di ammissibilità stabiliti dal regolamento, la domanda di assistenza presentata dalle autorità italiane».
Riferimenti
Un ampio dossier sullo scandalo del dopoterremoto all’Aquila è contenuto inb eddyburg, precisamentrìe nella cartella Terremoto all'Aquila
A proposito di un articolo di Tiziano Graziottin che esprime un pensiero corrente:“Venezia è una città ostaggio del fronte del no”. La verità è che le proposte alternative ci sono, ma restano nei veli entro i quali le si vogliono nascondere. Con postilla
Torna ancora sul Gazzettino di oggi (4 novembre 2013)a firma di Tiziano Graziottin il tema del Fronte del No. Fa bene l’autore dell’articolo a sottolineare come questo fronte dei No, a diverse cose, a diversi progetti, all’idea di sviluppo della città si si stia diffondendo in tutto il mondo. Forse sarebbe opportuno chiedersi seriamente come mai. Io credo che dipenda dal fatto che in tutto il mondo civile e avanzato, nella società della conoscenza, si è abituati a procedere per studi, elaborazione di proposte da parte di figure competenti, valutazione di alternative, discussioni pubbliche su quelle proposte e su quegli studi, creazione di opinione pubblica e alla fine presa di posizione da parte della politica per una delle proposte sul tavolo; a questo punto l’opinione pubblica (cioè i cittadini elettori) è in grado di valutare le scelte e le decisioni che i governanti fanno, traendo le eventuali conseguenze nella tornata elettorale successiva.
Venezia è ostaggio della mancanza di conoscenza, della mancanza di alternative, della mancanza di dibattito, della mancanza di trasparenza delle scelte e mancanza di trasparenza degli obiettivi e del processo di decisione. In questa situazione non c’è da meravigliarsi che qualcuno non avendo altre possibilità provi almeno a fermare ciò che non condivide. Ma non è certo quello il problema.
Una città, ambiente complesso come l’organismo umano, deve avere cura di sé, deve fare prevenzione, deve progettarsi, deve sapere dove vuole andare, deve sapere che futuro intende creare per sé, per i propri cittadini, per i propri figli. E su questo qualora ci siano opinioni diverse deve saper discutere, e far discutere, avere idee e confrontare le idee per creare una strategia, deve fare progetti e confrontare progetti per verificarne l’efficacia rispetto alla strategia.
Venezia non ha questa progettualità; anzi non vuole averla; è una delle poche grandi città complesse che evita qualsiasi dialogo con la propria Scuola di architettura e di progettazione urbana dove si fanno da decenni progetti, strategie, scenari che non vengono mai discussi né con l’Amministrazione né con la cittadinanza.
Perché ? Come mai gran parte delle città si disegnano con piani al 2025, al 2030, al 2050 e discutono questi piani e queste idee con i propri cittadini? Per creare un futuro condiviso, per non avere sempre tanti No ma per avere sempre tante idee, e scegliere le migliori ! A Venezia è questo che non succede, è questo che manca; Venezia ha una strategia ma è occulta, mai discussa, mai proposta in pubblico ma di fatto operante; e si capisce anche perché, perché quella strategia porta Venezia, tra non molto, a non essere più una città abitata, sarà solo un parco giochi e un grande albergo; Roberto Bianchin nel 2006 su Repubblica ipotizzava che questo traguardo arrivi nel 2030. Da quel 2006 ad oggi lo “sviluppo” di questo processo segna caso mai un’accelerazione. Da quel 2006 ad oggi si sono moltiplicate le proteste, è aumentata la sensibilità e la preoccupazione, attenzione sulla stampa nazionale e alla televisione, ma nessun cambiamento di direzione, anzi.
Piuttosto che irritarsi per le battaglie dei No la stampa locale farebbe cosa meritevole e preziosa a lanciare e promuovere una discussione vera, seria e serena; chissà che non si scopra che la maggioranza dei cittadini vuole veramente la fine della città; in questo caso la discussione potrà finire, allora rimarranno solo voci lontane del web a lamentarsi. E se invece fosse il contrario si porrebbero le basi per capire veramente quali sono le criticità e si potrebbe provare a mettere sul tavolo tutte le energie e le conoscenze per capire le incompatibilità, trovare equilibri, con l’obiettivo di generare prosperità e benessere dal rispetto del valore e non dalla sua distruzione. Politica lungimirante anziché consumo immediato. O No ?
Sergio Pascolo, architetto, docente dell'Iuav, è autore del libro “Abitando Venezia”.
Nella filosofia del Piano Paesaggistico Regionale attualmente vigente, il territorio costiero perimetrato è considerato un bene paesaggistico d’insieme, prefigurando il suo ruolo di “risorsa strategica fondamentale per lo sviluppo sostenibile del territorio sardo, che necessita di pianificazione e gestione integrata” (Titolo I - Assetto ambientale; Art. 19 - Territori costieri, p. 26 Norme T.A.).
Non è un caso che Il Piano vigente si estenda con dettaglio maggiore, almeno inizialmente, al territorio costiero. Infatti, la Regione Sardegna ha definito come punto di partenza del Piano i 27 ambiti di paesaggio costieri (pp. 54-56 Norme T.A., artt. 97, 98: Individuazione degli ambiti di paesaggio, Relazione Tecnica Generale – Allegato alla D.G.R. 59/36 del 13/12/2005 pp. 118-124).
Negli ambiti costieri è predisposta una disciplina particolare perché il Piano nasce con l’idea di affrontare innanzi tutto i problemi dei territori costieri. Con la L.R. n. 8/2004 (c.d. “salvacoste”) i territori costieri sono individuati attraverso una fascia di 2 km, mentre con l’adozione del Piano si passa da uno spazio geometrico ad uno spazio configurato. La particolare fragilità di sistemi dinamici e complessi come gli ambiti costieri, che stentano ad avere capacità spontanee di mantenersi per le trasformazioni rapide che li interessano, in aggiunta alla vacatio legis determinata dall’annullamento dei Piani Territoriali Paesisitici (13 dei quali piani costieri e ad eccezione di quello della Penisola del Sinis), che ha contribuito al forte ritardo con cui i comuni avrebbero dovuto procedere all’adeguamento dei propri strumenti urbanistici ai piani sovraordinati, ha imposto di partire dalla dimensione ambientale per rigenerare metodi e tecniche di delimitazione e di progettazione della città costiera.
La scomparsa del principio cardine della fascia costiera come bene paesaggistico d’insieme e il suo declassamento al più generico “sistema ambientale”, definito come “un contesto territoriale i cui elementi costitutivi sono inscindibilmente interrelati e la preminenza dei valori ambientali è esposta a fattori di rischio”, comporta una perdita di significato per l’elemento cardine su cui il piano si centra, l’ambito di paesaggio, una figura spaziale riconosciuta come omogenea, il luogo del progetto unitario, dove le parti sono in relazione col tutto. In particolare, i 27 ambiti di paesaggio costieri sono delineati considerando processi che riguardano fattori climatici, esposizione, geografia, natura geologica e fitosociologica, ecc. e non riducendo il limite tra terra e acqua un mero fatto di distanze metriche, anche se – come si legge nell’art. 16 della proposta di modifica, si tratta pur sempre di “aree tutelate per legge”, attraverso “una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia” per i territori costieri, come recita la parte III del D. Lgs. 42/2004 - Art. 142 lett. a - Aree tutelate per legge del Codice Urbani, che a sua volta la recepisce dal vincolo paesaggistico (il c.d. “Galassino”) ex L. 431/85.
Fin qui tutto a posto, tranne che allora indici e parametri per la pianificazione di natura spaziale occorrevano perché fungessero da strumento di controllo nella realizzazione del piano. Se si perdesse il carattere unificante dato dal considerare la fascia costiera nella sua continuità e unitarietà come bene paesaggistico, torneremo indietro di quasi trent’anni: dalla tutela dei processi a quella degli oggetti, perché tutti gli elementi fondanti che mettono in relazione ecosistemi marini e terrestri (campi dunari e compendi sabbiosi, zone umide costiere, ecc.), ritornano ad essere oggetto di tutela individuale e non integrata rispetto ai processi unitari che regolano gli ecosistemi. È altresì indicativa la scomparsa delle “Praterie di posidonia” dai beni paesaggistici (Titolo I, Art. 11 - Assetto ambientale. Generalità ed individuazione dei beni paesaggistici), la biocenosi più importante per la biodiversità marina, sostituite allo stesso comma l dal più imponente “i vulcani” (quelli spenti del Meilogu?).
Per concludere, si impongono due ordini di ragionamento, utili anche alla redazione dei PUL, il primo che riguarda la dimensione ambientale, il secondo la dimensione collettiva dei nostri territori costieri:
a) il territorio costiero è quello in cui sono significativi i rapporti di interfaccia tra terra e mare – sotto l’aspetto ambientale e secondo diverse articolazioni (è assolutamente fondamentale la geomorfologia, fino ad arrivare alla fito-sociologia, il clima con l’influenza dell’aerosol marino, ecc.). Pertanto, i criteri di delimitazione dei territori costieri sono e devono essere soprattutto ambientali e non è un caso che i territori costieri siano riportati nell’assetto ambientale del Piano.
b) La dimensione collettiva dei territori costieri ci impone di riflettere, in modo coerente con le istanze e le aspettative degli abitanti dei territori costieri, o di coloro che con essi si rapportano, riconoscendo l’importanza dell’apporto collettivo al progetto dell’ambito di paesaggio nell’insieme, dove tutti i territori riconoscono e considerano l’ambito costiero come centro fondamentale della loro organizzazione.
Un intervento repressivo, l'ennesimo, contro i rischi e i disagi indotti dalla mobilità urbana auto-centrica, non pare riflettere davvero la natura del problema. La Repubblica, 3 novembre 2013, postilla (f.b.)
LIMITE a 30 km orari per le auto in città: la rivoluzione prende corpo. L’Anci, l’associazione dei Comuni italiani, ha lanciato la sua proposta di modifica del codice della strada e subito il governo ha risposto. Lo ha fatto accorciando i tempi di un progetto che martedì prossimo inizia l’iter legislativo, per «tutelare e garantire la sicurezza nelle aree urbane», come conferma il sottosegretario alle Infrastrutture e ai trasporti Erasmo D’Angelis. La misura più importante lanciata dai Comuni e recepita dal governo? La possibilità, appunto, «di moderare la velocità massima nei centri abitati a 30 km/h in tutte quelle aree con caratteristiche infrastrutturali che lo consentono, con eccezione delle principali arterie di scorrimento».
Il tema è dibattuto: anche se l’idea di abbassare il limite piace, perché difende gli anelli più deboli della mobilità, ossia utenti delle due ruote e pedoni, restano tanti dubbi: l’Anci è composta da sindaci e assessori che nei loro Comuni non hanno (quasi) mai realizzato nulla del genere. E poi è sotto gli occhi di tutti come in pochissime città si riesca a far rispettare il limite dei 50 all’ora, figuriamoci quello dei 30. Senza contare l’esempio romano, che brucia ancora: nella nuova viabilità intorno al Colosseo è stato da poco introdotto proprio il limite dei 30 km/h, sorvegliato dauna fitta rete di autovelox. Com’è finita? Nessuno sapeva di questi nuovi limiti, segnalati male, con il risultato che è stato multato praticamente chiunque passasse di lì: il limite c’è ancora, ma gli autovelox sono spenti.
In realtà, anche se il passaggio da 50 a 30 porterà non poche polemiche, il progetto dell’Anci è molto più articolato, e non consiste nella semplice imposizione di un limite. Si parla infatti di «una drastica rivoluzione dei principi delle regole della strada ». La proposta prevede, per esempio, che il lato destro delle strade sia libero da parcheggi e dedicato alle piste ciclabili. Si chiedono poi nuovi semafori con la precedenza di ripartenza dei ciclisti e la fine per le due ruote dell’obbligo di utilizzare le corsie a loro dedicate. I sindaci vorrebbero anche impedire ai regolamenti condominiali di vietare il parcheggio negli androni dei palazzi. La rivoluzione dei 30 all’ora, spiega il sottosegretario De Angelis, sarà «il punto di partenza per un’idea nuova di città e di mobilità che risolva la malattia italiana di ritardi accumulati da almeno 15 anni di sostanziale immobilismo con norme tecniche ormai da rottamare ». Siamo il Paese più indisciplinato d’Europa, con 78,5 milioni di multe l’anno, 215.000 al giorno. Per il governo, però, non si tratterà di un attacco frontale alle quattro ruote: «Non è guerra all’auto, ma al suo abuso. Del resto, le nostre città non sono più autocentriche. Ormai c’è una forte domanda di mezzi pubblici, di aree pedonali. E, finalmente, un intelligente investimento sulla bicicletta vista come fattore di modernità». I dati lo confermano: siamo passati dal 2,9% di ciclisti urbani del 2001 al 9% di oggi, con 5 milioni di persone che pedalano per spostarsi da casa al lavoro. E non è un caso d’altra parte che il nostro Paese — a livello europeo — sia secondo solo alla Grecia per numero e gravità di sinistri che coinvolgono le due ruote e i pedoni. È ora di fare qualcosa.
postilla
Difficile non concordare sulle premesse e gli obiettivi di quanto descritto, ma resta una certa perplessità sullo strumento e le specifiche strategie che delinea: PRIMA un nuovo divieto, un cartello, la minaccia di sanzioni, e POI si vedrà. Come sottolinea anche l'articolo, i cartelli (nel nostro paese, poi, dove anche i limiti di velocità paiono decisi con criteri del tutto surreali, e le sanzioni applicate in modo altrettanto discrezionale) quando non corrispondono a comportamenti indotti in altro modo restano solo una pia intenzione. Ovvero, ci sfugge qualcosa, o forse, più probabilmente, siamo di fronte all'ennesima iniziativa estemporanea di qualche esponente politico che cerca visibilità, magari consenso da parte di alcuni settori sociali, ma che susciterà subito le ire di chi, magari con qualche motivo, si sente inutilmente penalizzato. Come sosteniamo da sempre su queste pagine, le città sono un'insalata mista di spazi e comportamenti, e per raggiungere un pur vago equilibrio non basta intervenire solo su un aspetto, e neppure tre o quattro. Occorre pensare in modo complesso, e con tutto il rispetto un paio di cartelli, qualche straordinario dei vigili, e una mano di vernice a tracciare piste ciclabili, non paiono proprio riflettere la complessità urbana (f.b.)
Il manifesto, 2 novembre 2013
Ugo Cappellacci, con la spregiudicatezza tipica del suo partito e del suo 'principale' rispetto alla legge, ha promulgato le variazioni al piano paesaggistico della precedente giunta regionale guidata da Renato Soru (piano coordinato da Edoardo Salzano, a capo di una qualificata equipe di studiosi, ricercatori ed esperti). Inaugurando così una campagna elettorale per le prossime elezioni regionali della Sardegna che si preannuncia movimentata. Lo ha chiamato Pps, Piano paesaggistico sardo.
Una fretta calcolata, che deve aver messo in conto la tensione - da giocare come anelito sovranista - con le istituzioni statali. Rotta la copianificazione con il ministero dei Beni e delle Attività Culturali. Ecco la prima riserva giuridica, di rilievo, subito espressa da un duro comunicato della direzione regionale sarda del ministero. Con altri limiti di 'legalità' che appaiono in questo complesso provvedimento.
Il governatore si atteggia a difensore dell'identità preparando il territorio a investimenti speculativi, partendo da golf, cubature ed emiri. Se la prende con lo Stato ignorandone le leggi; dice che sono ingiuste e pensa al vero obiettivo: agli interessi economici che vengono favoriti e al blocco sociale per le prossime elezioni. D'altronde era a Roma qualche giorno fa nel gruppo dei venticinque berlusconiani che preparava la resa dei conti con i cosiddetti dissidenti e la nuova Forza Italia: un nome che svela la natura del suo sovranismo.
Le ragioni elettorali di questo strappo sono evidenti, assieme all'apertura alla speculazione secondo la vecchia e sicura forma dell'edilizia. Lo confermano queste ore, con la rassicurazione data ai sindaci della Gallura di poter lavorare con meno vincoli e più prospettive. Si scarica così una gigantesca confusione sulla gran parte dei piani urbanistici ancora da approvare, molti predisposti secondo le precedenti norme e regole.
L'azione di modifica del Piano paesaggistico regionale è per certi versi lineare. Vi sono inseriti il «piano casa» e il «piano golf», sotto giudizio della Corte Costituzionale, che permettono - il primo con la possibilità di aggiungere volumetrie, il secondo con il suo regime particolare - di aggirare i trecento metri dalla linea di costa. Ad essa va aggiunta la recente legge sugli «usi civici», approvata in modo bipartisan, che prepara - in forte tensione con le norme nazionali sui terreni sottoposti a usi civici (legge 42/2004, articolo 142, 1h) - nuove possibilità speculative, e la velleitaria ma significativa, per logica e interessi, proposta della zona franca.
Nel consultare la copiosa documentazione che appare ora dopo ora nel sito della Regione autonoma della Sardegna si colgono l'idea di non considerare - dandogli il fuorviante e ampolloso riconoscimento di «sistema ambientale ad alta densità di tutela» - la fascia costiera come bene paesaggistico («Linee Guida», p. 70), valutando contestualmente, volta per volta, le operazioni da compiere. Anche per i corsi d'acqua vi è il sospetto di una percezione arbitraria del valore paesaggistico rispetto a quanto indicato nel decreto legislativo 42/2004 (come sottolinea il gruppo di intervento giuridico) oppure nei centri storici, dove nei «centri di prima e antica formazione», normalmente tutelati di per sé e con severissimi limiti di edificabilità, si introduce una distinzione «in base alle caratteristiche di notevole valore paesaggistico» preludio ad autorizzazioni edificatrici («Sintesi non tecnica», punto 7, p. 9). O, ancora, il pesante depotenziamento dei beni identitari, sino al silenzio, almeno così mi appare, sul fatto che continuino le procedure tramite il sistema di catalogazione già predisposto, il database 'mosaico' e relativo tracciato: pesante in alcuni aspetti ma legato a standard scientifici e di tutela solidi e forse per questo malvisti.
Credo sia importante avversare questa azione del governatore Cappellacci, anche per i non sardi: non si tratta solo di un'azione di evidente significato e peso nazionale, ma anche di impedire che in un'area che ospita il sogno di uno sviluppo diverso e possibile, con ruolo centrale di cultura e paesaggio tutelato, tale prospettiva si spenga.
La semplice lettura critica e politica di questa operazione, dal punto di vista del territorio e del paesaggio, necessita di un quadro di lettura più adeguato alla situazione che oggi muove i nostri territori e il pianeta; che innovi il sistema di tutela costruendo - come propongono diversi giuristi e movimenti che animano la «Costituente dei beni comuni», in sviluppo alle proposte della «Commissione Rodotà» fra il 2007 e il 2008 - nuovi orizzonti per il territorio.
Un secolo di evoluzione giuridica ha condotto a importanti momenti di unitarietà nella lettura di cultura e paesaggio, in interazione virtuosa con le normative urbanistiche. Ma le forze sono inadeguate, il ministero si scioglie, le forme obsolete, gli attacchi si moltiplicano. Forse la soluzione è davvero in un nuovo sistema che parta dalle comunità - entro grandi leggi quadro - e costruisca il governo dei territorio con nuovi assetti giuridici di tutela in grado di recepire qualità culturale e operativa dei beni comuni.
In Sardegna il Piano paesaggistico sardo del proconsole berlusconiano completa un attacco a una Sardegna preda di ripetuti tentativi di impianti energetici di ogni tipo, di sperimentazioni di cosiddetta chimica verde autorizzate a chi dovrebbe essere obbligato alle bonifiche, come l'Eni a Porto Torres, di profonde trivellazioni in aree di grande pregio paesaggistico e agrario come cerca di fare la potente Saras ad Arborea, di campi da golf e edifici proposti nella splendida costa di Bosa da Condotte. Centinaia di movimenti si oppongono a questo sistema, che ha non di rado l'appoggio comune di Pd e Pdl e spesso coincide con lo Stato. Si moltiplicano i ricorsi.
Il territorio, con evidenza principale mezzo di produzione, è il vero centro della politica. Ma le azioni sono più veloci dei cambiamenti attesi, delle possibili difese e dei progetti alternativi. Ci auguriamo che il ministro dei Beni e delle Attività culturali ripristini intanto la legalità pesantemente violata dalla promulgazione del Piano paesaggistico sardo.
Il prossimo anno, a febbraio o al più tardi in primavera, in Sardegna si vota per il rinnovo del consiglio regionale. La campagna elettorale è già cominciata e il presidente in carica, Ugo Cappellacci, Pdl, punta a farsi ricandidare dal suo partito. La volata Cappellacci l'ha lanciata da più di un anno, puntando su due temi: l'istituzione di una zona franca integrale su tutto il territorio dell'isola e la revisione del piano di tutela del paesaggio approvato nel 2006 dalla giunta guidata da Renato Soru. Meno tasse e più cemento, insomma: slogan perfetto per pescare voti nel bacino elettorale del centrodestra.
La zona franca significherebbe che le imprese che operano in Sardegna possono usufruire di un regime fiscale di vantaggio. Cappellacci presenta la proposta come un toccasana destinato a curare tutti i mali di un'economia regionale esausta, in alcuni settori prossima al collasso. Fa finta di non sapere, il presidente Pdl, che in tutte le realtà europee in cui questa soluzione è stata adottata non ha risolto alcun problema. Ridurre, infatti, alcuni costi aziendali (che siano tasse o salari, concettualmente la questione non cambia) senza tenere presente che la complessità dei mercati pone un problema di ridefinizione complessiva dell'offerta soprattutto in termini di valore aggiunto di innovazione dei prodotti, significa andare incontro a cocenti delusioni. Ad esempio, ridurre le tasse alle imprese edilizie sarde che operano in un mercato ristretto all'isola e ormai più che saturo - oltre che rigido quanti pochi altri sul terreno dell'innovazione di prodotto - significa solo fare demagogia. Ed esattamente ciò che fa Cappellacci: gli basta dire che saranno ridotte le tasse. Questa è la bandiera da agitare in campagna elettorale.
L'altro drappo glorioso sventolato dal presidente della regione Sardegna è grigio color cemento. La revisione-demolizione del piano del paesaggio approvato nel 2006 punta essenzialmente a rilanciare l'industria del mattone lungo le coste. Obiettivo per raggiungere il quale viene abolita la tutela integrale del litorale: in alcune zone i vincoli restano, in altre, molte altre, no. Ma secondo il Codice Urbani, che detta le regole in materia urbanistica e di tutela del paesaggio, Cappellacci questa cosa non la può fare da solo. Esiste infatti, dice il Codice, un obbligo di copianificazione: a decidere sono, insieme, le regioni e lo stato. Cappellacci però fa finta di non saperlo e dice che in materia di paesaggio la competenza esclusiva è delle regioni. E siccome dal ministero dei beni culturali, tre giorni fa, con una nota molto secca gli hanno ricordato che senza la firma del ministro Massimo Bray qualunque delibera regionale di modifica del piano del paesaggio voluto da Soru è da considerarsi carta straccia, il presidente prima ha gridato all'attentato contro l'autonomia della Sardegna, sancita come speciale dalla Costituzione, e poi, vedendo che l'argomento era debole (il Codice Urbani parla chiarissimo), s'è inventato una bella teoria del complotto: «Con i tecnici della Direzione regionale per i beni culturali tutto - ha detto - è filato liscio sino a maggio di quest'anno.
I problemi sono nati quando, a quella data, il ministro Lorenzo Ornaghi è stato sostituito da Bray». Ed è stato Soru, secondo Cappellacci, a mettergli contro Bray. Come? Sentite il presidente: «Il 7 settembre l'ex governatore Renato Soru, con un'intervista concessa al quotidiano il manifesto, ha chiesto a Bray di fermare il nuovo piano paesaggistico». Insomma, Bray s'è messo di traverso non per rispetto della legge, il Codice Urbani, ma perché glielo ha chiesto Soru attraverso il manifesto. Un complotto. Per tutta risposta, dal ministero e dalla direzione regionale dei beni culturali è arrivato uno sonoro ceffone: «Il presunto problema politico indicato dal presidente Cappellacci come causa del rallentamento dei lavori per l'adeguamento del Piano paesaggistico non esiste. Tutta la nostra azione è stata esclusivamente indirizzata da un' ottica di massima attenzione alla tutela del territorio, e se i lavori di copianificazione hanno registrato momenti di criticità ciò è avvenuto quando le proposte della regione sono risultate non in linea con la richiamata esigenza di tutela del territorio, e quindi non condivisibili».
Dichiarazione subito seguita dalle parole di Soru: «Cappellacci si rassegni: il piano paesaggistico del 2006 è entrato nella coscienza ambientale dell'Italia e dell'Europa. Non riuscirà a cancellarlo».
Cos’è un essere umano senza il diritto ad una casa? Psicologicamente è ridotto ad uno zero, senza dignità, senza diritti, senza la possibilità di un riparo, prima fisico, poi psicologico. Come si può buttare per strada ragazze madri, disoccupati, anziani, famiglie? Qui c’è una mappa degli stabili abbandonati di Roma, chi rivendica il diritto ad abitare e a vivere una vita dignitosa è un criminale o è criminale una politica che umilia e rinnega i bisogni primari di un essere umano? Da dove parte questo movimento popolare che chiede le basi minime per vivere da essere umano? Il Coordinamento Cittadino di lotta per la casa è il primo movimento autorganizzato sul diritto alla casa che nasce a Roma.
È dal Dopo il 1996 il Coordinamento lancia la battaglia per il riconoscimento dello “stato di emergenza” nella città di Roma e da quel momento inizia una nuova dura fase di lotta che porta, nel settembre 1999, alla prima ratifica del “Protocollo sull’emergenza abitativa” che a Roma prevede 170 miliardi di vecchie lire per gli acquisti di nuove case popolari e in più i finanziamenti per altri sei progetti di autorecupero ed altri interventi in alcune periferie romane. I tempi di approvazione e di attuazione sono però infiniti e l’emergenza è cresciuta fino ad esplodere. La Conferenza Stato/Regioni/Province/Comuni, convocata dal Governo Letta per il 31 ottobre con l’obiettivo di definire un decreto sulle politiche abitative, ha avuto un prologo decisamente insoddisfacente nell’incontro tra i movimenti sociali e il ministro Maurizio Lupi. La giornata di oggi è stata una “giornata di lotta e determinazione che ha visto riscendere in piazza e consolidarsi come vera opposizione agli occhi del paese tutta quella composizione sociale – con in testa lo spezzone migrante – manifestatasi negli assedi del 19 ottobre e nella presa di Porta Pia“.
Una malattia è fatta da sintomi: reprimere con manganellate la rabbia degli esclusi è cercare di reprimere e rimuovere i sintomi di un malessere, ma, come la psicologia insegna, i sintomi li puoi mettere a tacere ma la malattia e il disagio restano. Più lo stato reprimerà più in chi è senza diritti monterà la rabbia. I moralisti disprezzano chi è depresso, chi è emarginato, dicono che la casa te la devi sudare. Questo disprezzo di chi sta bene verso chi soffre è sintomo di una cieca negazione della violenza della crisi economica e delle incapacità politiche diaffrontarla. Ignorare o criminalizzare non servirà a nulla. Questo è solol’inizio.
Una vergogna italiana. Nord e Sud, politica e amministrazione, uniti nell'affrontare nel modo peggiore il problema globale della produzione abnorme di rifiuti dello "sviluppo": il volto oscuro del trionfo della società opulenta. La prims puntata di un reportage di Angelo Mastrandrea e un'intervista a Massimo Scalìa. Il manifesto, 2 novembre 2013
«Il sud Italia, da Latina in giù, è la pattumiera d'Europa: a Formia 10 mila bidoni di rifiuti tossici, al largo di Salerno affondata una nave con scorie anche nucleari». Il pentito dei Casalesi Carmine Schiavone parla al manifesto e aggiunge nuovi dettagli alle sue confessioni. Ma nella «Terra dei fuochi» tra Napoli e Caserta le industrie continuano a utilizzare le discariche abusive, che poi vengono incendiate.
Coperta da un telo di plastica, una montagna di eternit. All'aria aperta. «Qui esistono una miriade di aziende che girano casa per casa a offrire prezzi competitivi per lo smaltimento dell'amianto. Poi, con le tute e le mascherine, vanno a buttarlo in campagna». Prima o poi i pannelli di eternit bruceranno, insieme a ciò che rimane dei frigoriferi, ai rifiuti dell'industria del falso e di quella legale, dell'edilizia e dell'agricoltura. Tutti insieme a comporre un mix micidiale di diossina e altre sostanze tossiche. Funziona così, nella Terra dei fuochi: si satura la discarica e poi, per eliminare qualsiasi traccia e liberare spazio per i prossimi rifiuti, si assolda un piromane che appicca il fuoco con maestria. È a buon mercato, la prestazione di un incendiario: 20 euro, non di più.
Qui, in questa pianura sterminata a cavallo tra l'alto napoletano e il basso casertano, dove la Terra di lavoro si trasforma in un groviglio di cavalcavia e paesoni, rotonde e strade poderali, il business dello smaltimento illegale, velenoso, assassino del territorio e di chi lo abita non si è mai fermato e prosegue indisturbato. Oggi come dieci o vent'anni fa. A Orta di Atella, Caivano, Succivo e in tutta l'area a nord di Napoli le discariche abusive si contano a decine. Si riempiono fin quando qualcuno non si premura di dare fuoco al tutto, poi riprendono a crescere, in un ciclo apparentemente infinito. Siamo nel cuore della Terra dei fuochi, così detta per via di quei roghi che quotidianamente la punteggiano e ne appestano l'aria, in un primordiale sistema di smaltimento dei rifiuti. È questo l'epicentro di quella «pattumiera d'Europa» cui un intreccio perverso tra mafie, un sistema industriale corrotto e malapolitica hanno destinato il sud Italia da Latina in giù, per ammissione di Carmine Schiavone, cugino di Francesco «Sandokan», capo indiscusso del clan dei Casalesi.
«Qui c'è un intero sistema industriale che smaltisce i rifiuti in questo modo, e lo Stato è connivente», dice Enzo Tosti, mio accompagnatore in questo tour nei luoghi di stoccaggio della «monnezza illegale», quella che sfugge a ogni censimento o statistica. Quanta gente si è presa la briga, a oggi, di analizzare una discarica abusiva rifiuto per rifiuto? Quali istituzioni si sono occupate di censire, monitorare, sorvegliare, prevenire quello che ogni giorno continua ad accadere nella ormai ex Campania felix?
Se il pentito Schiavone ha parlato dei veleni sotterrati o inabissati, Tosti cataloga ciò che emerge alla luce del sole, quel combustibile che alimenta i roghi della cosiddetta Terra dei fuochi. Non è una gola profonda della camorra e neppure un chimico o un biologo o un medico. È un operatore socio-sanitario, nella vita si premura di assistere giovani e meno giovani con problemi mentali, ma per amore della sua terra ha deciso di condurre una battaglia contro le discariche abusive e un sistema che definisce «sbagliato e marcio». Come altri attivisti dei comitati che si battono per una riqualificazione del territorio, Tosti trascorre le sue giornate con gli occhi aguzzati alla ricerca di una colonna di fumo nero, per segnalarla a vigili del fuoco e forze dell'ordine. Ma non è solo una sentinella del territorio. Piuttosto, mi sentirei di definirlo un entomologo della monnezza, un esperto di quel meccanismo perverso che parte da una fabbrica del nord Italia o da un cantiere edilizio della strada accanto e finisce nelle strisce di bitume, nei pannelli di eternit, in quei sacchi neri pieni di residui di pelli o calzaturieri, nei frigoriferi smontati, nei copertoni di auto e nelle plastiche delle serre messe in fila o ammassate una sull'altra nelle discariche abusive e che mi mostra articolo per articolo, come l'addetto a un museo dello scarto.
Tosti ha ragione. Bisogna guardarla da vicino, l'immondizia, per capire di cosa si parla. Solo così, osservando cosa si smaltisce, si può arrivare a comprendere quanto un intero sistema di produzione sia «marcio e malato», quali e quanti interessi si nascondano dietro al mantenimento di uno status quo insostenibile da tempo eppure ancora perfettamente funzionante. È possibile perfino arrivare a dare un volto agli inquinatori di professione, ricostruire una catena che dall'ultimo anello, il piromane su cui ogni campagna securitaria vuol ricadere ogni responsabilità e aggravare la pena, risale fino all'azienda dal volto pulito alla quale il più delle volte nemmeno si riesce a contestare il reato ambientale. Un esempio è davanti ai miei occhi, in una discarica a cielo aperto nelle campagne di Orta di Atella: ci sono residui della lavorazione di scarpe ovunque, taniche di collanti, ritagli delle tomaie. Tosti li racconta così: «Quest'area è da sempre un polo calzaturiero importante. Ora le grandi griffe parcellizzano il lavoro, affidando l'assemblaggio dei prodotti a centinaia di persone che lo fanno a casa loro. Una volta si premuravano loro di smaltire gli scarti, ora invece lo fanno fare a questi ultimi, perché non si possa risalire a loro in nessun caso».
La discarica abusiva sorge attorno a una collinetta sotto la quale c'è di tutto. In questa pianura a perdita d'occhio interrotta solo, sullo sfondo, dal Vesuvio, ogni collinetta nasconde un mostro che è meglio non risvegliare. Non è l'unica che visiterò: a Succivo il Comune ha mandato le ruspe ad accantonare i rifiuti al bordo delle strade, qui invece c'era già un sito di stoccaggio temporaneo dei tempi dell'emergenza rifiuti in Campania e tutto rimane dove viene abbandonato. L'intera Terra dei fuochi ne è disseminata e, come di solito accade in Italia, non c'è nulla di più stabile del temporaneo. Si capisce perciò la profonda diffidenza dei cittadini ogni volta che viene loro proposta una nuova discarica, un sito provvisorio o, ancor più, un inceneritore. I rifiuti, nella gran parte dei casi, non sono loro e neppure si tratta di immondizia urbana ma di altro e ben peggiore. Alle volte la terra fuma, quando piove il famigerato percolato si infiltra nel terreno e può arrivare a contaminare falde acquifere anche dopo anni. «Abbiamo fatto analizzare l'acqua di un pozzo, proprio qui vicino, ed è venuto fuori di tutto», dice ancora Tosti.
A duecento metri dalla discarica c'è un mercato abusivo: decine di ambulanti - molti africani - espongono la mercanzia a terra, lungo uno stradone e su uno spiazzo asfaltato e senza ombra. A fianco c'è invece un terreno coltivato.
È piuttosto comune, da queste parti, vedere campi arati o distese di alberi da frutta convivere con il disastro ambientale, i roghi e le cataste di rifiuti del tessile e del calzaturiero, dell'edilizia e dell'agricoltura. A Caivano un terreno coltivato fiancheggia un'altra discarica. Fino a quest'estate c'era un pescheto, ora gli alberi non ci sono più e il terreno è arato di fresco: le piante sono seccate. Perché? Non è raro incrociare intere piantagioni di alberi da frutta morti o filari di pioppi malati, ed è inevitabile per quale motivo accada, cosa ci sia lì sotto. I contadini si lamentano perché «nessuno vuole più i nostri prodotti» e ce l'hanno con i giornalisti: «Questa non è la Terra dei fuochi, è Terra di lavoro». Hanno ragione e allo stesso tempo torto: non si può fare di tutta l'erba un fascio, non tutto è inquinato e non tutti coltivano a ridosso di discariche. Ma in troppi hanno taciuto quando il territorio veniva violentato, pensando a curare il proprio orticello. Non è stato così, e loro sono rimasti in mezzo a due fuochi concentrici: i roghi e le agromafie, che impongono prezzi da fame per prodotti agricoli. Al mercato ortofrutticolo i pomodori vengono pagati otto centesimi al chilogrammo, le stesse mafie gestiscono il riciclaggio nelle discariche abusive degli scarti dell'agricoltura e poi fanno appiccare i roghi che avvelenano tutto, e nessuno vuole i prodotti di una terra malata anche se venduti sotto costo. E il cerchio di un sistema «malato e marcio» si chiude.
(1- continua)
Sandro Roggio è un architetto e si occupa soprattutto di urbanistica. È autore di pubblicazioni tra cui il Prologo di Lezioni di Piano. L'esperienza pioniera del ppr raccontata per voci. Scrive su La Nuova Sardegna e collabora con eddyburg.it diretto da Edoardo Salzano.
Architetto Roggio quali sono le differenze tra il PPR e il PPS?
«Solo da ieri disponiamo del quadro completo delle variazioni e ci vorrà un po' di tempo per leggere e capire, ma a prima vista c'è tutto ciò che si temeva, annunciato dal dibattito rivelatore di questi anni. Ci sono gli strilli della campagna elettorale scorsa, via via mitigati, e le anticipazioni nel piano casa che si applica scandalosamente pure nei 300 metri dal mare, e nella legge sul golf che rappresentano un modo di pensare inequivocabile. Si tratta di provvedimenti già impugnati dal governo che si pensava di mettere nel Ppr con la complicità dello Stato. Ma gli è andata male»
sprawl è un vero e proprio incubo di frammentazione spaziale e sociale, altro che
Personalmente una verifica ho provato a farla, anche mio malgrado, sulle assai discusse ma pare poco praticate trasformazioni globali/locali dell'area metropolitana milanese, quelle indotte dalle opere autostradali connesse al traguardo Expo 2015, che interessano per ora la fascia orientale di Milandia, segnatamente Tangenziale Esterna, BreBeMi e opere direttamente collegate. L'occasione, la scintilla diciamo così, è stata una prima passeggiata critica durante la preparazione dei Seminari di Eddyburg, dove con Serena Righini avevo deciso di presentare brevi riflessioni sui “nodi di urbanità” a scala sovracomunale, individuati nella città lineare continua dall'anello interno al confine dell'Adda. Nodi di urbanità assai vistosi, consolidati, che parevano invocare a gran voce “e dateci questa Città Metropolitana una volta per tutte!”, ma che verificati direttamente sul territorio lasciavano intravedere anche qualche discontinuità vistosa, troppo vistosa per non disturbare. Per comune accordo, sia sul versante della comunicazione che sulle prospettive di osservazione, era Serena ad essersi assunta il compito di restituire una immagine globale, attraverso gli strumenti dei piani e delle strategie di medio-lungo periodo. A me restava la verifica locale, a sostegno della tesi comune: Città Metropolitana reale, sostanziata in spazi fisici e identità collettiva, contro territorio a rischio di frammentazione e degrado, da sprawl e politiche infrastrutturali a dir poco miopi.
BreBeMi al punto di innesto sulla Tangenziale esterna |
Per vederli meglio in una prospettiva locale, ho usato il medesimo strumento: spostarsi in bicicletta, anziché lungo un asse lineare, sull'arco che taglia trasversalmente il settore metropolitano orientale, dall'altezza della Martesana a una fascia un po' a sud della strada Rivoltana, più o meno. Per chi osservasse una carta delle grandi opere in corso, si tratta dell'area di maggior concentrazione di tracciati, incroci, adeguamenti collaterali, dove spesso anche le vecchie e nuove arterie di collegamento fra le autostrade vere e proprie sono state concepite coi medesimi criteri di sovrapposizione autoreferenziale al territorio. Se ne raccolgono immagini e sensazioni del tutto soggettive, e influenzate dalla stagione autunnale, ovvero dal fatto che per via dei tempi di spostamento tutto il percorso lungo l'arco trasversale in corso di trasformazione è avvenuto mentre il sole scendeva verso l'orizzonte, e mentre saliva il traffico dell'ora di punta serale.
C'è naturalmente il disagio dei cantieri, dei tantissimi cantieri grandi e piccoli sparsi ovunque, sia che ci lavori qualcuno, sia che appaiano come voragini in attesa di qualcosa che non sta arrivando. Il concetto di margine così come definito da Kevin Lynch, che nell'insediamento lineare urbano appare chiaramente svolgere un ruolo di guida e orientamento, qui diventa brutale interruzione, sovrapposizione, fa esplodere spazi e flussi. Il segnale, chiarissimo, è quello delle strade secondarie intercomunali, per intenderci il tipo di percorsi di solito usati localmente da abitanti e mezzi agricoli, più raramente e occasionalmente da chi attraversa questa rete irregolare su scala metropolitana. Ecco, oggi i margini indotti da cantieri e nuovi tracciati irrisolti stravolgono il ruolo delle ex strade campestri, facendone assi di comunicazione di una certa importanza, sia a scaricare spontaneamente il traffico, sia in una logica “pianificata” (virgolette d'obbligo) come si capisce dalle segnalazioni o dagli occasionali semafori mobili di senso unico alternato. Anche quando non si verifica una interruzione totale di flusso, attorno ai ponti o svincoli in costruzione i tracciati deviati cancellano qualunque gerarchia, ficcando nel medesimo trogolo i camion dei trasporti internazionali, i trattori al lavoro che saltano da un podere all'altro, e obbligatoriamente anche lo sventurato ciclista, traballante a evitare un fosso fangoso sulla destra, e la collisione del gomito con una portiera a sinistra. Sensazioni personali a parte, l'idea che ne esce suona più o meno: siamo tutti nella stessa autostrada, nel laissez faire trasportistico del terzo millennio. Dov'è finito il territorio metropolitano, con le sue gerarchie, i suoi spazi abitabili, la sua campagna più o meno tutelata da greenbelt o semplici interessi economici?
Un cantiere minore sulla viabilità di collegamento |
Le mille luci della città ricompaiono all'orizzonte, una specie di insegna della prima calamita di Howard, e col relativo sollievo si fa strada una domanda: è questo ritagliare bantustan territoriali incomunicanti, fra le corsie di comunicazione dedicate, il destino ineluttabile del territorio concepito in funzione autostradale? Indipendentemente dalle strategie, di sicuro perverse, che hanno indotto qualcuno a progettare, sostenere, finanziare e realizzare la ragnatela di interventi, c'è un'idea di rete complementare parallela, che possa in tutto o in parte restituire organicità spaziale, sociale, ambientale, identitaria, a questa fetta d'anguria metropolitana? O meglio, visto che la pianificazione a questa scala languisce in quanto tale, sostituita appunto dai puri mega-progetti ingegneristici, c'è qualche prospettiva per una reazione, propositiva, progressiva, di società locali che provino a pensare “globalmente”, almeno alla scala di queste trasformazioni? Difficile dirlo.
(qui di seguito i tracciati delle opere principali e un sommario perimetro del territorio percorso in bicicletta)
L'Autore citato in occhiello è Robert Bruegmann, quando nel suo bestseller Sprawl: a compact history (University of Chicago Press, 2005), spiega: "Formy purpose I found the best source of information was the builtenvironment. A great deal of my research has consisted of going outand looking around"
Un rapporto Eurispes presentato a CityTech fotografa la dipendenza del nostro sistema territoriale e sociale dal trasporto individuabile (il dominio del dio Automobile), Le ricette sono individuate da decenni, ma non sono praticate vere strategie alternative. Dal sito Omniauto, 28 ottobre 2013
L'Italia è alle prese con lo Urban Sprawl ovvero con la rapida e disordinata crescita delle città. Negli anni la popolazione è aumentata e si è spostata dai centri abitati nelle province alle periferie e ai territori ex agricoli. "Questa nuova distribuzione ha aumentato la domanda di trasporto e reso inadeguata l'offerta tradizionale", spiega il Direttore del Comitato Libro Bianco, Luca Masciola. Il Libro Bianco sulla Mobilità ed i Trasporti in Italia dell'Eurispes ogni anno fotografa la mobilità ed il trasporto in Italia e verrà presentato in primavera per offrere un dettagliato quadro su temi sociali, infrastrutturali, commerciali e tecnologici legati ai trasporti. Una breve anteprima è stata appena data a Milano in occasione di Citytech dal Direttore dell’Osservatorio dell'Eurispes, Carlo Tosti.
PROBLEMI SOMMATI A PROBLEMI
Nel corso del suo intervento a Citytech, alla presenza del Ministro ai Trasporti, Maurizio Lupi, del Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, del Presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà, Tosti ha approfondito i macrotemi affrontati nel Libro Bianco: l'urbanizzazione e l'accesso ai servizi di trasporto; le infrastrutture critiche, i parcheggi di scambio, le linee tranviarie, le infrastrutture tecnologiche, l’infomobilità e bigliettazione integrata, l'intermodalità, il trasporto turistico, il trasporto merci, il ruolo e l'efficacia delle normative.
"Inquinamento atmosferico e acustico, congestione, occupazione del territorio, inefficiente utilizzo del fattore tempo - ha detto il Direttore dell’Osservatorio Eurispes sulla Mobilità e Trasporti - costituiscono indicatori cui sia le persone che le imprese pongono rilevante e crescente attenzione. Queste problematiche vengono avvertite con più forza nell’ambito urbano, dove c’è ovviamente maggiore concentrazione di popolazione, produzione e distribuzione delle merci. E proprio l’utilizzo esclusivo del trasporto stradale per quanto riguarda le merci crea le maggiori problematiche, non solo dal punto di vista ambientale. L’Italia poi assomma a questa predilezione stradale in ambito urbano una vocazione per la gomma anche nel trasporto merci in medie e lunghe percorrenze. Questo significa che a problemi si sommano problemi". Il Direttore ha quindi ricordato come le Amministrazioni pubbliche locali stiano intervenendo per regolare il trasporto merci in città.
SEMPRE PIU' ABITANTI, TRAFFICO E CITTA'
Oltre a Tosti è intervenuto nel corso della sessione istituzionale, anche il Direttore del Comitato Libro Bianco, Luca Masciola. "Nel decennio tra i due ultimi censimenti in Italia abbiamo registrato una crescita del 9% dei territori abitati (con punte del 19% in Basilicata, del 17% in Molise del 13% in Piemonte e Marche). Il fenomeno è ancor più evidente nelle dieci aree metropolitane nazionali che da sole rappresentano il 30% della popolazione e l'11% del territorio. È in queste aree che lo urban sprawl esprime tutti i caratteri di criticità", ha detto citando due indicatori per tutti: le 600 auto private per mille abitanti (con punte superiori alle settecento su Roma e Firenze), l’altissima percentuale di trasporto merci conto proprio per tragitti inferiore ai 50 km (anche per questo possiamo dire che la merce più trasportata nelle grandi città sia l’aria, ovvero il mancato carico dei mezzi i movimento). Gli effetti sono traffico, congestione, elevati costi diretti, elevatissimi costi indiretti (inquinamento, deturpamento del territorio, incidentalità, ecc.).
"Le ricette sono condivise da larga parte degli analisti del fenomeno: integrazione modale, infrastrutturazione fisica e tecnologica, individuazione di un nuovo e più sostenibile rapporto tra mobilità privata collettiva e dolce - ha detto -. Ma le ricette devono essere adeguate al malato e ciò è possibile solo al termine di un’analisi attenta delle variabili demografiche economiche e di urbanizzazioni delle diverse aree metropolitane".
Aree ex pubbliche e plusvalore fondiario per la città dei cittadini o per la città della rendita (privata). Ladecisione è aperta, ed è affidata alla politica: quella buona o quella cattiva?Corriere della sera, ed. Milano. 30 ottobre 2013
Entro Natale accordo sugli scali ferroviari dismessi, oppurequel milione e 200 mila metri quadri di terreno tornerà ad avere il valore di«zero euro», come detta il Pgt. La trattativa tra Comune, Regione e Ferroviedello Stato è a una svolta. Rimane solo un nodo da sciogliere - cioè doveinvestire i 50 milioni di plusvalenze (la prima tranche), derivanti dallavalorizzazione e vendita delle aree che l'accordo di programma rende per dueterzi edificabili -, e una data, il 31 dicembre come termine ultimo che ilComune s'è dato per chiudere la partita.
Che fa il Mercato (la divinità che, secondo i suoi sacerdoti, ha come fine il raggiungimento dell’interesse collettivo) quando vuole aumentare il prezzo di una bene? Ne distrugge una parte. E’ il capitalismo, baby. La Repubblica, “Economia e finanze”, 23 ottobre 2013
Non riusciamo a vendere le case? Non ci sono problemi: abbattiamole. Svolta a Madrid per cercare di far ripartire il mercato immobiliare: stanziati 103 milioni di euro per iniziare la demolizione di parte delle 800mila case vuote nel paese. L'obiettivo? Risparmiare sulle spese di gestione e far risalire il valore degli altri edifici in vendita per rilanciare l'economia
La Spagna, travolta cinque anni fa dalla Burbuja del ladrillo (la bolla del mattone) e sommersa da uno stock di 800mila case invendute, ha scelto la linea dura: il Sareb, la banca pubblica che ha ereditato il patrimonio immobiliare dalle banche per salvare gli istituti di credito, ha stanziato in bilancio una cifra di 103 milioni di euro per procedere alla demolizione di un pezzo del suo tesoretto edilizio.
La recente ripresa economica non è ancora riuscita a rilanciare il mercato: nel secondo trimestre di quest'anno sono stati venduti solo 80mila appartamenti circa - ha certificato il ministero del Commercio - il 2,3% in meno dell'anno prima e lontanissimi dai 250mila circa che venivano acquistati nello stesso arco di tempo negli anni d'oro. E allora, dopo aver fatto fare i calcoli ai suoi economisti, il Sareb ha rotto gli indugi: meglio radere al suolo le proprietà che ancora non sono state terminate. Non solo perchè non ci sono i soldi per finire i lavori, ma soprattutto per evitare le spese di gestione e per provare a dare un piccolo elettrochoc al mercato, visto che i prezzi - malgrado un crollo del 40% dal 2008 - stanno continuando a calare mettendo a rischio gli stessi conti del Sareb.
La decisione, come ovvio, ha scatenato polemiche a Madrid. La Plataforma de Afectados por la Hipoteca, l'associazione che rappresenta le migliaia di famiglie sfrattate nel paese, ha attaccato il "Banco malo", come lo chiamano in Spagna, chiedendo piuttosto di assegnare gli appartamenti a chi è in difficoltà e non ha un tetto sulla testa. E il Sareb ha tenuto a precisare che il progetto di demolizione partirà in modo graduale e riguarderà solo edifici fantasma allo stato del tutto inutilizzabili. Nello stesso tempo però ha provato a spiegare le ragioni della sua scelta: in Irlanda, altro Paese alle prese con una pesante crisi del mattone che ha lasciato 300mila case vuote, il governo ha già provveduto a radere al suolo diversi complessi arrivando così a generare in modo artificioso un timido rialzo dei prezzi.
La mossa della cassaforte immobiliare iberica (che ha tempo 18 anni per liquidare i suoi assett) ha in realtà un obiettivo preciso: ridare un po' di fiato alle banche del Paese, che malgrado i 40 miliardi di aiuti internazionali faticano ancora a far quadrare i loro conti. La ripresa del Pil non si è ancora tradotta in un miglioramento delle condizioni di vita nella quotidianità. E il numero di persone che faticano a far tornare i conti di casa è in costante aumento: i prestiti in sofferenza del settore creditizio, per dire, sono arrivati alla stratosferica quota dell'11,8%, pari a circa 180 miliardi di euro. E in vista delle nuove regole patrimoniali per le banche una piccola ripresa dei prezzi di mercato potrebbe aiutarle a rispettare i paletti della Bce. Si vedrà. Ruspe e gru sono in agguato. Questa volta non per far ripartire la bolla del ladrillo. Ma per cancellarne il ricordo.
Il manifesto, 30 ottobre 2013
«Le Logge», come le chiamano familiarmente a Gubbio, fonte di discordia lo sono state fin dalla loro costruzione, avvenuta all'inizio del XVII secolo, dopo innumerevoli controversie, sopra il lungo edificio, eretto nel 1326, provvisto di porticato e delimitato dalla chiesa di Santa Maria dei Laici, in origine adibito a ospedale. Un affresco con la Madonna tra i SS. Pietro e Paolo datato 1473 e dovuto a un allievo del Nelli ancora oggi ne impreziosisce la facciata. Già dalla metà del secolo XV l'Arte della Lana mirava a costruire, sopra l'ospedale, un locale coperto per «tirare» i panni (cioè per asciugare la stoffa una volta tinta, tesa in modo da farle assumere una lunghezza e una larghezza determinata).
Le Logge, secondo quello splendido principio espresso da Goethe secondo cui «l'architettura degli antichi è una seconda natura», si sono bene integrate nel contesto della città, proprio grazie a quel loro essere aperte, come un tempio greco, dove l'aria e la luce giocano con le prospettive che si intravedono fra le colonne. Da un'angolazione si vede il Palazzo dei Consoli, Piazza Grande, dall'altra la chiesa di S. Giovanni, la prima, antica Cattedrale della città. Un abile gioco di prospettive che ha permesso ai commercianti dell'epoca di intervenire per i propri interessi utilizzando uno spazio pubblico in modo così accorto e poco invadente da far credere che quel livello superiore del loggiato sia da sempre esistito, senza urti né interferenze.
Ma ecco che i proprietari, venuti tragicamente in possesso di un bene monumentale che doveva restare pubblico, cercano di ristrutturare, «rifunzionalizzare», come dicono loro, qualcosa che percepiscono come «vuoto architettonico», senza pensare che altrettanto «vuote» potrebbero essere definite le arcate del Colosseo, dei teatri greci e romani, dei loggiati di Siena e Firenze, e di tutti quelli che abbelliscono le piazze dell'Italia settentrionale e centrale. Arena di Verona, Valle dei Templi... perché non coprirli tutti con meravigliose soluzioni innovative, magari firmate da architetti compiacenti?
Le leve che vengono utilizzate per scardinare le resistenze sono quelle consuete, della filantropia e dell'innovazione capace di portare lavoro in tempo di crisi: le Logge di piazza 40 Martiri saranno trasformate in sala convegni, saranno sede di mostre che andranno a benificio di tutta la città, ospiteranno esposizioni internazionali che permetteranno a Gubbio di uscire dal suo provincialismo e alle Logge di assurgere alle vette della «Piramide» del Louvre. Mutatis mutandis, l'architetto Carlo Salucci, a cui è stato dato l'incarico, si sente un piccolo Ieoh Ming Pei, visto che anche lui deve «coprire» lavorando con vetro e acciaio. Ed è proprio su questo punto che si è scatenata la ribellione: si può accettare che la vocazione «naturale» delle logge dei Tiratori di Lana sia quella di essere un centro Congressi, o che si punti sulla fruizione di un bene finora inutilizzato «anche da parte del pubblico», per quanto la proprietà privata resti con tutte le conseguenze, ma che le Logge si debbano chiudere con vetri e acciaio, proprio no. E su questo si stanno scatenando le polemiche che già alla presentazione del progetto, nella sala conferenze dell'Unicredit, hanno fatto sollevare una parte della cittadinanza, che non ci sta a farsi imbonire, contro i grandi prestigiatori che velatamente ricattano con il più apprezzato di tutti i ricatti, quello del lavoro, mentre decantano lo sviluppo (sostenibile o insostenibile per loro nulla importa) turistico, le promettenti ricadute sulla città, le irripetibili iniziative che si potrebbero svolgere in un terrazzo meraviglioso, finora abbandonato alle intemperie e ai piccioni.
Invece: parquet al pavimento, ascensore e passerella che colleghi la struttura alla piazza. 5 metri x 3,20 la misura di ciascun vetro, "ad alta trasparenza, autopulente e antisfondamento" pubblicizzato con il linguaggio tipico del piazzista. Ma dare «la colpa» alla proprietà in fondo non serve. La responsabilità vera, in tutta questa amarissima vicenda, è della Soprintendenza, che in soli due giorni ha dato il via libera al progetto, quando, come tutti gli eugubini sanno bene, non esiste in città, e a ragione, la possibilità di aprire nemmeno un miserevole lucernaio o di spostare una singola pietra da parte dei privati. Inesplicabile anche il parere favorevole della commissaria prefettizia Maria Luisa D'Alessandro, intervenuta alla guida della città dopo il suicidio del Consiglio Comunale, che si è detta felice del raggiungimento dell'equilibrio di bilancio, grazie alle entrate che il Comune percepirà in seguito a un intervento di tale portata.
«Il progetto è ritenuto valorizzante e non impattante per la città» ha concluso la commissaria, alla quale più di un soggetto politico aveva rivolto la preghiera di demandare una decisione tanto importante agli organi amministrativi una volta eletti.
la Nuova Sardegna, 27 ottobre 2013
Pps, Cappellacci lancia la sfida al ministero.
il nuovo piano paesaggistico
di Alfredo Franchini
Dopo due conferenze stampa consecutive, la prima a Sassari e l’altra, ieri, a Cagliari, il Ppr rinnovato continua a restare un mistero. I giornalisti convenuti ieri a Villa Devoto sono rimasti delusi: per l’occasione era stato montato un maxi schermo che, però, è servito solo per vedere la pagina Facebook dedicata al «Piano paesaggistico dei sardi». La scelta di andare su Facebook, precisa Cappellacci, è dettata dalla necessità di operare nella massima trasparenza: «Ci saranno tutti i documenti», assicura Cappellacci e tutti potranno sapere cosa è vincolato». Per ora, nel merito, si sa ben poco e si dovrà attendere sino a domani per leggere la delibera: la giunta - ha spiegato Cappellacci - ha approvato un paio di emendamenti e dunque serve il tempo tecnico necessario per la riscrittura. Chi andrà oggi sulla pagina Facebook dedicata al Pps, (non più Ppr ma Piano paesaggistico Sardegna), troverà un video con lo stesso presidente che cammina nel verde, zainetto in spalla, e quando si ferma dice: «La nostra isola non va difesa dal popolo che la abita, ma è il popolo che la abita che la deve difendere per consegnarla alle generazioni future».
Gianvalerio Sanna (Pd) attacca: «Lo Stato è sovrano»
Sel: «Fermiamoli»
Il presidente della giunta Cappellacci spiega che il Piano paesaggistico andrà avanti, anche in maniera unilaterale perché il parere del ministero dei Beni culturali è «facoltativo» e la Regione ha competenza primaria. Una tesi respinta dai consiglieri dell’opposizione: «C’è un motivo molto semplice», afferma Gian Valerio Sanna, «l’articolo 9 della Costituzione assegna allo Stato la competenza. È una norma blindata». Sul piano paesistico regionale si sovrappongono competenze differenti: la Regione ha sicuramente competenza primaria in campo urbanistico, (l’esempio sono i piani comunali) ma non ce l’ha in materia paesaggistica, da qui l’intervento immediato del ministero con l’intento di fermare l’annuncio e il lavoro fatto dalla giunta sarda. E, a questo proposito, c’è un precedente che può fare chiarezza: l’annullamento dei tredici Ptp proprio perché lo strumento dei piani territoriali varato in Sardegna non era stato concordato a livello ministeriale. La rivista scientifica Gazzetta ambiente ha esaminato, peraltro prima che la giunta Cappellacci annunciasse le modifiche, il Ppr dell’isola e ha individuato proprio nella collaborazione tra Stato- direzione regionale del Ministero per l’ambiente e le Soprintendenze la chiave di una pianificazione sostenibile del paesaggio sardo. Sinora le risposte messe in campo con gli strumenti approvati dal Consiglio regionale (su tutti il Piano casa, giunto alla terza versione), non hanno dato risposte al sistema economico: Maurizio De Pascale, presidente dei costruttori di Confindustria, sollecita, senza mezzi termini l’approvazione di una vera e propria legge urbanistica. Ma piccole imprese e aziende artigiane guardano con favore a una legge urbanistica più che al Ppr o al piano casa.
Sel, infatti, ha presentato da qualche settimana un’interpellanza alla Camera redatta con l’apporto di una serie di intellettuali ed esperti del settore, tra i quali l'urbanista Sandro Roggio, e sottoscritta da Manuela Corda, deputata del Movimento Cinquestelle. Alla base dell’interpellanza illustrata da Michele Piras (Sel), e con l’intento dichiarato nel titolo: «Fermate la giunta Cappellacci», una serie di incongruenze e persino la tempistica che era stata accettata dal ministero dei Beni culturali e che, secondo gli interpellanti, era troppo ravvicinata considerato la complessità dell'operazione. «Bastano le riserve dei costruttori e della Confindustria per ridimensionare l’annuncio elettorale di Ugo Cappellacci e del centrodestra », afferma Giuseppe Stocchino di Rifondazione, «siamo di fronte ad una modifica virtuale del Piano paesaggistico regionale, una favola che secondo il presidente della Regione porterebbe addirittura ad un aumento dell'uno per cento del Pil regionale»
Piano paesaggistico, messincena per disfarsi delle regole
di Sandro Roggio
Bisogna riconoscerlo: ce l'hanno messa tutta in questi anni per cancellare il piano paesaggistico di cui la Sardegna si può vantare in Europa– come ha scritto Edoardo Salzano su queste pagine. Siamo arrivati all'atto finale, scortato dalla tenace azione di contraffazione delle vere intenzioni, dalla pavida minimizzazione delle importanti modifiche immaginate, e di cui sapremo quando saranno rese pubbliche.
Ed è davvero singolare che di un atto così importante (come si riconosce nel primo e unico resoconto di stampa sulla delibera) siano mancate informazioni nella fase più recente e decisiva, negate fino a ieri pure ai consiglieri regionali. Mentre nella fase di avvio e fino all'anno scorso ( ricordate le pagine di pubblicità a pagamento sui quotidiani ?) ci hanno assicurato informazione- partecipazione-condivisione. Colpisce l' accelerazione degli ultimi giorni che ha comportato la brusca e irriguardosa interruzione degli incontri tra Regione e Stato chiamato a condividere, secondo il Codice dei beni culturali, il documento di pianificazione. Cappellacci ha scelto il male minore che pensa di volgere a suo vantaggio: meglio il conflitto populista con lo Stato “prevaricatore” che dare conto nel merito del disaccordo del Ministero, su gran parte, pare, del soprannominato Pps, “Piano paesaggistico dei sardi”.
Lo strappo era comunque prevedibile: sulla base di notizie ricorrenti sul dissenso sostanziale degli organi tecnici del Ministero sul disegno della Regione. Pensato per ridurre il livello di tutela del paesaggio sardo, e corrispondente all'idea di Cappellacci di liquidarlo il Ppr – come diceva intrepido nel fulgore della campagna elettorale. Ed espresso in modi spicci nel Pps che incorpora, come sembra, le leggi orribili – piano casa e sul golf – impugnate dallo Stato. Pensando che lo Stato possa fare finta di nulla.
Non sarà facile disfarsi del Ppr del 2006. Uno strumento che corrisponde ad una idea progredita di Sardegna, e che ha resistito ad un numero impressionante di ricorsi curati da avvocati di grido, come se fosse munito di speciali anticorpi. Lo deve avere capito lo squadrone all'opera da oltre quattro anni per anatomizzarlo e rimpiazzarlo sulla spinta di quella insondabile sequela di incontri denominata “Sardegna nuove idee”. Inutile spreco di denaro pubblico per una messinscena supponente che avrebbe dovuto certificare la smania del popolo sardo di disfarsi di ogni regola. Come se non bastasse il fallimento del referendum promosso per la sua abrogazione: un fiasco a furor di popolo che per un po' ci ha fatto sorridere e ha messo a tacere lo schieramento trasversale tra le forze politiche anti Ppr, ben più vasto – sob! – di quello che si immagina.
Anche per questo è bene non sottovalutare i rischi del cortocircuito che sembra pianificato con cura. Se il bluff non sarà tempestivamente svelato potrà avere effetti in campagna elettorale, renderà incerta l'attività di pianificazione dei comuni, e nel disorientamento non è escluso che qualche iniziativa possa essere temerariamente approvata. Nello sfondo un contenzioso duraturo, mentre già emerge la faciloneria delle prime reazioni alle critiche. Alla nota della Direzione regionale del Mibac – che denuncia “l'iniziativa unilateralmente assunta dalla Regione Sardegna” – il presidente Cappellacci replica che "sui beni paesaggistici la Regione ha competenza primaria”. Com'è ampiamente noto, non sono mai eludibili le competenze dello Stato in questa materia che neppure la Sardegna può ignorare, soprattutto con riguardo alla pianificazione paesaggistica.
La giunta riunita a Sassari ha dato il via libera al nuovo Piano paesaggistico regionale che dovrebbe sostituire quello dell’ex-governatore Soru, ma subito arrivano lo stop del ministero e le polemiche. Il presidente della Regione Cappellacci annuncia la delibera che avvia l’ok al nuovo Ppr (Piano paesaggistico) e subito gli arriva la doccia fredda del ministero dei Beni e delle attività culturali sull'iter di revisione. In a nota stringata, pubblicata sul sito istituzionale, la direzione regionale Beni culturali e paesaggistici della Sardegna precisa che l'adozione provvisoria del Ppr «trattasi, evidentemente, di una iniziativa unilateralmente assunta dalla Regione Sardegna in quanto sono attualmente ancora in itinere tutte le attività inerenti la copianificazione prevista dal Codice Urbani e così come recepite dagli accordi sottoscritti fra le due Amministrazioni».
L’annuncio di Cappellacci è avvenuto stamattina. A quattro mesi dalle elezioni regionali, il governatore imprime una accelerata e punta ad approvare - ministero permettendo - un nuovo Piano paesaggistico che manderà in soffitta quello varato dalla Giunta di Renato Soru nel 2006. Primo passo oggi con il via libera dell'Esecutivo regionale riunito a Sassari con Cappellacci e tutti gli assessori.
Una «rivoluzione» destinata a inasprire il confronto tra maggioranza e opposizione, con il centrosinistra pronto a fare le barricate. Il Piano, innanzitutto, cambia nome: da Piano paesaggistico regionale diventa Piano paesaggistico dei sardi. Ma al di là della denominazione, viene stravolta gran parte della pianificazione voluta da Soru. Si allentano così i vincoli nella fascia costiera dove sarà possibile intervenire, ristrutturando l'esistente, sulla base di «precise regole». Quanto ai corsi d'acqua, solo fiumi e torrenti di rilievo paesaggistico saranno soggetti a restrizioni. E per i centri storici, massima attenzione a quelli di pregio, più libertà di manovra in tutti gli altri.
Lo schema voluto da Cappellacci recepisce, inoltre, la legge sul golf e quella sui Piani strategici e, come detto, mette paletti sul riconoscimento di «bene paesaggistico». Il Piano così concepito diventa lo strumento di governo delle trasformazioni, mentre i tempi di redazione dei Piani urbanistici comunali (Puc) vengono «notevolmente ridotti» con l'introduzione dell'atto di accordo tra Comuni, Regione e Ministero.
Dal canto loro, anche le associazioni ambientaliste hanno bocciato il nuovo Ppr «Ai tentativi di travolgimento della disciplina di tutela complicheremo la vita in ogni modo, con ogni appiglio legale, con ogni attività di sensibilizzazione. Se alcune anticipazioni giornalistiche fossero confermate, infatti, ci ritroveremo davanti a palesi illegittimità». Così il Gruppo di intervento giuridico, Amici della terra e Lega per l'abolizione della caccia bocciano le prime notizie sui contenuti della revisione del Piano paesaggistico regionale approvato oggi dalla Giunta. E lanciano un appello per la sottoscrizione di una petizione on line al ministro dei Beni e attività culturali, allo stesso governatore e alla presidente del Consiglio regionale.
Salzano: «È una svendita del paesaggio sardo». Mario Bruno: «Obbrobrio giuridico»
di Mauro Lissia
Edoardo Salzano, urbanista pianificatore di fama internazionale, non le manda a dire. Lui, il padre nobile del Ppr del 2004, è indignato per il nuovo assalto al paesaggio che la Regione promette: «La giunta Cappellacci aveva già rivelato la sua volontà di rimuovere tutti i vincoli che si propongono di tutelare le bellezze del patrimonio universale costituito dal paesaggio della Sardegna, che non è solo dei sardi, come quello di Venezia non è solo dei veneziani - sostiene in una nota - le varie edizioni del piano casa e la legge per il golf, approvate in aperta violazione della leggi vigenti, lo smantellamento dell'ufficio del piano, i proclami pubblicati sulla stampa locale a spese dei contribuenti, tutto ciò aveva testimoniato la pervicace volontà di Cappellacci e dei suoi complici di svendere ai cementificatori il patrimonio comune delle bellezze dell'isola. La dissociazione dell'ufficio regionale del Mibac dal piano di Cappellacci - è scritto ancora - ribadisce la sua illegittimità. La speranza è che il governo (ministro Bray, dove sei?) intervenga per bloccare subito gli effetti immediati delle perverse "norme di salvaguardia" già operative». E a Roma qualcosa si è già mossa. A parte la nota quasi irridente diffusa ieri dai Beni culturali, il contenuto del carteggio Regione–Mibac dei mesi scorsi conferma come non esista alcun accordo reale fra la Regione e Roma: c’è un’intesa su alcuni aspetti delle cartografie ma l’idea di inserire piano casa e legge sul golf, così come di indebolire le tutele, è stata rispedita al mittente. Il Ppr di Renato Soru e di Salzano rappresenta un caposaldo a livello nazionale, dal Mibac fanno capire chiaramente che il Pps di Cappellacci è destinato a finire in un vicolo cieco. Durissimo anche Mario Bruno, vicepresidente del consiglio regionale del Pd: «Il nuovo Ppr- Pps di Cappellacci è solo un piano di marketing - ha detto Bruno - anzi il piano di presa in giro dei sardi, che non avrà alcun effetto». Bruno giudica il Pps un «obbrobrio giuridico e i comuni, in nome dei quali si sarebbe intervenuti per fare chiarezza, in realtà saranno sempre più disorientati».
Soru: «Un piano di mistificazione mediatica»
intervista di di Pier Giorgio Pinna
Renato Soru, lei è stato il padre della legge salvacoste: come giudica l’annuncio sulla revisione del Piano paesaggistico regionale? «Non è una cosa seria. Mi appare come una sparata. Una mistificazione nei confronti dei sardi. A ogni modo, si tratta di un’iniziativa totalmente fuori dalle regole della co-pianificazione con il ministero dei Beni culturali». Per quale ragione? «Questo è un atto che non vale la carta su cui è scritto. Non avrà alcun riscontro pratico né la minima conseguenza effettiva: mancano i tempi e il consenso da parte del ministero». E allora perché l’approvazione di questa delibera? «Cappellacci è in campagna elettorale. Il suo è uno studiato piano di mistificazione mediatica. Con queste uscite a effetto cerca solamente di coprire il disastro delle sue politiche». A che cosa si riferisce? «Ad altri progetti altrettanto fallimentari sbandierati negli ultimi mesi. Dalla flotta sarda, inquietante sin da un nome che - non si sa perché - richiama spiegamenti militari, alla zona franca integrale e alla nuova continuità territoriale. Tutti piani già caduti o che cadranno presto perché di fatto non varabili. Nel frattempo le linee aeree a nostra disposizione si dimezzano. E così per viaggiare incontriamo sempre più disagi e difficoltà. Ai sardi sui voli vengono garantiti sconti ridicoli e chi non risiede nell’isola ottiene i benefici maggiori. Per ogni dieci euro concessi a noi, agli altri ne vengono dati cento». Perché ritiene che nessuna di queste idee sia attuabile? «Prendiamo il caso della zona franca integrale. Cappellacci si esibisce in piazzate con il parlamentare del Pd Francesco Sanna, pur sapendo bene che nella sostanza un piano come quello che ha pensato per una regione vasta come la Sardegna produrrà più danni sotto il profilo fiscale di quelli che potrebbero essere gli inesistenti vantaggi tributari. E tutto questo sempre che in sede europea qualcuno sia davvero disponibile ad avallare progetti del genere». Che cosa pensa comunque dell’idea di cambiare così radicalmente la normativa regionale a tutela delle coste e più in generale il piano paesaggistico regionale? «La normativa approvata durante il periodo nel quale sono stato presidente della Regione è stata una grande conquista. Nella sostanza non riesco a capire dove sia il problema e perché oggi si cerchi di cambiarla: con trecentomila case estive che anche quest’anno sono rimaste chiuse, in realtà, nessuno ha più un reale interesse a cementificare». Eppure, continuano ad arrivare molte spinte in questa direzione da parte del settore edile. «Io sostengo che iniziative del genere non portano ricchezza. Quel che conta, a ogni modo, è non consumare più il territorio». Come andrà finire, in questo caso specifico? «Lo ripeto: sono sicuro che la delibera presentata nelle ultime ore non avrà alcun seguito. Sembra quasi che Cappellacci ci voglia prendere in giro. Ecco perché non sono preoccupato: questo non è un atto di programmazione, non produce effetti se non viene approvato dal governo. È solo l’inganno di un demagogo da repubblica delle banane»
Corriere della Sera Lombardia, 25 ottobre 2013, postilla (f.b.)
Gentile Signor Ministro Orlando,
dopo alcuni anni di silenzio, riappare tra i progetti delle cosiddette infrastrutture strategiche il raccordo tra le autostrade A21 e A26, noto come Autostrada Broni-Mortara, in provincia di Pavia. Un’opera progettata circa un decennio fa, che già allora suscitava forti dubbi e contrarietà e che oggi diventa quasi paradossale, in un momento di crisi sia dal punto di vista economico sia da quello ambientale.
Il tracciato previsto riguarda un’area della Lomellina, zona famosa per il suo territorio agricolo tra i migliori al mondo per fertilità e per l’integra bellezza del suo paesaggio. In questo contesto prezioso si vuole inserire un’opera autostradale lunga 52 km, larga oltre 45 metri e, per più di 40 km, alta 4,5 metri sopra il piano campagna. L’infrastruttura diventerebbe un vero e proprio muro che per decine di chilometri modificherebbe la prospettiva visuale del paesaggio agricolo, interrompendo inoltre — con un danno irrimediabile — il reticolo di canali e rogge che lo caratterizzano da secoli e distruggendo i preziosissimi fontanili, patrimonio naturale e storico.
Sappiamo che questa infrastruttura è stata fortemente voluta dalla Regione Lombardia, nel quadro di una logica di sviluppo vecchia, che riteniamo superata. Ci rivolgiamo a Lei, signor Ministro, perché si è appena aperta la procedura di integrazioni sulla valutazione di compatibilità ambientale (Via) nella piena fiducia che, attraverso questo strumento, sia possibile rigettare il progetto. I volumi di traffico attuali e previsti sono infatti largamente insufficienti per giustificare l’infrastruttura, a meno che non si vogliano imporre pedaggi intollerabili per il traffico locale.
Inoltre, per questo territorio, è sempre più necessario ed urgente l’investimento nella ferrovia, come dimostra la crescente domanda di mobilità soprattutto verso Milano e per i collegamenti interni. Ci troviamo in una zona dove semmai la priorità di intervento è la manutenzione delle strutture viarie esistenti, che versano in condizioni pessime, ponti sul Po inclusi. Inoltre, anche se la «Broni-Mortara» fosse una nuova alternativa per collegare la bassa Pianura Padana con il Nord-Ovest del Paese, senza dover passare da Milano, bisogna considerare che già l’A21 oggi collega adeguatamente questi due poli. Mentre, sempre con riferimento ai collegamenti est-ovest, recenti grandi investimenti nella tratta Milano-Torino per l’ampliamento dell’autostrada e all’Alta Velocità ferroviaria hanno molto rinforzato le connessioni tra i due grandi centri urbani.
Le scriviamo dunque, signor Ministro, preoccupati dall’impatto di quest’opera, ma anche spronati dalle Sue recenti dichiarazioni sulla necessità di tutelare il suolo agricolo e, più in generale, sulla necessità di misure urgenti per la riduzione del consumo del suolo. Quest’opera produrrà infatti un impatto rilevante in termini di consumo di suolo: 839 ettari sottratti alla conduzione agricola, ben 602 le aziende agricole coinvolte, 218 di queste attraversate direttamente dall’infrastruttura. Gli scavi e le discariche necessari al cantiere consumerebbero ulteriore suolo, senza contare le cave da cui estrarre 11 milioni di metri cubi di sabbia e ghiaia e l’eventuale indotto — per nostra esperienza inevitabile! — che porterebbe capannoni e zone industriali lungo il tracciato.
Anche l’impatto ecologico ci preoccupa: il progetto infatti interferisce in modo irreversibile sulla rete ecologica individuata dal Parco del Ticino, dalla Regione Lombardia e dalla Provincia di Pavia, andando a pregiudicare la continuità del corridoio ecologico della valle del Ticino, patrimonio mondiale dell’Unesco, così come le riserve naturali limitrofe. Le infrastrutture di cui abbiamo realmente bisogno e che porterebbero a una misurata ma stabile crescita sono quelle di riassetto del territorio e di valorizzazione dell’enorme patrimonio storico, agricolo, culturale, ambientale di cui l’Italia, malgrado tutto, ancora dispone. Non certamente di opere come la «Broni-Mortara». Ci appelliamo dunque a lei, signor Ministro, insieme a molti esponenti del territorio pavese e lombardo, affinché il suo Ministero, con tutti gli strumenti a sua disposizione, respinga definitivamente questo progetto, inutile e dannoso sotto tutti i punti di vista.
postilla
Coerentemente con la propria cultura e il proprio mandato, i due ambientalisti si soffermano su alcuni aspetti dell'impatto diretto di questa surreale infrastruttura, e forse è indispensabile richiamarne anche altri, che si chiamano in gergo “sprawl programmato”. Come ho provato puntualmente anni fa a sottolineare esaminando il progetto e il contesto in cui si colloca esiste infatti qualcosa che va molto oltre gli impatti ambientali dell'opera, ed è la sua intenzione dichiarata di grimaldello per indurre urbanizzazione dispersa, il cosiddetto sviluppo del territorio locale fatto di lottizzazioni industriali aggrappate agli svincoli, schiere di villette sparse qui e là, tutto quanto ben conosciamo insomma, e che alimenta certi appetiti. Questa dispersione insediativa indotta, in più, andrebbe a sabotare anche l'equilibrio millenario di terra e acqua costituito dal sistema delle risaie, per cui quel territorio è famoso. Il tutto per trasportare fisicamente il modello già consolidato nella fascia pedemontana (Padana Superiore) anche nel cuore verde a cavallo del Po, ancora oggi insediativamente definito dall'antico asse della Postumia romana. Lo stato di fatto di quei territori ho provato a raccontarlo nel saggio pubblicato nella raccolta No Sprawl (a cura di M.C. Gibelli e E. Salzano, Alinea 2005, qui un sommario della lezione da cui trae origine il saggio). Qui una descrizione più puntuale - scaricabile il testo integrale col le mappe - della Autostrada della Lomellina (f.b.)
La città contemporanea e i cittadini che la pensano e la vivono sono succubi della logica automobilistica, : fermiamoci a riflettere su alcuni portati della cultura razionalista novecentesca, e ad alcuni sviluppi perversi della separazione fra ambiti e funzioni diverse. Postilla di e.s.
C'è gente che proprio non vuole capire certe regole del vivere civile: quando è rosso ti fermi, quando c'è il verde passi, ci vuole tanto a ficcarselo in testa? Questo in buona sostanza il tono dominante delle reazioni, ancora assai vive, all'incidente stradale di Milano che ha coinvolto una mamma e due bambini, falciati in centro alla carreggiata in una maledetta sera di pioggia. Lasciamo qui perdere, deliberatamente, tutti i commenti della pancia sociale scatenati sui social network, che si riassumono eufemisticamente in: la poveraccia era un'immigrata da poco, non aveva evidentemente chiari alcuni comportamenti che a noi cittadini metropolitani vengono spontanei.
Quello che si vede nella prospettiva dall'alto che ho provato a inquadrare, è il quartiere che fabbrica massacri così, perché pare costruito apposta per fabbricarli. Ho aggiustato un po' l'inquadratura per mettere in risalto certi elementi: lo svincolo su tre livelli, la bretella autostradale che lo alimenta (l'asse sud-nord che qui vedete in orizzontale), la circonvallazione esterna di Milano nel tratto iniziale in senso orario fra Naviglio Pavese e Naviglio Grande, che dallo svincolo puntando in alto verso sinistra è denominata via Famagosta. Toponimi a parte, come credo capiscano in molti, potemmo essere in una città qualsiasi, perché in qualsiasi città sull'arco dell'ultimi secolo urbanisti e amministratori hanno perseguito in varia misura e forme specifiche quel modello di sviluppo.
postilla
Osservazioni giuste. Il fatto è che la città che conosciamo non è quella dei modelli proposti dagli urbanisti, ma quella costruita da tre attori fondamentali: la cattiva amministrazione, gli architetti vanitosi e la rendita fondiaria. Basterebbe confrontare tra loro alcune immagini per comprendere che la colpa non è degli urbanisti che hanno introdotto la razionalità e il funzionalismo nei modelli di città proposti a chi doveva costruirla, ma di quei tre attori. Suggerisco alcuni confronti illuminanti. La Barcellona disegnata da Ildefonso Cerda (i grandi isolati di 100 metri per lato, edificati solo sui lati e sistemati a verde all'interno) e quella di oggi (i quadrati quasi interamente riempiti da edifici). Oppure i disegni in cui Le Corbusier illustra la sua Ville Radieuse (pochi grandi edifici disseminati un un'ampia regione urbana dominata dal verde) e la rappresentazione del pezzo di Milano illustrata da Bottini. E basterebbe visitare, forse ancora oggi, i grandi quartieri di edilizia popolare progettati da Bruno Taut e realizzati dalle amministrazioni socialdemocratiche delle città tedesche prima del Nazismo, per rendersi conto che, accanto alla visione di città e al suo progetto, occorre anche una buona struttura tecnica, una buona politica e architetti che ricordino che prima dell'oggetto che loro disegneranno viene la città. Dimenticare il legame tra razionalità del disegno, subordinazione della proprietà immobiliare agli interessi comuni, e qualità dell'amministrazione pubblica, conduce alla città devastata che provoca il disagio dei suoi abitanti, soprattutto dei gruppi più deboli. Sembra che anche molti urbanisti lo abbiano dimenticato, a partire dall'Inu; la politica, e gran parte dell'intellettualità, sembra che non l'abbiano nemmeno mai saputo (e.s.)
Proprio nel momento in cui i movimenti sociali italiani per la casa incontrano un ministro da sempre sostenitore del ruolo dominante dei privati, una rassegna di problemi dalle esperienze in corso a Londra: recinti nei recinti per dividere chi ha da chi non ha. The Guardian, 22 ottobre 2013 (f.b.)
Titolo originale: Unsocial housing? Gates within gates divide the 'haves' and 'have-nots' – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Le inserzioni pubblicitarie dello High Point Village, intervento di 600 alloggi a Hayes, fascia esterna occidentale londinese, parlano di “moderno accostamento di case economiche e di lusso, perfettamente progettate e attrezzate, che offre un'oasi di tranquillità nel nostro mondo frenetico e programmato, per garantire agli abitanti un ambiente davvero di comunità, del tipo che manca nella metropoli anonima”. Ecco, non è esattamente quello che hanno scoperto gli inquilini della parte “economica” del quartiere. Chi abita le case pubbliche o di edilizia convenzionata, afferma di essere considerato un cittadino di serie B, come nel caso delle cancellate interne che li dividono dai vicini della parte “lusso”. C'è addirittura una divisione nel parcheggio per le auto, fra quelle della zona economica e le altre.
Audrey Verma, abitante in un o dei complessi economici, spiega come High Point Village sia “una specie di gated community dentro cui esistono altri cancelli per separare gli abitanti delle case pubbliche da quelli delle private”. Ci sono addirittura delle carte dove le aree più di lusso sono divisa da specifici nomi, mentre i due isolati delle case economiche restano anonimi. Il massimo della tensione si è raggiunto in agosto, quando si è rotta una condotta d'acqua che ha lasciato a secco la parte economica per quasi due giorni. Alcuni abitati hanno scoperto un rubinetto d'emergenza destinato alla sezione privata, ma hanno appreso contemporaneamente che non era possibile usarlo ad alimentare le loro case. Per trovarsi costretti a riempire bottiglie ad una fontanella decorativa all'ingresso della zona lusso.
“Molti si sono trattenuti dal parlare in passato temendo effetti sulle valutazioni immobiliari, ma quanto successo con l'impianto dell'acqua va oltre ogni limite” continua Verma. “Non si può neppure usare un rubinetto con la canna. Le cancellate sono da sempre un problema, a dividere chi ha da chi non ha, ma non poter neppure usare provvisoriamente l'acqua con un tubo è troppo”. Situazione addirittura peggiorata dopo che qualcuno è stato sospeso da una pagina Facebook dedicata agli abitanti di High Point Village, per aver sollevato la questione.
Gli interventi residenziali misti, una scelta molto sollecitata dai governi laburisti, non sono nuovi a polemiche. Si accusano i costruttori di usare tattiche di divisione sociale, ad esempio inserendo per la parte non di lusso esclusivamente tagli piccoli, monolocali. Il parlamentare eletto nella circoscrizione di Hayes e Harlington, il laburista John McDonnell, racconta che l'idea originale di High Point Village era di quartiere misto con una serie di servizi disponibili a tutti. “Ma nell'attuazione pratica è diventato un classico esempio di realizzazione in cui si isola la parte economica e convenzionata in un angolo, separato da recinzioni. Quello del guasto alla condotta d'acqua è solo l'ultimo esempio di un'idea generale tesa solo ad aumentare al massimo il profitto vendendo gli appartamenti a mercato libero”.
Sarah Blandy, professore di diritto all'Università di Sheffield ed esperta di gated communities, spiega come ai costruttori venga spesso imposto, se vogliono ottenere l'autorizzazione a un progetto, di inserire una quota di case economiche o convenzionate. “Quella quota poi viene spesso segregata da quella privata, e vistosamente diversa. Le cancellate poi rendono il tutto più esplicito. La divisione all'interno di una altra divisione, de resto, non è cosa rara, spesso ufficialmente per motivi di sicurezza, a prevenire ingressi sgraditi o fughe troppo facili di malintenzionati”.
I lavori dello High Point Village li ha iniziati nel 2007 il Ballymore Group, già importante protagonista dell'intervento londinese dei Docklands.
La Thames Valley Housing (TVH), responsabile della gestione del complesso, sostiene che “Il guasto alla rete idrica dello High Point Village evidenzia le difficoltà di funzionamento di un progetto misto, ma non abbiamo avuto proteste dagli abitanti. Abbiamo previsto un incontro di responsabili per discutere questo incidente con TVH Ballymore e altri interessati, per far sì che il servizio sia garantito a tutti indistintamente”. Secondo Ballymore occorre prestare grande attenzione “a tutte le componenti di una situazione mista di case economiche e di libero mercato nel medesimo contesto, specie in un contesto come High Point Village con edifici autosufficienti per motivi economici e di gestione”. Si aggiunge, che la sezione case economiche è dotata di giardini recintati e campi da gioco, e che la piscina del complesso è disponibile per tutti gli abitanti.
Adrian Gill, presidente della High Point Village Residents Association, spiega che certo il suo gruppo rappresenta esclusivamente gli abitanti di tre isolati, ma che non si tratta si esclusione sociale: sono le leggi che governano questo tipo di rappresentanza. “Le difficoltà che incontriamo credo siano conseguenza di insediamenti sempre più densi – resi indispensabili dalla forte crescita di popolazione nell'area di Londra – e da politiche delle amministrazioni locali semplicistiche e ingenue. Dobbiamo lavorare a rimuovere gli ostacoli materiali che segregano gli abitanti di fasce di reddito e godimento dell'alloggio diverse, e che oggi ne stigmatizzano socialmente la condizione”.
Il racconto di un segmento importante della storia del Progetto Fori: come si passò dall'intenzione al progetto. Dal sindaco Marino e dalla sua giunta i primi segnali di una ripresa del cammino interrotto dopo la scomparsa del sindaco Luigi Petroselli. La speranza è che su quella strada si cammini con coerenza. Corriere della sera, 23 ottobre 2013
L’area presa in considerazione era assai vasta e comprendeva la riorganizzazione dell’area archeologica centrale, quella che nel suo insieme era già stata presa in questione dagli studi della fine del XIX secolo. L’intervento sul Colosseo e la via dei Fori Imperiali era oggetto di uno studio a parte. Per la sistemazione del parco archeologico centrale furono prese in esame diciassette «aree problematiche» che riguardavano i diversi confini con i tessuti storici pontifici, e con alcune sistemazioni dopo che Roma divenne capitale d’Italia. In particolare sull’asse dell’attuale via del Tempio con le sue possibilità archeologiche (basilica Ulpia, Foro di Traiano e Forum Augusti), la ricostruzione della collina della Velia, al di sotto della quale avrebbe potuto trovar posto il museo archeologico.
È probabile che molte delle ipotesi presentate siano state negli ultimi trent’anni superate da nuove soluzioni archeologiche e da decisioni generali del nuovo piano e del sistema dei trasporti ma è importante collocare, dopo trent’anni, il primo indispensabile passo dell’area della pedonalizzazione della via dei Fori Imperiali compiuto dalla nuova amministrazione comunale di Roma nella logica più ampia della sistemazione del parco archeologico centrale anche rispetto ai più ampi obbiettivi individuati trent’anni orsono e che certamente oggi troveranno nuovi ostacoli. Il lavoro della proposta generale di progetto durò circa due anni e nel 1985 fu pubblicato, a cura di Leonardo Benevolo, un volume (De Luca Editore) che riportava l’insieme dei vari studi e progetti ed un secondo volume ne fissava alcune precisazioni di previsioni progettuali. L’introduzione di Adriano La Regina terminava ricordando come gli obiettivi fossero l’allontanamento del traffico e la conseguente possibilità di ricomposizione dei grandi complessi della zona archeologica centrale di Roma, concludendo che «una siffatta interpretazione viene ora elaborata da questo studio e la Soprintendenza Archeologica di Roma ne propone, dopo ogni necessario approfondimento, l’adozione e la concreta attuazione da parte della città e del Governo». Ma la proposta non ebbe mai esito concreto.
È quindi con grande soddisfazione che, a nome dei progettisti ancora viventi, ho accolto la meritoria iniziativa del nuovo sindaco di Roma, che ha deciso di sperimentare la pedonalizzazione della via dei Fori Imperiali. Ovviamente considero questo un primo importante passo verso il necessario approfondimento delle proposte generali che, con tutti gli aggiornamenti utili, ho cercato di riassumere in questa mia breve descrizione che trent’anni or sono il nostro gruppo ha cercato di mettere in campo. Si tratta ora di mettere in atto il nuovo e complessivo progetto per la sistemazione del grandioso patrimonio di tutta l’area centrale della nostra capitale: un compito difficile ma opportuno.
Riferimenti
Vedi anche il recente articolo di Vezio De Lucia, la sua lezione all'edizione 2009 della Scuola di eddyburg. Numerosi altri documenti sul progetto Fori e sulle proposte per il Parco dell'Appia antiva (due progetti urbani tra loroi strettamente connessi) li trovate digitando le parole Progetto Fori e Appia Antica sul cerca della nuova e della vecchia edizione di eddyburg
Pareva superata, la faccenda delle vittime collettivamente accettate da pagare ahimè al progresso, invece con le reazioni all'incidente di via Famagosta a Milano ci siamo ancora dentro fino al collo, grazie all'invasione concettuale del modello di autostrada urbana, contro lo spazio condiviso
Questo è il genere di intervento che non vorrei scrivere, anzi che non voglio scrivere e infatti mi sono inventato una variante ad hoc, su cui tornerò poi. Non voglio parlare (solo) del motivo per cui accadono gli incidenti stradali, e che continua a sfuggire più o meno al 100% dei commentatori sulla stampa: la durissima carrozzeria di un'auto che in media a 70-90 all'ora pesta sul morbido corpo, più o meno fermo, di un pedone, con risultati tragici e noti a tutti. Dato che questi risultati tragici sono noti a tutti, anche nel recentissimo caso della mamma con due bambini falciata da un coetaneo in uno stradone periferico di Milano, via Famagosta, pare che i commenti evitino di andare al sodo, divagando sulla biografia dei personaggi principali anziché sui presupposti immediati del loro inopinato incontro: uno che arriva a settanta all'ora foderato di lamiera, gli altri nudi e inermi, immobili sulla sua traiettoria. Perché si trovavano in queste condizioni?
Per lo stesso motivo che, di passaggio, notano inconsapevolmente sui giornali anche alcuni commentatori: c'è un'autostrada in città, e le due cose non ci azzeccano l'una con l'altra. Per chiarire meglio il concetto, vorrei usare un'immagine coniata da un gruppo di opposizione locale conservazionista a uno dei tanti sventramenti a cavallo fra XIX e XX secolo, del tipo di solito giustificato da motivazioni igieniche e di efficienza: “il nuovo viale della Stazione è come una freccia puntata al cuore della città”. Naturalmente quegli antichi cultori dell'arte con “cuore della città” intendevano il patrimonio monumentale del centro storico, ma basta riflettere solo qualche istante, col senno di poi, per capire che l'arma di questi tecnocratici ispettori Callahan puntata verso la città minaccia proprio la sua essenza di città. Sventra qui, sventra là, il ventre non c'è più, al suo posto una meravigliosa (almeno per certi elettrotecnici dell'urbanistica) distesa di parcheggi, collegati da stradoni multicorsia, su cui incombono palazzoni a pareti cieche almeno fino al terzo piano. Per andare dall'uno all'altro, nei casi migliori, qualche passerella sospesa, del tipo che già si intravedeva negli schizzi leonardeschi, la faceva da padrone in Metropolis di Fritz Lang (1927), ma ancora certi idioti ci presentano oggi chissà perché come “futuristica”.
Queste immagini di città ad ambienti ermeticamente segregati, le abbiamo mille volte intraviste negli schizzi razionalisti novecenteschi, quando l'idea schematica che a ogni specifica funzione dovesse corrispondere uno specifico spazio andava per la maggiore. Il coronamento del concetto però si deve allo scenografo Norman Bel Geddes, autore del padiglione Futurama alla fiera mondiale di New York 1939 finanziato dalla General Motors, nonché vera e propria eminenza grigia della trasformazione progressiva dell'autostrada da infrastruttura relativamente eccezionale a dogma indiscutibile della vita contemporanea, anche nella sua versione più assurda in ambiente urbano, appunto a trasformare gli ex quartieri in una sorta di castello assediato da forze amiche. E forse è anche il caso di ricordare come l'unità di vicinato, nell'elaborazione originaria congiunta del sociologo Clarence Perry e degli urbanisti di matrice prevalentemente razionalista, aderisca in pieno a questa matrice: il quartiere, con tutte le sue qualità quantità e caratteri, è sempre definito dal margine di una autostrada urbana o assimilata. Non a caso agli schemi viari a cul-de-sac si sommano sempre i percorsi pedonali e ciclabili convergenti verso gli attraversamenti in quota di quel margine stradale, unico sbocco delle Little Big Horn residenziali in cui l'ubiqua cultura modernista-automobilistica vorrebbe ritagliare la città.
Naturalmente le cose non sono andate così lisce per quel modello di sviluppo meccanico e astruso. La maggior parte delle città, specie quelle con una notevole sedimentazione storica, provano se non altro a reagire a quell'arma puntata al proprio cuore identitario, fatto di impasti complessi di spazi e persone, non certo di ingranaggi alimentati a benzina. Ma la spinta a quel genere di trasformazioni è gigantesca, e l'autostrada (o qualcosa che le assomiglia parecchio) diventa sempre più invadente. Nel caso specifico di cui parlano a sproposito le cronache di questi giorni, il perverso sistema si compone di una bretella ad accesso riservato che collega le Tangenziali a una circonvallazione più interna, di uno svincolo piuttosto complesso su vari livelli, della via Famagosta propriamente detta che taglia due quartieri con le sue rigide corsie scandite da cordoli New Jersey, interrotte solo in corrispondenza dei semafori. In buona sostanza, il viale (termine corrente quanto mai improprio per queste arterie) organizzato per corsie centrali veloci e controviali laterali di servizio è il classico pessimo ibrido fra un'autostrada urbana vera e propria, e una via con case, negozi, affacci, insomma la vita, no?
Sempre secondo l'automatica vulgata novecentesca tradotta in regole e codici, l'ambiente automobilistico dedicato autostradale qui dovrebbe essere addomesticato e metabolizzato da alcuni espedienti tecnici: il limite di velocità (i perentori surreali cartelli 50, su un'arteria che arriva sparata da uno svincolo!), i citati controviali e i semafori con strisce di attraversamento, un sottopassaggio pedonale in corrispondenza della fermata della metropolitana. Funziona? Nemmeno per sogno, come hanno scoperto bontà loro i commentatori facendosi un giro da quelle parti, e come sanno benissimo i frequentatori abituali che in buona sostanza ignorano le regole ufficiali. La città, qualunque città, non funziona come il circuito elettrico con cui ci riassumono le fermate della sotterranea, strisce colorate separate da cui si entra ed esce solo in corrispondenza dei pallini scuri. Un noto urbanista internazionale l'ha pure inconsapevolmente usato poco tempo fa, lo slogan Ville Poreuse, a definire questa organicità metropolitana, del resto già stigmatizzata un secolo fa da Patrick Geddes, e per nulla riconducibile alle scatole incomunicanti del modello modernista.
Quello che non funziona, dettagli a parte, è escludere artificiosamente, concettualmente, e poi ragionare e comportarsi come se questa esclusione fosse effettiva. Nei territori extraurbani qualche volta, e con risultati altrettanto tragici, il mondo reale fa il suo ingresso coi famigerati sassi dal cavalcavia. Negli spazi metropolitani densi, invece dei sassi arrivano persone in carne ed ossa, ma il risultato è analogo. Città è condivisione, shared space, spiegatelo al vostro assessore che magari ai convegni parla di mobilità sostenibile, e poi davanti a casi come quello della signora incinta falciata insieme al figlio che teneva per mano, non sa fare altro che togliersi il cappello al funerale, e poi mettere un altro semaforo, o cartello lampeggiante. La forma urbana, assessore, è quella la leva su cui intervenire, al resto ci pensiamo noi coi nostri comportamenti, dettati da un'intelligenza media del tutto paragonabile a quella sua e degli altri amministratori.
Purtroppo il problema non finisce qui, cioè non finisce al limite delle competenze del nostro magari ricettivo assessore alla mobilità sostenibile. Perché nei territori dell'area metropolitana (di tutte le future città metropolitane potenzialmente dotate di assessore alla mobilità metropolitana sostenibile) si nota non da oggi una perniciosa tendenza a fissare un modello stradale esattamente identico a quello descritto sinora, forse anche peggio. Infiniti rettifili chiusi da guard rail zincato doppio, canna di fucile claustrofobica che spara veicoli da un mini-svincolo in area semirurale all'altro. Invece di semafori e strisce pedonali, molto più radi interventi tecnici di attraversamento sopra o sotto le multi-corsie. Come ammettono gli interessati (nel senso di stakeholders vari) la logica di queste arterie stradali metropolitane è perfettamente autostradale, ivi compresa la possibilità non troppo teorica di imporre un pedaggio per l'uso dell'infrastruttura. E, qui concludo, la possibilità di infiniti, desolati e surreali commenti sui giornali, a proposito del tragico destino di quel ragazzo che chissà come per andare a trovare la fidanzata che abita a cento metri in linea d'aria, non trovava logico passare dal comodo sottopasso a cinque chilometri di distanza. Prepariamoci, o magari proviamo a pensare e prevenire: città, coraggio, non farti ammazzare così!
Qui la seconda parte di Futurama, quella dedicata alla città del futuro: vera e propria profezia che si vuole autoavverare, al netto dei morti sulle strade e della qualità abitativa sotto zero
Il cliente ha sempre ragione, e gli utenti privilegiati delle nostre città, ovvero i cittadini stessi, le bocciano senza appello anche in un confronto europeo. Peccato che siano ancora pochi quelle che si attivano per migliorarla. Salvo poche eccezioni "antagoniste", prevale lo sterile mugugno. Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2013
Lavoro che non c'è, trasporti urbani a livelli dell'Europa dell'Est, strade sporche e palazzi decadenti, efficienza amministrativa inesistente da Roma in giù, aria inquinata. Gli italiani sanno forse piangersi addosso meglio di altri, ma il ritratto delle nostre città - tracciato dai loro stessi abitanti nella ricerca sulla percezione della qualità della vita condotta dalla Commissione europea - restituisce l'immagine di un Paese decadente, nel migliore dei casi quasi immobile, quando non in regressione. Condannato a un ruolo sempre più marginale.
Più di 41mila interviste realizzate alla fine del 2012 in 79 città dei 28 Stati membri, più Norvegia, Svizzera, Turchia e Islanda. Quella che, nelle risposte dei cittadini, ottiene il miglior piazzamento tra le sei italiane è Verona, al diciottesimo posto appena dietro Vienna e davanti a Piatra Neamt nella Moldavia rumena. Per trovare un'altra italiana, Bologna, bisogna scendere di oltre trenta posizioni. Poi c'è Torino (64ma) e più in giù Roma (72ma davanti a Istanbul, la ceca Ostrava, Marsiglia e l'ungherese Miskolc), Palermo (77ma) e Napoli (78ma). Peggio fa solo Atene. Se 95 veronesi su 100 sono soddisfatti della qualità della vita nella propria città, a Napoli la percentuale scende al 65 per cento.
Che l'Italia, e in particolare alcune aree e alcune città, si siano mosse a passo di gambero è evidente dai risultati dell'indagine, che si basa esclusivamente sulla percezione degli abitanti. A Roma, per inciso penultima tra le capitali, rispetto al 2006 il peggioramento è stato di 12 punti percentuali. Ancora peggio è andata a Palermo, dove in sei anni le persone soddisfatte della propria città sono diminuite del 15%, il calo peggiore in assoluto insieme a Miskolc. Eppure ci sono città come Istanbul, Londra o La Valletta - in qualche modo confrontabili con Roma e Palermo - che nello stesso periodo sono riuscite a migliorare se non altro la percezione del grado di soddisfazione.
Per trovare la cima della classifica bisogna risalire di una ventina di paralleli, partendo da Palermo per arrivare ad Aalborg, 100mila abitanti a cinque ore di treno da Copenhagen, che da città manifatturiera si sta trasformando in centro a forte vocazione culturale e scientifica grazie alla giovane università.
Un tour nelle prime posizioni nell'elenco delle 79 città europee ci porta da Aalborg a Rostock, da Amburgo a Zurigo, da Oslo a Copenhagen . E poi Groninga in Olanda, Oulu in Finlandia, Reykjavik, Stoccolma… lontano dal fascino del Vesuvio davanti al golfo di Napoli, dalle calde spiagge di Mondello e dal tepore autunnale della Città eterna. Ma solo di clima e di un bel panorama non si vive, come sanno bene le decine di migliaia di giovani che hanno ricominciato a fare rotta verso nord. E non è solo una questione di coordinate geografiche. Malaga, per esempio, guarda dall'alto (e da lontano) tutte le italiane: solo quattro abitanti su cento non sono soddisfatti della qualità della vita nella città andalusa. La sensazione, da sottoporre a verifica, è che non sia più solo una questione di Mezzogiorno. Il timore è che anche al Centro-Nord ci sia il rischio di scivolare verso il sottosviluppo.
Chi ha presentato la ricerca a Bruxelles durante le giornate aperte della Dg Affari regionali e politica urbana, ha cercato di "giustificare" i pessimi risultati delle città italiane con il sentimento generalizzato di rassegnata insoddisfazione che l'intero Paese sta vivendo ormai da qualche tempo. Ma non può consolare che, nelle domande di verifica che indagano più in generale sul livello di soddisfazione per la propria vita, si risalga qualche posizione. Il "recupero" più significativo è quello di Roma, che tuttavia si ferma intorno al 60esimo posto. Al contrario, Verona precipita a metà classifica e a questo non è estraneo il fatto che su uno dei nodi cruciali per la qualità della vita nelle aree urbane, il trasporto pubblico, il 45% dei veronesi sia insoddisfatto: tra i dieci risultati peggiori. Ma non è tutto: ultime in assoluto sono Roma (63% di insoddisfatti), Napoli (75%) e Palermo (78%). Dati, questi, che accomunano le città italiane a quelle dell'Est Europa, sottolinea la Commissione non senza aver prima notato che tra le prime 15 ci siano quattro città francesi e cinque tedesche.
La questione-lavoro emerge quasi con prepotenza dai risultati della ricerca e ancora una volta Palermo e Napoli hanno il primato: solo un cittadino su cento ritiene che a Palermo sia facile trovare lavoro (2% a Napoli). Ma va male anche a Torino dove la percentuale sale al 7%, dieci volte di meno rispetto a Oslo, che sembra il luogo migliore per trovare lavoro. Va un po' meglio a Roma (12%) e a Bologna e Verona (21%), ma ben lontano dalle prime posizioni. Il dramma, però, non è tanto la fotografia del 2012, quanto il fatto che rispetto al 2009 nulla sembra essere cambiato.
È cambiata invece, e in peggio, l'opinione sulla scuola e sulle strutture educative in generale soprattutto a Roma e Palermo, dove ormai la percentuale di coloro che apprezzano il livello di offerta è sotto il 45%, la metà delle prime della classe. Pessima è anche l'opinione sulle condizioni dell'ambiente urbano: Palermo, Roma e Napoli sono tra le ultime cinque, con Atene e Candia (Creta). Tra le poche note positive, il balzo della soddisfazione dei napoletani per la presenza di strutture e servizi culturali rispetto al 2009: 16 punti guadagnati, la performance migliore in assoluto, ma che non è bastata a far risalire Napoli sopra il 70° posto. Anche su questo fronte, c'è tanta strada da fare.
Una nota sulla manifestazione di sabato 19 ottobre scorso, per la casa e il lavoro, il diritto alla città e contro le Grandi opere inutili, nel ricordo di un’altra manifestazione che tentò di cambiare la nostra storia ma fu arrestata dal terrorismo dei “servizi deviati” dello Stato
Sono stati migliaia i corpi che, attraverso un lungo serpentone colorato, sabato 19 ottobre, hanno assediato tre specifici edifici statali che molto a che fare hanno avuto e dovrebbero avere con la “casa”: il Ministero dell’ Economia che dovrebbe pensare alle risorse con cui rendere possibili programmi abitativi; il Ministero delle Infrastrutture che questi programmi dovrebbe progettare e rendere realizzabili; la Cassa Depositi e Prestiti, oggi usata come un bancomat per far tornare il bilancio dello stato ricorrendo alla dismissione di quell’ingente patrimonio pubblico che potrebbe, anche se usato solo in piccola parte, risolvere il problema dell’emergenza abitativa.
I luoghi ministeriali di Roma sono la precisa traduzione in pietra del modello proprio alla costruzione capitalistica dello spazio della città. Tre edifici ben piantati nel’asse “direzionale” di cui, dopo il 1870, il nuovo stato italiano si era voluto dotare aprendo, a partire dal Quirinale, lal via del proprio apparato: il ministero della Guerra, dell’Agricoltura, delle Finanze e, subito dopo la Porta, quelle dei lavori Pubblici. Terreni a ridosso della zona in cui, solo qualche anno più tardi (1883) con la lottizzazione Ludovisi, la rendita immobiliare si esibirà nei primi devastanti esercizi di rendita.
Il corteo, quasi un paradosso per i tanti oggi esclusi dal diritto all’abitare, ha toccato così, nel suo dipanarsi, le case che quei ministeri, atterrando da Torino con l’unità d’Italia, si portarono appresso, circondando i massicci ingombri volumetrici degli uffici con le altrettante massicce volumetrie residenziali. I “casermoni” (con questo termine fu ribattezzata dai romani quella tipologia a loro estranea) possenti, con il cortile interno, dove alloggiare il personale chiamato a dar vita alla macchina amministrativa del nuovo Stato. pUna macchina cresciuta su se stessa che ha barattato, da allora, la propria espansione priva di regole e la conseguente rendita dei proprietari di terreni e edifici da riconvertire, con la rinuncia a quell’ipotesi di delocalizzazione dei ministeri che, “pensata” nella seconda metà del 900, con la realizzazione di un sistema esterno al centro storico (S.D.O.), avrebbe interrotto quella bulimia espansionistica e la conseguente scomparsa, dalla parte antica della città, di un sempre più massiccio numero di abitanti. pLa giornata del 19 ottobre, ma anche quella del giorno prima con la manifestazione del sindacalismo di base, si è mossa a partire dalle sofferenze dell’abitare nella crisi alimentata giorno dopo giorno dal dominio del capitale finanziario. Per questo il corteo radicale, ma certo non violento, capace anzi come si è visto di auto tutelarsi, ha detto chiaramente che le risorse per l’abitare non possono essere sottratte e indirizzate alle banche. Questo chiede il popolo delle occupazioni che a macchia d’olio si stanno espandendo nel paese. Ovunque nascono numeri di una strana urbanistica .
Le oltre diecimila persone che vivono nelle 60 occupazioni romane (abitative e culturali) per esempio, sono in realtà gli abitanti di un quartiere che non c’è, ma che è capace spandendosi nel costruito del corpo della città, di porre una richiesta di partecipazione, che nasce dalle forme precarie di vita in cui si costretti a vivere, per un’idea di città diversa. Non è un caso che la forte presenza al corteo dei migranti (significativo il cartello innalzato da molti di loro: ci dispiace non siamo affogati!) ha significato proprio che occupare non è solo una forma di risarcimento, ma piuttosto una riappropriazione per tendere con una nuova forma di welfare al diritto alla città. Accanto a loro la miriade di reti sociali dove questo già avviene, e i tantissimi lavoratori precari: nei servizi, nel commercio che, con il diritto all’abitare intendono dire no alle politiche di austerità che si intende costruire intorno alla vita di tutti noi.
Martedì prossimo questo movimento incontrerà insieme ai Sindaci delle città dove più forte è l’emergenza abitativa, il ministro Lupi che intanto, ha trovato il modo di mettere in pratica il suo ben noto credo urbanistico consegnando ad un super fondo pubblico un consistente pacchetto di “immobili di stato” per far cassa e ridurre così il debito pubblico. Una devastante risposta che vede i “ragionieri” contabilizzare in sei miliardi di euro entro il 2017 i possibili incassi, ma a non considerare che cosa accadrà nelle nostre città e nei nostri territori pAncora una volta i tre edifici di cui sopra hanno deciso di non parlare tra loro anche se sarebbe sufficiente, data la loro ubicazione, farlo aprendo le finestre . A nessuno di loro è venuto in mente che questi immobili liberati e consegnati al mercato avranno l’effetto devastante di altrettante bombe, minando con gli altrettanti cambi di destinazione d’uso che chi compra vorrà vedersi assicurato, la definitiva possibilità di poter parlar ancora di una città pubblica. E’da questi palazzi consegnati al capitale finanziario che verrà l’assedio alla nostra vita. pLa manifestazione del 19 ottobre ha voluto dare anche questo segnale richiedendo, insieme al blocco degli sfratti, l’interruzione del piano di dismissione di questo patrimonio e della sua riconversione residenziale esprimendo un diritto di cittadinanza che è il diritto alla città. A farla finita con il rincorrere il mito delle grandi opere come hanno gridato i tanti NOTAV presenti, a non cedere la sovranità del nostro territorio agli americani per trasformarlo in casa del loro grande orecchio indagatore, come ha gridato lo spezzone del corteo dei NO.Muos .
I più anziani tra noi sabato pomeriggio si sono commossi. Non certo per i lacrimogeni che non ci sono stati, ma ripensando che proprio una manifestazione come questa, nel 1969 aveva dato vita con primo sciopero generale sulla casa a un movimento capace di togliere dalle città l’infamia delle abitazioni precarie (baracche), aprire una stagione di edilizia popolare, a parlare di abitare prima di parlare di costruire.
Siamo stati capaci, allora, di rompere l’assedio del “blocco edilizio” riusciremo, oggi, a fare altrettanto con quello del blocco “ finanziario immobiliare”.