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il manifesto, 20 novembre 2013


La roulette del territorio fai-da-te
di Sandro Roggio

Cosa è successo in Sardegna? Se lo chiedono in tanti e forse pure i turisti «continentali» che neppure sanno immaginarsele le coste sarde d'inverno. Sull'onda dell'emozione le risposte rischiano di essere precipitose. In realtà, il ripetersi di eventi catastrofici ci obbliga a prendere sul serio le prime reazioni, ormai arricchite da considerazioni già svolte in circostanze simili. Sembra una ripetizione oziosa parlare di malgoverno del territorio, ma tutti sappiamo con quale ostinazione si continua a urbanizzare aree inadatte. E quindi: piove ed è colpa del governo, da battuta popolare diventa espressione di meditata saggezza; non perché piove, certo, ma perché una pioggia straordinaria (spesso è così ) è solo una fra le cause di tragedie come questa.

Il governo del territorio in Sardegna: e viene in mente la confusione nei dibattiti intitolati «Tutela ambientale e sviluppo del territorio». Ma oggi il tema è un altro, la gravità del momento porta un elenco di domande per quando smetterà di piovere. I ponti devono sempre crollare? Le case devono stare nelle depressioni e negli alvei dei fiumi? Le tremila ville nell'agro di Arzachena sono una quantità gestibile? I condoni edilizi compensano la mancanza di case popolari a Olbia?

Insomma sarebbe facile la risposta: tutta colpa degli uomini cattivi che hanno maltrattato il territorio dell'isola. Vero in generale, ma dire che c'è un nesso di causalità diretto tra il disastro di queste ore e le trasformazioni avvenute in questi decenni è almeno precipitoso.

E d'altra parte servirà un po' di tempo per consentire agli studiosi più competenti - penso agli idrogeologi - di guardare caso per caso nel merito delle circostanze puntuali. Ma i dubbi non mancano. L'intensità dei fenomeni è stata notevole, ma è inesatto dire che non era prevedibile. La statistica osserva i fenomeni atmosferici e ne definisce la probabilità che possano ri-accadere. E si considerano i tempi «di ritorno» per intervalli in genere tra i 50 e i 500 anni. Ma il fatto che eventi si ripetano dopo centinaia di anni non mette al sicuro. La roulette spiega che lo zero ha 1/37 possibilità di uscire ma può succedere anche tre volte di seguito. Per cui: chi ha costruito male in un area a rischio può sentirsi al sicuro da eventi «probabili» a distanza di centinaia di anni?

Le precauzioni. Le aree urbane della Sardegna costiera sono cresciute negli ultimi trent'anni con un ritmo tale che i luoghi come li abbiamo visti solo una decina di anni fa sono del tutto irriconoscibili. Rispetto alla crescita tra Otto e Novecento, c'è stata una incredibile accelerazione. I tempi lunghi del processo insediativo consentono di correggere una scelta improvvida: una calamità rimane nella memoria delle comunità. Per cui la selezione dei luoghi adatti alla edificazione è avvenuta grazie al passaparola tra generazioni. Non è così nei tempi brevi. Intanto, nel nostro Paese, l'interesse per il bene comune è scivolato agli ultimi posti nella classifica dei valori. Il buon governo del territorio è una ossessione dei soliti che vaneggiano sul paesaggio invece di calcolare con ottimismo quanti bilocali - abusivi - starebbero su quel versante così tenero che si taglia con un grissino.

Il territorio della Sardegna è prezioso e vulnerabile e chiede una grande cura invece di assecondare il fai-da-te mentre si mandano rassicurazioni ai grandi speculatori. Il governo regionale ha deliberato di recente la variante al Piano paesaggistico. Mi auguro che il presidente Cappellacci vorrà tenere conto dei giudizi preoccupati che provengono da più parti su quell'atto, e che oggi sono ovviamente cresciuti.
Chi pensa alla Sardegna come immune da rischi si sbaglia.

La coscienza assente e il gioco di specchi
di Marcello Madau


Colpisce in queste ore drammatiche lo schizofrenico alternarsi di ordinario e straordinario, di normale ed eccezionale. Gioco di specchi che disorienta e ferisce. La solidarietà è eccezionale perché dovrebbe essere normale, ma ordinariamente non lo è rispetto ai valori ufficiali. I media, assieme ai corpi, alle case, alle terre violate, mettono la bontà - reale - in prima pagina. Sarebbe da prima pagina - normalmente - anche l'eccezionale fatto che a portare solidarietà alle popolazioni sia un governatore ex-presidente della società che ha avvelenato di cianuro il territorio di Furtei. Si invoca l'evento imprevedibile, millenario.

E questo ciclone sardo - perché chiamarlo Cleopatra e non Antonio? - è certamente il segno di un rapporto drammaticamente mutato fra terra, aria e mare nel nostro mediterraneo. Una eloquente risposta ai negazionisti del mutamento climatico globale. Ma è assente la coscienza normale che proprio per ciò bisognerebbe aumentare e non diminuire le tutele, non autorizzare urbanizzazioni dissennate, proteggere gli argini dei fiumi. Non cancellare, come è stato fatto pochi mesi fa, i fondi per gli studi idrogeologici.

Non mi convincono le accuse di assenza ad uno Stato e una Regione che invece sono molto presenti: nel nuovo Piano paesaggistico regionale - Ppr (S) - la tutela delle aree fluviali è indebolita, le cubature ammesse, il regime delle acque terrestri modificato. Anche con quei campi da golf che Ugo Cappellacci ha magnificato a Bosa, dove Condotte ne progetta uno su una delle più belle coste dell'isola.

Delicatissima e fragile la traccia ampia dell'antica Ichnoussa, delle biodiversità e dei ventimila monumenti archeologici. Se la Direzione Regionale del MiBac ha detto no al Ppr (S) di Cappellacci, oggi impressiona l'irrituale appello del Soprintendente Archeologo. Egli chiede in modo encomiabile che si segnali qualsiasi notizia di danneggiamento al patrimonio archeologico: è la coscienza, nella stessa chiamata d'aiuto, di un sistema inadeguato. Il nostro pianeta attraversa una profonda crisi ambientale. La Sardegna vi partecipa con un habitat climatico mediterraneo modificato e un territorio avvelenato da troppi decenni di saccheggio. L'eccezionale ciclone è il tracciante di questa situazione, la metafora di una crisi drammatica. Della necessità di forme nuove basate sull'autogoverno territoriale dei beni comuni, di cultura, tutela, democrazia e identità. Sulla maniera di gestire il territorio si decide il futuro della Sardegna, a partire dalle prossime elezioni regionali.

Considerazioni di un addetto ai lavori sull'imminente riforma degli enti locali, orientate a un moderato ottimismo. Corriere della Sera Milano, 17 novembre 2013, postilla (f.b.)

A 23 anni dalla loro istituzione per legge e a 12 dal loro inserimento nella Costituzione, sembra che adesso le Città metropolitane stiano davvero per nascere cogliendo, salvo pochi addetti ai lavori, un po’ tutti di sorpresa. Carlo Tognoli, intervenendo nei giorni scorsi su questo tema, ha affermato che «se non c’è condivisione e rapidità nelle decisioni … tutto rischia di rimanere com’è adesso».
Come mai, dopo anni di attese e rinvii, oggi è possibile, oltre che urgente, procedere in questa fondamentale opera di riforma istituzionale? Perché con il decreto legge sulla spending review del governo Monti, quello che abolisce le Province, la questione di cosa mettere al loro posto è tornata di stringente attualità. Con una novità, però, che spiega perché sia forse questo il momento buono. Mentre in precedenza le città metropolitane erano calate dall’alto ed erano praticamente fatte «con lo stampino», ossia tutte uguali fra di loro, ora debbono nascere dal basso e possono essere fatte «su misura» dai diretti interessati. Quindi si può procedere. È evidente che si tratta di una sfida importantissima per la politica locale. Dal 1 gennaio 2014 il Sindaco di Milano subentrerà infatti al Presidente della Provincia e verrà chiamato a presiedere la Conferenza dei sindaci cui spetta di scrivere lo Statuto della Città metropolitana, ossia di dire «che cosa» sia, quali obiettivi si proponga e «come» dovrà funzionare per raggiungerli. Un compito da padri costituenti.

A cosa deve servire, infatti, la città metropolitana? Innanzi tutto a «reinventarsi» il ruolo dei Comuni nell’era della contrazione della spesa pubblica, a rinnovare il rapporto tra cittadini e istituzioni, a fornire servizi più efficienti a costi più contenuti , ad estendere ed intensificare quella qualità urbana che è uno dei fattori fondamentali per lo sviluppo dell’economia contemporanea ed infine, ma non per ultimo evidentemente, a ritrovare l’anima profonda della città. Milano non è una megalopoli né vuole diventarlo adesso, trasformandosi in una specie di super Comune. Essa è piuttosto il «cuore» e anche il «cervello» di un arcipelago funzionalmente integrato e densamente popolato, punteggiato di città e comuni che ne costituiscono, per così dire, le «isole». «Isole» dotate di ampia autonomia e di radicati e profondi sentimenti di appartenenza locale. Solo tenendo conto di questi sentimenti Milano può costruire qualcosa di solido e duraturo.

Come diceva Carlo Cattaneo, le città si sono storicamente evolute seguendo due vie: la via etrusca, «federativa e molteplice», «vivaio di città generatrici di città», e la via romana, tendente ad ingigantire un’unica città «che il suo stesso incremento doveva snaturare». Accingendosi ad imboccare una nuova strada, Milano farebbe bene a ricordarsi di questo suo illustre cittadino.

postilla
Anche al netto dalla vaga sensazione che queste considerazioni come spesso accade siano rivolte più che altro a qualche “suocera” che deve intendere, più che a noi “nuore” lettrici, conforta in qualche modo notare come il puro approccio contabile alla riforma degli enti locali e istituzione delle Città Metropolitane non occupi tutto lo spettro del dibattito politico, ma serva prevalentemente come strumento di azione e consenso. Per quali fini possiamo solo supporre, come implicitamente provavano a ipotizzare in vario modo anche gli interventi alla Scuola Estiva di Eddyburg di quest'anno, dedicata all'argomento (f.b.)

Il Fatto Quotidiano, 16 nov. 2013

Giovedì scorso Salvatore Settis ha indirizzato, dalla prima di Repubblica una eloquente lettera in cui ha elencato al cardinale Angelo Scola tutte le ragioni per cui sarebbe grave installare nel Duomo di Milano un ascensore che porti fino a una terrazza-bar da realizzare tra le guglie: un pio ritorno alla Milano da bere che circola almeno da luglio, e che ha trovato un pericoloso sponsor nel ministro Maurizio Lupi. Così conclude Settis: “Dobbiamo forse immaginare che ogni campanile, ogni cattedrale, ogni palazzo pubblico debba essere svilito aggiungendovi ascensori e terrazze-bar e noleggiandolo a ditte private che non vi vedono altro se non un’occasione di profitto? Dobbiamo forse suggellare per sempre, perfino nelle chiese, l’idea che il denaro è l’unico valore corrente? Una sola parola viene in mente per definire l’idea-base che una chiesa debba servire di supporto ad attività di intrattenimento commerciale. Questa parola è: simonia”. Sacrosanto: purtroppo non si tratta solo di immaginazione.

A Napoli l’intervento di Italia Nostra ha evitato che la Curia realizzasse una caffetteria sulla terrazza absidale del Duomo. A Bologna si sono già “celebrati” alcuni aperitivi sui ponteggi del restauro della facciata di San Petronio: “Unici per la qualità dei cibi, l’esclusiva collocazione, i suggestivi tramonti e la piacevole compagnia”. A Siena è stato appena lanciato “Un te all’Opera”: dove l’Opera non è un teatro, ma l’Opera del Duomo, che nella “cripta” della cattedrale organizza mostre a pagamento. Ma come è possibile che qualcuno pensi di sorbire al piano terra il sangue di Cristo della messa, al primo piano un mojito, al piano di sotto un Caravaggio?
Non ci si è arrivati di colpo: è l'ultimo stadio della trasformazione di molte delle più insigni chiese italiane in attrazioni turistiche a pagamento. A Firenze (sempre all’avanguardia nella mercificazione selvaggia del proprio stesso corpo) si paga per entrare in Santa Maria Novella e in Battistero, le tombe dei Medici in San Lorenzo sono fisicamente coperte da un bookshop, e se si vogliono vedere le “urne dei forti” in Santa Croce occorre sborsare 6 euro (per esigere i quali il portico gotico esterno è stato trasformato in un’orrida biglietteria di metallo e vetro). A Siena si entra in Duomo a pagamento , a Pisa si paga per il Camposanto e il Battistero e San Francesco di Arezzo (con gli affreschi di Piero della Francesca) viene ormai definita “museo” ed è stata affidata alla società Munus (presieduta da Alberto Zamorani: sì, quello di Mani Pulite), che stacca i biglietti in un cubo di cristallo che devasta lo spazio sacro. A Milano costa 6 euro vedere il luogo dove sant’Ambrogio battezzò sant’Agostino. A Verona si paga in Duomo, a San Zeno, a Sant’Anastasia e a San Fermo.

A Venezia l’associazione Chorus-Chiese vende un pass per entrare in ben 16 chiese, tra le quali i Frari. A Ravenna ci vuole il biglietto per varcare la soglia di Sant’Apollinare Nuovo, di San Vitale e di molti altri templi. Una selva di balzelli: un’altra barriera che impedisce l’accesso al patrimonio artistico da parte dei cittadini italiani che lo mantengono con le loro tasse. E di fronte a questo dilagare del culto del denaro non è solo uno storico dell’arte laico come Settis a parlare di “simonia”, cioè di mercimonio del sacro.

Qualche mese fa Francesco Moraglia, il patriarca di Venezia succeduto proprio ad Angelo Scola, ha tuonato contro l’accesso a pagamento nelle chiese: “Non di rado succede che la mentalità funzionalistica si trasformi in mentalità imprenditoriale; fronteggiare tale tendenza e soprattutto recuperare il senso del sacro, del mistero e dell’adorazione è essenziale”. In effetti, il contrasto non potrebbe essere più stridente: nel sito dell’Opera del Duomo di Firenze, dopo una fiscalissima serie di precisazioni sulla validità del biglietto (tipo: “Il biglietto va utilizzato entro la mezzanotte del sesto giorno a partire dalla data selezionata al momento dell'acquisto, e ha validità di 24 ore dal passaggio al primo monumento”), si può leggere che “non è possibile accedere con un abbigliamento non confacente al luogo sacro che si intende visitare”. Ed essendo il bel San Giovanni un luogo ormai sacro al mercato, ci si chiede se l’allusione sia alla bombetta e all’ombrello della City.
Per questo il 31 gennaio 2012, la Conferenza episcopale ha diramato una nota in cui si ricorda che “secondo la tradizione italiana, è garantito a tutti l’accesso gratuito alle chiese aperte al culto, perché ne risalti la primaria e costitutiva destinazione alla preghiera liturgica e individuale”. Salvo poi aprire una gesuitica via di fuga: “L’adozione di un biglietto d’ingresso a pagamento è ammissibile soltanto per la visita turistica di parti del complesso (cripta, tesoro, battistero autonomo, campanile, chiostro, singola cappella, ecc.), chiaramente distinte dall’edificio principale della chiesa, che deve rimanere a disposizione per la preghiera”. Prescrizione comunque clamorosamente disattesa in moltissimi casi, da Santa Croce a Firenze ai Frari di Venezia.
Soluzioni? Un certo Giovanni, nel suo Vangelo ne racconta una radicale: “Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: ‘Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato’”. E così sia.

Un’iniziativa da seguire con interesse, e da monitorare con attenzione soprattutto per gli aspetti sociali e a quelli economici: chi ci guadagna e chi chi rimette, oggi e domani? La Repubblica, 15 novembre 2015

SOTTO forma di un condominio formato da quattro edifici di nove piani, per un totale di 123 appartamenti, sorto in soli 18 mesi nel quartiere San Siro di Milano, non lontano dallo stadio. Domani, con l’ingresso degli ultimi inquilini, ci sarà una sorta di cerimonia ufficiale per l’ultimo atto di un progetto in cui pochi credevano quattro anni fa, quando partì l’iter burocratico.

Perché l’obiettivo era ambizioso: dare in affitto a prezzi calmierati abitazioni in edilizia convenzionata abbattendo i costi di edificazione e allo stesso tempo ottenendo un prodotto di qualità in classe energetica A. Un progetto, firmato dallo studio Rossi Prodi di Firenze, molto particolare: una struttura portante in legname sovrapposto (abeti e larici provenienti da foreste sostenibili austriache), ricoperto da uno strato di cartongesso ad elevate prestazioni, tenuta insieme da viti lunghe 40 centimetri. Tanto che nell’ambiente già si scherza definendolo come “il modello Ikea delle costruzioni”. Tutto questo, a canoni di locazione “fuori mercato”: per un bilocale di 75 metri quadrati si paga un affitto di 450 euro al mese. Quando la media per la stessa metratura nel nostro Paese si aggira sui mille euro. Tutto questo garantendo comunque un profitto alla società che ha curato l’operazione.

Il privato che ha realizzato il progetto, la Polaris Real Estate, si è rifatta a realtà che in Europa esistono da almeno vent’anni. E rispondono al nome di “housing sociale”, un settore che fa parte del più vasto mondo dell’economia e della finanza etica e che vuole dare risposte abitative a chi non si potrebbe permettere i prezzi di mercato. In pratica, quasi più nessuno: perché se è vero che i prezzi degli affitti in Italia sono in media con l’Europa, gli stipendi sono molto al di sotto.

Progetti che per avere gambe devono far convivere in modo virtuoso pubblico e privato: le case di San Siro - il progetto social più grande d’Europa - è stato realizzato con un finanziamento del Fondo Immobiliare di Lombardia, promosso da Fondazione Cariplo e Regione, ma i cui sottoscrittori sono banche come Intesa e Bpm, assicurazioni come Generali, la Cassa Italiana geometri e la Cassa Depositi Prestiti.

E poi c’è il ruolo dell’amministrazione. «Il Comune di Milano, che si è anche occupato anche dei bandi per l’assegnazione degli alloggi tramite avvisi pubblici spiega l’amministratore delegato di Polaris Fabio Carlozzo - ha ceduto i terreni in diritto di superficie per 90 anni considerandoli come standard, come se fossero destinati a opere come ospedali o scuole, proprio per la rilevanza sociale del progetto». Questo ha permesso di abbattere una delle componenti di costo dei progetti edilizi. Sempre Carlozzo: «A Milano all’apice della bolla si è arrivati a pagare fino a 700-800 euro al metri quadrato il terreno, a noi è costato 150 euro. Così, alla fine, il costo di costruzione è arrivato a 1.100 euro al metro quadrato contro 1.500».

Come detto, è bastato copiare quanto già accade nel resto d’Europa. Pochi giorni fa, in un convegno sul tema organizzato a Torino, la società di consulenza Scenari Immobiliari ha presentato uno studio che evidenzia lo scarso peso dell'housing sociale: a Roma e Milano incide per il 4 e il 7 per cento sul totale delle locazioni. A Londra raggiunge il 26, a Copenaghen il 20, a Parigi il 17, mentre la media europea è del 15. Ecco perché, potrebbe essere una risposta sia alla crisi dell'immobiliare (prezzi crollati del 30 per cento in 7 anni e compravendite scese del 20 solo nell'ultimo anno e del 50 in un decennio) sia dell’edilizia (i permessi di costruzione nel 2012 sono calati di un altro 22 per cento, ai minimi dal dopoguerra). L’housing sociale diventa così una strada su cui si potrebbero avviare in tanti. Proprio la Cassa Depositi Prestiti, la spa controllata del Tesoro che si occupa di mettere a frutto il risparmio postale degli italiani, ha destinato nell’ultimo bilancio un miliardo di euro per progetti edilizi con locazioni calmierate. E il caso di San Siro a Milano potrebbe fare da modello.

Un Commento di Michela Barzi a questo articolo e alle proposte descritte

Una denuncia e un appello del Comitato "Una spiaggia per tutti" e dell'"Assise Cittadina per Bagnoli"per la salvaguardia di un bene prezioso cui i cittadini di Napoli non sono disposti a rinunciare. Per aderire vedi in calce

Il recupero ad uso pubblico del litorale di Bagnoli corre un serio rischio. Da alcuni mesi autorevoli esponenti della fondazione Idis sostengono pubblicamente di avere raggiunto con il Comune di Napoli un accordo per la riedificazione dei fabbricati di Città della Scienza distrutti dal rogo del 4 marzo scorso; gli edifici verrebbero ricostruiti “com’erano e dov’erano”, a meno di una piccola area marginale che sarebbe trasformata in giardinetto con vista sul mare e graziosamente concessa alla fruizione della cittadinanza, la quale potrebbe accedervi tramite due accessi pedonali attrezzati dalla fondazione. Tale accordo, secondo fonti giornalistiche, dovrebbe essere formalizzato il 19 novembre a Roma durante un incontro tra Idis, Comune e Governo. Il sindaco De Magistris continua ad proclamare di aver raggiunto un “compromesso soddisfacente”, sul quale però non fornisce alcuna delucidazione, ed ha ribadito durante la recente seduta monotematica su Bagnoli del Consiglio Comunale che spetterà a tale organo l’ultima parola in merito. Appare tuttavia strano che su una questione così delicata non ci sia stata una discussione pubblica e che il ruolo del consiglio debba ridursi ad approvare o rigettare, a scatola chiusa, un accordo definito dal Sindaco in altre sedi.

Affermiamo senza mezzi termini che l’approvazione di un tale accordo, indipendentemente dalla sede dove eventualmente dovesse avvenire, costituirebbe un atto gravissimo sia per le sorti dell’ex area industriale di Bagnoli che per le procedure democratiche di governo del territorio.

E’ bene precisare subito che la riqualificazione di Bagnoli è imprescindibilmente legata al recupero del suo lungomare per la pubblica balneazione ossia alla realizzazione di quella grande spiaggia cittadina a cui napoletani anelano da oltre un secolo. A questo fine mirava la legge per il primo finanziamento della bonifica di Bagnoli, la 582/96, stabilendo al comma 14 dell’articolo 1 l’obbligo di ripristinare la morfologia naturale della costa. Nella stessa direzione andava la Variante al PRG per l’area occidentale del 1998, disponendo di demolire e riedificare in altra sede gli edifici siti a valle di via Coroglio, per realizzare un arenile continuo da Nisida a la Pietra. Questo sacrosanto obiettivo, sostanzialmente recepito nel 2005 dal Piano Urbanistico Attuativo per Bagnoli-Coroglio, è stato recentemente ribadito dal Consiglio Comunale di Napoli, che il 25 settembre 2012 ha approvato con larghissima maggioranza (praticamente all’unanimità) una delibera d’iniziativa popolare, sottoscritta da oltre13mila cittadini napoletani, la quale impegna la Giunta ed il Sindaco a compiere una serie di atti per destinare ad uso balneare gratuito il tratto di litorale tra Nisida ed il confine comunale con Pozzuoli.

Purtroppo nessuna amministrazione pubblica ha finora tradotto questi provvedimenti in azioni concrete; tuttora il lungomare di Bagnoli, ancorchè inquinato da sostanze pericolose come quelle sparse sui fondali e negli arenili o nella famigerata colmata a mare, è sottoposto ad un processo di privatizzazione strisciante, imperniata prevalentemente sugli interessi dei concessionari balneari privati e della fondazione Idis. Com’è noto, un accordo di programma ha imposto nel 1997 che il trasferimento dei volumi di Città della Scienza siti a valle di via Coroglio, previsto dalla Variante, avvenisse solo alla data di ammortamento dei finanziamenti pubblici erogati per la loro ristrutturazione. Dopo l’incendio che ha distrutto tali fabbricati, evento sulle cui oscure motivazioni la magistratura tuttora indaga, la fondazione Idis ha promosso una campagna martellante per assicurarsene la ricostruzione in loco, malgrado logica e diritto andassero in un’altra direzione. Il Comune, che sembrava in un primo momento deciso a trasferire la struttura nel rispetto delle norme urbanistiche, si è successivamente attestato su una posizione attendista, se non addirittura conciliante, verso le richieste dell’Idis.

Ben si comprende l’interesse particolare della fondazione Idis a mantenere un affaccio diretto sul mare, benchè esso sia marginalmente o per nulla collegato alle sue attività istituzionali. Molto meno comprensibile è l’esitazione del Comune ad affermare il prevalente interesse generale a recuperare integralmente alla balneazione quel prezioso tratto di costa dove Napoli può ancora sperare di riavere la sua spiaggia. Lo stesso interesse generale che dovrebbe spingerlo a verificare quale bonifica abbia effettuato l’Idis sui suoli dell’ex Montecatini dov’è insediata Città della Scienza, come anche gli effetti ambientali del recente incendio, prima di prendere in considerazione ogni ipotesi di riuso dell’area. Appare poi una beffa che il Governo (all’epoca presieduto da Mario Monti) abbia saputo reperire in poche settimane oltre 20 milioni di euro per la ricostruzione di Città della Scienza, mentre solo un anno prima aveva tagliato senza scrupoli 50 milioni di euro destinati al ben più importante obiettivo della bonifica del mare di Bagnoli.

La poca chiarezza che aleggia sulla questione autorizza i peggiori sospetti, come quello che si stia barattando l’intoccabilità di Città della Scienza e la rinuncia a rimuovere la colmata a mare con l’erogazione di qualche finanziamento per la riqualificazione dell’area di Bagnoli.

E’ quindi necessario affermare senza equivoci che avallare le pretese dell’Idis significherebbe violare tutte le disposizioni precedentemente richiamate, facendo strame delle procedure democratiche e sabotando il fondamentale obiettivo di restituire ai napoletani una spiaggia pubblica balneabile degna di questo nome. La ricostruzione in loco dei fabbricati distrutti autorizzerebbe tutti gli edifici e le funzioni che attualmente insistono sull’area destinata a spiaggia dagli strumenti urbanistici a rimanere dove sono: al posto di un arenile pubblico attrezzato secondo un disegno unitario di qualità, rimarrebbe l’attuale spezzatino di manufatti scadenti ed attività commerciali private. Verrebbe inoltre incoraggiata la volontà dell’Idis di completare il suo originario progetto e realizzare sul pontile dell’ex Montecatini un approdo per le Vie del Mare, con il conseguente traffico di barche ed aliscafi che comprometterebbe definitivamente il ripristino della balneazione in quell’area.

Va invece ribadito che le attività di Città della Scienza allocate nei fabbricati distrutti dall’incendio possono e devono trovare nuova sede in un’area adeguata da individuare a monte di via Coroglio, secondo le previsioni della Variante al PRG per l’area occidentale, essendo tragicamente quanto ineluttabilmente venuta meno ogni esigenza di ammortamento. La risposta adeguata ad un atto criminale come quello che ha colpito gli edifici di Città della Scienza non può consistere certo nell’avvalorare scelte contrarie a quelle norme di governo del territorio che la città si è data da tempo ma nella celere e puntuale individuazione di autori, mandanti e ragioni del gesto da parte della magistratura.

Per questo chiediamo al Sindaco, alla Giunta ed al Consiglio Comunale di impegnarsi formalmente affinché in nessuna sede di confronto istituzionale venga rimessa in discussione la scelta, sancita nelle leggi nazionali e negli strumenti urbanistici comunali, di rimuovere sia la colmata a mare che tutti gli edifici siti a valle di via Coroglio per realizzare un arenile ininterrotto da Nisida a La Pietra, da destinare a spiaggia pubblica cittadina.


Le adesioni possono essere inviate all'indirizzo di "una spiaggia per tutti"

L'autore appartiene ai pochi che non contrastano il consumo di suolo solocon le parole, ma anche con i fatti. Lo ha fatto come sindaco di un piccolo comune alle porte di Milano e lo ha fatto come fondatore dell'associazione Stop al consumo di suolo.

Quante volte, partecipando ad un dibattito sul territorio, su una grande opera, su un piano regolatore, vi è capitato di essere etichettati come dei radicali ambientalisti, degli estremisti, dei sovversivi annidati nei comitati? A me è capitato moltissime volte.

La cosa mi ha sempre dato anche un certo godimento. Aumentava la mia autostima. Essere accusato di essere un sovversivo dai dirigenti del partito del calcestruzzo (sia da quelli di matrice neoliberista che da quelli di matrice progressista) era motivo di grande orgoglio. Cose da raccontare ai nipotini. «Ma smettila di opporti alle autostrade e al Tav! Vuoi farci tornare all'età della pietra? Vuoi muoverti con i cavalli! Estremista e ambientalista del c...!», «Si, adesso siete anche contro l'expo 2015! Ma vergognatevi. Siete dei talebani del verde! Volete farci perdere occasioni di sviluppo, di crescita, di competitività! Irresponsabili», «Ma che problemi vi da questo outlet? Ci sistemano anche tutta la viabilità e ci fanno 7 rotonde. Ah certo! Voi volete andare nei campi a caccia di farfalle, oppure volete tornare a coltivare la terra! Bravo! Oltre ad essere ambientalista sei pure terrone!»(questa me la sono beccata da parte dei dirigenti del partito del cemento della corrente leghista).

Ma poi, con il passare del tempo, questa etichetta ha cominciato a starmi stretta e con mia grande sorpresa mi sono reso conto che in realtà, io e direi anche tutti gli ambientalisti, siamo dei veri ed autentici moderati. Nel senso che siamo impegnati nel moderare il peso dell'uomo sulla terra. Vorremmo mantenere, difendere o ripristinare i delicati equilibri esistenti tra il genere umano, gli altri esseri viventi e la terra. Terra intesa sia come pianeta che come terra che abbiamo sotto i piedi.

Di converso, quelli che ad ogni assemblea pubblica, consiglio comunale o talkshow televisivo, non perdono occasione per sbeffeggiarci, disegnarci su un albero intenti ad abbracciare un panda oppure additarci all'opinione pubblica come i nemici della patria, hanno perduto la natura e lo smalto di moderati. Approvando e finanziando grandi opere, speculazioni edilizie, saccheggi vari del territorio, distruggendo biodiversità e suoli agricoli, con lo scorrere dei cronoprogrammi dei loro cantieri promessi alla lavagna di Porta a Porta, i rispettabili politici e lobbisti in doppiopetto hanno subito una metamorfosi che li ha trasformati in veri estremisti sovversivi, quasi sempre polemici e pronti ad alzare i toni della discussione. Se necessario anche usando il manganello...

Esagero? Mi pare proprio di no. Anzi possiamo affermare con pochi dati certi, che i veri nemici del benessere del paese e dei cittadini che lo abitano siano proprio loro. Loro che in un quarantennio hanno compromesso il futuro delle presenti e delle future generazioni. Vediamo perché.

Che cosa è fondamentale per un popolo, per le persone che vivono su un determinato territorio? Che cosa è indispensabile alla sopravvivenza dei cittadini? Il cibo. E che cosa è accaduto al nostro paese? È accaduto che dal 1971 al 2010 ha perso 5 milioni di ettari di Superficie Agricola Utilizzata (SAU). Questo dato è dovuto a due fenomeni: l'abbandono delle terre e la cementificazione.

Per la risoluzione del primo, la politica è completamente assente e non riesce, anzi non prova neanche, ad arginare la perdita di terreno del settore primario rispetto al mattone. Coltivare la terra rende sempre meno in termini di reddito ed è molto faticoso, nonostante la meccanizzazione. Una crisi che richiederebbe anche un cambio di modello di produzione, avviando una riconversione che emancipi il settore stesso dalla monocoltura intensiva aprendo nuove prospettive. Non solo in termini di produzione ma anche di occasioni per riprodurre comunità e socialità.

Per il secondo fenomeno, la cementificazione, la politica dominante, non solo non ha arginato il fenomeno irreversibile della impermeabilizzazione dei suoli, ma lo ha facilitato e promosso: approvando normative che hanno spinto i comuni a fare cassa con la monetizzazione del territorio, progettando e realizzando opere infrastrutturali che hanno accompagnato l'espansione urbanistica (lo sprawl), favorendo la rendita urbana ai danni della tutela del territorio, del paesaggio e dell'agricoltura, coltivando il consenso facile con gli oneri di urbanizzazione che arrivano grazie alle colate di cemento.

Per rendere bene l'idea di quello che è successo nel nostro paese ci possono aiutare due grafici tratti da un rapporto sul consumo di suolo agricolo a cura del Ministero delle Politiche Agricole. Nel primo (sopra)si può vedere che a fronte di un aumento della popolazione, la superficie agricola utilizzata è diminuita (del 28% in 40 anni) e la forbice tende ad allargarsi. Nel secondo grafico (qui s)è chiaro ed evidente quanto l'Italia stia progressivamente perdendo sovranità alimentare. Riso, pomodori e frutta fresca sono le uniche colture che produciamo in misura superiore al nostro fabbisogno. Per tutte le altre siamo ben al di sotto dell'80% di copertura. Per alcune sotto il 40%. La media del nostro grado di approvvigionamento alimentare è tra l'80 e l'85% ed è in costante diminuzione. Solo 20 anni fa era pari al 92%


A questi dati, tenuti nascosti sapientemente all'opinione pubblica (ne avete mai sentito parlare al TG1, al TG3, a Ballarò, a Otto e mezzo?) se ne aggiunge un altro ancor più preoccupante: l'Italia è il terzo paese in Europa ed il quinto nel mondo nella classifica del deficit di suolo. In sostanza ci mancano 49 milioni di ettari per coprire il nostro intero fabbisogno che è pari a 61 milioni di ettari. Siamo destinati ad essere sempre più dipendenti dalla produzione di terreni di altri paesi. Il buon senso del buon padre o madre di famiglia dovrebbe portarci a fermare per decreto ed immediatamente la cementificazione ed il consumo di suolo, a bonificare le aree compromesse dal cemento e dai veleni, ad incentivare seriamente il ritorno alla coltivazione delle terre abbandonate. Ma purtroppo il buon senso e l'interesse collettivo sono spesso in contraddizione con gli interessi dei pochi e soliti noti...

Ma oltre che della perduta sovranità alimentare, gli estremisti dirigenti del partito del cemento si sono resi protagonisti dell'alterazione e della sovversione di delicati equilibri ecosistemici. Alterazione condotta grazie alle loro azioni irriducibili, condotte talvolta nottetempo: mitici i consigli comunali alle 3 di notte per approvare varianti ai piani regolatori (Nei quindici anni dal 1995 al 2009, i comuni italiani hanno rilasciato complessivamente permessi di costruire per 3,8 miliardi di mc). Le scelte di questi estremisti sono concausa certificata del dissesto idrogeologico e dello sprofondamento quotidiano del paese nel fango. Ma essi si ostinano quotidianamente a tenere la posizione, si oppongono in maniera davvero ideologica e radicale alle decine di proposte veramente moderate che presentiamo tutti i giorni.

Noi (ambientalisti, comitati, cittadini) chiediamo di investire le scarse risorse nella messa in sicurezza del territorio; loro ci rispondono arroganti che sono prioritari i buchi nelle montagne per portare merci a 300 km all'ora da Torino a Lione. Noi proponiamo di incentivare il recupero degli immobili esistenti, rendendoli più efficienti dal punto di vista energetico, di puntare sul risanamento/ricostruzione dei centri storici abbandonati (a partire da L'Aquila, dove recentemente si sono recati 22 sindaci moderati della Val di Susa per chiedere di impiegare in quella città le risorse destinate al Tav); loro si impuntano con le newtown in aperta campagna, le cittadelle dello sport, della moda, del design. Noi proponiamo di restaurare il paesaggio, di elaborare un grande piano nazionale di piccole opere, che aiuterebbe l'edilizia ad uscire dalla crisi (dall'abbattimento delle barriere architettoniche alla realizzazione di fognature, marciapiedi e piste ciclabili); loro ci rispondono polemicamente e strumentalmente con nuovi piani casa, nuovi grattacieli, nuovi grandi eventi e relative nuove grandi autostrade e nuovi grandi padiglioni. Insomma, noi chiediamo di andare più piano; loro accelerano con sprezzo del pericolo, spingendo il vapore a tutta velocità verso le estreme conseguenze, verso il baratro. Degli irresponsabili.

Risultato di queste scelte scellerate portate avanti con tanta veemenza bipartisan? Secondo l'ISPRA (Istituto Superiore per Protezione e la Ricerca Ambientale) ogni giorno vengono impermeabilizzati 100 ettari di terreni naturali. 10 mq al secondo. Quindi cosa facciamo?

Dobbiamo fermarli. Non c'è alternativa. Perché sono dei veri sovversivi. I veri estremisti di questo paese.

Cliccando sul titolo potete leggere il testo della piattaforma e l'elenco delle 148 associazioni, comitati e altri gruppi che hanno aderito aggiornato al 25 novembre

No grandi opere – No consumo di suolo
per la democrazia e i beni comuni
per il diritto di respirare, lavorare, vivere in Veneto

Giornate di mobilitazione regionale in difesa della qualità della vita
Sabato 16 novembre : iniziative di sensibilizzazione nei Comuni del Veneto
Sabato 30 novembre ore 14 – stazione FS di Santa Lucia – manifestazione regionale a Venezia

La Terra non ce la fa più: ha bisogno di un anno e mezzo per recuperare quello che le viene sottratto in un anno. “Il clima impazzito sconvolgerà il pianeta. Siamo vicini al punto di non ritorno” (Ipcc-Onu 2013). E il Veneto è una delle regioni più inquinanti e inquinate d’Europa.

L’inquinamento atmosferico, prodotto da traffico, inceneritori, cementifici, centrali termoelettriche, industrie nocive, grandi navi, avvelena l’aria: la peggiore d’Europa.
Cementificazione e asfaltatura del suolo impoveriscono le campagne, provocano frane e alluvioni, distruggono il paesaggio e un patrimonio storico ed ambientale di valore inestimabile.
Eccessivi prelievi d’acqua inaridiscono i fiumi, provocando l’avanzamento del cuneo salino, e l’abbassamento delle falde acquifere.
Col sistema del “project financing” banche e grandi imprese succhiano miliardi di risorse pubbliche. Per i cittadini questo significa solo debito, aumenti di tariffe per i servizi e per pedaggi speculativi.
I cittadini e i Comuni non contano più nulla poiché la Regione ha azzerato la pianificazione urbanistica riducendola ad un incredibile delirio di autostrade e “progetti strategici” (mega-poli commerciali direzionali), mentre le verifiche ambientali sono ridotte a pura formalità.

Gli abitanti del Veneto sono da anni impegnati in una moltitudine di vertenze locali, volte a salvaguardare la vivibilità del territorio. Cittadine e cittadini di buona volontà si sono finalmente riuniti per chiedere una urgente inversione di rotta:

- Fermare subito le “grandi opere” inutili e dannose (nuove autostrade e linee TAV, carbone nella centrale di Porto Tolle, MOSE, scavo nuovi canali in laguna, nuove scogliere e false barene-discariche).

- Allontanare definitivamente le “grandi navi” dalla Laguna.

- Liberare il territorio dalle servitù militari.

- Finanziare i Comuni, anche con la Cassa Depositi e Prestiti a tasso agevolato, per manutenzione, messa in sicurezza, riqualificazione energetica di edifici pubblici e territorio – vera grande opera necessaria - dando lavoro alle piccole e medie imprese.

- Riconversione ecologica delle città, delle industrie e dell’agricoltura per creare buona e stabile occupazione.

- Gestione pubblica e partecipata, senza profitti in bolletta, di acqua e servizi pubblici – No allo sfruttamento indiscriminato delle risorse idriche.

- Fermare la privatizzazione della sanità: i “project financing” ospedalieri sottraggono risorse pubbliche alla prevenzione e alle prestazioni sanitarie di cura.

- Stop al consumo di suolo agricolo : cambiare la legge urbanistica regionale e il nuovo PTRC – Piano Territoriale Regionale - per tutelare il patrimonio storico, culturale e paesaggistico, attuando finalmente e per intero il Codice nazionale del Paesaggio.

- Basta con il ricorso alla “legge obiettivo” e ai commissari straordinari .

- Basta con inceneritori, cave e discariche – Incentivare riduzione, riuso e riciclo dei rifiuti.

- Stop a nuove autostrade, strade, raccordi e poli commerciali che desertificano i nostri centri, distruggendone il tessuto sociale e le attività economiche: investire per recuperare aree ed edifici da bonificare e riqualificare (a partire da Porto Marghera) per attività innovative.

- Investire non in autostrade e Alta Velocità, ma in rinnovo e potenziamento delle ferrovie esistenti con un piano integrato di vera intermodalità. Favorire il trasporto pubblico locale e regionale (SFMR). Favorire la mobilità ciclo-pedonale. Spostare il trasporto merci dalla gomma ad acqua e rotaia.

- Ricostruire gli organismi di valutazione e controllo ambientale per renderli indipendenti dai poteri politici ed economici: eliminare i conflitti d’interesse e di competenze e la concentrazione di tutti i poteri (di Piano, progetto, valutazione, attuazione e controllo) in una sola figura.

- Garantire pubblicità e trasparenza ai lavori delle Commissioni d’inchiesta del Consiglio regionale sulla “finanza di progetto” e le aziende regionali, innanzitutto su Veneto Strade SpA.

- Smantellare l’intreccio politica-affari oggi all’attenzione della Magistratura.

- Difesa della Costituzione e delle assemblee elettive, contro ogni tentazione presidenzialistica. - Partecipazione piena dei cittadini alle decisioni e ai controlli.

I comitati e i movimenti, le associazioni e i gruppi di cittadinanza attiva operanti in Veneto invitano tutte e tutti a far sentire la loro voce e a partecipare alle iniziative programmate.
aderiscono:

PROMOTORI
1
Beati i costruttori di pace
2
Amministrazione comunale Marano Vicentino
3
Comitato diritto alla città -rete dei comitati cittadini Rovigo
4
Comitato Opzione Zero
5
Movimento Mira 2030
6
Fondamente
7
8
Mountain Wilderness Italia
9
Coordinamento di Padova "Costituzione, la via maestra"
10
Eco Magazine
11
Ecoistituto del Veneto "Alex Langer"
12
AmicoAlbero - Mestre- Venezia
13
Movimento dei Consumatori - Venezia
14
VeneziAmbiente - Ecomuseo della Laguna Mestre - Malcontenta
15
Assemblea permanente contro il rischio chimico Marghera
16
Associazione AmbienteVenezia
17
Coordinamento veneto pedemontana alternativa CoVePA
18
CAT Comitati ambiente e territorio della Riviera del Brenta e del Miranese
19
Digiuno Territorio
20
Comitato Ambiente e Sviluppo di Cavarzere (VE)
21
Rete Polesana dei Comitati
22
ALBA – Alleanza lavoro Benicomuni Ambiente - Padova
23
No Grandi Navi di Venezia
24
Associazione Arianova - Pederobba
25
Associazione Si Rinnovabili No Nucleare
26
Movimento per la Decrescita Felice di Padova
27
Comitato Difesa Salute e Ambiente Padova Est
28
Coordinamento Zero-Rifiuti Padova
29
Comitato Prov. 2 Si Acqua Bene Comune - Padova
30
Associazione Città Amica
31
Comitato Difesa Alberi e Territorio - Padova
32
Associazione ISDE (medici per l'ambiente) sezione di Padova
33
Legambiente Veneto
34
L'Eco dalle Terre
35
IntercomAmbiente di Trecenta Rovigo
36
Movimento Salvaguardiaambiente di Marano Vicentino
37
Comitati Difesa Salute e Territorio NO PEDEMONTANA
38
Rete dei Comitati Alto Vicentino
39
Coordinamento delle associazioni ambientaliste del Lido di Venezia
40
Comitato Referendario Sarcedo Turistica
41
Forum Naz.le Salviamo il Paesaggio
42
Coordinamento delle Ass.ambientaliste del Parco dei Colli Euganei
43
Comitato No Valdastico Nord
44
Comitato No G.O.L.F. Sarcedo
45
L'acqua e il Bosco della Val Posina
46
Arcadia Ambiente e Territorio
47
Comitati ambiente e territorio della Riviera del Brenta e del Miranese
48
Coordinamento dei Comitati di Vicenza
49
Alternativa - laboratorio politico
50
Comitato per la salute pubblica Bene Comune - Pordenone
51
Comitato sì Treviso mare
52
Comitato Commenda Est di Rovigo
53
Associazione Archeostorica Cayran - Caerano di San Marco (Tv)
54
Agricoltura Biologica FUORI DI CAMPO di GRUPPO POLIS
55
Rete provinciale dei Comitati del Polesine e basso-veneziano
56
Diversamente Bio
57
Movimento della Decrescita Felice Circolo di Venezia
58
Istituto Nazionale di Bioarchitettura sezione di Venezia (INBAR Venezia)
59
Caresà Società Cooperativa Sociale Impresa Sociale
60
Circolo Legambiente Legnago
61
Comitato Antinucleare di Legnago e Basso Veronese
62
Comitato "cittadini liberi - Porto Tolle"
63
Comitato art.9 per la salvaguardia del paesaggio
64
Comitati Ambiente sicuro di Salzano e Noaleambiente di Noale
65
Circolo ACLI Zugliano (VI)
66
Il Ponte del Dolo
67
"Lasciateci respirare" di Monselice
68
I Comitati riuniti per il riciclo totale -Rifiuti Zero - di Treviso e Venezia
69
Associazione per la Decrescita
70
Associazione di Cultura e Iniziativa politica InComune di Venezia
71
Cattolici per la Vita della Valle No Tav
72
Liberinsieme Legnago
73
Salviamo il paesaggio - Bassa Veronese
74
GIT Banca Etica Venezia
75
Comitato interregionale Carnia- Cadore P.A.S. Dolomiti
76
Comitato Bellunese Acqua Bene Comune
77
Gruppo Natura Lentiai
78
Gruppo Coltivare Condividendo
79
Casa dei Beni Comuni Belluno
80
Magazzini Prensili
81
Comitati Prà Gras
82
Cittadinanza e Partecipazione Feltre
83
Associazione Tutela e Valorizzazione dell'Alta Valle del Mis e dell'ex sito minerario di Vallalta
84
Cooperativa Mazarol Guide Naturalistico - Ambientali
85
WWF Altamarca
86
Circolo Wigwan il Presidio sotto il Portico
87
Coordinamento di Salviamo il paesaggio di Asolo Castelfranco Veneto
88
Gruppo di iniziativa di Forte Carpenedo
89
Gruppo Etico Territoriale "El morar" di Valeggio sul Mincio (VR)
90
Comitato Bovolenta aria pulita
91
Comitato di San Pietro in Paerno Rosà - Tezze s/Br ONLUS
92
93
Comitato liberi e pensanti Marghera
94
Asolo Viva
95
Il nodo Trevigiano di Alba
96
Lega Anti Vivisezione Padova
97
Città Amica associazione di architetti-urbanisti
98
Associazione NO ALLA CENTRALE (per lo sviluppo E-ti-co Sostenibile dell’Ovest Vicentino)
99
Associazione Il Pane e le Rose di Isola della Scala Verona
100
APS Movimento Sereno
101
Italia Nostra Veneto
102
Comitato degli Allagati di Favaro
103
Comitato di Liberazione Nazionale dei corsi d'acqua
104
Legambiente Padova
105
Amici della bicicletta
106
Associazione rurale italiana
107
Comitato arsenale di Verona
108
Comitato dei cittadini contro il collegamento autostradale delle Torricelle
109
Comunità cristiane di base di Verona
110
Comitato Fumane Futura
111
Donne in Nero Verona
112
Gastelle
113
Italia Nostra Verona
114
Comitato Mamme della Valpolicella
115
Monastero del Bene Comune - Sezano
116
Movimento Nonviolento
117
Pestrino e Palazzina da Salvare
118
Salvalpolicella
119
Associazione Valpolicella 2000
120
Verona In
121
Comitato spontaneo Verona Inalberata
122
Circolo ambientalista Alex Langer di Valeggio e Verona
ADESIONI DI ORGANIZZAZIONI POLITICHE
1
Fiom Belluno
2
Cobas - Comitati di Base della Scuola del Veneto
3
Federazione di Belluno di Rifondazione Comunista
4
Partito democratico di Meolo
5
Rifondazione Comunista del Veneto
6
Circolo SEL di Mira
7
Uniti per Cambiare di Occhiobello (RO)
8
Sinistra Ambientalista Ponte San Nicolò (Padova)
9
Circolo SEL di Ponte San Nicolò (Padova)
10
Circolo SEL Enrico Berlinguer di Dolo VE
11
Associazione Cavarzere 5 Stelle
12
Circolo Sel di Venezia
13
Circolo Sel di Mestre
14
Circolo Sel di Marghera
15
Federazione Provinciale di Sinistra Ecologia Libertà - Venezia
16
Movimento 5 stelle di Castelfranco Veneto
17
Padova 2020
18
Italia dei Valori Regione Veneto
19
Movimento 5 stelle Veneto
20
Io scelgo Mirano
21
Federazione polesana di Rifondazione Comunista
22
Rifondazione Comunista Verona
ADESIONI PERSONALI
1
Andrea Zanoni Europarlamentare
2
Umberto Curi, Filosofo
3
Fabrizio Baldan
4
Gianni Buganza

Troppo costoso e tempi lunghi, meglio non scavare, tanto più che il bucone è marcio e l'alternativa c'è. Ma dopo le inchieste giudiziarie Renzi, il facondo sindaco di Firenze e aspirante al trono d'Italia tace, Il manifesto, 14 novembre 2013

Il "grande buco" di Firenze, il progetto di attraversamento Tav del centro storico della città, con megatunnel a doppia canna e macrostazione sotterranea, viene travolto dalle inchieste della magistratura, che evidenziano gravissimi profili di illegittimità ed illegalità amministrative, civili e penali, da parte di una "cricca" che coinvolge pesantemente non solo la governance delle ferrovie e del progetto e le imprese interessate, ma anche l'amministrazione pubblica ai diversi livelli, compresi ministeri e vertici della Regione Toscana. Tra i rilievi della procura si trovano: uso di materiali inidonei, irregolarità procedurali, forzature decisionali, reati ambientali, aggiramento delle norme dei lavori pubblici, evasioni ambientali, occultamento degli impatti, fino alla rimozione di dirigenti "scomodi", perché, facendo scrupolosamente il proprio dovere, bloccavano e impedivano i disegni di devastazione, spreco e accaparramento di risorse pubbliche da parte della "squadra".

Appare scontato che in tale quadro non ci fosse alcuna attenzione per il centro urbano di Firenze, né per il suo patrimonio artistico, culturale, ambientale e abitativo. Il sindaco Matteo Renzi, prossimo possibile dominus del Pd, nonché candidato alla premiership, che pure chiacchiera su tutto, in questo caso mantiene un rigoroso, quanto imbarazzato e clamoroso, silenzio.Movimenti e comitati, insieme agli studiosi dell'università che hanno analizzato il problema, chiedono invece con forza l'abbandono definitivo di questo progetto, «inutile e dannoso», e il ritorno a un più agevole e meno costoso passante di superficie, di cui gli stessi tecnici hanno di recente aggiornato la proposta progettuale. Lo scenario, che Giorgio Pizziolo ed altri tecnici hanno curato, è infatti molto più conveniente dal punto di vista di tempi, costi, impatto ambientale ed efficacia della realizzazione, anche rispetto all'intero sistema di mobilità urbana e metropolitana interessato.

Per avviare i lavori del «passante» fiorentino è molto più semplice e rapido rendere definitivo il progetto nuovo di sovrattraversamento, piuttosto che tentare di proseguire l'iter, interrotto di fatto dalla magistratura, di megatunnel e grande stazione sotterranea. Almeno se si vuol rispettare il criterio di «assoluta legalità» per le operazioni a venire, dichiarato dalla stessa Rfi. Come ricordato in questi giorni dall'attivissimo «Comitato No Tunnel Tav», le illegittimità ambientali, amministrative, civili e penali già emerse nell'inchiesta costituiscono solo una parte di un quadro di irregolarità assai più vasto,di cui chi ha studiato il progetto è ben consapevole. Tra le "magagne" che devono ancora emergere vi è, per esempio, l'assoluta mancanza di Valutazione d'impatto ambientale della megastazione sotterranea, per la quale il proponente tentò di spacciare per buona altra valutazione redatta per altro progetto (circostanza ammessa successivamente dai suoi stessi legali). Tra le altre questioni ancora da sollevare vi è la mancanza di nulla osta paesaggistico; e infine il fondamentale dato già emerso per cui "Monna Lisa", ovvero la fresa montata per lo scavo, è inadeguata a lavorare nel sottosuolo del centro storico fiorentino e andrebbe sostituita.

Provvedere correttamente a sanare o aggiustare tutti questi problemi significherebbe, oltre a far lievitare i costi, poter avviare i lavori non prima di un anno. Quindi si aprirebbe il problema dell'impatto dello scavo vero e proprio, mai avviato finora.

Indagando i documenti progettuali e programmatici relativi al sottoattraversamento e in generale al nodo fiorentino della linea ad alta velocità, viene confermato che la vera scelta della governance toscana e fiorentina era legata alla necessità di premiare il sistema locale con un progetto finanziariamente all'altezza di quanto si stava spendendo negli altri grandi nodi ferroviari nazionali. Se a Firenze fosse stato confermato il progetto di superficie, nell'area ci sarebbe stata un'allocazione di risorse sensibilmente minore: un progettino da 350 milioni di euro. Bisognava cambiare: Firenze pretendeva il suo vero progetto di alta velocità.

Dalle pagine economiche di un grande quotidiano italiano, la notizia ufficiale dello sprawl Doc all'americana nel nostro paese passa per tutt'altro. Corriere della Sera, 14 novembre 2013, postilla (f.b.)

ROMA — Basiglio, il comune che ingloba anche l’area residenziale di Milano 3, si conferma come il comune d’Italia con gli abitanti più ricchi. I 4.159 contribuenti del comune lombardo hanno dichiarato nel 2011 un’Irpef media di 53.589 euro. Quasi diecimila euro in più rispetto a Galliate Lombardo, provincia di Varese, che con 44.814 di Irpef media è al secondo posto nella lista dei comuni con gli abitanti più ricchi. Nell’elenco, tra le prime dieci posizioni, ben sette sono appannaggio di comuni della Regione Lombardia, mentre gli altri tre comuni della “Top Ten” sono tutti nella cintura torinese. Dopo Basiglio e Galliate viene Campione d’Italia (Como), con un’Irpef media di 42.772 euro a testa, al quarto posto Cusago (Milano) e Carate Urio (Como) al quinto posto. Il sesto è appannaggio di Pino Torinese, il settimo di Torre d’Isola (Pavia), poi c’è Fiano, sempre in provincia di Torino, al nono posto Segrate (Milano) e al decimo Pecetto Torinese.

Tra le grandi città capoluogo il reddito Irpef più elevato si registra a Milano, che occupa la dodicesima posizione assoluta, con una media di 36.253 euro, seguita da Bergamo (al 32° posto con 32.274 euro), Monza, Roma (al 55° posto con un’Irpef media di 30.544 euro), poi Pavia, Padova, Treviso, Siena, Bologna, Varese, Parma, Cagliari, che è la prima città del centro sud e precede Lecco e Firenze. Tra le città capoluogo il reddito medio più basso si è registrato nel 2011 a Barletta (19.644 euro), dietro a Isernia, Ragusa e Fermo.

I dati del ministero delle Finanze confermano dunque il divario di ricchezza tra Nord e Sud, ma soltanto per le grandi città. Nella classifica dei singoli comuni sono infatti molto numerosi quelli del Nord che figurano nelle ultime posizioni. In assoluto il valore Irpef medio più basso si registra a Valsolda, provincia di Como, con appena 11.988 euro a testa. Ma succede, spiega il sindaco Giuseppe Farina, perché «il 90% dei valsoldesi lavora in Svizzera per cui percepisce il reddito lì e non dichiara nulla in Italia». Precedono Valsolda i comuni di Platì (Reggio Calabria), Gurro (Vibo), Val Rezzo (Como), Mazzarrone (Catania), Cavargna (altro comune del comasco), Elva e Castelmagno, in provincia di Cuneo, Cairano (Avellino) e Schiavi di Abruzzo (Chieti). Il comune d’Italia con il maggior numero di dichiarazioni Irpef è Roma (quasi un milione e mezzo), mentre all’altro capo della classifica c’è Moncenisio. Sembra incredibile, ma è così: in quel comune ci sono appena 13 contribuenti Irpef. Tutto sommato benestanti, con una media di 25.753 a testa.

postillaQuello che l'articolo non ci dice, ma forse avrebbe anche potuto dirci se in Italia fossimo più abituati a chiamare le cose col loro nome, è che la fotografia di un territorio coi suburbi ricchi ben distinti dalle grandi città madri non è un bel segnale. Ma un indice di tendenziale white flight: chi può si allontana dalla complessità metropolitana, per rinchiudersi nei ghetti recintati costruiti dal giovane Berlusconi delle ex risaie appena fuori Milano, o sulla cima della collina torinese di fianco a quella di Superga, con veduta sulla Mole e i lontani quartieri del volgo operaio-immigrato. Non è un bel segnale neppure per la riforma degli enti locali e l'istituzione delle città metropolitane, che esistano queste sacche di potenziale secessione amministrativa sul modello della decantata (dai giornali della nostra destra) Sandy Springs, enclave bianca che si è separata dalla contea prevalentemente nera di Atlanta, ma di cui qui si è parlato solo per un aspetto: la privatizzazione dei servizi. Ho provato in altra sede a sviluppare altre brevi riflessioni su questo tema, della consapevolezza dei problemi suburbani e del linguaggio per raccontarli, col titolo Studi Urbani a Cul-de-sac (f.b.)

La Repubblica, 14 novembre 2013

Mentre un pezzo di questa pseudo-maggioranza di governo, con la complicità o la connivenza di una parte del Pd, vorrebbe mettere in vendita il patrimonio pubblico delle spiagge, lo Stato italiano rischia di perdere una “perla” della Sardegna come l’isola di Budelli, nell’arcipelago incantato della Maddalena. Qui Michelangelo Antonioni girò nel 1964 una memorabile sequenza del suo “Deserto rosso” con Monica Vitti. E qui c’è ancora, nonostante le scorribande di un turismo predatorio, la famosa “spiaggia rosa”, una delle più suggestive del mondo, così denominata per il colore particolare della sabbia lungo la linea della battigia.

All’inizio del Novecento, Budelli apparteneva a una famiglia della Maddalena e poi nel 1950 venne acquistata da un ingegnere milanese con il progetto di costruire un esclusivo villaggio vacanze. Ma l’operazione fu bloccata dalle resistenze locali, fino a quando nel 1992 il ministro dell’Ambiente, Carlo Ripa di Meana, firmò un decreto per rendere quel territorio inedificabile. A febbraio scorso, infine, in seguito al fallimento della società proprietaria, l’isola è andata all’asta ed è stata comprata per 2 milioni e 945mila euro da un banchiere neozelandese, intenzionato - a quanto assicura lui stesso - a preservare l’ambiente con le sue 700 varietà vegetali di macchia marina, di cui 50 specie endemiche.

Attraverso il Parco nazionale dell’Arcipelago della Maddalena, istituito nel ‘90, lo Stato potrebbe ancora esercitare però un diritto di prelazione entro l’8 gennaio 2014. Senonché l’articolo 138 della precedente Finanziaria, predisposta dal governo Monti, impedisce a qualsiasi ente pubblico di acquistare beni e cose. E per questo, su sollecitazione dell’ex ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, Sel e il gruppo misto del Senato hanno presentato un emendamento alla legge di Stabilità che è all’esame del Parlamento.

In collaborazione con la piattaforma “change.org”, lo stesso Pecoraro Scanio aveva già lanciato su Internet una petizione popolare — intitolata “Budelli bene comune” — che finora ha raccolto oltre 80 mila firme. L’obiettivo è quello di affidare la proprietà e la gestione dell’isola al Parco, per trasformarla in un “museo all’aria aperta” in grado di autofinanziarsi con il ricavato dei biglietti d’ingresso. «Budelli è un patrimonio e un simbolo del nostro Paese — ribadisce il capogruppo di Sel alla Camera, Gennaro Migliore — che va restituito ai cittadini italiani».

L’emendamento alla legge di Stabilità chiama in causa direttamente il ministero dell’Economia, già alle prese con il bombardamento di tremila emendamenti presentati dai partiti alle Camere: anche in questo caso, spetta eventualmente a Fabrizio Saccomanni reperire i tre milioni di euro per salvare “l’isola più bella del mondo”. Ma tutto sommato si tratta di una cifra contenuta, l’equivalente di un appartamento di pregio nel centro di Roma, che oltretutto servirebbe ad alimentare turismo e occupazione. E perciò si aspetta un intervento anche da parte del ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, al quale va il merito di aver indotto per ora il Partito democratico a fare dietrofront sulla vendita delle spiagge.

Nel frattempo, contro questa inaccettabile liquidazione del nostro litorale, la Federazione dei Verdi guidata da Angelo Bonelli ha indetto per le 15 di oggi a Roma, in piazza del Pantheon, un sit-in di protesta contro la proposta di Pdl e Lega. «Vogliamo mobilitarci - spiega Bonelli - non tanto per una questione politica, quanto piuttosto morale». Il paradosso è che le spiagge italiane, con le 30 mila concessioni demaniali assegnate a imprenditori privati per la gestione di 15 mila stabilimenti
balneari che insistono su 600 Comuni costieri, di fatto sono state già svendute: tant’è che rendono allo Stato intorno ai cento milioni di euro all’anno, in base a canoni irrisori e spesso anche clientelari, fruttando agli esercenti incassi che si aggirerebbero sui dieci miliardi (due secondo i dati ufficiali).

Nel 2012 fu la Commissione europea a intervenire, sollecitando la riduzione da 30 a 5 anni della proroga alle concessioni, originariamente proposta anche allora da Pdl e Pd. La storia, insomma, si ripete. Ma la “spiaggia rosa”, l’isola di Budelli e tutto l’arcipelago della Maddalena non possono rientrare ora nella logica viziosa delle “larghe intese”.

Perché la decisione del Consiglio dei ministri in merito alle Grandi navi a Venezia e' un ultoriore, poderoso contributo dei governanti nazionali, regionali e locali alla distruzione di un monumento per costruire il quali natura e storia hanno collaborato per mille anni. Stralci da un libretto tutto da leggere


La beffa della decisione del governo sulle Grandi navi nella Laguna di Venezia è palese per chi conosce la questione. Ci siamo già espressi in proposito con una postilla all’articolo che informava della decisione governativa. Sembra però che molti di quanti si esprimono sull’argomento valutino la decisione come una buona cosa, o almeno un ragionevole compromesso Mi riferisco soprattutto ai decisori - nazionali, regionale e locali. Essi sono distinguibili in due categorie: quelli in malafede, e quelli che non sanno e decidono sull’onda del sentito dire. Poiché la speranza di convincere gli onesti non ci abbandona mai vogliamo rivolgerci a questi ultimi. alcuni stralci del libretto
Confondere la Laguna, redatto da Lidia Fersuoch per la collana “Occhi aperti su Venezia" di Corte del Fòntego editore, ringraziando autrice ed editore della concessione.

1. Escavo del canale Contorta Sant’Angelo e terminal alla Marittima: le navi da crociera accedono alla Laguna attraverso la bocca di Malamocco, percorrono in parte il Canale dei Petroli, imboccano un nuovo canale da escavarsi a fianco del vecchio canaletto Contorto – così lo chiamava Cristoforo Sabbadino, oggi Contorta Sant’Angelo –, entrano nel Canale della Giudecca e approdano alla Marittima.

Questa linea progettuale è stata proposta dall’autorità portuale di Venezia. Secondo il suo presidente, Paolo Costa, si tratterebbe di approfondire un canale esistente (il Contorta), accompagnando i lavori «con un progetto di ricostruzione morfologica della laguna centrale, oggi notoriamente la più degradata»37. Giampiero Mayerle, già direttore del Magistrato alle acque, così lo spiega: «I materiali di risulta dell’escavo del canale ... sono in gran parte “fanghi puliti” (fascia A) e pertanto potranno essere riutilizzati per la ricostruzione di strutture morfologiche lagunari. Circa due milioni di sedimenti potranno proficuamente essere utilizzati per la realizzazione di una serie di velme in fregio al canale Contorta Sant’Angelo per proteggere i bassi fondali a lato del canale. È questa una cautela fondamentale anche per contribuire al mantenimento dei fondali del canale stesso, tenuto conto che i materiali che dovessero essere erosi andrebbero prevedibilmente a depositarsi sul fondo del nuovo canale»38. Si escaverebbe dunque un altro Canale dei Petroli (130 milioni di costo), con medesimo assetto innaturale da sud a nord, di almeno 80 m di larghezza al fondo e -10,50 m di profondità (ora il Contorto misura circa sei metri di larghezza e due di profondità) e con i fanghi si costruirebbero velme o barene, lì prima inesistenti, a margine dello stesso canale per evitare l’erosione e l’interramento provocato dalle navi che lo percorreranno. Questo, secondo Costa, sarebbe «il valore aggiunto del progetto». Come sostiene D’Alpaos a proposito di questa ipotesi, vuol dire «che non abbiamo imparato la lezione» impartitaci dalla Laguna39. La Venezia Terminal Passeggeri (VTP) preme perché, invece di ritornare per lo stesso Canale dei Petroli, le navi escano per la bocca di Lido, conservando almeno un passaggio davanti a San Marco, il che sarebbe una beffa. L’escavo e lo stravolgimento del piccolo canale, campo di gara di vela al terzo, posto tra le due antiche isole di Sant’Angelo della Concordia e di San Giorgio in Alga – se ha senso in questo contesto parlare di bellezza e paesaggio -, sarà la fine della Laguna, e tutti lo sanno. Perché allora c’è tanto timore in città e nella comunità scientifica che questa sia la via che il Comitato interministeriale40 sceglierà? Perché in questi ultimi cinquant’anni non si è mai deciso per il bene della Laguna, piegandola invece ad altri scopi, essendo sempre considerata una risorsa disponibile per alcune categorie economiche, piuttosto che un bene di tutti i cittadini, da preservare.

2. Percorso per il canale Vittorio Emanuele e terminal alla Marittima: come nella prima proposta, le navi entrano per la bocca di Malamocco, percorrono il Canale dei Petroli, imboccano il Canale delle Tresse, proseguono lungo il canale Vittorio Emanuele e raggiungono la Marittima.

Il Canale dei Petroli verrebbe raddoppiato per più della metà del suo percorso e portato a 240 m di larghezza41. È previsto anche l’ampliamento a 450 m di diametro del Bacino di evoluzione 3 all’innesto del Canale delle Tresse, l’escavo e l’allargamento di questo canale e di parte del Vittorio Emanuele, l’arretramento e la riconfigurazione della discarica delle Tresse. Tale ipotesi è stata scartata dall’autorità portuale non per i prevedibili danni alla Laguna, ma per l’inaccettabile e pericolosa interferenza fra traffico passeggeri e traffico merci nel Canale dei Petroli (e per i costi, quasi 400 milioni di euro). Anche la proposta del canale Contorta tuttavia prevede, nel Canale dei Petroli, un lungo tratto di commistione fra traffico mercantile e crocieristico.

3. Percorso per il Canale dei Petroli e terminal a Marghera: le navi entrano in Laguna per il porto di Malamocco, percorrono tutto il Canale dei Petroli sino a imboccare il Canale Industriale Ovest e giungere a Marghera, ove è prevista la nuova stazione crocieristica.

Questa ipotesi è stata sostenuta dal sindaco Orsoni sin dalla campagna elettorale. Il progetto, al momento della stampa di questo libretto, non è stato ancora presentato alla cittadinanza. Si può presupporre che il percorso attraverso il Canale dei Petroli (previsto anche nella proposta precedente e rifiutato dall’autorità portuale per la condivisione con il traffico mercantile) necessiti ugualmente, in molte parti, del raddoppio del canale.

4. Terminal fuori della Laguna, a Santa Maria del Mare (Pellestrina): le navi ormeggiano in una nuova stazione marittima eretta presso la costa, nella piattaforma provvisoria di cemento di 11 ettari costruita per i cantieri di prefabbricazione dei cassoni del MoSE.

Con nota n° 348253 del 21 agosto 2007, il Comune di Venezia si era espresso in modo fermo contro tale ubicazione del cantiere, per la valenza paesaggistica dei luoghi, fra i più belli prospicienti la Laguna di Venezia, assoggettati a quattro vincoli paesaggistici: «In un territorio vincolato, a norma del codice, non è ammissibile lasanatoria a posteriori ed è obbligatoria la rimessa in pristino», ripristino che Magistrato e Consorzio si sono obbligati a effettuare e che la città si aspetta. Ma basterebbe guardare su Google maps l’impatto degli 11 ettari di cemento per comprendere come l’ipotesi di riutilizzarli – ventilata dal presidente dell’autorità portuale Paolo Costa – sia irrealizzabile. La proposta prevederebbe anche la realizzazione di una linea di trasporto passeggeri sublagunare (opera sin ora scongiurata, per le conseguenze ambientali e sociali e per i costi) a collegamento con la terraferma e Venezia.

Ritorna sotto non troppo mentite spoglie, il progettone di Ligresti/Veronesi, fiore avvelenato all'occhiello del centrodestra ereditato dal centrosinistra. La Repubblica Milano, 13 novembre 2013, postilla (f.b.)

La dead line è il 31 dicembre. Una data entro la quale «Visconti srl presenterà sicuramente al Comune il progetto per l’area Cerba», ha assicurato Manfredi Catella, amministratore delegato di Hines Italia, la società che si è assunta l’onere di sviluppare l’opera. E di far diventare realtà il “Centro europeo di ricerca biomedica avanzata” nel Parco Sud tanto sognato da Umberto Veronesi. Si riaccendono i riflettori sul Cerba: dopo il braccio di ferro a giugno tra Palazzo Marino e i curatori fallimentari dei terreni di Ligresti — chiesero di costruire un centro commerciale, il Comune disse no — ieri il numero uno di Hines ha annunciato che il piano per il polo scientifico è in via di definizione e che sarà presentato entro l’anno. Con alcune modifiche: il progetto, prima unitario, «ora è stato suddiviso per lotti, che coincideranno con i singoli istituti », ha spiegato Catella. L’obiettivo sarebbe quello di suddividere l’opera in “porzioni”, in modo da dilazionare i 92 milioni di euro di oneri di urbanizzazione che devono essere versati a Palazzo Marino per permettere alle ruspe di mettersi al lavoro.

L’Accordo di programma per la realizzazione del Cerba nei terreni di Ligresti accanto allo Ieo è stato firmato nel 2007. La strada - un’opera da 1,3 miliardi di euro, con 300mila metri quadri di edificazione e altrettanti di parco - è stata però sin da subito accidentata, soprattutto a causa del crac nel 2012 di Imco e Sinergia, le due immobiliari proprietarie dei terreni. Il 7 ottobre Visconti srl (società costituita ad hoc dalle banche creditrici di Ligresti, con Unicredit capofila) ha presentato al Tribunale il concordato per Imco: la proposta venerdì scorso ha incassato l’ok del comitato dei creditori, e adesso attende l’approvazione del giudice. Il concordato prevede che i terreni di Imco (tra cui quelli del Cerba) confluiscano in un fondo che sarà gestito da Hines Italia, a cui è stato affidato il compito di sviluppare il progetto.

Di qui, le modifiche che si vorrebbe apportare al progetto prima di far partire i lavori: oltre alla dilazione sugli oneri, l’ipotesi sarebbe quella di realizzare attorno al polo non un parco attrezzato (come previsto cinque anni fa) bensì agricolo, per risparmiare sulla manutenzione. L’ideazione dell’ipotesi è stata affidata allo studio Gregotti, che starebbe anche valutando i cambiamenti da fare al progetto immobiliare (firmato dallo studio Boeri) qualora la realizzazione per lotti ricevesse l’ok. Già, perché tutte le modifiche al piano originale oltre a dipendere dall’approvazione del concordato, devono incassare l’ok di Comune, Regione e Provincia, che nel 2007 hanno firmato l’Accordo di programma. Ed è proprio su questo che, ancora una volta, il Cerba rischia di arenarsi: il 5 novembre Visconti srl ha inviato a una lettera alle istituzioni per illustrare il concordato e chiedere il «sollecito riavvio delle procedure di revisione dell’Accordo». Dal Comune però arriva cautela: «Non abbiamo ricevuto ancora nessuna proposta e, per questo, non credo sia corretto commentare queste ipotesi di modifica se non negli ambiti competenti — dice l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris — . In ogni caso, se queste indiscrezioni fossero confermate, ricordiamo che alcune tra queste proposte erano già state bocciate a giugno »

postilla

Pare tristemente indicativo che in una delle città dove più pervicacemente si è perseguita la famigerata logica dei diritti edificatori, creati ad hoc e poi traslocati qui e là a seconda delle esigenze e vantaggi di chi conta, a nessuno sia mai venuto in mente che anche un progettone come il Cerba (sempre che si confermi la legittimità del piano) potrebbe virtuosamente seguire il percorso originario di questa pratica. Ovvero, come ci ha spiegato su questo sito Cristina Gibelli, di uso proprio e corretto dello strumento, a tutela di superfici del tutto inadatte alla trasformazione urbana, trasferendo i volumi altrove. E la greenbelt del Parco Sud è esattamente uno di questi posti inadatti, indipendentemente dallo sponsor scientifico, dai costruttori coinvolti, dallo studio di progettazione incaricato (f.b.)

Pompei di nuovo al centro delle polemiche, disperante simbolo della sorte del nostro patrimonio culturale. L'Unità, 12 novembre 2013 (m.p.g.)
Rumors, rumor di sciabole, manovre retrosceniche si addensano su Pompei, celebre nel mondo piùche per la sua bellezza, per l’incuria e il dilettantismo nelle italiche politiche culturali, un sito archeologico che vive una ennesima stagione ingloriosa, mentre continuano i crolli. L’ultimo è beffardamente avvenuto proprio su quella via dell’Abbondanza che tutti sanno esseremaggiormente a rischio. Un crollo fortunatamente non poderoso, ma poderosamente amplificato dai media, per tirare la volata alla nomina di un direttore a Pompei figura prevista dal decreto Valore cultura, per rilanciare una situazione in pesante stallo da due anni: a contendersi la poltrona sarebbero Fabrizio Magani e Giuseppe Scognamiglio.

Primo e probabilmente unico caso di un funzionario del Ministero degli Esteri distaccato presso una banca, Scognamiglio è stato consulente al Commercio con l’Estero, responsabile delle politiche di sostegno all’internazionalizzazione del sistema economico italiano, è nei consigli direttivi più vari,dall’Abi a Save the children, oltre che promotore della camera di commercio italo-turca epresidente della società editoriale della banca dove è dirigente. E altro ancora, però non s’è mai occupato di cultura, e godrebbe dell’appoggio del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Patroni Griffi e, a quanto pare, dello stesso presidente Enrico Letta.
Magani è invece un ottimo storico dell’arte in forza al Ministero per i Beni e le Attività Culturali. A circa quattro anni dal terremoto di l’Aquila, dopo che la gestione commissariale e della Protezione civile pur potendo agire in deroga alla normativa non aveva iniziato alcuna ricostruzione, Magani è divenuto direttore regionale per l’Abruzzo e in breve tempo ha avviato molti cantieri, attraverso i regolari percorsi di legge, con precisi cronoprogrammi su cui chiedergli conto, gestiti con trasparenza sul sito ufficiale della sua direzione. Non è certo l’unico funzionario tecnico-scientifico in grado di far marciare la macchina dello Stato meglio di commissari e supermanager: ad appoggiarlo sarebbe il Ministro competente Massimo Bray.
I media danno l’immagine dello scontro, oramai annoso, che in questo paese vede opposti tecnici contro manager per la direzione di entità culturali, ma la cosa convince poco. Perché il profilo di Scognamiglio non è di un manager ma, nella migliore delle ipotesi, di un diplomatico al servizio delle banche, magari ottimo mediatore virtuoso nell’arte del compromesso, nella peggiore delle ipotesi di un lobbista. Il che non significa sia una delle due cose, ma la dice lunga su chi lo sostienein quanto manager, mentre Magani non è un archeologo e allora perché spostarlo, rischiando di non risolvere i problemi di Pompei e riacutizzare quelli de L’Aquila.
Occorre andare aldilà della querelle dei nomi per capire quella che oramai appare la più possenterogna della storia dell’archeologia, cioè Pompei e tutti i suoi guai. Siamo nel 2011, le casse svuotatedal supermanager della protezione civile Marcello Fiori per inutili lavori –a dimostrarlo è anche una relazione della Corte dei Conti–, dopo i crolli quasi quotidiani che rimbalzavano sulla stampa come palle di fucile, a Pompei sembra consumarsi la sconfitta definitiva dei commissariamenti e dei supermanager culturali. Sul sito cala però una inquietante immobilità.
In quel momento si comincia a parlare concretamente di 105 milioni di euro della Unione Europea (UE) da destinare a Pompei, un iter accelerato dall’allora ministro per la Coesione Territoriale, Raffaele Fitto. Di lì a poco alla Soprintendenza di Pompei viene affiancata Invitalia, con il compito di seguire gli aspetti amministrativi: è un nuovo semi-commissariamento, presentato come salvificoma rivelatosi al di sotto delle aspettative, tanto che quasi nulla si muove.
Entra in scena Giancarlo Galan come Ministro della cultura: il suo famigerato Decreto salva Pompei, in realtà svuota ulteriormente le casse della Soprintendenza –senza tuttavia intaccare i fondi UE che non potevano essere distratti–, e scardina una parte della tutela intorno all’area archeologica, ipotizzando la creazione di edifici per il turismo da costruire in deroga alla normativa.Scende subito in campo una non meglio precisata cordata di imprenditori campani, che trovasponda politica in Scilipoti, e si mette a disposizione. Attenzione, non per dare danaro a Pompei, ma prenderne: realizzando quelle strutture che il decreto prevederebbe con soldi non loro mapubblici (forse i 105 mln della UE?).
Nello stesso periodo un consorzio di aziende francesi, queste sì pronte a dare di tasca loro decine dimilioni di euro per ulteriori restauri sul sito vesuviano, si è dileguato nel nulla, e vagli a dar tortovisto quanto accadeva –altro che partecipazione dei privati, quelli che davvero vogliono dar soldi li facciamo scappare.
Entra in scena il Governo Monti, nel 2012 nasce il Grande Progetto Pompei (GPP) da realizzare con i 105 mln UE, una gioiosa macchina da guerra con dentro 4 ministeri, la presidenza del Consiglio, sempre Invitalia e la prefettura antimafia a vegliare sui bandi perché, si disse, quelli di Pompei non dovevano essere inquinati dalla camorra, quasi gli altri bandi godessero invece di una franchigia.
Il piano, da un punto di vista archeologico curato dal Segretariato generale del Mibac, sbandiera una mezza dozzina di importanti interventi, per lo più risalenti a una decina di anni prima, all’epocadella soprintendenza di Pier Giovanni Guzzo, e mai realizzati nel successivo periodo della spendarella commissariale. È però un progetto culturalmente non ineccepibile: Pompei non abbisogna tanto e solo di progetti speciali ma, come dimostrano i crolli recenti, ha soprattutto urgenza, si sottolinea urgenza, di triviale manutenzione, che sarebbe ordinaria in un sito archeologico ma non si riesce a fare per la mancanza di personale specializzato. Difficile poisfuggire all’impressione che rispetto all’ordinario i piani faraonici siano ben spendibili a livello di immagine.
Parola d’ordine del GPP è comunque “sinergie”, termine che ama essere usato nelle conferenze stampa dal tempo dei socialisti craxiani che lo nobilitarono, ma fin da allora si traduce spesso o incompromessi talvolta consociativi, oppure in una macchina burocratica immobile. Forse prevedibilmente e, ahimè, anche previsto, a Pompei si verifica la seconda ipotesi: lo stallo continua.
Estate 2013, un nuovo rapporto Unesco al calor bianco minaccia velatamente di togliere il patrocinio al sito, mentre si fa reale il rischio di perdere i 105 mln UE per scadenza termini. Siprova a correre ai ripari con il decreto Valore cultura, dove si torna all’idea di un plenipotenziario,un direttore con ampie deroghe che tanto assomiglia a un commissario straordinario. In sede parlamentare al momento della conversione in legge è aggiunto un vicedirettore, figura di non chiara funzione burocratica, dunque probabile omaggio alle larghe intese.
Aldilà delle buone intenzioni di tutti, scontate fino a prova contraria, il solo elenco di queste iniziative, percorse da un certo nervosismo normativo e forti incertezze politico-culturali, sembra convergere in un punto. Sorge lo spontaneo dubbio che ancora una volta il problema non sia Pompei ma i 105 mln dell’UE, per i quali sarebbe in corso uno scontro di potere. Certo sommerso ma senza esclusione di colpi e dove si fronteggiano politica, impresa, clientelismi, allegre cordate e su cui pesa anche l’ombra della criminalità organizzata.
Forse in questa luce si spiegano le titubanze, le pressioni, i minuetti istituzionali e i vestalici furoridi questi giorni intorno alla nomina di un direttore per Pompei, che si troverà a dover fare in fretta e a rivedere profondamente il piano stilato due anni fa, già allora inadeguato.
La situazione, si è cercato di spiegare, è assai complessa: Antonio Gramsci, fondatore di questo giornale, ripeteva che a dare la testa contro il muro si rompe la testa e non il muro. Per ora a Pompei i muri continuano a crollare, fenomeno da non sottovalutare: oltre al muro anche la testa può rompersi. Chiedere conferma all’ex ministro per i Beni Culturali Sandro Bondi.

Sintetica recensione di un episodio tipico de"patrimonio all'Italiana", puntualmente raccontato da Stefano Boato nel recente libretto della collana "Occhi aperti su Venezia" Corte del Fòntego editore. Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2013

Se con una singola storia volessi raccontare la deriva dell’Italia di oggi a un marziano, forse non ne troverei una migliore di quella, pazzesca, della torre-che-non-c’è, quella che l’anziano stilista trevigiano Pietro Cardin (famoso a Parigi come Pierre) avrebbe voluto conficcare ai bordi della Laguna di Venezia. Sarebbe stato l’edificio più alto d’Italia (250 metri), e avrebbe modificato per sempre l’immagine, e probabilmente anche il destino, della città più fragile e affascinante del mondo: ma dopo aver seminato panico, entusiasmo e polemiche il fantasma della torre si è dissolto, rivelandosi un bluff non meno colossale.

Ora Stefano Boato, professore di Urbanistica allo Iuav, ripercorre puntualmente la vicenda in un utile libretto (“Giù dalla torre”) appena uscito nella collana “Occhi aperti su Venezia”, pubblicata da Corte del Fontego, che è un vero presidio civico. Nella primavera del 2012 la Torre catalizza le Larghe Intese anche in Laguna, riuscendo a essere dichiarata di interesse pubblico sia dalla Regione Veneto (Lega) sia dal Comune (Pd): senza un piano finanziario, senza che le aree siano proprietà di Cardin. A luglio arriva il parere negativo dell’Enac: il birillo è così alto da mettere in serio pericolo i voli del Marco Polo. Ma solo a novembre una enorme pressione politica indurrà l’ente a rimangiarsi il no, e a dare luce verde. Si oppone strenuamente Italia Nostra, Vittorio Gregotti definisce la torre “un’enorme porcata", Franco Miracco la martella dai giornali veneti, Settis la affonda su Repubblica e anche il Fatto fa la sua parte.Un anno fa il Mibac fa notare che un vincolo impedisce di costruire la Torre: ma il sindaco Orsoni minaccia di impugnarlo (e ci sarebbe mancato solo questo!).

Ma i colpi di scena non sono finiti: quello decisivo arriva dallo stesso Cardin, che dopo aver fatto capire che avrebbe sborsato due miliardi e mezzo di euro senza rivolgersi alle banche, a dicembre non riesce a trovare nemmeno 20 milioni per comprare i terreni. Sipario: fine ingloriosa della sceneggiata. E la liberazione dalla Torre-che-non-c’è ha una morale positiva, nelle parole di Boato: “Possiamo riprendere il filo, promuovere nuovi valori e disegni urbani realmente compatibili con il contesto e vivibili”. È l’unica possibilità: o sarà Venezia a non esserci più.

Riferimenti

Numerosi articoli raccolti su eddyburg sull'argomento, li trovate digitando, nell'apposita finestra in cima a ogni pagina, le parole "Torre Cardin", oppure cercando nella cartella "Venezia e la Laguna". Leggete in particolare l'articolo Stop alla torre Cardin e la relativa postilla

Arnaldo (Bibo) Cecchini
Perché abbiamo ritenuto giusto collaborare con la Giunta Cappellacci
ma oggi siamo contrari al loro PPS

Caro Eddy,

Rispondo alla tua lettera aperta del 7 novembre scorso. Credo, anzi so, di essere uno dei tuoi “ottimi e stimatissimi amici” e sono sempre stato e sono stato un amico di eddyburg che consiglio sempre ai miei studenti come un punto di riferimento irrinunciabile. Ricorderai che lo presentammo ad Alghero ai suoi albori.

Mi fa piacere discutere con te, come abbiamo fatto in tanti anni, trovandoci spesso d’accordo e sempre facendo delle nostre discussioni, occasionalmente anche aspre, un’occasione di crescita e di apprendimento. Ricordo la più ardua, durante la guerra del Kosovo che ci ha visto in dissenso, in due gruppi con posizioni diverse allo IUAV. O la discussione sulla bozza di riforma Martinotti su cui invece eravamo d’accordo. O il fatto che ci siamo alternati come pro-rettori responsabili delle nuove tecnologie allo IUAV, con una grande consonanza di visione. Insomma, oltre ad aver appreso da te e da Indovina il poco che so di urbanistica, sono lieto di essere tuo amico.

Ciò premesso, come hai visto ho, abbiamo noi tutti e quindici, già risposto alla seconda domanda: sono contrario al cosiddetto PPS proposto dalla Giunta regionale in carica, e farò quel che posso per evitare che venga approvato.

La prima, più che una domanda, è una rilevante questione.

Come forse ricorderai sin da “bambino” non credevo alla neutralità della scienza (sono laureato in Fisica e il mio primo scritto si intitolava “Un mitra è una mitra e la meccanica quantistica è la meccanica quantistica”, un samizdat che ha circolato molto a Preganziol, prima che tu arrivassi). Posso non dilungarmi su quel che so, sappiamo, essere ovvio? Vengo alla questione.

I dirigenti dell’Assessorato all’Urbanistica della Regione Sardegna ci hanno chiesto (non so a chi altro, ad esempio non sapevo che avessero chiesto anche a te) se potevamo essere interessati a condurre un processo teso a presentare e a discutere con tutti gli attori sociali, economici e istituzionali il PPR della Sardegna (quello che tu hai, con altri tra cui il nostro Preside di allora Vanni Maciocco, pensato ed elaborato), a evidenziarne possibili criticità, a indicare modalità di coinvolgimento degli attori pubblici locali (Comuni e Province) nella sua applicazione e nella costruzione di progettualità.

Io non ero allora Preside, ma dirigevo un laboratorio che si occupa (anche) di partecipazione (so che abbiamo una grande consonanza su questo, dall’epoca in cui abbiamo seguito delle Tesi di Laurea insieme sull’argomento) e la richiesta è pervenuta all’amica e collega Alessandra Casu, che tu conosci bene e sulla cui serietà, rettitudine, onestà e rigore non è permesso a nessuna persona perbene di dubitare; Alessandra ha assunto la direzione del processo.

Posso pensare che una delle ragioni della richiesta fosse che avevamo condotto un processo di condivisione e di conoscenza del PPR per decine di amministratori, funzionari e tecnici, un’attività di formazione voluta dalla Giunta Soru, chiamato ITACA e il cui laboratorio finale, svoltosi a Barcelona aveva come titolo Nuove Idee per la Sardegna: quel laboratorio era stato ideato e guidato da me, dalla collega Casu e dal collega Plaisant,.

Abbiamo deciso di manifestare il nostro interesse perché l’obiettivo dichiarato era quello che ho descritto e perché noi siamo un’istituzione che ha il dovere di cooperare - in piena autonomia e con rigore scientifico e trasparenza - con altre istituzioni pubbliche (succedeva allo IUAV ad esempio con la Regione Veneto).

Il processo è stato condotto con grande rigore (anche se i tempi previsti sono stati tagliati) e con la massima trasparenza: Alessandra potrà darti i dettagli, in un suo intervento nel merito del processo cui io ho partecipato pochissimo.

Le conclusioni erano, e non era scontato (come sai il Presidente Soru per cui ho votato due volte, è stato impallinato dai “suoi” in Consiglio Regionale, fatto che ha portato alle seconde elezioni, quelle perse), di difesa del PPR, con pochi e circostanziati suggerimenti, molto ragionevoli; ne cito alcuni: attenzione a costruire rapporti definiti fra i vari livelli istituzionali, formazione del personale e dei tecnici – come era stato nel grande progetto ITACA – sostegno alla pianificazione e alla progettazione dei Comuni (io li ho chiamati gli “urbanisti dei piedi scalzi”), estensione del Piano alle zone interne linee-guida chiare e usabili.

Tu dirai: “ma siete così ingenui da pensare che, nonostante un lavoro serio e ben fatto, Cappellacci non ne avrebbe approfittato per strumentalizzarlo e manipolarlo?”. La risposta è no, non sono ingenuo. Ma – in ogni occasione – abbiamo chiarito, precisato e argomentato; alcuni pensano persino che – proprio perché il lavoro era serio e non manipolabile – sia stato per molto tempo un argine contro lo stravolgimento del PPR.

Non credo che il nostro lavoro di urbanisti sia neutrale (come dice il comune amico Indovina: l’urbanistica è “scelta politica tecnicamente assistita”), credo che si possa farlo con onestà e chiarezza, credo che non sia opportuno - se non in casi estremi – rifiutare la collaborazione tra istituzioni, all’unica condizione di perseguire l’interesse pubblico con chiarezza e onestà.

Spero di aver chiarito la nostra posizione. Mi fermo qui. Grazie dell’opportunità. Un abbraccio.

P.S.
Una nota metodologica. Il mio costume è, quando scrivo un articolo o rilascio un’intervista ai media online che consentono commenti, di non commentare i commenti. C’è uno statuto diverso tra queste due modalità di intervento, per questo non mi permetto di commentare mai su un mio “pezzo”, se non sul mio personale blog, che – essendo casa mia – governo io. Continuerò così.

Eoardo Salzano
Ti ringrazio, ma il lavoro non è finito qui

Caro Bibo,

prendo atto con piacere della tua (della vostra) opposizione al piano paesaggistico di Cappellacci. Sono particolarmente lieto che la discussione si sia allontanata dal terreno dei riferimenti personali e sia andati al merito delle cose. Ti sono grato della tua ricostruzione dei fatti che – certamente per mia colpa – conoscevo solo in piccola parte. Mantengo peraltro forti dubbi sull’opportunità di collaborazioni tra istituzioni che aderiscono a convinzioni, principi e interessi (diciamo ideologie? non attribuisco alcun significato negativo a questo termine) molto distanti tra loro.

Mi domando: se hai determinati principi e anteponi alcuni interessi su altri, ha senso collaborare con chi esprime principi e serve interessi alternativi ai tuoi, anche se lo fai solo per ridurre il danno di scelte che giudichi sbagliate? Anche se agisci come istituzione pubblica collaborando con un’altra istituzione anch’essa pubblica? Non conta tanto il colore politico, quanto l’atteggiamento di quella istituzione nei confronti del tema del quale sei “esperto”.

Non è una posizione di principio, la mia. Anzi, in linea di principio credo che la collaborazione tra le istituzioni pubbliche sia del tutto opportuna, e anzi necessaria, sia pure con le garanzie necessarie quando si tratta di “poteri” diversamente incardinati. Ma oggi, in Italia, con queste istituzioni permeate da questi poteri? Con questa disparità di condizioni tra quelle infeudate al mondo degli affari e colonizzate dal finanzcapitalismo e quelle cui afferiscono gli intellettuali?

La mia è una posizione che si riferisce all’attuale contesto storico e geografico, e in particolare alla disparità di condizioni tra chi esercita il potere reale (anche attraverso le istituzioni) e il mondo (e le istituzioni) degli intellettuali.

Mi sembra che l’intervento di Marcello Madau, in commento al mio del 7 novembre scorso, ponga la questione in termini molto interessanti. Gli chiederò di affrontare l’argomento in un articolo per eddyburg. sul quale mi piacerebbe che il dibattito si allargasse, e che tu stesso intervenissi di nuovo. Come ti ho scritto sono convinto come Zagrebelsky, che la verità esista e che perciò valga la pena di cercarla, ma so anche che questo lavoro può avere successo solo se è collettivo ed è il risultato di un dialogo a molte voci.

Passando a un altro più specifico argomento mi interessano molto i suggerimenti che, come scrivi, avete dato nel corso del vostro lavoro in merito all’implementazione del Piano di Soru. Se fossi più vispo ti proporrei di organizzare ad Alghero una discussione critica su quel piano e sui suoi limiti, magari a partire dal libro che ho curato (Lezioni di piano: se l’hai letto sai che con questo titolo non si intendeva attribuire la denominazione di “lezione” al mio intervento né al PPR in sé, ma agli insegnamenti che dal suo percorso potevano trarsi). Sono del parere che su quel piano si sia ragionato poco, negli ambiti della cultura specialistica, e che questo non sia un bene.

Per quanto riguarda il PPS di Cappellacci spero che non ci sia bisogno di nostre iniziative, visti l’atteggiamento, per ora fermo, del Mibac e la quantità di magagne formali del tentativo della Regione di cancellare goffamente le tutele. Devo dire che mi sembra un segno non bello dei nostri tempi il fatto che ci si debba così spesso affidare alla magistratura, solo perché la cultura e la politica tacciono. Se invece le cose cambieranno e il tentativo di Cappellacci dovesse guadagnare terreno e riterrò necessaria una iniziativa pubblica da parte degli intellettuali e dei cittadini, ti (vi) chiederò di aderire in ambedue i ruoli.

Un abbraccio, a te e ad Alessandra
eddy

Basterebbe questo per fermare il mostro. Ma c'è altro, più consistente che StopOr_Me da tempo denuncia. Il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2013

Il ministro Lupi sblocca l’autostrada Orte-Venezia che vale 10 miliardi: i lavori andranno all’azienda di Vito Bonsignore, ex UDC protagonista di Tangentopoli E poi dicono che questo governo vive alla giornata, incapace di scelte incisive. La riprova di quanto sia fuorviante una convinzione del genere è data dal via libera all'autostrada Orte-Mestre da parte del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica). Un progetto che sembrava esaurito per auto-consunzione, eroso dalla crisi e dalla mancanza di soldi, e che a sorpresa, invece, viene riportato all'onor del mondo nonostante i costi proibitivi. Con un'invidiabile dose di ottimismo dicono che i lavori partiranno tra due anni e saranno completati nel 2021. C'è da dubitarne parecchio, visto l'andazzo italiano.

Alcune cose, invece, appaiono sicure: quei 380 chilometri di asfalto in 5 regioni (Lazio, Umbria, Toscana, Emilia e Veneto) costeranno quasi 10 miliardi di euro, 4 in più di quelli preventivati per il fu Ponte sullo Stretto. L'altra sicurezza è che, nonostante la promessa che tutto sarà pagato dai privati con il project financing, alla fine dalle casse statali uscirà invece una cifra di uguale entità a favore dei realizzatori, un debito che peserà sui conti per almeno un quindicennio. La terza sicurezza è che i cittadini-automobilisti fino ad ora abituati a viaggiare gratis su quel tragitto, dovranno contribuire con il pagamento di pedaggi autostradali che per circa mezzo secolo finiranno nelle casse della società concessionaria dell'opera.

La quarta certezza è che si tratta di un affare destinato a finire in bocca a Vito Bonsignore, il finanziere-costruttore-politico che per primo ha presentato un progetto assicurandosi un preziosissimo diritto di prelazione che varrà oro al momento della gara europea per la scelta dell'azienda che dovrà realizzare l'opera. La gara sarà indetta tenendo come punto di riferimento proprio la proposta Bonsignore e nel caso in cui qualcuno riuscisse ad offrire condizioni migliori, lo stesso Bonsignore avrà diritto all'ultima parola.

Bonsignore è uno dei protagonisti della Tangentopoli di vent'anni fa e vanta una sfilza di procedimenti giudiziari lunga mezza pagina, condannato in via definitiva a 2 anni per corruzione e turbativa d'asta, presente nella lista dei cittadini italiani esportatori di capitali in Liechtenstein, fondatore dell'Udc, tuttora vice presidente del Partito Popolare al Parlamento europeo. L'ultima certezza è che il ripescaggio della mega opera avviene con ministro delle Infrastrutture uno dei politici più vicini a Bonsignore, il ciellino Maurizio Lupi, ovviamente desideroso di legare il suo nome ad un'opera destinata a restare nella storia d'Italia (sempre che alla fine si faccia). Tutto ciò dimostra che a dispetto delle dicerie, il governo delle larghe intese è vivo e vegeto e molto reattivo quando si tratta di affari con nove zeri.

La storia dell'autostrada Orte-Mestre comincia 12 anni fa, lo stesso giorno in cui il governo Berlusconi approva la famosa legge Obiettivo, quella che avrebbe dovuto far sbocciare il “nuovo Rinascimento italiano” assicurando pure un periodo di splendore ai costruttori, soprattutto i 13 maggiori riuniti nell'Agi. Come è andata a finire lo sanno tutti: di grandi opere nemmeno l'ombra, l'edilizia agonizza e proprio alcuni mesi fa una bella fetta di costruttori piccoli e medi ha abbandonato l'Ance e la Confindustria proprio in polemica con la legge Obiettivo. L'Orte-Mestre fu inserita nell'elenco degli “interventi strategici” e nella tacita spartizione dei pani e dei pesci, Bonsignore si fece avanti con una proposta e un progetto. L'iniziativa poi sembrava si fosse arenata perché lo Stato non trovava i quasi 2 miliardi iniziali necessari per passare dalle intenzioni ai primi passi concreti. Quei quattrini sono spuntati questa estate con un sistema molto complesso, sulla cui correttezza e linearità si sa già che alla fine dovrà pronunciarsi la Corte dei Conti. I quattrini sono stati promessi ai futuri realizzatori (leggi Bonsignore) con un abbuono di circa 2 miliardi di euro sulle tasse delle imprese (Ires e Irap) valido per 15-20 anni. Il periodo ritenuto necessario per completare i lavori e avviare la gestione. Nel frattempo quei quattrini Bonsignore se li farà anticipare cash dalle banche e quindi su di essi graveranno fior di interessi che lo Stato dovrà via via coprire.

postilla

Il giornale fuori dal coro ricorda alcune delle nefandezze di cui è intrisa la storia della Mestre-Orte: quelle più immediatamente suscettibili d'attenzione da parte dell'opinione pubblica. Altre conseguenze negative, ben più rilevanti e durevoli nei minacciati effetti sono state raccolte e divulgate dalla rete interregionale di comitati e associazioni NO OrMe. Vedi tra l'altro su eddyburg il reportage di Luca Martinelli daAltraEconomia.

Il manifesto, 10 novembre 2013

Il ministero per i beni culturali (Mibac) va verso l'impugnazione del piano del paesaggio con il quale la giunta sarda di centrodestra vorrebbe demolire la legislazione approvata nel 2006 dal governo regionale guidato da Renato Soru. Con una lettera pubblicata l'altro ieri sul quotidiano La Stampa il sottosegretario ai beni culturali, Ilaria Borletti Buitoni, ha invitato il presidente Ugo Cappellacci (Pdl) a sospendere la delibera approvata nei giorni scorsi dal consiglio regionale. In caso contrario, sarebbe inevitabile un doppio ricorso del governo Letta contro la giunta sarda: uno alla Corte costituzionale e un altro, amministrativo, davanti al Tar.

«Il presidente della regione Cappellacci - scrive Borletti Buitoni nella lettera - ha dichiarato guerra alla soprintendenza ai beni culturali della Sardegna e sta rapidamente consegnando l'isola a una visione che prevede un aumento gigantesco e capillare di costruzioni, visione di cui si vedono già i primi effetti. La scusa di chi sostiene questo progetto è sempre la solita: con la gravissima crisi economica, che in particolare in Sardegna sta uccidendo l'economia, non si può certo rinunciare all'opportunità di uno sviluppo almeno nel settore dell'edilizia. Dissento da questa affermazione, perché è ben vero il temporaneo sollievo che la riattivazione dell'industria delle costruzioni può portare alla disoccupazione tragica dell'isola, ma è altrettanto vero che, sulla media e lunga distanza, la distruzione del paesaggio toglierebbe alla Sardegna la sua eccezionalità, che, se valorizzata, sarebbe un volano di sviluppo a lungo termine. I ricchi russi, che pure decapitano senza problemi una collina per costruire in patria la propria casa, non ci metteranno nulla a transumare altrove quando in Sardegna si troveranno intorno non più un mare circondato da una natura incontaminata ma coste devastate dal cemento. E allora rimarrebbe solo la disperazione di aver consegnato luoghi unici a un modello di sviluppo sbagliato e poco lungimirante, che invece di portare benessere ha portato alla perdita di un patrimonio collettivo unico al mondo».

Alla lettera del sottosegretario ha replicato il capogruppo Pdl in consiglio regionale, Pietro Pittalis, con parole che, oltre a essere una perla di «pensiero berlusconiano», denunciano insieme il nervosismo della giunta di centrodestra e la debolezza della sua posizione in termini strettamente giuridici: «Sono stanco delle lezioncine di baronetti radical chic difensori dell'ambientalismo ipocrita. Invitiamo il sottosegretario Borletti Buitoni ad abbandonare un atteggiamento supponente e prevenuto, incompatibile con il ruolo che riveste. La invitiamo a cessare i suoi aristocratici modi sprezzanti verso chi, al contrario di lei, è stato eletto dal popolo». Facile, per Borletti Buitoni, replicare - questa volta non con una lettera ma con una nota ufficiale del Mibac - ricordando a Pittalis e a Cappellacci che essere eletti dal popolo non autorizza nessuno a violare le leggi, nel caso specifico il Codice dei beni culturali e la Costituzione. Per il sottosegretario una sospensiva del nuovo piano del paesaggio voluto dal centrodestra è necessaria «anche per evitare la coesistenza di due norme, il piano paesaggistico regionale del 2006 e quello attuale, dissonanti tra loro». «Inoltre - argomenta nella nota l'esponente del governo - se è vero che la Regione Sardegna gode di autonomia sulla procedura di redazione del piano, più sentenze della Corte costituzionale hanno dichiarato illegittime norme regionali che si ponevano in contrasto con disposizioni previste dal Codice dei beni culturali, a partire dall'articolo 135, che al comma 1 dispone che la pianificazione paesaggistica sia effettuata congiuntamente tra ministero e regioni». «Al contrario del presidente Cappellacci - conclude la nota del sottosegretario - io non sono in campagna elettorale e dunque mi è più facile guardare ai problemi dal punto di vista amministrativo e generale, dal punto di vista del bene comune inteso come cosa pubblica. Al netto delle fantasiose definizioni che sono state usate nei miei confronti, il vero punto in discussione sono i poteri dello stato e il loro interno equilibrio».

Applaudita dalle due ali del partito larghe intese, una delle più devastanti Grandi opere, tra le moltissime che si programmano e realizzano nell’Italia berlusconista, finanziandole coi debiti dei nostri posteri e con tagli sulla pelle degli abitanti, a partire dalle fasce più deboli. La Nuova Venezia, 9 novembre 2013

VENEZIA La prima applicazione della defiscalizzazione su un investimento infrastrutturale porta al Veneto un passo decisivo verso la realizzazione dell’autostrada Orte-Mestre e, con questa, della Nuova Romea. Ieri, grazie alla sostituzione del previsto contributo pubblico da 1,8 miliardi con una cifra equivalente di riduzioni fiscali (Ires, Irap e Iva) che la società concessionaria dovrà pagare dopo l’avvio della gestione, il Cipe ha dato il via libera (con prescrizioni) al progetto preliminare di nuovo corridoio autostradale (396 chilometri) Nord-Sud in grado di collegare Mestre a Orte.

Un’opera da 9,8 miliardi che sarà realizzata interamente in project financing. Il promotore è la cordata guidata dalla Gefip Holding del gruppo Bonsignore, proposta riconosciuta di pubblico interesse nel lontano 2003 e poi via via modificata. Il nuovo preliminare aggiornato, con relativo piano finanziario, dovrà andare in gara, con la possibilità per altri soggetti privati di aggiudicarsi la concessione (49 anni) migliorando le condizioni a base d’asta. Ora, dopo l’approvazione da parte della Corte dei conti, ci sarà un bando internazionale pubblico entro aprile 2014 e in fine «nel primo trimestre 2015 dovrà essere posta la prima pietra» ha detto ieri il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. «La Nuova Romea, che collegherà Mestre a Ravenna fornendo una dorsale strategica al collegamento tra il Veneto e il Sud Italia e tra questo è l’Europa centrale e dell’Est, sarà pronta entro il 2021. Io ci conto, il Veneto ci conta» sottolinea l’assessore regionale alle Politiche della mobilità Renato Chisso, che ieri ha partecipato alla riunione del Cipe. Il Comitato ha stabilito che l’opera dovrà essere realizzata entro il 2021, anche se ha consentito che alcune tratte possano essere realizzate e messe a pedaggio anche prima, per cominciare a produrre flussi di cassa. Probabile che si cominci dalla Nuova Romea e dalla Orte-Perugia, lasciando invece per ultima la tratta più complessa, costosa e meno trafficata, l’attraversamento appenninico Perugia-Cesena. «Il via libera» ha detto il governatore Luca Zaia «dà una ulteriore accelerazione al completamento del programma di ammodernamento infrastrutturale del nostro territorio. «Oltre alle opere programmate, però, quello che ci serve per il futuro non è ulteriore asfalto ma più sicurezza del territorio dal punto di vista idrogeologico».
Ancora non è stato sciolto il nodo relativo alla partenza (o arrivo) della nuova autostrada la cui definizione è rinviata alla progettazione definitiva. Si tratta del tracciato da Lughetto, nel comune di Campagna Lupia, alla connessione con il sistema autostradale. Due le ipotesi: l’ingresso a Roncoduro, sul Passante, o l’inserimento in A4 con uno svincolo a Villabona, in connessione con la Tangenziale di Mestre. Nell’arco di 15 giorni, inoltre, dovrebbero esserci novità anche per la Nogara-Mare, altro project financing, attesa dal via in giunta regionale. Rimane aperta l’ipotesi defiscalizzazione: il costo (2 miliardi) la fa ricadere nell’ambito dell’applicabilità della norma in questione e questo consentirebbe alla Regione di risparmiare i 50 milioni di contributo pubblico previsti.

L'Unità, 9 novembre 2013Il dramma di Pompei rischia, come spesso accade in Italia, di trasformarsi in commedia e peggio. Ci sono i mezzi finanziari provenienti dall’Europa, ma se ne vogliono convogliare altri, privati, italiani e stranieri, e per questo si ritiene che la persona più adatta a gestire questa cornucopia non sia un archeologo pur dotato di competenze gestionali (ve ne sono), ma un manager. Come l’ambasciatore Giuseppe Scognamiglio, già consigliere diplomatico di Enrico Letta al tempo in cui era ministro, ed ora vice-presidente di Unicredit. Questa sarebbe la posizione del presidente Letta. Il ministro dei beni culturali, Massimo Bray non pare convinto, teme che un ambasciatore senza competenze specifiche possa non fare decollare il Grande Progetto Pompei previsto dal peraltro discusso decreto Valore e Cultura.

E’ intervenuto Salvatore Settis archeologo e, fra le altre cose, direttore per anni del Getty Research Institute, a perorare la nomina di un archeologo che abbia cultura gestionale. Il Mattino di Napoli ha messo in campo adeguate artiglierie per smantellare la tesi di Settis e sostenere invece la necessità assoluta di nominare subito un manager alla Scognamiglio. Pochi ricordano ormai che la Soprintendenza speciale di Pompei fu creata, assieme a quella di Roma, anni fa (ministro dei Bc, Walter Veltroni) con un soprintendente archeologo e un city manager. La diarchia non ha funzionato, anche perché, dopo una certa data, si sono nominati generali dei carabinieri (più utili se applicati alla lotta alla camorra che controlla la zona, Pompei inclusa) o addirittura commissari di nessuna cultura archeologica (tantomeno pompeiana) sulla base di una “emergenza” proclamata dalla Protezione civile di Bertolaso e poi seccamente negata dalla Corte dei conti. Quest’ultima, esaminati i documenti dell’«emergenza» soltanto alla scadenza del mandato di Marcello Fiori, ha emesso un giudizio «postumo» dei più negativi. L’intera gestione commissariale tra il 2008 e il 2010, ha scritto infatti la Corte, «non sembra rispondere all’esigenza di tutelare l’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dai danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi o da altri grandi eventi, che determinino situazioni di grave rischio». Somme ingenti finirono in un “restauro” raggelante del teatro romano, un tempo di tufo e marmo, ora di cemento, altre in musei virtuali, in piste ciclabili e via pedalando fra le rovine.

Rovine bisognose di attenzioni specialissime – come Stabia ed Ercolano – perché le “insulae” e i mosaici, gli affreschi contenuti nella varie dimore sono stati per un paio di millenni sotto una coltre di pomice senza conoscere quindi le mutazioni e le avversità climatiche. A differenza dell’archeologia in parte interrata, in parte no, di aree archeologiche paragonabili per vastità (Ostia Antica, per esempio). Molto, troppo forse si è scavato a Pompei anche perché la camorra scoprì decenni fa il business della pomice. Inoltre negli anni 50 si sono operati “restauri” con materiali cementizi che hanno peggiorato lo stato complessivo di conservazione dei manufatti, soprattutto davanti all’intensificarsi di piogge improvvise e violentissime. Ad imporsi oggi non è tanto un discorso di quantità, di provvista finanziaria, quanto di qualità tecnico-scientifica degli interventi, della loro programmazione, delle priorità da stabilire. Cosa c’entra un manager, di buona cultura bancaria, con tutto ciò? Nella vicina Ercolano le cose vanno assai meglio che a Pompei perché il flusso regolare dei finanziamenti è stato assicurato da un mecenate americano che non vuole “ritorni” pubblicitari e il piano dei lavori è stato definito e attuato dalla Soprintendenza. O no? E a Roma stessa, schivato il rischio di Bertolaso commissario, i lavori non sono andati a buon fine con Proietti e con Cecchi, due tecnici?

Ma i sostenitori della managerialità (gli stessi che parlano del “nostro petrolio”) non si rassegnano facilmente. Hanno applaudito l’arrivo al Collegio romano di un manager, Mario Resca, il quale veniva da aziende importanti nel loro ramo: McDonalds’, il Casino di Campione, o Finbieticola. Doveva “valorizzare” i beni culturali nazionali. Ha combinato qualcosa? A guardare le pubblicità “valorizzatrici” che ci sollecitavano a correre a vedere il Colosseo o il Cenacolo di Leonardo prima che ce li portassero via, pare proprio di no. Per non parlare del rinnovo delle concessioni dei servizi aggiuntivi dove le convenzioni approntate da Resca sono state mitragliate di ricorsi al Tar e giacciono al suolo inanimate (e prorogate). Se questi sono i manager della cultura, aridàtece er Soprintendente. Che sia bravo, certo. E che abbia gli strumenti per snellire le operazioni programmate con rigore scientifico oltre che finanziario.

L'ennesimo scontro globale locale sull'insediamento della grande distribuzione, letto come misera baruffa di interessi di bottega, e probabilmente percepito come tale anche dai protagonisti. Corriere della Sera, 9 novembre 2013

«Non fateci chiudere». Battaglia tra la Confcommercio milanese e l’Ikea sull’insediamento di un nuovo centro commerciale a Rescaldina, a 30 chilometri da Milano e a 5 da Legnano: 74 mila metri quadrati di cui 22 mila destinati ad ospitare mobili e arredamenti della ditta scandinava e gli altri 52 mila finalizzati a realizzare una galleria che offrirà differenti merceologie. I negozianti: overdose di centri commerciali. Possiamo già chiamarla la battaglia di Rescaldina perché il conflitto che si è aperto tra la Confcommercio milanese e l’Ikea è di quelli destinati a segnare quantomeno una stagione. La querelle verte sull’insediamento di un nuovo centro commerciale nel comune di Rescaldina a 30 chilometri da Milano e a 5 da Legnano. Si parla di 74 mila metri quadrati di cui 22 mila destinati a ospitare mobili e arredamenti della ditta scandinava e gli altri 52 mila finalizzati a realizzare una galleria commerciale che offrirà differenti merceologie. È il nuovo format dell’Ikea che ha visto una prima realizzazione a Villesse, in provincia di Gorizia e a ridosso della autostrada A4 e ora sbarca nell’Alto Milanese per poi puntare su Brescia. Rischiando di creare però quella che i commercianti denunciano come «un’overdose di centri commerciali» perché sull’asse Rho-Gallarate ne esistono già 13 oltre a un altro centro shopping sempre nel territorio di Rescaldina che occupa 46 mila metri quadri.

La contestazione dei progetti svedesi è iniziata ieri con un’assemblea di un centinaio di commercianti a Legnano e con la presenza di un paio di sindaci della zona, assessori e consiglieri regionali. Ma siamo solo all’inizio, da qui alla fine di novembre ne sono previste altre due a Saronno e Gallarate sempre con la regia dell’associazione che fa capo a Carlo Sangalli. Oltre ai danni che il centro Ikea provocherebbe per il tessuto dei dettaglianti costretti a chiudere i battenti, nel corso dell’assemblea è stato denunciato «un consumo di suolo di ulteriori 280 mila metri quadrati sottratti al verde e all’agricoltura in un’area già fortemente urbanizzata». La Confcommercio contesta anche i dati sull’occupazione, secondo il suo ufficio studi per 840 nuovi posti di lavoro creati con l’insediamento Ikea se ne distruggerebbero 1.085 nelle piccole imprese della zona e quindi il saldo sarebbe negativo.

La battaglia di Rescaldina scoppia in una congiuntura drammatica per il settore del commercio, la contrazione dei consumi ha messo in gravissima difficoltà i piccoli esercenti ma ha creato problemi anche ai centri commerciali. Non è un caso che le nuove aperture siano quasi esclusivamente da parte di operatori specializzati come Ikea, Decathlon o LeroyMerlin mentre i punti vendita generalisti soffrono e non pensano certo di espandersi. Se a Rescaldina si pensa di varare una nuova galleria commerciale lo si fa solo in virtù del traino Ikea perché altrimenti non avrebbe speranze di audience. Il tempo dello sviluppo esagerato dei centri commerciali in realtà è già terminato, il consumatore privilegia gli acquisti frazionati e non più la «spesona» e ovviamente questa tendenza al ribasso colpisce in primo luogo gli ipermercati. È vero poi che in Lombardia la grande distribuzione è cresciuta più che in altre regioni (ha una quota di mercato attorno al 70%) e l’orientamento programmatico della giunta regionale di centrodestra è considerato nettamente a favore dei Piccoli.

L’Ikea per ora non ha intenzione di replicare direttamente, ha affidato all’università di Castellanza uno studio sull’impatto del nuovo insediamento e quindi si appresta a una battaglia a colpi di slide e che non potrà non avere risvolti politici. Si sa che l’investimento sarà di 250 milioni di euro e che gli 840 saranno i soli posti di lavoro diretti ai quali va aggiunto il potenziale indotto. L’operazione non sarà tutte sulle spalle degli svedesi ma sono previsti dei partner immobiliari che si suddivideranno, ad esempio, i costi di realizzazione di nuove infrastrutture di viabilità stimati in 25 milioni. Per andare avanti sarà necessario però quello che in gergo si chiama un accordo di programma che dovrebbe prevedere le varianti urbanistiche, la licenza di vendita e l’assetto della nuova viabilità e alla fine richiederebbe le firme dei sindaci dei due comuni coinvolti (Rescaldina e Cerro Maggiore), della Regione e della Provincia di Milano. Se tutto dovesse filare liscio questo documento potrebbe vedere al luce non prima della primavera 2015 mentre per l’inaugurazione del centro bisognerebbe comunque attendere il 2018. Come si può arguire dalle date l’investimento guarda lontano ed è considerato strategico dai manager Ikea. Ma mentre sul fronte dei commercianti trapela come ipotesi di mediazione un ridimensionamento del progetto (solo il magazzino Ikea e niente galleria commerciale), l’azienda scandinava non sembra disposta a esaminare subordinate. O tutto o niente, ma siamo solo alla prima puntata.

eddyburg. Una informazione e un paio di domande in una lettera aperta

Su eddyburg si è aperto un vivace dibattito non tanto sul nuovo “piano paesaggistico dei sardi” della giunta Cappellacci quanto sul fatto che un gruppo di docenti e ricercatori della Facoltà di architettura di Alghero, alcuni dei quali miei ottimi e stimatissimi amici, abbiano partecipato all’iniziativa, denominata “Sardegna nuove idee”, avviata dalla giunta Cappellacci nel giugno 2011. La discussione è nata in occasione della pubblicazione su eddyburg di due articoli di Sandro Roggio, nei quali si criticava il fatto che quel gruppo di esperti avesse accettato di contribuire all’iniziativa dell’attuale presidente della Regione. Gli esperti si sono sentiti offesi dalle parole di Roggio, hanno chiesto spiegazioni, Roggio le ha date come ha creduto necessario e il dibattito è proseguito. Chi volesse seguirlo può andare in fondo agli articoli di Roggio e Alfredo Franchini pubblicati sulla Nuova Sardegna il 27 settembre scorso, cui ho dato il titolo “il Pinocchio dei sardi fa ancora il misterioso”. Chi è interessato all’argomento veda anche i commenti agli articoli di Marcello Madau e Costantino Cossu, sul manifesto del settembre, raccolti su eddyburg col titolo "Sardegna tra cemento e buche ”. Intervengo sull’argomento non solo per segnalare la discussione aperta (in un luogo, ahimè, un po’ nascosto). Non intervengo qui nel merito di quel dibattito ma per fornire un’informazione e per porre agli amici di Alghero due domande.

L’informazione


Anche a me l’amministrazione regionale aveva chiesto di partecipare all’iniziativa “Sardegna nuove idee”, ma avevo rifiutato per due ragioni tra loro strettamente legate. Perché avevo collaborato alla redazione del piano paesaggistico della Giunta Soru, ancora vigente dal 2006, condividendone in pieno l’ispirazione culturale e politica, le motivazioni, e la massima parte delle scelte di merito (chi fosse interessato ad approfondire le ragioni della mia scelta e le mie posizioni di merito può leggere al mio antico scritto “La filosofia del Piano" del 2006, oppure al libro collettaneo Lezione di piano, ( 2013, Corte del fçntego editore)). L’altra e conseguente ragione era che ero nettamente contrario alle scelte della Giunta Cappellacci (in merito alla società, alla cultura, all’economia, alla politica in Italia e in Sardegna). L’aver vissuto per quasi mezzo secolo la politica dei partiti e quella della società civile, come quella delle istituzioni culturali mi ha certamente aiutato a comprendere che quell’invito, e quella iniziativa, altro non erano che il tentativo di coprire sotto il manto del consenso culturale una operazione di ulteriore devastazione fisica, sociale, culturale e morale della Sardegna. Del resto, quelle della Giunta Cappellacci non erano stare solo dichiarazioni elettoralistiche, cattive intenzioni che saggi consiglieri potevano sperare di correggere. Nella realtà la maggioranza guidata da Cappellacci aveva cominciato a cancellare subito le tutele del PPS di Soru con le leggi per i campi da golf (2009) e per il “piano casa” (2011), entrambi pesantemente derogatori del PPR. Non dubito che dalle discussioni che si sono sviste attorno ai tavoli del progetto “Nuove idee per la Sardegna siano venuti contributi scientifici interessanti. Ma per me, come per Leonardo Benevolo “l’urbanistica è una parte della politica” credo fermamente nella inscindibilità delle tre componenti della città, (urbs, civitas, polis) e quindi non potevo chiudere gli occhi dinnanzi alle conseguenze politiche delle azioni cui, come urbanista, collaboro.

Due domande

Ecco allora la prima domanda che vorrei rivolgere agli amici di Alghero: che cosa non condividete di questa mia posizione, in che cosa la ritenete errata, o comunque non condivisibile né, nei fatti, condivisa? La loro risposta a questa domanda mi interessa molto, soprattutto sul piano personale. Ma poi, come cittadino e amante della bellezza e della storia e nemico di ogni mercificazione dei patrimoni comuni, mi interessa moltissimo la loro risposta alla seconda domanda. Che giudizio danno i miei amici di Alghero sul Piano paesaggistico dei sardi” licenziato dalla Giunta Cappellacci?

In trepida attesa, attendo la loro risposta.

Pare ovvio, che non bastino i cartelli per un'idea diversa di flussi urbani, ma si debba lavorare sulle forme. Basterà? La Repubblica Milano, 7 novembre 2013, postilla (f.b.)

Una nuova isola ambientale per “proteggere” via Sarpi pedonalizzata e per ridurre la congestione dell’intera zona. Parte dal Consiglio di zona 1 la proposta bipartisan di trasformare le vie della Chinatown milanese in una nuova zona che privilegia il traffico pedonale e riduce la velocità delle auto. Proposta che il Comune si prepara a recepire perché, come conferma l’assessore all’Ambiente Pierfrancesco Maran, «l’ambito di via Sarpi ha tutte le caratteristiche per diventare una zona 30», intesa come velocità massima consentita. Un progetto, quindi, che sarebbe l’ideale prosecuzione dell’isola ambientale approvata dalla giunta a luglio tra corso Como e Porta Garibaldi e su cui lavorano da tempo le associazioni e i comitati di zona Sarpi per migliorare la qualità della vita nel quartiere. Potrà prendere il via dopo che si sarà risolta la controversia sull’uso delle telecamere nella Ztl di via Sarpi (a maggio il Tar aveva dato ragione ai commercianti cinesi che ne contestavano l’utilizzo, così il Comune ha sospeso la delibera).

Quello che chiedono, i residenti delle vie comprese tra Melzi d’Eril, Elvezia, Montello e Sarpi, sono «una serie di provvedimenti mirati, per migliorare la circolazione, la qualità dell’aria, la mobilità ciclistica e pedonale », spiega l’ordine del giorno votato dal Consiglio di zona. Il cui presidente, Fabio Arrigoni del Pd, spiega: «Il quartiere è fatto di molte strade strette che attraversano via Sarpi dove le auto sfrecciano mettendo a rischio l’incolumità della gente: servono per lo meno dissuasori, come cordoli o restringimenti della carreggiata, e cartelli per ridurre la possibilità di correre». Il problema riguarda soprattutto via Giusti: qui c’è una scuola media dove spesso genitori e insegnanti lamentano la scarsa sicurezza degli attraversamenti, ed è proprio sul tratto di strada davanti alla scuola che il Consiglio di zona chiede un maggior intervento. A corredo, poi, l’ultima richiesta: far esaminare dall’Amat, l’Agenzia per la mobilità del Comune, i flussi di traffico pubblico e privato nella zona, per capire se e come si potrebbe deviare da alcune strade, troppo piccole o troppo congestionate, su altre.

Il piano per l’estensione delle isole ambientali milanesi, assicura Maran, arriverà presto anche a coprire quell’area (che ricade anche in parte nel Consiglio di zona 8): qui, del resto, ci sarà la fermata della linea 5 della metropolitana nel piazzale del cimitero Monumentale «quindi si potrebbero creare già prima dell’apertura della fermata condizioni che favoriscano il traffico pedonale in tutta la zona». Non sarà l’estensione di Area C a via Sarpi — proposta che i comitati di zona avevano anche immaginato nei mesi scorsi — ma sarebbe comunque un inizio. Per la giunta, poi, conferma Maran, sarebbe la naturale prosecuzione delle decisioni che hanno portato in due anni Milano a scendere di dieci posizioni (dal 14esimo al 24esimo posto) nella classifica fatta da “Tom Tom traffic index” sulle città maggiormente congestionate dal traffico.

postillaSu questo sito abbiamo già sottolineato più volte, come la gestione della mobilità sicura e tendenzialmente sostenibile (per quanto vale ancora la banalizzata definizione) debba necessariamente passare per una considerazione complessiva del contesto urbano in cui si sviluppa, e l'idea di procedere per passi successivi non alla chiusura-pedonalizzazione, ma a un riequilibrio delle modalità, pare davvero cosa diversa dalla pura imposizione di regole, cartelli, sanzioni. A maggior ragione come, nel caso specifico della zone detta Chinatown a Milano, si colloca su un asse di sviluppo particolarissimo, vero e proprio urban mall a connettere zone storiche e quartieri nuovi, tessuti tradizionali e (anche discutibili) sperimentazioni moderniste. Resta da vedere sino a che punto risulti davvero efficace agire esclusivamente a scala urbana, dato che specie in zone così mixed use i flussi interessati sono per loro natura di raggio assai più vasto. Ovvero, se non si rischi di chiamare con un nome diverso e più accattivante l'ennesima pedonalizzazione, buona sicuramente a migliorare la qualità della vita locale, ma scaricandone i costi all'esterno (f.b.)

Corriere della Sera, 6 novembre 2013

Avete mai visto una rivolta di cacciatori in difesa del guardiacaccia? È un po’ quanto sta succedendo a Siracusa dove non accenna a calare il polverone sollevato da un manipolo di costruttori edili, architetti, geometri in difesa del vecchio sovrintendente rimosso dall’assessore ai beni culturali Maria Rita Sgarlata. Ma come, direte, i sovrintendenti non sono forse invisi a tutti coloro che hanno che fare con il cemento perché di solito si mettono di traverso alle betoniere? E non hanno forse dalla loro parte gli ambientalisti?

Macché: nella città di Dionisio va a rovescio. Contro il vecchio sovrintendente Orazio Micali, infatti, si erano schierati un po’ tutti i difensori del patrimonio artistico, paesaggistico e culturale con una lettera firmata da 16 associazioni: da Italia nostra a SOS Siracusa, dall’Archeoclub d’Italia al Circolo Legambiente, dall’Associazione Koinè al Comitato per il Parco delle Mura Dionigiane e così via… Un fronte impossibile da etichettare politicamente perché teneva dentro uomini di destra come Enzo Maiorca e Fabio Granata e della sinistra vicini a Sel.

Tutti uniti nel chiedere la revoca di Micali accusato di esser di manica troppo larga nei confronti del cemento. Ma soprattutto di avere bloccato, dopo che finalmente era stata conclusa la perimetrazione attesa da decenni, l’iter di istituzione del Parco Archeologico di Siracusa. Parco che finalmente impedirebbe di edificare all’interno della cinta delle Mura Dionigiane e in particolare sui fianchi dell’Epipoli dove sorge il grandioso Castello Eurialo. Direte: ma non era già protetta, l’area? Mica tanto, se è vero che le sovrintendenti all’archeologia e al paesaggio Rosa Lanteri e Alessandra Trigilia si erano addirittura viste chiedere 100 milioni di danni per avere bloccato la costruzione sul pianoro dell’Epipoli di 71 villette e due centri direzionali. Intimidazione bocciata dai giudici: le funzionarie hanno applicato la legge.

Dall’altra parte gli «operatori del mattone», chiamiamoli così, dipingono Micali con parole di sperticato elogio: «un ottimo Sovrintendente, “titolato per laurea conseguita” ed in grado di assolvere, con equilibrio, al proprio ruolo di gestione e salvaguardia del territorio, in un momento di forte disagio e difficoltà per la nostra comunità» e capace di «ben continuare a lavorare per una gestione seria, proficua e serena dei suoi Uffici». Va da sé che la decisione della Sgarlata di rimuovere il sovrintendente (nel quadro di una rivoluzione di quasi tutti i dirigenti isolani) sostituendolo con l’archeologa Beatrice Basile è stata accolta come fumo negli occhi. Sit-in in piazza, mozioni di protesta, interrogazioni parlamentari, richieste di dimissioni dell’assessore… E si torna sempre alla denuncia di «Unesco alla siciliana», dove Legambiente ironizza su chi pretende insieme di avere il bollino di «sito Unesco» (che Siracusa ha) ma senza gli impicci di ogni vincolo di tutela che «blocca lo sviluppo» e «sa solo mummificare!»

Il compromesso truffaldino raggiunto tra Comune, Regione e Governo per la mitigazione dei danni provocati dagli ecomostri galleggianti. Il "fronte del No", ovviamente, non è d'accordo con la distruzione dell'unica laguna al mondo rimasta viva per un millennio. La Nuova Venezia, con postilla


Grandi navi, stop dal governo

di Enrico Tantucci

Incontro con Letta e i ministri Lupi, Bray e Orlando Da gennaio crociere ridotte del 20%, da novembre 2014 niente giganti del mare. Sarà scavato il canale Contorta

ROMA Primo, concreto stop, dal prossimo primo gennaio al passaggio di parte delle grandi navi in Bacino di San Marco - con una riduzione del 20 per cento di quelle superiori alle 40 mila tonnellate - e definitiva estromissione dal primo novembre del 2014 delle meganavi superiori alle 96 mila tonnellate, che non attraccheranno più a Venezia. Si parla a regime, secondo le prime stime - ancora da verificare da parte di Venezia terminal passeggeri - di circa 160 “toccate” in meno e di una diminuzione di passeggeri di circa un milione, sul milione e 800 mila totali attuali. Le navi ancora in Marittima.

Sono i risultati più concreti emersi dal vertice ministeriale sulle grandi navi a Palazzo Chigi alla presenza del presidente del Consiglio Enrico Letta e da cui esce sostanzialmente sconfitta la linea del sindaco Giorgio Orsoni, che voleva trasferirle, in parte già da subito a Marghera. Le navi da crociera continueranno invece ad attraccare in Marittima, come voleva il presidente dell’Autorità Portuale Paolo Costa, e il progetto alternativo prescelto per estromettere definitivamente le grandi navi dal Bacino di San Marco risulta quello, da lui sostenuto, che prevede lo scavo del canale Contorta-Sant’Angelo. Ma c’è, comunque, una prima anche se parziale attuazione del decreto Clini-Passera che prevede appunto l’allontanamento dal Bacino di San Marco di tutte le navi superiori alle 40 mila tonnellate.
Alla riunione a Palazzo Chigi hanno partecipato tra gli altri i ministri delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, dell’Ambiente, Andrea Orlando, dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Massimo Bray, il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, e il presidente dell’Autorità Portuale di Venezia, Paolo Costa.
«Nel corso della riunione - spiega il comunicato della Presidenza del Consiglio emesso al termine della riunione - si è deciso di vietare il transito delle navi da crociera dirette o in partenza da Venezia per il canale di Giudecca, in attuazione del decreto Clini-Passera, e di prevedere una nuova via di accesso alla Stazione marittima, individuata nel canale Contorta Sant’Angelo, come diramazione del Canale Malamocco-Marghera. Nella valutazione di impatto ambientale di questa opzione saranno naturalmente considerate eventuali soluzioni alternative, compresa quella del Canale Vittorio Emanuele. Inoltre, in considerazione delle prospettive di sviluppo del porto di Venezia, centrate sulla piattaforma d’altura e sulla bonifica e riconversione del porto di Marghera, si è deciso di promuovere una revisione del Piano regolatore portuale con l’obiettivo, tra l’altro, di definire e realizzare a Marghera siti alternativi rispetto all’attuale terminal crocieristico».
Il progetto del Contorta-Sant’Angelo dovrebbe viaggiare abbastanza spedito, perché inserito tra quelli previsti dalla Legge Obiettivo sulle grandi opere. Niente scalo a Marghera. Non preso in considerazione, invece, oltre al progetto di trasferimento a Marghera caldeggiato da Orsoni anche quello dell’ex vicesindaco Cesare De Piccoli che prevedeva la realizzazione di un nuovo terminal crocieristico in Adriatico, di fronte a Punta Sabbioni. La possibilità di realizzare in futuro a Marghera un terminal crocieristico, è legato prima alla realizzazione del nuovo terminal petrolifero e container off-shore in Adriatico, sostenuto anch’esso dal Porto. Se ne riparlerà, nella migliore delle ipotesi, dopo il 2020. Meno 20 per cento di navi da gennaio. Prosegue la nota della Presidenza del Consiglio: «In attesa della realizzazione della nuova via di accesso alla Stazione marittima, è emersa la necessità di mettere in atto al più presto misure efficaci per mitigare significativamente il traffico nel Canale di Giudecca.

In particolare: dal primo gennaio 2014 dovrà essere vietato il passaggio nello stesso Canale dei traghetti, con conseguente riduzione del 25 per cento dei transiti davanti a San Marco e del 50 per cento delle emissioni inquinanti; dal primo gennaio 2014 dovrà essere ridotto fino al 20 per cento(rispetto al 2012) il numero delle navi da crociera di stazza superiore alle 40 mila tonnellate abilitate a transitare per il Canale della Giudecca; dal primo novembre 2014 dovrà essere definitivamente precluso il transito delle navi crocieristiche superiori a 96 mila tonnellate di stazza lorda. Andranno, infine, assicurate una riduzione dello stazionamento giornaliero massimo (non superiore a 5 navi da crociera superiori alle 40 mila tonnellate) - e una contrazione dei passaggi residui nelle ore centrali della giornata, con concentrazione delle partenze e arrivi all’alba e al tramonto».

Contorta, lo scavo costerà 150 milioni
«Opera ambientale»
di Alberto Vitucci

VENEZIA Il presidente dell’Autorità Portuale Paolo Costa l’ha già definita «la più grande opera ambientale fatta in laguna negli ultimi anni». È lo scavo del canale Contorta-Sant’Angelo per evitare, dopo l’ingresso dal Canale dei Petroli, alle grandi navi da crociera di passare per il Bacino di San Marco. Scavando il canale Contorta Sant'Angelo - secondo Costa - si avranno 5 milioni di metri cubi di fanghi non inquinati utilizzabili per costruire barene di protezione ai lati del nuovo canale ma anche del Malamocco-Marghera. Costo previsto dell’opera: 150 milioni di euro, finanziabili anche con un ticket imposto alle navi da crociera per il loro passaggio. Tempi di realizzazione: tre anni, di cui uno per tutta la parte burocratica e progettuale e due di lavori effettivi Il Contorta-Sant’Angelo scavato sarà lungo 4 chilometri, movimentando, appunto, 5 milioni di metri cubi di fanghi. «Questa è la grande scommessa ha già dichiarato Costa -. Scavando il canale Contorta Sant'Angelo avremo 5 milioni di metri cubi di fanghi non inquinati che potremo utilizzare per costruire barene di protezione ai lati del nuovo canale ma anche del Malamocco-Marghera». Il progetto si divide in due settori: i costi compresi quello dello scavo del canale; e in seconda istanza, le opere per la ricostruzione dell’ambiente lagunare dopo lo scavo del Contorta-Sant’Angelo.Secondo l’Autorità portuale e il Magistrato alle Acque i costi di quest’opera si aggirerebbero sui 150 milioni di euro così suddivisi: 60-70 per le opere di scavo del tratto lagunare. Altri 70-80 milioni andrebbero per la realizzazione di velme e barene puntando alla ricostruzione morfologica della laguna.


Costa: «Bene per Venezia e il Porto»
di Enrico Tantucci

Orsoni: finalmente basta mega crociere a San Marco. Zaia: ora facciamo presto a scavare il canale Contorta Il Comitato contrario: «Una prima vittoria ma la nostra battaglia non si ferma qui»

VENEZIA «Ottima giornata per Venezia e il suo porto». Questo il commento soddisfatto del presidente dell’Autorità Portuale Paolo Costa alle decisioni del Governo sulle grandi navi, con la progressiva riduzione del numero dei passaggi in Bacino San Marco e il via libera al progetto alternativo dello scavo del canale Contorta-Sant’Angelo, sostenuto proprio dal Porto. «La conferma della Marittima quale punto di arrivo e partenza delle crociere», dichiara, «consente di avviare la realizzazione dell’elettrificazione da terra delle banchine. L’avvio del procedimento per la realizzazione del canale Contorta-Sant’ Angelo consente finalmente di disporre di una soluzione definitiva al problema del passaggio delle grandi navi in bacino San Marco. Una prospettiva che spero renda sopportabili i sacrifici richiesti all'industria crocieristica nella fase transitoria. Infine, la revisione del Piano regolatore portuale, da condurre d’intesa con il Comune, ci consente di inquadrare il nuovo progetto di sviluppo del porto centrato sulla piattaforma d'altura (petrolifera e container) e la corrispondente bonifica e riconversione di aree a porto Marghera, un inquadramento nel quale potrà trovare spazio anche un eventuale nuovo terminal crocieristico». Maschera a fatica la delusione il sindaco Giorgio Orsoni per il via libera al progetto del Contorta, nonostante la soddisfazione per i primi risultati positivi sul fronte dell’estromissione del traffico crocieristico dal Bacino di San Marco. «Per la prima volta», osserva, «il governo è intervenuto concretamente sulla questione delle grandi navi da crociera, e già questo è un punto rilevante. Quel che è importante è che oggi (ieri, ndr ) si è invertita la tendenza al gigantismo in laguna. Basta mega crociere a due passi da San Marco, si imporranno fin da subito limiti ben precisi sulle navi che potranno entrare a Venezia».
Il sindaco ha evidenziato con forza la sua perplessità rispetto alla realizzazione di un nuovo canale, il Sant’Angelo-Contorta. «Inoltre», ha aggiunto Orsoni, «si è stabilito che l’Autorità portuale darà avvio immediato al Piano regolatore portuale che fra l’altro dovrà prevedere lo spostamento delle crociere a Porto Marghera». «Con la decisione di avviare la limitazione del transito delle grandi navi nel canale della Giudecca e di prevedere come nuova via d'accesso alla stazione Marittima il canale Contorta-Sant’Angelo», commenta invece il presidente della Regione Luca Zaia , «è cominciato il conto alla rovescia in vista di una totale eliminazione del traffico dal bacino di San Marco. Deve cominciare ora un grande gioco di squadra - che veda tutte le istituzioni e le forze economiche interessate lavorare a testa bassa per rispettare scadenze e obiettivi, in primis la predisposizione della nuova via d’accesso -
Non sia mai che per burocrazia, esitazioni e insulsi veti di chi dice sempre no, Venezia perda la crocieristica». Incassano «quel po’ di buono che c’è nella decisione romana», considerandolo «una prima vittoria, ma la battaglia certo non si ferma e prosegue». Sono gli esponenti del comitato “No grandi navi”, come sottolinea il portavoce Silvio Testa: «Con la risoluzione presa a Roma non avremo solo il terminal crociere in Marittima con lo scavo del Canale Contorta Sant’Angelo, oppure il nuovo terminal crociere a Porto Marghera: li avremo tutti e due. Questo, almeno, per chi crede davvero che in futuro verrà dato al sindaco Orsoni il contentino del “suo” nuovo Porto crociere nel luogo che avrà la cortesia di indicare».
A parlare per il governo è anche il sottosegretario ai Beni Culturali Ilaria Borletti: «Con la decisione di oggi (ieri, ndr) il governo dà un segnale forte alla città di Venezia e a tutti coloro che sostengono questa battaglia, ma soprattutto dà un segnale importante per la tutela del nostro patrimonio culturale. Mi auguro che la decisione sia il solco verso la necessità di un nuovo modello di turismo compatibile con il nostro delicato patrimonio culturale».

postilla
Con una classe dirigente così ignorante e bugiarda c’è davvero poco da sperare. Dal sindaco della città e della sua Laguna fino al rappresentante, nel governo nazionale, della tutela dei beni culturali, nessuno ha ancora capito che la Laguna è un bene altrettanto prezioso e fragile, raro e delicato quanto la città che da essa e per essa è nata. Non hanno capito che distruggere l’una significa distruggere anche l’altra, né che dall’inondazione del turismo “mordi e fuggi” bisogna cominciare a difendersi oggi – se non è già troppo tardi, come molti temono. E neppure hanno capito che la Laguna di Venezia (l’unica rimasta tale al mondo per oltre un millennio, grazie alla continua manutenzione governata dalle tre regole della sperimentalità, gradualità, reversibilità di ogni trasformazione, non è un terreno piatto come quello sul quale corrono le autostrade. Se, come sembra, il vincitore della nobil tenzone sulle grandi navi è il presidente dell’Autorità portuale, allora non ci vuole molto per capire che la Laguna è perduta. Basta sapere (e tutti quelli che in qualche modo condividono la responsabilità del potere non possono non saperlo) che la realizzazione del canale Contorta comporterebbe l’ulteriore consolidamento dell’autostrada denominata Canale dei petroli, tra i maggiori colpevoli del degrado della Laguna. Come del resto accadrebbe se la scelta cadesse sulla soluzione preferita dall’erede dei Dogi, l’avvocato Giorgio Orsoni.

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