Lassù si è deciso che «il commercio sarà la leva economica della trasformazione di Torino nei prossimi anni». Tutto il resto è sacrificato
La vicenda della realizzazione del centro congressi nell’ex area Westinghouse in Torino ha assunto i toni ed il carattere di emblema del modo di gestire e –ancor più- di concepire, oggi, l’urbanistica da parte dei nostri politici. L’area in questione –oggi in una zona strategica della città (a contatto con i nuovi Palagiustizia, Politecnico, grattacielo “Intesa-SanPaolo”, grande stazione ferroviaria di Porta Susa, ecc.)- è una di quelle rimaste libere a seguito della dismissione dall’industria che allora occupava zone - poi risultate centrali - in stretto rapporto con le vecchie barriere operaie. La destinazione d’uso di tale area fu quella della realizzazione di una nuova, grande biblioteca centrale multimediale e un centro congressi che fosse una valida alternativa in centro città a quello periferico del ‘Lingotto’. Fu bandito un concorso vinto dall’arch. Bellini.
A prescindere dalla scelta di localizzare il suddetto centro congressi ( per 5000 posti) all’interno della zona centrale urbana e quindi, ancora una volta, escludente le zone periferiche (che ne avrebbero un gran bisogno per risollevarsi dal loro stato di emarginazione dalle strutture fieristiche e culturali) e a prescindere dai problemi di concentrazione e sovrapposizione funzionale e logistica in quella precisa zona (oltre al perdurare della soppressione del piccolo commercio di prossimità), ciò che colpisce è la filosofia di fondo assurta ad ideologia: “..il commercio sarà la leva economica della trasformazione di Torino nei prossimi anni..” in quanto “..non è più immaginabile pagare la riqualificazione aumentando il debito dell’amministrazione..”è stato affermato dall’assessore all’urbanistica torinese Lo Russo.
Dunque, non c’è alternativa? E’ un destino segnato? Se è così, ci si deve adeguare al principio che, per esempio, se anche non c’è alcun bisogno di ipermercati, i torinesi si devono rassegnare ad averli in cambio di ciò che realmente a loro serve. Equivale a stabilire che la città non potrà mai pianificare in base agli effettivi bisogni dei suoi abitanti (cosa già rara in passato) ma dovrà prima assoggettarsi ad un ‘congruo’ numero di centri commerciali nei luoghi più convenienti per essi e, se resteranno ancora aree libere, tentare anche di soddisfare i propri cittadini con i sempre più sacrificati servizi pubblici. Ed è come augurarsi che l’investimento privato in centri commerciali non si esaurisca mai perché, se no, cesserebbe “..la leva economica della trasformazione di Torino..” per il suo sviluppo, il suo avvenire. Ma i megastore, così come il territorio, sono entità finite (come il mondo). Quando non ci sarà più nulla da scambiare con i privati, come faremo?
Abbiamo condannato per anni il ‘rito ambrosiano’, quello della cosiddetta urbanistica contrattata, e ora noi la assumiamo come regola fondante universale? E’ il segno che l’arte del disegno delle città è completamente da rifondare e che, anziché condividere e/o teorizzare l’attuale sua deriva, occorre mettere mano a processi che leghino la fiscalità locale e quella nazionale alle trasformazioni urbane (sempre più rapide e sempre più onerose rispetto al passato) in modo chiaro, preordinato, strategico. Processi che, a partire da iniziative locali, si prefiggano di condurre -in tempi certi- ad una legislazione nazionale per la profonda riforma urbanistica attesa da settant’anni. La riqualificazione/rigenerazione urbane –soprattutto dei grandi centri, come quella del territorio nazionale- deve diventare un punto specifico del programma di governo nazionale e locale. La ri-progettazione/pianificazione della forma e dell’organizzazione delle città deve essere pensata e gestita in base al prevalere dell’interesse pubblico, quindi a prescindere da interessi particolari privati. La partecipazione di quello (economico) privato, pur necessario, non deve in alcun modo condizionare lo sviluppo della città che è e resta ‘pubblica’. Se ciò non avviene -o avviene il contrario (come ora)- è perché la gestione e distribuzione della fiscalità non sono adeguate e corrette: l’armonia e la tutela dei territori vanno di pari passo con l’equità nelle scelte economiche. L’idea che la città deve vendere ciò che ha per sopravvivere o accettare programmi diversi e distorsivi rispetto a quelli previsti, è conseguenza dell’accettazione e sottomissione all’ideologia dell’austerità anziché impegnarsi nel coordinamento dell’azione degli amministratori dei territori per rivendicare il superamento delle sue assurde regole: assurde e profondamente punitive di ogni equilibrato progetto urbano. Al contrario, le risorse devono poter essere accantonate (e usate) dalla fiscalità generale e da quella locale (anche a debito,anche ricorrendo se necessario- all’azionariato popolare) purchè, in totale trasparenza, devolute allo scopo per cui sono state richieste. La politica locale ha il compito-dovere di dirottare in tal senso la politica nazionale. Le città hanno grandi e urgenti progetti da realizzare, se possibile, evitando ai propri cittadini la pena del baratto.
Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2014
Ci Sono voluta Una causa amministrativa Sentenze della Magistratura per Salvare Capo Malfatano, Comune di Teulada, Sardegna. E this E nel contempo una bella cura di Una cattiva notizia.
La bella notizia l'ho Già detta:. Prima il TAR Sardegna e poi il Consiglio di Stato ha sancito l'illegittimità Annone di un'enorme / ennesima Speculazione edilizia Sulle martoriate coste della Sardegna Circa 200.000 metri cubi di cemento a 300 metri Dalla splendida spiaggia di Tueredda.
La cattiva notizia e Che Ancora una volta SIA Stato Necessario l'Intervento della magistratura per Fermare lo scempio. Perché Dall'altra parte erano Tutti d'Accordo, il Comune di Teulada, la Soprintendenza, la Regione Sardegna, ndr ovviamente i costruttori Tra i Quali Benetton ("United Colors of Benetton", ricordate?) E Caltagirone. Da this parte la ferma Volontà di un singolo pastore, Ovidio Marras, di 82 anni, e del supporto Ricevuto dal Gruppo di Intervento Giuridico e di Italia Nostra per Fermare lo scempio. Ed e purtroppo Una cattiva notizia Anche Il Fatto Che Una parte delle costruzioni Sono in corso d'opera.
Ho scritto Già nel passato della follia Caso delle seconde, delle scritte "vendesi" sempre Più Numerose also in Sardegna. Eppure il virus edificatorio arrestarsi non pare. E l'ultimo atto e Stato lo stravolgimento del Piano Paesaggistico di Soru, da parte della Giunta Cappellacci ("cominci a preparare il cemento ei mattoni"), Che darebbe il via libera a Nuove lottizzazioni sul litorale, fortunatamente impugnato dal Governo alla Corte Davanti Costituzionale.
Si dice Che il mondo ambientalista dadi sempre di no. Ma, Vieni dadi giustamente un mio caro amico: "continueremo a dire sempre di no, se Dall'altra parte proporranno e progetteranno sempre le stesse cose".
Una recensione molto critica del libro di Roberto Della Seta ed Edoardo Zanchini (Donzelli). La discussione, ovviamente, è aperta. www.bookdetector.it, gennaio 2014
Perché, come, quando si è consumato il divorzio tra la sinistra italiana e l’urbanistica? Questa è la domanda angosciosa che gli autori, entrambi attivi nella sfera politica (Pd e Legambiente) pongono nel libro, convinti della necessità di un’urgente riconciliazione. La questione è in effetti della massima urgenza, ed è senz’altro un bene che qualcuno l’abbia posta: perché è vero che la sinistra ha espulso la città dai programmi e dal vocabolario, mentre la destra se ne è appropriata, spingendo da un lato per la deregulation urbanistica a favore della speculazione immobiliare e dall’altro per una regolazione ossessiva dei dispositivi di sicurezza. Gli effetti di questo spostamento di campo e di segno sono diseguaglianza e segregazione, città sempre più estese sul territorio ma sempre più nettamente divise tra riserve per ricchi e spazi residuali per i poveri.
Fin qui siamo d’accordo, ma come è potuto succedere? Gli autori, chiusi in una prospettiva locale e assurdamente atemporale, sembrano totalmente concentrati sull’insipienza e la disonestà degli attori politici. Non sarà che fino agli anni Settanta c’era il welfare, esteso anche all’organizzazione della città? Che in buona parte del mondo occidentale, grazie allo spauracchio comunista e alle lotte dei lavoratori, venivano elaborate politiche redistributive, e quindi limitanti le prerogative della proprietà privata, anche da parte di governi e partiti conservatori, politiche che negli anni successivi sono state stigmatizzate e cancellate dall’ideologia neoliberista? E che le “sinistre” mondiali hanno aderito poi con entusiasmo ai suoi principi, da Clinton a Blair ai nostri esponenti locali?
Un ampio saggio sulla città, in occasione del congresso della Società dei territorialisti "Ricostruire la città" (Roma, 17-18 gennaio 2014), preludio a una serie di articoli sulle città italiane. Il manifesto, 17 gennaio 2014
Anche allorquando gli studiosi prendono in considerazione una delle risorse naturali più ovvie, condizione imprescindibile per la nascita e la vita di un aggregato di popolazione, l'acqua di un fiume, ne sottolineano il rilievo quale infrastruttura ideale per i flussi di mercato. E' il caso, ad esempio, di un studioso come Lewis Mumford, pur attento agli aspetti sistemici del mondo urbano . Nella sua monumentale La città nella storia – meritoriamente riproposta ora da Castelvecchi - egli considera il fiume esclusivamente come « il primo veicolo efficace per il trasporto di massa ». E aggiunge: « Non è un caso che le prime città siano sorte nelle valli fluviali, e che la loro ascesa sia contemporanea ai progressi della navigazione, dal fascio galleggiante di giunchi o di tronchi alla barca mossa dai remi e dalle vele » Mumford non è solo in questo richiamo del fiume che dimentica la risorsa acqua:« Londra dipende dal suo fiume », afferma perentoriamente Braudel, ma si riferisce ai traffici che esso rende possibili, all'intensa vita economica che si svolge lungo il Tamigi e soprattutto nell'area della sua foce.
Naturalmente, non si tratta di negare il ruolo di mezzo di trasporto dei corsi d'acqua, peraltro dotati di una loro energia motrice e dunque, per più versi, prezioso per i bisogni delle popolazioni urbane in età preindustriale. Ma il trasporto e il commercio rappresentano già una forma economicamente evoluta della stanzialità urbana, funzionalmente separata dalla vita agricola. E tuttavia a lungo insufficiente a rendere le città autonome dalle loro fonti di approvvigionamento, costituite dai territori agricoli dei loro dintorni.
D'altra parte, prima di commerciare e di spostarsi, i primi cittadini ( ma anche i secondi e i terzi) dovevano vivere e dunque avevano assoluto bisogno di bere. Eppure non c'è traccia, anche in grandi storici che si sono occupati di città, di accenno a tale elementare bisogno della vita, risorsa imprescindibile dell' umana esistenza. Quasi che il commerciare fosse la prima condizione della vita urbana e non un suo complemento, spesso uno stadio successivo di evoluzione. La vita, nella ovvietà dei suoi bisogni e delle sue manifestazioni, diventa degna di nota quando acquista un rilievo economico. Anche Fernand Braudel, nel vasto affresco del suo Mediterraneo, che ha insegnato a tutti noi come la storia si svolga negli spazi fisici delle montagne e delle pianure, non ha occhi che per le condizioni commerciali dell'esistenza urbana. « Non c'è città senza mercato e senza strade: esse si nutrono di movimento. »
Forse Braudel è l'autore più esemplare di questa sussunzione dei bisogni primari e dunque della natura entro le categorie dell'agire economico. Perché è lo storico più attento ai quadri territoriali in cui si svolge la storia umana, ma conserva sempre uno sguardo filtrato, che incorpora la natura e la rende visibile solo come fenomeno economico. Il bere e il mangiare, elementi fondativi della vita biologica, resi possibili dalla presenza dell'acqua e del cibo, cioé da fonti, sorgenti, fiumi, pozzi e da superfici più o meno vaste di terra fertile, sono nella sua ricostruzione e rappresentazione storica inglobati in rapporti spaziali di commercio o semplicemente sussunti dentro i meccanismi dell'attività produttiva. E' sempre l'attività economica dei cittadini o dei contadini a rendere possibile la vita della città. Ma non accade mai che le risorse naturali presenti nel territorio costituiscano la condizione perchè quella stessa attività possa svolgersi con successo.
Non sottolineo tali aspetti per la pretesa saccente di rimproverare a Braudel di non essere stato uno storico dell'ambiente. Ogni epoca ripesca dal proprio passato il presente di cui avverte più acutamente il bisogno. Tanto più che Braudel anticipa talora, a modo suo, cioé entro il bozzolo delle dinamiche economiche, “scoperte” che si renderanno evidenti alla ricerca storica solo qualche decennio più tardi. E' questo il caso, ad esempio, dell'approvvigionamento delle fonti di energia calorica. Scrive lo storico francese: « la legna da bruciare, materiale ingombrante, deve essere a portata di mano: oltre i trenta chilometri di distanza è rovinoso farla viaggiare, a meno che il trasporto non avvenga per via d'acqua».
Da quando si è cominciato a fare storia dell'energia, abbiamo appreso che le città preindustriali in genere non potevano letteralmente vivere se non avevano a disposizione, a distanza ravvicinata, le risorse legnose di un bosco. « Una città di 10.00 abitanti – ricorda Paolo Malanima – doveva disporre per i soli usi domestici di una riserva forestale di 50-80 chilometri quadrati.»
Riscoprire il sistema
Anche da questi brevi cenni appare evidente come lo sviluppo delle relazioni commerciali che, nel corso di diversi secoli, hanno finito col rendere le città relativamente indipendenti dalle risorse collocate nel loro territorio, hanno occultato i vincoli sistemici su cui esse sono sorte e a lungo vissute. Esattamente l'estensione delle reti del mercato - l'elemento di connotazione urbana più enfatizzato dagli studiosi - hanno cancellato le reti che le legavano alle risorse naturali. Ma in realtà esse hanno solo trasferito e diluito gli ecosistemi che ne rendevano possibile l'esistenza su un territorio sempre più vasto. La Londra dell'età moderna, che da tempo si riforniva di grano, cibo e legname prodotti anche fuori dai suoi confini e dalla stessa 'Europa, aveva in realtà moltiplicato intorno a sé i territori da cui trarre le risorse naturali consumate dai suoi cittadini. Nell''800 il suo ecosistema aveva assunto dimensioni mondiali, dal momento che, ad esempio, le élite londinesi consumavano correntemente te, cacao, zuccherro di canna e caffé provenienti dalle colonie. Esso ormai costituiva il centro di una immensa periferia che era il suo impero coloniale, si reggeva e si occultava grazie alle reti di dominio e di sfruttamento dei territori delle colonie.
Ma oggi, nella fase storica in cui il mercato mondiale penetra negli anfratti più reconditi della vita locale, è ancora visibile un ecosistema come intelaiatura fondamentale della vita urbana? Mentre le città ricevono tutto ciò che è loro necessario da territori lontani e anche lontanissimi, possiamo guardare ad esse come a nuclei di realtà materiale condizionati, se non dominati, da vincoli naturali costanti e necessari? Si tratta, in verità, di domande retoriche. L'ecologia urbana della seconda metà del '900 ha messo da tempo in evidenza i caratteri ecosistemici dell'ambiente urbano con approcci e contributi molteplici. In realtà oggi si presenta ai nostri occhi una rete ambientale che avvolge il mondo (non diversa da quella, in continua espansione, delle comunicazioni) ma tenuta insieme da regole e vincoli ecosistemici. La osserviamo distintamente man mano che ci liberiamo della scorza dell'economicismo di cui è incrostato il pensiero sociale contemporaneo. Allorché scorgiamo l'universalità di beni comuni di cui si compone la città, là dove prima l'osservatore non scorgeva che un paesaggio di res nullius, o solo un sistema di domini privati. E a tal fine appare indispensabile liberare la figura dell'uomo cittadino dalla sua sovrastruttura ideologica di essere sociale, mero prodotto della storia, fabbro di se stesso tramite il dominio tecnico sulla natura.
E' tale operazione di disvelamento che ci consente di guardare agli uomini quali soggetti viventi, membri della “comunità biotica” che popola la foresta urbana. La città è un ecosistema innanzitutto perché gli uomini non hanno mai cessato di essere natura.
E' infatti il paradosso del successo totalitario dell'uomo tecnico a disvelare i legami non resecabili con la realtà biologica. Pensiamo al rapporto tra città e dinamiche del clima. Sono ormai parecchi anni che gli episodi climatici estremi ( alluvioni, tornado, ecc) in varie città del mondo, dagli USA all'Europa, mostrano come le città non sfuggano al sistema climatico generale e al suo crescente disordine. E' ormai di dominio popolare che la crescente copertura del suolo con le strutture dell'edificato impedisce in maniera crescente l'assorbimento dell'acqua piovana. In caso di pioggia intensa – fenomeno che appare ormai sempre più regolare a tutte le latitudini- le strade diventano fiumi, rovinosi corsi d'acqua e gli abitati vengono allagati come comuni golene di espansione.
D'altra parte, tali fenomeni svelano un legame prima invisibile tra gli uomini e l'habitat urbano. Ma al tempo stesso fanno emergere alla consapevolezza generale l'esistenza di alcuni beni comuni per effetto della loro violazione, della loro messa in pericolo. E' evidente che l'edificazione diffusa, l'occupazione degli spazi incolti e coltivati, la restrizione dei territori agricoli periurbani, hanno riflessi crescenti su un diritto fondamentale dei cittadini: quello della sicurezza, dell'incolumità della persona. Sicché una occupazione del bene comune suolo per mano dei singoli privati, che edificano per loro specifico interesse, si configura sempre più nitidamente come in conflitto con il bene comune della sicurezza di tutti. In caso di piogge intense le città diventano pericolose per tutti i suoi abitanti. Il danno particolare che l'uso privato del suolo genera nei confronti dell'universalità dei cittadini disvela così uno specifico carattere ecosistemico dell'azione umana in città. Non si possono mutare gli equilibri naturali di un habitat pur artificiale senza effetti e rotture in qualche punto del sistema. E soprattutto senza conseguenze sul Dedalo ingegnoso che quel sistema ha costruito. Non si può pensare al territorio come a un mero supporto neutro sopra il quale “poggiare” qualunque edificio: esso non è nudo suolo, appartenente a vari proprietari che pretendono di ricavarvi una rendita, ma è il frammento di una rete ecosistemica entro la quale siamo tutti impigliati.
Il rapporto sistemico della città con il suo territorio più o meno prossimo emerge oggi anche dalla rottura di un equilibrio millenario con la campagna, cui abbiamo già fatto cenno. Il mutamento drammatico, in qualità e quantità, della massa dei rifiuti urbani ha creato fenomeni ignoti a tutte le società del passato. Se un tempo la gran parte delle deiezioni cittadine veniva utilmente consumata dalle agricolture circostanti in forma di fertilizzanti, esse formano oggi un'appendice urbana che occupa e inquina territori più o meno prossimi, con danni alle acque, all'aria, alla salute degli animali e dei cittadini nelle varie casistiche osservabili in giro per il mondo.
Il cielo è di tutti
Non meno noto è diventato il legame sistemico tra il cielo della città, vale a dire la qualità dell'aria che in essa si respira, e la sua manipolazione, insieme privata e collettiva, a scopi produttivi e di varia altra natura. Il sorgere di un rischio per la salute umana, esploso in maniera allarmante negli ultimi decenni, ha fatto emergere quale bene comune una risorsa vitale irrinunciabile, fino a pochi decenni fa da tutti ignorata in quanto illimitata e relativamente integra. L'aria è un common. Noi tutti respiriamo l'aria che ci circonda senza pensare ai nostri polmoni, ma anche senza badare al fatto che essa è natura, che da essa dipende la nostra vita, e certamente senza chiederci a chi appartiene. Ma l'apparire della scarsità di questa risorsa, la sua violazione e alterazione ( che corrisponde a una appropriazione privata dei singoli) fa emergere l'elemento naturale che rende possibile l'esistenza di tutti e al tempo il suo carattere di bene collettivo e indivisibile.
In questo specifico caso appare assai difficile separare l'interesse privato di chi immette smog nello spazio urbano, usando un proprio mezzo di trasporto, da chi respira l'aria inquinata mentre cammina per la città. In un gran numero di casi quel pedone costretto a respirare il cocktail fotochimico di anidride carbonica , di solfato di zolfo , di particolato e vari altri inquinanti, il giorno dopo, a bordo della sua auto, sarà tra la schiera degli inquinatori. Il bene comune dell' aria salubre e il diritto universale alla salute vengono violati sistematicamente anche da chi quel danno subisce, a sua volta, in quanto abitante di una città, utente dello spazio pubblico. Appare qui evidente che la rappresentanza e la difesa del bene comune salute è affidata a una autorità terza in grado di comporre il diritto e il bisogno della mobilità dei cittadini con quello di respirare un'aria non inquinata.
E tuttavia appare anche in questo caso ben visibile la configurazione del mondo urbano quale ecosistema: l'uso privato e collettivo dell'habitat ha conseguenze sugli attori naturali che lo manipolano e lo abitano, non diversamente da quanto accade in natura, allorché un qualche agente rompe un equilibrio consolidato. Se un ambiente acquatico si prosciuga a causa di un intervento dell'uomo o per una prolungata siccità, la vita degli uccelli, dei pesci e dei mammiferi che l'abitavano ne viene sconvolta.
Intanto,senza che nessuno lo notasse, senza sofisticate elaborazioni teoriche, sotto il cielo delle città un bene comune fondamentale è stato storicamente ripartito e regolato con criteri egalitari fra i suoi innumerevoli fruitori. Com'è noto, lo spazio adibito alla libera circolazione di uomini e veicoli non conosce significativi impedimenti e domini privati e particolari. Al contrario lo spostamento su strada è reso possibile da regole universali che danno pari diritto di movimento a tutti gli utenti. Quello spazio pubblico è stato infatti ripartito in un reticolato di possibilità e divieti in cui ciascuno esercita il proprio diritto a spostarsi rispettando quello degli altri. Il semaforo rosso che impedisce al singolo utente di transitare all'incrocio è un obbligo che lo costringe a non considerare lo spazio urbano come un dominio particolare che può utilizzare a proprio arbitrio. Qualunque sia la potenza e il lusso del veicolo che guida, qualunque sia il ruolo sociale, la ricchezza, la potenza gerarchica del guidatore, quel rosso è un impedimento da rispettare. E' condizione della sua sicurezza e di quella degli altri. Si è tutti alla pari nello spazio aperto delle strade cittadine. Una grammatica universale si impone su tutti. Ed è grazie a tale egalitarismo che viene protetto il bene comune dell'incolumità fisica dei cittadini. Solo i pari diritti di spostamento di cui godono tutti consentono l'uso ottimale del bene comune del territorio urbano. Forse e' qui il modello di uso egalitario della città, del suolo, dell'aria, delle risorse a cui occorrerà uniformarsi in futuro.
Il tetto che scotta
Lo scenario climatico che le conoscenze scientifiche del nostro tempo hanno squadernato davanti a noi ci mostrano oggi un altro aspetto di legame sistemico tra la città, i suoi attori naturali, e il più vasto spazio planetario. Le città ci fanno sperimentare la nuova mondialità del locale. Mai come oggi esse erano apparse così nitidamente quali punti interconnessi di una rete a scala globale. Com'è largamente noto, è lo smog cittadino, sono gli scarichi urbani e i fumi industriali per produzioni destinate alle città a determinare una percentuale rilevante di immissione di gas serra nell'atmosfera.Tutte le città del mondo, centri energivori di varie dimensioni e potenza, consumano in maniera crescente petrolio e carbone, alterando il clima atmosferico, surriscaldando il nostro comune tetto di abitanti della Terra. Il riscaldamento globale, potremmo dire, è figlio del metabolismo urbano.
Val la pena inoltre osservare che il riscaldamento urbano tende a rafforzare i suoi effetti per via della stessa manipolazione territoriale che espone le città agli allagamenti periodici. La scomparsa degli orti periurbani, il taglio di alberi, la cementificazione diffusa, la cancellazione progressiva del verde, tutta la multiforme e molecolare attività di consumo dei suoli incolti, non solo contribuisce alla produzione di carbonio e alla cancellazione di fonti produttrici di ossigeno, incrementando così il riscaldamento globale. Essa ha anche un effetto locale e ravvicinato.
"Non esiste mondo fuori delle mura di Verona: non c’è che purgatorio, supplizio, l’inferno stesso”, scrive Shakespeare: certo, sotto Flavio Tosi anche dentro quelle mura la situazione non è molto più allegra. Almeno per la cultura.
Non è certo colpa di Tosi se la straordinaria qualità del tessuto artistico veronese è occultata da decenni sotto la coltre di paccottiglia collegata proprio a Romeo e Giulietta: anche se la giunta ci ha messo del suo, spiaggiando di fronte all’Arena una incredibile panchina a forma di cuore per foto di coppia. Da notare il divisorio centrale, che impedisce ai senzatetto di dormirci durante la notte: limiti dell’amore al tempo della Lega. Il tono culturale è invece da cercare nell’idea di Gianni Morandi (sic), che ha proposto a Tosi di dotare di un tetto proprio l’Arena: “Ho pensato che in fondo una copertura avrebbe potuto valorizzare l’anfiteatro, i grandi eventi e la città di Verona”.
Magari il settantenne ragazzo di Monghidoro scherzava, ma il sindaco si è precipitato a Roma: dove però è stato gelato dal ministro per i Beni culturali, il quale deve avergli fatto notare che un anfiteatro romano non è esattamente un palasport. Poco male, a Verona non mancano i progetti di “valorizzazione”. Uno dei più contestati riguarda l’Arsenale austriaco, importantissimo monumento di architettura e urbanistica militare dell’Impero asburgico, e cornice di un giardino pubblico assai frequentato nonostante le pessime condizioni. I cittadini, riuniti in un comitato, chiedono che anche gli edifici trovino una destinazione sociale e culturale, in una città che ha fame di spazi pubblici. La giunta, invece, dopo aver lasciato andare in malora il complesso, preferisce destinarlo alla speculazione edilizia, immaginando di trasformarlo in centro commerciale, attraverso il discutibile strumento del project financing. Il Comune dovrebbe, per di più, investire ben 12 milioni di euro in un progetto che porterà a una privatizzazione di due terzi del complesso per 99 anni. L’appello online che chiede il ritiro dell’operazione (“perché palesemente contraria all’interesse pubblico e a quello delle attività commerciali della zona e perché porterebbe a un enorme aumento del traffico, già ora insostenibile, e a una forte diminuzione del verde pubblico”) ha già raccolto oltre 2500 firme. Un altro caso che ha visto una vivace mobilitazione popolare riguarda Palazzo Bocca Trezza, già sede dell’Istituto d’Arte Nani: un bell’edificio del Cinquecento, ancora denso di decorazioni a stucco e ad affresco.
Dopo aver interrotto ogni manutenzione (nel silenzio incomprensibile della Soprintendenza), e dopo aver permesso che il giardino e il palazzo stesso diventassero una centrale di spaccio, la giunta Tosi si accorge delle pessime condizioni del complesso. Che, guarda caso, non lasciano scelta: bisogna disfarsene, alienarlo, privatizzarlo: cioè, dati i tempi, svenderlo. E tanto peggio per le associazioni, i comitati e i singoli cittadini che presidiano il palazzo e il giardino, propongono destinazioni sociali più che sostenibili, si riuniscono per protestare a suon di musica.
Ma Tosi non è solo capace di vendere, perbacco: sa anche costruire. Un fiore all’occhiello della politica culturale del sindaco è il museo AMO (si scioglie in: ArenaMuseOpera). Per realizzarlo è stato sfrattato dalla sua sede storica uno dei più importanti musei della città, la Galleria d’arte moderna. E il palazzo (che è quello del tiranno medioevale di Verona Ezzelino da Romano, del patriota Pietro Emilei e infine donato alla città da Achille Forti) è stato alienato (è un vizio) alla Fondazione Cariverona. Quindi Tosi (come presidente della Fondazione Arena) ha sostanzialmente preso in affitto (per modici 6,5 milioni di euro) dalla fondazione bancaria ciò che Tosi (come sindaco) aveva venduto, e ci ha realizzato l’AMO. Non ci sono parole per descrivere lo sconcerto di questo non-museo, che ha un salatissimo biglietto di ingresso ed è vietato (iddio sa perché) ai bambini con meno di quattro anni. La cosa più incredibile è che quasi tutti i documenti esposti sono fotocopie, anche se nessuna didascalia lo ammette. L’altra cosa lunare sono le didascalie stesse, un esilarante diluvio di trascrizioni errate e di errori storici (per esempio: Puccini viene fatto morire nel 1901, invece che nel 1924), sintattici, grammaticali. Il nome dell’Archivio e delle edizioni Ricordi (fondamentali, parlandosi di opera lirica) è quasi sempre tradotto in inglese come “Memories”. Con una variante sublime in cui “Casa Ricordi” si trasforma in una severa ammonizione: “Remember the Family”. Che, in effetti, dopo le disavventure del Trota è anche un buon consiglio politico. Insomma, non è poi un male che i numeri che rinviano all’audioguida siano sempre nascosti dai pesanti tendaggi.
La direttrice e curatrice del ‘museo’, che si firma Kikka Ricchio, è soprattutto nota come coautrice del volume Passione e cucina. Sarà per questo che a Verona c’è chi dice che fare un museo in quel palazzo serviva soprattutto ad aprirci un ristorante aggirando il vincolo monumentale. Di certo c’è che la qualità del ristorante è sideralmente superiore a quella del ‘museo’. Sull’ultimo numero dell’Espresso, Salvatore Settis ha notato che Tosi gareggia con Matteo Renzi in “invettive contro le soprintendenze ai beni culturali”. Si capisce: con una politica culturale così forte, aspira all’esclusiva.
Corriere della Sera Lombardia, 16 gennaio 2014, postilla (f.b.)
MILANO — C’è chi ha inventato un’applicazione per smartphone per far incrociare consumatore e azienda agricola. C’è chi ha creato una piattaforma web per le massaie che sono alla caccia di prodotti a chilometro zero. C’è chi ha ideato gli alveari urbani. E ancora: chi ha realizzato una piattaforma digitale di servizi e applicazioni per semplificare le attività in agricoltura, con l’obiettivo di ridurre lo spreco di risorse primarie. E chi ha dato vita a una community per incontrare nuovi amici a tavola. Nuove idee in campagna: vengono dagli agricoltori under 35, una nuova classe di imprenditori della terra che avanza sposando tradizione e creatività, zappa e palmare, tecnologia e sudore.
In Lombardia, i giovani contadini sono uno su 14, il 7,2% del totale, sono titolari di 3.520 aziende (start up e non solo) su un totale di 48.909. In cima alla classifica c’è la provincia di Como con il 12,5% (268 aziende su 2.150), seguita da Lecco con l’11,7% (131 su 1.122) e Sondrio con il 10,2% (268 su 2.621). Una generazione di agricoltori 2.0 che giocherà un ruolo chiave anche in vista dell’Esposizione universale del 2015, com’è emerso ieri al Tavolo agroalimentare di Expo, organizzato dalla Camera di commercio di Milano, nelle sale di palazzo Giureconsulti. Sviluppo sostenibile, salvaguardia dell’ambiente, buona e cattiva nutrizione, lotta alla contraffazione, guerra agli sprechi e innovazione tecnologica. Una lunga lista di sfide da vincere nel presente e nel futuro e su cui questa nuova generazione di imprenditori green costruisce i i progetti di lavoro delle proprie aziende.
Perché, nonostante il numero delle imprese «verdi» sia sceso, nella nostra regione, da 50.506 a 48.909 in dodici mesi, sempre di più i giovani ritornano alla terra, tanto che un nuovo agricoltore su quattro ha meno di 35 anni. Tradotto in cifre: si tratta di 227 su 963 nuove iscrizioni alle Camera di commercio, da gennaio a settembre 2013. Numeri da record, dunque. A cui si somma il fatto che i giovani imprenditori agricoli danno anche ossigeno all’occupazione: hanno infatti creato 3.968 posti di lavoro su un totale di 78.827 in Lombardia.
Ma è per colpa di una disoccupazione galoppante che i giovani riscoprono il fascino antico della campagna? «In questo periodo di crisi, fra i giovani lombardi c’è una forte propensione ad accostarsi a queste attività, più vicine alla natura e all’ambiente — osserva Giovanni Benedetti, della Camera di commercio di Milano —. E stimiamo che il loro numero possa continuare a crescere con l’approssimarsi dell’Expo. Perché l’evento del 2015, certamente, rappresenta un’opportunità per il settore agricolo. Così come i Tavoli Expo possono rappresentare un’opportunità per promuovere le start up e creare sinergie».
E' il tramonto di Tessera City, la grande operazione di valorizzazione immobiliare della gronda lagunare avviata dal craxiano Gianni De Michelis e proseguita dai suoi seguaci nascosti sotto altre bandiere, oppure una guerra tra bande per la divisione degli utili? La Nuova Venezia, 15 gennaio 2014
Orsoni: fa solo i suoi affari Saveabbandona il Quadrante «Orsoni si faccia lo stadio da solo» II presidenteMarchi: «Impossibile dialogare con il sindaco, adesso non potrà dare più lacolpa a noi» Salta così l'opzione sull'area di 28 ettari per il centrosportivo, in vendita i terreni destinati a bosco
Entra nel vivo la scissione dell'atomo di Umberto Veronesi, tra le due componenti della ricerca scientifica e della speculazione edilizia: riuscirà l'esperimento? La Repubblica Milano, 15 gennaio 2014 (f.b.)
Comune e Fondazione Cerba ricominciano a trattare per salvare il Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata. Dopo la decisione di Palazzo Marino, il 18 dicembre, di non concedere un’ulteriore proroga alla firma degli atti integrativi all’Accordo di programma (con conseguente rischio di far decadere il piano), ieri durante una seduta della commissione Urbanistica le parti hanno avviato le prove d’intesa. Il vice sindaco Ada Lucia De Cesaris ha messo sul piatto la proposta del Comune: la revisione del progetto iniziale, con la riduzione dell’impatto urbanistico sul Parco e lo spostamento di parte delle costruzioni in un’altra zona, esterna all’area agricola.
Un’ipotesi che non dispiace alla Fondazione: «Siamo disposti a rivedere il progetto — spiega il direttore generale Maurizio Mauri — La parte del Cerba inerente alla ricerca e all’attività clinica deve essere necessariamente realizzata accanto allo Ieo, nel Parco agricolo Sud. Il resto, però, può anche essere costruito altrove: noi non vogliamo fare alcuna speculazione edilizia, ma solo portare avanti un disegno scientifico».
L’ipotesi sarebbe quella di spostare le “funzioni ancillari” del Cerba (le case per studenti e ricercatori in arrivo dall’estero, i magazzini, le aule per la didattica) in un’altra zona: si potrebbero utilizzare, si ragiona in Comune, alcune di quelle aree dismesse o edificabili che appartengono al pacchetto del fallimento Ligresti, ma si trovano dall’altro lato di via Ripamonti, fuori dal Parco agricolo Sud. Su cui, così, l’impatto potrebbe diminuire anche di un terzo. «Siamo pronti a partire su nuove basi purché sia chiaro l’iter urbanistico — sottolinea De Cesaris — Il Cerba si può fare benissimo con un lavoro di contemperazione. Ci si mette tutti di buona volontà e lo si fa in modo trasparente, con un accordo alla luce del sole e non pasticciato». Uno scenario che la Fondazione non esclude, anche se mette il paletto dei tempi: «Tutto dovrà essere risolto entro un anno, non di più», puntualizza Mauri.
Un compromesso, insomma. Che potrebbe essere formalizzato nelle prossime settimane, con l’avvio di un nuovo tavolo tra Palazzo Marino, Fondazione e Visconti srl, la società costituitadalla banche creditrici di Ligresti per presentare il concordato (che ancora attende l’omologazione) e rilevare il Cerba. Resta il nodo dei ricorsi al Tar, presentati contro il Comune dalla Fondazione e dalla curatela Ligresti, e su cui il Tribunale si esprimerà il 23 gennaio. Se la Fondazione si dice disposta a ritirarlo qualorale trattative dovessero riprendere ufficialmente, quello presentato dalla curatela per ora rimane in piedi. Anche perché è proprio con i curatori fallimentari (che il 27 dicembre hanno scritto al sindaco Pisapia, invocando un ripensamento per evitare che il concordato salti) che i rapporti sono più tesi: «La curatela finora non si è dimostrata disponibile ad arrivare a un compromesso — dice De Cesaris — In questi mesi abbiamo proposto diverse proposte di modifica al piano originale, ma l’accordo non è mai stato raggiunto: se ci avessero seguito, non saremmo a questo punto».
eddyburg) si battono da anni contro la distruzione di un prezioso paesaggio della costa della Sardegna. Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2014, con postilla
MADE IN BENETTON. Ogni tanto una buona notizia. Il 9 gennaio le sessanta cartelle di una sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato hanno salvato un pezzo di paesaggio italiano: Capo Malfatano, all'estremo sud della costa della Sardegna. Qui la Società Iniziative Turistiche Agricole Sarde e una cordata di costruttori di tutto rispetto (Sansedoni, Benetton, Toti e Caltagirone) stavano costruendo hotel e servizi per quasi 200.000 mila metri cubi di cemento (pari a circa 15 palazzi di dieci piani) collocati a 300 metri dalla spiaggia di Tueredda. Se è dovuto intervenire il Consiglio di Stato è perché il Comune di Teulada e la Regione Sardegna avevano tranquillamente concesso tutte le autorizzazioni (ennesimo atto di interessato suicidio), e la Soprintendenza non aveva fatto una piega (ennesima complicità nel suicidio). Il primo a opporsi un semplice cittadino: Ovidio Marras, contadino e pastore di 82 anni, supportato dallo straordinario GrIG (Gruppo di Intervento Giuridico). Ma mancavano i soldi per percorrere fino in fondo l'iter della giustizia amministrativa, ed è qua che è intervenuta Italia Nostra, un'associazione cui tutti noi dovremmo essere profondamente grati. “La sentenza – scrive proprio Italia Nostra – è una vittoria contro un’immensa e continua aggressione all’ambiente. Il Consiglio di Stato non solo ha riconfermato il valore assoluto del paesaggio sugli interessi economici, ma ha anche confermato la funzione delle associazioni in difesa del patrimonio culturale. Un’azione svolta con grande impegno e determinazione dal consiglio regionale di Italia Nostra Sardegna, da Maria Paola Morittu e dall’avvocato Filippo Satta per la difesa di un luogo unico. Malfatano deriva dall’arabo ‘Amal fatah’ che vuol dire ‘il luogo della speranza’, la speranza che per Italia Nostra sentenze come queste indichino quale debba essere il rispetto che il nostro patrimonio storico, artistico e naturale merita ogni giorno nel nostro Paese”. E sembra di vederlo, su qualche nuvola nel cielo della Sardegna, il sorriso di Antonio Cederna.
postilla
Sulla vicenda vedi su eddyburg l'articolo di Maria Paola Morittu,che nell'agosto 2010 ha aperto la critica e lanciato l'appello, gli articolipubblicati nel 2010 da Giorgio Todde (eddyburg) e Sandro Roggio (L’Unità),quelli scritti negli anni successivi da Andrea Massidda e Mauro Lissia (LaNuova Sardegna), Giorgio Meletti (Il Fatto quotidiano), Giorgio Todde (eddyburg). Su Ovidio vedi anche lo splendido servizio di Giorgio Galeano, per TG3,su YouTube.
Corriere della Sera, 14 gennaio 2013
Bellezza e occupazione possono andare d’accordo? Protezione dell’ambiente e occupazione possono sostenersi a vicenda? Chi crede solo nell’industrializzazione forzata, nella liberalizzazione edilizia e nella cementificazione del territorio, risponde di no, sostenendo che arte, cultura, ambiente e prevenzione non danno lavoro e comportano solo spese. Molte voci consapevoli stanno dimostrando invece, prove alla mano, che un Paese privo di materie prime come il nostro, può svilupparsi solo puntando sulle sue eccellenze. Suggerisco a questo proposito un bel libro di Montanari, Leone, Maddalena e Settis, sul rapporto fra Costituzione e ambiente, fra ricchezza accumulata nelle mani di pochi speculatori e perdita del lavoro, (Costituzione incompiuta, Einaudi). D’altronde non posso scordare la risposta di una studentessa vietnamita alla mia domanda del perché studiassero una lingua lontana e poco potente come l’italiano: «Perché siete la più grande potenza culturale del mondo!». Accidenti, mi sono detta, possibile che lo pensino i vietnamiti e da noi nessuno ci faccia caso?
Prendo qualche dato fornito da Roberto Ippolito, autore del lucido e informatissimo libro Ignoranti, Chiarelettere. Quest’anno i visitatori della Biennale d’arte di Venezia sono stati 475 mila, l’8% in più rispetto al 2012. A Torino i musei hanno aumentato i loro visitatori del 50% dal 2012. Nella città di Torino e provincia si contano oggi più di 33.000 addetti alla cultura, il doppio dei dipendenti Fiat. Purtroppo spesso la trascuratezza e la speculazione allontanano i turisti, fino a impoverire intere zone di alta qualità artistica. Ippolito cita il caso di Montescaglioso in Basilicata, dove è franata la località Cinque Bocche. «Strade inghiottite, villette crollate, un supermercato sprofondato, cancellato il collegamento con Potenza». Eppure Montescaglioso è un luogo di importanti testimonianze storiche: «Si trova nel parco delle chiese rupestri del Materano, vanta l’abbazia benedettina di San Michele Arcangelo del XII secolo, fa parte dell’associazione città dell’olio».
Come partecipazione alla vita culturale, l’Italia si trova al 23° posto su 28 Paesi dell’Unione Europea. Fra gli ultimi per laureati, per quantità di lettori, abbiamo una dispersione scolastica da Paese sottosviluppato, e la scuola è degradata. Se andiamo a vedere i dati del turismo, risulta che le città più visitate non sono quelle marine o dei divertimenti, ma le città artistiche, fra cui Torino, Firenze e Venezia. I turisti quest’anno hanno speso 32 miliardi , contro i 29 del 2010, con un aumento del 20%. Mentre ci sono città e luoghi artistici importantissimi come Pompei o Agrigento che, a causa dell’incuria, stanno perdendo visitatori. Insomma è chiaro che lì dove la bellezza è tutelata e protetta, dove l’accoglienza è garantita con visite guidate, vendita di libri, presenza di bar e ristoranti, la gente accorre. Dove c’è abbandono e cattiva gestione, la gente scappa. «L’Italia non ha capito che potrebbe recuperare migliaia di posti di lavoro puntando sulle sue vere, invidiate e inesauribili ricchezze». Chi lo dice? un vietnamita innamorato del nostro Paese o un italiano che tocca con mano tutti i giorni i danni che fanno la speculazione, la cementificazione, il cattivo uso del territorio e dei beni culturali ?
L’incontro dei comitati – il primo dopo la manifestazione di fine novembre – si è svolto sabato pomeriggio, nella sede patavina dei Beati Costruttori di Pace. Più di un centinaio i presenti, in rappresentanza del variegato arcipelago ambientalista e movimentista del Veneto. La prima parte dei lavori è stata dedicata ad una valutazione a freddo dell’iniziativa del 30. Valutazione considerata per lo più positiva da tutti. Superata la fase delle polemiche sulla gestione del corteo, è apparso chiaro che il percorso che si vuole intraprendere dovrà essere sì condiviso nei fini, ma rispettare le specificità di ogni singola associazione, i suoi tempi, il suo linguaggio e il suo stare in piazza. Piuttosto il, continuiamo a chiamarlo così , “movimento del 30 novembre” dovrà mostrarsi il più possibile inclusivo, allargando i temi ambientali a quelli del lavoro, considerando che alla fin fine, diritti e ambiente sono due facce della stessa medaglia che un certo tipo di “sviluppo” vorrebbe macinare per ricavare reddito. O meglio. quella famosa “rendita” che, come ha osservato l’architetta Luisa Calimani, portavoce di Città Amica, sta alla base di questo capitalismo predatorio che ha inventato parole come “austerity” e concetti come “crisi”.
E, a proposito di concetti, tanto per ribadirne uno che troppo spesso cercano di farci dimenticare - intendo “la lotta paga” – riportiamo una osservazione di Beppe Caccia. “La manifestazione del 30 ha avuto il merito di riportare al centro del dibattito politico temi che erano nella nostra piattaforma di lotta. Pensiamo solo al problema dei pedaggi autostradali di cui ora si fa un gran discorrere. Sono convinto che sia anche merito delle nostre mobilitazioni se ora due miti che ci erano stati inculcati come quello che il project financing non ci costa nulla e che le autostrade risolvono il nodo della viabilità, hanno mostrato tutta la loro inconsistenza”.
Archiviato quindi il bilancio positivo dell’iniziativa di novembre, resta da decidere quali strumenti utilizzare per buttare ancora una volta il cuore al di là della barricata. Per Oscar Mencini, che ha auspicato uno “svecchiamento” del sindacato sui temi ambientali, non è mai troppo tardi, ha sottolineato la necessità di “diffondere saperi e conoscenze, incrociando saperi sociali con conoscenze scientifiche” allo scopo di allargare la base critica. “E’ importante includere ma anche evitare di radicalizzare lo scontro” ha sostenuto. Una strada interessante, pur se non pare abbia suscitato grandi applausi in sala, è stata quella per così dire “istituzionale” avanzata dall’urbanista Carlo Giacomini che ha proposto ad usare ancora l’arma del referendum regionale e della proposta di legge di iniziativa popolare su tutti i temi sui quali si battono i comitati, dalle cave agli inceneritori, dalla tutela delle acque a quella de paesaggio. Se è vero che tutti quelli che erano in sala possono chiamarsi a buon diritto “figli” della grande battaglia referendaria per l’acqua pubblica, è anche vero che questa strada giuridica a livello regionale potrebbe rivelarsi tecnicamente impervia, costosa e difficile da percorrere. Per ottenere inoltre risultati quantomeno incerti. (Chi scrive ricorda ancora un paio di legge di iniziativa popolare personalmente depositate 4 o 5 anni fa di cui e che sono ancora ad ammuffire in qualche armadio di palazzo Ferro Fine, sempre che l’acqua alta non se li sia ancora mangiati).
Ma il vero punto dolente di tutta la discussione di sabato è stato il rapporto tra movimenti e partiti che è come parlare di thè col latte: c’è chi non riesce a berlo senza e chi si sente venire la pelle d’oca al solo pensiero di mescolarli. Detto subito che nessuno in sala è schizzato di matto al punto di proporre di costituire un altro partito di sinistra e neppure una sorta di “comitato dei comitati”, il problema di come affrontare le prossime amministrative c’è ed è inutile nascondercelo. Cristiano Gasparetto di Ambiente Venezia, ha messo in guardia l’assemblea dal “continuare a votare gli stessi sindaci e assessori che ci hanno preso in giro e che sono causa del disastro” proponendo di costituirsi in “una lista di partecipazione”. Proposta che non ha sollevato grandi entusiasmi in sala. Gli ha risposto Mattia Donadel di Opzione Zero, ricordandogli che “oramai le decisioni non vengono più prese nei luoghi istituzionali” e che “la questione qui non è sostituire un assessore ma un intero sistema di sfruttamento dei ben comuni”.
Chiudiamo restando sul concreto con la proposta operativa avanzata da Beppe Caccia che sarà, immaginiamo, uno degli argomenti che verranno affrontati nelle prossime assemblee. In sostanza, Caccia ha proposto di organizzare una “due o tre giorni” di lotta e di informazione, che ogni comitato dovrebbe gestire nel proprio territorio con le modalità e i linguaggi che più gli sono consueti: dai gazebi al volantinaggio, dai blocchi ai sit in. Rispettando quindi specificità e sensibilità di ogni associazione. Lo scopo è quello di informare la cittadinanza nelle zone “calde” con l’accortezza di legare sempre e comunque la questione locale ad un più ampio discorso globale. Perché, se c’è una cosa che la manifestazione del 30 novembre ha insegnato a tutti è che la sindrome di Ninby è perdente e si può vincere solo se cominciamo a pensare più in grande dei nostri avversari.
Recensione del film di Paolo Virzì, Capitale umano: come la finanza distrugge vita e territorio. www. Dinamo, 13 gennaio 2014
Paolo Virzì ha scelto di ambientare il “Capitale umano” nella Brianza. Un territorio geograficamente omogeneo, seppur amministrativamente spacchettato in quattro capoluoghi di Provincia, considerato da sempre, nell’immaginario del nostro paese, come “ricco”. Una fabbrica totale dove attività legate alla costruzione di mobili convivono con il comparto del cuoio; le fabbriche di motori automobilistici con quelle di aerei; le lavorazioni del legno con i distretti manifatturieri; moda e design con il terziario avanzato e, naturalmente, l’edilizia. Case e fabbriche, a volte un unico edificio per tutte e due, che, in alcuni casi, hanno rappresentato fino alla seconda metà del ‘900, veri e propri saggi in cemento sull’abitare di alcuni tra i più bravi architetti italiani. Una ininterrotta città fabbrica.
Non è più così e questo, ormai, da molto tempo. La Brianza è un posto come un altro; non diverso dai moltissimi che, giorno dopo giorno, vedono scomparire i propri caratteri identitari. Succede ovunque. Anche l’intorno di Varese è oggi un luogo simile a qualsiasi provincia italiana.
Qui, tuttavia, la finanza e i suoi strumenti si esibiscono con maggiore visibilità, forti della condizione geografica del luogo rappresentata dalla prossimità di questo territorio al confine svizzero. Lì, a pochi chilometri dai cancelli delle proprie case, per decenni e decenni, i cosiddetti “imprenditori” locali hanno portato i soldi della propria rendita. Oggi, forse, è il luogo dove poter “raccattare” più facilmente, con promesse di altissimi interessi di reddito, capitali nascosti, sopravvissuti alla crisi, scudati o da riciclare. La riserva di caccia per illudere che è ancora possibile farcela, continuare a vivere di privilegi. Basta sostituire il lavoro con la nuova opportunità offerta dalla speculazione finanziaria: fare i soldi con i soldi.
Giovanni Bernaschi (Fabrizio Gifuni) vende questo sogno. Ha capito però che i capitali che servono per alimentare il suo fondo d’investimenti non si raccolgono allo sportello bancario, ma facendo di se stesso il manifesto tangibile del proprio “acume” finanziario. Giovanni e il suo fondo sono già leggenda assicurando, si dice, un più 40% su base annua. Per lavorare con soldi non suoi ha capito che oltre la propria fama di raider deve metterci dell’altro: l’immagine di una famiglia che tutto ha e tutto potrebbe avere e soprattutto la casa, il vero valore aggiunto al suo progetto.
Casa che non è a Milano. E’ volutamente lì, proprio in quella brughiera. Alta, bianca e squadrata, austera ma non solenne, con doppia scala d’accesso, ma sospesa appoggiata come è lievemente su di una collinetta dove è localizzata una piscina interna dalle ampie vetrate vista parco. Annessa c’è una zona sportiva: un campo per il tennis. In terra rossa naturalmente. Come si addice a chi, quello sport, pratica da sempre.
Una casa che segna un territorio, oggi devastato proprio dalle case: quelle degli altri
.Paolo Virzì, come fatto da Matteo Garrone in Reality, ci sbatte subito in faccia il disastro territoriale di questa eccedenza edilizia, facendoci atterrare, dopo una ripresa dall’alto, all’interno di una porzione dell’enorme villettopoli spalmata senza misericordia alcuna nell’hinterland a nord di Milano.
Le case, per Virzì, sono importanti. Le ha sempre scelte praticando una sorta di geografia duale, quale esemplificazione microspaziale, per raccontarci i diversi personaggi che incontriamo nelle sue storie. Succede in Ovo sodo; con i lividi palazzi della “Corea” livornese contrapposti alla raffinata edilizia del lungomare dell’Ardenza o, ancora ultimamente, in Tutti santi giorni dove la casetta a schiera di Acilia, con i rassicuranti riti di buon vicinato nella periferia romana, misura la distanza siderale con l’abitare metropolitano di San Lorenzo.
Giovanni Bernaschi usa anche il tennis per fare promozione. Lui vuole vincere non giocare. Componendo le coppie, dosando gli inviti, tesse le proprie relazioni. Anche Carla (Valeria Bruna Tedeschi), la moglie ex attrice strappata al palcoscenico, ha questo ruolo. E’ tutto uno con quella casa. Si muove silenziosa tra le molte stanze e quando esce stressa l’autista perché non è mai sicura dei suoi giri in città. Guida la macchina solo quando sa dove deve andare. Non è però la provincia a starle stretta né quella vita dorata, quanto piuttosto che marito e figlio la considerino un accessorio. Il marito non le spiega nulla di quello che fa e Massimiliano, il figlio fragilissimo, risponde alle sue domande dicendole di non “cagarle il cazzo”.
Carla non si stupisce più di tanto, né fa una piega quando, sembrandole impossibile che nel territorio dove vive stia per scomparire anche l’ultimo teatro - quello dove aveva debuttato Tino Buazelli - lo dice al marito e questo, che ha come rifermento il mondo, esclusivamente via conference-call, le domandi se sia proprio così importante.
Lei si è ritirata da molto tempo dal teatro, lui lo costruisce quotidianamente. Gli aderenti al suo fondo, i suoi soci, i propri dipendenti, non sono forse, al tempo stesso, suo pubblico e suoi attori?
Tutti a muoversi secondo il copione scritto dalla finanza vorace. Quella che non guarda in faccia nessuno, capace di far credere possibile ad un piccolo imprenditore edilizio che è meglio barattare mattoni e progetti con investimenti finanziari. Il gancio tra i due sono proprio i rispettivi figli, entrambi alunni di una scuola per fighetti, che tra loro stanno concludendo, senza dirlo ai genitori, una storia.
Così Dino Ossola l’immobiliarista brianzolo (interpretato da un supremo Fabrizio Bentivoglio capace di trasmettere perfettamente l’ambiguità del personaggio) fa il grande balzo. Sostituisce cementi e rogiti con soldi. Costruire e vendere case è un mestiere che non può finire perché, dice: “di case e bare ce ne è sempre bisogno”. Solo che, almeno delle prime, si è un po’ esagerato; ce ne sono tante, troppe e da qualche tempo sono destinate a restare vuote. Lui lo sa perché la crisi morde anche lui, tanto che ha già venduto ai cinesi una parte del suo ufficio. Ora vuole recuperare: riprendersi quello che dice spettargli: il poter continuare a lucrare rendita, il facile arricchimento, il non essere schiacciato dal governo della finanza del mondo, dalle sue nuove regole del gioco.
Vuole recuperare nell’unico modo che conosce: come ha sempre fatto. Prende i soldi che non ha grazie all’aiuto di un compiacente direttore di filiale millantando businnes plan di lavori inesistenti. Li tiene fuori da lavoro. Li investe nel fondo di Bernaschi.
Lo fanno tutti, anche, soprattutto, le banche perché non dovrebbe riuscire a lui? Solo che i conti non tornano perché questo fiume di denaro è destinato a vivere sollevato da terra a muoversi nello spazio altissimo e vastissimo rppresentato dalle oscillazioni valutarie, dalle scommesse sui titoli. Non è facile tirarlo giù quando si sta con l’acqua alla gola; trovarselo in quella strada dove vivi, dove scorre la vita; farlo atterrare secondo programma nella sua casetta con giardinetto, su due livelli simile alle centinaia con cui è costruita la lottizzazione.
La casa di Ossola e quella di Bernaschi, anche se dimensionalmente diverse e architettonicamente distanti, hanno una cosa in comune. La cucina ovviamente c’è ma, nei sei mesi dell’arco temporale in cui è raccolta la vicenda, non si vede mai un pranzo domestico. Nessuna delle due famiglie consuma pasti insieme. Né nella grande casa. Né nella villetta. La prima solo feste nel parco. La seconda solo passaggi veloci su tavoli multiuso, dove tracce di cibo si accostano a libri, computer, risultati di ecografie della compagna dell’immobiliarista (Valeria Golino), psicologa della Asl, attualmente inattesa di un parto gemellare.
Spazi non casa. Dove ognuno è solo con se stesso certo che così facendo, cullandosi nel proprio egoismo, farà il bene di chi gli sta intorno. Si sentono i genitori migliori del mondo. Perché loro il mondo lo sanno governare. Sanno quando c’è d’alzare la posta. Lo fanno perché vogliono i loro i figli vincenti e felici. Ognuno fa questo dal proprio singolo punto di osservazione. Virzì compone il film sezionando un medesimo avvenimento a loro ancora ignoto, ma che noi conosciamo fin dall’inizio della storia, attraverso tre capitoli che rappresentano come Carla, Dino e sua figlia Serena vivono quello che è successo, che sembrav non aver nessun rapporto con la loro vita, ma che, invece, gli precipiterà addosso .
Serena e Massimiliano, i figli, sono differenti dai loro genitori e tra loro. Mentre il ragazzo non riesce a vedersi fuori dai propri agi e il ruolo di privilegiato che la figura paterna gli assegna d’ufficio, Serena, la ragazza, saprà uscire fuori da questo mondo fatto di feste, sballi, automobili, repliche in piccolo delle mille sopraffazioni sociali di cui sono campioni i propri genitori , i loro amici, i loro avvocati. Saprà guardarsi intorno e non aver paura di quello che, a prima vista, le pare così distante da lei. Gli altri, i grandi, faranno quello che hanno sempre fatto, vivere di ricatti, tristi scopate, le isteriche scenate di un intellettuale meridionale che era convinto di tirar fuori, dopo un rapido amplesso con Carla, il proprio talento da uno squallido condominio, arredato come un foyer teatrale, passerelle dei politici di turno con l’assessore leghista con la suoneria del telefonino tarata sul Nabucco, preti beoti impacciati e deferenti presentatori di ragazzi-bene, amiche galleriste con le ultime cose appena arrivate dall’India, e tanti, tanti, comprimari per le feste nel parco. Sempre disponibili ad arraffare le briciole.
Non è la Roma di Sorrentino né la provincia brianzola. E’ l’Italia. Già affondata quando, ma è successo ormai da tempo, ha iniziato a ”tabellare” il valore di una vita secondo parametri finanziari. Quella del cameriere ucciso sul bordo della strada da una manovra avventata - è questo l’avvenimento che tiene insieme tutta la storia - vale poco più di duecentomila euro. Una cifra che il finanziere Bernaschi non accetterebbe di prendere neppure in considerazione accogliendo gli ospiti nella sua casa in cui si decide come saranno calpestati magari dal giorno dopo.
Virzì riesce a comporre tutto questo come un giallo rendendo tutti gli attori (protagonisti e comprimari) assolutamente credibili. Il sorprendente montaggio di Cecilia Zanuso ci fa sentire come spettatori di un set di diapositive, che non sono però ricordi di un viaggio già fatto, ma di quello verso cui vorrebbero trascinarci tutti.
Nel saggio di Francesco Erbani (Una vita per la città, il paesaggio, la bellezza, Corte del fòntego editore) ), le battaglie del fondatore di Italia Nostra per il territorio. La Nuova Venezia, gennaio 2014
«Non è a dire che io sia un vero giornalista, mi mancano tante qualità dei giornalisti. Ma grazie al cielo anche tanti difetti. Io mi vanto di aver scritto cose che in una repubblica ben ordinata sono ovvie... E a dir il vero scrivo sempre lo stesso articolo». Così Antonio Cederna, padre nobile dell'ambientalismo italiano, descriveva se stesso. «Sempre lo stesso articolo». L'amarezza di dover insistere sull'incuria del territorio, il saccheggio e il dissesto idrogeologico. Per ritrovarseli sempre davanti a ogni tragedia. Due giorni sulle prime pagine, poi tutto come prima.
La figura di Cederna, archeologo, giornalista e scrittore, autore di battaglie e denunce storiche sul "saccheggio del territorio" rivive grazie alla ristampa a cura della casa editrice veneziana Corte del Fontego del saggio del giornalista di Repubblica Francesco Erbani. «Una vita per la città, il paesaggio, la bellezza», è il titolo eloquente del volumetto. Che raccoglie testimonianze e documenti su colui che è stato uno dei capostipiti del movimento per la tutela della natura e della storia in Italia. Fondatore di Italia Nostra, giornalista al Mondo di Pannunzio insieme a Eugenio Scalfaci, poi al Corriere della Sera e a Repubblica, Cederna era conosciuto per i suoi attacchi senza paura a speculatori e cementificatori. la Società immobiliare nella Roma degli anni Sessanta, ma anche consorzi e imprese che hanno nel Dopoguerra "cementificato il territorio" attentando alla bellezza del Paese ma anche alla sicurezza di chi ci vive. «Scrivo da sempre lo stesso identico articolo, finché le cose non cambieranno continuerò a farlo», ripeteva Cederna, secondo la testimonianza della sorella Camilla. Così sui luoghi dell'alluvione della sua Valtellina ricorda le migliaia di vittime causate da alluvioni e inondazioni. «Le catastrofi sono sempre prevedibili», diceva citando il geologo francese Marcel Roubault, «non venitemi a parlare di fatalità». Si batteva come un leone contro le grandi opere ritenute inutili, a cominciare dal Mose a Venezia, dalle nuove strade in programma sui terreni antichi della via Appia a Roma.
Fu il primo a teorizzare la necessità di tutelare i centri storici, assediati dal cemento. «Non i singoli monumenti, ma gli interi centri storici». Si battè per la restituzione di palazzo Bar-berini, diventato circolo ufficiale dell'Esercito, a sede espositiva, per i nuovi Fori, che adesso la giunta capitolina prova a recuperare. Da parlamentare della Sinistra indipendente firma la rivoluzionaria - e mai applicata - legge sulla Difesa del suolo, nel 1989, dopo aver avuto come consulenti il veneziano Luigi Scano, Stefano Rodotà, Franco Bassanini. «Difficile stringere Cederna in una definizione», scrive nella postfazione Erbani, «ha dedicato all'urbanistica, all'uso dissennato del suolo, alla salvaguardia del patrimonio culturale e del paesaggio le energie migliori e le riflessioni più innovative».
Parma Due: un modo travestito per urbanizzare un altro pezzo di territorio rurale: con la scusa della sostenibilità e del chilometro zero, l'ennesimo quartiere suburbano a bassa densità e filosofia ruralista? Corriere della Sera, 12 gennaio 2014, postilla (f.b.)
(Parma) — C’è un grande prato verde dove nascono speranze cantava Gianni Morandi. Il prato verde di Giovanni Leoni, 52 anni, imprenditore agricolo parmense con una rivoluzionaria idea in testa e un progetto che a mesi diventerà realtà, sono i 28 ettari sui quali il prossimo settembre verranno posate le 60 abitazioni (per altrettante famiglie, totale 240 persone) del suo Agrivillaggio, un quartiere ecologico totalmente autosufficiente dal punto di vista alimentare ed energetico, fornito di negozi e servizi, dove nulla viene sprecato, tutto viene prodotto secondo i cicli naturali dell’agricoltura e i cui abitanti si muovono a piedi, in bici o con auto elettriche.
Un eco-villaggio, «unico al mondo» afferma Leoni, capace di provvedere ai bisogni dei residenti nel rispetto dell’ambiente. Dove la filosofia del «Km 0» trova piena attuazione (Leoni parla di «iperzero»): «Tra il consumatore residente nel villaggio e l’agricoltore non ci sono intermediari né sprechi di risorse per il trasporto: tutto viene prodotto all’interno dell’Agrivillaggio, a cominciare dai prodotti di stagione». Il cuore pulsante, «il polo energetico» come lo chiama Leoni, è la stalla già perfettamente funzionante e in linea con le migliori tecnologie, che sforna cibo, consente il riciclo dei rifiuti e produce energia (biogas, quindi metano).
Il progetto di Leoni, a un tiro di schioppo da Parma, a Vicofertile, dove la campagna lambisce la prima periferia, non è un ritorno al Medioevo, «né una suggestione da eremita». È un modo diverso di pensare il futuro, l’alimentazione, l’abitabilità, i rapporti sociali. Un modello alternativo alle grandi megalopoli-dormitorio che parte dalla constatazione «dell’enorme debito ecologico che il genere umano ha ormai contratto con la Terra». Un modello che punta, nel rispetto dei cicli, a creare un mondo con più beni e servizi e un minor impatto ambientale:«A differenza di adesso, l’agricoltura del futuro dovrà partire dal fabbisogno ideale di ciascuno, guardando in faccia il consumatore». È quella che Leoni chiama «agricoltura on demand»: «Nel villaggio gli orti e i frutteti produrranno cibo per un migliaio di persone, anche se i residenti sono 200: l’eccedenza sarà venduta all’esterno».
Se negli ultimi dieci anni Leoni ha potuto dedicarsi anima e corpo al progetto dell’Agrivillaggio — che decollerà ufficialmente all’inizio del 2015 per sfruttare la scia dell’Expo di Milano e che si è avvalso della consulenza di architetti, biologi e ingegneri — lo si deve alla solidità della sua azienda agricola, leader nel settore, che produce ogni anno 1500 forme di Parmigiano-Reggiano, 22 mila quintali di pomodori e 10 mila di cipolle. L’azienda sarà il cuore pulsante dell’Agrivillaggio. È in essa che Leoni ha riversato le conoscenze accumulate nelle più diverse aree del mondo (dall’Argentina all’Australia) nel campo della sperimentazione agricola e ora confluite in una sorta di «fattoria didattica» per gli studenti delle scuole medie e superiori. Anche sul piano urbanistico il progetto presenta lati innovativi. Ispirato dalle teorie dell’architetto Frank Lloyd Wright («La città vivente», 1958) e dalle transition towns fondate in Irlanda e in Inghilterra dall’ambientalista Rob Hopkins, l’Agrivillaggio prevede nuove concezioni abitative: «Case a un piano con un tetto che fa da terrazza sugli orti. Ogni modulo poggia su una piattaforma di cemento e ha una superficie di 18 metri quadrati. Saranno i residenti a scegliere la metratura: basterà aggiungere o togliere i moduli».
Il costo della casa, fornita di fotovoltaico e solare termico, è volutamente basso per consentire a tutti di usufruirne: «Non si acquista la terra, che resta di proprietà dell’azienda, ma il diritto di superficie. Chi vuole può acquistare una quota che diventa una sorta di pensione integrativa». Autogestita anche l’urbanizzazione. Non ci saranno fogne: «Tramite la fitodepurazione i rifiuti vengono trasformati in cibo per piante, biomassa e quindi energia». Di notte funzionerà un’illuminazione al passaggio. E poi c’è l’aspetto sociale: «La spesa a “Km 0”, la possibilità del telelavoro e i servizi del villaggio consentiranno ai residenti di dedicare più tempo ai figli e agli anziani».
La grande incognita tra Leoni e il suo sogno si chiama, guarda caso, burocrazia: «Stiamo aspettando il varo del Piano strutturale comunale, ci hanno assicurato una corsia preferenziale». E ci mancherebbe. Parma è governata da un monocolore 5 Stelle. E uno degli ispiratori dell’Agrivillaggio, nonché presidente della scuola, è Maurizio Pallante, teorico della «decrescita felice», totem dei grillini.
postillaSe osserviamo con un minimo di prospettiva le vicende delle cosiddette utopie urbane (o meglio antiurbane) a cavallo tra XIX e XX secolo, non possiamo fare a meno di notare come tutte, nessuna esclusa, abbiano abbastanza ovviamente fallito l'obiettivo dichiarato, ovvero costituire un campo di prova per la società futura, mentre in alcuni casi si sono potute sperimentare puntualmente alcune innovazioni, di solito ritenute marginali almeno ufficialmente dagli utopisti e dai loro seguaci. Non fa eccezione al modello la città giardino, che addirittura ha prodotto sul versante pratico il suo esatto contrario, ovvero il suburbio a bassa densità, socialmente segregante e ambientalmente micidiale per consumi di territorio e sprechi energetici indotti dal modello di vita. Nel caso della utopia de noantri descritto dall'articolo, a definirne le premesse possono bastare i riferimenti dichiarati: l'antiurbanesimo individualista di Frank Lloyd Wright, padre legittimo di tutte le Wisteria Lane da casalinghe disperate dei nostri tempi; la fuga all'indietro (pur di fronte al temuto crollo climatico ed energetico della civiltà occidentale) del movimento Transition Town, sostanzialmente localista e familista. Anche tra gli hippies di Woodstock, insomma, si vedeva di molto meglio, da tutti i punti di vista (f.b.)
II contenimento del consumo di suolo non comporta solo l'inedificabilità dei suoli attualmente ancora liberi e la densificazione indiscriminata delle aree già urbanizzate. Richiede anche un'utilizzazione ragionevole del già costruito , 11 gennaio 2014, con postilla (f.b.)
È vuota da più di quindici anni: un monumento alle città abbandonate, la Torre Galfa, tanto che un anno e mezzo fa il collettivo Macao l’aveva scelta come prima sede per una breve ma intensa occupazione abusiva. Ora il grattacielo di via Galvani passa dalle mani del gruppo Fondiaria-Sai a quelle del gruppo Unipol (che ha acquistato il gruppo di Ligresti nel 2012), che sta iniziando a studiare un progetto di riqualificazione del Comune. Obiettivo: trovare investitori anche internazionali per poter partire con i lavori di recupero nel corso di quest’anno.
È soddisfatta l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris per un accordo che va nella direzione delle politiche di recupero del costruito fissate anche dal nuovo regolamento edilizio: «Abbiamo avviato un processo condiviso con Unipol per definire il progetto migliore per la riqualificazione della Torre Galfa, che potrà tornare ad essere un elemento di qualità per la città, mi auguro che possa essere d’esempio per gli altri proprietari di edifici abbandonati». Il progetto di riqualificazione e valorizzazione, che riguarderà non solo la torre, ma anche lo spazio urbano circostante, è nella fase iniziale (Unipol ha preso possesso del grattacielo da poco). Non è un caso, forse, che la notizia dell’accordo sia arrivata ieri: perché per oggi alle 14 Macao ha in programma un “laboratorio itinerante” che parte dalla Torre Galfa e arriva nell’edificio attualmente occupato, l’ex macello di viale Molise.
postilla
L'occupazione da parte di un gruppo di artisti del grattacielo griffato anni '60 in pieno centro a Milano, lasciato strumentalmente vuoto dal gruppo Ligresti a marcire, aveva fatto sensazione in tutto il paese: si denunciava esplicitamente tutta l'ideologia della cosiddetta eccellenza e sviluppo del territorio in salsa ciellino-formigoniana. Mentre una massa enorme di metri cubi disponibili a uffici veniva lasciata a far muffa, a duecento metri da un nodo di trasporti come la Stazione Centrale, un isolato più in là si scaraventava inopinatamente sul quartiere una specie di piramide di Cheope fortemente voluta dall'onnipotente governatore, e ancora poco distante crescevano gli altri parti delle fantasie di archistar e immobiliaristi d'assalto. Oggi, la sola idea di far qualcosa di minimamente ragionevole con quel grattacielo, contemporaneo al più noto Pirelli e allineato sulla medesima via Galvani angolo Fara (da cui il nome GalFa), può anche indicare una inversione di rotta. Certo non basta, ma come si dice aiuta. Su questo sito a vedi anche Torre GalFa e la responsabilità sociale dell'immobiliarista, di Diego Corrado e Gaetano Nicosia, ripreso da Arcipelago Milano (f.b.)
«Il disegno di legge Che Contiene il consumo di Suolo e Stato approvato. Ma Contiene Tutte le trappole Tecniche per rallentarne l'Efficacia MENTRE continua la corsa del cemento ». Il Manifesto, 10 gennaio 2014
E Di QUESTI giorni il sì al disegno di legge sul "Contenimento del consumo del Suolo e riuso del Suolo edificato", Proposto dal Ministero delle Politiche agricole alimentari e Forestali. Epoca La Proposta Già approdata in Consiglio dei Ministri a giugno (2013), ora has been approvata Dalla Conferenza unificata, COMPOSTA da soggetti dell'Apparato statale e da Quelli appartenenti alle autonomie locali, e Dallo Stesso Consiglio.
L'Atto Poteva costituire un passo Importanti, Perché Finalmente il Governo non solista Discute ma cerca di trattare operativamente il Problema del consumo di suolo.Tuttavia la stesura finale del Provvedimento risulta largamente Insufficiente, in Quanto conserva TUTTI GLI Elementi contraddittori Già Presenti Nella bozza originaria e Oggetto di svariate Critiche da Più parti Perchè Tali da indebolire, fino a Bon Voyage vanificarne le Migliori Opzioni, l'Efficacia del Provvedimento.
Accanto a quest'ordine di rilevamenti emergono clamorosamente i Dati Informazioni relative alle stanze Vuote ed ai Volumi Commerciali ed industriali inutilizzati: per le prime siamo un circa venti Milioni, MENTRE I Secondi Ormai superano il miliardo di metri cubi (TRA Qualche settimana Saranno i Dati ufficiali dell'ultimo censimento). Di fronte un racconto Situazione, si invocava Una legge sul Blocco del consumo di Suolo Che Fosse veramente racconto: escludendo Qualsiasi nuova edificazione, un Meno di Casi particolarissimi; fornendo ai Piani urbanistici Chiare Strumentazioni per ridurre o azzerare i DIRITTI edificatori Già acquisiti, specie in Contesti Già segnati da forte sovrabbondanza di offerta; cancellando la possibilita Che le leggi "di emergenza" berlusconiane (la Legge Obiettivo per le Infrastrutture, Quelle speciali per energia, Rifiuti, depurazione, ecc.) potessero aggirare la STESSA Pianificazione, Anche paesaggistica, determinando con forza Il Recupero - Anziché Le Nuove costruzioni - Nella Direzione delle Nuove Politiche urbane e territoriali.
Il Provvedimento invece ha tralasciato di dettagliare QUESTI avvertimento, mantenendo TUTTI GLI Elementi di confusione e Contraddizione denunciati. Nel paese un venire l'Italia colomba, venire sosteneva un giugno di quest'anno la STESSA ministra Nunzia De Girolamo «Ogni Giorno impermeabilizziamo Più o Meno l'Equivalente di 150 campi da calcio» e Dove c'è Stato un «Aumento del 166 % del territorio edificato in Italia NEGLI Ultimi 50 anni ».
Nella Normativa infatti emergono Chiaramente i Punti controversi. In fondo al comma 1 dell'art.3 del Ddl sul contenimento del consumo di Suolo: «e determinata l'Estensione Massima di superficie agricola consumabile sul territorio nazionale, nell'obiettivo di Una progressiva RIDUZIONE del consumo di Suolo di superficie agricola». This Principio rientra nell'ottica europea del «traguardo di un Incremento dell'occupazione netta di terreno pari a da Raggiungere Entro il 2050 pari a zero». Ma Se da un lato l'Europa SEMBRA essersi accorta del Problema, dall'altro lato SEMBRA non Aver Ancora capito l'Entità dell'emergenza. «Dal rapporto Panoramica su di buone pratiche per limitare l'impermeabilizzazione del suolo e mitigatin suoi effetti, Presentato per la prima volta in Italia Dalla Commissione Europea Durante il convegno ISPRA» del 5 febbraio 2013, «circa il 2,3% del territorio continentale E ricoperto da cemento . Dai 1.000 kmq stimati nel 2011 Dalla Commissione Europea - Estensione Che Supera la superficie della città di Berlino - circa 275 al giorno (1990 e il 2000), Si e Passati: ai 920 kmq l'anno (252 ettari al giorno) in soli 6 anni (2000-2006) ».
Chi si profes di territorio e di urbanistica in Italia sa, e non C'è Dubbio alcuno, Che un orizzonte del Genere, cioè Quello del 2050, potrebbe rivelarsi inefficace per avviare Una vera alternativa allo Spreco del territorio agricolo e non. Tempi troppo lunghi per un'attuazione Che dovrebbe avvenire, se non immediatamente, al massimo in Uno spazio di Qualche anno.
Sostiene l'Ispra Che «il consumo di Suolo in Italia e cresciuto at a supporto di 8 mq al Secondo e la serie storica Dimostra che sì Tratta di un Processo Che dal 1956 non CONOSCE battute d'Arresto. Si e Passati dal 2,8% del 1956 al 6,9% del 2010, con un Incremento di 4 Punti percentuali. In Altre parole, have been Consumati, nei media, più di 7 mq al Secondo per Oltre 50 anni »(Comunicato Stampa Ispra - L'Italia Perde terreno Consumati 8 mq al Secondo di Suolo).
E Ancora «Il Fenomeno e Stato Più rapido NEGLI anni '90, in cui si Periodo Sono sfiorati i 10 mq al secondo, ma il ritmo degli Ultimi 5 anni si Conferma sempre accelerato, con Una Velocità superiore Agli 8 mq al Secondo» (Comunicato Stampa Ispra - L'Italia Perde terreno Consumati 8 mq al Secondo di Suolo).
Ci si porta Dietro tutto il peso degli Errori Passati venire Si Può Facilmente Capire all'art. 9 del Ddl: «(...) A decorrere Dalla dati di entrata in Vigore della presente Nome legge (...), e comunque non Oltre il Termine di tre anni, non E Consentito il consumo di superficie agricola TRANNE Che per la Realizzazione di Interventi Già autorizzati e Previsti Dagli Strumenti urbanistici vigenti, nonche per i Lavori e le opere Già inseriti NEGLI Strumenti di Programmazione delle Stazioni appaltanti e nel Programma di cui all'articolo 1 della legge 21 dicembre 2001, n. 443 ». E la legge n.443 altro Non E Che la cosiddetta "Legge Obiettivo". Come a dire, sollecitare change Le nostre azioni, ma con calma Non C'è poi Così fretta. Un pericoloso controsenso.
Appello all'emergenza e ricorso alla discrezionalità: ecco gli strumenti essenziali per consentire corruzione e criminalità. Il caso esemplare de l'Aquila. Il manifesto, 9 gennaio 2013
Nel pieno rispetto della legge i comuni possono infatti affidare a trattativa privata appalti pubblici fino ad un importo di 500 mila euro. Afferma ancora l’Autorità che quasi la metà (48,1%) dei contratti di importo superiore ai 150 mila euro è stata affidata senza la pubblicazione del bando per un valore complessivo di 3,6 miliardi di euro. Nessuno ha dunque il diritto di meravigliarsi di quanto è avvenuto a L’Aquila: era tutto scritto e bisognava soltanto ricostruire le regole.
Nell’area del terremoto abruzzese, ci sono poi due ulteriori argomenti che non lasciano scampo a chi tende a derubricare l’accaduto come un «normale» caso di disonestà. Il primo riguarda la macroscopica anomalia rappresentata dalle procedure emergenziali che, come noto, sono basate sulla filosofia delle deroga alle regole ordinarie. Con la scusa del terremoto, nel cratere abruzzese si sono potuti affidare appalti pubblici attraverso una discrezionalità ancora maggiore di quella che permettono le pur generose leggi ordinarie. Sempre i dati forniti dall’Autorità sugli appalti pubblici ci dicono che nel 2011 le ordinanze di protezione civile in tutta Italia sono state 72 per un importo di 1,98 miliardi di spesa: la cultura emergenziale come schermo della discrezione.
Di fronte ad un sistema politico inefficiente sono state come al solito la magistratura e le forze dell’ordine a svolgere un ruolo prezioso. Lo scandalo dell’Aquila potrà servire se si avrà il coraggio di affrontare tre nodi fondamentali. Le regole di appalto, come abbiamo visto, non esistono più e i soldi pubblici vengono spesi con assoluta discrezione dal mondo della politica: è ora di ricostruirle. Il ruolo di guida delle pubbliche amministrazioni nelle città è stato in questi anni demonizzato a partire dalla famigerata proposta di legge Lupi (attuale ministro) che arrivava ad equiparare pubblico e privato. Di fronte al disastro provocato dalla cancellazione dell’urbanistica è ora di invertire la tendenza. L’Aquila, del resto, ne è l’esempio più tragico. Tra quattro mesi ricorre il quinto anniversario dal sisma e il centro storico è un deserto umano proprio perché si è rinunciato ad una rigorosa programmazione pubblica. E infine occorre capovolgere il bilancio dello Stato. Nella legge di stabilità non solo sono stati tolti i finanziamenti per la ricostruzione de L’Aquila e mantenuti quelli sulle grandi opere ma si continua nella demolizione delle regole. Secondo la cultura prevalente nella compagine governativa, i mali dell’Italia sono da ricercarsi nell’eccesso di regole – problema che pure esiste — e non nel gigantesco sistema della discrezionalità che caratterizza la pubblica amministrazione. E dove c’è discrezionalità non ci si può meravigliare che trionfino corruzione e malaffare
Un libro di Roberto Cuda, Strade Senza Uscita. Banchieri costruttori politici (editore Castelvecchi) per chi vuole capire, a un tempo, quanti sporchi interessi si nascondano dietro le devastanti politiche autostradali italiane e quanto sia grave, nonostante il gigantesco dispendio di risorse pubbliche, il deficit della mobilità.
Risorse che nessuno ha, semplicemente indebitando e pregiudicando il futuro, come dimostra in modo inesorabile questo testo di Roberto Cuda, che svela gli intrecci tra concessioni autostradali, consigli di amministrazione, imprese di costruzioni, banche e politica: una lunga storia di affari, inchieste e politiche assenti o sbagliate nel campo dei trasporti.
Una storia partita nel dopoguerra con l’avventura autostradale degli anni '60, poi fermata a causa della crisi petrolifera e dei conti che non tornavano, come certificò la Commissione Adorisio nel 1975, e come scrisse lucidamente l'ing. Guglielmo Zambrini su questioni di mobilità, trasporti e territorio intorno alla Politica autostradale e Programmazione.
Poi il tentativo di rilancio negli anni ‘80 con il Piano Decennale di grande viabilità, di nuovo fermato nel 1992 dalla magistratura con le inchieste “mani pulite” su “tangentanas”, che provocò un brusco arresto, non solo a parole ma molto concreto, di un intero sistema affaristico e politico legato alla costruzione di strade ed autostrade.
Dalla fine degli anni ’90, riparte il rilancio dei progetti autostradali grazie alla proroga generalizzata della durata delle concessioni invocata per realizzare nuovi investimenti grazie alle tariffe da incassare - in genere ventennale ed autorizzata proprio dai fautori del libero mercato. Poi la privatizzazione delle concessionarie pubbliche, a partire da Autostrade per l’Italia, autentica gallina dalle uova d’oro dell’I.R.I., ceduta ai privati proprio quando - realizzati a carico delle casse pubbliche i maggiori investimenti - era giunta l’ora di incassare dai pedaggi e ripagare il pesante debito pubblico generato. Basta scorrere il libro del prof. Giorgio Ragazzi, I Signori delle Autostrade, per questa storia poco edificante per l'interesse pubblico.
Infine, come documenta benissimo questo libro, si ripropone la solita vecchia lista di autostrade da realizzare con la nuova Legge Obiettivo voluta dal Governo Berlusconi nel 2001 per semplificare la realizzazione di grandi opere “strategiche” ma aggiornata con nuove parole d’ordine: il Project Financing, l’autofinanziamento, il mercato che paga le grandi opere. Proprio su questa ultima fase si concentra la rigorosa ricerca di Roberto Cuda, smascherando con dati incontestabili che non si tratta di capitale di rischio messo da soggetti privati, che non è vero che le nuove autostrade si ripaghino da sole con i pedaggi, e certificando la prudenza delle banche e dei fondi d’investimento a sostenere le nuove opere.
Grandi proclami e pompose inaugurazioni ma che dietro hanno il vuoto dei piani economici e finanziari, in realtà sempre protetti da garanzie pubbliche che assumono via via nuove forme ma senza in realtà cambiare la sostanza: l’allungamento della durata della concessione, il contributo a fondo perduto, il valore di subentro alla scadenza della concessione, il commissario straordinario, la vendita (o svendita) di azioni delle concessionarie pubbliche per far quadrare i conti, il “Prestito Ponte” delle banche in cambio di garanzie pubbliche, l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti, il Proiect Bond, ed infine il credito d’imposta con la defiscalizzazione per aiutare i soggetti privati a realizzare le nuove autostrade, di recente approvazione.
Ed è proprio su questo crescendo di finanza “privata” in realtà garantita dal sistema pubblico che si concentrano diversi capitoli fondamentali di questo testo, arrivando a dimostrare che molte delle principali opere inaugurate di recente - come la Tangenziale Est Esterna di Milano o la Pedemontana Veneta - hanno finanziamenti e garanzie solo per piccoli lotti, creando dunque le premesse per opere incompiute, nuovi debiti per i futuri bilanci dello stato, e soprattutto per alimentare una pressione indebita verso la politica e le istituzioni, per trovare le risorse per il completamento delle opere già in corso.
E’ una vecchia tattica sempre utilizzata in modo consapevole dai fautori delle autostrade che gli ambientalisti ben conoscono: quando si propone un nuovo progetto l’opera si ripaga da sola in autofinanziamento e quindi come possono lo Stato, i Comuni ed i cittadini non accettare un simile regalo? Poi quando si passa alle approvazioni ed i costi crescono allora si cercano garanzie e soldi pubblici per far partire almeno un pezzo di nuova autostrada. Ben sapendo che poi una volta avviato il cantiere si metterà in moto un intero sistema territoriale per evitare l’incompiuta e lo scempio, che chiederà a gran voce - a partire da Comuni e Sindacati - il completamento dell’opera.
“Strade senza uscita” descrive in modo preciso e documentato chi sono i protagonisti ed i personaggi di questo “sistema” viziato, a partire dal mondo delle imprese di costruzioni, delle banche e della finanza, in realtà “porte girevoli tra politica e concessionarie” autostradali, spesso con forte contiguità se non con l'impegno diretto, nei Partiti ed in Parlamento, che decide (o dovrebbe decidere) le regole del settore. Cosi come parla di “sottobosco dell'illegalità”, raccontando di numerose inchieste della magistratura, che hanno coinvolto molti protagonisti del sistema, sia sul fronte delle imprese, delle banche che della politica.
Ma il libro che state per leggere non è solo di denuncia sul “sistema autostrade” ma contiene anche una significativa analisi sulla politica dei trasporti e sul deficit infrastrutturale che pesa sul nostro paese, dove tra studi e confronti con altri paesi europei, si capisce che il vero deficit in Italia è nelle città e nelle aree urbane, dove mancano davvero chilometri e chilometri di reti metropolitane, tranviarie, ferrovie locali e servizi per i pendolari, per essere allineati alle più competitive ed efficaci esperienze delle città europee. Qui dovrebbero concentrarsi le scarse risorse pubbliche e tutte le garanzie e protezioni pensate per il sistema autostradale italiano, per migliorare la mobilità urbana dove si spostano due terzi della popolazione, per aprire cantieri utili, per dare occupazione e sostegno ad un green new deal utile al Belpaese.
Racconta anche dell'impegno di ambientalisti, associazioni e comitati sparsi sul territorio per contrastare le autostrade sbagliate, capaci di leggere gli impatti ambientali, i piani finanziari gonfiati o inesistenti, smascherare proposte superate e dati di traffico, ed anche proporre alternative, magari con l'aiuto di esperti, credibili e praticabili al modello “tutto strada”.
Che fanno propria la famosa frase di Goudevert, ex presidente della Ford Germania: “Chi semina strade e parcheggi, raccoglie traffico e code”, riportata anche nel testo, che insieme a dati aggiornati su ambiente, salute, consumo di suolo, tutela del paesaggio e del territorio agricolo, futuro dell'auto e fine del petrolio, spiegano l'impatto ambientale e l'assenza di una strategia “capace di futuro” che sta sempre dietro queste scelte che vengono dal passato e vengono riproposte senza troppe domande per il futuro “all'infinito”.
Alla fine tra le tante sensazioni che si ricavano dalla lettura di “strade senza uscita” ne resta una amara verso la maggioranza trasversale della politica pubblica: che anche quando non è apertamente complice del sistema insieme a banche e costruttori, risulta insensibile e debole, senza una politica dei trasporti che orienti in modo coerente le scelte verso la sostenibilità economica ed ambientale. Senza la capacità di contrastare in mondo lungimirante la lista delle grandi opere, più preoccupata di una “valutazione di impatto elettorale” di breve periodo con l'annuncio dell'opera, piuttosto che ad offrire soluzioni durature ai problemi in tempi di crisi economica ed occupazionale. Incapace di definire regole e vigilanza per fare “l'interesse pubblico” nel sistema dei trasporti e delle infrastrutture, diventando quindi ostaggio di un sistema potente come quello delle concessionarie autostradali, capace di orientare la comunicazione, le opinioni, se non direttamente il sistema di finanziamento ed elezione del sistema politico.
Un libro quindi da leggere e conservare, questo “Strade senza uscita” scritto da Roberto Cuda, da aggiungere come un nuovo ed attuale capitolo ai testi di impegno civile scritti per far prevalere l'interesse pubblico e collettivo e contrastare “l'abbraccio mortale tra banche, costruttori e politici” sulle nuove e vecchie autostrade italiane.
La Nuova Venezia, 5 gennaio 2014
«Il nuovo Piano casa approvato dalla Regione non sta in piedi, siamo pronti ad avviare tutte le iniziative legali per salvaguardare le nostre prerogative in materia urbanistica e difendere l’identità dei centri storici. Il 9 gennaio a Venezia i sindaci delle principali città venete concorderanno un documento che getta le basi per il ricorso contro la Regione».
Ivo Rossi, sindaco reggente di Padova, si è sentito a lungo con Giorgio Orsoni di Venezia, Giovanni Manildo di Treviso, Jacopo Massaro di Belluno e Achille Variati di Vicenza, per fissare l’agenda del meeting dei sindaci metropolitani in rotta di collisione con Palazzo Balbi su una materia delicatissima: il governo del territorio, che «rischia di subire l’oltraggio dei nuovi barbari».
Rossi dichiara il pieno appoggio ad Andrea Gios, il sindaco di Asiago che con una delibera del consiglio comunale ha bocciato la legge regionale 32 che spalanca le porte alla riqualificazione urbanistica. Vale a dire: demolire, ricostruire nuovi volumi con ampliamenti del 20 per cento. C’è chi teme una colata di cemento e chi invece spera che il settore dell’edilizia possa ripartire dopo la lunga crisi, grazie ad una procedura che non prevede né gli oneri di urbanizzazione né la concessione edilizia. Una sorta di deregulation che i geometri stanno cavalcando con offerte di consulenze on line, senza però abbassare le tariffe.
Asiago ha rotto il ghiaccio, seguita da Cortina che teme lo snaturamento della propria identità urbanistica con la riconversione selvaggia degli alberghi trasformati in residence. Marino Zorzato, il «padre» del Piano casa 3, non accetta di finire sul banco degli imputati e rilancia la palla ai sindaci: se proprio volete tutelare il territorio, cancellate dai Prg le zone residenziali non edificate su cui fate pagare l’Imu, dice il vicegovernatore del Veneto. Che aggiunge: i danni al territorio nascono dalla fame insaziabile dei comuni che hanno concesso lottizzazioni selvagge negli anni d’oro per incassare gli oneri di urbanizzazione: la festa è finita, anche se l’Imu sui terreni edificabili pesa come un macigno sulle tasche dei proprietari. Zorzato non desidera vincere il premio Attila che Legambiente assegna al «re dei cementificatori» e annuncia che tra martedì il consiglio regionale avvierà l’esame della legge sul consumo zero del territorio. Depositata dal Pd, sottolinea come tra il 1970 e il 2012 la superficie agricola del Veneto è stata ridotta del 9,85% con 180 mila ettari edificati. In quarant’anni il Veneto si è «mangiato» l’intera provincia di Rovigo.
«Il 9 gennaio a Venezia, i sindaci valuteranno i presupposti giuridici per impugnare il Piano casa 3: si tratta di capire se sia più utile ricorrere al Tar per bloccare l’effetto immediato dalla legge 32 o se invece non si debba addirittura chiedere l’intervento della Corte costituzionale. Il tema è molto delicato, perché cancella tutti gli strumenti di pianificazione e di governo del territorio», spiega Ivo Rossi, «azzera trent’anni di cultura urbanistica e spalanca le porte alle deregulation più selvaggia: non si può diventare dei moderni barbari con la scusa di uscire dalla crisi. Ci vuole un grande senso d’equilibrio, capacità di progettare il futuro e rigenerare i quartieri degradati», conclude Rossi. Il summit di giovedì a Venezia affronterà anche la stangata dei pedaggi delle autostrade e gli effetti della legge di stabilità sui bilanci dei comuni. A rappesentare il governo sarà il ministro Flavio Zanonato.
Gruppo d'intervento giuridico onlus, 5 gennaio 2014
L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridicoonlus ha chiesto con una specifica istanza (30 dicembre 2013) al Governo nazionale di proporre ricorso davanti alla Corte costituzionale (art. 127 cost.) avverso la legge regionale Veneto 29 novembre 2013, n. 32 contenente la terza edizione del c.d. piano casa per la lesione delle competenze statali in materia di ambiente e urbanistica (artt. 117 e 118 cost.) e, indirettamente, per lo svuotamento delle competenze comunali in materia urbanistica. Non solo.
In proposito mette a disposizione di chiunque lo desideri un fac simile di istanza da completare con le proprie generalità e qualifica e da rivolgere direttamente al Governo perché impugni davanti alla Corte costituzionale questo vero e proprio regalo alla speculazione edilizia più becera. Chiunque fosse interessato può richiederla all’indirizzo di posta elettronica grigsardegna5@gmail.com. Copia dell’istanza è già stata fornita al Comune di Asiago, insieme a Cortina d’Ampezzo uno dei primi Comuni veneti a battersi apertamente contro il provvedimento legislativo, con una deliberazione consiliare (23 dicembre 2013) di disapplicazione del c.d. terzo piano casa.
Ma è tutt’altro che un piano casa. Bisogna ricordare che il vero e unico “piano casa” è stato il piano straordinario di intervento dello Stato per realizzare edilizia residenziale pubblica su tutto il territorio italiano nell'immediato secondo dopoguerra, con i fondi gestiti da un'apposita organizzazione presso l'Istituto Nazionale delle Assicurazioni, la Gestione INA-Casa, in base alla legge n. 43/1949. Al termine (1963) saranno realizzati ben 355 mila appartamenti nei tanti quartieri “razionali” predisposti grazie anche al contributo di alcuni fra i più importanti architetti e urbanisti del tempo (da Carlo Aymonino a Ettore Sottsass, da Michele Valori a Mario Ridolfi).
In realtà – così come in Sardegna e in altre regioni italiane – si tratta di un provvedimento legislativo adottato per favorire la più becera speculazione edilizia. La terza proroga[1] del finto piano casa e vero piano scempi sarà applicabile fino al 10 maggio 2017 e sarà utilizzabile addirittura per gli edifici realizzati fino al 31 ottobre 2013 (art. 3, comma 2°), per il 20% della volumetria o della superficie esistente (aumentabile di un ulteriore 5% per edifici residenziali o del 10% per gli altri quando si faccia l’adeguamento per la sicurezza sismica), fino a mc. 150 per unità immobiliare, anche su corpi separati entro una distanza di 200 mt. dall’edificio principale.
Nel caso di demolizioni e ricostruzioni con miglioramenti energetici o con edilizia sostenibile gli aumenti volumetrici possono addirittura essere rispettivamente del 70% e dell’80% della volumetria esistente (art. 4, comma 2°), anche su aree di sedime diverse da quelle dell’edificio originario (artt. 4, comma 3° e 11).
Anche per l’obbligatoria rimozione dell’amianto è concesso un aumento volumetrico del 10% (art. 6), così come è incentivata la demolizione di edifici in zone a rischio idraulico con la ricostruzione in altre zone con un premio volumetrico del 50% della volumetria esistente (art. 7). Per l’eliminazione delle barriere architettoniche è concesso un ulteriore ampliamento del 40% della volumetria (art. 12).
Sono inoltre consentiti nuovi centri commerciali nei centri storici anche in deroga agli strumenti urbanistici (art. 16). Non esistono più limiti alle altezze degli edifici, né c’è la minima traccia delle necessarie autorizzazioni ambientali per le aree tutelate con il vincolo paesaggistico (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.) o con il vincolo idrogeologico (regio decreto n. 3267/1923 e s.m.i.) o rientranti in siti di importanza comunitaria e zone di protezione speciale (direttive n. 92/43/CEE e n. 09/47/CE, D.P.R. n. 357/1997 e s.m.i.).
Ma soprattutto – incredibile per una regione come il Veneto dove la Lega Nord governa – di fatto saranno esautorati i 581 Comuni veneti, che non avranno alcuna possibilità di mitigare o adeguare le previsioni legislative alla realtà locale: gli strumenti urbanistici comunali saranno in pratica disapplicati.
Basti pensare a che cosa potrebbe accadere sull’Altopiano di Asiago, sulla Riviera del Brenta o nella conca di Cortina d’Ampezzo, una vera follìa, un autentico far west urbanistico in danno delle aree più pregiate sul piano ambientale e forti richiami per il turismo.
La pianura veneta, un tempo celebrata da poeti e scrittori e già ora a rischio di collasso ambientale, potrebbe divenire un unico capannonificio, inutile e sempre meno ricco di lavoro.
L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico onlus confida in una risposta ferma e determinata da parte dei Comuni, associazioni e comitati veneti, singoli cittadini e – soprattutto – del Governo nazionale perché questo piano scempi sia portato davanti alla Consulta nel più breve tempo possibile.
p. Gruppo d’Intervento Giuridico onlus
Stefano Deliperi
Intervistato da Giampiero Rossi, l'oncologo ci rivela un vero e proprio miracolo di Natale: la scissione del nucleo del suo progetto, fra Scienza e Metri Cubi. Forse è la volta buona per la città. Corriere della Sera Milano, 5 gennaio 2014, con postilla (f.b.)
Sono passate poco più di due settimane dallo strappo tra Palazzo Marino e la Fondazione Cerba. E, in particolare, tra il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris e il fondatore dello Ieo Umberto Veronesi. «Non riesco proprio a capire», diceva il 18 dicembre scorso al Corriere della Sera lo stesso Veronesi, «è davvero strano avere un sindaco contrario a un’opera di scienza, di civiltà, di avanzamento culturale...». Partita chiusa? Molti hanno pensato di sì, la sera in cui la vice di Pisapia ha rifiutato la proroga della convenzione che teneva in vita il progetto Cerba sui terreni del fallimento del gruppo Ligresti, a sud della città. Invece, durante le feste ci sono stati contatti diretti tra il sindaco e Veronesi e adesso, alle parole di distensione del vicesindaco nell’intervista di ieri, risponde il padre dell’oncologia italiana con messaggi altrettanto distensivi.
Professor Veronesi, ha letto le parole di ieri del vicesindaco De Cesaris?
«Sì, ho letto e dico che anch’io sono molto favorevole a riprendere il discorso su basi nuove. Dobbiamo tenere conto anche delle esigenze del Comune».
Prima di Natale sembrava tutto finito, lei era molto amareggiato. Cosa è successo in queste due settimane?
«È vero. Ho capovolto alcune mie posizioni, anche perché in effetti allora ero molto deluso all’idea che potesse sfumare questa grande opportunità per Milano. È successo che in questi giorni ho avuto un lungo dialogo con il sindaco Pisapia, che si è confermato una persona di vedute ampie, che mi ha spiegato le esigenze dell’amministrazione comunale».
E quali sono?
«Innanzitutto noi abbiamo già ridotto notevolmente le volumetrie del progetto iniziale, dopodiché si tratta di ragionare sui terreni nella stessa area ma più a ridosso di via Ripamonti, dove l’impatto ambientale è più ridotto. In pratica si ripropone il problema che avevamo già incontrato vent’anni fa con lo Ieo: dal momento che sorgeva nell’area agricola, quindi doveva essere vicino a via Ripamonti e architettonicamente compatibile, e infatti assomiglia a una grande cascina».
Dunque si tratta di spostare di poco la sede del futuro Cerba?
«Vorrà dire che non staremo in mezzo a un parco ma ai margini. L’importante è salvaguardare il principio del progetto, che resta solido. Noi chiediamo che vengano mantenute le tre aree — oncologia, cardiologia e neuroscienze — e che tutte possano fare capo a un grande centro di ricerca biomolecolare e uno di tecnologie biomediche avanzate. Perché il Cerba deve avere la capacità di diventare il punto di riferimento europeo, sovranazionale come il Nih negli Stati Uniti».
Quindi è tornato ottimista, professore, il Cerba si farà?
«Io credo di sì, che anche il Comune lo voglia fare. La vicesindaco De Cesaris è una donna forte, inflessibile, ci siamo scontrati, ma le riconosco di essere una persona intelligente. Quindi non è difficile trovare un punto di incontro. Presto torneremo tutti attorno a un tavolo».
postilla
Pare davvero di vederlo, il sindaco Pisapia, mentre spiega al professore nuclearista Veronesi le analogie fra la scissione dell'atomo e quella del Cerba: separando le due componenti della Ricerca di livello europeo, e del Metro cubo speculativo ad elevato impatto ambientale (che sinora apparivano inscindibili), si liberano energie straordinarie, in grado di creare occupazione qualificata e avanzamenti del sapere, più e meglio di quanto immaginato sinora sotto la cappa di piombo degli immobiliaristi nascosti dietro la scusa del polo sanitario. Poi naturalmente, come già accaduto e ancora accade ad esempio per certi progetti Expo, ci si può pestare le corna sulla qualità dei progetti, ma nessuno potrà più nemmeno per scherzo etichettare Nemici della Scienza quelli che provano a difendere la relativa integrità della greenbelt agricola milanese, e un metodo di decisione urbanistica degno di un paese civile deberlusconizzato (f.b.)
Nota: su questo sito sono decisamente troppi gli articoli riferiti al progetto Cerba, per poter ipotizzare qui anche indicativamente qualche link specifico. Il suggerimento è di inserire la parola chiave nella finestra del motore interno in alto a destra
L'Unità, 30 dicembre 2013, con postilla
Una follia, più volte denunciata su queste pagine. Tollerata da troppi, contestata da pochi. Un classico esempio dell'oggettistica architetturonica adoperata dal demagogo locale come pedana per lanciarsi al livello nazionale, e riuscire. Un esempio dell'Italia da rottamare. Il manifesto, 29 dicembre 2013
Il Crescent è una presenza incombente sulla spiaggia di Santa Teresa. Nel trionfo di luci che è il centro di Salerno in questi giorni tra Natale e Capodanno, il gigantesco palazzo progettato dall’archistar catalana Ricardo Bofill e la piazza a forma di mezzaluna sulla quale si affaccia e che a sua volta si apre sul mare rimangono invece nella penombra appena il sole tramonta. L’«ecomostro d’autore», emblema della grandeur dell’amato-odiato sindaco Vincenzo de Luca insieme alla vicina Stazione marittima a forma di ostrica progettata da Zaha Hadid, è stato sequestrato dalla magistratura e sul progetto di riqualificazione dell’ex area portuale dismessa pende un’inchiesta penale che coinvolge una trentina di persone, primo cittadino compreso.
Due giorni fa il Consiglio di Stato ha emesso una sentenza che lo boccia a metà e non consente di riprendere i lavori, però ciò non ha impedito ai sostenitori dell’opera di brindare con il bicchiere mezzo pieno. De Luca ha commentato trionfante via Facebook: «È una vittoria senza mezzi termini». I comitati che si oppongono a quello che ritengono un ecomostro d’autore hanno convocato invece una conferenza stampa per ribadire che secondo i giudici amministrativi l’opera è «illegittima a monte», dunque «non condonabile» e pertanto «va demolita e basta, come Punta Perotti a Bari o il Fuenti in Costiera amalfitana».
Per provare a capire chi ha ragione è necessario provare a decodificare le parole dei magistrati amministrativi in relazione al ricorso presentato dall’associazione ambientalista Italia Nostra e poi leggere la sentenza insieme al provvedimento di sequestro dell’area. Ci si accorgerà dell’opposta interpretazione su un punto centrale della questione: l’autorizzazione paesaggistica e la relativa relazione della commissione edilizia integrata inviata alla Soprintendenza di Salerno. Secondo gli ambientalisti «il progetto trasmesso alla Soprintendenza sarebbe un mero progetto architettonico privo dei requisiti che deve possedere il progetto definitivo. Mancherebbero, inoltre, tutte le necessarie indagini geologiche, idrologiche, sismiche, agronomiche, biologiche, chimiche». Così rispondono i magistrati: «Nella motivazione indicata negli atti autorizzatori rilasciati dal Comune non viene descritto in modo dettagliato l’edificio (anche mediante l’indicazione delle dimensioni, venendo in rilievo una struttura con una lunghezza di circa 260 metri, uno sviluppo lineare percepibile di circa 200 metri, una altezza fuori terra di circa 25,80 metri e una cubatura di circa 73 mila metri cubi, dei colori e dei materiali impiegati, non essendo sufficiente affermare che l’amministrazione “condivide l’articolazione dei materiali e delle cromie delle pavimentazioni”), il paesaggio nell’ambito del quale esso è collocato (non essendo sufficiente affermare che la volumetria edilizia a semicerchio porticato è idonea a rimarcare la volontà simbolica di accogliere e definire formalmente ciò che per definizione è continuamente mutevole come il mare), il modo in cui l’edificio si inserisce in modo coerente ed armonico nel contesto complessivo (non essendo sufficiente affermare che le aperture nella cortina edilizia realizzano la necessaria permeabilità visuale, oltre che funzionale, tra la piazza e il tessuto urbano e che l’altezza dell’emiciclo raggiunge il giusto equilibrio tra la profondità della piazza, le altezze di alcuni fabbricati moderni alle spalle e la necessità di monumentalizzare il sito)». Quindi, «le nuove eventuali autorizzazioni dovranno essere oggetto di rinnovate valutazioni da parte dei competenti uffici e, in particolare, della Soprintendenza».
Per il resto è tutto ok. Nessun problema urbanistico, nessuna discrepanza tra il Purbanistico comunale e il Piano attuativo, nessun contrasto con il piano territoriale di coordinamento provinciale, nessuna violazione delle norme di sdemanializzazione, nessuna illegittimità del parere dell’Autorità di bacino sulla deviazione del torrente Fusandola e nessun dubbio sulla relazione sismica.
Ecco spiegato il perché ognuno vede nella sentenza quello che vuole vedere. Per il sindaco De Luca «la sentenza del Consiglio di Stato sul caso Crescent riconosce la piena legittimità di tutta la procedura amministrativa e urbanistica. È stato rilevato un difetto di motivazione rispetto alla valutazione paesaggistica. Si invitano, pertanto, le istituzioni interessate a sanare tale rilievo formale». Però quel difetto «di motivazione» sulla questione paesaggistica appare ben più che una questione meramente formale. È proprio per quel motivo, infatti, che un mese fa la procura di Salerno ha deciso di mettere i sigilli all’opera, mettendo sotto inchiesta trenta persone per abuso d’ufficio, falso in atto pubblico e lottizzazione abusiva. Nel decreto di sequestro del gip Donatella Mancini si sostiene l’illegittimità dell’iter seguito per arrivare all’autorizzazione paesaggistica. Secondo l’accusa, inoltre, amministratori e funzionari pubblici avrebbero «consapevolmente e volontariamente» aggirato le procedure per «accelerare i tempi di realizzazione dell’opera» e «contenere i costi per i privati appaltatori».
Nel frattempo, la piazza della Libertà, la cui forma dovrebbe evocare l’apertura al mare e le antiche relazioni della città mediterranea con il mondo arabo e le cui dimensioni ne fanno la più grande d’Europa con i suoi 35 mila metri quadri, ha avuto un cedimento e rischia di dover essere rifatta. Per De Luca, che al ridisegno urbanistico della città deve gran parte del suo successo politico — dal piano regolatore affidato a Oriol Bohigas negli anni ’90 alla metropolitana leggera inaugurata un mese fa — una volta terminata essa «sarà il simbolo dell’architettura moderna in Italia». Gli attivisti No Crescent non sono della stessa opinione e hanno diffuso un dossier — intitolato «mala gestio» — nel quale denunciano, tra le altre cose, lo spreco di fondi comunitari e la cementificazione di aree demaniali. «Finora è stata costruita solo metà dell’opera, è stato già spostato un torrente e scompariranno duemila metri quadri di mare e seimila di spiaggia», denuncia Pierluigi Morena, un avvocato del comitato.
In questi giorni, al tramonto Salerno si illumina con le «Luci d’artista». La ressa di curiosi e turisti interessati agli addobbi natalizi d’autore ha mandato in tilt la neonata metropolitana e provocato persino una rissa su un bus particolarmente affollato. «Le luci nascondono tante ombre», afferma un altro ambientalista, Oreste Agosto. Tra queste, risalta quella del Crescent.