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Lassù si è deciso che «il commercio sarà la leva economica della trasformazione di Torino nei prossimi anni». Tutto il resto è sacrificato

La vicenda della realizzazione del centro congressi nell’ex area Westinghouse in Torino ha assunto i toni ed il carattere di emblema del modo di gestire e –ancor più- di concepire, oggi, l’urbanistica da parte dei nostri politici. L’area in questione –oggi in una zona strategica della città (a contatto con i nuovi Palagiustizia, Politecnico, grattacielo “Intesa-SanPaolo”, grande stazione ferroviaria di Porta Susa, ecc.)- è una di quelle rimaste libere a seguito della dismissione dall’industria che allora occupava zone - poi risultate centrali - in stretto rapporto con le vecchie barriere operaie. La destinazione d’uso di tale area fu quella della realizzazione di una nuova, grande biblioteca centrale multimediale e un centro congressi che fosse una valida alternativa in centro città a quello periferico del ‘Lingotto’. Fu bandito un concorso vinto dall’arch. Bellini.

La realizzazione del progetto vincitore si dimostrò presto molto costoso . Il peggioramento della situazione della finanza locale (segnata dall’aumento vertiginoso del debito anche a seguito delle olimpiadi del 2006), impose di fatto l’abbandono di quell’idea pur considerata di gran pregio e la sua area è stata oggetto di varie ipotesi con continui rinvii sul suo utilizzo. L’amministrazione Fassino, di centrosinistra, proseguendo la politica della gestione delle aree dismesse come merce di scambio per finanziare la riqualificazione (?) delle lacerazioni nel tessuto urbano successive all’abbandono delle industrie, ha deciso di rifare il bando (sfacciatamente su misura dei gruppi imprenditoriali dichiaratisi interessati purché contenesse l’oggetto del loro desiderio) al quale risposero due catene della grande distribuzione (Esselunga e Coop) così come era già previsto dal patto precedente la scrittura del bando. Con il bando si abbandonava l’obiettivo della grande biblioteca ma si confermava quello del centro congressi. A compensazione di questo impegno, il bando prevedeva quindi il permesso della costruzione di un grande supermercato da parte della ditta vincente. E così sarà

A prescindere dalla scelta di localizzare il suddetto centro congressi ( per 5000 posti) all’interno della zona centrale urbana e quindi, ancora una volta, escludente le zone periferiche (che ne avrebbero un gran bisogno per risollevarsi dal loro stato di emarginazione dalle strutture fieristiche e culturali) e a prescindere dai problemi di concentrazione e sovrapposizione funzionale e logistica in quella precisa zona (oltre al perdurare della soppressione del piccolo commercio di prossimità), ciò che colpisce è la filosofia di fondo assurta ad ideologia: “..il commercio sarà la leva economica della trasformazione di Torino nei prossimi anni..” in quanto “..non è più immaginabile pagare la riqualificazione aumentando il debito dell’amministrazione..”è stato affermato dall’assessore all’urbanistica torinese Lo Russo.

Dunque, non c’è alternativa? E’ un destino segnato? Se è così, ci si deve adeguare al principio che, per esempio, se anche non c’è alcun bisogno di ipermercati, i torinesi si devono rassegnare ad averli in cambio di ciò che realmente a loro serve. Equivale a stabilire che la città non potrà mai pianificare in base agli effettivi bisogni dei suoi abitanti (cosa già rara in passato) ma dovrà prima assoggettarsi ad un ‘congruo’ numero di centri commerciali nei luoghi più convenienti per essi e, se resteranno ancora aree libere, tentare anche di soddisfare i propri cittadini con i sempre più sacrificati servizi pubblici. Ed è come augurarsi che l’investimento privato in centri commerciali non si esaurisca mai perché, se no, cesserebbe “..la leva economica della trasformazione di Torino..” per il suo sviluppo, il suo avvenire. Ma i megastore, così come il territorio, sono entità finite (come il mondo). Quando non ci sarà più nulla da scambiare con i privati, come faremo?

Abbiamo condannato per anni il ‘rito ambrosiano’, quello della cosiddetta urbanistica contrattata, e ora noi la assumiamo come regola fondante universale? E’ il segno che l’arte del disegno delle città è completamente da rifondare e che, anziché condividere e/o teorizzare l’attuale sua deriva, occorre mettere mano a processi che leghino la fiscalità locale e quella nazionale alle trasformazioni urbane (sempre più rapide e sempre più onerose rispetto al passato) in modo chiaro, preordinato, strategico. Processi che, a partire da iniziative locali, si prefiggano di condurre -in tempi certi- ad una legislazione nazionale per la profonda riforma urbanistica attesa da settant’anni. La riqualificazione/rigenerazione urbane –soprattutto dei grandi centri, come quella del territorio nazionale- deve diventare un punto specifico del programma di governo nazionale e locale. La ri-progettazione/pianificazione della forma e dell’organizzazione delle città deve essere pensata e gestita in base al prevalere dell’interesse pubblico, quindi a prescindere da interessi particolari privati. La partecipazione di quello (economico) privato, pur necessario, non deve in alcun modo condizionare lo sviluppo della città che è e resta ‘pubblica’. Se ciò non avviene -o avviene il contrario (come ora)- è perché la gestione e distribuzione della fiscalità non sono adeguate e corrette: l’armonia e la tutela dei territori vanno di pari passo con l’equità nelle scelte economiche. L’idea che la città deve vendere ciò che ha per sopravvivere o accettare programmi diversi e distorsivi rispetto a quelli previsti, è conseguenza dell’accettazione e sottomissione all’ideologia dell’austerità anziché impegnarsi nel coordinamento dell’azione degli amministratori dei territori per rivendicare il superamento delle sue assurde regole: assurde e profondamente punitive di ogni equilibrato progetto urbano. Al contrario, le risorse devono poter essere accantonate (e usate) dalla fiscalità generale e da quella locale (anche a debito,anche ricorrendo se necessario- all’azionariato popolare) purchè, in totale trasparenza, devolute allo scopo per cui sono state richieste. La politica locale ha il compito-dovere di dirottare in tal senso la politica nazionale. Le città hanno grandi e urgenti progetti da realizzare, se possibile, evitando ai propri cittadini la pena del baratto.

Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2014

Ci Sono voluta Una causa amministrativa Sentenze della Magistratura per Salvare Capo Malfatano, Comune di Teulada, Sardegna. E this E nel contempo una bella cura di Una cattiva notizia.

La bella notizia l'ho Già detta:. Prima il TAR Sardegna e poi il Consiglio di Stato ha sancito l'illegittimità Annone di un'enorme / ennesima Speculazione edilizia Sulle martoriate coste della Sardegna Circa 200.000 metri cubi di cemento a 300 metri Dalla splendida spiaggia di Tueredda.

La cattiva notizia e Che Ancora una volta SIA Stato Necessario l'Intervento della magistratura per Fermare lo scempio. Perché Dall'altra parte erano Tutti d'Accordo, il Comune di Teulada, la Soprintendenza, la Regione Sardegna, ndr ovviamente i costruttori Tra i Quali Benetton ("United Colors of Benetton", ricordate?) E Caltagirone. Da this parte la ferma Volontà di un singolo pastore, Ovidio Marras, di 82 anni, e del supporto Ricevuto dal Gruppo di Intervento Giuridico e di Italia Nostra per Fermare lo scempio. Ed e purtroppo Una cattiva notizia Anche Il Fatto Che Una parte delle costruzioni Sono in corso d'opera.

Ho scritto Già nel passato della follia Caso delle seconde, delle scritte "vendesi" sempre Più Numerose also in Sardegna. Eppure il virus edificatorio arrestarsi non pare. E l'ultimo atto e Stato lo stravolgimento del Piano Paesaggistico di Soru, da parte della Giunta Cappellacci ("cominci a preparare il cemento ei mattoni"), Che darebbe il via libera a Nuove lottizzazioni sul litorale, fortunatamente impugnato dal Governo alla Corte Davanti Costituzionale.

Si dice Che il mondo ambientalista dadi sempre di no. Ma, Vieni dadi giustamente un mio caro amico: "continueremo a dire sempre di no, se Dall'altra parte proporranno e progetteranno sempre le stesse cose".

Inchiesta sul treno deragliato. Il procuratore: le colpe sono umane. Per quanti decenni ancora pagheremo per i guasti provocati al territorio dalla persistenza della credenza del diritto dei privati a trasformare un bene collettivo? Corriere della sera, 19 gennaio 2014

GENOVA — Dopo la frana sul treno deragliato fra Cervo e Andora nel Ponente ligure e rimasto paurosamente inclinato sulla scogliera ora si abbattono le polemiche e si cercano le colpe. «Ho visto la frana dall’elicottero — ha detto il procuratore capo di Savona, Gianantonio Granero — e l’impressione è che quanto accaduto sia più opera dell’uomo che del fato». Sequestrato l’ufficio tecnico del Comune di Andora, la magistratura indaga per disastro colposo (ci sono stati 5 feriti) e ha puntato gli occhi sulla schiera di villette da cui si è staccato un terrazzo-parcheggio proprio sopra la ferrovia. La Procura ha sequestrato l’intera area. Le case risalgono agli anni 70 (gli «anni d’oro» della cementificazione del Ponente) ma il terrazzo sarebbe del ‘92. Intanto continua a piovere e la massima allerta è stata protratta alle 15 di oggi. A Castelvittorio, nell’Imperiese, una casa è crollata e le due americane che la abitavano sono riuscite a scappare appena in tempo.
La Regione Liguria non deve far fronte solo alle cento frane che in questi due giorni hanno interrotto l’Aurelia di Ponente in cinque punti e isolato diversi paesi nell’entroterra (200 gli sfollati): la questione più spinosa è il ripristino della Ferrovia a binario unico interrotta dalla frana, il treno deragliato non può essere rimosso, i collegamenti ferroviari con la Francia si fermano a Savona (per gli Intercity) e a Albenga per i regionali, poi ci sono i pullman un po’ in autostrada e un po’ sull’Aurelia dissestata. L’assessore alle infrastrutture Raffaella Paita affronterà nei prossimi giorni il caso del raddoppio ferroviario con il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Intanto però bisogna risolvere il problema della linea e le Ferrovie hanno assunto un atteggiamento duro: il terreno franato non è nostro, dicono in sintesi, e non possiamo mandare persone a lavorare per rimuovere il treno e tanto meno ripristinare la linea se la frana non è messa in sicurezza. Ma chi lo deve fare? I privati proprietari delle villette? Ci vorrebbero anni.
«Il fronte di frana di 300 metri si sta muovendo — dice il sindaco di Andora, Franco Floris — e se collassa c’è il rischio che trascini il treno in mare». Quel complesso di case vacanze a mezzacosta sulla ferrovia riaccende la polemica sull’edilizia selvaggia in Liguria mentre il terreno che frana mette sotto accusa la mancata prevenzione e la cura del territorio. «Ci danno delle Cassandre — dice Santo Grammatico, presidente ligure di Legambiente — perché sono anni che lo diciamo: questa regione deve cambiare progetto di sviluppo. Basta grandi opere che non fanno che rendere ancora più fragile il nostro territorio, bisogna investire nella manutenzione, nel recupero dell’esistente e nella messa in sicurezza. Invece che al Terzo valico dovrebbero pensare a migliorare quello che c’è, ad esempio al raddoppio. Non so se i politici liguri sono in grado di affrontare un simile cambiamento».
I politici rispondono per le rime: «Non è vero che pensiamo solo alle grandi opere — dice Paita —. Il raddoppio della ferrovia è in parte fermo per un contenzioso giudiziario e la tratta Andora-Finale non è finanziata ma noi l’abbiamo messa al primo posto nelle nostre priorità». Ma è una priorità che segna il passo da anni, quaranta per l’esattezza. Il presidente dei geologi liguri Carlo Malgarotto lamenta l’assenza di una mappatura del territorio e la cronica mancanza di fondi per la prevenzione, polemicamente i geologi stanno preparando un convegno sul dissesto idrogeologico dal titolo «Che Dio ce la mandi buona», la frase pronunciata dagli ingegneri quando vennero informati della situazione della diga del Vajont. Si sa come andò a finire. «Dopo tanti anni siamo ancora a quel punto» dice Malgarotto. «L’attenzione ai problemi idrogeologici in Italia è cosa recente, è iniziata dopo la tragedia di Sarno — attenua Riccardo Giammarini, ingegnere ambientale —. Qualcosa da allora fortunatamente è cambiato. La Liguria paga l’urbanizzazione degli anni Settanta e una fragilità determinata dalla sua conformazione con colline ripide e subito il mare». Renata Briano, assessore all’Ambiente, elenca gli interventi fatti negli ultimi anni: «Abbiamo investito in prevenzione 150 milioni. Servirebbero miliardi. Abbiamo tanto territorio fragile, poca popolazione e pochi soldi».

Una recensione molto critica del libro di Roberto Della Seta ed Edoardo Zanchini (Donzelli). La discussione, ovviamente, è aperta. www.bookdetector.it, gennaio 2014

Perché, come, quando si è consumato il divorzio tra la sinistra italiana e l’urbanistica? Questa è la domanda angosciosa che gli autori, entrambi attivi nella sfera politica (Pd e Legambiente) pongono nel libro, convinti della necessità di un’urgente riconciliazione. La questione è in effetti della massima urgenza, ed è senz’altro un bene che qualcuno l’abbia posta: perché è vero che la sinistra ha espulso la città dai programmi e dal vocabolario, mentre la destra se ne è appropriata, spingendo da un lato per la deregulation urbanistica a favore della speculazione immobiliare e dall’altro per una regolazione ossessiva dei dispositivi di sicurezza. Gli effetti di questo spostamento di campo e di segno sono diseguaglianza e segregazione, città sempre più estese sul territorio ma sempre più nettamente divise tra riserve per ricchi e spazi residuali per i poveri.

Ma, come spesso succede a chi forgia da sé tanto i quesiti che le risposte, a una buona domanda fanno seguito delle analisi e delle proposte desolanti. Semplificando, si può dire che il libro si compone di un racconto appassionante della stagione eroica dell’impegno politico sulla città (i gloriosi decenni che vanno dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta), una ricostruzione della triste decadenza di ogni valore (la corruzione e la miopia dei governi di centrosinistra da allora a oggi) e un’esortazione finale alle buone pratiche talmente insulsa e contraddittoria da invalidare quanto di buono si poteva leggere nelle prime pagine, ma soprattutto ogni speranza di un rinnovato engagement di certa sinistra sui temi urbani. Della Seta e Zanchini raccontano la storia delle grandi battaglie – soprattutto romane ma non solo – contro gli sventramenti, in difesa dell’Appia Antica, e poi contro l’abusivismo, la rendita fondiaria e lo strapotere delle società immobiliari negli anni Cinquanta e Sessanta come il prodotto di una straordinaria alleanza tra intellettuali e politici di centrosinistra. Le virulente polemiche su “Il mondo”, la fondazione di Italia Nostra, il periodo olivettiano all’Inu (Istituto Nazionale di urbanistica) che posero le basi della tutela ambientale e del patrimonio storico artistico sono frutto di una cultura di matrice prevalentemente liberale: Borgese, Cederna, Pannunzio, Cattani, Iannello, Bucalossi non erano certo comunisti, eppure quello che li univa nella lotta politica al PCI era la coscienza della necessità di combattere non solo lo scempio della bellezza, ma anche dell’uguaglianza.
Ma poi, negli anni Ottanta, prevale all’interno dell’area del centrosinistra il trasversale “partito del cemento”. Alle rivoluzionarie, ma fallite, riforme urbanistiche contro la rendita di Sullo, Mancini e Bucalossi seguono non solo i famigerati condoni edilizi, ma anche e soprattutto i governi Prodi, D’Alema e Amato che hanno devastato quel che restava della buona politica urbanistica d’antan. Indifferenti ai problemi della casa, del paesaggio, senza una presa di posizione chiara sulle infrastrutture e sui temi ambientali, hanno però sposato le ragioni della rendita immobiliare, vincolando ad essa lo sviluppo economico.

Fin qui siamo d’accordo, ma come è potuto succedere? Gli autori, chiusi in una prospettiva locale e assurdamente atemporale, sembrano totalmente concentrati sull’insipienza e la disonestà degli attori politici. Non sarà che fino agli anni Settanta c’era il welfare, esteso anche all’organizzazione della città? Che in buona parte del mondo occidentale, grazie allo spauracchio comunista e alle lotte dei lavoratori, venivano elaborate politiche redistributive, e quindi limitanti le prerogative della proprietà privata, anche da parte di governi e partiti conservatori, politiche che negli anni successivi sono state stigmatizzate e cancellate dall’ideologia neoliberista? E che le “sinistre” mondiali hanno aderito poi con entusiasmo ai suoi principi, da Clinton a Blair ai nostri esponenti locali?

E invece no, per tornare a “scommettere sulla città” la sinistra oggi dovrebbe secondo Della Seta e Zanchini puntare di nuovo sulla bellezza (come Renzi con la bufala della piazza di cotto?) e la riqualificazione urbana contro il consumo di suolo, ma abbandonando i vecchi pregiudizi contro i privati e la fissazione dell’esproprio. Bisogna guardare alle best practices, i casi di “successo urbano”, per attrarre creativi e capitali: e dunque competere sulla scena globale, entrare nel ranking delle smart cities e della sostenibilità, fare più pubblico con più privato. Come no. È la fotocopia del programma della Moratti per Milano, prima della crisi.

Un ampio saggio sulla città, in occasione del congresso della Società dei territorialisti "Ricostruire la città" (Roma, 17-18 gennaio 2014), preludio a una serie di articoli sulle città italiane. Il manifesto, 17 gennaio 2014


Le risorse e il mercato
Che la città nasca, si conservi e si sviluppi all'interno di una rete di condizionamenti ambientali è una conquista sorprendentemente recente del pensiero sociale. Solo il progredire, negli ultimi decenni, della cultura ambientalistica e – per il nostro caso – dell'ecologia urbana, hanno cominciato a disvelare ciò che a lungo la cultura dominante aveva tenuto nascosto. Vale a dire i vincoli di risorse e le condizioni di habitat entro cui sono sorte e vivono le città. E non a caso le ragioni di un così lungo e perdurante occultamento risiedono nelle condizioni materiali del loro stesso successo, della loro espansione: in primo luogo il mercato. Nel suo saggio Die Stadt Max Weber, non ha dubbi sul fatto che, condizione essenziale « perché si possa parlare di “città” è l'esistenza nel luogo dell'insediamento di uno scambio di prodotti – non soltanto occasionale ma regolare - quale elemento essenziale del profitto e della copertura del fabbisogno degli abitanti:l'esistenza di un mercato »

Anche allorquando gli studiosi prendono in considerazione una delle risorse naturali più ovvie, condizione imprescindibile per la nascita e la vita di un aggregato di popolazione, l'acqua di un fiume, ne sottolineano il rilievo quale infrastruttura ideale per i flussi di mercato. E' il caso, ad esempio, di un studioso come Lewis Mumford, pur attento agli aspetti sistemici del mondo urbano . Nella sua monumentale La città nella storia – meritoriamente riproposta ora da Castelvecchi - egli considera il fiume esclusivamente come « il primo veicolo efficace per il trasporto di massa ». E aggiunge: « Non è un caso che le prime città siano sorte nelle valli fluviali, e che la loro ascesa sia contemporanea ai progressi della navigazione, dal fascio galleggiante di giunchi o di tronchi alla barca mossa dai remi e dalle vele » Mumford non è solo in questo richiamo del fiume che dimentica la risorsa acqua:« Londra dipende dal suo fiume », afferma perentoriamente Braudel, ma si riferisce ai traffici che esso rende possibili, all'intensa vita economica che si svolge lungo il Tamigi e soprattutto nell'area della sua foce.

Naturalmente, non si tratta di negare il ruolo di mezzo di trasporto dei corsi d'acqua, peraltro dotati di una loro energia motrice e dunque, per più versi, prezioso per i bisogni delle popolazioni urbane in età preindustriale. Ma il trasporto e il commercio rappresentano già una forma economicamente evoluta della stanzialità urbana, funzionalmente separata dalla vita agricola. E tuttavia a lungo insufficiente a rendere le città autonome dalle loro fonti di approvvigionamento, costituite dai territori agricoli dei loro dintorni.

D'altra parte, prima di commerciare e di spostarsi, i primi cittadini ( ma anche i secondi e i terzi) dovevano vivere e dunque avevano assoluto bisogno di bere. Eppure non c'è traccia, anche in grandi storici che si sono occupati di città, di accenno a tale elementare bisogno della vita, risorsa imprescindibile dell' umana esistenza. Quasi che il commerciare fosse la prima condizione della vita urbana e non un suo complemento, spesso uno stadio successivo di evoluzione. La vita, nella ovvietà dei suoi bisogni e delle sue manifestazioni, diventa degna di nota quando acquista un rilievo economico. Anche Fernand Braudel, nel vasto affresco del suo Mediterraneo, che ha insegnato a tutti noi come la storia si svolga negli spazi fisici delle montagne e delle pianure, non ha occhi che per le condizioni commerciali dell'esistenza urbana. « Non c'è città senza mercato e senza strade: esse si nutrono di movimento. »

Forse Braudel è l'autore più esemplare di questa sussunzione dei bisogni primari e dunque della natura entro le categorie dell'agire economico. Perché è lo storico più attento ai quadri territoriali in cui si svolge la storia umana, ma conserva sempre uno sguardo filtrato, che incorpora la natura e la rende visibile solo come fenomeno economico. Il bere e il mangiare, elementi fondativi della vita biologica, resi possibili dalla presenza dell'acqua e del cibo, cioé da fonti, sorgenti, fiumi, pozzi e da superfici più o meno vaste di terra fertile, sono nella sua ricostruzione e rappresentazione storica inglobati in rapporti spaziali di commercio o semplicemente sussunti dentro i meccanismi dell'attività produttiva. E' sempre l'attività economica dei cittadini o dei contadini a rendere possibile la vita della città. Ma non accade mai che le risorse naturali presenti nel territorio costituiscano la condizione perchè quella stessa attività possa svolgersi con successo.

Nel primo volume del suo Civiltà materiale, economia e capitalismo, Braudel dedica un capitolo apposito alla città. In pochi tratti abbiamo un affresco della vita economica di una miriade di centri piccoli e grandi dell'età preindustriale. Ma in esso non c'è mai posto per l'acqua e per le forme di approvvigionamento idrico della popolazione. E tuttavia egli sfiora qualche nodo rilevante :« Fino a tempi molto recenti ogni città doveva avere il suo cibo alle sue stesse porte, a portata di mano (...) La campagna, infatti, deve sostenere la città, se questa non vuole temere ad ogni istante una carestia: il grande commercio può alimentarla solo eccezionalmente e parzialmente. Ed è possibile solo per alcune città privilegiate: Firenze, Bruges, Venezia, Napoli, Roma, Pechino, Istambul, Dehli, La Mecca...»
Indubbia verità, ma Braudel ricorda la dipendenza della città dalla produzione contadina, non la necessità imprescindibile di avere a poca distanza le terre fertili su cui i contadini potessero svolgere la propria attività produttiva. La cintura di terre fertili intorno alla città, destinata agli orti – per non dire dei suoli coltivati dentro gli stessi nuclei abitati «« è stata in realtà condizione di una parte rilevante dell'approvvigionamento cittadino sino all'età contemporanea. E, aspetto ancor più significativo per le nostre riflessioni, le città hanno avuto per millenni un rapporto di scambio organico con le campagne circostanti, alimentando con i loro rifiuti e deiezioni la fertilità delle terre intensamente sfruttate. Anche questa una condizione imprescindibile della produttività delle terre. E' stato esattamente tale rapporto simbiotico città/campagna che ha reso possibile quello che un agronomo tedesco dei primi del '900 definiva il Kreiselauf der Nahrstoffe, il « circolo delle sostanze nutritive ». Senza di questo i suoli si sarebbero isteriliti, le città non avrebbero avuto cibo disponibile, se non tramite flussi d'importazione che solo pochissime di esse si potevano permettere. In realtà, quel che oggi costituisce un problema più o meno grave delle società avanzate, la gestione dei rifiuti organici – i rifiuti prevalenti in tutte le epoche preindustriali - faceva tutt'uno con la pratica di fertilizzazione dei suoli agricoli periurbani. Un legame sistemico su cui sappiamo qualcosa almeno a partire da Omero, il quale nell'Odissea ricorda che Ulisse, tornato a Itaca, trovò il su vecchio cane, il fedele Argo, disteso su un mucchio di letame « di muli e buoi » appena fuori dalle mura, « perché poi lo portassero /i servi a concimare il grande terreno di Odisseo »

Non sottolineo tali aspetti per la pretesa saccente di rimproverare a Braudel di non essere stato uno storico dell'ambiente. Ogni epoca ripesca dal proprio passato il presente di cui avverte più acutamente il bisogno. Tanto più che Braudel anticipa talora, a modo suo, cioé entro il bozzolo delle dinamiche economiche, “scoperte” che si renderanno evidenti alla ricerca storica solo qualche decennio più tardi. E' questo il caso, ad esempio, dell'approvvigionamento delle fonti di energia calorica. Scrive lo storico francese: « la legna da bruciare, materiale ingombrante, deve essere a portata di mano: oltre i trenta chilometri di distanza è rovinoso farla viaggiare, a meno che il trasporto non avvenga per via d'acqua».

Da quando si è cominciato a fare storia dell'energia, abbiamo appreso che le città preindustriali in genere non potevano letteralmente vivere se non avevano a disposizione, a distanza ravvicinata, le risorse legnose di un bosco. « Una città di 10.00 abitanti – ricorda Paolo Malanima – doveva disporre per i soli usi domestici di una riserva forestale di 50-80 chilometri quadrati.»

Riscoprire il sistema

Anche da questi brevi cenni appare evidente come lo sviluppo delle relazioni commerciali che, nel corso di diversi secoli, hanno finito col rendere le città relativamente indipendenti dalle risorse collocate nel loro territorio, hanno occultato i vincoli sistemici su cui esse sono sorte e a lungo vissute. Esattamente l'estensione delle reti del mercato - l'elemento di connotazione urbana più enfatizzato dagli studiosi - hanno cancellato le reti che le legavano alle risorse naturali. Ma in realtà esse hanno solo trasferito e diluito gli ecosistemi che ne rendevano possibile l'esistenza su un territorio sempre più vasto. La Londra dell'età moderna, che da tempo si riforniva di grano, cibo e legname prodotti anche fuori dai suoi confini e dalla stessa 'Europa, aveva in realtà moltiplicato intorno a sé i territori da cui trarre le risorse naturali consumate dai suoi cittadini. Nell''800 il suo ecosistema aveva assunto dimensioni mondiali, dal momento che, ad esempio, le élite londinesi consumavano correntemente te, cacao, zuccherro di canna e caffé provenienti dalle colonie. Esso ormai costituiva il centro di una immensa periferia che era il suo impero coloniale, si reggeva e si occultava grazie alle reti di dominio e di sfruttamento dei territori delle colonie.

Ma oggi, nella fase storica in cui il mercato mondiale penetra negli anfratti più reconditi della vita locale, è ancora visibile un ecosistema come intelaiatura fondamentale della vita urbana? Mentre le città ricevono tutto ciò che è loro necessario da territori lontani e anche lontanissimi, possiamo guardare ad esse come a nuclei di realtà materiale condizionati, se non dominati, da vincoli naturali costanti e necessari? Si tratta, in verità, di domande retoriche. L'ecologia urbana della seconda metà del '900 ha messo da tempo in evidenza i caratteri ecosistemici dell'ambiente urbano con approcci e contributi molteplici. In realtà oggi si presenta ai nostri occhi una rete ambientale che avvolge il mondo (non diversa da quella, in continua espansione, delle comunicazioni) ma tenuta insieme da regole e vincoli ecosistemici. La osserviamo distintamente man mano che ci liberiamo della scorza dell'economicismo di cui è incrostato il pensiero sociale contemporaneo. Allorché scorgiamo l'universalità di beni comuni di cui si compone la città, là dove prima l'osservatore non scorgeva che un paesaggio di res nullius, o solo un sistema di domini privati. E a tal fine appare indispensabile liberare la figura dell'uomo cittadino dalla sua sovrastruttura ideologica di essere sociale, mero prodotto della storia, fabbro di se stesso tramite il dominio tecnico sulla natura.

E' tale operazione di disvelamento che ci consente di guardare agli uomini quali soggetti viventi, membri della “comunità biotica” che popola la foresta urbana. La città è un ecosistema innanzitutto perché gli uomini non hanno mai cessato di essere natura.

E' infatti il paradosso del successo totalitario dell'uomo tecnico a disvelare i legami non resecabili con la realtà biologica. Pensiamo al rapporto tra città e dinamiche del clima. Sono ormai parecchi anni che gli episodi climatici estremi ( alluvioni, tornado, ecc) in varie città del mondo, dagli USA all'Europa, mostrano come le città non sfuggano al sistema climatico generale e al suo crescente disordine. E' ormai di dominio popolare che la crescente copertura del suolo con le strutture dell'edificato impedisce in maniera crescente l'assorbimento dell'acqua piovana. In caso di pioggia intensa – fenomeno che appare ormai sempre più regolare a tutte le latitudini- le strade diventano fiumi, rovinosi corsi d'acqua e gli abitati vengono allagati come comuni golene di espansione.

Ma è esattamente nei momenti drammatici delle calamità, che essa ci fa comprendere una realtà solitamente celata: il territorio urbano non si esaurisce nello spazio edificato. Essa è parte di un'area più vasta, fatta di campagne, boschi, terreni abbandonati, strade, corsi d'acqua di cui ha finito col diventare l'impluvio sempre più vasto e cementificato. Le città, d'inverno, diventano sempre più spesso giganteschi impluvi, simili cioé a quello spazio a cielo aperto all'interno delle case con cui gli antichi Romani raccoglievano le acque piovane. Lo spazio periferico che un tempo era componente sistemica della città, perché la riforniva di cibo - era la terra degli orti, che accoglieva il concime dei rifiuti organici - ora mostra in negativo la sua connessione insormontabile col nucleo urbano a causa del turbato equilibrio idrogeologico. Rispetto a quest'area, a questa periferia progressivamente mangiata dall'urbanesimo, la città appare sempre più come un fattore di squilibrio sistemico. Essa ha sottratto troppi spazi al naturale processo di assorbimento e scorrimento delle acque e perciò il suo territorio edificato finisce per diventare sempre più spesso, il loro improvvisato e letto.

D'altra parte, tali fenomeni svelano un legame prima invisibile tra gli uomini e l'habitat urbano. Ma al tempo stesso fanno emergere alla consapevolezza generale l'esistenza di alcuni beni comuni per effetto della loro violazione, della loro messa in pericolo. E' evidente che l'edificazione diffusa, l'occupazione degli spazi incolti e coltivati, la restrizione dei territori agricoli periurbani, hanno riflessi crescenti su un diritto fondamentale dei cittadini: quello della sicurezza, dell'incolumità della persona. Sicché una occupazione del bene comune suolo per mano dei singoli privati, che edificano per loro specifico interesse, si configura sempre più nitidamente come in conflitto con il bene comune della sicurezza di tutti. In caso di piogge intense le città diventano pericolose per tutti i suoi abitanti. Il danno particolare che l'uso privato del suolo genera nei confronti dell'universalità dei cittadini disvela così uno specifico carattere ecosistemico dell'azione umana in città. Non si possono mutare gli equilibri naturali di un habitat pur artificiale senza effetti e rotture in qualche punto del sistema. E soprattutto senza conseguenze sul Dedalo ingegnoso che quel sistema ha costruito. Non si può pensare al territorio come a un mero supporto neutro sopra il quale “poggiare” qualunque edificio: esso non è nudo suolo, appartenente a vari proprietari che pretendono di ricavarvi una rendita, ma è il frammento di una rete ecosistemica entro la quale siamo tutti impigliati.

Il rapporto sistemico della città con il suo territorio più o meno prossimo emerge oggi anche dalla rottura di un equilibrio millenario con la campagna, cui abbiamo già fatto cenno. Il mutamento drammatico, in qualità e quantità, della massa dei rifiuti urbani ha creato fenomeni ignoti a tutte le società del passato. Se un tempo la gran parte delle deiezioni cittadine veniva utilmente consumata dalle agricolture circostanti in forma di fertilizzanti, esse formano oggi un'appendice urbana che occupa e inquina territori più o meno prossimi, con danni alle acque, all'aria, alla salute degli animali e dei cittadini nelle varie casistiche osservabili in giro per il mondo.

Il cielo è di tutti

Non meno noto è diventato il legame sistemico tra il cielo della città, vale a dire la qualità dell'aria che in essa si respira, e la sua manipolazione, insieme privata e collettiva, a scopi produttivi e di varia altra natura. Il sorgere di un rischio per la salute umana, esploso in maniera allarmante negli ultimi decenni, ha fatto emergere quale bene comune una risorsa vitale irrinunciabile, fino a pochi decenni fa da tutti ignorata in quanto illimitata e relativamente integra. L'aria è un common. Noi tutti respiriamo l'aria che ci circonda senza pensare ai nostri polmoni, ma anche senza badare al fatto che essa è natura, che da essa dipende la nostra vita, e certamente senza chiederci a chi appartiene. Ma l'apparire della scarsità di questa risorsa, la sua violazione e alterazione ( che corrisponde a una appropriazione privata dei singoli) fa emergere l'elemento naturale che rende possibile l'esistenza di tutti e al tempo il suo carattere di bene collettivo e indivisibile.

In questo specifico caso appare assai difficile separare l'interesse privato di chi immette smog nello spazio urbano, usando un proprio mezzo di trasporto, da chi respira l'aria inquinata mentre cammina per la città. In un gran numero di casi quel pedone costretto a respirare il cocktail fotochimico di anidride carbonica , di solfato di zolfo , di particolato e vari altri inquinanti, il giorno dopo, a bordo della sua auto, sarà tra la schiera degli inquinatori. Il bene comune dell' aria salubre e il diritto universale alla salute vengono violati sistematicamente anche da chi quel danno subisce, a sua volta, in quanto abitante di una città, utente dello spazio pubblico. Appare qui evidente che la rappresentanza e la difesa del bene comune salute è affidata a una autorità terza in grado di comporre il diritto e il bisogno della mobilità dei cittadini con quello di respirare un'aria non inquinata.

E tuttavia appare anche in questo caso ben visibile la configurazione del mondo urbano quale ecosistema: l'uso privato e collettivo dell'habitat ha conseguenze sugli attori naturali che lo manipolano e lo abitano, non diversamente da quanto accade in natura, allorché un qualche agente rompe un equilibrio consolidato. Se un ambiente acquatico si prosciuga a causa di un intervento dell'uomo o per una prolungata siccità, la vita degli uccelli, dei pesci e dei mammiferi che l'abitavano ne viene sconvolta.

Intanto,senza che nessuno lo notasse, senza sofisticate elaborazioni teoriche, sotto il cielo delle città un bene comune fondamentale è stato storicamente ripartito e regolato con criteri egalitari fra i suoi innumerevoli fruitori. Com'è noto, lo spazio adibito alla libera circolazione di uomini e veicoli non conosce significativi impedimenti e domini privati e particolari. Al contrario lo spostamento su strada è reso possibile da regole universali che danno pari diritto di movimento a tutti gli utenti. Quello spazio pubblico è stato infatti ripartito in un reticolato di possibilità e divieti in cui ciascuno esercita il proprio diritto a spostarsi rispettando quello degli altri. Il semaforo rosso che impedisce al singolo utente di transitare all'incrocio è un obbligo che lo costringe a non considerare lo spazio urbano come un dominio particolare che può utilizzare a proprio arbitrio. Qualunque sia la potenza e il lusso del veicolo che guida, qualunque sia il ruolo sociale, la ricchezza, la potenza gerarchica del guidatore, quel rosso è un impedimento da rispettare. E' condizione della sua sicurezza e di quella degli altri. Si è tutti alla pari nello spazio aperto delle strade cittadine. Una grammatica universale si impone su tutti. Ed è grazie a tale egalitarismo che viene protetto il bene comune dell'incolumità fisica dei cittadini. Solo i pari diritti di spostamento di cui godono tutti consentono l'uso ottimale del bene comune del territorio urbano. Forse e' qui il modello di uso egalitario della città, del suolo, dell'aria, delle risorse a cui occorrerà uniformarsi in futuro.

Il tetto che scotta

Lo scenario climatico che le conoscenze scientifiche del nostro tempo hanno squadernato davanti a noi ci mostrano oggi un altro aspetto di legame sistemico tra la città, i suoi attori naturali, e il più vasto spazio planetario. Le città ci fanno sperimentare la nuova mondialità del locale. Mai come oggi esse erano apparse così nitidamente quali punti interconnessi di una rete a scala globale. Com'è largamente noto, è lo smog cittadino, sono gli scarichi urbani e i fumi industriali per produzioni destinate alle città a determinare una percentuale rilevante di immissione di gas serra nell'atmosfera.Tutte le città del mondo, centri energivori di varie dimensioni e potenza, consumano in maniera crescente petrolio e carbone, alterando il clima atmosferico, surriscaldando il nostro comune tetto di abitanti della Terra. Il riscaldamento globale, potremmo dire, è figlio del metabolismo urbano.

Val la pena inoltre osservare che il riscaldamento urbano tende a rafforzare i suoi effetti per via della stessa manipolazione territoriale che espone le città agli allagamenti periodici. La scomparsa degli orti periurbani, il taglio di alberi, la cementificazione diffusa, la cancellazione progressiva del verde, tutta la multiforme e molecolare attività di consumo dei suoli incolti, non solo contribuisce alla produzione di carbonio e alla cancellazione di fonti produttrici di ossigeno, incrementando così il riscaldamento globale. Essa ha anche un effetto locale e ravvicinato.

Accresce il riscaldamento del clima in città. Estati roventi attendono gli abitanti dei centri urbani in ogni angolo del mondo. E il clima, sotto la minaccia della sua grave alterazione, immaginato per tutta la precedente storia umana come non condizionabile dalla nostra azione, è un bene comune sempre più prezioso per le nostre sorti. E anch'esso mostra come l'azione di alterazione degli habitat da parte dei singoli, fino ad oggi iscritta dall'ideologia dominante nel regno intangibile della libertà, opera nei fatti in danno crescente del bene comune del clima, contribuisce a rendere rovente il tetto della casa comune.

A Verona il sindaco vorrebbe mettere un tetto all’Arena e fare dell’Arsenale austriaco un ipermercato. Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2014

"Non esiste mondo fuori delle mura di Verona: non c’è che purgatorio, supplizio, l’inferno stesso”, scrive Shakespeare: certo, sotto Flavio Tosi anche dentro quelle mura la situazione non è molto più allegra. Almeno per la cultura.

Non è certo colpa di Tosi se la straordinaria qualità del tessuto artistico veronese è occultata da decenni sotto la coltre di paccottiglia collegata proprio a Romeo e Giulietta: anche se la giunta ci ha messo del suo, spiaggiando di fronte all’Arena una incredibile panchina a forma di cuore per foto di coppia. Da notare il divisorio centrale, che impedisce ai senzatetto di dormirci durante la notte: limiti dell’amore al tempo della Lega. Il tono culturale è invece da cercare nell’idea di Gianni Morandi (sic), che ha proposto a Tosi di dotare di un tetto proprio l’Arena: “Ho pensato che in fondo una copertura avrebbe potuto valorizzare l’anfiteatro, i grandi eventi e la città di Verona”.

Magari il settantenne ragazzo di Monghidoro scherzava, ma il sindaco si è precipitato a Roma: dove però è stato gelato dal ministro per i Beni culturali, il quale deve avergli fatto notare che un anfiteatro romano non è esattamente un palasport. Poco male, a Verona non mancano i progetti di “valorizzazione”. Uno dei più contestati riguarda l’Arsenale austriaco, importantissimo monumento di architettura e urbanistica militare dell’Impero asburgico, e cornice di un giardino pubblico assai frequentato nonostante le pessime condizioni. I cittadini, riuniti in un comitato, chiedono che anche gli edifici trovino una destinazione sociale e culturale, in una città che ha fame di spazi pubblici. La giunta, invece, dopo aver lasciato andare in malora il complesso, preferisce destinarlo alla speculazione edilizia, immaginando di trasformarlo in centro commerciale, attraverso il discutibile strumento del project financing. Il Comune dovrebbe, per di più, investire ben 12 milioni di euro in un progetto che porterà a una privatizzazione di due terzi del complesso per 99 anni. L’appello online che chiede il ritiro dell’operazione (“perché palesemente contraria all’interesse pubblico e a quello delle attività commerciali della zona e perché porterebbe a un enorme aumento del traffico, già ora insostenibile, e a una forte diminuzione del verde pubblico”) ha già raccolto oltre 2500 firme. Un altro caso che ha visto una vivace mobilitazione popolare riguarda Palazzo Bocca Trezza, già sede dell’Istituto d’Arte Nani: un bell’edificio del Cinquecento, ancora denso di decorazioni a stucco e ad affresco.

Dopo aver interrotto ogni manutenzione (nel silenzio incomprensibile della Soprintendenza), e dopo aver permesso che il giardino e il palazzo stesso diventassero una centrale di spaccio, la giunta Tosi si accorge delle pessime condizioni del complesso. Che, guarda caso, non lasciano scelta: bisogna disfarsene, alienarlo, privatizzarlo: cioè, dati i tempi, svenderlo. E tanto peggio per le associazioni, i comitati e i singoli cittadini che presidiano il palazzo e il giardino, propongono destinazioni sociali più che sostenibili, si riuniscono per protestare a suon di musica.

Ma Tosi non è solo capace di vendere, perbacco: sa anche costruire. Un fiore all’occhiello della politica culturale del sindaco è il museo AMO (si scioglie in: ArenaMuseOpera). Per realizzarlo è stato sfrattato dalla sua sede storica uno dei più importanti musei della città, la Galleria d’arte moderna. E il palazzo (che è quello del tiranno medioevale di Verona Ezzelino da Romano, del patriota Pietro Emilei e infine donato alla città da Achille Forti) è stato alienato (è un vizio) alla Fondazione Cariverona. Quindi Tosi (come presidente della Fondazione Arena) ha sostanzialmente preso in affitto (per modici 6,5 milioni di euro) dalla fondazione bancaria ciò che Tosi (come sindaco) aveva venduto, e ci ha realizzato l’AMO. Non ci sono parole per descrivere lo sconcerto di questo non-museo, che ha un salatissimo biglietto di ingresso ed è vietato (iddio sa perché) ai bambini con meno di quattro anni. La cosa più incredibile è che quasi tutti i documenti esposti sono fotocopie, anche se nessuna didascalia lo ammette. L’altra cosa lunare sono le didascalie stesse, un esilarante diluvio di trascrizioni errate e di errori storici (per esempio: Puccini viene fatto morire nel 1901, invece che nel 1924), sintattici, grammaticali. Il nome dell’Archivio e delle edizioni Ricordi (fondamentali, parlandosi di opera lirica) è quasi sempre tradotto in inglese come “Memories”. Con una variante sublime in cui “Casa Ricordi” si trasforma in una severa ammonizione: “Remember the Family”. Che, in effetti, dopo le disavventure del Trota è anche un buon consiglio politico. Insomma, non è poi un male che i numeri che rinviano all’audioguida siano sempre nascosti dai pesanti tendaggi.

La direttrice e curatrice del ‘museo’, che si firma Kikka Ricchio, è soprattutto nota come coautrice del volume Passione e cucina. Sarà per questo che a Verona c’è chi dice che fare un museo in quel palazzo serviva soprattutto ad aprirci un ristorante aggirando il vincolo monumentale. Di certo c’è che la qualità del ristorante è sideralmente superiore a quella del ‘museo’. Sull’ultimo numero dell’Espresso, Salvatore Settis ha notato che Tosi gareggia con Matteo Renzi in “invettive contro le soprintendenze ai beni culturali”. Si capisce: con una politica culturale così forte, aspira all’esclusiva.

Corriere della Sera Lombardia, 16 gennaio 2014, postilla (f.b.)

MILANO — C’è chi ha inventato un’applicazione per smartphone per far incrociare consumatore e azienda agricola. C’è chi ha creato una piattaforma web per le massaie che sono alla caccia di prodotti a chilometro zero. C’è chi ha ideato gli alveari urbani. E ancora: chi ha realizzato una piattaforma digitale di servizi e applicazioni per semplificare le attività in agricoltura, con l’obiettivo di ridurre lo spreco di risorse primarie. E chi ha dato vita a una community per incontrare nuovi amici a tavola. Nuove idee in campagna: vengono dagli agricoltori under 35, una nuova classe di imprenditori della terra che avanza sposando tradizione e creatività, zappa e palmare, tecnologia e sudore.

In Lombardia, i giovani contadini sono uno su 14, il 7,2% del totale, sono titolari di 3.520 aziende (start up e non solo) su un totale di 48.909. In cima alla classifica c’è la provincia di Como con il 12,5% (268 aziende su 2.150), seguita da Lecco con l’11,7% (131 su 1.122) e Sondrio con il 10,2% (268 su 2.621). Una generazione di agricoltori 2.0 che giocherà un ruolo chiave anche in vista dell’Esposizione universale del 2015, com’è emerso ieri al Tavolo agroalimentare di Expo, organizzato dalla Camera di commercio di Milano, nelle sale di palazzo Giureconsulti. Sviluppo sostenibile, salvaguardia dell’ambiente, buona e cattiva nutrizione, lotta alla contraffazione, guerra agli sprechi e innovazione tecnologica. Una lunga lista di sfide da vincere nel presente e nel futuro e su cui questa nuova generazione di imprenditori green costruisce i i progetti di lavoro delle proprie aziende.

Perché, nonostante il numero delle imprese «verdi» sia sceso, nella nostra regione, da 50.506 a 48.909 in dodici mesi, sempre di più i giovani ritornano alla terra, tanto che un nuovo agricoltore su quattro ha meno di 35 anni. Tradotto in cifre: si tratta di 227 su 963 nuove iscrizioni alle Camera di commercio, da gennaio a settembre 2013. Numeri da record, dunque. A cui si somma il fatto che i giovani imprenditori agricoli danno anche ossigeno all’occupazione: hanno infatti creato 3.968 posti di lavoro su un totale di 78.827 in Lombardia.

Ma è per colpa di una disoccupazione galoppante che i giovani riscoprono il fascino antico della campagna? «In questo periodo di crisi, fra i giovani lombardi c’è una forte propensione ad accostarsi a queste attività, più vicine alla natura e all’ambiente — osserva Giovanni Benedetti, della Camera di commercio di Milano —. E stimiamo che il loro numero possa continuare a crescere con l’approssimarsi dell’Expo. Perché l’evento del 2015, certamente, rappresenta un’opportunità per il settore agricolo. Così come i Tavoli Expo possono rappresentare un’opportunità per promuovere le start up e creare sinergie».

postilla

La domanda che chiude la serie delle interessanti statistiche proposte, racchiude in sé le due possibili alternative di sviluppo del fenomeno: da un lato la pura risposta, abbastanza casuale alla crisi, che assume forme tendenzialmente regressive, simili ad esempio all'apertura di negozi tradizionali destinati ad una vita breve di fronte alla concorrenza della grande distribuzione; d'altro canto, il solo fatto che si tratti di giovani “urbani” nelle aspettative, nelle aspirazioni, nella formazione di base, suggerisce qualcosa che va oltre il puro recupero di un'attività tradizionale e dei relativi territori. Non bisogna dimenticarsi che ad esempio anche il movimento per le città giardino si inserì in una grande ondata di “ritorno alla terra” e di assestamento insediativo e occupazionale alla fine di un arco di sviluppo industriale e urbano. Allo stesso modo nuove attività produttive primarie potrebbero segnare (con adeguate strategie pubbliche di orientamento) il confine tra il banale sprawl padano attuale e qualcosa di più simile all'integrazione delineata in teoria da Expo (f.b.)

E' il tramonto di Tessera City, la grande operazione di valorizzazione immobiliare della gronda lagunare avviata dal craxiano Gianni De Michelis e proseguita dai suoi seguaci nascosti sotto altre bandiere, oppure una guerra tra bande per la divisione degli utili? La Nuova Venezia, 15 gennaio 2014

Orsoni: fa solo i suoi affari Saveabbandona il Quadrante «Orsoni si faccia lo stadio da solo» II presidenteMarchi: «Impossibile dialogare con il sindaco, adesso non potrà dare più lacolpa a noi» Salta così l'opzione sull'area di 28 ettari per il centrosportivo, in vendita i terreni destinati a bosco

Quadrantedi Tessera: Save si chiama fuori, rischiando di far saltare il progetto dellostadio del Venezia Calcio. «Mi chiamo fuori perché con questo muro contro muronon ha senso insistere. Ora il sindaco Giorgio Orsoni non ha alibi, se vuolefare lo stadio lo faccia, e io me lo auguro, ma almeno non potrà dare la colpaa noi, come è sua abitudine» ha spiegato ieri il presidente di Save, EnricoMarchi, in un incontro convocato per ricostruire la lunga storia dell'accordoche era stato siglato nel 2008 con l'allora sindaco Massimo Cacciari.
Un'intesache aveva messo tutti d'accordo: con uno scambio di aree tra la società digestione dell'aeroporto e il Comune, compensata con una maggiore capacitàedificatoria per Save, si sarebbero potuti realizzare la nuova sede del Casinòe lo stadio per il comune, e una serie di edifici - «ma non centri commerciali»- funzionali allo scalo per la Save di Marchi. Un accordo che però è statonecessario rivedere dopo l'apposizione nell'ottobre del 2011 di un vincolo Enacdi un chilometro dall'asse della nuova pista prevista nel masterplan dellasocietà di gestione e che si estende anche sull'area destinata allo stadio. Daallora è cominciato il braccio di ferro, in mezzo ci sono state l'approvazionedel Pat da parte del Comune - fermo però in Regione - e l'opzione d'acquisto daparte di Save di un'area di 28 ettari, a nord del quadrante e a ovest dellaTriestina perla realizzazione dello stadio.
Un nuovo accordo però non è maistato trovato perla volontà di Ca' Farsetti - accusa Marchi - di voler tagliarele aree di Save dal progetto del quadrante, escludendo la compensazione dellearee acquistate da Save per l'accordo del 2008, e concentrando tutta lacapacità edificatoria sulle aree di proprietà della Marco Polo, società delComune.
Per Ca' Farsetti però Marchi ha un solo obiettivo: speculare ai dannidella programmazione urbanistica della città. Il presidente di Save invecesostiene che «Orsoni ha agito cercando di ignorarci, trattando direttamente conEnac dimostrando» aggiunge «una miopia incredibile. E anche malafede. Non abbiamopiù tempo di distrarci con queste beghe politiche, a questo punto ci teniamo iterreni che ci servono per realizzare la seconda pista, rinunciamo all'opzionesul terreno per lo stadio, e le altre le vendiamo, con calma». Il che vuol direche sfuma il progetto dello stadio - almeno così come era stato immaginato,perché il Comune sta cercando di ottenere una deroga per realizzarloall'interno del vincolo di un chilometro - e sfuma il progetto del bosco,un'area di 105 ettari che era stata acquistata da Save in base all'accordo conCacciari. Non è in pericolo però il progetto della seconda pista, assicuraMarchi anche se per realizzarla, oltre ai 70 ettari già nella disponibilità diSave, serviranno anche i 16 d del Comune. «Con il masterplan definitivo entro18 mesi procederemo all'esproprio delle aree che ci mancano, compresa quella diproprietà del Comune.
Non è un progetto di Save» ha evidenziato Marchi «ma è unprogetto nazionale che riguarda il terzo aeroporto intercontinentale italiano».Il mirino di Marchi resta puntato contro Orsoni, che invita a interrogarsi sulperché, come emerso in un sondaggio di Ipr Marketing, sia uno dei sindaci menoamati in Italia: «Orsoni probabilmente ha qualche problema con la mia persona,ma questo non è per volontà mia. Forse perché era una delle tante persone cheavrebbe ambito a fare il presidente dell'aeroporto, come era una delle tantepersone che attorno allo scalo lavorava con ricche consulenze. Per quanto miriguarda io non ho mai avuto l'ambizione, e non l'ho neppure oggi, di fare ilsindaco di Venezia. Forse lui aveva quella di fare il presidente della Save».

Entra nel vivo la scissione dell'atomo di Umberto Veronesi, tra le due componenti della ricerca scientifica e della speculazione edilizia: riuscirà l'esperimento? La Repubblica Milano, 15 gennaio 2014 (f.b.)

Comune e Fondazione Cerba ricominciano a trattare per salvare il Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata. Dopo la decisione di Palazzo Marino, il 18 dicembre, di non concedere un’ulteriore proroga alla firma degli atti integrativi all’Accordo di programma (con conseguente rischio di far decadere il piano), ieri durante una seduta della commissione Urbanistica le parti hanno avviato le prove d’intesa. Il vice sindaco Ada Lucia De Cesaris ha messo sul piatto la proposta del Comune: la revisione del progetto iniziale, con la riduzione dell’impatto urbanistico sul Parco e lo spostamento di parte delle costruzioni in un’altra zona, esterna all’area agricola.

Un’ipotesi che non dispiace alla Fondazione: «Siamo disposti a rivedere il progetto — spiega il direttore generale Maurizio Mauri — La parte del Cerba inerente alla ricerca e all’attività clinica deve essere necessariamente realizzata accanto allo Ieo, nel Parco agricolo Sud. Il resto, però, può anche essere costruito altrove: noi non vogliamo fare alcuna speculazione edilizia, ma solo portare avanti un disegno scientifico».

L’ipotesi sarebbe quella di spostare le “funzioni ancillari” del Cerba (le case per studenti e ricercatori in arrivo dall’estero, i magazzini, le aule per la didattica) in un’altra zona: si potrebbero utilizzare, si ragiona in Comune, alcune di quelle aree dismesse o edificabili che appartengono al pacchetto del fallimento Ligresti, ma si trovano dall’altro lato di via Ripamonti, fuori dal Parco agricolo Sud. Su cui, così, l’impatto potrebbe diminuire anche di un terzo. «Siamo pronti a partire su nuove basi purché sia chiaro l’iter urbanistico — sottolinea De Cesaris — Il Cerba si può fare benissimo con un lavoro di contemperazione. Ci si mette tutti di buona volontà e lo si fa in modo trasparente, con un accordo alla luce del sole e non pasticciato». Uno scenario che la Fondazione non esclude, anche se mette il paletto dei tempi: «Tutto dovrà essere risolto entro un anno, non di più», puntualizza Mauri.

Un compromesso, insomma. Che potrebbe essere formalizzato nelle prossime settimane, con l’avvio di un nuovo tavolo tra Palazzo Marino, Fondazione e Visconti srl, la società costituitadalla banche creditrici di Ligresti per presentare il concordato (che ancora attende l’omologazione) e rilevare il Cerba. Resta il nodo dei ricorsi al Tar, presentati contro il Comune dalla Fondazione e dalla curatela Ligresti, e su cui il Tribunale si esprimerà il 23 gennaio. Se la Fondazione si dice disposta a ritirarlo qualorale trattative dovessero riprendere ufficialmente, quello presentato dalla curatela per ora rimane in piedi. Anche perché è proprio con i curatori fallimentari (che il 27 dicembre hanno scritto al sindaco Pisapia, invocando un ripensamento per evitare che il concordato salti) che i rapporti sono più tesi: «La curatela finora non si è dimostrata disponibile ad arrivare a un compromesso — dice De Cesaris — In questi mesi abbiamo proposto diverse proposte di modifica al piano originale, ma l’accordo non è mai stato raggiunto: se ci avessero seguito, non saremmo a questo punto».

eddyburg) si battono da anni contro la distruzione di un prezioso paesaggio della costa della Sardegna. Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2014, con postilla

MADE IN BENETTON. Ogni tanto una buona notizia. Il 9 gennaio le sessanta cartelle di una sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato hanno salvato un pezzo di paesaggio italiano: Capo Malfatano, all'estremo sud della costa della Sardegna. Qui la Società Iniziative Turistiche Agricole Sarde e una cordata di costruttori di tutto rispetto (Sansedoni, Benetton, Toti e Caltagirone) stavano costruendo hotel e servizi per quasi 200.000 mila metri cubi di cemento (pari a circa 15 palazzi di dieci piani) collocati a 300 metri dalla spiaggia di Tueredda. Se è dovuto intervenire il Consiglio di Stato è perché il Comune di Teulada e la Regione Sardegna avevano tranquillamente concesso tutte le autorizzazioni (ennesimo atto di interessato suicidio), e la Soprintendenza non aveva fatto una piega (ennesima complicità nel suicidio). Il primo a opporsi un semplice cittadino: Ovidio Marras, contadino e pastore di 82 anni, supportato dallo straordinario GrIG (Gruppo di Intervento Giuridico). Ma mancavano i soldi per percorrere fino in fondo l'iter della giustizia amministrativa, ed è qua che è intervenuta Italia Nostra, un'associazione cui tutti noi dovremmo essere profondamente grati. “La sentenza – scrive proprio Italia Nostra – è una vittoria contro un’immensa e continua aggressione all’ambiente. Il Consiglio di Stato non solo ha riconfermato il valore assoluto del paesaggio sugli interessi economici, ma ha anche confermato la funzione delle associazioni in difesa del patrimonio culturale. Un’azione svolta con grande impegno e determinazione dal consiglio regionale di Italia Nostra Sardegna, da Maria Paola Morittu e dall’avvocato Filippo Satta per la difesa di un luogo unico. Malfatano deriva dall’arabo ‘Amal fatah’ che vuol dire ‘il luogo della speranza’, la speranza che per Italia Nostra sentenze come queste indichino quale debba essere il rispetto che il nostro patrimonio storico, artistico e naturale merita ogni giorno nel nostro Paese”. E sembra di vederlo, su qualche nuvola nel cielo della Sardegna, il sorriso di Antonio Cederna.

postilla
Sulla vicenda vedi su eddyburg l'articolo di Maria Paola Morittu,che nell'agosto 2010 ha aperto la critica e lanciato l'appello, gli articolipubblicati nel 2010 da Giorgio Todde (eddyburg) e Sandro Roggio (L’Unità),quelli scritti negli anni successivi da Andrea Massidda e Mauro Lissia (LaNuova Sardegna), Giorgio Meletti (Il Fatto quotidiano), Giorgio Todde (eddyburg). Su Ovidio vedi anche lo splendido servizio di Giorgio Galeano, per TG3,su YouTube.

Corriere della Sera, 14 gennaio 2013

Bellezza e occupazione possono andare d’accordo? Protezione dell’ambiente e occupazione possono sostenersi a vicenda? Chi crede solo nell’industrializzazione forzata, nella liberalizzazione edilizia e nella cementificazione del territorio, risponde di no, sostenendo che arte, cultura, ambiente e prevenzione non danno lavoro e comportano solo spese. Molte voci consapevoli stanno dimostrando invece, prove alla mano, che un Paese privo di materie prime come il nostro, può svilupparsi solo puntando sulle sue eccellenze. Suggerisco a questo proposito un bel libro di Montanari, Leone, Maddalena e Settis, sul rapporto fra Costituzione e ambiente, fra ricchezza accumulata nelle mani di pochi speculatori e perdita del lavoro, (Costituzione incompiuta, Einaudi). D’altronde non posso scordare la risposta di una studentessa vietnamita alla mia domanda del perché studiassero una lingua lontana e poco potente come l’italiano: «Perché siete la più grande potenza culturale del mondo!». Accidenti, mi sono detta, possibile che lo pensino i vietnamiti e da noi nessuno ci faccia caso?

Prendo qualche dato fornito da Roberto Ippolito, autore del lucido e informatissimo libro Ignoranti, Chiarelettere. Quest’anno i visitatori della Biennale d’arte di Venezia sono stati 475 mila, l’8% in più rispetto al 2012. A Torino i musei hanno aumentato i loro visitatori del 50% dal 2012. Nella città di Torino e provincia si contano oggi più di 33.000 addetti alla cultura, il doppio dei dipendenti Fiat. Purtroppo spesso la trascuratezza e la speculazione allontanano i turisti, fino a impoverire intere zone di alta qualità artistica. Ippolito cita il caso di Montescaglioso in Basilicata, dove è franata la località Cinque Bocche. «Strade inghiottite, villette crollate, un supermercato sprofondato, cancellato il collegamento con Potenza». Eppure Montescaglioso è un luogo di importanti testimonianze storiche: «Si trova nel parco delle chiese rupestri del Materano, vanta l’abbazia benedettina di San Michele Arcangelo del XII secolo, fa parte dell’associazione città dell’olio».

Come partecipazione alla vita culturale, l’Italia si trova al 23° posto su 28 Paesi dell’Unione Europea. Fra gli ultimi per laureati, per quantità di lettori, abbiamo una dispersione scolastica da Paese sottosviluppato, e la scuola è degradata. Se andiamo a vedere i dati del turismo, risulta che le città più visitate non sono quelle marine o dei divertimenti, ma le città artistiche, fra cui Torino, Firenze e Venezia. I turisti quest’anno hanno speso 32 miliardi , contro i 29 del 2010, con un aumento del 20%. Mentre ci sono città e luoghi artistici importantissimi come Pompei o Agrigento che, a causa dell’incuria, stanno perdendo visitatori. Insomma è chiaro che lì dove la bellezza è tutelata e protetta, dove l’accoglienza è garantita con visite guidate, vendita di libri, presenza di bar e ristoranti, la gente accorre. Dove c’è abbandono e cattiva gestione, la gente scappa. «L’Italia non ha capito che potrebbe recuperare migliaia di posti di lavoro puntando sulle sue vere, invidiate e inesauribili ricchezze». Chi lo dice? un vietnamita innamorato del nostro Paese o un italiano che tocca con mano tutti i giorni i danni che fanno la speculazione, la cementificazione, il cattivo uso del territorio e dei beni culturali ?

EcoMagazine, osservatorio dei conflitti ambientali, 14 gennaio 2014

Tanti cuori per un solo obiettivo: rilanciare in positivo quello che oramai è stato chiamato “movimento del 30 novembre” e trovare una strada condivisa per imprimere una sterzata ambientalista ad un governo regionale che, anche nelle ultime scelte politiche in tema di viabilità, si riconferma più che mai legato a vecchi schemi di sfruttamento e mercificazione del territorio e dei beni comuni.

L’incontro dei comitati – il primo dopo la manifestazione di fine novembre – si è svolto sabato pomeriggio, nella sede patavina dei Beati Costruttori di Pace. Più di un centinaio i presenti, in rappresentanza del variegato arcipelago ambientalista e movimentista del Veneto. La prima parte dei lavori è stata dedicata ad una valutazione a freddo dell’iniziativa del 30. Valutazione considerata per lo più positiva da tutti. Superata la fase delle polemiche sulla gestione del corteo, è apparso chiaro che il percorso che si vuole intraprendere dovrà essere sì condiviso nei fini, ma rispettare le specificità di ogni singola associazione, i suoi tempi, il suo linguaggio e il suo stare in piazza. Piuttosto il, continuiamo a chiamarlo così , “movimento del 30 novembre” dovrà mostrarsi il più possibile inclusivo, allargando i temi ambientali a quelli del lavoro, considerando che alla fin fine, diritti e ambiente sono due facce della stessa medaglia che un certo tipo di “sviluppo” vorrebbe macinare per ricavare reddito. O meglio. quella famosa “rendita” che, come ha osservato l’architetta Luisa Calimani, portavoce di Città Amica, sta alla base di questo capitalismo predatorio che ha inventato parole come “austerity” e concetti come “crisi”.

E, a proposito di concetti, tanto per ribadirne uno che troppo spesso cercano di farci dimenticare - intendo “la lotta paga” – riportiamo una osservazione di Beppe Caccia. “La manifestazione del 30 ha avuto il merito di riportare al centro del dibattito politico temi che erano nella nostra piattaforma di lotta. Pensiamo solo al problema dei pedaggi autostradali di cui ora si fa un gran discorrere. Sono convinto che sia anche merito delle nostre mobilitazioni se ora due miti che ci erano stati inculcati come quello che il project financing non ci costa nulla e che le autostrade risolvono il nodo della viabilità, hanno mostrato tutta la loro inconsistenza”.

Archiviato quindi il bilancio positivo dell’iniziativa di novembre, resta da decidere quali strumenti utilizzare per buttare ancora una volta il cuore al di là della barricata. Per Oscar Mencini, che ha auspicato uno “svecchiamento” del sindacato sui temi ambientali, non è mai troppo tardi, ha sottolineato la necessità di “diffondere saperi e conoscenze, incrociando saperi sociali con conoscenze scientifiche” allo scopo di allargare la base critica. “E’ importante includere ma anche evitare di radicalizzare lo scontro” ha sostenuto. Una strada interessante, pur se non pare abbia suscitato grandi applausi in sala, è stata quella per così dire “istituzionale” avanzata dall’urbanista Carlo Giacomini che ha proposto ad usare ancora l’arma del referendum regionale e della proposta di legge di iniziativa popolare su tutti i temi sui quali si battono i comitati, dalle cave agli inceneritori, dalla tutela delle acque a quella de paesaggio. Se è vero che tutti quelli che erano in sala possono chiamarsi a buon diritto “figli” della grande battaglia referendaria per l’acqua pubblica, è anche vero che questa strada giuridica a livello regionale potrebbe rivelarsi tecnicamente impervia, costosa e difficile da percorrere. Per ottenere inoltre risultati quantomeno incerti. (Chi scrive ricorda ancora un paio di legge di iniziativa popolare personalmente depositate 4 o 5 anni fa di cui e che sono ancora ad ammuffire in qualche armadio di palazzo Ferro Fine, sempre che l’acqua alta non se li sia ancora mangiati).

Ma il vero punto dolente di tutta la discussione di sabato è stato il rapporto tra movimenti e partiti che è come parlare di thè col latte: c’è chi non riesce a berlo senza e chi si sente venire la pelle d’oca al solo pensiero di mescolarli. Detto subito che nessuno in sala è schizzato di matto al punto di proporre di costituire un altro partito di sinistra e neppure una sorta di “comitato dei comitati”, il problema di come affrontare le prossime amministrative c’è ed è inutile nascondercelo. Cristiano Gasparetto di Ambiente Venezia, ha messo in guardia l’assemblea dal “continuare a votare gli stessi sindaci e assessori che ci hanno preso in giro e che sono causa del disastro” proponendo di costituirsi in “una lista di partecipazione”. Proposta che non ha sollevato grandi entusiasmi in sala. Gli ha risposto Mattia Donadel di Opzione Zero, ricordandogli che “oramai le decisioni non vengono più prese nei luoghi istituzionali” e che “la questione qui non è sostituire un assessore ma un intero sistema di sfruttamento dei ben comuni”.

Chiudiamo restando sul concreto con la proposta operativa avanzata da Beppe Caccia che sarà, immaginiamo, uno degli argomenti che verranno affrontati nelle prossime assemblee. In sostanza, Caccia ha proposto di organizzare una “due o tre giorni” di lotta e di informazione, che ogni comitato dovrebbe gestire nel proprio territorio con le modalità e i linguaggi che più gli sono consueti: dai gazebi al volantinaggio, dai blocchi ai sit in. Rispettando quindi specificità e sensibilità di ogni associazione. Lo scopo è quello di informare la cittadinanza nelle zone “calde” con l’accortezza di legare sempre e comunque la questione locale ad un più ampio discorso globale. Perché, se c’è una cosa che la manifestazione del 30 novembre ha insegnato a tutti è che la sindrome di Ninby è perdente e si può vincere solo se cominciamo a pensare più in grande dei nostri avversari.

Recensione del film di Paolo Virzì, Capitale umano: come la finanza distrugge vita e territorio. www. Dinamo, 13 gennaio 2014
Paolo Virzì ha scelto di ambientare il “Capitale umano” nella Brianza. Un territorio geograficamente omogeneo, seppur amministrativamente spacchettato in quattro capoluoghi di Provincia, considerato da sempre, nell’immaginario del nostro paese, come “ricco”. Una fabbrica totale dove attività legate alla costruzione di mobili convivono con il comparto del cuoio; le fabbriche di motori automobilistici con quelle di aerei; le lavorazioni del legno con i distretti manifatturieri; moda e design con il terziario avanzato e, naturalmente, l’edilizia. Case e fabbriche, a volte un unico edificio per tutte e due, che, in alcuni casi, hanno rappresentato fino alla seconda metà del ‘900, veri e propri saggi in cemento sull’abitare di alcuni tra i più bravi architetti italiani. Una ininterrotta città fabbrica.

Non è più così e questo, ormai, da molto tempo. La Brianza è un posto come un altro; non diverso dai moltissimi che, giorno dopo giorno, vedono scomparire i propri caratteri identitari. Succede ovunque. Anche l’intorno di Varese è oggi un luogo simile a qualsiasi provincia italiana.

Qui, tuttavia, la finanza e i suoi strumenti si esibiscono con maggiore visibilità, forti della condizione geografica del luogo rappresentata dalla prossimità di questo territorio al confine svizzero. Lì, a pochi chilometri dai cancelli delle proprie case, per decenni e decenni, i cosiddetti “imprenditori” locali hanno portato i soldi della propria rendita. Oggi, forse, è il luogo dove poter “raccattare” più facilmente, con promesse di altissimi interessi di reddito, capitali nascosti, sopravvissuti alla crisi, scudati o da riciclare. La riserva di caccia per illudere che è ancora possibile farcela, continuare a vivere di privilegi. Basta sostituire il lavoro con la nuova opportunità offerta dalla speculazione finanziaria: fare i soldi con i soldi.

Giovanni Bernaschi (Fabrizio Gifuni) vende questo sogno. Ha capito però che i capitali che servono per alimentare il suo fondo d’investimenti non si raccolgono allo sportello bancario, ma facendo di se stesso il manifesto tangibile del proprio “acume” finanziario. Giovanni e il suo fondo sono già leggenda assicurando, si dice, un più 40% su base annua. Per lavorare con soldi non suoi ha capito che oltre la propria fama di raider deve metterci dell’altro: l’immagine di una famiglia che tutto ha e tutto potrebbe avere e soprattutto la casa, il vero valore aggiunto al suo progetto.

Casa che non è a Milano. E’ volutamente lì, proprio in quella brughiera. Alta, bianca e squadrata, austera ma non solenne, con doppia scala d’accesso, ma sospesa appoggiata come è lievemente su di una collinetta dove è localizzata una piscina interna dalle ampie vetrate vista parco. Annessa c’è una zona sportiva: un campo per il tennis. In terra rossa naturalmente. Come si addice a chi, quello sport, pratica da sempre.

Una casa che segna un territorio, oggi devastato proprio dalle case: quelle degli altri

.Paolo Virzì, come fatto da Matteo Garrone in Reality, ci sbatte subito in faccia il disastro territoriale di questa eccedenza edilizia, facendoci atterrare, dopo una ripresa dall’alto, all’interno di una porzione dell’enorme villettopoli spalmata senza misericordia alcuna nell’hinterland a nord di Milano.

Le case, per Virzì, sono importanti. Le ha sempre scelte praticando una sorta di geografia duale, quale esemplificazione microspaziale, per raccontarci i diversi personaggi che incontriamo nelle sue storie. Succede in Ovo sodo; con i lividi palazzi della “Corea” livornese contrapposti alla raffinata edilizia del lungomare dell’Ardenza o, ancora ultimamente, in Tutti santi giorni dove la casetta a schiera di Acilia, con i rassicuranti riti di buon vicinato nella periferia romana, misura la distanza siderale con l’abitare metropolitano di San Lorenzo.

Giovanni Bernaschi usa anche il tennis per fare promozione. Lui vuole vincere non giocare. Componendo le coppie, dosando gli inviti, tesse le proprie relazioni. Anche Carla (Valeria Bruna Tedeschi), la moglie ex attrice strappata al palcoscenico, ha questo ruolo. E’ tutto uno con quella casa. Si muove silenziosa tra le molte stanze e quando esce stressa l’autista perché non è mai sicura dei suoi giri in città. Guida la macchina solo quando sa dove deve andare. Non è però la provincia a starle stretta né quella vita dorata, quanto piuttosto che marito e figlio la considerino un accessorio. Il marito non le spiega nulla di quello che fa e Massimiliano, il figlio fragilissimo, risponde alle sue domande dicendole di non “cagarle il cazzo”.

Carla non si stupisce più di tanto, né fa una piega quando, sembrandole impossibile che nel territorio dove vive stia per scomparire anche l’ultimo teatro - quello dove aveva debuttato Tino Buazelli - lo dice al marito e questo, che ha come rifermento il mondo, esclusivamente via conference-call, le domandi se sia proprio così importante.

Lei si è ritirata da molto tempo dal teatro, lui lo costruisce quotidianamente. Gli aderenti al suo fondo, i suoi soci, i propri dipendenti, non sono forse, al tempo stesso, suo pubblico e suoi attori?

Tutti a muoversi secondo il copione scritto dalla finanza vorace. Quella che non guarda in faccia nessuno, capace di far credere possibile ad un piccolo imprenditore edilizio che è meglio barattare mattoni e progetti con investimenti finanziari. Il gancio tra i due sono proprio i rispettivi figli, entrambi alunni di una scuola per fighetti, che tra loro stanno concludendo, senza dirlo ai genitori, una storia.

Così Dino Ossola l’immobiliarista brianzolo (interpretato da un supremo Fabrizio Bentivoglio capace di trasmettere perfettamente l’ambiguità del personaggio) fa il grande balzo. Sostituisce cementi e rogiti con soldi. Costruire e vendere case è un mestiere che non può finire perché, dice: “di case e bare ce ne è sempre bisogno”. Solo che, almeno delle prime, si è un po’ esagerato; ce ne sono tante, troppe e da qualche tempo sono destinate a restare vuote. Lui lo sa perché la crisi morde anche lui, tanto che ha già venduto ai cinesi una parte del suo ufficio. Ora vuole recuperare: riprendersi quello che dice spettargli: il poter continuare a lucrare rendita, il facile arricchimento, il non essere schiacciato dal governo della finanza del mondo, dalle sue nuove regole del gioco.

Vuole recuperare nell’unico modo che conosce: come ha sempre fatto. Prende i soldi che non ha grazie all’aiuto di un compiacente direttore di filiale millantando businnes plan di lavori inesistenti. Li tiene fuori da lavoro. Li investe nel fondo di Bernaschi.

Lo fanno tutti, anche, soprattutto, le banche perché non dovrebbe riuscire a lui? Solo che i conti non tornano perché questo fiume di denaro è destinato a vivere sollevato da terra a muoversi nello spazio altissimo e vastissimo rppresentato dalle oscillazioni valutarie, dalle scommesse sui titoli. Non è facile tirarlo giù quando si sta con l’acqua alla gola; trovarselo in quella strada dove vivi, dove scorre la vita; farlo atterrare secondo programma nella sua casetta con giardinetto, su due livelli simile alle centinaia con cui è costruita la lottizzazione.

La casa di Ossola e quella di Bernaschi, anche se dimensionalmente diverse e architettonicamente distanti, hanno una cosa in comune. La cucina ovviamente c’è ma, nei sei mesi dell’arco temporale in cui è raccolta la vicenda, non si vede mai un pranzo domestico. Nessuna delle due famiglie consuma pasti insieme. Né nella grande casa. Né nella villetta. La prima solo feste nel parco. La seconda solo passaggi veloci su tavoli multiuso, dove tracce di cibo si accostano a libri, computer, risultati di ecografie della compagna dell’immobiliarista (Valeria Golino), psicologa della Asl, attualmente inattesa di un parto gemellare.

Spazi non casa. Dove ognuno è solo con se stesso certo che così facendo, cullandosi nel proprio egoismo, farà il bene di chi gli sta intorno. Si sentono i genitori migliori del mondo. Perché loro il mondo lo sanno governare. Sanno quando c’è d’alzare la posta. Lo fanno perché vogliono i loro i figli vincenti e felici. Ognuno fa questo dal proprio singolo punto di osservazione. Virzì compone il film sezionando un medesimo avvenimento a loro ancora ignoto, ma che noi conosciamo fin dall’inizio della storia, attraverso tre capitoli che rappresentano come Carla, Dino e sua figlia Serena vivono quello che è successo, che sembrav non aver nessun rapporto con la loro vita, ma che, invece, gli precipiterà addosso .

Serena e Massimiliano, i figli, sono differenti dai loro genitori e tra loro. Mentre il ragazzo non riesce a vedersi fuori dai propri agi e il ruolo di privilegiato che la figura paterna gli assegna d’ufficio, Serena, la ragazza, saprà uscire fuori da questo mondo fatto di feste, sballi, automobili, repliche in piccolo delle mille sopraffazioni sociali di cui sono campioni i propri genitori , i loro amici, i loro avvocati. Saprà guardarsi intorno e non aver paura di quello che, a prima vista, le pare così distante da lei. Gli altri, i grandi, faranno quello che hanno sempre fatto, vivere di ricatti, tristi scopate, le isteriche scenate di un intellettuale meridionale che era convinto di tirar fuori, dopo un rapido amplesso con Carla, il proprio talento da uno squallido condominio, arredato come un foyer teatrale, passerelle dei politici di turno con l’assessore leghista con la suoneria del telefonino tarata sul Nabucco, preti beoti impacciati e deferenti presentatori di ragazzi-bene, amiche galleriste con le ultime cose appena arrivate dall’India, e tanti, tanti, comprimari per le feste nel parco. Sempre disponibili ad arraffare le briciole.

Non è la Roma di Sorrentino né la provincia brianzola. E’ l’Italia. Già affondata quando, ma è successo ormai da tempo, ha iniziato a ”tabellare” il valore di una vita secondo parametri finanziari. Quella del cameriere ucciso sul bordo della strada da una manovra avventata - è questo l’avvenimento che tiene insieme tutta la storia - vale poco più di duecentomila euro. Una cifra che il finanziere Bernaschi non accetterebbe di prendere neppure in considerazione accogliendo gli ospiti nella sua casa in cui si decide come saranno calpestati magari dal giorno dopo.

Virzì riesce a comporre tutto questo come un giallo rendendo tutti gli attori (protagonisti e comprimari) assolutamente credibili. Il sorprendente montaggio di Cecilia Zanuso ci fa sentire come spettatori di un set di diapositive, che non sono però ricordi di un viaggio già fatto, ma di quello verso cui vorrebbero trascinarci tutti.

Nel saggio di Francesco Erbani (Una vita per la città, il paesaggio, la bellezza, Corte del fòntego editore) ), le battaglie del fondatore di Italia Nostra per il territorio. La Nuova Venezia, gennaio 2014

«Non è a dire che io sia un vero giornalista, mi mancano tante qualità dei giornalisti. Ma grazie al cielo anche tanti difetti. Io mi vanto di aver scritto cose che in una repubblica ben ordinata sono ovvie... E a dir il vero scrivo sempre lo stesso articolo». Così Antonio Cederna, padre nobile dell'ambientalismo italiano, descriveva se stesso. «Sempre lo stesso articolo». L'amarezza di dover insistere sull'incuria del territorio, il saccheggio e il dissesto idrogeologico. Per ritrovarseli sempre davanti a ogni tragedia. Due giorni sulle prime pagine, poi tutto come prima.

La figura di Cederna, archeologo, giornalista e scrittore, autore di battaglie e denunce storiche sul "saccheggio del territorio" rivive grazie alla ristampa a cura della casa editrice veneziana Corte del Fontego del saggio del giornalista di Repubblica Francesco Erbani. «Una vita per la città, il paesaggio, la bellezza», è il titolo eloquente del volumetto. Che raccoglie testimonianze e documenti su colui che è stato uno dei capostipiti del movimento per la tutela della natura e della storia in Italia. Fondatore di Italia Nostra, giornalista al Mondo di Pannunzio insieme a Eugenio Scalfaci, poi al Corriere della Sera e a Repubblica, Cederna era conosciuto per i suoi attacchi senza paura a speculatori e cementificatori. la Società immobiliare nella Roma degli anni Sessanta, ma anche consorzi e imprese che hanno nel Dopoguerra "cementificato il territorio" attentando alla bellezza del Paese ma anche alla sicurezza di chi ci vive. «Scrivo da sempre lo stesso identico articolo, finché le cose non cambieranno continuerò a farlo», ripeteva Cederna, secondo la testimonianza della sorella Camilla. Così sui luoghi dell'alluvione della sua Valtellina ricorda le migliaia di vittime causate da alluvioni e inondazioni. «Le catastrofi sono sempre prevedibili», diceva citando il geologo francese Marcel Roubault, «non venitemi a parlare di fatalità». Si batteva come un leone contro le grandi opere ritenute inutili, a cominciare dal Mose a Venezia, dalle nuove strade in programma sui terreni antichi della via Appia a Roma.

Fu il primo a teorizzare la necessità di tutelare i centri storici, assediati dal cemento. «Non i singoli monumenti, ma gli interi centri storici». Si battè per la restituzione di palazzo Bar-berini, diventato circolo ufficiale dell'Esercito, a sede espositiva, per i nuovi Fori, che adesso la giunta capitolina prova a recuperare. Da parlamentare della Sinistra indipendente firma la rivoluzionaria - e mai applicata - legge sulla Difesa del suolo, nel 1989, dopo aver avuto come consulenti il veneziano Luigi Scano, Stefano Rodotà, Franco Bassanini. «Difficile stringere Cederna in una definizione», scrive nella postfazione Erbani, «ha dedicato all'urbanistica, all'uso dissennato del suolo, alla salvaguardia del patrimonio culturale e del paesaggio le energie migliori e le riflessioni più innovative».


Versione preziosa per il libro di un esperto. Una piccola casa editrice diretta da una donna, Marina Zanazzo, con sede a Santa Margherita, nel cuore di Venezia. La Corte del Fontego ha ristampato in veste elegante e prezzo contenuto (12 euro) il testo apparso per la prima volta nella collana di LegAmbiente nel 2012. L'autore, Francesco Erbani, è il responsabile delle pagine culturali di Repubblica, fondatore del Città territorio festival di Ferrara, esperto di temi legati all'ambiente, al territorio e all'Urbanistica. Ha curato i libri intervista con l'urbanista Leonardo Benevolo, e il linguista Tullio de Mauro e il saggio di Cederna «I vandali in casa». (a.v.)

Parma Due: un modo travestito per urbanizzare un altro pezzo di territorio rurale: con la scusa della sostenibilità e del chilometro zero, l'ennesimo quartiere suburbano a bassa densità e filosofia ruralista? Corriere della Sera, 12 gennaio 2014, postilla (f.b.)

(Parma) — C’è un grande prato verde dove nascono speranze cantava Gianni Morandi. Il prato verde di Giovanni Leoni, 52 anni, imprenditore agricolo parmense con una rivoluzionaria idea in testa e un progetto che a mesi diventerà realtà, sono i 28 ettari sui quali il prossimo settembre verranno posate le 60 abitazioni (per altrettante famiglie, totale 240 persone) del suo Agrivillaggio, un quartiere ecologico totalmente autosufficiente dal punto di vista alimentare ed energetico, fornito di negozi e servizi, dove nulla viene sprecato, tutto viene prodotto secondo i cicli naturali dell’agricoltura e i cui abitanti si muovono a piedi, in bici o con auto elettriche.

Un eco-villaggio, «unico al mondo» afferma Leoni, capace di provvedere ai bisogni dei residenti nel rispetto dell’ambiente. Dove la filosofia del «Km 0» trova piena attuazione (Leoni parla di «iperzero»): «Tra il consumatore residente nel villaggio e l’agricoltore non ci sono intermediari né sprechi di risorse per il trasporto: tutto viene prodotto all’interno dell’Agrivillaggio, a cominciare dai prodotti di stagione». Il cuore pulsante, «il polo energetico» come lo chiama Leoni, è la stalla già perfettamente funzionante e in linea con le migliori tecnologie, che sforna cibo, consente il riciclo dei rifiuti e produce energia (biogas, quindi metano).

Il progetto di Leoni, a un tiro di schioppo da Parma, a Vicofertile, dove la campagna lambisce la prima periferia, non è un ritorno al Medioevo, «né una suggestione da eremita». È un modo diverso di pensare il futuro, l’alimentazione, l’abitabilità, i rapporti sociali. Un modello alternativo alle grandi megalopoli-dormitorio che parte dalla constatazione «dell’enorme debito ecologico che il genere umano ha ormai contratto con la Terra». Un modello che punta, nel rispetto dei cicli, a creare un mondo con più beni e servizi e un minor impatto ambientale:«A differenza di adesso, l’agricoltura del futuro dovrà partire dal fabbisogno ideale di ciascuno, guardando in faccia il consumatore». È quella che Leoni chiama «agricoltura on demand»: «Nel villaggio gli orti e i frutteti produrranno cibo per un migliaio di persone, anche se i residenti sono 200: l’eccedenza sarà venduta all’esterno».

Se negli ultimi dieci anni Leoni ha potuto dedicarsi anima e corpo al progetto dell’Agrivillaggio — che decollerà ufficialmente all’inizio del 2015 per sfruttare la scia dell’Expo di Milano e che si è avvalso della consulenza di architetti, biologi e ingegneri — lo si deve alla solidità della sua azienda agricola, leader nel settore, che produce ogni anno 1500 forme di Parmigiano-Reggiano, 22 mila quintali di pomodori e 10 mila di cipolle. L’azienda sarà il cuore pulsante dell’Agrivillaggio. È in essa che Leoni ha riversato le conoscenze accumulate nelle più diverse aree del mondo (dall’Argentina all’Australia) nel campo della sperimentazione agricola e ora confluite in una sorta di «fattoria didattica» per gli studenti delle scuole medie e superiori. Anche sul piano urbanistico il progetto presenta lati innovativi. Ispirato dalle teorie dell’architetto Frank Lloyd Wright («La città vivente», 1958) e dalle transition towns fondate in Irlanda e in Inghilterra dall’ambientalista Rob Hopkins, l’Agrivillaggio prevede nuove concezioni abitative: «Case a un piano con un tetto che fa da terrazza sugli orti. Ogni modulo poggia su una piattaforma di cemento e ha una superficie di 18 metri quadrati. Saranno i residenti a scegliere la metratura: basterà aggiungere o togliere i moduli».

Il costo della casa, fornita di fotovoltaico e solare termico, è volutamente basso per consentire a tutti di usufruirne: «Non si acquista la terra, che resta di proprietà dell’azienda, ma il diritto di superficie. Chi vuole può acquistare una quota che diventa una sorta di pensione integrativa». Autogestita anche l’urbanizzazione. Non ci saranno fogne: «Tramite la fitodepurazione i rifiuti vengono trasformati in cibo per piante, biomassa e quindi energia». Di notte funzionerà un’illuminazione al passaggio. E poi c’è l’aspetto sociale: «La spesa a “Km 0”, la possibilità del telelavoro e i servizi del villaggio consentiranno ai residenti di dedicare più tempo ai figli e agli anziani».

La grande incognita tra Leoni e il suo sogno si chiama, guarda caso, burocrazia: «Stiamo aspettando il varo del Piano strutturale comunale, ci hanno assicurato una corsia preferenziale». E ci mancherebbe. Parma è governata da un monocolore 5 Stelle. E uno degli ispiratori dell’Agrivillaggio, nonché presidente della scuola, è Maurizio Pallante, teorico della «decrescita felice», totem dei grillini.

postillaSe osserviamo con un minimo di prospettiva le vicende delle cosiddette utopie urbane (o meglio antiurbane) a cavallo tra XIX e XX secolo, non possiamo fare a meno di notare come tutte, nessuna esclusa, abbiano abbastanza ovviamente fallito l'obiettivo dichiarato, ovvero costituire un campo di prova per la società futura, mentre in alcuni casi si sono potute sperimentare puntualmente alcune innovazioni, di solito ritenute marginali almeno ufficialmente dagli utopisti e dai loro seguaci. Non fa eccezione al modello la città giardino, che addirittura ha prodotto sul versante pratico il suo esatto contrario, ovvero il suburbio a bassa densità, socialmente segregante e ambientalmente micidiale per consumi di territorio e sprechi energetici indotti dal modello di vita. Nel caso della utopia de noantri descritto dall'articolo, a definirne le premesse possono bastare i riferimenti dichiarati: l'antiurbanesimo individualista di Frank Lloyd Wright, padre legittimo di tutte le Wisteria Lane da casalinghe disperate dei nostri tempi; la fuga all'indietro (pur di fronte al temuto crollo climatico ed energetico della civiltà occidentale) del movimento Transition Town, sostanzialmente localista e familista. Anche tra gli hippies di Woodstock, insomma, si vedeva di molto meglio, da tutti i punti di vista (f.b.)

II contenimento del consumo di suolo non comporta solo l'inedificabilità dei suoli attualmente ancora liberi e la densificazione indiscriminata delle aree già urbanizzate. Richiede anche un'utilizzazione ragionevole del già costruito , 11 gennaio 2014, con postilla (f.b.)

È vuota da più di quindici anni: un monumento alle città abbandonate, la Torre Galfa, tanto che un anno e mezzo fa il collettivo Macao l’aveva scelta come prima sede per una breve ma intensa occupazione abusiva. Ora il grattacielo di via Galvani passa dalle mani del gruppo Fondiaria-Sai a quelle del gruppo Unipol (che ha acquistato il gruppo di Ligresti nel 2012), che sta iniziando a studiare un progetto di riqualificazione del Comune. Obiettivo: trovare investitori anche internazionali per poter partire con i lavori di recupero nel corso di quest’anno.

È soddisfatta l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris per un accordo che va nella direzione delle politiche di recupero del costruito fissate anche dal nuovo regolamento edilizio: «Abbiamo avviato un processo condiviso con Unipol per definire il progetto migliore per la riqualificazione della Torre Galfa, che potrà tornare ad essere un elemento di qualità per la città, mi auguro che possa essere d’esempio per gli altri proprietari di edifici abbandonati». Il progetto di riqualificazione e valorizzazione, che riguarderà non solo la torre, ma anche lo spazio urbano circostante, è nella fase iniziale (Unipol ha preso possesso del grattacielo da poco). Non è un caso, forse, che la notizia dell’accordo sia arrivata ieri: perché per oggi alle 14 Macao ha in programma un “laboratorio itinerante” che parte dalla Torre Galfa e arriva nell’edificio attualmente occupato, l’ex macello di viale Molise.

postilla

L'occupazione da parte di un gruppo di artisti del grattacielo griffato anni '60 in pieno centro a Milano, lasciato strumentalmente vuoto dal gruppo Ligresti a marcire, aveva fatto sensazione in tutto il paese: si denunciava esplicitamente tutta l'ideologia della cosiddetta eccellenza e sviluppo del territorio in salsa ciellino-formigoniana. Mentre una massa enorme di metri cubi disponibili a uffici veniva lasciata a far muffa, a duecento metri da un nodo di trasporti come la Stazione Centrale, un isolato più in là si scaraventava inopinatamente sul quartiere una specie di piramide di Cheope fortemente voluta dall'onnipotente governatore, e ancora poco distante crescevano gli altri parti delle fantasie di archistar e immobiliaristi d'assalto. Oggi, la sola idea di far qualcosa di minimamente ragionevole con quel grattacielo, contemporaneo al più noto Pirelli e allineato sulla medesima via Galvani angolo Fara (da cui il nome GalFa), può anche indicare una inversione di rotta. Certo non basta, ma come si dice aiuta. Su questo sito a vedi anche Torre GalFa e la responsabilità sociale dell'immobiliarista, di Diego Corrado e Gaetano Nicosia, ripreso da Arcipelago Milano (f.b.)

«Il disegno di legge Che Contiene il consumo di Suolo e Stato approvato. Ma Contiene Tutte le trappole Tecniche per rallentarne l'Efficacia MENTRE continua la corsa del cemento ». Il Manifesto, 10 gennaio 2014

E Di QUESTI giorni il sì al disegno di legge sul "Contenimento del consumo del Suolo e riuso del Suolo edificato", Proposto dal Ministero delle Politiche agricole alimentari e Forestali. Epoca La Proposta Già approdata in Consiglio dei Ministri a giugno (2013), ora has been approvata Dalla Conferenza unificata, COMPOSTA da soggetti dell'Apparato statale e da Quelli appartenenti alle autonomie locali, e Dallo Stesso Consiglio.

L'Atto Poteva costituire un passo Importanti, Perché Finalmente il Governo non solista Discute ma cerca di trattare operativamente il Problema del consumo di suolo.Tuttavia la stesura finale del Provvedimento risulta largamente Insufficiente, in Quanto conserva TUTTI GLI Elementi contraddittori Già Presenti Nella bozza originaria e Oggetto di svariate Critiche da Più parti Perchè Tali da indebolire, fino a Bon Voyage vanificarne le Migliori Opzioni, l'Efficacia del Provvedimento.

Nel Nostro paese l'ingombro dell'urbanizzato giunge una coprire il 20% circa del Suolo nazionale. Bernardino Romano ED urbanisti Altri, nell'ambito della Ricerca "riutilizzare l'Italia", Riporta i Dati di Ecoplanum sul censimento delle Superfici cementificate - AGGIORNATO AL 2010 - tratto dall'incrocio di tra Restituzioni satellitari, ortofotocarte e letture delle carte Tecniche di Tutte Le Regioni. I Dati Dicono Che il RISULTATO Parziale, Relativo una Meno del 50% del territorio nazionale, fornisce un Già date Confermato di urbanizzazione di 35mila Chilometri Quadrati circa su un totale di 301mila, more del 10%! Allorché l'Indagine Sarà completata il date supererà Certamente la Soglia citata.

Accanto a quest'ordine di rilevamenti emergono clamorosamente i Dati Informazioni relative alle stanze Vuote ed ai Volumi Commerciali ed industriali inutilizzati: per le prime siamo un circa venti Milioni, MENTRE I Secondi Ormai superano il miliardo di metri cubi (TRA Qualche settimana Saranno i Dati ufficiali dell'ultimo censimento). Di fronte un racconto Situazione, si invocava Una legge sul Blocco del consumo di Suolo Che Fosse veramente racconto: escludendo Qualsiasi nuova edificazione, un Meno di Casi particolarissimi; fornendo ai Piani urbanistici Chiare Strumentazioni per ridurre o azzerare i DIRITTI edificatori Già acquisiti, specie in Contesti Già segnati da forte sovrabbondanza di offerta; cancellando la possibilita Che le leggi "di emergenza" berlusconiane (la Legge Obiettivo per le Infrastrutture, Quelle speciali per energia, Rifiuti, depurazione, ecc.) potessero aggirare la STESSA Pianificazione, Anche paesaggistica, determinando con forza Il Recupero - Anziché Le Nuove costruzioni - Nella Direzione delle Nuove Politiche urbane e territoriali.

Il Provvedimento invece ha tralasciato di dettagliare QUESTI avvertimento, mantenendo TUTTI GLI Elementi di confusione e Contraddizione denunciati. Nel paese un venire l'Italia colomba, venire sosteneva un giugno di quest'anno la STESSA ministra Nunzia De Girolamo «Ogni Giorno impermeabilizziamo Più o Meno l'Equivalente di 150 campi da calcio» e Dove c'è Stato un «Aumento del 166 % del territorio edificato in Italia NEGLI Ultimi 50 anni ».

Nella Normativa infatti emergono Chiaramente i Punti controversi. In fondo al comma 1 dell'art.3 del Ddl sul contenimento del consumo di Suolo: «e determinata l'Estensione Massima di superficie agricola consumabile sul territorio nazionale, nell'obiettivo di Una progressiva RIDUZIONE del consumo di Suolo di superficie agricola». This Principio rientra nell'ottica europea del «traguardo di un Incremento dell'occupazione netta di terreno pari a da Raggiungere Entro il 2050 pari a zero». Ma Se da un lato l'Europa SEMBRA essersi accorta del Problema, dall'altro lato SEMBRA non Aver Ancora capito l'Entità dell'emergenza. «Dal rapporto Panoramica su di buone pratiche per limitare l'impermeabilizzazione del suolo e mitigatin suoi effetti, Presentato per la prima volta in Italia Dalla Commissione Europea Durante il convegno ISPRA» del 5 febbraio 2013, «circa il 2,3% del territorio continentale E ricoperto da cemento . Dai 1.000 kmq stimati nel 2011 Dalla Commissione Europea - Estensione Che Supera la superficie della città di Berlino - circa 275 al giorno (1990 e il 2000), Si e Passati: ai 920 kmq l'anno (252 ettari al giorno) in soli 6 anni (2000-2006) ».

Chi si profes di territorio e di urbanistica in Italia sa, e non C'è Dubbio alcuno, Che un orizzonte del Genere, cioè Quello del 2050, potrebbe rivelarsi inefficace per avviare Una vera alternativa allo Spreco del territorio agricolo e non. Tempi troppo lunghi per un'attuazione Che dovrebbe avvenire, se non immediatamente, al massimo in Uno spazio di Qualche anno.

Sostiene l'Ispra Che «il consumo di Suolo in Italia e cresciuto at a supporto di 8 mq al Secondo e la serie storica Dimostra che sì Tratta di un Processo Che dal 1956 non CONOSCE battute d'Arresto. Si e Passati dal 2,8% del 1956 al 6,9% del 2010, con un Incremento di 4 Punti percentuali. In Altre parole, have been Consumati, nei media, più di 7 mq al Secondo per Oltre 50 anni »(Comunicato Stampa Ispra - L'Italia Perde terreno Consumati 8 mq al Secondo di Suolo).

E Ancora «Il Fenomeno e Stato Più rapido NEGLI anni '90, in cui si Periodo Sono sfiorati i 10 mq al secondo, ma il ritmo degli Ultimi 5 anni si Conferma sempre accelerato, con Una Velocità superiore Agli 8 mq al Secondo» (Comunicato Stampa Ispra - L'Italia Perde terreno Consumati 8 mq al Secondo di Suolo).

Ci si porta Dietro tutto il peso degli Errori Passati venire Si Può Facilmente Capire all'art. 9 del Ddl: «(...) A decorrere Dalla dati di entrata in Vigore della presente Nome legge (...), e comunque non Oltre il Termine di tre anni, non E Consentito il consumo di superficie agricola TRANNE Che per la Realizzazione di Interventi Già autorizzati e Previsti Dagli Strumenti urbanistici vigenti, nonche per i Lavori e le opere Già inseriti NEGLI Strumenti di Programmazione delle Stazioni appaltanti e nel Programma di cui all'articolo 1 della legge 21 dicembre 2001, n. 443 ». E la legge n.443 altro Non E Che la cosiddetta "Legge Obiettivo". Come a dire, sollecitare change Le nostre azioni, ma con calma Non C'è poi Così fretta. Un pericoloso controsenso.

Scriveva Salvatore Settis: «Ormai rassegnati alle devastazioni Che ci feriscono Ogni Giorno, rifiutiamo di VEDERE Quel che dovremmo: che l'anomalia sta diventando La Regola, il Che l'eccezione si va trasformando in Modello Unico di Sviluppo, il Che l'espansione sta urbano mangiandosi città e campagna, Che intere Generazioni di italiani (milioni di persone) non Hanno Più Nella Loro geografia interiore Nessun paesaggio armonioso da ricordare, nulla su cui fantasticare. La città Orizzontale, diffusa e dispersa, cresce su STESSA, si sparge Intorno Come una colata lavica. Inghiotte l'antica campagna, ma fra casa e casa Lascia Una moltitudine di Segmenti interstiziali. Residui e frammenti Che Non Sono buoni né per l'agricoltura né (Ancora) per l'abitazione, Una zona grigia Che ha una corrispondente un Uno spazio dell'indecisione, ma also dell'insicurezza »(S. Settis, Paesaggio, Costituzione e Cemento, 2010).
«L’utilizzo di pro­ce­dure nego­ziate senza bando ha avuto una forte acce­le­ra­zione, tanto che que­sto tipo di pro­ce­dura è diven­tata quella più fre­quen­te­mente uti­liz­zata. E que­sto anche in rela­zione alle modi­fi­che appor­tate dal decreto legge 70/2011». Que­sta frase è con­te­nuta nella rela­zione dell’Autorità sui con­tratti pub­blici con­se­gnata al Par­la­mento nel 2012 e met­teva il dito nel feno­meno distor­sivo pro­dotto dalla legi­sla­zione vigente.

Appello all'emergenza e ricorso alla discrezionalità: ecco gli strumenti essenziali per consentire corruzione e criminalità. Il caso esemplare de l'Aquila. Il manifesto, 9 gennaio 2013

Nel pieno rispetto della legge i comuni pos­sono infatti affi­dare a trat­ta­tiva pri­vata appalti pub­blici fino ad un importo di 500 mila euro. Afferma ancora l’Autorità che quasi la metà (48,1%) dei con­tratti di importo supe­riore ai 150 mila euro è stata affi­data senza la pub­bli­ca­zione del bando per un valore com­ples­sivo di 3,6 miliardi di euro. Nes­suno ha dun­que il diritto di mera­vi­gliarsi di quanto è avve­nuto a L’Aquila: era tutto scritto e biso­gnava sol­tanto rico­struire le regole.

Nell’area del ter­re­moto abruz­zese, ci sono poi due ulte­riori argo­menti che non lasciano scampo a chi tende a deru­bri­care l’accaduto come un «nor­male» caso di diso­ne­stà. Il primo riguarda la macro­sco­pica ano­ma­lia rap­pre­sen­tata dalle pro­ce­dure emer­gen­ziali che, come noto, sono basate sulla filo­so­fia delle deroga alle regole ordi­na­rie. Con la scusa del ter­re­moto, nel cra­tere abruz­zese si sono potuti affi­dare appalti pub­blici attra­verso una discre­zio­na­lità ancora mag­giore di quella che per­met­tono le pur gene­rose leggi ordi­na­rie. Sem­pre i dati for­niti dall’Autorità sugli appalti pub­blici ci dicono che nel 2011 le ordi­nanze di pro­te­zione civile in tutta Ita­lia sono state 72 per un importo di 1,98 miliardi di spesa: la cul­tura emer­gen­ziale come schermo della discre­zione.

Ma è il secondo argo­mento a non lasciare scampo alla mera­vi­glia degli ammi­ni­stra­tori. Lo scorso anno, il depu­tato euro­peo Søren Søn­der­gaard, mem­bro della com­mis­sione di con­trollo del bilan­cio di Bru­xel­les, ha reso pub­blica la sua rela­zione di inda­gine sulle opere ese­guite nel cra­tere del ter­re­moto: appalti sospetti, norme vio­late, fondi comu­ni­tari spesi male. E poi, mate­riali sca­denti, Case e Map (i com­plessi anti­si­mici soste­ni­bili ed eco­com­pa­ti­bili e i moduli abi­ta­tivi prov­vi­sori di Ber­lu­sconi) troppo care. Un capi­tolo era anche dedi­cato alle infil­tra­zioni della cri­mi­na­lità orga­niz­zata nei lavori della rico­stru­zione, met­tendo in par­ti­co­lare in luce il ruolo abnorme dei sub appal­ta­tori. Un feno­meno impo­nente, come denun­ciava anche il set­ti­ma­nale Edi­li­zia e ter­ri­to­rio del Sole 24 Ore del 26 otto­bre 2009: «Su 1072 imprese, 910 lavo­rano in subap­palto». Il sin­daco Cia­lente non aveva gra­dito le denun­cie del com­mis­sa­rio euro­peo ed aveva repli­cato affer­mando: «Vor­rei tanto fare un con­fronto pub­blico con que­sto signore, vedere che dati ha. La sua rela­zione ha fatto molti danni, essendo con­fusa, piena di impre­ci­sioni e anche offen­siva. Non è vero che ci sono infiltrazioni».

Di fronte ad un sistema poli­tico inef­fi­ciente sono state come al solito la magi­stra­tura e le forze dell’ordine a svol­gere un ruolo pre­zioso. Lo scan­dalo dell’Aquila potrà ser­vire se si avrà il corag­gio di affron­tare tre nodi fon­da­men­tali. Le regole di appalto, come abbiamo visto, non esi­stono più e i soldi pub­blici ven­gono spesi con asso­luta discre­zione dal mondo della poli­tica: è ora di rico­struirle. Il ruolo di guida delle pub­bli­che ammi­ni­stra­zioni nelle città è stato in que­sti anni demo­niz­zato a par­tire dalla fami­ge­rata pro­po­sta di legge Lupi (attuale mini­stro) che arri­vava ad equi­pa­rare pub­blico e pri­vato. Di fronte al disa­stro pro­vo­cato dalla can­cel­la­zione dell’urbanistica è ora di inver­tire la ten­denza. L’Aquila, del resto, ne è l’esempio più tra­gico. Tra quat­tro mesi ricorre il quinto anni­ver­sa­rio dal sisma e il cen­tro sto­rico è un deserto umano pro­prio per­ché si è rinun­ciato ad una rigo­rosa pro­gram­ma­zione pub­blica. E infine occorre capo­vol­gere il bilan­cio dello Stato. Nella legge di sta­bi­lità non solo sono stati tolti i finan­zia­menti per la rico­stru­zione de L’Aquila e man­te­nuti quelli sulle grandi opere ma si con­ti­nua nella demo­li­zione delle regole. Secondo la cul­tura pre­va­lente nella com­pa­gine gover­na­tiva, i mali dell’Italia sono da ricer­carsi nell’eccesso di regole – pro­blema che pure esi­ste — e non nel gigan­te­sco sistema della discre­zio­na­lità che carat­te­rizza la pub­blica ammi­ni­stra­zione. E dove c’è discre­zio­na­lità non ci si può mera­vi­gliare che trion­fino cor­ru­zione e malaffare

Un libro di Roberto Cuda, Strade Senza Uscita. Banchieri costruttori politici (editore Castelvecchi) per chi vuole capire, a un tempo, quanti sporchi interessi si nascondano dietro le devastanti politiche autostradali italiane e quanto sia grave, nonostante il gigantesco dispendio di risorse pubbliche, il deficit della mobilità.

Questo è un libro utile, direi necessario, che aggiorna gli ultimi dieci anni di storia delle concessionarie autostradali italiane, dove nonostante la grave crisi economica, calo del traffico, mancanza di risorse pubbliche e private, debolezza del sistema bancario, crisi ambientale e consumo di suolo, ci si ostina a voler costruire ancora 2000 chilometri di nuove autostrade dal costo stimato di circa 50 miliardi di euro.

Risorse che nessuno ha, semplicemente indebitando e pregiudicando il futuro, come dimostra in modo inesorabile questo testo di Roberto Cuda, che svela gli intrecci tra concessioni autostradali, consigli di amministrazione, imprese di costruzioni, banche e politica: una lunga storia di affari, inchieste e politiche assenti o sbagliate nel campo dei trasporti.

Una storia partita nel dopoguerra con l’avventura autostradale degli anni '60, poi fermata a causa della crisi petrolifera e dei conti che non tornavano, come certificò la Commissione Adorisio nel 1975, e come scrisse lucidamente l'ing. Guglielmo Zambrini su questioni di mobilità, trasporti e territorio intorno alla Politica autostradale e Programmazione.

Poi il tentativo di rilancio negli anni ‘80 con il Piano Decennale di grande viabilità, di nuovo fermato nel 1992 dalla magistratura con le inchieste “mani pulite” su “tangentanas”, che provocò un brusco arresto, non solo a parole ma molto concreto, di un intero sistema affaristico e politico legato alla costruzione di strade ed autostrade.

Dalla fine degli anni ’90, riparte il rilancio dei progetti autostradali grazie alla proroga generalizzata della durata delle concessioni invocata per realizzare nuovi investimenti grazie alle tariffe da incassare - in genere ventennale ed autorizzata proprio dai fautori del libero mercato. Poi la privatizzazione delle concessionarie pubbliche, a partire da Autostrade per l’Italia, autentica gallina dalle uova d’oro dell’I.R.I., ceduta ai privati proprio quando - realizzati a carico delle casse pubbliche i maggiori investimenti - era giunta l’ora di incassare dai pedaggi e ripagare il pesante debito pubblico generato. Basta scorrere il libro del prof. Giorgio Ragazzi, I Signori delle Autostrade, per questa storia poco edificante per l'interesse pubblico.

Infine, come documenta benissimo questo libro, si ripropone la solita vecchia lista di autostrade da realizzare con la nuova Legge Obiettivo voluta dal Governo Berlusconi nel 2001 per semplificare la realizzazione di grandi opere “strategiche” ma aggiornata con nuove parole d’ordine: il Project Financing, l’autofinanziamento, il mercato che paga le grandi opere. Proprio su questa ultima fase si concentra la rigorosa ricerca di Roberto Cuda, smascherando con dati incontestabili che non si tratta di capitale di rischio messo da soggetti privati, che non è vero che le nuove autostrade si ripaghino da sole con i pedaggi, e certificando la prudenza delle banche e dei fondi d’investimento a sostenere le nuove opere.

Grandi proclami e pompose inaugurazioni ma che dietro hanno il vuoto dei piani economici e finanziari, in realtà sempre protetti da garanzie pubbliche che assumono via via nuove forme ma senza in realtà cambiare la sostanza: l’allungamento della durata della concessione, il contributo a fondo perduto, il valore di subentro alla scadenza della concessione, il commissario straordinario, la vendita (o svendita) di azioni delle concessionarie pubbliche per far quadrare i conti, il “Prestito Ponte” delle banche in cambio di garanzie pubbliche, l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti, il Proiect Bond, ed infine il credito d’imposta con la defiscalizzazione per aiutare i soggetti privati a realizzare le nuove autostrade, di recente approvazione.

Ed è proprio su questo crescendo di finanza “privata” in realtà garantita dal sistema pubblico che si concentrano diversi capitoli fondamentali di questo testo, arrivando a dimostrare che molte delle principali opere inaugurate di recente - come la Tangenziale Est Esterna di Milano o la Pedemontana Veneta - hanno finanziamenti e garanzie solo per piccoli lotti, creando dunque le premesse per opere incompiute, nuovi debiti per i futuri bilanci dello stato, e soprattutto per alimentare una pressione indebita verso la politica e le istituzioni, per trovare le risorse per il completamento delle opere già in corso.

E’ una vecchia tattica sempre utilizzata in modo consapevole dai fautori delle autostrade che gli ambientalisti ben conoscono: quando si propone un nuovo progetto l’opera si ripaga da sola in autofinanziamento e quindi come possono lo Stato, i Comuni ed i cittadini non accettare un simile regalo? Poi quando si passa alle approvazioni ed i costi crescono allora si cercano garanzie e soldi pubblici per far partire almeno un pezzo di nuova autostrada. Ben sapendo che poi una volta avviato il cantiere si metterà in moto un intero sistema territoriale per evitare l’incompiuta e lo scempio, che chiederà a gran voce - a partire da Comuni e Sindacati - il completamento dell’opera.

“Strade senza uscita” descrive in modo preciso e documentato chi sono i protagonisti ed i personaggi di questo “sistema” viziato, a partire dal mondo delle imprese di costruzioni, delle banche e della finanza, in realtà “porte girevoli tra politica e concessionarie” autostradali, spesso con forte contiguità se non con l'impegno diretto, nei Partiti ed in Parlamento, che decide (o dovrebbe decidere) le regole del settore. Cosi come parla di “sottobosco dell'illegalità”, raccontando di numerose inchieste della magistratura, che hanno coinvolto molti protagonisti del sistema, sia sul fronte delle imprese, delle banche che della politica.

Ma il libro che state per leggere non è solo di denuncia sul “sistema autostrade” ma contiene anche una significativa analisi sulla politica dei trasporti e sul deficit infrastrutturale che pesa sul nostro paese, dove tra studi e confronti con altri paesi europei, si capisce che il vero deficit in Italia è nelle città e nelle aree urbane, dove mancano davvero chilometri e chilometri di reti metropolitane, tranviarie, ferrovie locali e servizi per i pendolari, per essere allineati alle più competitive ed efficaci esperienze delle città europee. Qui dovrebbero concentrarsi le scarse risorse pubbliche e tutte le garanzie e protezioni pensate per il sistema autostradale italiano, per migliorare la mobilità urbana dove si spostano due terzi della popolazione, per aprire cantieri utili, per dare occupazione e sostegno ad un green new deal utile al Belpaese.

Racconta anche dell'impegno di ambientalisti, associazioni e comitati sparsi sul territorio per contrastare le autostrade sbagliate, capaci di leggere gli impatti ambientali, i piani finanziari gonfiati o inesistenti, smascherare proposte superate e dati di traffico, ed anche proporre alternative, magari con l'aiuto di esperti, credibili e praticabili al modello “tutto strada”.

Che fanno propria la famosa frase di Goudevert, ex presidente della Ford Germania: “Chi semina strade e parcheggi, raccoglie traffico e code”, riportata anche nel testo, che insieme a dati aggiornati su ambiente, salute, consumo di suolo, tutela del paesaggio e del territorio agricolo, futuro dell'auto e fine del petrolio, spiegano l'impatto ambientale e l'assenza di una strategia “capace di futuro” che sta sempre dietro queste scelte che vengono dal passato e vengono riproposte senza troppe domande per il futuro “all'infinito”.

Alla fine tra le tante sensazioni che si ricavano dalla lettura di “strade senza uscita” ne resta una amara verso la maggioranza trasversale della politica pubblica: che anche quando non è apertamente complice del sistema insieme a banche e costruttori, risulta insensibile e debole, senza una politica dei trasporti che orienti in modo coerente le scelte verso la sostenibilità economica ed ambientale. Senza la capacità di contrastare in mondo lungimirante la lista delle grandi opere, più preoccupata di una “valutazione di impatto elettorale” di breve periodo con l'annuncio dell'opera, piuttosto che ad offrire soluzioni durature ai problemi in tempi di crisi economica ed occupazionale. Incapace di definire regole e vigilanza per fare “l'interesse pubblico” nel sistema dei trasporti e delle infrastrutture, diventando quindi ostaggio di un sistema potente come quello delle concessionarie autostradali, capace di orientare la comunicazione, le opinioni, se non direttamente il sistema di finanziamento ed elezione del sistema politico.

Un libro quindi da leggere e conservare, questo “Strade senza uscita” scritto da Roberto Cuda, da aggiungere come un nuovo ed attuale capitolo ai testi di impegno civile scritti per far prevalere l'interesse pubblico e collettivo e contrastare “l'abbraccio mortale tra banche, costruttori e politici” sulle nuove e vecchie autostrade italiane.

La Nuova Venezia, 5 gennaio 2014

«Il nuovo Piano casa approvato dalla Regione non sta in piedi, siamo pronti ad avviare tutte le iniziative legali per salvaguardare le nostre prerogative in materia urbanistica e difendere l’identità dei centri storici. Il 9 gennaio a Venezia i sindaci delle principali città venete concorderanno un documento che getta le basi per il ricorso contro la Regione».

Ivo Rossi, sindaco reggente di Padova, si è sentito a lungo con Giorgio Orsoni di Venezia, Giovanni Manildo di Treviso, Jacopo Massaro di Belluno e Achille Variati di Vicenza, per fissare l’agenda del meeting dei sindaci metropolitani in rotta di collisione con Palazzo Balbi su una materia delicatissima: il governo del territorio, che «rischia di subire l’oltraggio dei nuovi barbari».

Rossi dichiara il pieno appoggio ad Andrea Gios, il sindaco di Asiago che con una delibera del consiglio comunale ha bocciato la legge regionale 32 che spalanca le porte alla riqualificazione urbanistica. Vale a dire: demolire, ricostruire nuovi volumi con ampliamenti del 20 per cento. C’è chi teme una colata di cemento e chi invece spera che il settore dell’edilizia possa ripartire dopo la lunga crisi, grazie ad una procedura che non prevede né gli oneri di urbanizzazione né la concessione edilizia. Una sorta di deregulation che i geometri stanno cavalcando con offerte di consulenze on line, senza però abbassare le tariffe.

Asiago ha rotto il ghiaccio, seguita da Cortina che teme lo snaturamento della propria identità urbanistica con la riconversione selvaggia degli alberghi trasformati in residence. Marino Zorzato, il «padre» del Piano casa 3, non accetta di finire sul banco degli imputati e rilancia la palla ai sindaci: se proprio volete tutelare il territorio, cancellate dai Prg le zone residenziali non edificate su cui fate pagare l’Imu, dice il vicegovernatore del Veneto. Che aggiunge: i danni al territorio nascono dalla fame insaziabile dei comuni che hanno concesso lottizzazioni selvagge negli anni d’oro per incassare gli oneri di urbanizzazione: la festa è finita, anche se l’Imu sui terreni edificabili pesa come un macigno sulle tasche dei proprietari. Zorzato non desidera vincere il premio Attila che Legambiente assegna al «re dei cementificatori» e annuncia che tra martedì il consiglio regionale avvierà l’esame della legge sul consumo zero del territorio. Depositata dal Pd, sottolinea come tra il 1970 e il 2012 la superficie agricola del Veneto è stata ridotta del 9,85% con 180 mila ettari edificati. In quarant’anni il Veneto si è «mangiato» l’intera provincia di Rovigo.

«Il 9 gennaio a Venezia, i sindaci valuteranno i presupposti giuridici per impugnare il Piano casa 3: si tratta di capire se sia più utile ricorrere al Tar per bloccare l’effetto immediato dalla legge 32 o se invece non si debba addirittura chiedere l’intervento della Corte costituzionale. Il tema è molto delicato, perché cancella tutti gli strumenti di pianificazione e di governo del territorio», spiega Ivo Rossi, «azzera trent’anni di cultura urbanistica e spalanca le porte alle deregulation più selvaggia: non si può diventare dei moderni barbari con la scusa di uscire dalla crisi. Ci vuole un grande senso d’equilibrio, capacità di progettare il futuro e rigenerare i quartieri degradati», conclude Rossi. Il summit di giovedì a Venezia affronterà anche la stangata dei pedaggi delle autostrade e gli effetti della legge di stabilità sui bilanci dei comuni. A rappesentare il governo sarà il ministro Flavio Zanonato.

Gruppo d'intervento giuridico onlus, 5 gennaio 2014

L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridicoonlus ha chiesto con una specifica istanza (30 dicembre 2013) al Governo nazionale di proporre ricorso davanti alla Corte costituzionale (art. 127 cost.) avverso la legge regionale Veneto 29 novembre 2013, n. 32 contenente la terza edizione del c.d. piano casa per la lesione delle competenze statali in materia di ambiente e urbanistica (artt. 117 e 118 cost.) e, indirettamente, per lo svuotamento delle competenze comunali in materia urbanistica. Non solo.

In proposito mette a disposizione di chiunque lo desideri un fac simile di istanza da completare con le proprie generalità e qualifica e da rivolgere direttamente al Governo perché impugni davanti alla Corte costituzionale questo vero e proprio regalo alla speculazione edilizia più becera. Chiunque fosse interessato può richiederla all’indirizzo di posta elettronica grigsardegna5@gmail.com. Copia dell’istanza è già stata fornita al Comune di Asiago, insieme a Cortina d’Ampezzo uno dei primi Comuni veneti a battersi apertamente contro il provvedimento legislativo, con una deliberazione consiliare (23 dicembre 2013) di disapplicazione del c.d. terzo piano casa.

Ma è tutt’altro che un piano casa. Bisogna ricordare che il vero e unico “piano casa” è stato il piano straordinario di intervento dello Stato per realizzare edilizia residenziale pubblica su tutto il territorio italiano nell'immediato secondo dopoguerra, con i fondi gestiti da un'apposita organizzazione presso l'Istituto Nazionale delle Assicurazioni, la Gestione INA-Casa, in base alla legge n. 43/1949. Al termine (1963) saranno realizzati ben 355 mila appartamenti nei tanti quartieri “razionali” predisposti grazie anche al contributo di alcuni fra i più importanti architetti e urbanisti del tempo (da Carlo Aymonino a Ettore Sottsass, da Michele Valori a Mario Ridolfi).

In realtà – così come in Sardegna e in altre regioni italiane – si tratta di un provvedimento legislativo adottato per favorire la più becera speculazione edilizia. La terza proroga[1] del finto piano casa e vero piano scempi sarà applicabile fino al 10 maggio 2017 e sarà utilizzabile addirittura per gli edifici realizzati fino al 31 ottobre 2013 (art. 3, comma 2°), per il 20% della volumetria o della superficie esistente (aumentabile di un ulteriore 5% per edifici residenziali o del 10% per gli altri quando si faccia l’adeguamento per la sicurezza sismica), fino a mc. 150 per unità immobiliare, anche su corpi separati entro una distanza di 200 mt. dall’edificio principale.

Nel caso di demolizioni e ricostruzioni con miglioramenti energetici o con edilizia sostenibile gli aumenti volumetrici possono addirittura essere rispettivamente del 70% e dell’80% della volumetria esistente (art. 4, comma 2°), anche su aree di sedime diverse da quelle dell’edificio originario (artt. 4, comma 3° e 11).

Anche per l’obbligatoria rimozione dell’amianto è concesso un aumento volumetrico del 10% (art. 6), così come è incentivata la demolizione di edifici in zone a rischio idraulico con la ricostruzione in altre zone con un premio volumetrico del 50% della volumetria esistente (art. 7). Per l’eliminazione delle barriere architettoniche è concesso un ulteriore ampliamento del 40% della volumetria (art. 12).

Sono inoltre consentiti nuovi centri commerciali nei centri storici anche in deroga agli strumenti urbanistici (art. 16). Non esistono più limiti alle altezze degli edifici, né c’è la minima traccia delle necessarie autorizzazioni ambientali per le aree tutelate con il vincolo paesaggistico (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.) o con il vincolo idrogeologico (regio decreto n. 3267/1923 e s.m.i.) o rientranti in siti di importanza comunitaria e zone di protezione speciale (direttive n. 92/43/CEE e n. 09/47/CE, D.P.R. n. 357/1997 e s.m.i.).

Ma soprattutto – incredibile per una regione come il Veneto dove la Lega Nord governa – di fatto saranno esautorati i 581 Comuni veneti, che non avranno alcuna possibilità di mitigare o adeguare le previsioni legislative alla realtà locale: gli strumenti urbanistici comunali saranno in pratica disapplicati.

Basti pensare a che cosa potrebbe accadere sull’Altopiano di Asiago, sulla Riviera del Brenta o nella conca di Cortina d’Ampezzo, una vera follìa, un autentico far west urbanistico in danno delle aree più pregiate sul piano ambientale e forti richiami per il turismo.

La pianura veneta, un tempo celebrata da poeti e scrittori e già ora a rischio di collasso ambientale, potrebbe divenire un unico capannonificio, inutile e sempre meno ricco di lavoro.

L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico onlus confida in una risposta ferma e determinata da parte dei Comuni, associazioni e comitati veneti, singoli cittadini e – soprattutto – del Governo nazionale perché questo piano scempi sia portato davanti alla Consulta nel più breve tempo possibile.

p. Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

Stefano Deliperi

Intervistato da Giampiero Rossi, l'oncologo ci rivela un vero e proprio miracolo di Natale: la scissione del nucleo del suo progetto, fra Scienza e Metri Cubi. Forse è la volta buona per la città. Corriere della Sera Milano, 5 gennaio 2014, con postilla (f.b.)

Sono passate poco più di due settimane dallo strappo tra Palazzo Marino e la Fondazione Cerba. E, in particolare, tra il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris e il fondatore dello Ieo Umberto Veronesi. «Non riesco proprio a capire», diceva il 18 dicembre scorso al Corriere della Sera lo stesso Veronesi, «è davvero strano avere un sindaco contrario a un’opera di scienza, di civiltà, di avanzamento culturale...». Partita chiusa? Molti hanno pensato di sì, la sera in cui la vice di Pisapia ha rifiutato la proroga della convenzione che teneva in vita il progetto Cerba sui terreni del fallimento del gruppo Ligresti, a sud della città. Invece, durante le feste ci sono stati contatti diretti tra il sindaco e Veronesi e adesso, alle parole di distensione del vicesindaco nell’intervista di ieri, risponde il padre dell’oncologia italiana con messaggi altrettanto distensivi.

Professor Veronesi, ha letto le parole di ieri del vicesindaco De Cesaris?
«Sì, ho letto e dico che anch’io sono molto favorevole a riprendere il discorso su basi nuove. Dobbiamo tenere conto anche delle esigenze del Comune».

Prima di Natale sembrava tutto finito, lei era molto amareggiato. Cosa è successo in queste due settimane?
«È vero. Ho capovolto alcune mie posizioni, anche perché in effetti allora ero molto deluso all’idea che potesse sfumare questa grande opportunità per Milano. È successo che in questi giorni ho avuto un lungo dialogo con il sindaco Pisapia, che si è confermato una persona di vedute ampie, che mi ha spiegato le esigenze dell’amministrazione comunale».

E quali sono?
«Innanzitutto noi abbiamo già ridotto notevolmente le volumetrie del progetto iniziale, dopodiché si tratta di ragionare sui terreni nella stessa area ma più a ridosso di via Ripamonti, dove l’impatto ambientale è più ridotto. In pratica si ripropone il problema che avevamo già incontrato vent’anni fa con lo Ieo: dal momento che sorgeva nell’area agricola, quindi doveva essere vicino a via Ripamonti e architettonicamente compatibile, e infatti assomiglia a una grande cascina».

Dunque si tratta di spostare di poco la sede del futuro Cerba?
«Vorrà dire che non staremo in mezzo a un parco ma ai margini. L’importante è salvaguardare il principio del progetto, che resta solido. Noi chiediamo che vengano mantenute le tre aree — oncologia, cardiologia e neuroscienze — e che tutte possano fare capo a un grande centro di ricerca biomolecolare e uno di tecnologie biomediche avanzate. Perché il Cerba deve avere la capacità di diventare il punto di riferimento europeo, sovranazionale come il Nih negli Stati Uniti».

Quindi è tornato ottimista, professore, il Cerba si farà?
«Io credo di sì, che anche il Comune lo voglia fare. La vicesindaco De Cesaris è una donna forte, inflessibile, ci siamo scontrati, ma le riconosco di essere una persona intelligente. Quindi non è difficile trovare un punto di incontro. Presto torneremo tutti attorno a un tavolo».

postilla

Pare davvero di vederlo, il sindaco Pisapia, mentre spiega al professore nuclearista Veronesi le analogie fra la scissione dell'atomo e quella del Cerba: separando le due componenti della Ricerca di livello europeo, e del Metro cubo speculativo ad elevato impatto ambientale (che sinora apparivano inscindibili), si liberano energie straordinarie, in grado di creare occupazione qualificata e avanzamenti del sapere, più e meglio di quanto immaginato sinora sotto la cappa di piombo degli immobiliaristi nascosti dietro la scusa del polo sanitario. Poi naturalmente, come già accaduto e ancora accade ad esempio per certi progetti Expo, ci si può pestare le corna sulla qualità dei progetti, ma nessuno potrà più nemmeno per scherzo etichettare Nemici della Scienza quelli che provano a difendere la relativa integrità della greenbelt agricola milanese, e un metodo di decisione urbanistica degno di un paese civile deberlusconizzato (f.b.)
Nota: su questo sito sono decisamente troppi gli articoli riferiti al progetto Cerba, per poter ipotizzare qui anche indicativamente qualche link specifico. Il suggerimento è di inserire la parola chiave nella finestra del motore interno in alto a destra

L'Unità, 30 dicembre 2013, con postilla

Lohanno chiamato nubifragio, ma la definizione è discutibile: secondo laProtezione civile in Sardegna alla fine di novembre nell’arco di 24 ore sonocaduti dai 250 ai 400 millimetri d’acqua, con punte massime di 450, a secondodelle zone. Nel peggiore dei casi 18,5 mm l’ora, un nubifragio prevederebbeinvece 30 mm l’ora. Ma il risultato non è stato meno devastante, una ventina dimorti, quasi 3000 sfollati, città allagate e distrutte, montagne di acqua efango che viaggiavano lungo le strade ridotte a letto di quei fiumi che lacementificazione aveva espropriato per interessi privati.
Il cosiddettonubifragio in Sardegna ci riporta al cuore del problema della gestione delterritorio e dei Piani paesaggistici che dovevano essere uno strumento per governarlo,ma che nessuna regione italiana è riuscita ancora ad approvare in viadefinitiva, malgrado siano passati dieci anni dalla loro promulgazione. Inrealtà a piegare la Sardegna non è stata tanto l’intensità, certo forte, dellepiogge, ma la loro durata, che si è protratta lungo 48 ore, mandando in tilt unterritorio devastato dalle speculazioni. Piangiamo le vittime del dissestocementizio, non di un nubifragio.
Eppurela Sardegna fin dal 2006 si era dotata di un Piano paesaggisticoall’avanguardia, proprio perché prevedeva un sistema complesso, di cuiavrebbero dovuto far parte anche l’ambiente e il territorio. Insomma, ilpaesaggio non come pura bellezza. Renato Soru, allora presidente della giuntaregionale sarda sul Piano aveva puntato parecchio, partendo dalla legge Salvacoste del 2004, aveva dato vita a un bel progetto che imponeva nuovi vincoli,regole certe e comprendeva anche una digitalizzazione del territorio e dellesue proprietà, su computer facili da usare e aperti anche al cittadino –una innovazionefondamentale considerando che un vincolo paesaggistico decade se solo ilproprietario di una infima particella del territorio in oggetto non riceve ufficialicomunicazioni sull’inizio della procedura di vincolo, sul procedere dell’iter esulla sua definitiva conclusione.
Partesubito la guerriglia dei comuni che si sentono defraudati della possibilità diusare a loro piacimento il territorio, e con particolare veemenza del sindacodi Olbia, secondo cui il Piano avrebbe tarpato le ali all’economia della sua città–oggi invece lamenta essere Olbia ridotta a una montagna di fango e perricostruirla piange soldi allo Stato pantalone.
Acausa del suo Piano, Soru perde anche la compattezza dello schieramentopolitico che lo sostiene. Alle elezioni regionali del 2009 vince ilcentrodestra con Ugo Cappellacci che, appigliandosi a una mera questione diforma –il Piano era stato redatto prima della terza versione del Codice deiBeni Culturali e del Paesaggio–, blocca tutto benché il Mibac ne avesse comunquericonosciuto la validità. E, naturalmente, vai col mambo della betoniera, delpiano casa e dell’autorizzazione facile. Il tutto, ovviamente per rilanciarel’economia.
Ilcaso della Sardegna, che secondo i dati a nostra disposizione dal 35% diterritorio tutelato prima del 2009 crolla al 17% nel 2011, è emblematico nonsolo perché, insieme a Marche e Lazio, è tra le prime a dotarsi di un Pianopaesaggistico che non riesce poi ad adottare in via definitiva, ma soprattuttoperché quel Piano a suo modo comprendeva e recepiva le novità contenute nellaConvenzione europea del paesaggio, che proprio l’Italia aveva voluto lanciarenel 2000 a Firenze, ma che non è riuscita a recepire a pieno nel suo Codice peri Beni Culturali e il Paesaggio.
LaConvenzione infatti dice che paesaggio è sia il territorio «che può essere consideratoeccezionale (per la bellezza NdR), sia i paesaggi della vita quotidiana, sia ipaesaggi degradati» (art.2), che ovviamente vanno riqualificati. Una visionecosì allargata discende da un principio forte che ribalta la tradizionale impostazione,intesa soprattutto in Italia come bellezza naturale. Il paesaggio diventainvece fondante la qualità della vita dei cittadini, qualità della vita che èuno dei cardini della democrazia, e il caso del cosiddetto nubifragio inSardegna è lì a dimostrare la validità del principio.
Sembrerebbero banalità,eppure perfino nella traduzione della Convenzione in italiano su questi puntici sono state incertezze, palesi errori e polemiche: dove in Inglese si legge«Landscape means an area, as perceived…» (il paesaggio è un’area così comepercepita…), in italiano troviamo «Paesaggio designa una “determinata” parte di territorio», ilcorsivo è nostro per segnalare la evidente limitazione rispetto al testo originaledove tutto il territorio, comprese le aree urbane, è paesaggio.
Masiccome l’Italia è il paese del cavillo, il testo valido è quello dellatraduzione, ratificato con la legge n. 9 del 2006, e ora siamo obbligati adelimitare e determinare cosa sia paesaggio e cosa no. Oltre al traduttore e allegislatore, a complicare le cose ci si è messo anche il Governo: con i decretiBassanini della fine degli anni ’90 in Italia, unici al mondo, ciò che ècomunemente definito territorio è stato diviso in tre: il paesaggio ora è dicompetenza del Mibac, il territorio è di competenza delle regioni ed entilocali, l’ambiente è di competenza dell’omonimo Ministero.
Colpevolebarocchismo istituzionale che crea una gran confusione che il Codice dei BeniCulturali e del Paesaggio con la sua terza redazione del 2008 non semplifica,anzi sembra vittima ancora una volta di una eredità di stampo estetizzante ecrociano, dove paesaggio alla fin fine sono le bellezze naturali. Altro cheConvenzione europea sul paesaggio, qui si torna alla Legge Bottai del 1939 o,ben che vada, alla Galasso del 1985.
Tuttaviail Codice, pur con i suoi difetti, prescriveva già dal 2006 che il Mibac dessedelle linee guida valide per tutto il paese. Linee guida mai apparse. È apparsoinvece un Osservatorio nazionale sul paesaggio, creato secondo la tecnica difare una cosa talmente inutile da poterla rapidamente abolire. Come èregolarmente avvenuto mentre la Direzione centrale per il paesaggio venivaaccorpata con altre Direzioni e resa inoffensiva, proprio in quella che dovevaessere la fase cruciale della realizzazione dei Piani paesaggistici.
Diquesta latitanza di Governo e Stato hanno approfittato le regioni che non hannodimostrato alcuna fretta a fare i Piani paesaggistici, e pure quando liredigono non riescono ad approvarli in via definitiva, come è il caso dellaPuglia, dopo il Lazio, le Marche e la Sardegna. In questo modo, cioè finché ipiani non saranno approvati, l’arbitrio sul territorio, sulla concessioneedilizia, sul cemento facile e sui bassi commerci che ne derivano resta a loro:alle regioni o agli enti locali.
Èlecito infine chiedersi come vengano preparati questi Piani paesaggistici, cui dovrebberocollaborare le regioni e lo Stato, attraverso il Mibac. Secondo la Corte costituzionaleil Mibac dovrebbe essere garante dell’unitarietà dei Piani a livello nazionale,così nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2006 la copianificazionecon le regioni era su tutto il territorio. Nel 2008 però la nuova redazione delCodice prevede che il Mibac intervenga solo rispetto alle aree già sottoposte avincolo, e tanti saluti alla Corte Costituzionale e all’unitarietà delterritorio nazionale.
Oggicomunque né lo Stato, con il Mibac, né le regioni sembrano essere dotate distrumenti intellettuali e professionali atti a fare i Piani paesaggistici: loStato non li ha mai avuti avendo decentrato la gestione del territorio alleregioni nel 1972, salvo poi cercare di tornare sui suoi passi visto il disastrosoesito della scelta. Le regioni a loro volta in alcuni casi si erano dotate diuffici urbanistici efficienti, è il caso dell’Emilia Romagna negli anni ’70 e ’80,ma poi li hanno più o meno dismessi. Salvo un paio di eccezioni come laSardegna di Soru, oggi l’iter per lo più si limita al fatto che la regione,dopo aver stipulato pomposi principi introduttivi, affida la reale redazionedel Piano a una ditta esterna –non sempre competentissima–, che di solito nonfa altro che collazionare i vari piani regolatori dell’area in questione, senzaneanche consultare il Mibac, che giustamente boccia i piani per mancatacopianificazione.
Siamoin procinto di una profonda riforma del Mibac, imposta dalla “spending review”,che punta al dimagrimento di un ministero già sfibrato da un decennio di tagli:il testo è stato consegnato al Consiglio dei ministri prima di Natale con larichiesta di una proroga per questioni procedurali, segno che ancora qualchedubbio permane.
Sarebbeuna svolta epocale se dopo decenni di una «convergenza viziosa all’elusioneamministrativa» sul nostro paesaggio, definizione di Guermandi e De Lucia, graziea questa riforma il ministro Massimo Bray dotasse il Mibac di strumenti efficaciper la tutela del territorio, che tutti definiscono il nostro più grandepatrimonio. Ma finora solo a chiacchiere.
Postilla
E’ indubbiamente positiva l’attenzione che l’Unità, conl’inchiesta di Dal Fra, richiama sull’amaro destino dell’attuazione del Codicedel paesaggio e sulle gravi responsabilità del Mibac, e della stragrande maggioranzadelle Regioni, nella sua attuazione,così com’è pienamente condivisibile l’appello rivolto al ministro Bray perchéintervenga al più presto per invertire la tendenza. E’ però necessaria qualcheosservazione a partire dall’attendibilità dei numeri forniti dal Mibac in relazione alle areesottoposte a tutela nel 2008 e nel 2012. Per quanto riguarda la Sardegna (miriferisco all’unico caso che conosco bene) le aree tutelate dopo l’approvazionedel piano paesistico di Soru erano molte di più di quelle comprese nella leggeGalasso e negli altri vincoli ope legis. Quel piano, infatti, ha aggiunto oltre8.400 kmq alle parti di territorio precedentemente vincolate: il 35%dell’intero territorio dell’Isola. ben più del 17% di cui scrive Dal Fracitando gli strabilianti dati del Mibac. .La sola “fascia costiera” tutelata daun’apposita norma, comprende un territorio pari al 14% della superficiecomplessiva dell’intera Sardegna, e ha una profondità variabile dai 300 metriai tremila. Un’altra inesattezza dell’articolo sta nell’inserire la Sardegnatra le Regioni che non hanno un piano paesaggistico, conforme alle prescrizionidel Codice del paesaggio: il PPR di Soru è stato definitivamente approvato findal settembre 2006, ed è ancora pienamente vigente come tutti i tribunali amministrativi, e la medesima Corte costituzionale, hanno reiteratamenteconfermato. Ma su questo punto torneremo più ampiamente anche perché da parte di Cappellacci sta tentando di smantellare proprio quelle tutele che hanno la loro radice nella validità, a tutt'oggi, del Piano Soru. (e.s.)

Una follia, più volte denunciata su queste pagine. Tollerata da troppi, contestata da pochi. Un classico esempio dell'oggettistica architetturonica adoperata dal demagogo locale come pedana per lanciarsi al livello nazionale, e riuscire. Un esempio dell'Italia da rottamare. Il manifesto, 29 dicembre 2013

Il Cre­scent è una pre­senza incom­bente sulla spiag­gia di Santa Teresa. Nel trionfo di luci che è il cen­tro di Salerno in que­sti giorni tra Natale e Capo­danno, il gigan­te­sco palazzo pro­get­tato dall’archistar cata­lana Ricardo Bofill e la piazza a forma di mez­za­luna sulla quale si affac­cia e che a sua volta si apre sul mare riman­gono invece nella penom­bra appena il sole tra­monta. L’«ecomostro d’autore», emblema della gran­deur dell’amato-odiato sin­daco Vin­cenzo de Luca insieme alla vicina Sta­zione marit­tima a forma di ostrica pro­get­tata da Zaha Hadid, è stato seque­strato dalla magi­stra­tura e sul pro­getto di riqua­li­fi­ca­zione dell’ex area por­tuale dismessa pende un’inchiesta penale che coin­volge una tren­tina di per­sone, primo cit­ta­dino com­preso.

Due giorni fa il Con­si­glio di Stato ha emesso una sen­tenza che lo boc­cia a metà e non con­sente di ripren­dere i lavori, però ciò non ha impe­dito ai soste­ni­tori dell’opera di brin­dare con il bic­chiere mezzo pieno. De Luca ha com­men­tato trion­fante via Face­book: «È una vit­to­ria senza mezzi ter­mini». I comi­tati che si oppon­gono a quello che riten­gono un eco­mo­stro d’autore hanno con­vo­cato invece una con­fe­renza stampa per riba­dire che secondo i giu­dici ammi­ni­stra­tivi l’opera è «ille­git­tima a monte», dun­que «non con­do­na­bile» e per­tanto «va demo­lita e basta, come Punta Perotti a Bari o il Fuenti in Costiera amal­fi­tana».

Per pro­vare a capire chi ha ragione è neces­sa­rio pro­vare a deco­di­fi­care le parole dei magi­strati ammi­ni­stra­tivi in rela­zione al ricorso pre­sen­tato dall’associazione ambien­ta­li­sta Ita­lia Nostra e poi leg­gere la sen­tenza insieme al prov­ve­di­mento di seque­stro dell’area. Ci si accor­gerà dell’opposta inter­pre­ta­zione su un punto cen­trale della que­stione: l’autorizzazione pae­sag­gi­stica e la rela­tiva rela­zione della com­mis­sione edi­li­zia inte­grata inviata alla Soprin­ten­denza di Salerno. Secondo gli ambien­ta­li­sti «il pro­getto tra­smesso alla Soprin­ten­denza sarebbe un mero pro­getto archi­tet­to­nico privo dei requi­siti che deve pos­se­dere il pro­getto defi­ni­tivo. Man­che­reb­bero, inol­tre, tutte le neces­sa­rie inda­gini geo­lo­gi­che, idro­lo­gi­che, sismi­che, agro­no­mi­che, bio­lo­gi­che, chi­mi­che». Così rispon­dono i magi­strati: «Nella moti­va­zione indi­cata negli atti auto­riz­za­tori rila­sciati dal Comune non viene descritto in modo det­ta­gliato l’edificio (anche mediante l’indicazione delle dimen­sioni, venendo in rilievo una strut­tura con una lun­ghezza di circa 260 metri, uno svi­luppo lineare per­ce­pi­bile di circa 200 metri, una altezza fuori terra di circa 25,80 metri e una cuba­tura di circa 73 mila metri cubi, dei colori e dei mate­riali impie­gati, non essendo suf­fi­ciente affer­mare che l’amministrazione “con­di­vide l’articolazione dei mate­riali e delle cro­mie delle pavi­men­ta­zioni”), il pae­sag­gio nell’ambito del quale esso è col­lo­cato (non essendo suf­fi­ciente affer­mare che la volu­me­tria edi­li­zia a semi­cer­chio por­ti­cato è ido­nea a rimar­care la volontà sim­bo­lica di acco­gliere e defi­nire for­mal­mente ciò che per defi­ni­zione è con­ti­nua­mente mute­vole come il mare), il modo in cui l’edificio si inse­ri­sce in modo coe­rente ed armo­nico nel con­te­sto com­ples­sivo (non essendo suf­fi­ciente affer­mare che le aper­ture nella cor­tina edi­li­zia rea­liz­zano la neces­sa­ria per­mea­bi­lità visuale, oltre che fun­zio­nale, tra la piazza e il tes­suto urbano e che l’altezza dell’emiciclo rag­giunge il giu­sto equi­li­brio tra la pro­fon­dità della piazza, le altezze di alcuni fab­bri­cati moderni alle spalle e la neces­sità di monu­men­ta­liz­zare il sito)». Quindi, «le nuove even­tuali auto­riz­za­zioni dovranno essere oggetto di rin­no­vate valu­ta­zioni da parte dei com­pe­tenti uffici e, in par­ti­co­lare, della Soprin­ten­denza».

Per il resto è tutto ok. Nes­sun pro­blema urba­ni­stico, nes­suna discre­panza tra il Pur­ba­ni­stico comu­nale e il Piano attua­tivo, nes­sun con­tra­sto con il piano ter­ri­to­riale di coor­di­na­mento pro­vin­ciale, nes­suna vio­la­zione delle norme di sde­ma­nia­liz­za­zione, nes­suna ille­git­ti­mità del parere dell’Autorità di bacino sulla devia­zione del tor­rente Fusan­dola e nes­sun dub­bio sulla rela­zione sismica.

Ecco spie­gato il per­ché ognuno vede nella sen­tenza quello che vuole vedere. Per il sin­daco De Luca «la sen­tenza del Con­si­glio di Stato sul caso Cre­scent rico­no­sce la piena legit­ti­mità di tutta la pro­ce­dura ammi­ni­stra­tiva e urba­ni­stica. È stato rile­vato un difetto di moti­va­zione rispetto alla valu­ta­zione pae­sag­gi­stica. Si invi­tano, per­tanto, le isti­tu­zioni inte­res­sate a sanare tale rilievo for­male». Però quel difetto «di moti­va­zione» sulla que­stione pae­sag­gi­stica appare ben più che una que­stione mera­mente for­male. È pro­prio per quel motivo, infatti, che un mese fa la pro­cura di Salerno ha deciso di met­tere i sigilli all’opera, met­tendo sotto inchie­sta trenta per­sone per abuso d’ufficio, falso in atto pub­blico e lot­tiz­za­zione abu­siva. Nel decreto di seque­stro del gip Dona­tella Man­cini si sostiene l’illegittimità dell’iter seguito per arri­vare all’autorizzazione pae­sag­gi­stica. Secondo l’accusa, inol­tre, ammi­ni­stra­tori e fun­zio­nari pub­blici avreb­bero «con­sa­pe­vol­mente e volon­ta­ria­mente» aggi­rato le pro­ce­dure per «acce­le­rare i tempi di rea­liz­za­zione dell’opera» e «con­te­nere i costi per i pri­vati appal­ta­tori».

Nel frat­tempo, la piazza della Libertà, la cui forma dovrebbe evo­care l’apertura al mare e le anti­che rela­zioni della città medi­ter­ra­nea con il mondo arabo e le cui dimen­sioni ne fanno la più grande d’Europa con i suoi 35 mila metri qua­dri, ha avuto un cedi­mento e rischia di dover essere rifatta. Per De Luca, che al ridi­se­gno urba­ni­stico della città deve gran parte del suo suc­cesso poli­tico — dal piano rego­la­tore affi­dato a Oriol Bohi­gas negli anni ’90 alla metro­po­li­tana leg­gera inau­gu­rata un mese fa — una volta ter­mi­nata essa «sarà il sim­bolo dell’architettura moderna in Ita­lia». Gli atti­vi­sti No Cre­scent non sono della stessa opi­nione e hanno dif­fuso un dos­sier — inti­to­lato «mala gestio» — nel quale denun­ciano, tra le altre cose, lo spreco di fondi comu­ni­tari e la cemen­ti­fi­ca­zione di aree dema­niali. «Finora è stata costruita solo metà dell’opera, è stato già spo­stato un tor­rente e scom­pa­ri­ranno due­mila metri qua­dri di mare e sei­mila di spiag­gia», denun­cia Pier­luigi Morena, un avvo­cato del comi­tato.

In que­sti giorni, al tra­monto Salerno si illu­mina con le «Luci d’artista». La ressa di curiosi e turi­sti inte­res­sati agli addobbi nata­lizi d’autore ha man­dato in tilt la neo­nata metro­po­li­tana e pro­vo­cato per­sino una rissa su un bus par­ti­co­lar­mente affol­lato. «Le luci nascon­dono tante ombre», afferma un altro ambien­ta­li­sta, Ore­ste Ago­sto. Tra que­ste, risalta quella del Crescent.

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