Internazionale
.online, 25 settembre 2016 (c.m.c.)
La morte di Abd Elsalam Ahmed Eldanf, operaio della ditta di logistica Gls ucciso da un camion della stessa azienda durante un picchetto, dovrebbe far emergere definitivamente la questione di un modello produttivo pensato al massimo ribasso dei diritti. Sebbene la notizia sia ormai stata derubricata dai giornali e la procura di Piacenza abbia imposto sull’accaduto una ricostruzione di dubbia credibilità, i fatti ci riportano a considerazioni più generali.
Le cause di questa morte vanno rintracciate in un conflitto che vive in un nuovo modello dell’organizzazione industriale e della sua filiera, dalla produzione al consumo. Provare a mettere in ordine questi argomenti è un esercizio che conduce alla complessità delle dinamiche sociali.
In un’economia funzionale al consumo e all’ibridazione tra consumo e produzione, la logistica ha un ruolo semplice: è interpretata come mero tassello utile alla fruizione del consumo stesso, che va assicurato a ogni costo. Ordino un prodotto online, deve arrivarmi il prima possibile.
L’unica cosa che conta
Nel processo produttivo – quello che va dalla produzione fisica alla vendita al dettaglio – la logistica è quel settore intermedio che consente il passaggio dei beni dai magazzini al negozio oppure, ormai sempre più di frequente, direttamente nelle nostre case. Nell’epoca dei feedback, della tracciabilità e delle promozioni sui costi di spedizione, è necessario che tutto sia puntuale, che la merce giunga a destinazione in modo efficiente, così da rendere il cliente soddisfatto delle sue scelte di acquisto. Questo vuole l’azienda che vende; perché questo massimizzerà la fiducia dei clienti permettendo di aumentare nel tempo le vendite, quindi gli utili.
L’unica cosa che conta sono i risultati, non come questi siano stati raggiunti. Si definisce così una netta separazione tra l’individuo consumatore e la società. Il consumatore vuole consumare e risparmiare: l’acquisto in tre click e il fattorino che bussa alla porta di casa. Il processo che intercorre tra questi due momenti è appunto utile alla soddisfazione privata.
Non è un caso che risulti secondario, se non del tutto indifferente, per il consumatore, in che modo i piccoli venditori e i grandi colossi del commercio siano in grado di praticare costi di spedizione minimi o addirittura nulli. Raramente si entra in contatto con un operatore della logistica, che sia un facchino, un magazziniere o un autotrasportatore.
Sotto la retorica della modernità edonistica, del “direttamente sul tuo divano”, si rafforza l’alleanza tra logica del consumo e progressivo impoverimento dei lavoratori. Scompare qualsiasi traccia che colleghi il momento della produzione con quello del consumo, cioè da una parte, il facchino che vende la sua forza lavoro per un tempo illimitato e, dall’altra parte, il consumatore che ne beneficia in un tempo brevissimo. Una rottura che chiude la possibilità della solidarietà e apre le porte alla pura estraneità: così funziona il capitalismo oggi.
Si assiste quindi a una rimozione forzata ma necessaria, in cui le miserie della sottoccupazione, del lavoro che ritorna anche a una dimensione schiavistica, sono assunte come inevitabili per conservare intatte le forme di consumo. Consumare si configura come l’unica fonte di identità. Le fabbriche di Dhaka, il lavoro minorile in Turchia, i facchini di Piacenza invece diventano strumentali al diritto-dovere del consumo, che per vivere e prosperare deve alimentarsi di una guerra tra poveri.
Allargando la lente, il settore della logistica emerge in tutta la sua ampiezza all’interno dell’organizzazione della produzione. Basta tener presente che già nel 2012 il volume d’affari di questo settore era stimato, tra i paesi dell’Unione europea, in 878 miliardi di euro, secondo uno studio riportato dalla Commissione europea.
Non stupisce se si considera che la logistica garantisce lo stoccaggio e la gestione dei magazzini delle catene commerciali, dei centri commerciali, dei magazzini e delle consegne delle piattaforme di e-commerce, della distribuzione sul territorio nazionale dei beni acquistati in appalti centralizzati dalle pubbliche amministrazioni.
Condizioni di semischiavitù
Dentro la catena della produzione la logistica occupa un ruolo centrale e non più residuale. La globalizzazione e l’aumento degli scambi al livello internazionale hanno reso necessario un ampliamento del settore legato al trasporto e l’immagazzinamento delle merci: oggi è più facile acquistare un prodotto dalla Romania e riceverlo in pochi giorni a casa, così come è normale produrre in Bangladesh e vendere in un qualsiasi negozio di una piccola città di (quasi) ogni paese.
Per renderlo possibile, le diverse fasi del processo produttivo hanno dovuto subire una netta trasformazione: dalla fabbrica che tiene insieme tutte le fasi della produzione alla frammentazione e all’esternalizzazione delle diverse funzioni che caratterizzano l’intero processo.
È avvenuta così la terziarizzazione dell’economia: le imprese produttrici hanno scoperto che gestire da sole la distribuzione dei loro prodotti implicava costi troppo elevati, soprattutto in un mercato globale. Altre imprese avrebbero potuto gestire l’immagazzinamento e il trasporto delle merci di più aziende, riducendo il costo unitario di ogni singolo prodotto trasportato. All’interno di questo schema, la logistica rappresenta allora il polo nevralgico su cui scaricare i costi del processo di accumulazione dei profitti.
La logistica, come settore di servizio, nasce e si consolida con l’obiettivo di minimizzare i costi tra il momento della produzione e quello della vendita: minori costi garantirebbero in teoria prezzi al consumo più contenuti, competitivi. Ma le aziende del settore logistico hanno anch’esse ovviamente l’obiettivo del profitto, al di là da quel che succede a monte e a valle della filiera.
Così il passaggio successivo è comprimere i costi, robotizzando alcune fasi e/o agendo sul costo del lavoro. Entrambi i meccanismi – frammentazione ed esternalizzazione da una parte, e robotizzazione dall’altra – producono un aumento del reddito dell’impresa e spesso non si escludono l’uno con l’altro. Al contrario, laddove non è possibile robotizzare, è con l’intensificazione dei ritmi di lavoro che si estrae ciò che un tempo sarebbe stato comunemente definito plusvalore.
Nel modello italiano, ma non solo, l’uso intensivo della forza lavoro è indipendente dalla dimensione delle aziende coinvolte. Al contrario, ad accomunare grandi colossi e medie imprese, nel tentativo di ridurre al massimo il costo del lavoro, c’è l’uso delle cooperative, che sono spesso cooperative di comodo. Il risultato è: condizioni di lavoro, dal salario all’orario di lavoro, sempre peggiori, in alcuni casi vicine alla semischiavitù.
La rappresentazione giornalistica delle morti sul lavoro ha spesso facilitato una sorta di scissione tra le cause scatenanti la tragedia e l’evento tragico in sé. I fatti raccontati con la puntualità della cronaca giornalistica hanno alimentato nell’opinione pubblica un sentimento di indignazione verso le tragedie consumate sui luoghi di lavoro, spostando però l’attenzione sulla dimensione emotiva e tralasciando più o meno volontariamente i fattori all’origine della tragedia.
Un’ombra copre l’analisi dei meccanismi che generano le morti bianche, privando l’opinione pubblica di un piano complessivo di osservazione. Questa tendenza del racconto giornalistico assume particolare interesse quando le morti sul lavoro investono un settore considerato ai margini del processo produttivo, come la logistica. In questo caso, infatti, la tendenza a identificare l’incidente sul lavoro come un’eccezione assume un portata ancora più vasta.
La negazione del conflitto
La logistica, infatti, è considerata come un processo periferico nell’ambito della produzione capitalistica. Le attività di stoccaggio, trasporto merci e gestione delle scorte rappresentano fasi “rimosse” di un processo produttivo che invece si compie e si materializza nell’esercizio del consumo.
Ma sotto il velo della versione del capitale, in cui il consumo assolve i tratti di una funzione liberatoria in grado di soddisfare l’appetito del consumatore, c’è la materialità di rapporti di produzione basati sulla messa a valore di ogni aspetto della vita umana. L’intensificazione dello sfruttamento nel settore della logistica diventa quindi il paradigma della trasformazione dei processi di accumulazione del capitale: e non si tratta solo della messa a valore della forza lavoro, ma riguarda anche la sfera della riproduzione sociale, ossia della nostra vita.
L’intensificazione dei tempi di lavoro, che è un tratto tipico dell’organizzazione del lavoro nel settore logistico, mette in soffitta qualsiasi distinzione temporale tra il piano dell’accumulazione dei profitti nella sfera produttiva (il tempo del lavoro) e quella riproduttiva (il tempo libero). Gli operatori della logistica sperimentano nel quotidiano della loro attività la totale privazione di un tempo di vita libero, rappresentando un esempio concreto dei meccanismi di funzionamento alla base del sistema capitalistico.
Gli orari di lavoro che si spingono fino alle dodici ore consecutive sono il tratto evidente del controllo esercitato dal nuovo modello di produzione e consumo. Inoltre, la separazione tra chi produce e chi consuma maschera anche l’impoverimento generalizzato dei lavoratori.
Un’elevata percentuale di chi lavora nella logistica è composta da immigrati a cui non è riconosciuta quella sfera riproduttiva, quel tempo libero, di cui invece gode, magari fittiziamente, il precariato italiano.
Anche in altre sfere produttive, in particolare nell’ambito del terziario (servizi, ristorazione, cura) e del lavoro cognitivo, il modo più semplice per fare profitti è il prolungamento dei tempi di lavoro. Ma da periferia del modello produttivo ad avanguardia delle nuove forme di sfruttamento, è proprio il settore della logistica che coinvolge sempre più persone, si espande, e diventa una chiave di lettura utile per riconoscere le contraddizioni di fondo del progetto neoliberista.
Le difficoltà del sindacato
Dall’introduzione del rapporto di lavoro interinale istituito dall’ex ministro del lavoro Tiziano Treu alla legge numero 276 del 2003 (legge Biagi) che introduce nel nostro ordinamento il lavoro in somministrazione, il settore della logistica è al centro di un processo progressivo di precarizzazione.
La competizione internazionale, basata sulla compressione dei costi, e la tendenza crescente del sistema delle imprese a esternalizzare alcune fasi della produzione, hanno coinciso con una serie di leggi che hanno lasciato ampio margine per frazionare l’organizzazione del lavoro. A fare le spese di questo processo è il settore della logistica, in cui si fa sempre più ricorso al subappalto di manodopera, spesso affidato a cooperative “spurie”, prive di quei connotati mutualistici riconosciuti dalla nostra costituzione.
E qui arrivano le difficoltà per i sindacati. Frammentare la produzione e l’organizzazione del lavoro ha alimentato una crescente difficoltà per le organizzazioni sindacali di costruire lotte unitarie. Si sono così create nel tempo delle divisioni nell’ambito del movimento sindacale, arrivando a una scissione di fatto tra sindacati di base, più vicini alle rivendicazioni dei lavoratori del settore, e sindacati confederali più attenti a salvaguardare un piano di mediazione generale con il sistema dell’impresa.
I sindacati non hanno saputo interpretare i tratti salienti della nuova divisione del lavoro
Questa separazione ha determinato la vera difficoltà nel cercare di ottenere contratti collettivi che possano tutelare l’intero comparto produttivo e i diritti dei lavoratori coinvolti. La marginalità della logistica e la sua espulsione progressiva da un piano di regole costituzionali ha accelerato quel processo di precarizzazione dei rapporti di lavoro, che sono all’origine delle tragiche notizie di cronaca.
Seppur con le dovute eccezioni, le grandi organizzazioni sindacali hanno registrato un limite evidente nella sottovalutazione delle nuove forme di organizzazione del lavoro funzionali agli obiettivi dell’accumulazione capitalistica. In particolare, non hanno saputo interpretare i tratti salienti della nuova divisione del lavoro, mancando di una visione complessiva sul funzionamento della macchina capitalistica. Hanno pensato di tamponare una slavina.
Si è accettato che produzione e consumo siano due dimensioni scisse, distanti, che non hanno a che fare l’una con l’altra. E la supremazia del diritto del consumatore all’acquisto della merce, come la distinzione gerarchica tra chi consuma e chi produce, hanno allontanato il sindacato dalla vera posta in gioco, che resta la messa in discussione dell’intero modello di sviluppo.
Da questa tendenza difensiva che privilegia la conservazione di una posizione di rendita per i sindacati, deriva l’incapacità di spostare la dimensione del conflitto verso l’insieme dell’organizzazione del lavoro per incidere invece su tutto il processo: produzione, logistica, vendita, consumo.
La Repubblica, 19 settembre 2016 (m.p.r.)
Il Grande fratello dei semi si prepara a ridisegnare il futuro dell’agricoltura mondiale. Il suo mantra ideologico - basta leggere i siti dei colossi del settore - è sempre lo stesso. «Una persona su otto va a letto affamata - recita quello della Dupont - . Se vogliamo garantire cibo a tutti nel 2050 dobbiamo aiutare i contadini a rendere più produttivi i campi». Come è sotto gli occhi di tutti: le 7mila aziende sementiere attive nel 1981 sono quasi sparite. Un’ondata di fusioni e acquisizioni ha concentrato il 63% del mercato nelle mani di tre colossi (Dow-Dupont, ChemChina- Syngenta e Bayer-Monsanto). Le stesse società - guarda caso - che controllano il 75% del business di pesticidi e diserbanti in un groviglio di conflitti d’interessi in cui «l’industria è costretta a vendere i semi assieme ai prodotti agrochimici per non fare harakiri», come accusa Vincenzo Vizioli, presidente dell’Associazione italiana agricoltura biologia. Ultimo e più famoso esempio: il discusso ed efficacissimo glifosato (unico neo, è un sospetto cancerogeno) promosso in rigorosa abbinata con i semi hi-tech modificati per resistere ai suoi effetti.
L’era del seme unico - dicono i critici - ha già avuto effetti devastanti: la Fao ha certificato che nel ventesimo secolo, a forza di specializzare le colture, abbiamo perso il 75% della biodiversità e che un altro terzo se ne andrà entro il 2050. Uno scotto da pagare, dice l’industria: sviluppare un seme super efficiente (e spesso transgenico) può costare 136 milioni di dollari, un nuovo pesticida può arrivare a 250 milioni. «Solo le imprese di grandi dimensioni hanno i soldi per la ricerca necessaria alle sfide del futuro - spiega Lorenzo Faregna, direttore di Agrifarma, l’organizzazione degli imprenditori di settore - E la fanno con controlli rigidissimi. In Italia, per dire, siamo monitorati da tre ministeri: Ambiente, Salute e Agricoltura».
I risultati, assicura la European seed association, la potentissima lobby di settore, si vedono: incroci e selezioni usciti dai laboratori dei big dei semi «contano per il 74% degli aumenti di produttività in campo agricolo e hanno garantito carboidrati, proteine e oli vegetali per 100-200 milioni di persone aggiungendo 7mila euro di reddito agli agricoltori».
Chi lavora davvero la terra la pensa in un altro modo: «Stiamo creando un oligopolio pericoloso per contadini e consumatori - dice Roberto Moncalvo, presidente Coldiretti - . Il modello proposto dai big del settore, semi standardizzati e omologati assieme ai fitofarmaci, non funziona più. Le grandi aziende controllano i prezzi, ovviamente a loro uso e consumo. E vanno controcorrente in un mondo dove le coltivazioni Ogm stanno calando e dove la tendenza è rilanciare la biodiversità e ridurre, come si fa con successo in Italia, l’uso di pesticidi e diserbanti».
La natura, in effetti, ha imparato a difendersi dall’assalto della chimica di sintesi. Il 98% delle coltivazioni di soia e il 92% di quelle di mais negli Usa sono seminati con Ogm. Ma le erbe infestanti sono riuscite in poche stagioni a sviluppare resistenza ai fitosanitari con cui vengono trattate. E molti contadini a stelle e strisce - complice pure il crollo dei prezzi delle materie prime - iniziano a dubitare che il gioco (vale a dire il prezzo altissimo di sementi e agrochimica hi-tech) valga la candela.
La “triade” del seme, ovviamente, non ha nessuna intenzione di cedere le armi facilmente. Il modello delle sementi ereditarie - quello che funziona da millenni e prevede la conservazione di parte di un raccolto per piantarlo l’anno successivo - è un pericolo per i profitti. E un paio di pionieri dell’Ogm hanno già brevettato “Terminator” (il nome dice tutto) un seme autosterile, che genera frutti e semi che non sono in grado di riprodursi, obbligando il contadino a rifornirsi da loro a ogni stagione. L’arma finale cui nessuno - per fortuna - ha dato ancora l’autorizzazione al commercio.
L’ingegnerizzazione e la privatizzazione delle piante segue però anche altre strade. Come quella, più tortuosa ma più efficace, del brevetto. L’industria ha depositato all’Ufficio europeo brevetti 1.400 richieste di autorizzazione per usare in esclusiva varietà di piante selezionate con metodi naturali, come fanno da millenni contadini e natura senza accampare diritti monetari. E 180 sono stati approvati come il Broccolo Monsanto (Ep1597965), una pianta normalissima il cui fusto è stato indebolito naturalmente solo per favorire la raccolta meccanica.
Il risiko dei semi del resto, assicurano i guru della finanza, è solo l’inizio e tra poco darà il via all’integrazione verticale tra i ricchissimi produttori di macchine (come Deere e Cnh) e i big nati dalle fusioni degli ultimi mesi. Con nel mirino le meraviglie dell’agricoltura hi-tech a base di droni e satelliti. Sarà davvero il modo per dare da mangiare a tutti? «Tutt’altro - conclude Moncalvo - . La strada è un’altra. Già oggi un terzo di quello che viene prodotto in campagna viene sprecato e non consumato. Basterebbe recuperarlo e già oggi ci sarebbe cibo per tutti i 10 miliardi di persone che abiteranno il pianeta nel 2050».
». Comune.info, 19 settembre 2016 (c.m.c.)
I nuovi colossi accrescono il loro potere nei mercati chiave e si aprono la strada per un incontrollabile aumento dei prezzi dei mezzi di produzione. Avranno inoltre più facilmente le leggi e i regolamenti necessari alla loro guerra contro la sovranità alimentare e l’agricoltura contadina. L’enorme concentrazione in corso non mira tuttavia al solo controllo dei mercati, vuole quello digitale e satellitare dell’intera agricoltura del pianeta. L’offensiva dei colossi dell’agro-business va fermata con ogni mezzo possibile .
Mercoledì 14 settembre, infine, Monsanto ha accettato la terza offerta di acquisto della Bayer. Oltre ad essere una delle maggiori aziende farmaceutiche, adesso Bayer sarà la più grande impresa mondiale nella produzione di sementi e agrotossici. Malgrado abbia grandi dimensioni e conseguenze di ampia portata, questa è solo una delle fusioni recenti tra le imprese transnazionali dell’agro-business. Ci sono movimenti anche tra le imprese di fertilizzanti, tra quelle che producono macchinari e tra quelle che possiedono banche dati che influiscono nei processi agricoli. E’ una battaglia per il controllo non solo dei mercati ma anche delle nuove tecnologie, per il controllo digitale e satellitare dell’agricoltura.
Diversi fattori influiscono nell’accelerazione dei processi di fusione cominciati nel 2014. Uno di essi è che le coltivazioni transgeniche si stanno imbattendo in molti problemi, cosa che spinge i giganti dei transgenici a cercare posizioni più solide di fronte a ciò che sembra essere una fonte di vulnerabilità crescente. E’ significativo che un giornale conservatore come The Wall Street Journal riconosca che il mercato è stato debilitato dai “dubbi” degli agricoltori degli Stati Uniti sulle coltivazioni transgeniche, visto che, dopo 20 anni nel mercato, esse mostrano ancora numerosi svantaggi: “erbe super-infestanti” resistenti agli agro-tossici, rendimenti che non si equiparano agli alti costi dei semi transgenici, né al costo dell’applicazione di agrotossici in maggior quantità e concentrazione per uccidere erbe infestanti e parassiti resistenti, né all’aumento del lavoro per controllare le erbe. Il crollo dei prezzi delle commodity agricole ha accelerato il malessere facendo sì che gli agricoltori che seminavano transgenici tornassero a cercare sementi non transgeniche, più convenienti e con maggior rendimento. (The Wall Street Journal, 14/9/16).
Se verrà autorizzata la fusione con Monsanto, Bayer passerà a controllare circa un terzo del commercio globale di agrotossici e di sementi commerciali. L’operazione fa seguito a quella di Syngenta-Chem-China e DuPont-Dow, in un vertiginoso processo di fusioni e aquisizioni nell’industria sementifera-agrochimica. Monsanto, Syngenta, DuPont, Dow, Bayer e Basf insieme controllano il cento per cento del mercato dei semi transgenici, che adesso resterebbe nelle mani di tre sole imprese. Queste fusioni sono sottoposte al vaglio di varie agenzie anti-monopolistiche, visto che costituiscono blocchi che avranno enorme potere nei mercati chiave e produrranno certamente un aumento dei prezzi dei mezzi di produzione. Forzeranno, inoltre, le leggi e regolamenti a loro favore, contro la sovranità alimentare e le sementi contadine. Soltanto il fatto che tre imprese controlleranno tutte le sementi transgeniche dovrebbe essere argomento sufficiente a qualasiasi paese per rifiutare queste coltivazioni, a causa dell’inaccettabile dipendenza che comportano.
Però il contesto delle operazioni nella catena agroalimentare è più complesso, e include pure gli anelli vicini della catena, così come spiega in modo dettagliato il Gruppo ETC nella sua nalisi della fusione Bayer-Monsanto Sebbene il consolidamento del settore dei semi e degli agrotossici esiste da decenni e sta toccando il suo apice, questi due settori hanno una vendita molto inferiore a quella delle imprese che producono fetilizzanti e macchinari, gruppi che da alcuni anni hanno cominciato a fare incursioni nel mercato dei primi, stabilendo alleanze strategiche. Anche quelle industrie, inoltre, sono in un processo di consolidamento. Poco prima dell’accordo tra Monsanto e Bayer, due delle maggiori imprese di fertilizzanti, Agrium e Potash Corp. haanno deciso di fondersi trasformandosi nella maggiore impresa di fertilizzanti a livello mondiale. Cosa che, secondo gli analisti dell’industria, ha spinto Bayer ad aumentare l’offerta per Monsanto.
Contemporaneamente, nel settore delle macchine rurali – non si tratta solo di trattori e mietitrebbiatrici, ma anche di droni, robot e sistemi Gps che permettono di raccogliere i dati della campagna con i satelliti – è andato sviluppando alleanze con tutti i giganti dei transgenici, che comprendono l’accesso alle banche dati agricole, del suolo, del clima, delle malattie, eccetera. Nel 2015, John Deere, con la maggior impresa di macchine al mondo, si era accordato con Monsanto per comprarle la succursale Precision Planting LLD, azienda di dati agricoli, l’acquisto è stato però sottoposto al Dipartimento della Giustizia, che ha sospeso la vendita perché John Deere sarebbe andato a “dominare il mercato dei sistemi di coltivazione di precisione e avrebbe potuto alzare i prezzi e rallentare l’innovazione, a spese degli agricoltori statunitensi che dipendono da quei sistemi”, giacché Precision Planting LLD e Deere sarebbero passati a controllare l’85 per cento del mercato delle coltivazioni di precisione.(Departamento de Justicia de Estados Unidos, 31/8/16, http://tinyurl.com/j9x6am9).
Siccome questo accordo non è stato concluso, la succursale continua ad essere proprietà di Monsanto e quindi all’interno del pacchetto della nuova fusione, cosa che potrebbe favorire un nuovo ruolo della Bayer nel tema del controllo digitale e muovere tutti pezzi della scacchiera. Ancora una volta, il trattamento dei dati sul suolo, il clima, l’acqua, la genomica delle coltivazioni, le erbe e gli insetti relazionati, sarà ciò che decide chi controlla tutti i primi passi della catena agroalimentare industriale. In questo schema, gli agricoltori sono solo un semplice strumento nella corsa delle imprese per produrre guadagni – non alimenti – cosa che condiziona gravemente la sovranità dei paesi, e non solo quella alimentare.
Jacobin e e tradotta da Francesca Conti. La città invisibile online, 6 settembre 2016, con postilla
11 anni fa David Harvey pubblicò il libro “Breve storia del Neoliberismo”, che è diventato uno dei libri di riferimento sul tema. Da allora abbiamo visto nuove crisi economiche e finanziarie, ma anche nuove ondate di resistenza, che nelle loro critiche alla società contemporanea spesso hanno come obiettivo il neoliberismo.
Cornel West parla del movimento Black Lives Matter come di un “J’accuse” al potere neoliberista; Hugo Chaves chiamava il neoliberismo una “strada per l’inferno”; e i leader dei sindacati stanno sempre più utilizzando il termine per descrivere l’ambiente più grande nel quale si svolgono le lotte su posto di lavoro. Anche la stampa mainstream ha ripreso ad utilizzare il termine, anche se solo per sostenere che il neoliberismo non esiste.
Ma di cosa stiamo parlando esattamente quando parliamo di neoliberismo? E com’è cambiato dalla sua genesi alla fine del 20esimo secolo?
Bjarke Skaerlund Risager, ricercatore presso il Dipartimento di Filosofia e Storia delle Idee dell’Università di Aarhus, ha fatto una lunga disussione con David Harvey sulla natura politica del neoliberismo, come ha trasformato le modalità di resistenza, e perchè la Sinistra deve ancora prendere sul serio la fine del capitalismo.
Neoliberismo è un termine ampiamente utilizzato oggi. In ogni caso, spesso non è chiaro a cosa si riferiscano le persone quando lo utilizzano. Può essere riferito ad una teoria, una serie di idee, una strategia politica, o ad un periodo storico. Potresti cominciare con lo spiegare come tu interpreti il neoliberismo?
Ho sempre affrontato il neoliberismo come un progetto politico portato avanti dalla calsse capitalista quando si è sentita fortemente minacciata sia politicamente che economicamente verso la fine degli anni 60 e negli anni 70. Volevano disperatamente lanciare un progetto politico che fosse capace di mettere un freno al potere della classe lavoratrice.
Sotto molti aspetti era un progetto controrivoluzionario. Avrebbe stroncato sul nascere quelli che a quel tempo erano i movimenti rivoluzionari nella maggior parte del mondo in via di sviluppo – Angola, Mozambico, Cina, etc.. – ma anche quella marea crescente di influenze comuniste in paesi come l’Italia, la Francia e , pur in maniera minore, la minaccia di un loro ravvivarsi in Spagna.
Anche negli Stati Uniti i sindacati produssero un Congresso Democratico che, nelle intenzioni, era piuttosto radicale. Nei primi anni 70, i sindacati insieme ad altri movimenti sociali forzarono un mucchio di riforme e di iniziative riformiste che erano anti- aziende: nacquero l’ Agenzia di protezione dell’ambiente (Environmental Protection Agency), la Direzione per la sicurezza e salute occupaizionale (Occupational Safety and Health Administration), le varie forme di protezione dei consumatori, e una serie di provvedimenti per rafforzare la classe lavoratrice come non era mai accaduto in passato.
In questa situazione esisteva in effetti una minaccia globale alla forza della classe capitalista e allora la domanda era “Che fare?”.
La classe dominante pur non essendo onniscente riconosceva che c’erano diversi fronti sui quali c’era da combattere: il fronte ideologico, quello politico e soprattutto c’era da combattere per sconfiggere la classe lavoratrice in qualsiasi modo possibile. Da tutto questo emerse un progetto politico che chiamerei neoliberismo.
Puoi parlare un po’ degli aspetti ideologico e politico e dell’attacco ai lavoratori?
L’aspetto ideologico risale al consiglio di un tale che si chiamava Lewis Powell. Powell scrisse un memorandum in cui diceva che le cose erano andate troppo in là e che il capitale aveva bisogno di un progetto collettivo. Il memorandum aiutò a mobilitare le Camera del Commercio e il Business Roudtable.
Anche le idee erano importanti sul fronte ideologico.
L’opinione all’epoca era che le università fossero impossibili da organizzare perchè il movimento studentesco era troppo forte e le facoltà troppo progressiste, così fondarono tutti questi think-thank come il Manhattan Institute, l’Heritage Foundation, la Ohlin Foundation. Questi think-thank portavanono con sé le idee di Freidrich Hayek e Milton Friedman e la teoria economica dell’offerta.
L’idea era quella che questi think-thank facessero ricerche serie, e alcuni di loro le fecero, – per esempio il National Bureau of Economic Research era una istituzione privata che fece ottime e accurate ricerche. Queste ricerche sarebbero poi state pubblicate in maniera indipendente e avrebbero influenzato la stampa e passo dopo passo avrebbero accerchiato e infiltrato le università.
Questo processo ebbe bisogno di un lungo periodo di tempo. Io credo che adesso abbiamo raggiunto il punto in cui non c’è più bisogno di una realtà come la Heritage Foundation. I progetti neoliberisti si sono ormai impossessati delle università.
Rispetto ai lavoratori, la sfida era rendere la classe lavoratrice locale competittiva con quella globale. Una strada era aprire all’immigrazione. Negli anni 60 per esempio i tedeschi importavano lavoratori dalla Turchia, la Francia dal Maghreb, il Regno Unito dalle ex-colonie. Ma tutto questo creò molto malcontento e insoddisfazione.
Allora scelsero l’altra strada, quella di portare il capitale dove c’era forza lavoro a basso costo. Ma affinchè la globalizzazione funzioni devi ridurre le tasse relative alle esportazioni e rafforzare il capitale finanziario perchè il capitale finanziario è la forma di capitale più mobile. Così il capitale finanziario e cose come le fluttuazioni della moneta divennero fondamentali per mettere un freno alla classe lavoratrice.
Allo stesso tempo i progetti ideologici di privatizzare e e deregulare crearono disoccupazione. Così disoccupazione a casa, delocalizzazione del lavoro ed un terzo componente: un cambiamento tecnologico, una deindustrializzazione attraverso l’automazione e la robotizzazione. Fu questa la strategia per stroncare i lavoratori.
Questo fu un assalto ideologico ma anche economico. Per me il neoliberismo è questo: è un progetto politico e io credo che la borghesia e i capitalisti l’abbiano messo in atto a poco a poco.
Non credo che abbiano iniziato leggendo le teorie di Hayek o qualcosa del genere, credo che semplicemente in maniera intuitiva abbiano detto ”Dobbiamo sconfiggere i lavoratori, come facciamo?”. E poi hanno scoperto che esisteva una teoria che giustificava tutto questo, che l’avrebbe supportato.
Dalla pubblicazione di “Breve storia del capitalismo” nel 2005 è stato versato molto inchiostro su tutto questo. Sembrano esserci due fronti principali: gli accademici che sono più interessati nell storia intellettuale del neoliberismo e persone la cui preoccupazione sta nel “neoliberismo attualmente esistente”. Dove ti posizioni?
C’è una tendenza nelle scienze sociali, alla quale tendo a resistere, di cercare la “teoria del proiettile-singolo” di qualcosa. Ci sono alcune persone che dicono che il neoliberismo è un’ideologia e così scrivono una storia ideologica di questo.
Una versione di questo è il tema della governamentalità di Foucault che vede le tendenze neoliberiste già presenti nel 18esimo secolo. Ma se si tratta il neoliberismo solo come un’idea o una serie di pratiche limitate di governamentalità, si troveranno moltissimi precursori.
Ciò che manca qui è il modo in cui la classe capitalista ha organizzato i propri sforzi durante gli anni 70 e i primi anni 80. Io credo che sarebbe giusto dire che al tempo – nel mondo anglosassone – la classe capitalista divenne molto unita.
Erano d’accordo su molte cose, come il bisogno di una forza politica che li rappresentasse davvero. Così si comprendono la presa del partito repubblicano e il tentativo di sottomettere, almeno in parte, il partito democratico.
A partire dagli anni 70 la corte suprema prese diverse decisioni che permettevano alla classe capitalista di comprare le elezioni più facilmente di quanto non avesse potuto fare in passato.
Per fare un esempio, si può guardare alle riforme sul finanziamento delle campagne elettorali che hanno trattato i contributi elettorali come una forma di libertà di espressione. Negli Stati Uniti c’è una lunga tradizione di capitalisti che comprano le elezioni ma adesso è stato legalizzato ciò che prima era fatto sottobanco come corruzione.
Soprattutto io penso che questo periodo sia stato definito da ampi movimenti che attraversavano diversi fronti ideologici e politici. E il solo modo per spiegare l’ampiezza di questo movimento è riconoscendo l’alto livello di solidarietà all’interno della classe capitalista. Il capitale riorganizzò il suo potere in un tentativo disperato di recuperare la sua ricchezza economica e la sua influenza, che era stata seriamente erosa tra la fine degli anni 60 e durante i 70.
Ci sono state numerose crisi dal 2007. In che modo la storia e il concetto del neoliberismo ci aiuta a capirle?
Ci sono state molte poche crisi tra il 1945 e il 1973; ci sono stati momenti difficili ma non grandi crisi. La svolta verso politiche neoliberiste avvenne in bel mezzo della crisi degli anni 70 e l’intero sistema ha subito una serie di crisi da allora. E naturalmente le crisi producono le condizioni delle future crisi.
Nel 1982 -85 ci fu una crisi del debito in Messico, Brasile, Ecuador, fondamentalmente in tutti i paesi in via di sviluppo, inclusa la Polonia. Nel 1987-88 ci sono state grosse crisi negli Stati Uniti delle istituzioni creditizie. Ci fu una ampia crisi in Svezia nel 1990, e tutte le banche dovettero essere nazionalizzate.
In seguito ci furono l’Indonesia e il Sud Est Asiatico nel 1997-98, e poi la crisi si spostò in Russia, in Brasile ed infine colpì l’Argentina nel 2001-2.
Ci furono problemi negli Stati Uniti nel 2001 che furono risolti spostando il denaro dal mercato azionario a quello immobiliare. Ma nel 2007-8 il mercato immobiliare implose, e così avemmo la crisi anche qui.
Se guardi una mappa del mondo puoi vedere le tendenze delle crisi muoversi in giro per i vari paesi. Pensando al neoliberismo è utile comprendere queste tendenze.
Una delle grandi manovre di neoliberalizzazione fu espellere tutti i keynesiani dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale nel 1982 – una pulizia totale di tutti i consiglieri economici che abbracciavano una visione keynesiana.
Furono rimpiazzati da economisti classici fedeli alla teoria dell’offerta e la prima cosa che fecero fu di decidere che da quel momento il FMI avrebbe dovuto seguire una politica di aggiustamento strutturale ogni qual volta e ovunque ci fosse stata una crisi.
Nel 1982, come già accennato, ci fu una crisi del debito in Messico. Il FMI disse “Vi salveremo”. In realtà ciò che stavano facendo era salvare le banche d’investimento di New York e implementare una politica di austerità.
La popolazione messicana soffrì una perdita del 25% del suo standard di vita nei 4 anni successivi al 1982 come risultato delle politiche di aggiustamento strutturale del FMI.
Da allora il Messico ha subito circa quattro aggiustamenti strutturali. Molti altri paesi ne hanno subiti più di uno. Questa è diventata una pratica standard.
Cosa stanno facendo alla Grecia adesso? E’ quasi una copia di quello che fecero al messico nel 1982, soltanto che lo fanno in maniera più scaltra. Ma questo è quello che accadde negli sStati Uniti nel 2007-8. Salvarono le banche e fecero pagare la popolazione attraverso politiche di austerità.
C’è qualcosa riguardo le crisi recenti e i modi in cui sono state gestite dalla classe dominante che ti ha fatto ripensare la tua teoria sul neoliberismo?
Intanto, non credo che la solidarietà all’interno della classe capitalista sia quella che era. Da un punto di vista geopolitico, gli Stati Uniti non sono in una posizione di prendere iniziative globali come lo erano negli anni 70.
Io penso che stiamo vedendo una regionalizzazione delle strutture del potere globale all’interno del potere statale – egemonie regionali come la Germania in Europa, il Brasile in America Latina, la Cina in Asia.
Ovviamente, gli Stati Uniti hanno ancora una posizione globale, ma i tempi sono cambiati. Obama può andare al G20 e dire “Dovremmo fare questo”, e Angela Merkel può dire “Noi non lo faremo”. Questo non sarebbe accaduto negli anni 70.
Così la situazione geopolitica è diventata più regionalizzata, c’è maggiore autonomia. Io credo che questo in parte sia un risultato della fine della Guerra Fredda. Paesi come la Germania non si affidano più agli Stati Uniti per essere protetti.
Inoltre, quella che è stata chiamata “la nuova classe capitalista” formata da Bill Gates, Amazon, e della Silicon Valley ha una politica differente da quella rispetto a quella tradizionale legata al petrolio e all’energia.
Come risultato tendono ad andare ognuno nella propria direzione, perciò c’è molta rivalità tra diversi settori, per dire, energia e finanzia, e energia e la Silicon Valley e così proseguendo. Ci sono serie divisioni che sono evidenti su una cosa tipo il cambiamento climatico, per esempio.
L’altra cosa che io reputo cruciale è che l’offensiva neoliberista non passò senza una forte resistenza. Ci fu una resistenza di massa da parte della classe lavoratrice, dai partiti comunisti in Europa, e così via.
Ma potrei dire che all’inizio degli anni 80 la battaglia era stata persa. Così, nella misura in cui la resistenza era scomparsa, la classe lavoratrice non aveva più il potere che aveva avuto prima, la solidarietà all’interno della classe dominante non era più necessaria.
Non devono più unirsi e fare qualcosa contro le battaglie dal basso perchè non c’è più alcuna minaccia. La classe dominante sta facendo molto bene e quindi non ha bisogno di cambiare niente.
Eppure, mentre la classe capitalista sta facendo molto bene, il capitalismo sta facendo molto male. I tassi di profitto hanno recuperato, ma i tassi di reinvestimento sono tremendamente bassi, così una sacco di denaro non sta tornando indietro nella produzione e sta fluendo nell’appropriazione di terre e nell’acquisizione di asset.
Parliamo di resistenza. Nel tuo lavoro, mostri quell’apparente paradosso che il violento attacco neoliberista ha proceduto in parallelo con un declino della lotta di classe – perlomeno nel Nord del mondo – a favore di “nuovi movimenti sociali” per la libertà individuale. Potresti chiarirci come secondo te il neoliberismo ha favorito l’ascesa di certe forme di resistenza?
Questa è una frase su cui pensare a lungo. Cosa succede se ogni modello di produzione dominante, con la sua particolare configurazione politica, crea un modello di opposizione come una sua immagine allo specchio.
Durante l’era dell’organizzazione fordista del processo produttivo, l’immagine specchio erano i grandi movimenti sindacali centralizzati e i partiti politici democraticamente centralisti.
La riorganizzazione del processo di produzione e la svolta verso l’accumulazione flessibile durante il periodo neoliberale ha prodotto una sinistra che è, in molti modi, il suo specchio: che fa rete, decentralizzata, non gerarchizzata. Penso che sia molto interessante.
E in una certa misura l’immagine allo specchio conferma quello che invece sta provando a distruggere. Alla fine penso che i sindacati sostennero il fordismo.
Io credo che molta della sinistra oggi, essendo molto autonoma ed anarchica, stia rafforzando la fase finale del neoliberismo. A molte di persone nella sinistra non piace sentirlo.
Ma ovviamente nasce una questione: c’è un modo di organizzarsi che non sia un’immagine allo specchio? Possiamo rompere quello specchio e trovare altro, che non sia giocare in mano al neoliberismo?
La resistenza al neoliberismo può avvenire in molti modi differenti. Nel mio lavoro io metto sempre l’accento sul fatto che il punto in cui il valore si realizza è anche un punto di tensione. Il valore si produce nel processo di lavoro, e questo è un aspetto molto importante della lotta di classe. Ma il valore è realizzato nel mercato tramite la vendita, e c’è molta politica in questo.
Molta resistenza all’accumulazione capitalista avviene non solo nel processo di produzione ma anche tramite il consumo e la consapevolezza di quel valore.
Prendete una fabbrica di auto: le grandi fabbriche impiegavano circa 25.000 persone; oggi ne impiegano 5.000 perché la tecnologia ha ridotto il bisogno di lavoratori. Perciò più lavoratori vengono rimossi dalla sfera delle produzione, sempre di più ne vengono spinti nella vita urbana.
Il punto principale di scontento nella dinamica capitalista si sta spostando in maniera crescente dalle lotte sulla realizzazione del valore – verso la politica della vita quotidiana in città.
I lavoratori ovviamente contano e ci sono molte questioni che sono cruciali. Se siamo a Shenzhen in Cina le lotte sul processo lavorativo sono dominanti. E negli USA dovremmo aver supportato lo sciopero a Verizon, ad esempio.
Ma in molte parti del mondo le lotte sulla qualità della vita quotidiana sono dominanti. Guardate alle grandi lotte negli ultimi dieci-quindici anni: una cosa come Gezi Park a Istanbul non è stata una lotta dei lavoratori, è stato lo scontento verso la politica della vita quotidiana e la mancanza di democrazia e di processi decisionali; nelle rivolte nelle città brasiliane nel 2013 c’era ancora una volta il malcontento verso la politica della vita quotidiana: trasporti, possibilità e lo spendere così tanto denaro in grandi stadi mentre non si sta spendendo nulla nel costruire scuole, ospedali e case a buon mercato. Le rivolte che abbiamo visto a Londra, Parigi e Stoccolma non riguardano il processo lavorativo, ma la politica della vita quotidiana.
Questa politica è parecchio differente dalla politica che esiste nel processo di produzione. Nel processo di produzione c’è il capitale contro il lavoro. Le lotte sulla qualità della vita urbana sono meno chiare nella loro configurazione di classe.
Chiare politiche di classe, che di solito vengono da una comprensione del processo di produzione, divengono teoricamente confuse quando si fanno più realistiche. È una questione di classe ma non nel senso classico.
Pensi che parliamo troppo del neoliberismo e troppo poco del capitalismo? Quando è appropriato usare l’uno o l’altro termine, e quali sono i rischi che si corrono nel sovrapporli?
Molti liberal dicono che il neoliberismo è andato troppo in là in termini di diseguaglianza di reddito, ed anche con le privatizzazioni, che ci sono un sacco di beni comuni di cui dovremmo prenderci cura, come l’ambiente.
C’è una gran varietà di modi per parlare del capitalismo, come la sharing economy, che si è rivelata altamente capitalizzata e molto sfruttatrice.
C’è la nozione di capitalismo etico, che si è rivelato essere semplicemente un modo ragionevole di essere onesti invece che di rubare. Perciò c’è la possibilità nella testa di alcune persone di un qualche tipo di riforma del neoliberismo in qualche altra forma di capitalismo.
Io penso che sia possibile fare un capitalismo migliore di quello che esiste adesso. Ma non molto.
I problemi fondamentali sono oggi talmente profondi che non c’è modo di andare avanti senza un forte movimento anticapitalista. Perciò vorrei porre la questione in termini anticapitalisti invece che in termini anti–neoliberisti.
E credo che il pericolo sia, quando ascolto le persone parlare di anti-neoliberismo, che non ci sia la percezione che è proprio il capitalismo stesso, in qualsiasi forma si presenti, il problema.
La maggior parte degli anti- neoliberisti fallisce nel far fronte ai macro-problemi della crescita composta infinita – i problemi ecologici, politici ed economici. Perciò preferirei parlare di anticapitalismo che di anti-neoliberismo.
postilla
L'analisi critica di David Harvey al neoliberismo (declinazione italiana di ciò che nel mondo anglosassone si definisce "neoliberalism") è un classico, soprattutto per chi si occupa di città e territorio. Lo studioso, che è uno dei più interessanti utilizzatori del pensiero di Gramsci, si è occupato nei suoi numerosi scritti dei rapporti tra trasformazioni del sistema economico sociale e condizioni della città e del territorio. A proposito di questa intervista, (il testo originale è raggiungibile a questo link) vogliamo esprimere un piccolo stupore e due forti sottolineature.
Lo stupore è per il fatto che, nell'illustrare il percorso di formazione della strategia neoliberista, Harvey non faccia riferimento all'attore del suo inizio: la Mont Pèlerin Society. Rinviamo, a questo proposito, a uno scritto di Luciano Gallino.
La prima sottolineatura riguarda l'attenzione di Harvey al fatto che la resistenza alla marcia trionfale del neoliberismo sia oggi espressa più dalle tensioni che nascono dal disagio sofferto dalle persone per le condizioni della città e del territorio che dalle condizioni del lavoro: più dalla città che dalla fabbrica.
La seconda sottolineatura è dell'ultima frase dell'intervista: dove ricorda che l'avversario non è il neoliberalismo, ma il capitalismo, il Proteo di cui il neoliberalismo è l'attuale incarnazione.
. Il manifesto, 28 agosto 2016
Ho avuto un déjà-vu. Lo speciale di Rai1 sul terremoto ha preso nettamente le distanze dal copione consolidato di tv del dolore che, vampirescamente, cerca di estrarre audience dall’esibizione oscena della sofferenza dei morti, dei feriti, dei superstiti. Lo speciale era declinato in tutt’altra chiave.
Un Bruno Vespa, carico e vitale, dirigeva il dibattito alternando didattica ed ottimismo. Il succo di tutto era il terremoto come opportunità. Opportunità economica di ricostruzione, volano dell’economia, possibile incremento del Pil. Così come quella guerra che gli economisti raccomandano, in casi di crisi deflazionistica come l’attuale, come unica soluzione per la ripresa economica.
La disgrazia è, in sé, un’opportunità. Sempre. Perché, in una crisi di consumi dovuta alla svalutazione dei salari, sposta la produzione dal voluttuario al necessario. Dove c’è guerra o morti ci sono consumi coatti: armamenti, ricostruzione edilizia. Ma anche casse da morto, ospitalità e catering degli sfollati, edilizia pubblica.
Una per tutte. La scuola antisismica di Amatrice, la cui messa in sicurezza aveva già rappresentato risorse per l’edilizia è nuovamente crollata per creare, bontà sua, nuovi posti di lavoro. Ed infatti, anche l’interlocutore di Vespa, il ministro Delrio, sembrava consapevole di quanto un governo in crisi debba essere grato alle catastrofi che possono cancellare, in nome della solidarietà, il conflitto sociale e capovolgere, con lo sfruttamento delle industrie della morte, la morte dell’economia.
Tutto questo era un déjà-vu, perché mi ricordava il cinismo di una commedia all’italiana d’epoca, tutta costruita sul personaggio poliedrico di Alberto Sordi, «Finché c’è guerra c’è speranza» in cui, un trafficante d’armi, trae dalla guerra le sue opportunità. C’è però una differenza. Il film era la denuncia del cinismo di un singolo. Qui il ministro Delrio ha dato all’equazione terremoto = opportunità il suo imprinting istituzionale dichiarando: «Oggi l’Aquila è il più grande cantiere d’Europa». E a ben vendere, in un’Italia che ha da tempo privatizzato le sue industrie pesanti, l’unica industria statale produttiva è stata, negli anni scorsi, la Protezione Civile di Bertolaso.
Le reazioni alla trasmissione si possono dividere in due gruppi.
Da un lato lo sdegno della rete che ha bollato Vespa di sciacallaggio. Dall’altro la reazione misurata della stampa che, se non ha ignorato l’evento, si è domandata invece dove risieda lo scandalo.
Vespa ha rivelato verità che qualsiasi economista potrebbe sottoscrivere. Anche Keynes. In una realtà economica ingessata da vincoli di bilancio sulla spesa pubblica, la spesa coatta che scaturisce dal terremoto, rappresenta comunque un’opportunità di lavoro.
Qual è la mia opinione in proposito? Non mi riconosco né nell’una, né nell’altra reazione.
Vespa non è cinico, è cinico il sistema che la trasmissione ha portato alla luce. La riprova è la difesa d’ufficio della stampa nei confronti di Vespa in quanto dice la verità. La verità è sempre legata ad una visione del mondo, un’episteme, uno spirito del tempo.
Rivelando le aspettative del potere in crisi, Vespa non è altro che il fanciullo che denuncia la nudità dell’imperatore, nella famosa favola. E lo fa strizzandogli l’occhio per dire «anch’io ho capito tutto».
Siamo di fronte all’ennesimo caso in cui l’opinione pubblica si spacca perché si muove sulla base di visioni del mondo diverse. La massa risponde ancora a quell’empatia che fa sì che ogni essere vivente, condivida con i suoi neuroni specchio le sofferenze del prossimo. Le élite rivelano invece uno spirito centrato sul bene supremo dell’economia.
Ci sono catastrofi che sacrificando il singolo, giovano alla comunità. Anche Bush, dopo l’11 settembre, ha parlato di opportunità. Ma sono queste le opportunità che vogliamo?
Da tempo abbiamo identificato la casta con chi spende e spande, con chi gira in auto blu e fa la cresta sui pranzi ufficiali.
Il senso è che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che, se questo mondo non funziona è per lo spreco e la corruzione.
E se invece cominciassimo a pensare che un mondo che sacrifica i cittadini per il bene dell’economia, non è il migliore dei mondi possibili perché offende i principi primari di solidarietà e altruismo?
Foucault ci ha insegnato che il potere non è altro che l’applicazione di una forma di sapere. Ha sottoposto a critica il potere che gli era contemporaneo denunciando la biopolitica, la politica sociale, impegnata a mantenere la vita del cittadino ad ogni costo, come una forma di assoggettamento e controllo.
Ma non è forse peggio un sapere che non privilegia la vita di fronte all’esigenze superiori dell’economia?
Vespa da portavoce del sistema ha il pregio di esprimere sempre lo spirito del tempo nella sua nuda realtà. Ed è in grado di farlo perché ha da tempo accantonato l’ipocrisia di chi vuol compiacere le masse.
Ma le masse hanno a loro volta la colpa di essersi adagiate sul pensiero unico. Di fronte ad eventi che squarciano la coltre di retorica di cui il pensiero unico si ammanta per sopravvivere, ci sono due possibili reazioni. O invochiamo censura e repressione nei confronti dell’oscenità del reale, per continuare a vivere con la testa conficcata nella sabbia. O decidiamo che questo non è il migliore dei mondi possibili e nemmeno l’unico mondo possibile, e cominciamo a pensare ad un’alternativa.
«Intervista a Achille Mbembe docente di Storia e Politica all’Università Witwaterstand di Johannesburg (Sudafrica). Il suo primo libro pubblicato in castigliano è stato Necropolitica». Comune.info
, 14 agosto 2016 (c.m.c.)
Stiamo vivendo un cambiamento epocale: si trasformano le antiche nozioni di tempo e velocità e il mondo si è contratto nello spazio, forse nessun angolo della terra è più sconosciuto. Mentre invecchiano le società del nord e ringiovaniscono l’Asia e l’Africa, assieme a enormi ondate migratorie che ricordano i primi tempi della colonizzazione, cresce una grande segregazione sociale, una specie di gigantesco apartheid. La violenza economica non si esprime più nello sfruttamento del lavoratore, ma nel rendere superflua una parte importante della popolazione mondiale.
Achille Mbembe, storico camerunense e docente all’università sudafricana di Johannesburg, uno degli studiosi più brillanti nell’interpretazione non eurocentrica del cambiamento in corso, rileva però – dal suo interessante punto di osservazione – che c’è anche un emergere di piccole insurrezioni in risposta alla “necropolitica” e alla brutalizzazione del corpo e del sistema nervoso tipica del capitalismo contemporaneo. Nascono nuove forme di resistenza legate alla riabilitazione degli affetti, delle emozioni e delle passioni. In una gran bella conversazione con il nostro amico Amador Fernández-Savater, Mbembe la chiama “la politica della visceralità”.
Crítica de la razón negra. Ensayo sobre el racismo contemporáneo (Critica della ragione nera. Saggio sul razzismo contemporaneo) di Achille Mbembe, pubblicato da Ned Ediciones e Futuro Anterior, è un trattato della portata di Orientalismo di Edward Said. Si tratta, anzitutto, di un’archeologia dell’enunciato eurocentrico che ha costruito un’idea dell’Africa come continente cannibale e barbaro, come quel territorio che poteva solamente fornire al capitalismo (ancora lo fa) uomini-cosa-merce, il suo volto oscuro.
In secondo luogo, il libro è un esercizio (etico, estetico, poetico) che, nella stessa tradizione di Said e degli studi culturali, si propone di pensarsi, conoscersi e dis-conoscersi “al margine” di questo sguardo imperiale europeo. Vale a dire di ri-costruire una memoria “dal basso” che sani e de-vittimizzi – è lo stesso – capace di progettare un futuro comune. Mbembe riscatta qui la letteratura dell’altra ragione negra, i poeti e i romanzieri, Fanon e Césaire, in un lavoro serio e delizioso, potente ed estremo, doloroso e foriero di speranze.
In questo libro analizza, infine, la vigenza delle pratiche coloniali/imperiali che oggi “inselvatichiscono” il mondo. Ciò che l’autore chiama e invita a pensare come «il divenire nero del mondo». Questo momento storico in cui, come dice in questa stessa intervista, «la distinzione tra l’essere umano, la cosa e la merce tende a sparire e a essere cancellata, senza che nessuno – neri, bianchi, donne, uomini – ne possa sfuggire».
Achille Mbembe è nato in Camerun nel 1957. È docente di Storia e Politica all’Università Witwaterstand di Johannesburg (Sudafrica). Il suo primo libro pubblicato in castigliano è stato Necropolitica, dove analizza le politiche di adeguamento e di espulsione che sono state sperimentate, per prime, nel continente africano negli anni 90 e che oggi si diffondono dappertutto. Gli abbiamo rivolto alcune domande.
Lei parla di “cambiamento epocale”, sulla base di cosa? Quali fattori lo indicano?
In effetti, credo che viviamo un cambio di epoca. Da un lato, il mondo si è rimpicciolito, si è contratto nello spazio, abbiamo, in qualche modo, toccato i suoi limiti fisici, fino al punto in cui, probabilmente, nessun angolo della terra è sconosciuto, è disabitato o non è sfruttato. Allo stesso tempo, la storia umana attraversa una fase caratterizzata da quello che chiamo la ripopolazione del pianeta, che demograficamente si traduce in un invecchiamento delle società del nord e in un ringiovanimento del continente africano e asiatico in particolare.
Per quanto riguarda la struttura delle popolazioni, stiamo assistendo alla crescita di una grande segregazione sociale, una specie di gigantesco apartheid, assieme a enormi ondate migratorie su scala planetaria, che ricordano i primi tempi della colonizzazione. E, riguardo alle trasformazioni tecnologiche, una delle loro principali conseguenze è la trasformazione delle nostre antiche nozioni di tempo e di velocità.
Politicamente, stiamo entrando in un mondo nuovo, caratterizzato purtroppo dalla proliferazione di frontiere e di zone esclusivamente militari. Questo mondo si rafforza grazie al «fantasma del nemico», di cui parlo nel mio ultimo libro, e all’emergenza di uno Stato globale securitario che cerca di normalizzare uno stato di eccezione a scala mondiale, dove i concetti di Diritto e di libertà, che erano inseparabili dal progetto della modernità, rimangono sospesi.
Ci sono, pertanto, molti fattori che indicano che stiamo entrando in mondo diverso, altamente digitalizzato e finanziarizzato, dove la violenza economica non si esprime più nello sfruttamento del lavoratore, ma nel rendere superflua una parte importante della popolazione mondiale. Un mondo che mette radicalmente in discussione il progetto democratico ereditato dall’Illuminismo.
Necropolitica: politiche di morte
Come descriverebbe la violenza del capitale in questo cambio epocale? Nel suo ultimo libro, lei ha definito il neoliberalismo come un «divenire negro del mondo»: potrebbe soffermarsi su questo?
Diciamo che nei miei libri voglio far convergere due tradizioni del pensiero critico che da un po’ di tempo sembravano divergere: da un lato, la tradizione del pensiero critico relativo alla formazione e alla lotta di classe; dall’altro lato, la tradizione del pensiero critico che cerca di capire la formazione delle razze. Queste due tradizioni sono state spesso contrapposte, quando questo, già solo in termini storici, è insostenibile.
Se studiamo attentamente la storia del capitalismo, ci rendiamo subito conto che, per funzionare, fin dai suoi inizi ha avuto la necessità di produrre ciò che chiamo «sussidi razziali». Il capitalismo ha come funzione genetica la produzione di razze che, allo stesso tempo, sono classi. La razza non è solamente un’aggiunta del capitalismo, ma qualcosa di inscritto nel suo sviluppo genetico. Nel periodo primitivo del capitalismo, quello che va dal XV secolo fino alla Rivoluzione Industriale, la riduzione in schiavitù dei neri ha costituito il più grande esempio della connessione tra la classe e la razza. I miei lavori si sono incentrati in particolare su quel momento storico e sulle sue figure.
La tesi che sviluppo nel mio nuovo libro è che, nelle condizioni attuali, il modo in cui i neri sono stati trattati in quel primo periodo si è esteso al di là dei neri stessi. Il «divenire nero del mondo» è quel momento in cui la distinzione tra l’essere umano, la cosa e la merce tende a sparire, a essere cancellata, senza che nessuno – neri, bianchi, donne, uomini – vi possa sfuggire.
Questo ci porta al suo concetto di “necropolitica” (o politica della morte); come lo spiegherebbe?
Sono due cose. La “necropolitica” è connessa al concetto di “necroeconomia”. Parliamo di necroeconomia nel senso che una delle funzioni del capitalismo attuale è produrre su vasta scala una popolazione superflua. Una popolazione che il capitalismo non ha più necessità di sfruttare, che però va gestita in qualche modo. Un modo di disporre di questa eccedenza di popolazione è quella di esporla a ogni sorta di pericoli e rischi, spesso mortali. Un’altra tecnica consiste nell’isolarla e rinchiuderla in zone di controllo. È la pratica della “zonificazione”.
È significativo constatare che, nel corso degli ultimi 25 anni, la popolazione carceraria non ha smesso di crescere negli Stati Uniti, in Cina, in Francia, ecc . In alcuni paesi del nord, la combinazione tra le tecniche di incarcerazione e la ricerca del profitto, ha raggiunto un enorme sviluppo. C’è tutta un’economia della carcerazione, un’economia a scala mondiale, che si nutre della “securizzazione”, quell’ordine che esige che ci sia una parte del mondo rinchiusa. La necropolitica sarebbe, quindi, l’esatta rappresentazione politica di questa forma di violenza del capitalismo contemporaneo.
A proposito di questo, vorremmo chiedere la sua opinione sull’attuale «crisi dei rifugiati»: a suo giudizio, qual è stato il ruolo dei governi? Cosa ne pensa della risposta della cittadinanza europea?
È proprio a partire dalla necropolitica e dalla necroeconomia che si può comprendere la «crisi dei rifugiati». Questa crisi è il diretto risultato di due tipi di catastrofi: le guerre e le devastazioni ecologiche, che si sostengono reciprocamente. Le guerre sono fattori di crisi ecologiche e una delle conseguenze delle crisi ecologiche è il fomentare guerre.
La «crisi dei rifugiati» ha anche a che vedere con quello che prima ho chiamato il «ripopolamento del mondo», nella misura in cui le società del nord invecchiano, aumenta la loro necessità di ripopolarsi, e la migrazione illegale è una parte essenziale di questo processo, che sicuramente si accentuerà nel corso dei prossimi anni. A questo proposito, la reazione dell’Europa è schizofrenica: alza muri attorno al continente, però ha bisogno dell’immigrazione per non invecchiare.
Associato al concetto di “necropolitica” ne appare nei suoi lavori un altro impotante, quello di «governo privato indiretto». Cosa ci può dire al riguardo?
Quel concetto è stato elaborato negli anni Novanta, in un’epoca in cui il continente africano era completamente sotto il potere del FMI e della Banca Mondiale. Era un periodo di grandi aggiustamenti strutturali che hanno colpito duramente l’economia africana, in modo simile all’attuale caso greco: un indebitamento al di fuori di qualsiasi norma, la sospensione della sovranità nazionale, la delega di tutto il potere sovrano a istanze non-democratiche, la privatizzazione di tutto, in particolare del settore pubblico, ecc. L’idea di governo privato indiretto indica una forma di governo del debito che sviluppa, al di fuori di qualsiasi quadro istituzionale, una tecnologia dell’espropriazione in paesi economicamente dipendenti, privatizzando il “comune” e scaricando sugli individui la responsabilità di ogni male (“è stata colpa vostra”).
Questo concetto, elaborato nel contesto del continente africano negli anni Novanta, può spiegare le attuali tendenze globali e si può applicare in altre parti del pianeta? In Messico, ad esempio, molta gente segue attentamene i suoi lavori per la forte risonanza delle sue analisi con quanto accade lì.
Penso che oggi, a scala globale, sia possibile continuare a pensare questo concetto. Il governo privato indiretto a livello mondiale è un movimento storico delle élite che aspira, in definitiva, ad abolire il politico. Distruggere ogni spazio e ogni risorsa – simbolica e materiale – dove sia possibile pensare e immaginare cosa fare del legame che ci unisce agli altri e alle generazioni che verranno. Per questo, si procede attraverso logiche di isolamento – separazione tra paesi, tra classi e tra individui – e di concentrazione del capitale laddove si può sfuggire a ogni controllo democratico – trasferimento di ricchezze e di capitali verso paradisi fiscali non regolamentati, ecc. Per assicurarsi il successo, questo movimento non può prescindere dal potere militare: la protezione della proprietà privata e la militarizzazione sono oggi correlativi, vanno intesi come due ambiti di uno stesso fenomeno.
Fin dagli anni Settanta, la trasformazione del capitalismo ha favorito sempre più la comparsa di uno Stato privato, dove il potere pubblico nel senso classico, quello che non appartiene a nessuno perché appartiene a tutti, è stato progressivamente sequestrato a beneficio di poteri privati. Oggi risulta possibile comprare uno Stato senza che ci sia un grande scandalo e gli Stati Uniti sono un buon esempio: le leggi si comprano immettendo capitali nel meccanismo legislativo, i seggi del congresso si vendono, ecc.
Questa legittimazione della corruzione all’interno degli Stati occidentali svuota il senso dello Stato di Diritto e legittima il crimine all’interno delle stesse istituzioni. Non parliamo più di corruzione come di una malattia dello Stato: la corruzione è lo Stato stesso e, in questo senso, non c’è più un al di fuori della legge. Il deterioramento dello Stato di Diritto produce esclusivamente politiche predatorie, che invalidano ogni distinzione tra il crimine e le istituzioni.
Resistenza viscerale
Dall’idea foucaultiana del potere come “relazione”, nel suo saggio sulla necropolitica si avverte la mancanza di maggiori riferimenti alle resistenze, alle pratiche di vita della gente de abajo. Si può descrivere il potere senza descrivere le resistenze?
No, naturalmente. Non si può fare questo tipo di descrizione senza pensare alle forme di resistenza che sono correlative a qualsiasi potere. I miei primi lavori, che purtroppo non sono ancora stati tradotti, erano incentrati proprio sulle resistenze verso il potere e anche sui loro limiti.
Cosa dire delle attuali forme di resistenza alla necropolitica e alla necroeconomia? Certamente sono molto variegate, dipendono dalle situazioni locali e dai contesti. Prenderò come esempio il caso sudafricano. Mi interessa molto il modo in cui in questo paese le resistenze si organizzano a partire dall’occupazione degli spazi, in una ricerca di visibilità là dove il potere vuole relegarci e allontanarci. Le forme di resistenza che si stanno sviluppando in quel paese hanno a che vedere con la lotta dei corpi per farsi presenti (corporalmente, fisicamente, visibilmente) di fronte alla produzione di assenza e di silenzio da parte del potere. Sono forme esemplari di resistenza perché oggi il potere funziona producendo assenza: invisibilità, silenzio, oblio.
Durante gli ultimi anni abbiamo assistito in Sudafrica a un grande movimento chiamato la decolonizzazione, una decolonizzazione simbolica che ha operato, ad esempio, chiamando a distruggere le statue del colonialismo, ma anche lottando per trasformare il contenuto del sapere e delle forme di produzione del sapere; riattivando la memoria e resistendo all’oblio, ecc. In Sudafrica, le resistenze passano attraverso la riabilitazione della voce, per l’espressione artistica e simbolica, sfidano il tentativo del potere di ridurre al silenzio le voci che non vuole ascoltare. In quella regione del mondo stiamo vivendo un ciclo di lotte che io chiamo le politiche della visceralità.
In cosa consistono queste «lotte della visceralità»?
C’è un emergere di piccole insurrezioni. Queste micro-insurrezioni assumono una forma viscerale, in risposta alla brutalizzazione del sistema nervoso tipica del capitalismo contemporaneo. Una delle forme di violenza del capitalismo contemporaneo consiste nel brutalizzare i nervi. E, come risposta, emergono nuove forme di resistenza legate alla riabilitazione degli affetti, delle emozioni, delle passioni e che convergono in tutto ciò che io definisco la «politica della visceralità».
È interessante vedere come in molti luoghi, tanto nelle lotte della popolazione nera in Sudafrica come negli Stati Uniti, i nuovi immaginari di lotta cercano principalmente la riabilitazione del corpo. Negli Stati Uniti, il corpo nero si trova al centro degli attacchi del potere, da ciò che è simbolico – il suo disonore, la sua animalità – fino alla normalizzazione dell’assassinio. Il corpo nero è un corpo di animale, non un corpo di essere umano. Lì, la polizia uccide neri quasi ogni settimana, senza che quasi esistano statistiche che ne diano conto. La generalizzazione dell’assassinio è inscritta nella prassi della polizia. L’amministrazione della pena di morte si è svincolata dall’ambito del Diritto per diventare una pratica puramente poliziesca. Quei corpi neri sono corpi senza giurisprudenza, qualcosa più simile a oggetti che il potere deve gestire.
Lei analizza come il lavoro della memoria sia stato per molti popoli un esercizio di cura e di auto-cura al fine di nominarsi in modo autonomo. Tuttavia, fino a che punto queste memorie sono elaborate o scritte dagli “sconfitti”?
La memoria popolare non racconta mai storie nitide, non ci sono memorie pure e trasparenti. Non c’è memoria propria. La memoria è sempre sporca, impura, è sempre un collage. Nella memoria dei popoli colonizzati troviamo numerosi frammenti di ciò che a un certo punto è stato infranto e che non può più essere ricostruito nella sua unità originaria. Di conseguenza, la chiave di tutta la memoria al servizio dell’emancipazione sta nel sapere come vivere ciò che è perduto, con quale livello di perdita possiamo vivere.
Ci sono perdite radicali delle quali non si può recuperare nulla e, tuttavia, la vita continua e dobbiamo trovare dei meccanismi per rendere presente in qualche modo questa perdita. Da una casa incendiata, possiamo recuperare alcuni oggetti e perfino ricostruire la casa, ma ci sono delle cose che non potremo mai sostituire perché sono uniche, perché con esse mantenevamo una relazione unica. Bisogna vivere con questa perdita, con questo debito che non possiamo più pagare. La memoria collettiva dei popoli colonizzati cerca i modi per indicare e vivere quello che non è sopravvissuto all’incendio.
Come ricostruire, in chiave di potenza, la lacerante storia di spoliazione e violenza ed evitare l’auto-rappresentazione di sè come vittime perpetue?
È una questione centrale. La coscienza vittimista è una coscienza pericolosa, perché è una coscienza ammutolita dal risentimento e dal desiderio di vendetta, che cerca sempre di infliggere all’altro – un altro di solito più debole, non necessariamente il colpevole reale – la quantità di violenza che ha sofferto. Penso che c’è un pericolo in questa forma vittimista di coscienza. Il problema è come la gente che ha subito un trauma storico e reale, come una guerra o un genocidio, può ricordare quanto le è successo e utilizzare la riserva simbolica della catastrofe storica per progettare un futuro che rompa con la ripetizione delle violenze sofferte. È un cammino che si potrebbe quasi dire di ascesi. Una ricerca di “purificazione”, di identificazione degli elementi della tragedia per non ripeterla.
C’è chi parla di un “uso strategico dell’essenzialismo”, di un uso tattico dell’identità come leva nella costruzione di un soggetto politico. Lei, come si pone in questi dibattiti sull’identità?
Diciamo che, se riguardiamo la storia delle lotte contro la discriminazione razziale, c’è spesso un momento in cui la resistenza si costruisce attraverso una certa essenzializzazione della razza. Si è visto, per esempio, negli Stati Uniti con Marcus Garvey, o in Francia nel «movimento della negritudine» dove si trattava proprio di rivalorizzare la condizione nera. Sono movimenti che cercano di emanciparsi dalla condizione di oggetto, ritraducendo in modo positivo quegli attributi che ci condannano a essere oggetti – la negritudine – in un segno umano. Questo è il ruolo strategico della funzione essenzialista.
Il problema si verifica quando l’essenzialismo ci impedisce di continuare il cammino che persone come Fanon consideravano l’orizzonte delle nostre lotte. Qual è questo orizzonte? Quello che apre la strada verso una nuova condizione, dove la razza non ha più importanza, dove la differenza non conta più, perché tutti siamo diventati semplicemente esseri umani: il passaggio dall’indifferenza alla differenza. In questo senso, mi considero “fanonista”, anche se capisco che, in determinate circostanze, ci siano dei movimenti che utilizzano strategicamente l’essenzialismo come un modo per rafforzare un’identità collettiva.
Per concludere, il capitalismo si è rinnovato, aggiornando e rendendo sofisticate le violenze necropolitiche del colonialismo. Lo hanno fatto anche quelli che gli resistono? Abbiamo rinnovato la nostra immaginazione politica per rispondere con forme di azione efficaci alla necropolitica del capitalismo contemporaneo?
Se riflettiamo sull’esempio africano, il XX secolo può essere suddiviso in due cicli di lotta. Dall’inizio del XX secolo fino agli anni Trenta, abbiamo vissuto una forma di lotta che chiamerei acefala, legata al locale, alle condizioni di riproduzione della vita quotidiana. Dopo la seconda guerra mondiale, entriamo in un ciclo di lotta verticale, rappresentata dai sindacati e dai partiti politici. Adesso sembra che siamo ritornati alle forme acefale della lotta, lotte locali, lotte più o meno orizzontali, che insistono sul recupero della capacità di interruzione della normalità, della narrazione che ordina la normalità, che ci fa pensare che quanto accade sia normale quando non lo è.
Nel caso del sud dell’Africa, la domanda ora è come trasformare questa rottura della normalità, questa de-normalizzazione, in una nuova forma di istituzionalizzazione. Ho l’impressione che le nuove lotte acefale non riescano ad apportare risposte plausibili ed efficaci a questa domanda: come dare forma a un nuova istituzionalità, aperta e democratica, che abbia tratto lezione dai problemi causati dal verticalismo. Non penso che si possa avere democrazia senza istituzionalizzazione né rappresentanza. Sappiamo che ovunque c’è una crisi della rappresentanza, ma non credo che la risposta sia dissolverla in quanto tale, dissolvere ogni idea di rappresentanza.
In definitiva, le nostre vecchie ricette (i partiti politici, per esempio) stanno manifestando difficoltà strutturali nel preservare e nel difendere il “comune” all’interno delle attuali istituzioni e continuerà ad essere così fintanto che non ci saranno delle comunità forti che possano democratizzare la politica dal basso. I movimenti degli ultimi anni si muovono in questa direzione, anche se sono ancora legati tra di loro in modo fragile. Penso che da queste diverse resistenze acefale sorgeranno nuove proposte di istituzioni, magari non per rovesciare lo Stato, bensì per costringerlo a trasformarsi nuovamente in un organo di difesa del bene comune.
World Social Forum di Montreal dell'Oxfam. Se il mondo non cambia il suo giro aumenta sempre più l'area della povertà: eplosivo che si accumula per una deflagrazione che ci spazzerà via tutti, oppure serbatoio di speranze e asioni per un futuro diverso? Non dipende dal fatp. Il manifesto, 13 agosto 2016
Un pianeta sempre più squilibrato moltiplica le diseguaglianze fra generazioni. E scava il solco della povertà per i giovani sempre più disoccupati, sempre meno sicuri dell’accesso ai servizi.
Sono 500 milioni, nella fascia d’età compresa fra i 15 e i 24 anni, costretti a sopravvivere con meno di due dollari al giorno. È il dato più eclatante del report che Oxfam ha pubblicato in occasione dell’International Youth Day all’apertura del World Social Forum in Canada.
Il mondo è una sorta di flipper impazzito fra demografia ed economia. Le statistiche indicano che con 1,8 miliardi di giovani si è raggiunto il punto più alto della «gioventù» nella storia planetaria. Tuttavia, al massimo rinnovamento anagrafico corrisponde il più eclatante tonfo nell’indigenza proprio per i più giovani. Impoveriti globalmente, esclusi dalla “stanza dei bottoni”, primi a pagare le conseguenze della crisi, sempre più sprovvisti dell’accesso ai servizi essenziali e in futuro con livelli di Welfare evanescenti.
Oxfam lo conferma nel rapporto «I giovani e la disuguaglianza: è tempo di rendere le nuove generazioni protagoniste del proprio futuro», lanciato nel quadro della campagna «Sfida l’ingiustizia». Dimostra come siano proprio i giovani i più colpiti dagli effetti della crisi economica internazionale iniziata nel 2008: il 43% della forza lavoro giovanile a livello globale è disoccupata o vittima di retribuzioni inadeguate.
Un dato mondiale che non risparmia l’Italia. Anzi. È più che preoccupante il tasso di disoccupazione giovanile (sempre nella fascia d’età compresa tra i 15 e 24 anni): a giugno l’Istat certificava quota 36,5%. E lo scenario mondiale è tutt’altro che incoraggiante. Secondo Oxfam, anche se nel biennio 2013-2014 è aumentato del 50% il numero di governi che hanno adottato Piani nazionali per le politiche giovanili, i “nuovi abitanti” del pianeta restano penalizzati.
«Con questo nostro report – sottolinea la direttrice delle campagne di Oxfam Italia, Elisa Bacciotti – lanciamo un appello ai leader mondiali affinché rendano i giovani veri attori e motore di un cambiamento da cui tutti possano trarre beneficio».
E aggiunge: «Lavoriamo ogni giorno con migliaia di giovani e sappiamo come molti di loro siano impegnati nella costruzione di un mondo più giusto e libero dall’incubo della povertà, che colpisce tantissimi di loro, soprattutto nei paesi poveri».
Di conseguenza, urge una svolta proprio in funzione delle nuove generazioni, cioè del futuro stesso del pianeta. «Governi e società civile devono lavorare insieme ai giovani di tutto il mondo perché il peso dell’estrema disuguaglianza economica e socialenon schiacci le nuove generazioni in termini di accesso a servizi e diritti essenziali come l’istruzione, la sanità e il lavoro».
Nel mondo, quasi 126 milioni di giovani, soprattutto nei paesi poveri, sono vittime dell’analfabetismo. E in alcuni paesi le ragazze hanno una maggiore probabilità di morire di parto che di finire gli studi. Un contesto globale che richiede, quindi, una riflessione che parta proprio dai giovani per trovare nuove e diverse soluzioni.
Ecco perché Oxfam proprio in occasione del World Social Forum di Montreal ha promosso lo «Youth Summit on Inequality», incontro che a partire dai temi proposti dal report porterà giovani attivisti di Oxfam da tutto il mondo a confrontarsi per trovare possibili soluzioni e proposte, che saranno raccolte in un vero e proprio Manifesto, sottoposto al vaglio dei partecipanti al World Social Forum di Montreal.
L'Oxfam è è una delle più importanti confederazioni internazionali specializzata in aiuto umanitario e progetti di sviluppo, composta da 17 organizzazioni di Paesi diversi che collaborano con quasi 3.000 partner locali in oltre 90 paesi per individuare soluzioni durature alla povertà e all'ingiustizia
Il manifesto, 5 luglio 2016 (p.d.)
Confindustria affila le armi in vista del referendum costituzionale di ottobre e, dopo la dichiarazione di sostegno alla riforma, pubblica le ricadute negative di una possibile vittoria del No sull’economia.
Nessun riferimento a uno studio che le sostenga, numeri un po’ a casaccio verrebbe da dire.
A leggere le slide (sic) del Centro Studi di Confindustria, la vittoria del no provocherebbe in tre anni: una riduzione del Pil dell’ 1,7%, un crollo degli investimenti del 12,1%, un aumento di 430 mila poveri e un calo degli occupati di 289mila unità. Una presa di posizione che pare contraddire un primo principio di realtà: il Jobs Act, il pareggio di bilancio, le politiche fiscali a sostegno delle imprese sono state perseguite dentro un quadro istituzionale, quello attuale, che improvvisamente diviene un intoppo per il consolidamento dei benefici, legati alle suddette riforme. Dalle stime di Confindustria non è chiaro quali siano non tanto i nessi causali, impossibili da determinare ex ante, quanto le associazioni tra le variabili studiate.
I numeri presentati esulano da qualsiasi valenza «scientifica» a tal punto che non è neppure chiaro se tali effetti siano dovuti al calo di fiducia delle famiglie oppure alla evocata fuga di capitali supposta in caso di vittoria del No oppure alla somma tra i due effetti. Sarebbe utile capire in che misura l’abolizione del senato elettivo, la riduzione dei tempi di discussione parlamentare, l’accentramento delle competenze statali e la conseguente perdita di autonomia delle regioni possano incidere sulla crescita del paese. Interrogativi che non trovano una risposta nelle stime catastrofiste che l’associazione degli industriali consegna al dibattito pubblico.
E, in mancanza di un’indicazione di merito, il sospetto che l’obiettivo di Confindustria non sia quello di approfondire i contenuti della riforma, ma di confondere le acque e inquinare la discussione per difendere un rapporto organico con l’esecutivo appare tutt’altro che infondato.
D’altronde il primato dell’esecutivo sul legislativo, la predominanza del governo sul Parlamento, rispondono ad una torsione «governista» del sistema istituzionale, che renderebbe più semplice al blocco industriale rendere immediatamente «esecutive» le proprie direttive. L’accento sugli effetti negativi del No sulla stabilità del sistema politico italiano alludono ad una concezione ancillare delle istituzioni democratiche rispetto alle esigenze dei mercati.
A carte scoperte Confindustria ribadisce che l’utilità delle riforme va letta in funzione degli interessi che essa rappresenta. Inoltre, l’organizzazione padronale palesa anche la propria posizione a tutela delle prerogative di un «capitalismo straccione», come ebbe a definirlo Gramsci. Si nota infatti che in nessun discorso si punta sulla rilevanza degli investimenti ai fini di una maggiore crescita, né quali investimenti, se non per dire che diminuiranno.
Ma gli investimenti privati diminuiscono ormai da altre un decennio e le riforme strutturali tanto agognate hanno solo mosso qualche micro decimale, a dimostrazione che il tessuto imprenditoriale italiano non ne è interessato.
L’allarmismo dei Confindustriali si presenta più come una minaccia, tutta politica, che come meccanismo economico. Inoltre, il richiamo alla stabilità del quadro istituzionale è in sé ambigua, se non collegata agli esiti che pone sull’azione di governo e sulla qualità della discussione politica. Avere un esecutivo più forte e meno vincolato alla dialettica parlamentare può avere effetti negativi sull’azione di governo, indebolendo la discussione politica, il confronto e il conflitto nel merito delle proposte. Non è affatto detto che avere un esecutivo forte garantisca un percorso di crescita economico.
E sorprende la disinvoltura con cui Confindustria associ l’effetto Brexit al voto referendario, proponendo una correlazione sistemica tra due fenomeni che non hanno alcuna relazione politica. Votare no al referendum costituzionale significa semplicemente conservare l’attuale quadro istituzionale e nulla ha a che fare con la permanenza del nostro Paese nell’Unione Europea.
Se il Centro Studi volesse prendersi poi la briga di guardare da vicino le ragioni che hanno spinto la Gran Bretagna fuori dall’Ue noterebbe che è proprio dentro un sistema politico fondato sul primato del governo, e sulla rispondenza dei governi laburisti e conservatori ai principi tecnocratici, che si è consumata la Brexit.
Nessuno certo vieta a Confindustria di assumere posizioni politiche, l’unica avvertenza è di fornire alle proprie valutazioni quel briciolo di rigore metodologico, che consente di distinguere un punto di vista parziale dalla mera civetteria ideologica.
La Repubblica, 2 luglio 2016 (p.d.)
«Più che un voto contro l’Europa, la Brexit esprime soprattutto un segnale contro l’immigrazione e la globalizzazione». Grazie ai suoi studi sulla storia del debito e delle disuguaglianze, Thomas Piketty inquadra il nuovo terremoto che ha scosso l’Unione europea in un contesto più ampio di disaffezione per l’ideologia della libera circolazione e un sintomo della crisi del capitalismo. «Una tendenza internazionale nella quale però l’Europa ha le sue responsabilità» spiega l’economista francese, autore de “Il Capitale del XXI secolo”.
La Brexit rappresenta anche la fine di un ciclo della globalizzazione?
Si avverte sempre di più la necessità di una regolamentazione del capitalismo. Abbiamo bisogno di istituzioni democratiche forti che possano limitare la crescita delle disuguaglianze, e rovesciare il rapporto di forza. La potenza del Mercato e dell’innovazione economica deve essere messa al servizio dell’interesse generale. E’ sbagliato pensare che tutto si risolve in modo naturale. Lo abbiamo visto in passato.
Quando?
Nel primo ciclo della globalizzazione, tra l’Ottocento e il 1914, quando la fede cieca nell’autoregolazione dei mercati ha provocato disuguaglianze, tensioni sociali, crescita dei nazionalismi, fino alla guerra mondiale. Dopo, c’è stata una fase storica nella quale le élite occidentali hanno avviato riforme sociali, fiscali, mettendo un freno alle disparità. A partire dagli anni Ottanta, siamo entrati in una nuova fase di deregulation legata a diversi fattori, tra cui le rivoluzioni conservatrici anglosassoni, la caduta dell’Urss.
Non vede nessun segnale di autocritica?
Purtroppo la crisi del 2008 non ha prodotto alcun cambio sostanziale. Resta la fede nell’autoregolazione dei mercati e nella “sacra” libera concorrenza, nonostante le disuguaglianze provocate. Se non si riuscirà a dare una risposta con politiche progressiste resterà la tentazione di trovare dei capri espiatori: il polacco nel Regno Unito o il messicano negli Stati Uniti. Ci saranno sempre responsabili politici che cavalcheranno questi sentimenti.
Come Donald Trump o Marine Le Pen?
Molti dei leader populisti e xenofobi appartengono a categorie di privilegiati che spiegano alle classi popolari bianche che i loro nemici non sono i miliardari bianchi, bensì altre classi popolari nere, immigrate, musulmane. E’ un modo di distorcere l’attenzione dai problemi del sistema capitalistico.
Cosa fare contro il ritorno dei nazionalismi?
Il quadro in Europa non è così nero. Rispetto agli Stati Uniti o alla Cina, continuiamo ad avere un modello sociale di sviluppo molto più soddisfacente. Al tempo stesso, l’Europa soffre di una frammentazione politica, con Stati-nazione ancora in competizione gli uni con gli altri. All’interno dell’Ue c’è un dumping sociale, fiscale. L’esempio più evidente è la mancata volontà di unificare l’imposta sulle società. Le classi medie hanno l’impressione che i più privilegiati pagano meno di loro. Queste disuguaglianze alimentano i populismi di destra e la nascita di movimenti come Podemos o Syriza.
Perché ha accettato di lavorare come consigliere di Podemos?
Pablo Iglesias o Alexis Tsipras non sono perfetti ma sono molto meno pericolosi dei nazionalisti polacchi o ungheresi. Basta vedere gli sforzi che la Grecia fa per accogliere i rifugiati. Nel caso della Spagna ci vorrebbe un atto di coraggio, ovvero una moratoria sul debito pubblico, per invertire tendenza su crescita e disoccupazione. Solo così Psoe e Podemos potrebbero formare un governo. E ci sarebbe un cambio di maggioranza politica nell’Unione. La Francia, l’Italia e la Spagna rappresentano insieme il 50% del Pil rispetto al 27% per la Germania.
Perché ha interrotto la collaborazione con il leader laburista Jeremy Corbyn?
Non avevo tempo di partecipare alle riunioni. Nessun legame con la campagna sulla Brexit. In sei mesi, non sono mai riuscito ad andare agli incontri del Labour. Nel caso di Podemos, sono stato invece più volte a Madrid. Pablo Iglesias è anche venuto a Parigi.
Ha contatti con partiti italiani? Potrebbe collaborare con il Movimento 5 Stelle?
No, francamente non credo proprio. Ho invece parlato con alcuni collaboratori di Matteo Renzi, soprattutto per esprimere il mio scetticismo. Sulla riforma dell’eurozona, speravo che Renzi fosse più ambizioso. Invece si è accontentato di qualche aggiustamento marginale.
Forse perché la Germania è inflessibile su certi punti?
Se l’Italia, la Francia e la Spagna mettessero sul tavolo un proposta di unione politica e finanziaria con un parlamento dell’eurozona competente sul livello di deficit e sulla ristrutturazione dei debiti sovrani, allora la Germania non potrebbe mettere i bastoni tra le ruote. Invece la Francia non ha fatto niente per l’Europa del Sud, assecondando la Germania per avere gli stessi tassi d’interessi. Mentre Berlino continua ad avere un atteggiamento insopportabile.
A quale atteggiamento si riferisce?
Avere l’8% del Pil di eccedenza nella bilancia commerciale non serve a niente. La Germania deve investire nel paese e aumentare i salari. Già durante la prima fase globalizzazione la Francia e il Regno Unito avevano accumulato per decenni eccedenze commerciali. Un’aberrazione. L’unico motivo, più o meno esplicito, è una volontà di dominazione su altri paesi. E’ una patologia della globalizzazione che purtroppo si ripete adesso.
Il Fatto quotidiano, 10 giugno 2016
Reti, recinti e fili spinati. C’è chi fa affari d’oro con la serrata anti-immigrati messa in atto da diversi paesi del Vecchio continente: è la European Security Fencing (Esf), del GruppoMora Salazar (nato nel 1975), con sede a Malaga, sulla Costa del Sol.
Dall’Ungheria alla Grecia, dalla Serbia alla Macedonia, dallaPolonia alla Romania, dal Marocco alla Turchia, passando per Ceuta e Melilla, i fili spinati sul territorio europeo hanno tutti un unico commissionario, l’Esf. Sul sito web la stessa ditta spagnola si definisce l’unica in grado di costruire fili di lamine di acciaio inox in tutta Europa. Le cosiddette concertinas.
“Specialisti nella fabbricazione di elementi di alta sicurezza passiva”, è il motto che campeggia sulla home page del sito. E gli affari sono andati così bene che di recente hanno pure aperto una filiale a Berlino. La società offre i suoi servizi a oltre 20 Paesi, europei e non. Tra i suoi clienti ci sono i ministeri degli Interni e della Difesa iberici, la compagnia petrolifera Repsol ma anche laNato. Capaci di fabbricare 10 chilometri al giorno, propongono ogni tipo di rete metallica: “Una vasta gamma di elementi di sicurezza passiva composti da fili spinati a lamina, recinzioni elettrificate, dispiegamento di barriere, dissuasori anti arrampicata e accessori per l’installazione”.
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La speranza per migliaia di profughi di superare i confini ungheresi, ad esempio, s’è infranta davanti a un filo spinato spagnolo commissionato dal presidente Viktor Orbán: 175 chilometri di rete metallica dispiegati lungo la frontiera con la Serbia.
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non spine, ma lamine d'acciaio. Particolare dal sito della ESF |
Un grande affare per la ditta che, proprio mentre i camion dall’Andalusia partivano alla volta dell’Europa dell’Est, aveva diffuso un festoso tweet: “Da qui al resto d’Europa! Il 100 per cento del filo spinato in Europa proviene dalla nostra fabbrica”. Allora sui social piovvero una valanga di insulti e la ditta fu costretta a chiudere tutti i suoi account. Il modello dentato scelto per la frontiera ungherese è stato lo stesso che tutt’ora s’innalza sul confine iberico di Ceuta e Melilla per impedire il passaggio degli immigrati del Nord Africa, il modello 22. Non è il peggiore delle dieci tipologie che la ditta può offrire ai suoi clienti, ma è classificato per “livelli di sicurezza medio alti”.
Le lame, in questo caso, circa 22 millimetri di lunghezza per 15 di larghezza, sono all’origine della polemica con molte organizzazioni internazionali, compresa l’agenzia Onu per i rifugiati, sulla loro pericolosità per le persone.
L’ultima morte attestata per diretta conseguenza delle lame Esf è stata nel 2009, quando un senegalese è morto dissanguato lungo la linea di confine di Ceuta. Oggi difficilmente la ditta andalusa si sbottona. Il business continua a crescere senza sosta, ma dopo le ultime critiche preferiscono non parlare. Entro l’estate la Bulgariaposerà 146 chilometri di filo spinato lungo il confine con la Turchia, con lo scopo di prevenire l’ingresso illegale di migranti. Lo ha annunciato il ministro degli Interni, Rumyana Bachvarova, a fine maggio.
Probabile che anche questa recinzione arriverà dalla Spagna, ma la risposta dell’azienda iberica è a dir poco laconica: “Per politica di riservatezza non possiamo fornire le informazioni richieste. I nostri clienti fanno gli ordini, ma non sappiamo il loro uso finale”
La Repubblica, 31 maggio 2016 (m.p.r.)
«Fanno il deserto e lo chiamano pace» è una citazione latina che andrebbe rivisitata in: «Fanno il deserto e lo chiamano mercato». Questo è successo a quel pezzo di agricoltura italiana che ha perso di vista il senso del proprio operare. L’agricoltura deve produrre cibo. Ma il mercato non sa che farsene del cibo.
Il mercato vuole merce, perché la merce produce più profitto. Così fare latte in Italia ha smesso di essere un mestiere per diventare una produzione qualsiasi. E le produzioni devono crescere. Si è lavorato sulla genetica, sulle premedicalizzazioni, sulle porzioni bilanciate, su qualunque cosa potesse servire a fare almeno il doppio dei litri di latte che una vacca produrrebbe seguendo i ritmi dei pascoli, della sua razza, delle sue gravidanze. Un mestiere perde ogni logica, un paesaggio si devasta di capannoni, un’alimentazione si svuota di gusto e di nutrienti. Non importa, i profitti crescono.
Ma arriva il momento in cui il deserto si manifesta. E chiede il conto. Quando chiude una stalla non è come quando chiude una discoteca. Quando chiude una stalla un intero territorio si disconnette, si svuota di saperi, di ritmi, di piccole e grandi economie locali, di progetti per il futuro. L’agricoltura è un tessuto fitto, se si fa un buco si strappano tantissimi fili.
Riannodiamo i fili, ripartiamo dall’abc: a) Il latte non esiste. Esistono tanti latti quanti sono i modi di fare un mestiere antico e solenne come quello dell’allevatore. b) Il latte non si fa nelle aziende di pastorizzazione e confezionamento. Si fa in territori che hanno un nome e un profilo culturale, e i cittadini hanno diritto a sapere da quale territorio e da quale agricoltura viene il latte che acquistano. c) Il latte, quello vero, esiste ancora e va pagato fior di quattrini. Lo fanno tanti giovani e non giovani allevatori che si stanno preparando a salire in montagna per l’estate.
Ai nostri politici che in Europa dovranno lavorare sul tema dell’origine degli alimenti e a quelli che dovranno occuparsi del prezzo del latte chiedo un gesto di formazione professionale: accompagnateli in montagna, anche solo per un giorno. Toccate quegli animali, guardate in faccia i loro padroni. Poi ditemi se riuscite a tornare a Bruxelles a dire che il latte è tutto uguale, che l’origine non importa e 28 centesimi al litro possono bastare.
Mimesis. Il nichilismo di un mondo che fa della crescita infinita la sua religione. Il libro sarà presentato oggi al polo universitario Roma3. Il manifesto, 18 maggio 2016 (p.d.)
Si può narrare di tempi lontani e insieme parlare dello spazio e degli spazi che ci circondano? Si possono narrare le gesta concettuali di grandi pensatori del passato e scrivere un testo denso di implicazioni politiche, etiche ed ecologiche che investono profondamente il presente? Si può, oggi, fare filosofia pratica? Se una cosa ha insegnato il pensiero (non solo) francese del XX secolo è che non esiste un pensiero puro, privo di effetti nel presente; che ogni teoria è al contempo una pratica concreta che definisce limiti e contorni di visibilità e di azione, al di là delle buone intenzioni di chi produce pensiero.
Pensare significa produrre degli effetti e il presente è il suo spazio d’azione, il suo campo da gioco con i suoi pericoli e i suoi contrasti. E il libro di Stefano Righetti, Etica dello spazio. Per una critica ecologica al principio della temporalità nella produzione occidentale (Mimesis, pp. 112, euro 18), è la narrazione di un pericoloso gioco di contrasti e dei suoi effetti nel nostro modo di percepire, di vivere e di rapportarci al nostro presente, alla nostra spazialità, ai nostri habitat e alle nostre storie. Il volume sarà presentato oggi all’università di Roma 3 da Ubaldo Fadini, Manlio Iofrida, Giacomo Marramao (ore 13).
La narrazione di un paradosso
Come ogni narrazione, anche questa ha dei personaggi. Il principale ha il nome di Occidente. Già il suo nome è un paradosso: è una definizione spaziale che, tuttavia, indica un destino temporale. Forse, la grande rivelazione dell’epoca globale consiste in questo: occidente ha perso qualsiasi riferimento spaziale, invadendo terre lontane, inglobando nel palcoscenico della Storia attori molteplici e differenti. La Storia (d’Occidente) non è affatto finita, prosegue, al contrario, ostentando una presunzione d’illimitato, spingendosi sempre oltre, nell’idiosincrasia della crescita infinita. Il personaggio di cui ci parla Righetti,Occidente, è ossessionato dall’invisibile, dal non ancora, dall’irraggiungibile e al contempo intimorito dal mutabile, dalla molteplicità, da ciò che sfugge ai suoi valori, alle sue fobie, ai suoi isterismi.
Righetti si muove all’interno di questa narrazione (che è, poi, la narrazione che il Logos fa di se stesso) con un intento, quanto meno, duplice e complementare. Da un lato, egli usa come filo conduttore la storicizzazione dello spazio (o degli spazi: urbani, visivi, naturali) legata ad una nevrotica necessità d’infinito che l’insonnia del pensiero alimenta dentro di sé: la combinazione mortifera di accumulo capitalistico e devastazione ambientale. Questo è il filo principale, l’obbiettivo positivamente determinato. Tuttavia, dall’altro lato, sembra voler lasciare la sensazione al lettore che quella non sia l’unica strada possibile, che non ci sia solo la Storia, quella fatta con la S maiuscola, dei grandi eventi e delle grandi opere; che nelle grandi trasformazioni, nelle rivoluzioni (politiche, sociali, tecnologiche, scientifiche) si aprano sempre spiragli e linee di fuga che fan sì che non esista solo la storia; che forse la geografia – e con essa gli spazi – sia possibile al di là del desiderio di conquista; che, nonostante la «Grande Storia», sia possibile costruire artigianalmente piccole storie minori, fatte di spazi di manovra, spazi d’azione, spazi di gioco che siano al di qua del tempo tiranno, che si ritrovino immerse nello spazio visibile, senza bisogno di un principio esterno che ne giustifichi l’esistenza (leggi eterne, della fisica come del padre). Sotto il tempo delle rivoluzioni perpetue (industriali, borghesi, civilizzatrici), si annidano spazi visibili. Bisogna però imparare a guardare.
Geografia del visibile
Pensare significa, dunque, produrre spazi di visibilità e di discernimento; pensare è un’azione concreta nel mondo e fa sì che si modifichi il modo in cui noi lo vediamo (con gli occhi del corpo e della mente). Ecco, allora, che il filo critico principale non è autoreferenziale, non basta a se stesso, non si accontenta di mostrare che ci sono stati degli errori di valutazione, ma ci invita, prima di tutto, a guardare il mondo in modo differente, a riappropriarci della nostra dimensione di soggetti corporei, di carne sangue e nervi che, in quanto tali, si muovono, agiscono e producono nello (e dello) spazio.
La temporalizzazione, nella sua visione dell’eterno progresso e della crescita infinita (a pieno discapito di rapporti improntati sulla reciprocità con la natura), ha fatto della produzione l’azione (di creazione e trasformazione della natura) di soggetti alienati dai propri spazi, esistenziali e di vita, nella perpetua volontà del lontano, dell’assenza, del mai-qui. Ma la produzione non è esente da luoghi e mondi (naturali e culturali) che sono sempre qui e ora. Ma questi essere qui ed ora non sono immediati, bisogna imparare a riconoscerli e a cercarli. Ed è proprio qui che il pensiero smette di essere critico, impegnandosi in un preciso compito etico-ecologico, in un gioco di produzione che non sia meramente economico-materialistico di sfruttamento delle nature (umane e non), ma di spazi di discernimento, di margini d’azione, di visibilità in una Storia che è sempre, prima di tutto e al di là di risvolti ideologicamente orientati, una geografia del visibile; in un apparire che basti a se stesso senza attendere l’instaurazione di regimi di senso trascendenti per acquisire il proprio valore, valore che si trova sempre al di qua di un principio di scambio o di uso, ma che investe i soggetti (umani e non) nel regime complesso della vita e dell’esistenza.
La critica ecologica del sottotitolo significa, in ultima istanza, scoprire e produrre quella gloria del visibile che non risiede nell’alto dei cieli, né nella pura teleologia della storia, ma è, al contrario, tutta da produrre a partire dal nostro presente e dalla nostra carne; per scoprire che la Storia non finirà tanto facilmente, ma, lontani dal pessimismo nichilistico del postmoderno, è ancora possibile immaginare che siamo, in fondo, più forti del nostro passato e che il futuro è sempre un’orizzonte del nostro presente.
Il futuro, allora, è possibile (nel bene, come nel male) soltanto a partire dalla nostra inerenza pratica e fattuale con il presente, che è sempre presenza – anche se, alle volte, è presenza dell’assenza.
Il manifesto, 14 maggio 2016
Nel corso del Novecento gran parte dell’attenzione degli studiosi era rivolta alla tendenziale distruzione delle economie precapitaliste, incorporandole nelle relazioni capitaliste della produzione. Il periodo post-1980 rende visibile un’altra variante di questa appropriazione attraverso l’incorporazione. È la distruzione non delle modalità pre-capitaliste, bensì di varie strutture capitaliste keynesiane con lo scopo di favorire l’affermarmazione di una nuova specie di capitalismo avanzato, che possiamo definire «estrattivo».
La crescente importanza dell’estrazione nel XXI secolo ha sostituito il consumo di massa come logica dominante di gran parte del XX secolo. Il consumo di massa mantiene la sua importanza, ma non è più un fenomeno capace di creare nuovi ordini sistemici, come è successo in gran parte del XX secolo, come testimonia la costruzione di vasti insediamenti residenziali suburbani, dove ogni famiglia acquistava di tutto e di più anche se, ad esempio, si poteva tosare l’erba solo una volta alla settimana.
Solo oggi, all’inizio del XXI secolo, questa logica organizzativa post-keynesiana affermatasi negli anni 1980 ha reso perfettamente leggibile la sua forma. In un mio volume precedente, The Global City (Le città globali, Utet) avevo documentato il fatto che stesse emergendo una nuova dinamica capitalista; e che una delle sue caratteristiche fosse l’indebolimento di quelle che all’epoca erano classi medie ancora prospere e in crescita. Sostenevo, cioè, che nelle grandi città (globali) stesse emergendo un nuovo ordine nella stratificazione sociale caratterizzato dalla crescita di classi medie ben pagate e, all’altro estremo, di una classe media impoverita.
Rispetto a quel periodo, il nuovo sistema economico ha favorito una forte polarizzazione alle estremità dello spettro sociale e un conseguente riduzione del «centro», elemento questo che ridotto enormemente la mobilità delle classi lavoratrici verso l’alto. All’epoca le mie conclusioni sono state respinte da molti studiosi: molti di coloro che analizzavano il capitalismo preferivano concentrarsi su una dimensione nazionale, mentre io vedevo nelle «città globali» come l’avanguardia di una nuova logica sistemica.
La stagione del debito
Questa emergente logica sistemica comporta, in termini drammatici, l’espulsione delle persone dai luoghi dove sono nati e la distruzione del capitalismo tradizionale allo scopo di soddisfare i bisogni, anche qui sistemici, dell’alta finanza e l’accesso delle imprese alle risorse naturali. Da sottolineare il fatto che le logiche tradizionali o familiari nell’estrazione di risorse per soddisfare i bisogni nazionali potrebbero comunque preparare il terreno per l’intensificazione sistemica del capitalismo «estrattivo».
Una possibile interpretazione del passaggio dal modello keynesiano a quello attuale è dunque concepirlo come il passaggio dal consumo di massa all’estrazione. Per gran parte degli anni Ottanta e Novanta i paesi poveri indebitati sono stati chiamati a versare una quota degli utili derivanti dalle esportazioni per risanare il debito contratto con organismi sovranazionali (il Fondo monetario internazionale) o imprese finanziarie. Questa quota era intorno al 20%: una percentuale molto più alta di quella richiesta in altri casi. Ad esempio, nel 1953 gli Alleati cancellarono l’80% dei debiti di guerra della Germania e pretesero solo il versamento del 3-5% degli utili derivanti dalle esportazioni per risanare il debito. E negli anni 1990, dopo la caduta dei loro regimi comunisti, chiesero solo l’8% ai paesi dell’Europa Centrale.
Esodi planetari
In contrasto con il progetto di sviluppo economico nell’Europa uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, dagli anni 1980 l’obiettivo per quanto riguarda i paesi del Sud Globale era invece simile a un regime disciplinare volto all’estrazione delle ricchezza e delle risorse naturali anziché allo sviluppo. La dinamica riguardante il Sud globale aveva un primo momento, dove i paesi coinvolti erano costretti ad accettare i programmi di ristrutturazione e dei finanziamenti provenienti dal sistema internazionale, nonché, forse l’aspetto più importante, l’apertura delle loro economie alle imprese straniere per quanto riguarda le risorse naturali e la produzione di merci destinate al consumo locale. Una apertura che ha favorito lo sgretolamento dei settori nazionali del consumo in America Latina, Africa sub-sahariana e alcune parti dell’Asia.
Trascorsi 20 anni, è apparso chiaro come questo regime non abbia rispettato le componenti fondamentali necessarie per un sano sviluppo economico. Il risanamento del debito era infatti una priorità rispetto lo sviluppo di infrastrutture, sistema sanitario, formazione, tutti elementi necessari per il benessere della popolazione. Il predominio di questa logica «estrattiva» ha consolidato un un meccanismo teso a una trasformazione sistemica di quei paesi che andava ben oltre il pagamento del debito, dato che è stato un fattore chiave nella devastazione di vasti settori delle economie tradizionali, come la produzione su piccola scala, della distruzione di buona parte della borghesia nazionale e della piccola borghesia, del grave impoverimento della popolazione e, in molti casi, della diffusione della corruzione nell’amministrazione statale.
Accanto a ciò abbiamo assistito al fatto che i paesi dell’Opec (cioè i paesi produttori ed esportatori di petrolio) hanno deciso sin dagli anni Settanta di trasferire l’improvvisa ricchezza accumulata alle grandi banche occidentali: un fattore che ha costituito la condizione per promuovere i finanziamenti ai paesi del Sud Globale.
Le élites predatrici
Tra pagamento degli interessi e aggiustamenti strutturali questi paesi hanno ripagato più volte il loro debito, senza mai riuscire veramente a rimborsarlo, provocando il collasso di governi usciti dalle lotte per la liberazione nazionale degli anni Sessanta e Settanta. Il risanamento del debito è divenuto infatti uno degli strumenti chiave per spingere molti di questi governi verso un approccio neoliberale: diventare importatori e consumatori, anziché produttori. Nell’insieme, la massiccia espansione del settore minerario e di altri settori estrattivi e, in particolare, l’espropriazione dei terreni per l’agricoltura e, più recentemente, l’espropriazione delle acque per aziende come Nestlé e Coca Cola hanno prodotto «zone speciali» per l’estrazione e governi dominati da élite predatrici.
I piani di austerità attuati in gran parte del Nord Globale sono una sorta di equivalente sistemico di ciò che è accaduto al Sud. Alcuni esempi sono i tagli dei servizi pubblici, delle pensioni per i lavoratori, del sostegno ai poveri e i tagli, o l’aumento, dei prezzi in una serie di altri servizi pubblici. Assistiamo inoltre a innovazioni che mirano a estrarre tutto quanto possibile dal settore pubblico e dalle famiglie, comprese quelle povere. Un caso è la crisi dei mutui sub-prime iniziata nei primi anni 2000 ed esplosa nel 2007. Secondo la Federal Reserve statunitense, alla fine del 2014 avevano perso la casa oltre 14 milioni di famiglie, pari ad almeno 30 milioni di individui.
Possiamo quindi individuare una relazione tra capitalismo avanzato e tradizionale caratterizzata da dinamiche predatorie anziché da evoluzione, sviluppo o progresso. I modelli attuali qui brevemente descritti possono comportare l’impoverimento e l’espulsione di un numero sempre più alto di persone che cessano di costituire un «valore» come lavoratori e consumatori. Ma significa anche che le piccole borghesie tradizionali e le borghesie nazionali tradizionali cessano di avere un «valore».
Trafficanti di organi
I processi di trasformazione che rafforzano la base dell’attuale capitalismo avanzato sono quindi concentrati su «logiche estrattive» anziché sul consumo di massa. Il consumo di massa è ovviamente ancora importante, ma non è più la logica dominante, il che contribuisce anche a spiegare l’impoverimento delle classi medie e lavoratrici: il loro consumo conta molto meno per i settori dominanti di oggi. Di particolare importanza sono inoltre gli insiemi di particolari processi, istituzioni e logiche che vengono mobilitati in questa trasformazione/espansione/consolidamento sistemico.
Un modo per interpretare questi cambiamenti è vederli come l’espansione di una sorta di spazio operativo per il capitalismo avanzato che espelle le persone sia nel Sud che nel Nord globale incorporando territori per attività minerarie, l’espropriazione dei terreni e delle acque, la costruzione di nuove città.
Le economie devastate del Sud globale, vittime di un decennio di risanamento del debito, vengono ora incorporate nei circuiti del capitalismo avanzato attraverso l’acquisizione accelerata di milioni di ettari di terreno da parte d’investitori esteri per coltivare cibo ed estrarre acqua e minerali per i paesi che investono. Poco viene fatto per sviluppare le infrastrutture utili alla sopravvivenza delle popolazioni povere e a basso reddito. È un po’ come volere solo il corno del rinoceronte e gettare via il resto dell’animale, svalutarlo, indipendentemente dai vari utilizzi possibili. Oppure usare il corpo umano per coltivare determinati organi e non riconoscere alcun valore agli altri organi, per non parlare dell’intero essere umano, che può essere interamente eliminato.
Questo cambiamento sistemico segnala che il marcato aumento delle persone emarginate, povere, uccise da malattie curabili fa parte di questa nuova fase. Le caratteristiche fondamentali dell’accumulo primitivo ci sono, ma per vederle è essenziale andare oltre le logiche dell’estrazione e riconoscere la trasformazione sistemica come un fatto, con procedure e progetti in grado di cambiare il sistema – l’espulsione delle persone che ritrasforma lo spazio in territorio, con le sue varie potenzialità.
Si è aperto il cinque maggio il BergamoFestival «Fare la pace», che aveva come tema portante «Muri che si alzano, confini che si dissolvono». Pensata come un insieme nomade di incontri, l’iniziativa è scandita da discussioni sullo stato del mondo, ma anche di come i muri alzati possano coinvolgere non solo le frontiere nazionali, ma anche la realtà sociale. Il sei maggio la filosofa ungherese Agnes Heller ha parlato del «paradosso dello Stato-nazione europeo e dello straniero». Il 10, invece il padre gesuita francese Gaël Giraud è intervenuto su «La grande scommessa- Dare regole alla finanza per salvare il mondo». Oggi sarà la volta di Saskia Sassen, della quale pubblichiamo brani della sua relazione» che parlerà di «La solitudine dei numeri primi. La vita sulla terra ai tempi della globalizzazione». Colin Crouch interverrà invece su «Chi governa il mondo. La democrazia dopo la democrazia». Per tutte le informazioni:
Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2016 (p.d.)
Sarà forse la giustizia penale a far luce sull’ultimo tassello, o meglio il primo, della crisi dello spread che avvolse l’Italia nel 2011, causando la fine prematura del governo Berlusconi. E l’attore è sempre lo stesso: la Procura di Trani. Deutsche Bank è infatti indagata per manipolazione del mercato per la “massiccia” vendita “nel brevissimo termine”, di 7 degli 8 miliardi di euro di titoli di Stato italiani che deteneva all’inizio del 2011. Sotto inchiesta sono finiti gli ex vertici del primo istituto tedesco: l’ex presidente Josef Ackermann, gli ex co-ad Anshuman Jain e Jürgen Fitschen (quest’ultimo è co-amministratore delegato uscente della Banca), l’ex capo dell’ufficio rischi Hugo Banziger, e Stefan Krause, ex direttore finanziario ed ex membro del board.
Le indagini sono coordinate dal pm Michele Ruggiero, che nei giorni scorsi ha fatto perquisire, sequestrando atti e mail, la sede milanese della banca, ascoltando come testimone il responsabile per l’Italia, Flavio Valeri, estraneo alla vicenda. Poi toccherà a Romano Prodi e all’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti essere sentiti come testimoni. Fu Prodi, infatti, il primo ad avanzare l’ardita ipotesi che fu quell’operazione ad avviare la tempesta sull’Italia.
Secondo l’accusa, gli ex vertici, mentre a febbraio e marzo comunicavano ai mercati che il debito italiano era sostenibile, nascondevano, anche al Tesoro italiano, che si stavano liberando e in fretta dell’esposizione sui mercati non regolamentati. Per Ruggiero, la vendita fu poi “falsamente” giustificata a posteriori con la necessità di ridurre la sovraesposizione sull’Italia dopo l’acquisto di PostBank. In quel periodo Deutsche Bank acquistò anche 1,4 miliardi di Credit default swap (Cds), cioè assicurazioni sul rischio di perdite. Secondo Ruggiero, mentre la banca rassicurava i mercati, si copriva e vendeva a mani basse, e questo ha alterato la formazione del prezzo dei titoli sia prima - quando il mercato sarebbe stato all’oscuro - sia dopo, lanciando “un chiaro segnale di sfiducia del gruppo nei confronti della tenuta del debito italiano”. È l’ultimo atto della procura tranese che ha già trascinato a processo per manipolazione del mercato le agenzie di rating Fitch e Standard & Poor’s per il declassamento del rating dell’Italia tra il 2011 e il 2012.
Per la banca si tratta di “un’indagine priva di fondamento”, ma la notizia ha scatenato ovvie reazioni. Per Renato Brunetta (Fi) “avevamo ragione: fu un complotto. È assordante il silenzio di Renzi. Serve una commissione d’inchiesta”. Stessa tesi di Adusbef e Federconsumatori. Abbraccio e baci tra Renzi e Merkel mi hanno fatto schifo”, ha attaccato Matteo Salvini. Stando a quanto apprende il Fatto, la vicenda è connessa alle indagini - poi trasmesse a Roma - sui derivati di Stato, sottoscritti anche da Detusche Bank.
Vicenda complessa. Il 26 giugno 2011, la banca rivelò di essere passata in 6 mesi da 8 miliardi a 997 milioni di euro di titoli italiani (-87,5%). Krause spiegò agli analisti che questo era avvenuto perché l’istituto aveva consolidato a bilancio anche l’esposizione di Postbank, acquistata nel novembre 2010. Fece lo stesso anche con altri Paesi periferici ma in misura molto più ridotta. La cosa colpì il Tesoro perché la banca era una specialista di titoli di Stato italiani di cui contribuiva a farne il prezzo nelle aste. Stando ai bilanci, Postbank era esposta per 4,6 miliardi nel 2010, cifra che però rimane uguale nel 2011, per poi scendere a 3,4 miliardi nel 2012. DB, invece, passa nel 2011 da 8 a 1,7 miliardi. Fino al 2012, il valore teorico dell’esposizione è negativo (3,9 miliardi), ma viene compensato in parte da quello in “derivati” verso l’Italia che però cresce nel tempo (+2,3 e +3,2 miliardi) fino diventare positivo nel 2013 (3,8 miliardi nel 2014). Probabile che la copertura dei Cds abbia ben più che attutito l’urto, e forse la banca con una mano ha venduto e con l’altra ha acquistato, guadagnandoci.
In questo meccanismo l’Italia è finita stritolata. Da luglio lo spread inizierà la sua cavalcata da 183 agli oltre 500 punti di novembre 2011, quando cadde Berlusconi. Sono mesi in cui il premier - spalleggiato anche da Brunetta - litigava con Tremonti, contrario ad allentare il rigore, screditando l’Italia. Ma le turbolenze iniziarono al vertice di Deauville dell’ottobre 2010, dove Francia e Germania dichiararono che i debiti sovrani dell’Eurozona potevano fare default. La successiva rottura dell’asse franco-tedesco spinse le banche a vendere i titoli dei Paesi periferici. Deutsche Bank ci andò giù pesante. Chi visse quel periodo ai massimi vertici del Tesoro rivela: “Il problema era ed è sempre stato la Grecia. L’Italia si oppose a usare il fondo Salva Stati per salvare Atene in una modalità che avrebbe aiutato le banche tedesche e francesi, pesantemente esposte. In quel caso, i contributi al Fondo dovevano essere calcolati non sul Pil ma sul rischio delle banche. Lì inizio la fine del governo. E l’operazione Deustche fu forse solo uno dei sistemi di pressione, culminati con la lettera della Bce di Agosto. Poi arrivò Monti e diede l’ok”.
L'autore di "Vie di fuga" (un saggio su crisi, beni comuni, lavoro e democrazia nella prospettiva della decrescita) illustra con parole semplici le vie necessarie e possibili per uscire dalle crisi del pianeta Terra e dell'umanità che lo abita
Il testo riproduce l'intervento dell'autore per un ciclo di incontri promosso dalla Biblioteca comunale di Treviso. Qui il testo integrale con le immagini
Le domande cruciali che da sempre si sono poste le “scienze economiche” sono: cosa produrre, come, quanto, dove, per chi?
Proviamo a dare un ordine coerente a questi quesiti.Ma per riuscire a farlo, dobbiamo porci una domanda preliminare: perché produrre?
Vi è poi una meta-domanda che sovrasta tutte le altre (a cui proverò a rispondere alla fine): chi è abilitato a dare le risposte a tutte queste domande? Ovvero: chi ha l’autorità e il potere di stabilire e decidere con quali modalità produrre, in quali quantità e località, a beneficio di chi ecc. ecc.?
Ovvero: chiha l’autorità e il potere di stabilire e decidere con quali modalitàprodurre, in quali quantità e località, a beneficio di chi ecc. ecc.?
1. Perchè produrre?
Perchéprodurre? Perché lavorare? La risposta è facile, persinobanale. Gli esseri umani si attivano per produrre strumenti, oggetti, manufattivari e sistemi organizzativi utili a rispondere a dei loro bisogni e a delle loro esigenze. Quali: soddisfarele necessità primordiali della sussistenza e della sicurezza personale, aumentarele comodità e diminuire le fatiche, dare risposte alle curiosità di conoscenzadei misteri del mondo ed anche cercare di soddisfare i desideri più fantastici.
Quindi, ci si dà da fare, si opera e si lavoraper fare cose utili a se stessi e agli altri. Il lavoro per essere un “buonlavoro” deve soddisfare chi lo compie. Deve far emergere il proprio saper fare,mettere alla prova le proprie attitudini. Allo stesso tempo il lavoro deveessere “vero”, cioè deve produrre concrete utilità. Persino quello menoutilitaristico che si possa immaginare, cioè il lavoro dell’artista, è un attoespressivo che ambisce ad entrare in relazione emozionale con gli spettatori.Il lavoro, al fondo, è sempre un atto di donazione del proprio tempo e delleproprie capacità a favore di chi ne usufruisce. Altrimenti è solo unpassatempo, un impiego per sfaccendati. Ha scritto Claudio Napoleoni: “Il lavoro non è positivo che a unacondizione, cioè che i prodotti siano contemplati e riconosciuti come buoni”(in Pallante, 2016).
In questo modo vi sarete accorti che ho posto,indirettamente e conseguentemente, dei criteri utili a rispondere anche alladomanda di come bisogna produrre e dicosa produrre. Bisogna produrre conmodalità che favoriscano la esplicitazione dell’intelligenza e della creativitàdegli individui che si applicano a quel lavoro. Potremmo così affermare che ilprimo diritto del lavoratore è poter scegliere cosa più gli piace fare. Tutti ilavori che invece svalorizzano chi li compie, che depotenziano i loro personalibagagli psicoattitudinali, che comprimono le loro prestazioni in un mansionariopredeterminato e fuori dal loro controllo, che riducono il lavoratore ad unprestatore d’opera robotizzato… sonoforme di produzione da condannare, disumanizzanti e alienanti.
Allo stesso modo sono riuscito a rispondere anchealla domanda “cosa produrre?”. Bisognaprodurre cose che siano beni, cioè, oggetti, strumenti, sistemi organizzativiche aumentino il benessere delle persone e delle comunità.
2. Quanto, dove, quando produrre?
Ci rimangono i quesiti: quanto, dove, quando produrre. Mentre lasceremo perultima la domanda per chi produrre.
Il lavoro produttivo è sempre una attività diprelievo e trasformazione di materie che si trovano in natura. Lo diceva ancheKarl Marx (che pure ha fondato la sua teoria del valore di scambio sul poteredel capitale): “La natura è la fonte diogni valore d’uso e di essa è fatta la ricchezza reale”. Prima di lui, unodei primi economisti, William Petty (1623-1687) scriveva: “il lavoro è il padre della ricchezza mentre le terre sono la madre”.Chiamateli come volete (terra, capitale naturale, flussi di materia e dienergia, materie prime, risorse naturali, ecosistem services…) si tratta sempredi doni della natura, dell’ecosfera, di Madre Natura, del Creato, di Gaia, diPacha Mama… E la Terra è per definizione limitata, circoscritta, finita. E’ un sistema chiuso per materia e apertoall’energia che riceve dal Sole. Le risorse materiali, gli ettari adisposizione procapite, quindi, si riducono per un effetto a tenaglia: da unaparte, l’aumento della popolazione e, dall’altra, la degradazione dellafunzionalità degli ecosistemi determinata dal rilascio di sostanze inquinantidai processi produttivi e di consumo, dall’eccesso di prelievi e, in generale,dall’aumento della pressione antropica.
[omissis fgure]
Da notare che il “consumo di natura”,calcolato con le tabelle del Phisical imput-output (anche l’Istat staincominciando ad elaborarle) che rivela i consumi mondiali di materie prime,cresce paurosamente smentendo le previsioni di quanti ritenevano che le nuovetecnologie, aumentando l’efficienza dei sistemi produttivi (meno sprechi, piùricicli ecc.), avrebbero “dematerializzato” l’economia, miniaturizzato apparecchie macchinari vari e che, in particolare, le tecnologie elettroniche applicatealla telecomunicazione avrebbero ridotto l’uso della carta e il bisogno di spostaremerci e viaggiatori. Nella realtà, si è verificato il contrario per effetto delnoto paradosso (effetto Rebounding o altrimenti detto “illusione tecnologica”) illustrato già daWilliam S. Jevons nel lontano 1865: “Laresa maggiore delle caldaie a vapore fa aumentare la loro utilità, quindi laloro diffusione e i consumi totali di carbone”. Ed è così per ogni cosa: seuso l’automobile di nuova generazione per aumentare i miei spostamentimotorizzati, annullerò i benefici del risparmio di carburante. Se mai fossevero che le nuove marmitte catalitiche riducono l’immissione di polveri sottilié sicuramente vero che l’aumento esponenziale delle automobili in circolazione nelmondo peggiora il bilancio complessivo dell’inquinamento. Ricordo solo che perprodurre un computer servono 15.000 kg di acqua, 250 kg di petrolio, 22 kg disostanze chimiche. Nel mondo ogni anno vengono venduti 150 milioni di computer,mentre vengono prodotti 50 milioni di tonnellate di RAEE (rifiuti elettronici).Un computer d’uso domestico viene dismesso ogni 3-4 anni ed uno ad uso aziendale ogni 12-18 mesi. Solo il 20% vienericiclato.
Indefinitiva il Total Material Requirement (il fabbisogno di materialipro-capite) non fa che aumentare. Secondo dei dati pubblicati da GiorgioNebbia, un cittadino americano “consuma” 85 tonnellate all’anno di materialivari, un tedesco 74, un europeo medio 51, un giapponese 45. Un altro studiocommentato da Gianfranco Bologna (www.materialflows.net)ci dice che dal 1980 al 2008 il consumo mondiale di materie prime (risorsebiotiche, quali biomasse da agricoltura, foreste, pesca, e materiali abiotici,minerali e metalli) è aumentato dell’80% (da 38 a 68 miliardi di tonnellateall’anno). Sono cifre enormi che stanno comportando danni irreversibili eirreparabili al pianeta. Tutti questi materiali prelevati dalla natura ce liritroviamo prima o poi, dopo cicli di utilizzazione più o meno lunghi (life cyclematerials) sotto forma di scarti, residui, rifiuti.
Gli scienziati hanno individuato noveprincipali emergenze planetarie, che sono: l’acidificazione degli oceani, l’utilizzo dell’acqua dolce, la riduzionedella fascia di ozono nella stratosfera, l’utilizzo del suolo fertile, il cambiamentoclimatico, la perdita di biodiversità, il ciclo bio-geo-chimico dell’azoto edel fosforo, l’aereosol atmosferico, gli inquinanti chimici (vedi il PlanetaryBoundariesdi di Johan Rockstrom).
Da una trentina d’anni (con la pubblicazionedel rapporto Bruntland, Our Common Future, del 1987 della Commissionemondiale sull'ambiente e lo sviluppo, WCED) il lemma “sviluppo sostenibile”è diventato d’uso comune. L’idea che ci sta sotto è il decoupling: la possibilità di disaccoppiare crescita economica epressione antropica sugli ecosistemi. Un’equazione che assomiglia a quelladella capra e del cavolo da trasportare in barca e che nessun modello economicosembra ancora essere riuscito a risolvere.
Se tutto ciò nonè solo una trovata per il marketing delle “green technology”, allora il primosenso pratico della sfida della sostenibilità dovrebbe essere quello dellariduzione netta del consumo di natura dentro i limiti della capacità dirigenerazione dei cicli bio-geo-chimici dell’ecosistema planetario. Solo cosìsi preservano le condizioni di abitabilità del pianeta e di sopravvivenza dellegenerazioni future.
E con questoabbiamo risposto anche alla domanda di “quanto produrre”: non si deve prelevarepiù di quanto la Terra non sia capace di metabolizzare, rigenerare, restituire.
3. La questione della sostenibilità
La questionedella sostenibilità non è solo quantitativa. Non si misura solo in tonnellate enon riguarda solo i bilanci di materia ed energetici. Come ci ricorda sempreGiorgio Nebbia: “L’ineguale distribuzionegeografica delle materie prime è alla base di conflitti per conquistare ocontrollare le risorse agricole, le foreste, i minerali e le fonti di energia”(Nebbia, 1998). C’è da rimanere allibiti, quando, ad esempio, nei consessipolitici intergovernativi (ad esempio le Conferenze delle parti sul cambiamentoclimatico) gli esperti attribuiscono ai paesi produttori asiatici laresponsabilità di emettere quote di gas inquinanti che vengono generate per produrre merci che poi vengono comprate eusate dalle popolazioni più ricche nei i paesi più ricchi. Siamo in presenza dinuove forme di colonialismo ipocrita che vengono attuate attraverso ladelocalizzazione di attività industriali obsolete e inquinanti, l’acquisto diterreni fertili (e della relativa acqua incorporata) per ricavarne prodottialimentari da esportazione (land grabbing),lo smaltimento nei paesi più poveri di rifiuti tossici e pericolosi provenientidagli Stati Uniti e dall’Europa (waste dumping),la sottrazione di minerali e metalli rari dai giacimenti dei paesi poveri.
Solo per citarela vicenda più macroscopica voglio ricordare che le guerre in corso in Congoper l’accaparramento del coltan ha provocato 5 milioni di morti. Le apparecchiatureelettroniche che comunemente usiamo (ma anche dispositivi militari e armamenti)non hanno bisogno solo di ferro, plastica e silicio, ma di minerali rari comeil tungsteno, il tantalio e il niobio (coltan), il vanadio, il berilio, il platino, l’oro…Sulle “terre rare” si sta giocando una buona parte della guerra commerciale traStati Uniti ed Europa, da una parte, e Cina dall’altra.
La questionedella sovranità sull’uso delle risorse naturali è quindi centrale per stabilirenon solo quanto produrre, ma anche dove localizzare le produzioni dei beni diconsumo. Le “ragioni di scambio” tra produttori e consumatori – in una economiadi mercato, come vedremo più avanti – sono sempre squilibrate a favore di chi èeconomicamente più forte e in grado di imporre sistemi produttivi a lui piùconvenienti. La asimmetria del potere fondato sul denaro provoca disparità ediseguaglianze di valore attribuito ai vari impieghi di manodopera e dimateriali. Il valore sul “libero mercato” di un quintale di caffè non consentiràmai ai suoi produttori ad eguagliare il prezzo di mercato di un computer o diun’altra qualsiasi mercanzia prodotta nei paesi che detengono tecnologie ecapitali, brevetti e titoli di proprietà. Si generano così divisioni ditipologie di lavoro e stratificazioni di classi sociali tra le varie areegeografiche del mondo a al loro interno. Banalmente, un’ora di lavoro non ha lostesso prezzo per diverse prestazioni e diversi territori. La globalizzazionedei mercati e dei capitali a fronte della inevitabile fissità territorialedelle popolazioni (a meno di non doverle costringere a migrazioni bibliche)provoca disparità e disuguaglianze. Chi ha già riesce ad ottenere sempre dipiù, chi ha meno si impoverisce. Gli studi sulle disuguaglianze sono oramai moltovasti. Economisti come Joseph Stiglitz, Thomas Piketty, Luciano Gallino sonodiventati autori molto popolari.
Questa tendenza alla diseguaglianza puòessere contrastata solo con un processo di ri-territorializzazione delleproduzioni (de-globalizzazione), da una parte, e di introduzione di clausolesociali e ambientali negli scambi internazionali, dall’altra. Sarebbenecessario rendere le diverse aree geografiche del pianeta (bioregioni) e, alloro interno, le comunità locali, sempre più autosufficienti e autonome, menodipendenti da poteri che agiscono fuori dal loro controllo, così l’umanitàintera potrebbe imparare a utilizzare al meglio le risorse disponibili senzaessere costrette ad andare a prenderle altrove (con le buone o con le cattive,con i denari o con gli eserciti). Bisognerebbe immaginare i rapporti commercialiinternazionali impostati sulla base di una effettiva reciproca, paritariautilità..
4. Per chi produrre?
Rimane ora la domanda: per chi produrre? La rispostaè: per tutti coloro che hanno il bisogno di ottenere beni e servizi utili alloro benessere. E’ questa una risposta semplice, apparentemente oggettiva eneutra che però nasconde difficili implicazioni e molte trappole. Vediamonealcune.
Innumerevoli studi di antropologia epsicologia sociale (oltre alle evidenze che ognuno di noi può riscontrare nellavita di tutti i giorni) ci dicono che le esigenze delle persone non solo mutanonel tempo, nei luoghi e nelle culture in cui sono inseriti, ma sono sempresocialmente determinate. Tutti i tentativi di catalogare e gerarchizzare ibisogni secondo un ordine raziocinante predefinito (beni necessari, benifondamentali, beni di largo consumo, beni superflui, beni voluttuari, beni dilusso ecc.) sono naufragati di fronte ai comportamenti “irrazionali” dellepersone che sono spesso determinati da convenzioni e convinzioni preconcette chetravalicano la logica teorica prescritta delle “scienze economiche”; il famoso tipo umano ideale - l’homo oeconomicus - che compra le coseche più gli servono al prezzo minore. Ad esempio, negli anni della crisieconomica è diminuito il consumo di generi alimentari, ma non quello deitelefonini. Vuol dire che l’esigenza di mantenere buone comunicazioni socialiera maggiore di quella di una buona alimentazione. Persino papa Bergoglio pensache la voce di Dio arrivi ai giovani tramite le onde elettromagnetiche deglismartphone! Nei paesi dell’ex Unione Sovietica, dopo il crollo, l’età mediadella vita si è ridotta drasticamente. Segno che le popolazioni tenevano di piùalla libertà che alla propria salute, alla piena occupazione e all’appartamentodi edilizia popolare. E ancora; é esperienza quotidiana constatare che lepersone sono più attente al lato estetico delle cose che comprano che non, adesempio, alla loro durevolezza e praticità. Avete mai provato a camminare suuna scarpa con il tacco a spillo?
Schiere di psicologi ci dicono che i nostristili di vita sono dettati da processi di imitazione, di ricerca diriconoscimento sociale attraverso lo statuse l’esibizione di beni posizionali. La nostra psiche è debole. Siamo invidiosie temiamo il giudizio degli altri più di ogni altra cosa, perché abbiamo pauradell’isolamento, della perdita delle reti di relazioni umane, della solitudine.
Gli addetti al marketing delle imprese sannomolto bene tutto questo. Un loro famoso motto è: “Non vendiamo cose, ma sogni”.Il presupposto fondamentale su cui si basa l’economia di mercato è che idesideri delle persone siano infiniti. Lo definì perfettamente già ThomasHobbes (Leviatano 1651) agli alboridel capitalismo: “La felicità è uncontinuo progredire del desiderio da un oggetto all’altro non essendo ilconseguimento del primo che la via verso il seguente”. Da qui la amara considerazionedi Bauman: “La società dei consumi sifonda sull’insoddisfazione permanente cioè sull’infelicità” (Bauman 2007).E la conclusione lapidaria dell’economista critico Bernard Maris: “Il capitalismo organizza la scarsità, ibisogni e la loro frustrazione” (Maris 2002).
In quest’ottica scopriamo che il sistemaeconomico esistente non è affatto finalizzato a produrre cose necessarie alminor prezzo possibile per renderle accessibili a chi ne ha più bisogno (e menodisponibilità economiche) - come si vorrebbe far credere -, ma alla produzionedi beni e servizi volti a soddisfare il numero sempre crescente dei bisogni diquei consumatori che hanno le maggiori possibilità di solvibilità sul mercato. Ilsistema capitalistico non si propone di produrre per soddisfare le necessità fondamentali, maper aggiungere sempre nuovi bisogni da soddisfare. Ha scritto Nicolas Ridoux: “voler creare un numero illimitato di bisogniper dovere poi soddisfarlo è come inseguire il vento” (Ridoux 2008).Uninseguimento che non finisce mai.
Qui sta l’errore di Keynes (ma anche dei marxistiche, da socialisti o comunisti, si sono trovati a dover governare l’economia)che pensava fosse possibile usare a fin di bene e transitoriamente il sistemadi produzione fondato sull’accumulo del capitale. Prima l’abbondanza (daraggiungere con i cattivi mezzi del capitalismo) poi la giustizia che ciproietterà nel regno delle libertà.
E’ noto che lord Keynes pensava che nel girodi pochi anni (scriveva nel 1930) i suoi nipoti avrebbero avuto vitto, alloggio,vestiario, salute e istruzione con poco sforzo (sarebbero bastate tre ore algiorno di lavoro per produrre tutto questo) grazie, appunto, agli straordinarisviluppi delle tecnologie e della produttività del lavoro. Così si sarebberisolto il problema della “scarsità” che è la ragione stessa dell’esistenza delle“scienze economiche”. Non solo i suoi nipoti, ma anche gli economistiavrebbero, quindi, potuto dedicarsi a lavori più creativi. Ma, scrive Keynes,c’è un prima, un frattempo: “almeno per iprossimi 100 anni dobbiamo pretendere da noi stessi e da chiunque altro che ilbrutto è il bello e il bello è brutto, perché il brutto è utile, mentre ilbello non lo è. Ancora per qualche tempo l’avarizia, l’usura e le misureprotettive devono essere i nostri dei. Perché solo loro possono condurci fuoridal tunnel della necessità economica”. Come scrivono gli Skidelsky, padre economista e figlio filosofo (E e R.Skidelsky 2013), le ragioni del fallimento della profezia di Keynes (pienaoccupazione e riduzione dell’orario del lavoro) non è dipeso da un errore divalutazione sull’aumento della capacità produttiva del sistema capitalistico enemmeno dalla ricchezza monetaria in circolazione - anzi ! -, ma nell’aver sottovalutato la logica intrinsecadi funzionamento del sistema economico capitalistico che si fondasull’accrescimento indefinito e perpetuo della produzione. E’ pericoloso andarea patti con il diavolo! Nel prometterti tutto quello di cui hai necessitàaltera la percezione dei bisognirendendoti insaziabile. Già Epicuro aveva detto: “Niente è sufficiente a colui che il sufficiente non basta”.
Tutto ciòallontana indefinitamente la meta della “soluzione del problema economico dellascarsità”, rende impossibile il raggiungimento del soddisfacimento delle proprienecessità e condanna le persone a vivere in un perenne stato di necessità. L’eradell’abbondanza viene in continuazione posticipata. Le risorse (naturali, diconoscenza, tecnologiche, finanziarie…) sarebbero sufficienti, ma la logica che presiede il loro utilizzo in unasocietà dominata dalle ragioni mercantili non consente che vengano impiegatecon criteri di equità e sostenibilità. Al contrario genera in continuazionescarsità ed esclusione. Una spirale che allarga le distanze tra il verticedegli individui insaziabili e la base degli affamati. Una spirale che trascinal’umanità nella dissipazione insensata delle risorse naturali. Un sistemasociale irrazionale e ingiusto. Che alla lunga non regge né sul piano del banalecalcolo utilitaristico tra costi e benefici, né su quello dell’etica, dellaricerca del bene comune e condiviso.
Le risorse sono limiate, ma non “scarse”. La scarsità è sempre relativa. Égenerata da chi ne fa un uso eccessivo (a beneficio esclusivo), sottraendorisorse ad altri e ingenerando desideri di acquisizione in chi ne è escluso. Setutte le risorse venissero rese accessibili a tutti, basterebbero necessariamentea soddisfare i bisogni di ciascuno. Ognono si farebbe bastare ciò che ha adisposizione. L’economia di mercato e il diritto di proprietà sono le tecnichecon cui si rendere conveniente (in termini monetari) ed esclusivo (stabilendotitoli di proprietà) l’uso delle risorse a favore di pochi.
Ha scritto Gandhi: “La civiltà nel vero senso della parola, non consiste nel moltiplicare ibisogni, ma nel limitarli volontariamente”. Ogni individuo si dovrebbelimitare a possedere, usare e consumare solo quelle cose che anche tutti glialtri esseri umani possono permettersi.
Il problema, quindi, non è produrre sempre dipiù, ma al contrario trovare il modo di contenere, ridurre i nostri infinitidesideri di possesso e dissipazione.
Meglio allorasarebbe cambiare la visione delle cose. Smetterla di pensare al pianeta Terracome ad una matrigna avara (contro cui imprecare e cercare di ottenere sempredi più) e pensarlo invece come una madre nutrice, benefica, i cui doni sonobenedizioni (Illich), da rispettare nei suoi limiti e venerare per la suagenerosità.
Fuori da metafora dovremmo cambiare la teoriaeconomica fondamentale che si basa sul principio di scarsità e sostituirlo conquello del limite. L’assunzione delle condizioni biofisiche di funzionamentodel pianeta come vincoli inviolabili (ecocentrismo) ci deve condurre allaricerca del bastevole e della sufficienza. Cioè della condivisione.
La congiunzione di equità (giustiziadistributiva) e libertà (autonomia di scelte) che la cultura politicaoccidentale non è mai riuscita a realizzare potrebbe invece essere possibileinanellando altri due concetti: sostenibilità e condivisione. Riconoscimentodei limiti delle risorse a disposizione dell’umanità e loro equa messa incomune. Nessun individuo può essere escluso dal beneficiare dei doni dellanatura. Tutti devono essere responsabili del loro uso.
5. hi ha il potere di decidere?
Veniamo finalmente alla meta-domanda che mi ero posto all’inizio: chi ha il potere di decidere cosa produrre, per chi, dove, quantoecc. ecc.?
Come noto, grosso modo, due scuole di pensieroe d’azione si sono confrontate nella storia contemporanea. Ma nessuna delle dueha funzionato in modo soddisfacente.
Il liberismo e il socialismo (con tutte legradualità e le reciproche contaminazioni immaginabili e possibili: tra cui“l’economia sociale di mercato”, che vorrebbe moderare i due sistemi, e il“capital-comunismo” della Cina che invece esaspera il peggio dei due sistemi).Gli uni pensano che il gioco dei liberi mercati sia in grado di trovare l’equilibriodinamico tra la domanda e l’offerta di beni e servizi tale da soddisfare leesigenze di ogni individuo (lavoro in cambio di consumi). Gli altri pensanoinvece che tale equilibrio (piena occupazione e soddisfacimento delle necessitàessenziali) possa realizzarsi solo attraverso una procedimento (più o menodemocratico, più o meno partecipato politicamente) di pianificazione (più omeno centralizzata, più o meno decentralizzata).
Tra i primi troviamo i tecnocrati dellaespertocrazia come Mario Draghi, chepensa che la cosa migliore sia affidare l’economia ad un “pilota automatico”(programmato dalle autorità monetarie, ovviamente!). Tra i secondi ci sono i professionisti della politica che credono inuna capacità del sistema dei partiti di svolgere una funzione super partes al servizio dell’interessegenerale.
Le differenze tra i due sistemi non sono dipoco conto, ma non nella cosa essenziale: tutti e due i modelli e tutte leesperienze storiche che si sono fin qui verificate ritengono che lo scopoessenziale della cooperazione sociale tra le persone debba essere quello di accrescerein definitivamente la produzione di beni e servizi. Le differenze sono sullemodalità, non sull’obiettivo. I primi pensano che lo sforzo delle istituzionidebba essere quello di far funzionare nel modo più libero e automaticopossibile la “mano invisibile” che regola il bilanciamento della domanda edell’offerta. I secondi pensano che “gli spiriti animali” assetati di ricchezzache muovono le attività produttive debbano essere contenuti e guidati da maniforti e ben visibili delle istituzioni pubbliche dello stato.
Ma tutti e due pensano che si debba aumentare all’infinitol’efficienza, il rendimento, la convenienza, l’utilità del sistema economicoproduttivo. La partita doppia (il calcolo dei costi e dei ricavi, del dare edell’avere) è la forma mentis e il modus operandi che domina gli agenti tantodelle imprese quanto delle istituzioni pubbliche. Le altre cose che danno unsenso alla vita (il giusto, il bene, il bello; ovvero: la qualità dellerelazioni umane che si instaurano tra le persone, la solidarietà, l’aiutoreciproco, l’affettività, l’altruismo…) sono messe in secondo, terzo, quarto piano.Salvo poi, quando scoppia una crisi economica imprevista, sentirci dire chealla base di tutto ci sono “fattori esterni irrazionali” (che ovviamente nondipendono dagli economisti) che fanno cadere la “fiducia” degli operatorieconomici, provocano “panico” nei risparmiatori, “impigriscono” i giovani e così via psicoanalizzando il disagio sociale.
Alain Caillé ha detto che la società è stataridotta ad “una orribile macchina per produrre”. L’economia è un procedimento che ha adisposizione una strumentazione (il denaro, le tecnologie ecc.) e undispositivo giuridico (le leggi, le istituzioni ecc.) che servono a ridurreogni cosa reale (res) ad un valoremonetario astratto (pecunia). Daibeni alle merci. Economia e denaro sono diventati la stessa cosa. L’economia siè ridotta ad occuparsi del denaro (da dove viene generato, come gira e comerigira…) e induce a pensare che con il denaro si possa ottenere ogni cosa. Ilpotere del denaro è diventato assoluto, supera ogni altro potere.
Bisogna allora pensare di cambiare in radiceil modo di pensare l’economia (oikos-nomos,le buone regole della dimora, che oggi è diventata il mondo intero) e inserirlanel sistema etico. Ripensare l’economia come una scienza morale. Quantomenosarebbe opportuno relativizzarla, metterla in relazione con le altre dimensionidel vivere umano.
Chi può compiere questa rivoluzione culturale?Castoriadis diceva che servirebbe una “rotturadell’ordine simbolico e fattuale”. Non c’è scampo, non c’è scorciatoia. Ilsoggetto del cambiamento siamo ognunodi noi. Sono le convinzioni morali profonde delle persone che devono spingercia comportamenti individuali responsabili e solidali, a trovare forme sempre piùdiffuse, pervasive, decentrate di comunità capaci di autosostenersi e di autogovernarsi.Bisognerebbe avere in testa un’idea di individuo, di comunità locali e diistituzioni sociali organizzate sui principi dell’eco-municipalismo.
Transitare da comportamenti ispirati allacompetizione e alla rivalità ad altri fondati sulla condivisione e sullareciprocità; dal dominio sui processi naturali alla loro cura; dall’egoismoalla solidarietà sociale cooperante e alla messa in comune delle ricchezze prodottesocialmente; dall’eccesso alla sobrietà; dal riduzionismo pseudo scientificodei “saperi esatti”, alla complessitàdei sistemi trans-disciplinari e olistici; dall’economia del massimo rendimentoad una del massimo risparmio, del riutilizzo, del riciclo; da un’economia deisoldi, del consumo e del debito alla bio-economia e al buon vivere. La felicità è una buonarelazione con l’ambiente e gli altri esseri umani.
Zigmunt Bauman, Voglia di comunità, Laterza 2007
Paolo Cacciari, , Marotta & Cafiero 2014
Ivan Illich, Bisogni, in Dizionario dellosviluppo, Edizioni Gruppo Abele 1998
Tim Jakson,Prosperità senza crescita, Edizioni Ambiente 2011
Roberto Mancini, Ripensare la sostenibilità, Franco Angeli, 2015
Bernard Maris, Antimanuale di economia, Marco Tropea2003
Maurizio Pallante, Destra e sinistra addio. Per una declinazione dell’uguaglianza,2016
Nicolas Ridoux , La decrescita per tutti, Jaca Book 2008
E. e R. Skidelsky, Quanto è abbastanza, Mondadori, 2013
L'articolo di Piero Bevilacqua su sinistra e ambiente, e in particolare la sua osservazione sul carattere industrialista e "sviluppista" dell'Unione sovietica mi induce a una riflessione su un punto che mi sembra oggi particolarmente rilevante per comprendere "dove dirigere" le nostre energie e le nostre speranze.
Non sono un esperto della letteratura marxiana e marxista, ma mi sembra di poter affermare che nella pratica delle politiche d'ispirazione marxista si sia via via trascurata una delle componenti del pensiero del sociologo di Treviri: cioè l'esigenza di "uscire dal sistema capitalistico". Porsi l'obiettivo di soddisfare questa esigenza avrebbe significato impegnarsi a pensare e a costruire un sistema economico del tutto diverso da quello inventato, e poi via via trasformato, nel mondo occidentale.
La sinistra novecentesca ha dimenticato, questa esigenza, sia nei paesi occidentali sia ad Est (con pochissime eccezioni, tra cui l'Enrico Berlinguer del "compromesso storico"). Ad Occidente, e in particolare in Europa, le classi lavoratrici, a partire dal proletariato operaio, hanno lottato vigorosamente per ottenere una parte della ricchezza prodotta maggiore di quella che le classi dominanti erano disposte a concedere. Ne hanno beneficiato i popoli dei paesi in cui la sinistra sindacale o politica guadagnava posizioni di potere (e ne hanno sofferto i popoli delle regioni del mondo in cui i capitalisti "esportavano le contraddizioni" sostituendo lo sfruttamento delle risorse altrui al minor sfruttamento dei "loro" proletari.)
Là dove è andato al potere il "marxismo incarnato" - come osserva Bevilacqua - è stato "svilupppista": ha costruito forme del sistema capitalistico dell'economia diverse da quelle occidentali per un solo aspetto essenziale (la proprietà dei mezzi di produzione è passata dai privati allo Stato), ma non è uscito dalla logica di quel sistema.
Che ciò sia accaduto è stato certamente decisivo per le sorti del pianeta, poiché ha consentito di costruire l'Urss, e quindi quella realtà statuale senza la quale le democrazie liberali dell'Occidente non avrebbero vinto la mostruosa macchina totalitaria dell'Asse Berlino-Roma-Tokio e il mondo sarebbe stato dominato dal nazifascismo (ricordiamolo il prossimo 25 aprile).
Ma la tensione a immaginare e costruire un sistema economico non più basato sulla riduzione del lavoro a merce si era spenta, prima ancora di essere seppellita sotto le macerie del Muro di Berlino Riemerge oggi, al cospetto di una crisi del capitalismo che appare più grave delle altre. Speriamo che trovi le teste e le braccia per affermarsi. Senza dimenticare che Proteo ha grandi capacità di trasformarsi rimanendo uguale a se stesso, e che finché il sistema capitalistico sopravvive dovremo ricordare con Bertold Brecht che il ventre che generò il nazismo è ancora fertile.
la Repubblica e il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2016 (m.p.r.)
La Repubblica
DA PUTIN A RE E POLITICI
ECCO I SEGRETI DI PANAMA PARADISO FISCALE PER I
di Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti
La più grande fuga di notizie finanziarie mai avvenuta. Milioni di pagine di documenti che raccontano quarant’anni di affari
offshore per conto di capi di governo e politici di tutto il mondo, imprenditori, personaggi dello sport e star dello spettacolo. Tutto parte dallo studio legale Mossack Fonseca, con base a Panama city, nel cuore di uno dei più efficienti paradisi fiscali del mondo, finora impenetrabile. Grazie a un informatore, i giornalisti del quotidiano tedesco
Suddeutsche Zeitung e poi dell’Icij (International consortium of investigative journalists) hanno avuto accesso a un enorme archivio di carte segrete.
Nei documenti, analizzati in esclusiva per l’Italia da l’Espresso, compare una cerchia di uomini molto vicini al presidente russo Vladimir Putin. E troviamo pure il padre, deceduto nel 2010, del primo ministro britannico David Cameron, proprio lui che è da anni impegnato in una crociata contro i paradisi fiscali. Poi c’è il presidente ucraino Petro Poroshenko. Lo staff del leader di Kiev ha precisato che le tre holding registrate tra le Isole Vergini e Cipro «non hanno nulla a che fare con l’attività politica». Nel caso di Putin, le carte di Panama documentano dozzine di transazioni riservate, riconducibili a persone o società legate al leader russo, per un totale di circa due miliardi di dollari.
L’attuale presidente dell’Argentina, l’imprenditore Mauricio Macri, risulta amministratore di una società alle Bahamas. Contattato dall’Icij, un suo portavoce ha risposto che quella offshore faceva capo alla famiglia di Macri, non a lui personalmente. Anche il calciatore Lionel Messi, già sotto inchiesta in Spagna per evasione fiscale, si è rivolto allo studio Mossack Fonseca per creare una offshore. E nelle carte spunta pure il nome dell’attore Jackie Chan, con sei società.
Nell’immenso archivio panamense, come rivela il sito de l’Espresso, compaiono circa 800 nominativi italiani, tra cui Luca Cordero di Montezemolo, l’ex pilota di formula Uno, Jarno Trulli e due grandi banche come Unicredit e Ubi. Del resto, l’archivio segreto evidenzia che alcuni colossi finanziari globali sono coinvolti nella creazione di offshore al servizio di migliaia di clienti: si tratta di oltre 15 mila società anonime, collegate a istituti di credito come la svizzera Ubs e la britannica Hsbc.
La banca dati svela anche patrimoni segreti di altri potenti del mondo. La famiglia del presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, ha usato società di Panama per nascondere partecipazioni in miniere d’oro. I figli del premier pakistano, Nawaz Sharif, hanno comprato palazzi a Londra. E in Cina almeno otto tra ex e attuali componenti del comitato centrale del Partito comunista dispongono di società in paradisi fiscali: tra loro c’è il cognato del presidente Xi Jinping. Tramite lo studio Mossack Fonseca, sono state create anche le offshore a cui sono intestati gli yacht del re dell’Arabia Saudita, Salman bin Abdulaziz Al Saud, e del sovrano del Marocco, Mohammed VI. E c’è il cugino del dittatore siriano Bashar Assard, spesso indicato come “il cassiere del regime”.
L’inchiesta giornalistica è durata più di un anno, da quando 11,5 milioni di file panamensi sono stati recapitati alla Suddeutsche Zeitung, che tramite Icij li ha poi condivisi con 100 testate rappresentate da 378 giornalisti di un’ottantina di Paesi. Sullo stesso archivio sono già al lavoro anche le autorità fiscali della Germania, mentre il fisco Usa e inglese potrebbero presto acquisirli. I documenti riguardano oltre 200 mila società con sede in 21 paradisi fiscali, dai Caraibi a Cipro. Mai prima d’ora una simile mole di dati riservati era stata messa a disposizione della pubblica opinione e degli inquirenti.
I file descrivono operazioni che vanno dal 1977 alla fine del 2015. E illuminano per la prima volta la gestione di enormi flussi di denaro attraverso il sistema finanziario globale. Soldi legittimi se dichiarati all’Erario, ma che spesso vengono nascosti perché frutto di reati come evasione fiscale o corruzione.
In una risposta scritta alle domande dell’Icij, lo studio Mossack Fonseca ha affermato di «non aver mai agevolato o promosso operazioni illegali» Ramon Fonseca, uno dei due soci fondatori, intervistato da una tv panamense, ha precisato che lo studio «non ha responsabilità per ciò che i clienti fanno con le loro offshore», così come una casa automobilistica non ha colpe «se la macchina viene usata per fare una rapina».
Il Fatto Quotidiano
COSÌ I RICCHI DEL MONDO NASCONDONO I LORO MILIARDI
di Leonardo Coen
Altro che Spotlight, il film sullo scandalo dei preti pedofili di Boston. Siamo di fronte al Watergate dell’evasione mondiale. I giornalisti investigativi del consorzio americano Icij (cui aderisce, in Italia, l’Espresso), grazie ad una “gola profonda” - almeno, questa la versione ufficiale - hanno avuto la possibilità di consultare 11 milioni e mezzo di file su 200mila società offshore basate principalmente a Panama. Dove i potenti del mondo, i loro familiari e migliaia di vip hanno nascosto i loro soldi. Nomi come Putin. Come Cameron. Come i leader cinesi. Come Messi. Come l’attore di Hong-Kong, Jakie Chan. Come tanti italiani: per esempio, Luca Cordero di Montezemolo. L’ex pilota di Formula1, Jarno Trulli. O l’imprenditore Giuseppe Donaldo Nicosia, latitante, coinvolto in un’inchiesta per truffa con Marcello Dell’Utri: gli italiani coinvolti nel giro sarebbero circa 800.
I documenti riguardano operazioni effettuate dal 1977 alla fine del 2015. È probabilmente la fuga di notizie più clamorosa nella storia della finanza, o meglio dell’evasione, se, come pare, le banche e gli studi legali che hanno usufruito dei servizi offerti dall’offshore Panama “non avrebbero seguito le norme che permettono di individuare i clienti coinvolti in attività illegali”. Tutto nasce, sempre che questa sia la storia vera, da qualcuno che può accedere all’archivio dati dello studio legale Mossack Fonseca che ha base a Panama City, uno dei paradisi fiscali più efficienti e discreti del mondo, nonostante di recente ci siano state pressioni da parte Usa perché le cose cambino come è successo per la Svizzera.
Questo Mister X, un anno fa, decide di spedire al quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitunguna la prima dose di file. Il giornale è nel circuito dell’Icij. Farne parte, significa condividerne gli scoop. Contemporaneamente, vengono avvisate le autorità fiscali di vari Paesi, a cominciare ovviamente da Germania e Usa, dove ha sede il consorzio dei giornalisti 007. Si decide di procedere, per il momento, in assoluto riserbo. Tant’è che i file sono aggiornati al mese di dicembre 2015, segno che Mister X non era stato ancora individuato. In realtà, Panama è il centro di smistamento dei miliardi imboscati: sinora, sono stati individuati 21 paradisi fiscali sparpagliati per mezzo globo, dai “classici”delle isole caraibiche, sino a Cipro - meta preferita dei russi - per arrivare in Nevada, spina nel fianco del moralismo a stelle e strisce.
I modi per celare i quattrini sono tra i più fantasiosi: trust e fondazioni (che a loro volta possono godere di altri vantaggi fiscali), più le solite società che rimandano ad altre società, in un gioco di scatole cinesi gestite con codici e password in continuo aggiornamento. Soldi, specie quelli infrattati dai politici, significano corruzione, furto, collusione col crimine organizzato. Sono 15.300 le sigle di comodo costituite dalle banche (colossi come la svizzera Ubs - amata da Gelli - e la britannica Hsbc). Ci sono società offshore che conducono al cerchio magico del Cremlino, agli uomini cioè di Putin, altre che portano al suo nemico, il presidente ucraino Petro Poroshenko (compreso il padre), a dimostrazione che pecunia non olet mai e non ha frontiere, quando si tratta di sottrarlo al fisco. Che dire allora di David Cameron, che a parole lancia una crociata politica contro l’evasione e poi nei fatti. Una nota meritano i fondatori dell’ineffabile studio legale Mossack-Fonseca, approdati a Panama alla fine del 1975. Juergen Mossack, origini tedesche, venne col padre, ex SS. Ramon Fonseca, invece, è divenuto famoso come scrittore e per anni è stato nel salotto buono del potere, in qualità di consigliere della presidenza. A marzo, quando l’Icij è uscita allo scoperto, ha capito che non poteva più mantenere quell’incarico e si è messo in aspettativa.
Corriere della sera, 27 febbraio 2016
«Ai miei popoli». Così iniziavano i manifesti dell’imperatore absburgico e così iniziava pure quello con cui Francesco Giuseppe annunciava lo scoppio della Prima guerra mondiale che avrebbe dissolto il suo Impero.L’immagine dei «miei popoli» suggerisce un’atmosfera di concordia armoniosa, di nazionalità diverse pacificamente conviventi grazie al sentimento di appartenere a una compagine plurinazionale, garante delle singole culture.
Alcuni ora si stupiscono di vedere che, nella chiusura di frontiere e nella costruzione di steccati e reticolati per respingere le ondate di migranti, si distinguano per particolare zelo gli Stati nati dalla dissoluzione dell’impero absburgico, dall’Austria all’Ungheria alla Repubblica Ceca e a vari Stati balcanici. Ciò è doloroso, ma non è tanto strano. Anzitutto lo stesso impero absburgico, ex patria comune di molti di quei Paesi, era minato da quegli odi nazionali che divampavano all’ombra della sua grande idea sovranazionale, certamente foriera di civiltà ma talora contraddetta dalla sua stessa politica e alla fine stravolta dalla distruttiva e autodistruttiva esplosione dei vari nazionalismi, sempre più scatenati all’interno dello stesso impero come pressoché dovunque in Europa.
Le relazioni fra austriaci e ungheresi, nella Duplice monarchia austroungarica, ad esempio, erano tutt’altro che rosee. Una guerra doganale tra l’impero d’Austria e il regno d’Ungheria aveva indotto quest’ultimo a considerare e a risarcire come vittime di guerra commercianti ungheresi gravemente danneggiati dai dazi austriaci. I rapporti tra ungheresi e slovacchi e croati, italiani e sloveni, ruteni e polacchi erano spesso duramente conflittuali. In alcuni reggimenti ungheresi si brindò alla notizia dell’assassinio a Sarajevo di Francesco Ferdinando, perché quest’ultimo era fautore del trialismo ossia voleva dare ai diversi popoli slavi, numerosi nella compagine absburgica, una dignità e un potere pari a quelli degli ungheresi e degli austriaci. La Storia è ricca di contraddizioni: l’Austria, culla di un grande pensiero sovranazionale, è stata un fecondo vivaio del nazismo.
Non c’è dunque solo da stupirsi se molti Paesi ex absburgici si rivelano non meno duramente chiusi di altri Paesi all’accoglienza dei dannati della terra che arrivano da ogni parte. Già molti decenni prima dell’immigrazione attuale molti di essi hanno avuto i loro sogni e progetti nazionalisti: il sogno della Grande Ungheria, della Grande Romania e altri ancora, ognuno dei quali presupponeva la sopraffazione del vicino. Inoltre la durata della Storia è lunga, affonda nei secoli, ma è anche breve, almeno alla mutevole e violenta superficie. Tito si stilizzava come un Francesco Giuseppe per la sua creazione di una Jugoslavia plurinazionale e unita in un senso di comune appartenenza e destino e tale essa per un certo periodo è stata, ad esempio nel periodo delle tensioni con l’Italia. Pochi decenni dopo, quell’unità si è infranta in una guerra atroce e fratricida, che ha reso i popoli balcanici ferocemente stranieri e nemici gli uni agli altri. Se serbi e croati si sono massacrati per qualche spostamento di frontiere, non è strano anche se è drammatico che ora chiudano le frontiere a genti lontane e indistinte.
Inoltre quasi tutti i Paesi ex absburgici hanno vissuto molti decenni di giogo sovietico, che ha pesantemente influito sulla loro realtà e sulla loro identità e forse sono ancora troppo occupati a leccarsi quelle proprie ferite per poter aprirsi agli altri. Del resto altri Stati europei, che non hanno avuto quegli sconquassi, non si dimostrano certo più sensibili alle tragedie che arrivano alle nostre porte. Quelle frontiere chiuse, quei reticolati non si spiegano tanto col passato di chi li innalza, ma con la crescente e paurosa instabilità che sta cambiando il mondo in una misura apparentemente inarginabile e che sarà sempre più difficile fronteggiare umanamente. Il problema non è costituito dalle barbariche predicazioni di odio e di paura che si sentono spesso. Il fenomeno delle migrazioni sta diventando un processo mondiale che il nostro sistema di vita non è capace di ordinare. Quelle fiumane di gente sventurata che chiede solo di poter vivere potrebbero diventare così grandi da rendere oggettivamente difficile dar loro la possibilità di vivere. Forse quelle migrazioni sono l’avanguardia oscura di un grande e non lontano cambiamento simile alla fine del mondo antico, un cambiamento che non riusciamo a immaginare. I nuovi, arroganti e beoti padroni della terra si illudono che il loro dominio, i loro bottoni che spostano a piacere uomini, cose, ricchezza e povertà, sia destinato a durare in eterno. Esso potrebbe crollare come è crollata Babilonia e i migranti di oggi o meglio i loro prossimi discendenti si aggireranno fra le rovine della ricchezza tracotante e volatilizzata come un tempo i barbari fra le colonne e i templi abbandonati.
Il manifesto, 21 febbraio 2016 (m.p.r.)
Nella classica ottica nazionale, che sempre meno spiega e sempre più mistifica, si potrebbe sostenere che il Regno unito l’ha spuntata sull’Europa continentale, almeno su quella sua parte che ancora sventola, ormai più a parole che a fatti, la bandiera dell’integrazione. Non è così.
Quella a cui abbiamo assistito è l’ennesima vittoria delle élites finanziarie nel loro complesso su tutti i cittadini del Vecchio continente. O, per dirla in termini ormai messi al bando, dell’accumulazione di capitale sulla libertà della forza lavoro. Non si è trattato, insomma, di un poker diplomatico, o di una pura e semplice esibizione a beneficio delle opinioni pubbliche nazionali, ma di un esempio da manuale della lotta di classe. Quella condotta dall’alto, naturalmente. Ma procediamo con ordine.
Già da diverso tempo è stata coniata, e circola con sempre maggiore insistenza, l’orribile espressione di «turisti del welfare». Si intende con questa insolente definizione il nomadismo dei lavoratori precari attraverso i paesi dell’Unione alla ricerca di contesti, occasioni, diritti e livelli di vita più soddisfacenti. L’intermittenza e il nomadismo sono, a ben vedere, le caratteristiche più peculiari di una parte crescente della forza lavoro contemporanea che nessuna pianificazione nazionale potrà mai riassorbire. Sono l’espressione di modelli produttivi ormai affermati.
La mobilità è infatti un requisito professionale e, al tempo stesso, una delle risorse principali attraverso le quali, in assenza di diritti comunitari omogenei, i singoli possono tentare di costruirsi un habitat, sia pure provvisorio, che corrisponda in qualche modo alle loro aspettative. La pretesa britannica di negare o ridurre le prestazioni sociali per 13 anni (ne hanno ottenuti poi «solo» 7) ai lavoratori in provenienza da altri paesi dell’Unione è un attacco diretto alle condizioni di vita di questo precariato in movimento e un deciso passo avanti nell’organizzazione gerarchica della vita sociale.
Vi sono pochi dubbi che questa voce di «risparmio» possa far gola ad altri paesi con welfare molto sviluppato e forse non solo a quelli. Anzi, è quasi inevitabile che la discriminazione diventi una regola. Si assisterebbe così a una nobile gara a rendersi il più inappetibili possibile per il «turista del welfare», il parassita intracomunitario per antonomasia. Sull’esempio di analoghe politiche di deterrenza, teorizzate e praticate da paesi come la Danimarca e la Svezia nei confronti dei richiedenti asilo, ai quali si prospettano e poi si impongono condizioni di accesso sempre più proibitive e vessatorie. Il rapporto con i migranti, è bene tenerlo a mente, ci riguarda tutti molto da vicino. Il risvolto politico è immediato. La non discriminazione, quanto a diritti e garanzie, dei cittadini europei che risiedono e lavorano in un paese diverso da quello di origine era forse l’unico ambito in cui la cittadinanza europea risultasse davvero effettiva.
Tanto che paradossalmente solo spostandosi si poteva avere la percezione di goderne i vantaggi. La limitazione imposta da Londra (con il solito pretesto di una inesistente emergenza a cui metter freno) e le emulazioni che certamente ne seguiranno, assestano così, assieme al continuo ripristino dei controlli di frontiera, un colpo mortale alla già fragile cittadinanza europea. C’è poco da stupirsene visto che il Regno unito vede da sempre l’Europa politica come il fumo negli occhi. Ma anche da altri paesi del continente si levano voci di ringraziamento a David Cameron per aver contribuito ad allontanare l’incubo di una maggiore integrazione politica in Europa.
A tutti è chiaro, anche se nessuno vuole ammetterlo esplicitamente, che lo statuto particolare concesso al Regno Unito comporta riflessi assai rilevanti per tutta l’Unione, ben oltre i contenuti effettivi del “compromesso” raggiunto a Bruxelles. Tutti si sentiranno meno vincolati, tutti autorizzati a issare la bandiera della «priorità nazionale». Ma, soprattutto, la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione, paese ritenuto il più squisitamente liberista e devoto al libero mercato, viene apprezzata come un antidoto a qualsiasi rischio di «deriva» sociale o solidaristica dell’assetto comunitario.
C’è infatti un «turismo» che, a differenza di quello del welfare, è decisamente più gradito. È il turismo delle condizioni fiscali migliori, della deregulation più permissiva, del costo del lavoro più basso e dei lavoratori più indifesi. Il turismo del capitale non prevede né visti né dilazioni e pretende sempre accoglienza trionfale. La City non intende affatto «armonizzarsi» con le regole bancarie dell’eurozona, ma non rinuncia a operare in piena libertà e senza impedimenti di sorta nello spazio del mercato comune. Il protezionismo applicato alla circolazione delle persone non si applica a quella dei capitali.
Certo, non sono mancate preoccupazioni e proteste per la concorrenza che istituti finanziari senza vincoli possono esercitare nei confronti di istituti sottoposti a regole, né riguardo a quanta voce in capitolo, senza alcuna contropartita in termini di obblighi, avrà effettivamente Londra sulle decisioni e gli orientamenti dell’Unione europea. Ma il sistema della competitività e la fede nel mercato sembrano avere prevalso su questo ordine di preoccupazioni. Alla spregiudicata compagnia della City non si vuole comunque rinunciare. Se qualcuno immaginava uno scontro aspro tra l’ordoliberalismo tedesco e il liberalismo anglosassone sarà rimasto deluso.
Inoltre, tutta questa faticosa messa in scena potrebbe non servire a nulla. Il 23 giugno i britannici voteranno sulla permanenza del loro paese nell’Unione e, tra nostalgici dell’impero, filoatlantici e nazionalisti xenofobi, il bottino di Cameron rischia fortemente di non bastare a evitare il Brexit. Del resto possiamo essere certi che il referendum in Gran Bretagna non farà la fine di quello di Atene. Ma, visto il ruolo che vi svolge e che le élites finanziarie le assegnano, dovremmo davvero disperarci per il commiato della Gran Bretagna dall’Unione? Dalla quale, per quel che ci preme, si può dire che sia già fuori.
Con l'Italia è l'insieme del sistema capitalistico che è in crisi profonda.Si avverano le peggiori previsioni degli economisti: siamo entrati in una «una “stagnazione secolare” per il mondo intero, con il corollario dell’incremento a dismisura delle diseguaglianze». Il manifesto, 19 febbraio 2016
No, non ce la fa. L’economia mondiale non si riprende. Anzi. L’ultima botta all’ottimismo incosciente lo ha dato nientemeno che l’Ocse, dopo che già il Fmi, qualche settimana fa, aveva abbassato le stime della crescita. Secondo l’organizzazione di Parigi il Pil globale aumenterà del 3% nell’anno in corso e del 3,3% nel 2017. Si tratta in entrambi i casi di uno 0,3% rispetto alle precedenti previsioni. In questo modo l’espansione del Pil globale nel 2016 non risulterebbe diversa da quella del 2015, che “di per sé aveva segnato il ritmo di crescita più lento degli ultimi cinque anni”. Le economie emergenti rallentano in modo vistoso. C’è chi dice che l’India forse supererà la Cina, ma in una corsa al ribasso. Per quanto riguarda l’Eurozona, dice l’Ocse, i potenziali benefici della riduzione del prezzo del petrolio non si sono fatti sentire. I bassissimi tassi di interesse e l’euro debole non sono bastati per favorire uno sviluppo degli investimenti, mentre le sofferenze bancarie “restringono il canale creditizio della trasmissione della politica monetaria”. Per cui è prevedibile che gli effetti di una nuova espansione di quest’ultima, prevista dopo la riunione della Bce del prossimo 10 marzo, siano già alle spalle o rimangano strozzati dal mal funzionamento generale del sistema. Col “sindacalese” di una volta si sarebbe detto che il “cavallo non beve”.
L’Italia è in linea con queste pessime previsioni. Non c’è da stupirsi quindi se l’Ocse ci attribuisce un aumento del Pil del solo 1%, in netta retrocessione rispetto all’1,4% attribuitoci solo nel novembre scorso. Del resto anche la Corte dei Conti si fa sentire. Il Presidente Raffaele Squitieri all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016 spegne ogni speranza sulla spending review renziana, che viene anzi considerata responsabile della riduzione dei servizi reali ai cittadini, in nessun modo considerabili superflui. Basta gettare un occhio alla sanità pubblica!
Lawrence Summers può quindi tornare sulla sua analisi preferita, quello che lo portò alla fine del 2013 a diagnosticare una “stagnazione secolare” per il mondo intero, con il corollario dell’incremento a dismisura delle diseguaglianze. Peraltro con il sostanziale accordo di Paul Krugman. L’altro giorno scriveva sul Financial Times che: “Il coordinamento globale dovrebbe smetterla di perdere tempo dietro ai luoghi comuni su riforme strutturali e risanamento dei conti pubblici e lavorare per garantire una domanda adeguata a livello globale.” Invece in Europa si fa l’esatto contrario. Mentre la prospettiva di una nuova fase recessiva dell’economia americana è tutt’altro che fantascientifica. Summers la prevede in termini molto pesanti già per l’anno in corso e soprattutto per i prossimi due. Janet Yellen, presidentessa della Fed, fa capire di temerla visto che ha bloccato il rialzo dei tassi e anzi non esclude persino di portarli in territorio negativo. Le minute dell’ultimo consiglio della Bce di gennaio non solo rivelano le divisioni al proprio interno, ma molto scetticismo sulla possibilità d’impedire o solo frenare l’avvitamento verso il basso dell’inflazione, malgrado l’ottimismo della volontà di Mario Draghi.
La definizione “stagnazione secolare” non è nuova. Venne coniata da Alvin Hansen, uno dei più importanti seguaci e propalatori delle teorie di Keynes. Secondo Hansen, apprezzato anche da Paul Samuelson e James Tobin e in parte ripreso in campo marxista da Paul Sweezy, la tendenza strutturale alla stagnazione sarebbe stata provocata da una asfittica dinamica dei consumi accompagnata dalla fine della mobilitazione bellica che aveva portato indubbiamente a un incremento della capacità produttiva. Si disse poi che la preoccupazione di Hansen si era dimostrata del tutto infondata di fronte ai trent’anni “gloriosi” dello sviluppo capitalistico postbellico. Ma non si fece tesoro del fatto che fu proprio l’incremento dell’intervento pubblico in economia e l’allargarsi dello stato sociale, grazie alle lotte del movimento operaio e democratico, a fornire le basi per quell’insuperato periodo di sviluppo economico. L’affermazione dei bisogni e dei diritti sul piano sociale, a partire dai luoghi della produzione, aveva costituito una leva formidabile per tutta l’economia. Ed era quello che mancava non solo in Hansen, ma per certi aspetti persino nel suo maestro Keynes. Ma nei lunghi decenni dell’egemonia neoliberista tuttora imperante, quello stato sociale è stato abbattuto per fare spazio ad una nuova fase di accumulazione e di scorribande per il capitale finanziario, mentre l’intervento pubblico ha assunto un carattere sempre più residuale e sempre meno innovativo. A quelle leve bisogna oggi guardare in termini innovativi per progettare una nuova società. A questo serve un nuovo soggetto di sinistra che ancora non c’è. Non basta abbattere il mito della crescita se ci si perde nella foresta pietrificata delle diseguaglianze.
Il manifesto, 12 febbraio 2016
La festa è già finita, anche se i gaudenti non raggiungevano neppure quel fatidico uno per cento che separa i ricchi dal restante 99 per cento della popolazione mondiale. Dopo la chiusura in risalita di ieri, le borse di tutto il mondo sono sprofondate di nuovo verso il basso. La peggiore performance è quella di Milano; Il più 5,03% dell’altro ieri è stato polverizzato da un meno 5,6%. Perdono Parigi, Londra, Francoforte, mentre alcune le borse asiatiche, Shanghai, Tokyo e Taipei sono state per ora salvate dalla chiusura per festività. Ma Hong Kong ha chiuso con meno 4 e Wall Street ha aperto in forte calo sulla scia negativa delle borse europee. Insomma un botta recessiva mondiale non da poco.
Milano è stata la peggiore di tutte anche perché pesa particolarmente la situazione disastrata del settore bancario, in un quadro europeo che comunque lo vede mal messo da tempo. L’indice paneuropeo FTSEuro first 300 a fine mattinata perdeva il 3,5%, rimangiandosi abbondantemente i rialzi del giorno prima. Dall’inizio di febbraio l’indice ha lasciato per le terre quasi l’11%. Ci avviamo con rapido passo verso una perdita mensile quale non si era vista dal 2008. In Italia il settore bancario, di cui tutti vantavano la straordinaria solidità, dal Presidente del Consiglio al Governatore di Bankitalia, è in sprofondo rosso. Mps è arretrata del 10,5%, Unicredit del 8,9%, Mediobanca del 9,96%.
Intanto il differenziale di rendimento, lo spread, fra Btp italiano e il Bund tedesco (quest’ultimo ormai con rendimenti negativi) viaggia sui 155 punti. Più o meno a metà strada fra il luglio 2011, quando era sopra i 200 punti, e il febbraio dello scorso anno quando varcava al ribasso la soglia dei 100 punti per la prima volta dopo cinque anni di crisi. Si torna indietro quindi e di parecchio. I timori di una nuova fase acuta recessiva sono tutt’altro che infondati. Anche perché il cane della crisi si morde la coda.
Alla base del tonfo di ieri vi sono varie cause, diverse e contemporanee. Alcune più contingenti, altre più strutturali. Solo che si sommano tra loro provocando effetti shock. Certamente ha pesato la decisione della Fed di rinunciare per il momento al rialzo, seppure modestissimo dei tassi. Il che indica – ed è questo che conta – che la Yellen ha percepito dagli ultimi dati che l’economia americana non è più in fase di sicura ripresa come sembrava fino a poco tempo fa e che l’occupazione, indicatore chiave per la Fed a differenza che per la Bce, segna il passo. Lo sanno bene coloro che sono corsi a votare nelle primarie democratiche per Bernie Sanders.
Tutto diventa così più incerto a livello globale. Il petrolio continua la sua corsa al ribasso. Ne soffrono i paesi produttori e al contempo dimostra che nei paesi importatori – vedi la Cina – l’economia non riprende quota. Siamo giunti a 27 dollari al barile e per converso l’oro – la “barbara reliquia” come la definì Keynes – rispolvera i fasti di bene rifugio, riportando l’oncia a quota 1.214 dollari. L’ottovolante delle Borse non può tuttavia essere spiegato solo con la fragilità psicologica degli investitori. Piuttosto con le contraddizioni intrinseche del mercato finanziario globale, che sono concatenate tra loro e quindi si alimentano a vicenda. Le Borse sono “vittime” di vendite forzate di titoli azionari. Ovvero non spinte da puri disegni speculativi - anche quelli intendiamoci - ma quasi obbligate dal concatenarsi di situazioni sfavorevoli. Chi ha preso denaro in prestito ponendo azioni in garanzia, ora che il mercato azionistico vacilla si trova costretto a reintegrare quelle garanzie. Lo fa con altro denaro o con altre azioni. Se non ne ha, le banche vendono le azioni in loro possesso. Visto il calo del prezzo del petrolio, molti fondi sovrani alimentati da petrodollari sono spinti a liquidare titoli in loro possesso. Si parla di 300 miliardi di dollari in pochi mesi. I fondi pensione e le assicurazioni a loro volta per erogare i tassi minimi che garantivano (tra l’1% e il 1,5%) si sono riempiti di Bund. Ma se il rendimento dei Bund trentennali è al di sotto, devono comprare le opportune “protezioni” sul mercato finanziario. Ad esempio futures sui Bund che ne deprimono ulteriormente i rendimenti.
Dal canto loro le banche, in primis quelle italiane, si sono riempite di denaro a basso costo elargito dalla Bce. Ma non l’hanno prestato, anche per aumentare il patrimonio e in vista dall’entrata in funzione del bail in. Che peraltro sarebbe stato molto meglio procrastinare, visto anche che non vi è alcuna garanzia europea sui depositi bancari per l’opposizione tedesca. L’aumento dello spread ora le penalizza. Infatti con quel denaro hanno ricomprato titoli di stato sul mercato e ne sono piene. Se questi sono considerati più rischiosi, la banca viene percepita come più insicura e più costoso diventa il suo finanziamento. Quindi stringono la cinghia. I mutui tornano a tassi più elevati; i prestiti a famiglie e imprese diminuiscono o si bloccano del tutto. La domanda di consumi e di investimenti si deprime ulteriormente. L’economia italiana sprofonda. E non è questione di decimali.
Il Fatto Quotidiano, 9 febbraio 2016 (m.p.r.)
«Mostri giuridici», le definì Giuliano Amato, con un cinismo non comune, se si pensa che fu lui, insieme al campione del liberismo Guido Carli, a firmare la legge 218 1990, che inaugurò, proprio con gli enti pubblici bancari, la folle stagione delle dismissioni del patrimonio pubblico italiano. Sono le Fondazioni di origine bancaria che Tremonti, vincolandone le erogazioni al territorio per il 90%, rese i più potenti soggetti politici locali.
Questi mostri benefici erogano annualmente centinaia di milioni di euro che determinano le politiche pubbliche locali in proporzione diretta all’impoverimento dei Comuni. Sfuggono qualsiasi controllo democratico e con i loro soldi condizionano i settori “ammessi” come famiglia e valori connessi; crescita e formazione giovanile; educazione, istruzione e formazione, volontariato, filantropia e beneficenza; religione e sviluppo spirituale; assistenza agli anziani; diritti civili; prevenzione della criminalità e sicurezza pubblica; sicurezza alimentare e agricoltura di qualità; sviluppo locale ed edilizia popolare locale; protezione dei consumatori; protezione civile; salute pubblica, medicina preventiva e riabilitativa; attività sportiva; prevenzione e recupero delle tossicodipendenze; patologie e disturbi psichici e mentali; ricerca scientifica e tecnologica; protezione e qualità ambientale; arte, attività e beni culturali... In agosto, con una lettera pubblicata dal Fatto denunciavo le dinamiche del tutto verticali e segrete con cui vengono scelti organi gestionali che il denaro rende ben più potenti di sindaci e giunte.
Ma di chi sono questi soldi che le Fondazioni generosamente erogano? Sono soldi appartenenti alle ex banche pubbliche e casse di risparmio, privatizzati con meccanismi giuridici solo apparentemente complessi nella stagione del neoliberismo. Sono soldi “nostri” fin dalla legge bancaria del 1936. Amato e Carli iniziarono separando le due funzioni principali delle banche che volevano privatizzare, quelle istituzionali pubbliche da quelle imprenditoriali private, collocando la vera attività creditizia in società per azioni e assegnando le azioni a “Enti pubblici conferenti”. Alla fine del decennio Amato e Ciampi, trasformarono gli “Enti conferenti” in Fondazioni di diritto privato, senza superare l’ambiguità creata dalla necessità di amministrare patrimoni miliardari (con logica privatistica) al fine di erogarne gli utili ad attività pubbliche.
La Corte costituzionale avrebbe potuto discutere della compatibilità di questa privatizzazione con l’articolo 47 della Costituzione, che attribuisce alla Repubblica la disciplina, il coordinamento e il controllo del credito, ma per mancanza di coraggio o di strumenti culturali essa si limitò a constatare l’avvenuto uno-due, capolavoro di privatizzazione (sentenza 300/2003). Poiché nel suo strumentario giuridico l’alternativa era solo fra privato o il pubblico, la Corte dichiarò che le Fondazioni sono soggetti privati che appartengono all’ordinamento civile.
Ma è possibile considerare davvero privati soggetti politici di questa rilevanza? Naturalmente no, ed ecco lo svilupparsi di oscure prassi parapolitiche nella scelta dei vertici. Giuridicamente, la novità più significativa a partire dal 2007 è stata l’elaborazione del concetto di beni comuni, con la sua logica di trasparenza e partecipazione diretta e diffusa, che scardina la vecchia distinzione fra pubblico e privato. È lecito sostenere che le fondazioni bancarie, vista l’origine pubblica del loro patrimonio, sono dei beni comuni né pubblici né privati? È possibile recuperare così un po’ di democrazia diversa dalla aberrata politicizzazione dei vertici? La discussione inizierà in un Convegno all’Università di Torino, con invito ai candidati sindaco, l’11 febbraio.
«Non più produzione per il mercato lasciato al libero arbitrio delle imprese, ma produzione per i bisogni primari di tutti da parte di una comunità che programma cosa produrre, per chi produrre, come produrre.».
Newsletter@comuneinfo.net, 9 febbraio 2016, con postilla
Ho letto su Comune l’articolo di Franco Berardi Bifo, Slump. La crescita non tornerà mai più (molto letto, condiviso e discusso in rete, ndr), e ne condivido tutte le considerazioni, in particolare che il tempo della crescita è finito e che di occupazione, intesa alla sua maniera, questo sistema non ne crescerà più. Nel contempo, però, dobbiamo stare attenti a non convalidare questo sistema né dare l’impressione che anche noi ci aggiungiamo all’esercito di Tina, There is no alternative. L’alternativa, invece c’è e la dobbiamo rivendicare cominciando a denunciare tutti i fallimenti e i rovesci di questo sistema. Un’operazione che deve necessariamente partire dal linguaggio.
Questo sistema è in crisi e questo tutti lo sanno. Il problema è capire perché. Per autoassolversi il sistema parla di eccesso di produzione, quasi si trattasse di in un errore di calcolo nella valutazione dei bisogni. Ed anche noi, senza chiederci se l’affermazione sia vera o falsa, ripetiamo a pappagallo la stessa spiegazione. Ora va detto chiaro e tondo che a questo sistema dei bisogni della gente non importa un fico secco. Gli interessano solo le vendite per i guadagni che può procurare ai mercanti. Per cui la realtà la interpreta solo con gli occhi dei mercanti che quando si accorgono che di non riuscire a vendere tutto ciò che producono parlano di eccesso di merce.
Poi magari andando a vedere come sta veramente la gente potremmo scoprire che molti vivono in una tale miseria da richiedere non solo ciò che è avanzato nei magazzini, ma molto di più. Una situazione non dissimile da quella che viviamo oggi: mentre il sistema dice di essere in crisi da sovrapproduzione, le Nazioni unite ci informano che un miliardo di persone soffre di denutrizione, che tre miliardi di persone non dispongono di servizi igienici, che ottocento milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile. E la lista potrebbe continuare con gli analfabeti, i senza tetto, i senza cure eccetera, eccetera.
Il termine giusto per descrivere la crisi del sistema, intesa come malfunzionamento, è mala distribuzione. Mentre il termine giusto per descrivere il suo fallimento, inteso come disastro sociale e ambientale, è mala impostazione. Da un punto di vista funzionale la crisi del sistema è dovuta a una distribuzione della ricchezza sempre più iniqua che ha ridotto a tal punto la massa salariale mondiale da aver avuto come effetto finale una riduzione dei consumi. Basti dire che fra il 1975 e il 2015 la quota di prodotto mondiale tolta ai salari a vantaggio dei profitti è stata dell’ordine del 10 per cento. Se aggiungiamo le risorse sottratte agli Stati sotto forma di evasione fiscale (tramite i paradisi fiscali) e sotto forma di interessi pagati sul debito pubblico, otteniamo uno spostamento enorme di ricchezza a vantaggio dei capitalisti, che non potendo espandere i propri consumi all’infinito, hanno provocato una caduta degli acquisti.
Potremmo proseguire dicendo che per tamponare la situazione il sistema ha cercato di garantirsi un’alta domanda incoraggiando il debito. Ma a forza di accumulare debiti, poi arriva il momento in cui non si possono più pagare e tutto viene giù provocando non solo l’arresto del sistema economico con conseguente caduta di tutti i prezzi compresi quelli di risorse scarse come petrolio e minerali, ma anche la caduta delle banche, delle borse e dei bilanci pubblici. Capitomboli che alimentano ulteriormente la crisi. Esattamente come sta succedendo ai nostri giorni, prima con una crisi che avuto come epicentro gli Stati, poi con una crisi che ha avuto come epicentro la Cina. In ambedue i casi per il tentativo di fare correre il cavallo economico sotto la frusta del debito, che poi si è avvolta attorno al collo del cavallo strozzandolo.
Ben più grave il fallimento del sistema da mala impostazione. Al di là delle fanfare, questo sistema è organizzato solo per garantire affari alle grandi imprese sempre più orientate alla produzione di beni ad alta tecnologia. Una scelta di per se escludente perché coinvolge solo la parte di umanità con redditi medio alti, lasciando tutti gli altri alla deriva. Così abbiamo prodotto un pianeta con una minoranza che gozzoviglia e una maggioranza che non ha ancora conosciuto il gusto della dignità umana. Preso complessivamente questo pianeta non ha più spazi di crescita, anzi deve diminuire come mostrano i dati sull’impronta ecologica e sull’accumulo di anidride carbonica. Ma analizzando le singole situazioni, scopriamo che l’obbligo di decrescere vale solo per la parte di umanità in sovrappeso.
Quanto agli scheletrici hanno diritto ad avere di più, ma potranno farlo solo se i grassoni accettano di sottoporsi a cura dimagrante e solo se tutti insieme cambiamo impostazione economica. Non più produzione per il mercato lasciato al libero arbitrio delle imprese, ma produzione per i bisogni primari di tutti da parte di una comunità che programma. In una condizione di risorse scarse e di ambiente fortemente compromesso, la nostra pretesa libertà di produrre di tutto di più lasciando al portafoglio di ognuno di stabilire cosa comprare non funziona più. Nell’economia del limite la giustizia si garantisce fissando le priorità, che vuol dire programmazione, e predisponendo forme di produzione e distribuzione che garantiscono i bisogni fondamentali a tutti, che significa produzione di comunità con godimento gratuito da parte di tutti.
Un numero crescente di persone comincia a capire che per garantirci un futuro dobbiamo ripensare cosa produrre, per chi produrre, come produrre. Ma pochi hanno messo a fuoco che la vera scelta è fra mercato individualista e comunità solidale. Su questo, però, è bene saperlo, si gioca il nostro avvenire e la nostra civiltà.
postilla
Ha ragione Francesco Gesualdi nella conclusione del suo articolo: per garantirci un futuro dobbiamo ripensare cosa produrre, per chi produrre, come produrre. Ma chi deve decidere? Chi deve assegnare alla produzione i suoi fini: Chi deve decidere quali beni (non "merci") produrre? Qui si apre il grande discorso della politica, della democrazia, della gestione del potere. E, in parallelo, si apre il discorso altrettanto rilevante e complesso del lavoro, cioè dello strumento essenziale della produzione. Mentre sulla politica ci sembra che il dibattito sia ampio e fruttuoso, sul significato del lavoro ci sembra che l'opinione corrente sia dominata da una concezione del lavoro appiattita su ciò che il lavoro è nel sistema capitalistico, non - come a nostro parere dovrebbe - su una concezione dell'uomo.
Il manifesto, 6 febbraio 2016 (m.p.r.)
La nuova frontiera della privatizzazione dei servizi pubblici locali si basa sul mantra dell’economia di scala: servono pochi grandi player nazionali per gestire acqua, rifiuti, energia e gas. In realtà, se si ragionasse logicamente e non per teoremi indiscutibili, si capirebbe come l’economia di scala abbia una sua motivazione, laddove la si interpreti nel suo reale significato: in un dato territorio e per una data attività, un certo dimensionamento geografico e territoriale della stessa consente, attraverso le sinergie intrecciabili, la riduzione degli sprechi.
L’economia di scala ha tuttavia dei limiti, legati alla particolarità dell’attività in oggetto, superati i quali si trasforma in diseconomia; solo per citarne alcuni, con importanti conseguenze sulla produttività complessiva: il costo della comunicazione, il peso (e gli stipendi) del management, il costo del controllo e dell’asimmetria informativa, il peso della diminuzione del senso di appartenenza dei lavoratori.
Ma, aldilà delle summenzionate cause di possibile diseconomia, in che senso la crescente dimensione aziendale consente una miglior gestione del servizio idrico, dell’igiene urbana e dei servizi energetici? Se guardiamo alla realtà, solo ed esclusivamente dal punto di vista economico-finanziario, relativo al fatto che la maggior dimensione aziendale rende più conveniente l’accesso al credito sul mercato bancario (e, anche questo, dovuto esclusivamente ai limiti volutamente posti dal patto di stabilità e dal pareggio di bilancio all’intervento pubblico).
Analizziamo la gestione dei rifiuti: in una logica di politiche basate sulle 4 R (Riduzione, Riciclo, Riuso e Recupero), la territorialità diventa un elemento dirimente, poiché necessita della partecipazione attiva e in prima persona di ogni abitante di un dato territorio.
In questo caso, la dimensione adeguata è esattamente quella comunale, e ogni aumento di dimensione serve unicamente ad anteporre la logica, ben più remunerativa per le lobby finanziarie, dello smaltimento a valle -attraverso discarica o incenerimento- di una risorsa, che invece può essere restituita, con vantaggi ambientali ed economici, alla collettività.
Anche per la gestione dell’acqua, la dimensione territoriale è dirimente: in questo caso, l’ideale è la dimensione integrata del bacino territoriale ottimale, da intendersi con criteri idrogeologici ed orografici e non come dimensione amministrativa o, peggio ancora, economico-finanziaria.
Il comparto dell’energia è oggi quello più riconducibile alla necessità di un’economia di scala: con un modello energetico ancora legato all’utilizzo prioritario dei combustibili fossili e, anche per quanto riguarda il settore delle energie rinnovabili, alla logica dei grandi impianti concentrati e delle grandi reti di distribuzione, la questione dell’economia di scala, legata all’approvvigionamento delle materie prime, è difficilmente aggirabile. Ma, anche in questo settore, tutto dipende dalle scelte politiche: il cambiamento climatico rende ormai dirimente, non solo l’abbandono immediato della politica energetica basata sui combustibili fossili per un nuovo modello basato sulle energie rinnovabili, ma anche l’avvio di una nuova produzione di energia decentrata e territorializzata, sino all’autoproduzione diffusa.
Se i ragionamenti sopra esposti hanno un significato, occorre dunque prendere atto di come la necessità di modelli di grande dimensione industriale per la gestione dei servizi pubblici locali risponda esclusivamente ad una logica finanziaria, che, d’altronde, è quella che sottende tutte le azioni dell’attuale governo.