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Un commento di Roberto Camagni e un intervento di Edoardo Salzano a proposito di un manifesto del "Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi". Il dibattito è aperto su una questione sulla quale esistono posizioni diverse, tra le quali il confronto è necessario.

VERITÀ E GIUSTIZIA
SUL DEBITO PUBBLICO ITALIANO
di CADTM.

(manifesto di invito all'Assemblea nazionale del CADTM - Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi, Italia)

Il mondo in cui viviamo è sempre più ingiusto.

La forbice tra i pochi che possiedono tutto e la gran parte delle popolazioni che non hanno nulla, in questi ultimi trenta anni si è allargata a dismisura.

Nel capitalismo basato sulla finanza, l’economia contemporanea si è trasformata da attività di produzione di beni e servizi in economia fondata sul debito.

La liberalizzazione dei movimenti di capitale, la privatizzazione dei sistemi bancari e finanziari, i vincoli monetaristi che permeano l’azione dell’Unione Europea hanno progressivamente reso autonome le attività e gi interessi finanziari, che ora investono non più solo l’economia, ma l’intera società, la natura e la vita stessa delle persone.

Le scelte adottate dalle élite politico-economiche dell’Unione Europea e dei governi nazionali per rispondere alla crisi scoppiata dal 2008 in avanti, hanno trasformato una crisi - che a tutti gli effetti è sistemica - in crisi del debito pubblico.

Da allora, il debito pubblico è agitato su scala internazionale, nazionale e locale, come emergenza allo scopo di far accettare come inevitabili le politiche liberiste di alienazione del patrimonio pubblico, mercificazione dei beni comuni, privatizzazione dei servizi pubblici, sottrazione di diritti e di democrazia.

Oggi la trappola del debito pubblico mina direttamente la sovranità dei popoli, la giustizia sociale e l’eguaglianza fra le persone, così come perpetua lo sfruttamento della natura, con conseguente inarrestabile cambiamento climatico.

Già i paesi del Sud del mondo, a partire dagli anni '70, erano stati testimoni di questo circolo vizioso dell'indebitamento e delle politiche di aggiustamento strutturale imposte dalle istituzioni finanziarie internazionali con conseguenze devastanti in termini economici e sociali. Ci sembra dunque fondamentale, nel momento in cui la spirale è approdata al continente europeo, imparare dagli errori del passato.

Anche nel nostro Paese, il debito pubblico è da tempo utilizzato per ridurre i diritti sociali e del lavoro e per consegnare alle oligarchie finanziarie i beni comuni e la ricchezza sociale prodotta.

Un solo esempio basti a dimostrarlo: mentre per il sostegno alle popolazioni dell’Italia centrale duramente colpite in pochi mesi da due terremoti si stanziano 600 milioni dei 4,5 miliardi necessari, per risollevare 6 banche in fallimento si mettono immediatamente a disposizioni 20 miliardi di garanzie statali, da caricare sul debito pubblico del Paese. Mentre, per ogni evenienza, viene utilizzato lo spauracchio dell'aumento dello “spread” per rilanciare politiche di austerità e privatizzazioni.

Occorre invertire la rotta. Occorre comprendere, elaborare e spiegare il fenomeno debito per creare azioni che rivoluzionino l’attuale sistema delle diseguaglianze.

Occorre un’operazione di verità sul debito pubblico italiano, per conoscere come e per quali interessi è stato prodotto, quanta parte ne è illegittima, odiosa, illegale o insostenibile.

Occorre un’operazione di giustizia sul debito pubblico italiano: in un Paese in cui quasi la metà della popolazione fatica ad arrivare alla fine del mese e una famiglia su quattro non riesce ad affrontare le spese mediche, non si può più accettare che le banche e i profitti valgano più delle nostre vite e dei nostri diritti.

A questo scopo, Cadtm Italia (Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi), affiliato al network internazionale dei Cadtm (Tunisi, Aprile 2016), rete inclusiva di persone, comitati, associazioni ed organizzazioni sociali, prosecuzione strutturata e mirata dell’esperienza del Forum Nuova Finanza Pubblica e Sociale e sintesi operativa dei bisogni emersi dall’Assemblea-Convegno sugli audit locali (Livorno, Gennaio 2016) e dal Convegno “Dal G8 di Genova alla Laudato si’: il Giubileo del debito?” del 19 luglio scorso

PRENDERSELA COL DEBITO?
ERRATO E POLITICAMENTE SCORRETTO
di Roberto Camagni

Prendersela col debito pubblico, come si fa nell’iniziativa “Verità e giustizia sul debito pubblico italiano”, suggerendo che sia possibile “uscire dalla trappola” che esso rappresenta per il paese e che occorra impegnarsi per “il ripudio del debito illegittimo”, mi pare operazione errata economicamente e politicamente scorretta.

Il mostruoso debito pubblico attuale - accumulato attraverso i deficit del bilancio dello stato presentati annualmente da quasi cinquant’anni e il relativo costo per interessi da pagare – rappresenta oggi una massa indistinta di titoli detenuta da chi ha prestato soldi al nostro paese, e cioè famiglie, banche e oggi anche la Banca Centrale Europea. Sottolineo l’aggettivo "indistinta", perché il debito è costituito da un impegno a restituire i fondi indipendentemente dalle ragioni che hanno spinto il paese a sforare ogni anno il suo bilancio pubblico. E non potrebbe che essere così: è impossibile determinare se il deficit di un anno è dovuto ai salari pubblici (magari in parte pagati per assunzioni di amici), welfare (magari generoso e di manica larga sulle pensioni come si faceva una volta, baby-pensionati ad esempio), opere pubbliche (magari inutili) o corruzione.

Dunque si deve ipotizzare che prima o poi il debito deva essere pagato; altrimenti, come è accaduto per la Grecia, i creditori chiederebbero tassi di interesse crescenti per detenere i nostri bot e il meccanismo diverrebbe catastrofico (e pagare i dipendenti pubblici diverrebbe impossibile). Vogliamo seguire la vecchia strada dell’Argentina in questo senso?

E’ bensì vero che in alcuni casi, per piccoli paesi poveri, il debito, detenuto da paesi avanzati o da grandi imprese, è stato condonato. Ma comunque ciò ha avuto un costo per i creditori, e si è trattato, ripeto, di paesi poveri. E non si tratta di 2.200 miliardi di debiti di un paese ‘ricco’ come l’Italia.

Le motivazioni politiche addotte per sostenere la tesi del ripudio mi sembrano confuse. Si imputa la insostenibilità al capitalismo finanziario odierno, quando il grosso del nostro debito originario è stato creato prima degli anni ’90, e negli ultimi 15 anni abbiamo solo verificato, con l’aumento degli spread, quanto fosse pericolosa la trappola che ci siamo costruiti noi.

Il costo per finanziare questo debito pubblico (spesa per interessi) non è mai stato così basso come oggi. Nel novembre scorso il tasso mediamente pagato è sceso allo 0,5%, e l’OCSE stima un risparmio complessivo per interessi nel triennio 2015-17 pari al 2,2% del PIL. Ciò è dovuto all’euro, alla discesa dell’inflazione e alle politiche di Draghi: quando ha stroncato la speculazione finanziaria nel settembre 2012 con un semplice annuncio (“pronti a fare tutto il necessario”); quando ha avviato una politica monetaria espansiva (il quantitative easing) ed è riuscito a far acquistare dalla BCE quote importanti del nostro debito, contro la posizione della Germania e dei paesi nordici. L’azione della BCE ha, almeno fin qui, evitato proprio quello che si afferma nel motivare l’iniziativa, cioè “di trasformare una crisi sistemica in una crisi del debito pubblico”.

Se gli obiettivi che si intravedono dietro questa iniziativa sono condivisibili – le politiche di austerità imposte dall’Unione Europea a trazione tedesca, le scelte di politica economica del paese – il bersaglio è sbagliato. E trasmettere il messaggio che il problema sia quello della trappola del debito, che “mina direttamente la sovranità dei popoli, la giustizia sociale e l’uguaglianza delle persone” (oltre che “lo sfruttamento della natura e il cambiamento climatico”) mi pare metodo politicamente scorretto, pericolosamente simile a quello dei populismi di destra e pentastellati, che aggiungono, implicita nella sovranità dei popoli, la sovranità monetaria. Prima di accorgersi dell’errore politico, qualche frangia della politica e della cultura di sinistra si è trastullata nel recente passato con l’idea dell’uscita dall’euro (per la Grecia, per vedere l’effetto che fa, ed eventualmente per l’Italia), come ho stigmatizzato nel mio articolo su eddyburg.it del 19 luglio 2015 “La grandezza di Tsipras e i vaniloqui di certa sinistra”. Non commettiamo lo stesso errore col debito pubblico.

Piuttosto riflettiamo su tre grandi temi sui quali oggi aprire un’azione politica vera ed efficace:
1) quali strategie di politica economica possiamo cercare di imporre all’EU, con i paesi del sud Europa, per allentare la morsa di una socialmente costosa ed economicamente inutile austerità;
2) come realizzare un programma di politica economica basato sul rilancio degli investimenti, pubblici e privati, che costituiscono l’unico modo per uscire nel medio termine dalla “trappola” del debito, anche appoggiando l’idea degli European Safe Bonds, oggi timidamente studiata dalla UE;
3) come rispondere attraverso decise politiche redistributive ai costi sociali della crisi, anche predisponendo uno strumento forte di tassazione patrimoniale una tantum, come proposto da tempo da alcuni economisti: l’unico strumento utilizzabile e concreto per ridurre a breve termine il peso del debito pubblico.

UNA DIVERSA VISIONE
DELLA QUESTIONE DEL DEBITO PUBBLICO
di Edoardo Salzano

La lettura del commento di Roberto Camagni al manifesto del "Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi" mi fa comprendere, e di questo lo ringrazio, quanto siano fuorvianti la sparate demagogiche del tipo: “il debito pubblico è ingiusto, cancelliamolo”, ma non mi aiuta a vedere il nocciolo di verità che c’è in esso. In particolare, essa contrasta con tutto ciò che avevo appreso nel decennio trascorso a proposito della crisi del 2007, delle sue cause e dei suoi autori. nonché della svolta avvenuta dopo il lungo lavorio svolto dalla Trilateral Commission (1943) e dalla Mont Pèlerin Society (1947).

Avevo appreso che la crisi di oggi è la crisi dell’età del capitalismo finanziario, nata con la liberalizzazione dei movimenti di capitali e l’ascesa della finanza. Un modello che - come hanno scritto Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini - ha rotto il compromesso tra capitalismo e democrazia e messo nell’angolo la politica. Avevo appreso come, si fossero create le condizioni per spingere il capitalismo «a rompere il compromesso storico con la democrazia determinando l’involuzione del sistema economico verso le forme più rozze rappresentate […] dalla capacità di sfiduciare i governi che perseguivano politiche economiche non gradite». mutazione fondamentale di natura essenzialmente finanziaria che dà origine alla crisi attuale»[1].

Del resto, l’abdicazione della politica dei governi a quella voluta dai grandi gruppi finanziari si era rivelata in Italia in modo emblematico con la vicenda della tentata sostituzione della Costituzione del 1948. Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, non ha mai smentito di aver sollecitato il governo Renzi a quella iniziativa (bocciata dagli elettori il 4 dicembre 2016) proprio per adempiere al diktat della JP Morgan Chase (meno diritti per il lavoro, meno spazio per la democrazia) [2]

Tornando alla questione del debito pubblico, esso diventa un problema politico e sociale a causa di una decisione del parlamento italiano; questo ha approvato, nel luglio 2016, il patto fiscale (Fiscal Compact) che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni. Questa decisione comporterà per l’Italia, ha scritto Luciano Gallino, «una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l’anno, dal 2013 al 2032.Una cifra mostruosa che lascia aperte due sole possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà»[3].

Dagli scritti di Luciano Gallino avevo appreso anche che, proprio a causa di quel capovolgimento del sistema dei poteri da lui denominato Finanzcapitalismo, il sistema bancario era divenuto qualcosa di molto diverso da quello che era ai tempi di Raffaele Mattioli e di Enrico Cuccia. Secondo l’analisi di Gallino in molti casi non si tratta di banche ma di «conglomerati finanziari formati da centinaia di società, gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riesce a stabilire l’esatto ammontare né il rischio di insolvenza». Ciò avviene, prosegue Gallino perché «esse hanno creato, con l’aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore. Questo nuovo soggetto sociale e politico (oltre che economico) è formato da varie entità che operano come banche senza esserlo: fondi monetari, speculativi, di investimento, immobiliari».

Quando parliamo di sistema bancario parliamo insomma di una realtà molto diversa da quella dallo sportello a cui l’operaio o il pensionato o la casalinga affidano i loro risparmi. Parliamo di un soggetto che è fallito, o corre il rischio di fallire, perché ha fatto operazioni speculative sbagliate, o addirittura criminose. È questo il soggetto cui dovremmo rimborsare i soldi che per sua colpa ha perso.

È riformabile una realtà siffatta? Io credo di no. Il vero problema di fronte al quale ci troviamo quando parliamo del debito pubblico non è allora quello di domandarsi come rimborsarlo o come alleggerirlo, ma è quello – certamente più complesso e difficile – di come rovesciare il sistema di potere che lo ha prodotto. Uscire, insomma, non solo da questa nuova incarnazione del capitalismo ma dallo stesso sistema di idee, di valori, di principi, di pratiche, di modi di vita che va sotto il nome di capitalismo.

È probabile che io sia particolarmente ricettivo nei confronti delle analisi più radicali dell’evoluzione del capitalismo emerse in questo secolo perché avevo avuto la fortuna, grazie ai miei maestri Franco Rodano e Claudio Napoleoni, di intravedere ciò che stava avvenendo. Si trattava degli anni in cui la nuova forma del proteiforme capitalismo aveva cominciato a manifestarsi in quella che Gailbraith battezzò The Affluent Society (1958). Lo testimonia il mio libro Urbanistica e società opulenta (1969). Devo dire che, a partire da quegli anni, sono convinto - a differenza di molti miei amici - che il sistema capitalistico non sia emendabile, né nella sua versione privatistica, che ha dominato nel mondo Nordatlantico, né in quella statalistica, sperimentata in quello sovietico.



[1] GiorgioRuffolo e Stefano Sylos Labini, “La deriva del capitalismo”, la Repubblica,22 settembre 2012
[2] VediSalvatore Settis, “La riforma ricalca quella di Berlusconi”, la Repubblica, 4 ottobre 2016
[3] LucianoGallino, “Sulla crisi pesano i debiti delle banche”, la Repubblica, 30 lugio 2012

Apple, Google, Simens, Roll Royce sono solo alcune delle imprese che hanno la Rete come infrastruttura. Finanza, lavoro precario, bassi salari, evasione fiscale, uso dell'intelligenza artificiale e tendenza al monopolio sono le loro caratteristiche». il manifesto, 14 febbraio 2017 (c.m.c.)

Nick Srnicek Platform capitalism (Polity, pp. 171, euro 11,66)

In tempi dove la fila per dare l’estremo saluto alla globalizzazione si allunga sempre più, vedendo marciare gomito a gomito teorici in odore di marxismo e esponenti della destra populista e nazionalistica, un saggio come quello di Nick Srnicek Platform capitalism (Polity, pp. 171, euro 11,66) è decisamente controcorrente, visto che è scandito dalla convinzione che il capitale abbia una innata vocazione mondiale, globalista».

Tanto esponenti radical che xenofobi sostengono che è tempo di un ritorno alla sovranità nazionale, individuando in essa sia l’unico spazio della trasformazione sociale che il fortino dove salvaguardare identità locali. La crisi economica attesta che l’ideologia neoliberale sul mondo piatto era una perniciosa illusione che ha favorito il capitale finanziario e accentuato all’inverosimile le disuguaglianze sociali. Di fronte a tale critica c’è da sottolinearne la concezione storicista dello sviluppo capitalistico, quasi che la storia sia una linea retta che tende inesorabilmente alla sua fine.

D’altronde che la globalizzazione non fosse un pranzo di gala era evidente sin dalla crisi della cosiddetta new economy. Anche allora ci fu chi scrisse che serviva solo chi desse l’estrema unzione alla globalizzazione dopo il tonfo della Borsa a Wall Street che decretò la chiusura di decine di imprese high-tech. Una crisi, quella di allora, che vide scorrere velocemente sugli schermi di tutto il pianeta le manifestazioni altermondialiste fino alle giornate di Genova», l’assalto alle Torri gemelle, l’intervento militare in Afghanistan prima e Iraq dopo.

Nel mondo piatto amato dai neoliberisti la guerra – sebbene sia comunque un conflitto non convenzionale, cioè combattuto da eserciti nazionali – è sempre lo strumento di gestione politica della crisi capitalistica che, in questo caso, ha accelerato i processi di globalizzazione, all’interno di uno schema dove la somma tra discontinuità e continuità non si avvicina certo allo zero. Semmai dà forma a fenomeni di interdipendenza e diffusione planetaria del modo di produzione capitalistico, in un caleidoscopio di finanza internazionale, imprese globali e bacini di eterogeneo lavoro vivo.

Anche quello che sta accadendo in queste settimane negli Stati Uniti dopo l’insediamento di Donald Trump non suona a morte per nessuno, ma segnala semmai la ferocia e la violenza che contraddistinguono i tentativi di fuoriuscire da una crisi a geografia variabile che dura ormai dal 2007 e della quale ancora non si vede l’uscita. Più che ratificare la fine della globalizzazione Trump sta semmai sottoscrivendo l’atto di dolore della fine dell’egemonia statunitense nell’economia mondiale.

Per comprendere la difficoltà di chiudere una fase dello sviluppo capitalistico con un decreto presidenziale il denso saggio di Nick Srnicek è quindi una ventata di aria fresca. L’autore, nell’analisi del ruolo nel capitalismo mondiale di imprese come Google, Amazon, General Electric, Siemens, Ibm, Apple, Roll Royce, Uber, invita a pensare alla globalizzazione non come una parentesi, bensì come un elemento irreversibile, specificando tuttavia che non esiste un modello statico della globalizzazione stessa, bensì come un processo dove svolgono un ruolo fondamentale le strategie imprenditoriali tese a ingaggiare e prevenire il conflitto sociale, e di classe, nonché trovare una risposta, flessibile e in divenire, a una crisi del capitalismo che ha preso l’avvio nei, ormai lontani, anni Settanta del Novecento.

Ricercatore presso la Univerity of London e autore di un libro dove prefigura una società postlavorista (Inventing the Future: Postcapitalism and a World Without Work, scritto con Alex William) e di alcuni saggi sull’accelerazionismo» – in Italia ne è stato pubblicato uno nel volume Gli algoritmi del capitale (ombre corte) -, Srnicek si propone in questo saggio di illustrare le caratteristiche di un capitalismo globale e dove lo stato-nazione serve tutt’al più a garantire la deregolamentazione del mercato del lavoro, la libertà di movimento dei capitali e a definire le norme affinché la vita sociale sia compatibile con il regime di accumulazione capitalistico.

Il saggio fornisce elementi analitici, approfondimenti sulle diverse tipologie di piattaforma» e business model che scandiscono il platform capitalism. La scelta di una consolidata datazione storica dello sviluppo capitalismo – la crisi degli anni Settanta dovuta a un surplus di capacità produttiva e la conseguente sovrapproduzione, la liberalizzazione della circolazione dei capitali, la leva usata sui tassi d’interesse, la deregolamentazione del mercato del lavoro e un epocale processo di decentramento produttivo, lo tsunami di investimenti per la ricerca e sviluppo propedeutico alla rivoluzione del silicio» – serve per leggere lo sviluppo capitalistico in base a una logica sistemica» esterna alle relazioni sociali e i conflitti di classe, geopolitici che hanno caratterizzato gli anni del neoliberismo. Ed è questa logica sistemica che dà forma alla globalizzazione e alla sua infrastruttura tecnologica, la Rete.

La narrazione di Srnicek abbandona a questo punto i sentieri già aperti e battuti dalla tradizione keynesiana-marxista per affrontare elementi ritenuti inediti dell’attività economica: forme di impresa a rete dalle medie dimensioni che generano però alti profitti e che occupano il centro della scena globale produttiva.

Già perché il modello di imprese emergente è quello definito, secondo l’autore, dalla Nike: accentramento della gestione di ideazione, progettazione e decentramento radicale di tutte le attività a basso contenuto di conoscenza (in questo caso torna utile la distinzione tra dati e conoscenza, spesso ignorata dagli agit-prop del capitalismo delle piattaforme).

Ma quello che fa davvero la differenza è che i dati sono ormai diventati le materie prime privilegiate nello sviluppo capitalistico. E che la cosiddetta digital economy è trasversale, cioè coinvolge tutte le attività produttive. Considerando la tassonomia delle espressioni usate per indicarla – sharing economy, app economy, gig economy – una convenzione che qualifica questo o quell’aspetto dell’economia digitale, la tesi di Srnicek è che il platform capitalism è il modello emergente e vincente di questo giro di boa del capitalismo. Ogni impresa investe infatti in tecnologia e software, così come è connessa alla rete per rendere efficiente il coordinamento delle diverse fasi produttive, disperse geograficamente su regioni non sempre vicine, producendo così dati, cioè materia prima per se stesse e per altre imprese.

La scala globale delle piattaforme è dovuta all’obiettivo di accrescere, in maniera esponenziale, la massa di dati da elaborare, impacchettare, vendere ad altre aziende per i loro affari, sia che siano vendita di spazi pubblicitari o servizi.

Interessante è la distinzione introdotta per evidenziare diverse tipologie di piattaforma. C’è l’advertising platform (vendita di spazi pubblicitari: qui i padroni sono Google e Facebook), la cloud platform, cioè i proprietari di hardware e software usati da altre imprese, l’industrial platforms (che fornisce la tecnologie e il software affinché altre aziende possano ottimizzare i propri processi organizzativi e produttivi), le product platforms (i loro profitti derivano dall’uso di altre piattaforme, che trasformano i loro prodotti in servizi usati da imprese), le lean platforms (quei servizi come Airb&b e Uber).

Tutte queste tipologie più dati accumulano più potere esercitano sul mercato di loro competenza, garantendo così i propri margini di competività verso altre imprese. Ma la vocazione globalista» è data da altri motivi triviali: l’evasione delle tasse, facendo leva sulle differenti legislazioni e sulla moltiplicazione di regioni tax free per attrarre investimenti. La creazione di monopoli è quindi la logica conseguenza di questo tipo di capitalismo, nonostante le retoriche dominanti sul libero mercato e la concorrenza come sale di una buona economia.

In un milieu di capitale di ventura, sviluppo di software che attingono a ricerche sull’Intelligenza artificiale, lavoro precario e deregolamentato, le piattaforme sono inoltre imprese con pochi dipendenti, ma che attivano ampi indotti di piccole imprese che sviluppano app. Il nodo della crescita senza lavoro trova soluzione in questa dimensione sistemica» del capitalismo delle piattaforme.

L’altro elemento colto da Srnicek è il legame tra tecnologie della sorveglianza e accumulo dei dati. Più sorveglianza c’è, più dati possono essere tratti dai comportamenti dei singoli, attivando procedure automatizzate di profilazione» che può essere successivamente venduta o per sviluppare strategie di pubblicità mirate. In questo caso, sarebbe però opportuna la formazione di un complesso militare-digitale, visto che tanto i militari che le imprese private raccolgono, estraggono» dati.

Pochi, invece, i riferimenti a su come sia cambiato il lavoro. Srnicek insiste sul fatto che il capitalismo delle piattaforme prevede una crescita senza lavoro, ma il discorso andrebbe meglio articolato. Da una parte ogni impresa di questo tipo dà forma a veri e propri bacini di forza lavoro che contemplano diverse forme contrattuali, specializzazione, appartenenza etnica e di genere e dove le imprese attingono ogni volta che ne hanno bisogno. Da questo punto di vista sarebbe corretto parlare che il lavoro vivo viene gestito tutto come un esercito industriale di riserva, eccetto per alcune mansioni ritenute strategiche, determinando la convergenza di interessi tra il core labour e le imprese (da questo punto di vista Silicon Valley è paradigmatica della difficoltà, se non impossibilità di pensare i knowledge worker come soggetto centrale di un rinnovato conflitto di classe).

Il caso noto dei Mechanical Turk di Amazon è qui significativo dell’uso di lavoro intermittente e con salari spesso sotto al di sotto della soglia di povertà.

Ma questo non è l’oggetto del libro. Un limite certo, ma anche un punto di forza nel descrivere e mettere a tema teorico e politico il platform capitalism come forma emergente di quella globalizzazione che tutti considerano morta ma che fa della crisi, e della sua flessibile gestione, un elemento dinamico. Per le imprese, certo non per il lavoro vivo, che vede moltiplicarsi dispositivi, norme, regole di comportamento e una riduzione progressiva del suo salario.

Huffington Post, 13 febbraio 2017

A soli due giorni dal voto del Parlamento Europeo sul Ceta, l'accordo di libero scambio tra Canada e Ue, la maggioranza degli eurodeputati sembra non aver ancora letto il testo. In molti tentano di rassicurare le migliaia di persone che, insieme a noi della Campagna Stop TTIP Italia, stanno scrivendo e telefonando ai loro uffici, con la richiesta di respingere un trattato dai gravi impatti sociali e ambientali.

Le 1600 pagine del Ceta, infatti, sono dense di concreti pericoli per la salute dei cittadini e per l'ambiente. Come ha denunciato il parlamentare europeo Dario Tamburrano, il rischio di ingresso di Ogm e pesticidi attualmente vietati è non solo possibile, ma altamente probabile, così come l'importazione di prodotti derivati da animali trattati con ormoni della crescita.

Più volte la Commissione Europea ha tentato di smentire con dichiarazioni nette questi rischi. Il ruolo del pompiere, in Italia, lo ha svolto il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda. Ma le rassicurazioni di Roma e Bruxelles non trovano riscontro sul testo consolidato del Ceta, che anzi le priva di ogni fondamento.

È sufficiente leggere l'allegato 5-D, che traccia le linee guida per il riconoscimento di equivalenza delle misure sanitarie e fitosanitarie nei due Paesi. Stando al Ceta, è possibile ottenere il mutuo riconoscimento di un prodotto - e quindi evitargli nuovi controlli nel Paese in cui verrà venduto - se si è in grado di dimostrarne "oggettivamente" la sostanziale equivalenza con quelli commercializzati dalla controparte. La sostanziale equivalenza si valuta in base ad una serie di criteri o linee guida. Ma il testo del Ceta non le ha mai definite.

Quel paragrafo cruciale, sulla determinazione e il riconoscimento dell'equivalenza, è lungo mezza riga e dice così: "Saranno concordate in un secondo momento".

Il Ceta fallisce clamorosamente nel tutelare la salute dei cittadini e dell'ambiente. Invece di vietare chiaramente l'ingresso di alimenti geneticamente modificati e sostanze chimiche tossiche, spalanca le porte a una deregolamentazione violenta e irreversibile. Questo accordo contiene espressioni vaghe e pericolosissime, e potrà essere implementato anche dopo la ratifica dall'organismo di cooperazione regolatoria, un gruppo di tecnici il cui operato non è soggetto ad alcun controllo pubblico. Tutto questo è inaccettabile, il Parlamento Europeo non può mettere la testa dei cittadini sotto la scure del grande business. Gli eurodeputati italiani devono respingere il Ceta e rispettare le richieste della società civile.

Riferimenti

Sull'argomento vedi in particolare, su eddyburg, Cos'è il CETA. l'articolo di Marco Bersani CETA e TTIP contro i serizi pubblici, l'intervista a Colin Couch Il TTIP trasferisce il potere alle multinazionali-trasferisce-il-potere-alle.html, l'articolo di Monica De Sisto TTIP le nostre democrazie restano a rschio, e numerosi altri digitande TTIP oppure CETA nel "cerca in alto a destra du ogni pagina


Papa Bergoglio con un discorso pronunciato in Vaticano il 4 febbraio scorso ha compiuto un passo decisivo nella definizione del suo pensiero in materia di economia. L’occasione è stata un’udienza con il movimento dell’Economia di Comunione che si ispira a Chiara Lubich, un’imprenditrice che negli anni ’70 in Brasile dette vita ad esperimenti di imprese organizzate in “cittadelle” industriali che si sono date la regola di ripartire i profitti a beneficio dei dipendenti e di “coloro che sono nel bisogno”. Anche in Italia, a Loppiano in Toscana, esiste un Polo produttivo di imprese che seguono i principi dell’Economia di comunione e una Scuola di Economia civile coordinata dall’economista Luigino Bruni.

La novità del discorso di Bergoglio, rispetto alla stessa enciclica Laudato si’ (Papa Francesco, Laudato si’. Enciclica sulla cura della casa comune, Edizioni San Paolo, 2015) e a tutta la Dottrina sociale della Chiesa (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, 2004), è che questa volta il Papa non si è limitato a denunciare i peccati (gli eccessi, gli effetti collaterali indesiderati) dell’economia, ma ha chiamato il peccatore per nome: il capitalismo. “Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto”. E ancora: “Il capitalismo continua a produrre scarti”, cioè poveri, emarginati, esclusi dalla società. Non mi pare che dalla Chiesa romana sia mai giunta una condanna così esplicita del capitalismo.

Vediamo alcuni passaggi dell’impegnativo discorso pubblicato sull’Avvenire di domenica 5 febbraio con il significativo titolo di prima pagina a 4 colonne: “Altra economia, ora”. Gli imprenditori che applicano i principi e le regole dell’“economia di comunione” operano un “profondo cambiamento del modo di vedere e di vivere l’impresa. L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può edificarla, può promuoverla”. Tre i temi scelti: il denaro, la povertà e il futuro.

Sul denaro Bergoglio ricorda il Gesù di Giovanni della cacciata dei mercanti dal tempio e prosegue con un bagno di realismo: “Il denaro è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine (…) [quando] l’accumulo di denaro per sé diventa il fine del proprio agire”. La soluzione: “Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo con altri”. Per Bergoglio la lotta alla povertà (“curare, sfamare, istruire i poveri”) ha bisogno di istituzioni pubbliche efficaci fondate sulla solidarietà e il reciproco soccorso. Qui sta “la ragione delle tasse” come forma di solidarietà e la condanna morale all’“elusione e alla evasione fiscale”. Ma attenzione, l’assistenza ai bisognosi non deve servire a nascondere le cause della povertà: “questo non lo si dirà mai abbastanza – il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare. Il principale problema etico di questo capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere”. Il ragionamento di Bergoglio riguarda il funzionamento dell’economia in senso generale e ridicolizza i puerili tentativi con cui un certo capitalismo tenta di riparare i danni arrecati alle persone e all’ambiente naturale. Lo scritto è davvero magistrale: “Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto piantano alberi, per compensare parte del danno arrecato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è ipocrisia!”. Più avanti precisa: “Il capitalismo conosce la filantropia non la comunione”. Leggendo queste parole a me sono venute in mente tanta parte della cooperazione internazionale, la fondazione Bill&Melinda Gates che pretende di insegnare agli africani come vivere, ma anche le illusioni distribuite a piene mani dalle industrie della green economy, dai “fondi di investimento etici”, dei certificati di Responsabilità sociale delle imprese e così via, tentando di umanizzare il capitalismo. Prosegue quindi Bergoglio più chiaro che mai, quasi a voler richiamare i suoi bravi interlocutori imprenditori dell’economia di comunione ad un impegno ancora più profondo: “Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon Sammaritano non è sufficiente”. E ancora: “Occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture del peccato che producono briganti e vittime”. Verso la fine torna sul concetto: è necessario “cambiare le strutture per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti”.

Infine il tema del futuro; come comportarsi per apportare cambiamenti.“Non occorre essere in molti per cambiare la nostra vita”, dice Bergoglio. “Piccoli gruppi” possono funzionare da seme, sale ed enzima per il lievito. “Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri”. Dono e amore, reciprocità e condivisione sono le leve del cambiamento. “Il ‘no’ ad un’economia che uccide diventi un ‘sì’ ad un’economia che fa vivere”, conclude. Per quanti si occupano in vario modo e in varie forme di economia solidale questo discorso del Papa appare molto incoraggiante.

Il Fatto Quotidiano, blog "Economia occulta", 29 gennaio 2017

Nessuno poteva immaginare che alzare i muri, quelli legali che bloccano il movimento delle persone e delle merci, fosse così facile nel XXI secolo. In appena una settimana Donald Trump ha rovesciato completamente la politica del suo predecessore in relazione a questi due temi. E’ la fine della globalizzazione? Molti se lo chiedono. In un certo senso la risposta è sì, ma non perché il 45esimo presidente degli Stati Uniti ha con un colpo di penna riportato l’America all’isolazionismo dell’inizio del secolo scorso; piuttosto i motivi del ritorno alle mode degli -ismi che chiudono: nazionalismo, protezionismo, populismo ecc. è da attribuire all’eccessivo ottimismo che per decenni ha caratterizzato l’analisi di un fenomeno vecchio come il mondo, la globalizzazione, che sempre invecchiando diventa incontrollabile. Ed ecco perché oggi fa paura quello che tre decenni fa sembrava una conquista storica.

Ironicamente, all’inizio del secolo, quando si brindava quotidianamente alla globalizzazione, fu la politica della paura americana a convincere gran parte degli europei a seguire George W. Bush e Tony Blair in una guerra illegale e scellerata in Iraq. I motivi erano menzogne ma anche allora imperversavano le fake news, le notizie false. E così è stato gettato il seme del caos politico e dell’anarchia che oggi regna in molte regioni del mondo. E naturalmente queste sono tutte musulmane.

Come in un film di fantascienza dove passato, presente e futuro si intersecano, questa settimana, la paura del terrorista islamico, sempre lui che dal quel tragico 11 settembre influenza la politica estera di mezzo mondo, è stata presentata come giustificazione dell’ordine esecutivo “Protecting the Nation From Foreign Terrorist Entry Into The United States” con il quale si blocca temporaneamente l’ingresso a cittadini di alcune nazioni: Siria, Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan e Yemen. Il coro di voci contrarie ha fatto un boato che abbiamo sentito tutti. Ma Trump non è l’unico che sta facendo marcia indietro dentro il villaggio globale cancellando gli accordi del passato, è solo l’unico che suscita i lamenti del coro greco globale.

In Europa il problema dei migranti, e di come bloccarli non solo è all’ordine del giorno ma spesso diventa uno strumento politico nelle riaccese tensioni geopolitiche tra paesi limitrofi ad esempio tra la Grecia e la Turchia. Questa settimana la Corte Suprema greca ha bloccato l’estradizione di otto militari turchi accusati da Ankara di aver partecipato al fallito colpo di Stato del 15 luglio scorso. Il motivo: se rimpatriati potrebbero essere uccisi. I militari erano atterrati ad Alexandroupolis il giorno dopo con un elicottero ed avevano chiesto asilo politico che ancora non gli è stato concesso.

Secondo il regime turco motivi politici di ostilità nei confronti del governo sono alla base della decisione presa dalla Corte Suprema. Tutto ciò mette a repentaglio l’accordo sulle migrazioni firmato dall’Unione Europea e dalla Turchia secondo cui chi arriva in Grecia dalla Turchia viene automaticamente rimandato indietro.

La politica di riammissione dei clandestini e dei migranti in Turchia è il muro europeo nei loro confronti. In cambio, la Turchia dovrebbe ricevere aiuti finanziari, l’esenzione dal visto per tutti i cittadini turchi che vogliono entrare in Europa e un’accelerazione dei negoziati per far entrare la Turchia nell’Unione europea. Turchia e Grecia hanno anche un accordo bilaterale sulla riammissione in Turchia dei clandestini.

Ankara ha detto chiaramente che sta considerando l’annullamento di questo accordo. Se così fosse la Grecia e l’Europa si ritroverebbero di fronte a ciò che è accaduto nel 2015, un esodo di migranti massiccio. A quel punto è molto probabile che si dovrà ricorrere a nuovi stratagemmi, e cioè alzare nuovi muri legali insieme a quelli veri, per bloccarne l’ingresso. Ma non basterà una firma per farlo!

il manifesto, 17 gennaio 2017

Otto super miliardari detengono la stessa ricchezza netta (426 miliardi di dollari) di metà della popolazione più povera del mondo, vale a dire 3,6 miliardi di persone. Il dato, tragico, viene dall’ultimo rapporto dell’Oxfam – «Un’economia per il 99%» – diffuso alla vigilia del Forum economico mondiale di Davos. La forbice tra ricchi e poveri aumenta ogni anno anziché venire corretta al ribasso, e il fenomeno è sempre più preoccupante visto che una grossa fetta della popolazione mondiale (circa un decimo) soffre la fame ed è costretta a sopravvivere con meno di 2 dollari al giorno.

Ma dall’altro lato ci sono gli stra-ricchi, gli sfacciatamente ricchi, e nei prossimi 25 anni potremo sperimentare il brivido di conoscere addirittura un trillionaire («trilionario»): possiederà cioè più di 1000 miliardi di dollari (oggi i primi otto paperoni sono tutti sotto i 100 miliardi). Per avere un’idea del significato – spiega Oxfam – bisogna pensare che per consumare un trilione di dollari è necessario spendere 1 milione di dollari al giorno per 2.738 anni.

Le identità degli uomini più ricchi del mondo (tutti e otto maschi, tra l’altro) sono ovviamente già note: guida la classifica Bill Gates, fondatore di Microsoft, con 75 miliardi di dollari di patrimonio personale. Al secondo posto troviamo lo spagnolo Amancio Ortega, fondatore e proprietario della catena Zara (67 miliardi). Seguono il finanziere Usa Warren Buffett (60,8 miliardi), Carlos Slim (industriale messicano delle telecomunicazioni) con 50 miliardi, Jeff Bezos (fondatore di Amazon) con 45,2 miliardi, Mark Zuckerberg di Facebook con 44,6 miliardi. In fondo alla graduatoria (in fondo si fa per dire) troviamo Larry Ellison (Oracle) con 43,6 miliardi e Michael Bloomberg (magnate dei media) con 40 miliardi di dollari.

E in Italia? Non sfiguriamo di certo in quanto ad ampiezza della forbice tra ricchi e poveri: nel 2016 il patrimonio dei primi sette dei 151 miliardari italiani della lista Forbes equivaleva alla ricchezza netta detenuta dal 30% più povero della popolazione (ovvero 80 miliardi di euro). In sette hanno cioè una ricchezza equivalente a quella in mano ai 20 milioni di italiani più poveri.

I sette nomi di nostri concittadini che leggiamo nella lista della rivista Forbes sono: Rosa Anna Magno Garavoglia (recentemente scomparsa) del gruppo Campari; lo stilista Giorgio Armani; Gianfelice Rocca; Silvio Berlusconi; Giuseppe De Longhi; Augusto e Giorgio Perfetti.

Una situazione che, come abbiamo già detto, non è stazionaria, né in miglioramento, ma che al contrario si aggrava ogni anno: sette persone su dieci, infatti, vivono in paesi dove la disuguaglianza è cresciuta negli ultimi 30 anni. Tra il 1988 e il 2011 il reddito medio del 10% più povero è aumentato di 65 dollari, meno di 3 dollari l’anno, mentre quello dell’1% più ricco di 11.800 dollari, vale a dire 182 volte tanto.

Le disuguaglianze anche in Italia sono feroci, e la sproporzione non si nota solo rispetto ai più poveri, ma anche rispetto al ceto medio. Il patrimonio dell’1% più ricco degli italiani (in possesso oggi del 25% della ricchezza nazionale netta) è oltre 30 volte quello del 30% più povero dei nostri connazionali e 415 volte quello detenuto dal 20% più povero.

Nel 2016 la distribuzione della ricchezza nazionale netta (il cui ammontare complessivo si è attestato, in valori nominali, a 9.973 miliardi di dollari) vedeva il 20% più ricco degli italiani detenere poco più del 69% della ricchezza nazionale, il successivo 20% (quarto quintile) controllare il 17,6% della ricchezza, lasciando al 60% più povero dei nostri concittadini appena il 13,3% di ricchezza nazionale. Il top-10% della popolazione italiana possiede oggi oltre 7 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.

Ma come fanno le multinazionali – e i loro proprietari e dirigenti – ad arricchirsi, allargando peraltro la forbice con i cittadini più poveri? La ricetta, spiega Oxfam, è un mix di elusione fiscale, riduzione dei salari dei lavoratori e dei prezzi pagati ai produttori: il tutto, condito con la finanziarizzazione, disinvestendo nell’industria.

L’organizzazione ha raccolto testimonianze di donne impiegate in fabbriche di abbigliamento che lavorano 12 ore al giorno per 6 giorni a settimana e lottano per vivere con una paga di 1 dollaro l’ora. Producono abiti per alcune delle più grandi marche della moda, i cui amministratori delegati sono tra i più pagati al mondo.

E non è un caso se spesso le fasce di reddito più deboli le troviamo affollate di donne: la disuguaglianza colpisce soprattutto loro, e secondo l’Oxfam di questo passo ci vorranno 170 anni perché una donna raggiunga gli stessi livelli retributivi di un uomo.

«Rabbia e scontento per una così grande disuguaglianza fanno già registrare contraccolpi – conclude l’organizzazione non governativa – Da più parti analisti e commentatori rilevano che una delle cause della vittoria di Trump negli Usa, o della Brexit, sia proprio il crescente divario tra ricchi e poveri».

Un modo di protestare creativamente contro a perversione del sistema capitalistico, oppure un tentativo di costruire un sistema che lo superi? Non sembra che ci siano oggi una risposta largamente condivise.

la Repubblica online, 16 gennaio 2017

RONCO SCRIVIA (GENOVA). Una manciata di semi di zucca gialla in cambio di un pugno di fagioli di Feltre. Un cesto di limoni delle Cinque Terre per quei chicchi di frumento toscano. Conosce il cavolo lucano, perché non pianta questo bel melo trentino? Provi il peperoncino nero di Salerno, è una rarità. Niente denaro, qui si baratta. Si parla, ci si conosce. Vent'anni fa erano poche decine di fuorilegge, come minimo rischiavano un'ammenda. Adesso a ogni appuntamento sono migliaia. E alle loro spalle cresce un movimento "neorurale" che potenzialmente - tra campi, orti, giardini e balconi riadattati, in paese ed in città - conta in Italia sui tre milioni di praticanti. Almeno.

Ieri a "Mandillo dei semi" erano oltre duemila persone. A Ronco Scrivia, un paese sulle alture di Genova. Mandillo, in dialetto, sta per fazzoletto: e dunque, scambiarsi i semi prodotti dalla propria terra - piccola o grande che sia - , riporli in un mandillo per regalarli al prossimo. Uno sconosciuto, un nuovo amico. Un mercato di idee, di ribellione, di speranze: un nuovo modo di vivere. "Libera festa del libero scambio di semi autoprodotti e lieviti di casa, esposizione di frumenti e frutta antica", recitava la locandina. In Italia ci sono almeno 80 appuntamenti così, durante l'anno. Un altro mondo possibile: di piccoli contadini indipendenti, di appassionati che tornano alla terra per tanti motivi diversi. E non importa se è un campo, un orto urbano o sociale, un giardino o un grande vaso su di un balcone nel cuore della metropoli: "L'importante è vedere che la pianta cresce. E con lei, anche noi".

Giovanni Zivelonghi era operaio in una nota una industria chimica di Verona, la Glaxo. Da quando è in pensione, è una seconda vita sulle montagne della Lessinia. "Zappo, semino, bagno, raccolgo. Vivo bene". Vuole condividere, e allora con alcuni amici è venuto fin giù vicino al mare di Genova e in alcune bustine regalava semi di tutto: zucca forte, gialla, costoluta, insalata del Tita (il "Tita" era un vecchio contadino delle sue parti, che ha lasciato una "straordinaria eredità ", racconta), fagiolini nani, tegolini del Monte Pastello. Arriva un signore di Pieve Ligure, lascia un paio di limoni e si prende una bustina. Un altro allunga dei semi di tabacco: "Fa fiori bellissimi, se avete pazienza ci potete riempire la pipa". Giovanni ringrazia. Spiega che il mese scorso ha ritrovato una signora che a Milano fa l'architetto: "Le avevo dato del radicchio rosso veronese. Piccolino, non come quello di Chioggia: mi ha detto che lo ha tenuto in casa e al caldo ha sviluppato un cuoricino stupendo. Era felice". "Giangi" Benetti, un amico, sorride: pure lui faceva l'operaio, poi si è messo a coltivare i campi.

"Qui la gente scambia esperienze che a volte non ci credi: io piantavo da anni una zucca spinosa e non succedeva niente, poi è arrivato uno - di mestiere fa il bancario, pensa un po' - e mi ha spiegato come facevano dalle sue parti, in Piemonte. Ha funzionato". Una fetta di torta di mele: basta e avanza per portarsi via una pianta di fico nero e qualche talea di pruno. Altri arrivano a mani vuote, se ne vanno con le tasche piene. Di semi, di consigli, di storie. Massimiliano Nunziata è un cuoco torinese. Cinque anni fa è tornato per caso a Salerno nel casale del nonno, ha trovato dei vecchi fagioli in una cassetta di alluminio. "Li ho coltivati per sfida. Buonissimi. Magari non redditizi, lo so. Ma veri". La sua è diventata una missione: si è messo in contatto via Facebook con alcuni gruppi e ad oggi ha raccolto un migliaio di differenti varietà. Che regala, in cambio di altre sementi.

L'"altra" agricoltura. Quella che non punta al profitto ma alla qualità anche morale, alla piccola soddisfazione personale. Pure in un metro quadro, in un balcone o in un orto urbano o sociale, come quello chiesto e ottenuto da Luca Fiorelli, studente universitario di Cesate, provincia di Milano: "Un anno fa eravamo in 4: adesso siamo in 30, a coltivare".

Gli italiani riscoprono la terra, in campagna e in città. Vogliono sapere, informarsi. Il mensile Terra Nuova ha 130 mila lettori e come casa editrice ogni anno pubblica circa duecento titoli, altre case editrici - come Pentàgora - vivono di questo. Il gruppo Facebook di Terre Rurali, associazione protagonista del recupero delle varietà di frumento conta su oltre 12 mila iscritti. Sì, vent'anni fa erano dei fuorilegge. "Prima del 2000, scambiarsi semi prodotti dalla propria terra era un delitto punito dal codice con un'ammenda salata. Le uniche varietà di semi ammessi erano quelle stabili, nazionali", racconta Massimo Angelini. Che cominciò una sorta di disobbedienza civile: il primo "scambio delle sementi". Dieci anni fa il governo riconobbe la biodiversità italiana. "Da allora siamo passati da 5 o 6 varietà di frumento conosciute a 110. Tanti panifici, in Puglia e Toscana, Sicilia, li stanno adottando. È solo l'inizio".

il manifesto, 6 gennaio 2017 (p.d.)

In un paese prevalentemente a tradizione e trazione agricola come il Myanmar, la terra significa ricchezza, vita, cibo, legname, casa, tutto. La ricchezza principale per molte delle popolazioni che vivono nel paese è proprio dovuta alla terra. In particolare i Rohingya, la maggioranza dei quali vive al di sotto delle condizioni minime di sussistenza.
Il problema è che nei loro confronti è in atto da tempo una guerra sotterranea che mira proprio a espropriarli delle loro terre senza che in cambio possano avere alcuna compensazione, né monetaria, né legata a un eventuale impiego di lavoro. Dunque, al di là delle questioni religiose è necessario tenere conto di interessi economici che si celano dietro la loro persecuzione e terribile esistenza. Saskia Sassen sul Guardian del 4 gennaio in un articolo intitolato «La persecuzione dei Rohingya è causata da motivazioni economiche, oltre che religiose?» si è posto proprio questo problema. La verità è che da tempo, sia la giunta militare quanto il nuovo corso «democratico» del paese, hanno puntato sul land grabbing come motore della propria economia per favorire le industrie minerarie, la raccolta di risorse, di legname e per sviluppare l’industria turistica.

Se negli anni precedenti questo era un processo completamente controllato dai militari, dal 2012 grazie alla nuova legge sulla terra, il paese ha aperto la possibilità di acquisire terre anche a investitori internazionali. Come scrive Sassen sul Guardian, «Gli ultimi due decenni hanno visto un massiccio aumento in tutto il mondo di acquisizioni societarie di terreni per l’estrazione, il legname, l’agricoltura e l’acqua. Nel caso del Myanmar, i militari hanno espropriato vaste distese di terreno da piccoli proprietari fin dal 1990, senza alcuna compensazione, ma utilizzando le minacce contro eventuali tentativi di reazione. Questa forma di land grabbing è continuata attraverso i decenni, ma ha ampliato enormemente il proprio giro d’affari negli ultimi anni. La terra assegnata ai grandi progetti è aumentata del 170% tra il 2010 e il 2013. E nel 2012 la legge che disciplina la terra è stata modificato per favorire le grandi acquisizioni societarie».

Secondo i dati elaborati da organizzazioni che si occupano di analizzare i processi di land grabbing in Myanmar, il governo birmano, di recente, avrebbe stanziato 1,268,077 ettari proprio nella zona occidentale del paese, quella abitata dai Rohingya, per lo «sviluppo rurale aziendale»; questo – scrive Sassen – «è un bel salto rispetto alla prima ripartizione formale effettuata nel 2012, per appena 7.000 ettari».

Milioni di persone, quindi, hanno subito una vera e propria persecuzione, costrette a fuggire dalla loro terra, non solo per questioni religiose, anzi. Proprio l’aspetto religioso sembra una sorta di specchietto per le allodole per nascondere una trasformazione territoriale che il governo di Yangoon forse nasconde ai propri cittadini. E responsabili di questi processi sono senza dubbio anche altri paesi ben più avanzati per quanto riguarda il livello generale di vita. Basti pensare che il Myanmar è stretto tra India e Cina, due giganti mondiali e non solo regionali. Paesi ingordi e bisognosi di risorse.

Proprio Pechino, di recente, aveva ingaggiato un confronto con la giunta militare per la realizzazione di una diga, bloccata poi dalle proteste della popolazione locale. Ma evidentemente si trattava di un momento politico particolare, con il cambio del governo e l’arrivo in pompa magna di Aung San Suu Kyi e la sua volontà di aprirsi di più all’Occidente. Rimane il fatto che l’opacità dell’esecutivo è ancora lì, così come le politiche di land grabbing.

«Un gruppo di cittadine e cittadini decide che è meglio produrre da soli ciò di cui si ha più bisogno. Programma i consumi stagionali e pianifica quantità e modalità di produzione».

comune-info, 5 gennaio 2017 (c.m.c.)

È possibile saltare a piè pari il mercato con tutto il suo portato di competizioni tra imprese, conflitti di interesse tra produttori e cittadini consumatori, sprechi, fallimenti e altri vari danni collaterali? 324 famiglie di Bologna ci stanno provando incominciando dalla verdura. Hanno costituito una cooperativa di produzione e consumo sul modello delle Community Supported Agricolture statunitensi, tedesche, inglesi e l’hanno chiamata Arvaia: pisello in bolognese. In pratica un gruppo di cittadine e cittadini decide che è meglio produrre da soli ciò di cui si ha più bisogno. Programma i consumi stagionali e pianifica quantità e modalità di produzione.

La comunità di Arvaia ha calcolato che per avere – più o meno – sei chilogrammi di verdura alla settimana ad ogni socio è necessario mettere a coltura almeno cinque ettari (dove fanno crescere settanta tipi di diversi ortaggi di piante selezionate naturalmente) e lavorare sodo in molti. Alcune decine di soci lo fanno per passione, volontariamente e gratuitamente nei momenti di maggior bisogno (agri-fitness, lo chiamano!), altri sono impegnati nella logistica, mentre cinque sono veri contadini impegnati a tempo pieno retribuito.

I costi di produzione e l’insieme delle spese vengono anticipati nella annuale assemblea generale di bilancio tramite una sorta di “asta” tra i soci. Ogni socio è libero di fare delle offerte segrete e commisurate alle proprie disponibilità economiche. Rimane stabilito che la quota-parte di verdura distribuita sarà comunque uguale per tutti.

Quindi, si fanno più “giri di cappello” fino a raggiungere l’importo previsto dal bilancio preventivo. Ad esempio, lo scorso anno, la quota media che i soci dovevano coprire era stata calcolata in 730 euro, Iva compresa. Le offerte pervenute hanno variato da 400 a 1.500 euro. Un modo decisamente inclusivo e mutualistico per affrontare le eventuali difficoltà economiche dei soci.

Alberto, agronomo, tra gli ideatori e i fondatori di Arvaia, nata solo tre anni fa, pensa che sia possibile “uscire dalla trappola del mercato in cui siamo rinchiusi come consumatori e ritornare cittadini auto-producendo nei territori ciò che davvero serve”.

Partiti con pochi ettari, hanno conquistato un terreno comunale di quarantasette ettari nell’immediata periferia di Bologna destinato a parco agricolo periurbano vincendo un bando comunale di affitto dell’area per 25mila euro l’anno. Ciò ha permesso alla cooperativa di avviare la coltivazione di seminativi – avena, orzo, grani antichi – con cui produrre farine, olio di girasole, miele, salse di pomodori, caffè di orzo ed altri trasformati. È stato avviato un percorso di progettazione partecipata. I sogni nel cassetto dei soci sono molti: un frutteto, attrezzature per passare le domeniche in campagna, una fattoria didattica, una piccola stalla per rendersi autonomi anche dei prodotti caseari.

Dimenticavo: la verdura viene prelevata dai soci due volte la settimana presso la azienda agricola in località Villa Bernaroli oppure in altri otto punti di distribuzione in città presso associazioni, parrocchie, negozi amici.

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«È nella persistente presbiopia di governo e Parlamento che si annidano le cause sia del populismo e del disinteresse per un bene comune che appare troppo spesso il privilegio di altri». la Repubblica, 29 dicembre 2016 (c.m.c.)

Ci sono molte buone ragioni perché lo Stato intervenga a sostegno delle banche. Accanto alla protezione dei piccoli risparmiatori ingannati da impiegati senza scrupoli e soprattutto da amministratori non particolarmente competenti, occorre anche evitare un effetto domino sull’intero sistema creditizio italiano, con conseguenze devastanti sulla tenuta dell’economia del Paese. Anzi, come è stato osservato da più parti, nel caso Monte dei Paschi l’intervento è stato troppo tardivo e preceduto da decisioni pasticciate e inefficaci, che hanno fatto ulteriormente alzare il prezzo del salvataggio.

In questa vicenda rimane tuttavia lo sconcerto per l’enorme scarto che c’è tra i fondi stanziati per questo e precedenti salvataggi più o meno riusciti, uniti alla inefficacia dei controlli e alla incompetenza degli “esperti, e l’estrema riluttanza con cui si procede nel campo delle politiche sociali, che pure dovrebbero essere considerate una forma indispensabile di investimento (in capitale umano e sociale). Che si tratti di nidi per la prima infanzia, della diffusione delle scuole a tempo pieno soprattutto nelle aree più povere ove oggi sono quasi assenti, dei servizi per le persone non autosufficienti o del contrasto alla povertà, il refrain ripetuto è che ci sono le norme sull’austerity da rispettare e che i fondi necessari possono solo derivare da risparmi e tagli.

Sono la prima a dire che occorre eliminare gli sprechi e la frammentazione nelle politiche sociali, cui lo stesso governo Renzi ha contribuito con la sua politica dei bonus, non in nome del risparmio, ma dell’equità e dell’efficacia. Tuttavia razionalizzare non basta se le risorse di partenza sono inadeguate rispetto al bisogno.

Non si può non segnalare l’enormità della differenza tra i 5 miliardi e rotti (sui 20 complessivi del fondo salva banche) destinati a salvaguardare circa quarantamila piccoli risparmiatori di Mps a fronte del miliardo circa stanziato in legge di Stabilità per l’istituzione di un Reddito di inclusione (Rei) per chi si trova in povertà assoluta, un settimo di quanto sarebbe necessario per portare sopra la soglia della povertà assoluta il milione e 582 mila famiglie (4 milioni e 598 mila persone) che attualmente ne sono al di sotto.

L’esiguità delle risorse messe a disposizione a sua volta motiva l’introduzione di condizionalità talvolta assurde e controlli sui beneficiari ben lontani da quelli esercitati sui responsabili dei disastri bancari e non, i cui costi pure gravano sulla collettività. Con il risultato non solo di ledere la dignità dei beneficiari, ma di escludere molti che pure avrebbero bisogno di sostegno. È un rischio già visibile nell’antesignano del Rei, il Sia (Sostegno di inclusione attiva) che da settembre è stato esteso a tutti i Comuni.

Non basta, infatti, accanto a una soglia di reddito più bassa della povertà assoluta, il requisito della presenza in famiglia di almeno un figlio minore, o di una donna incinta, che esclude in partenza, a parità di reddito, chi non presenta queste caratteristiche. Un complicato sistema di punteggi discrimina ulteriormente tra i potenziali beneficiari, per ridurre la quota degli “aventi diritto”.

Per altro, c’è il rischio che neppure questo embrione di reddito minimo per i poveri veda la luce, dato che la legge delega che dovrebbe istituire il Rei è stata approvata dalla Camera in luglio, ma è da allora in attesa di approvazione del Senato (che non l’ha ancora calendarizzata) e non è stato ancora predisposto il piano nazionale contro la povertà di cui il Rei è solo un — importante — tassello.

Non vi è, per ora, alcun segnale che governo e Parlamento abbiano tra le priorità quella di concludere l’iter che porterebbe finalmente l’Italia ad avere tra i propri strumenti di politica sociale un parziale sostegno al reddito per chi si trova in povertà. È una preoccupazione condivisa anche dall’Alleanza contro la povertà, che ha pubblicato un appello a Parlamento e governo perché l’instabilità politica non venga fatta pagare ai più poveri.

Eppure, anche lasciando da parte le questioni di equità, lungi dall’essere spesa improduttiva, l’introduzione del Rei costituirebbe un investimento dagli effetti positivi sull’economia, dato che si tradurrebbe in aumento diretto dei consumi. È anche, se non soprattutto, nella persistente presbiopia di governo e Parlamento a sfavore di chi è in difficoltà nella vita quotidiana che si annidano le cause sia del populismo sia della disaffezione per la partecipazione politica e del disinteresse per un bene comune che appare troppo spesso il privilegio di altri.

Internazionale online, 26 dicembre 2016 (c.m.c.)

Dopo anni che sento parlare di ecovillaggi senza averne mai visti, ho deciso di andare a visitarne un paio non lontano da dove vivo – in realtà ci sono ecovillaggi anche vicino a dove vivete voi. Volevo capire come vivono persone che hanno scelto di condividere la casa, a volte lo stipendio, spesso anche le idee e la visione del mondo. Persone che vanno d’accordo e decidono di darsi una mano, in sostanza. Piccole utopie contemporanee nell’era della fine delle ideologie.

Ero anche curiosa di vedere come vivono i bambini in posti del genere, se è vero il detto africano – oggi molto citato – secondo cui per crescere un figlio ci vorrebbe un intero villaggio, anche se poi ognuno sta chiuso nella propria casa.
Che la vita in comune possa essere una soluzione per combattere la piaga dei figli unici e la disoccupazione? Per dare vita a una vera alternativa antisistema? Sono andata a vedere tre comunità che fanno parte del Rive (Rete italiana villaggi ecologici) e che, con le dovute differenze, sono assimilabili alla definizione di ecovillaggio: un gruppo di persone che hanno scelto di lavorare insieme con l’obiettivo di un ideale o una visione comune.

La prima cosa che ho capito, visitando questi posti, è che qui bisogna essere pronti ad abbassare il proprio tenore di vita in cambio di una qualità della vita migliore: qui si lavora con meno stress, soprattutto per chi riesce a ritagliarsi un impiego all’interno della comunità, si vive in modo generalmente più sano, si usa meno l’auto, si mangiano cose più buone.

Certo non è una vita per tutti, però questa è la prima cosa da tenere presente. In alcuni ecovillaggi è necessario anche aderire a un «percorso di crescita personale», tuttavia queste comunità sono generalmente laiche. La seconda cosa che ho capito è che un ecovillaggio non è solo un posto dove si vive insieme, ma è, o dovrebbe essere, un centro di sperimentazione. Un luogo dove sperimentare l’agricoltura, i sistemi di riscaldamento, l’istruzione, l’edilizia, la cucina, l’economia ma anche nuove combinazioni di lavoro manuale e intellettuale, nuove forme sociali e nuovi rapporti tra le generazioni.

Più si sperimenta e più la comunità è viva e autosufficiente. Anzi, le comunità che 2016 hanno raggiunto l’autosufficienza economica – che non vuole dire non uscire mai a fare la spesa! – sono quelle in cui i residenti riescono a mantenersi lavorando internamente, talvolta rivolgendosi a un pubblico esterno organizzando corsi e seminari a pagamento.

Tuttavia, per parlare di ecovillaggi bisogna per forza tornare agli anni settanta. Tutto comincia nel 1971, quando un professore di San Francisco, Stephen Gaskin, le cui lezioni erano seguite da un folto pubblico e duravano intere nottate, fondò The Farm, il primo ecovillaggio del mondo, a Summertown, Tennessee (lo stesso anno in Danimarca era nata Christiana, la famosa comune di Copenhagen; e solo tre anni prima era stata fondata Auroville in India, anche se gli esperimenti comunitari cominciarono già nei primi dell’ottocento con le utopie socialiste).

Più di quarant’anni dopo The Farm esiste ancora, ospita 250 persone ed è impegnata a più livelli nel campo di ricerca sostenibile, nel frattempo la vita comunitaria è diventata una alternativa di vita più realistica (la rete Gen – Global ecovillagge network – che riunisce tutti gli ecovillaggi del mondo di cui fa parte anche Rive, la rete delle comunità italiane, testimoniano questa piccola e lenta fioritura).

Negli ultimi anni il fenomeno ha attirato un numero crescente di persone, anche solo in teoria e per varie ragioni: la sempre più bassa vivibilità delle grandi città, la crisi economica (vivere insieme normalmente costa meno), la fine della militanza politica o almeno di una certa militanza politica, una generale crisi dei valori, il radicamento del pensiero ambientalista e l’attenzione sempre più diffusa a uno stile di vita capace di futuro.

Ma quanti sono gli ecovillaggi italiani? Molte di queste realtà sono in costante divenire – se c’è una cosa da capire su di esse è che ci vuole tanto tempo per costruire una realtà di questo tipo – e secondo la Rive oggi in Italia ci sono una ventina di ecovillaggi, altri sedici in costruzione e ventidue progetti.

Si va dalle 600 persone di Damanhur in Piemonte e del Popolo degli elfi sull’Appennino pistoiese, le più popolate comunità nostrane, alla ventina di residenti che in media ospita una comunità. Per Francesca Guidotti, curatrice del libro Ecovillaggi e cohousing, i progetti sono in crescita esponenziale, ma come spesso accade più del 50 per cento fallisce nei primi tre anni, perché molti non capiscono il reale impiego di energie richiesto per realizzarli. Di solito, mi spiega Francesca, chi mette l’economia in condivisione totale è molto più forte, anche se per il singolo c’è molto più rischio e in ogni caso non tutti sono fatti per una vita essenziale e semplice.

Una lunga esperienza

Sulle colline tra Perugia e Terni, c’è Utopiaggia, l’ecovillaggio più antico e longevo d’Italia. Nel 1972 Ingrid, Bernd, Ildiko, Barbara e altri ragazzi decidono di fondare una comunità “anarchica e umanistica” in Bassa Baviera. All’inizio portano avanti la comunità Barhof in Germania e poi acquistano cinque ruderi abbandonati con 100 ettari di terreno in Umbria (per 480 milioni di lire). È il 1982 quando la comunità si trasferisce in Italia. Oggi Ildiko ha i capelli bianchi ma la stessa energia di trent’anni fa. Vive con Franco, bolognese, in una delle case del villaggio, lei tinge lana e seta con tinte naturali e lui è un ex giornalista di Lotta continua che ora scrive di bioagricoltura.

Beviamo un tè in una stanza inondata di luce e piena di libri, dove dal soffitto a travi penzolano gomitoli colorati. La loro è una vita semplice e ormai relativamente libera da impegni comunitari. Le riunioni sono una volta al mese e al venerdì sera c’è una serata ricreativa dove si fa musica e si sta insieme. L’età media dei 19 residenti (di cui solo sette italiani) è ovviamente abbastanza alta, ma ora abbassata dalla presenza di cinque bambini. «Vivere in coppia in un posto così selvaggio e isolato può essere molto noioso», mi dice Ildiko, «invece così ci divertiamo di più. Purtroppo una parte dei nostri figli è tornata in Germania, ma anche quelli che sono rimasti in Italia hanno trovato lavoro fuori di qui. La crisi non ha aiutato e forse non siamo riusciti a essere abbastanza autosufficienti. Facciamo pane, formaggio, ceramiche, tessuti, abbiamo le pecore, ma non basta».

Si vede che Ildiko e Franco sono persone speciali, emanano una sorta di dolcezza del vivere, nonostante lo stile di vita estremo che conducono. Sarà l’assoluta mancanza di fondamentalismo con cui si esprimono. O la lunga esperienza.

Allegria composta

Non lontano da qui, a Passignano sul Trasimeno, c’è Panta Rei, che ha l’ambizione di essere un centro di educazione permanente. Siamo accolti in un ampio refettorio che somiglia a un rifugio di montagna, con la differenza che dalle enormi vetrate si vede il lago Trasimeno. Le tavolate sono occupate quasi interamente da una quarantina di “studenti” di permacultura. Mangiamo verdure dell’orto, riso alla zucca e una buonissima tisana al rosmarino. Visitiamo le casette che sono belle e luminose, una è costruita sull’albero, un’altra ha una serra dentro casa.

Più a valle si intravede un orto gigantesco. C’è una allegria composta nell’aria. Appare subito chiaro che Panta Rei non è solo un villaggio ecologico, ma ha da sempre una vocazione all’educazione ambientale. Già negli anni ottanta, Dino Mengucci aveva fondato la cooperativa Buona terra, una azienda agricola biologica e fattoria didattica (la prima in Italia). Nel 1995 Mengucci e compagni decidono di recuperare un’area abbandonata e danneggiata da un incendio e nasce così Panta Rei. Formato da un’ampia struttura ricettiva e da piccole casette fatte di terrapaglia e materiali di recupero, il villaggio è completamente sostenibile al livello energetico (l’acqua viene da un sistema di fitodepurazione o dalla raccolta piovana, l’energia dai pannelli solari). Panta Rei oggi offre ospitalità anche a grosse comitive di studenti o di adulti ed è attivo quasi tutto l’anno con corsi e seminari di permacultura, yoga, ecologia.

All’interno ci sono anche una falegnameria e una calzoleria. «Panta Rei vuole essere una scuola da zero a cento anni», dice Beppe, residente dal 2011 e oggi braccio destro di Mengucci nel coordinamento. «A noi interessa attivare processi cognitivi, anche solo insegnare ai bambini a usare l’acqua in un certo modo. Sono cose semplici, che sembrano elementari, invece non è scontato essere coscienti di ciò che puoi cambiare e ciò che non puoi cambiare. In realtà le uniche cose che non puoi cambiare sono la nascita e la morte».

Come Findhorn in Scozia, un ecovillaggio che è stato un modello un po’ per tutte queste realtà, anche questa struttura sul piano legale è un “trust” (che si differenzia dalla fondazione perché anche se cambiano i capi la destinazione finale del luogo rimane le stessa). «Non siamo interessati a modelli, siamo interessati al cambiamento. Tutto scorre, panta rei».

La città della luce è un posto molto noto tra chi conosce il reiki. Nasce infatti come centro per l’insegnamento di questa pratica di guarigione e come associazione culturale, nel 1996, a Genova, ma nel 2006 approda sulle colline di Ripe, nelle Marche, dove una antica dimora storica di 2.500 metri quadrati accoglie oggi la comunità composta da una trentina di persone tra cui anche nonni e bambini.

Al primo impatto La città della luce sembra una sorta di centro benessere del bionaturale: oltre al reiki, qui si può praticare l’ayurveda, le costellazioni familiari, lo yoga e la meditazione, si possono comprare creme, monili, abiti in fibre naturali. In effetti l’intento di questo gruppo è proprio quello di offrire al mondo un nuovo modello di società, i cui pilastri poggiano sul benessere dell’individuo.

Ci accoglie Tirtha (Chiara) che ha 29 anni ed emana una notevole luce naturale, ha i capelli color mogano e i tratti di una nativa americana. Tirtha ci accompagna a vedere la grande casa, con le varie sale del reiki, dell’ayurveda e il campo degli ulivi, dove d’estate si fa yoga all’aperto. Poi andiamo alla Casa dei ciliegi, una casa a pochi chilometri dalla sede, dove abitano altre persone tra cui due bambini di tre anni e due asini. Qui Dhara (Janneke) ci mostra l’orto sinergico e il chicken tractor. Qui è dove d’estate si fa la cerimonia del temazcal o sweat lodge, in una specie di capanna fatta di legno di salice con all’interno pietre roventi. Finito il pranzo, vero momento conviviale della comunità, mi torna in mente una scena di Arcadia di Lauren Groff.

Arcadia è un romanzo americano che racconta la storia di una comunità utopica, dalla sua nascita al suo declino, passando dai suoi momenti più gioiosi a quelli più tragici (tra l’altro il romanzo è liberamente e parzialmente ispirato proprio a The Farm). Come tutti i bei romanzi Arcadia è anche la storia di un sogno infranto.

Ripenso alla scena in cui il ragazzino protagonista, dopo essere cresciuto dentro la comunità, approda a New York e qui realizza che non è la campagna a rendere unico l’esperimento di Arcadia ma la vicinanza, la connessione tra le persone. Che è poi quello che manca nella nostra società.

Vedendo queste persone vivere e mangiare insieme in questa sala affacciata sulle colline marchigiane, penso che in fondo hanno trovato un modo per non stare sole.

Ripenso anche a ciò che mi aveva detto Lauren Groff qualche anno fa: «Il problema è l’utopia. Perché l’utopia è un paradosso. È un esercizio intellettuale, che non tiene conto della natura umana: se sono coinvolte persone con i loro casini, le loro stravaganze, anche gli ideali sono per forza un po’ diversi. L’esperimento utopico è destinato a fallire. E sono convinta che il fallimento sia ciò che rende questi esperimenti così vitali, così simili alla vita stessa. Questo non vuol dire che siano meno importanti o meno interessanti. Sono interessanti, proprio perché falliscono. Le comuni utopiche non sono altro che una metafora della vita stessa e, come la nostra vita, destinate alla morte».

Certo, perché la forza vitale dell’esperimento comunitario risiede proprio nella dicotomia tra l’ideale e il limite connaturato nella natura umana: per vivere in una comunità non solo bisogna condividerne l’ideale, ma anche accettare il limite dell’essere umano, di ogni essere umano.

La città verde

Sono tante le ragioni che fanno fallire questi esperimenti. Secondo Francesca Guidotti «una comunità muore quando non ci sono più gli strumenti o le energie per mettersi in discussione». In generale mi pare che le comunità resistano meglio se non si allargano troppo. «Se manca la libertà, l’esperimento muore», dice Jacopo Fo, che 37 anni fa ha fondato con alcuni amici la libera università di Alcatraz e da due anni ha dato vita al progetto Ecovillaggio solare, dove per ora vivono 14 persone.

«A noi piace fare le cose piccole. Niente rigidità, nessun credo. Vogliamo solo facilitare il trasferimento delle persone in campagna, poi ognuno vive come vuole». In realtà l’ecovillaggio solare è un progetto di ampio respiro, una vera è propria “città verde”, dove ognuno avrà la sua abitazione e terreno, con aree comuni come la piscina, un’area di coworking, una sala per gli spettacoli; la particolarità sono le case restaurate o realizzate con le tecniche ecosostenibili più all’avanguardia per il fabbisogno energetico, all’interno di un’area protetta.

«Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta», diceva l’architetto Richard Buckminster Fuller, l’inventore della cupola geodetica e pioniere del pensiero olistico e ambientalista. Se aveva ragione Fuller, allora gli ecovillaggi sono davvero dei modelli nuovi e dei tentativi di anticipare elementi di un mondo migliore nelle crepe di quello esistente.

Business insider Italia online, 25 dicembre 2016

La popolazione dell’Africa sta esplodendo.

Secondo la stima delle Nazioni Unite, il continente vedrà la sua popolazione attuale di 1,2 miliardi raddoppiare entro l’anno 2050. Significa una crescita media di 42 milioni di persone – praticamente una nuova Argentina – ogni anno.
Guarda anche: la Cina ha un problema, invecchia
Una serie di importanti progetti di infrastrutture, incluso reti ferroviarie, dighe e soluzioni per l’energia pulita come pannelli solari, sono in costruzione, o in progetto, per “creare spazio” per tutte queste persone e per risolvere i problemi di spazio, traffico e igiene, per nominarne solo alcuni, che questa esplosione demografica comporta.
Ecco alcuni dei più grandi progetti che arriveranno in Africa nei prossimi decenni
1. Il corridoio Nord-Sud

Ernst & Young
Nel 2009 il Mercato Comune per l’Africa Orientale e Meridionale ha iniziato a lavorare sul Corridoio Nord-Sud, una serie di autostrade e reti ferroviarie che attraversano sette paesi per quasi 10 mila km. Il suo costo totale è di circa un miliardo di dollari.
2. Il porto di Bagamoyo (Tanzania)

REUTERS/China Daily
Il porto di Bagamoyo diventerà il porto più grande d’Africa, in grado di gestire 20 milioni di container ogni anno. Con un costo stimato di 11 miliardi di dollari una società di costruzioni pubblica cinese dovrebbe completare il porto entro il 2045.
3. Modderfontein New City (Sudafrica)

Shanghai Zendai
Nel 2013 la società di sviluppo cinese Zendai Property Limited ha annunciato che stava costruendo una città da 8 miliardi di dollari fuori Johannesburg, chiamata Modderfontein New City. Diventerà un centro direzionale per le imprese cinesi che stanno investendo in infrastrutture per l’Africa.
4. Konza Technology City (Kenya)

Konza City
Per non essere da meno, il Kenya avrà Konza Technology City, un centro per lo sviluppo di software da 14,5 miliardi di dollari appena fuori Nairobi. Il governo lo definisce “dove comincia la Savana di Silicio africana ”.
5. Collegamento Rabat-Salé (Marocco)

Jean Nouvel
Nel 2013 il Marocco ha lanciato un progetto di sviluppo urbano da 420 milioni di dollari nella Valle del Bouregreg. Costruendo in quell’area si creerà un collegamento tra Rabat e Salé, due delle città marocchine più vivaci e attualmente divise dalla valle.
6. Ferrovia Lagos-Calabar (Nigeria)

CCECC
All’inizio di luglio, Cina e Nigeria hanno firmato un contratto da 11 miliardi di dollari per costruire la linea ferroviaria costiera Lagos-Calabar. Si estenderà per 1.400 km e la sua apertura è attesa per il 2018.
7. Diga Gran Ethiopian Renaissence (Etiopia)

Ethiopian Herald
Al costo di 4,8 miliardi di dollari la Diga Gran Ethiopian Renaissence provvederà energia idroelettrica all’Etiopia e ai paesi limitrofi.
Ci sono state polemiche, tuttavia, sul fatto che la diga costringerà al trasferimento forzato di circa 20 mila persone.
8. Diga Grand Inga (Repubblica democratica del Congo)

Encyclopedia Britannica
Con una potenza di circa 39 mila MW all’anno la Diga Grand Inga sul fiume Congo, diventerà uno dei siti di produzione elettrica più grandi del mondo. Il costo totale per il suo sviluppo è stato stimato attorno ai 100 miliardi di dollari. I costruttori pensano di terminare il progetto per il 2025.
9. Parco solare Jasper (Sudafrica)

SR
Aperto in Sudafrica nel 2014, il parco solare Jasper produce circa 180 mila megawatt orari all’anno, in grado di alimentare 80 mila case. E’ il progetto di produzione di energia solare più grande del continente.
10. Nuovo Canale di Suez (Egitto)

Wikimedia Commons
Nel 2014 sono iniziati i lavori su un’estensione dell’esistente Canale di Suez. Il “Nuovo Canale di Suez” aggiunge 35 km in una nuova corsia per navi agli originali 164 km di canale e ci si aspetta che raddoppi il guadagno annuale grazie allo spazio maggiore per le navi.
11. Cemento (15 Paesi)

GE AFRICA/YouTube
Dangote Cement, il più grande produttore di cemento d’Africa, ha firmato nel 2015 un accordo da 4,3 miliardi di dollari con una società di ingegneria cinese per aumentare la sua capacità fino a 100 milioni di tonnellate in 15 Paesi entro il 2020. L’accordo renderà possibile la costruzione di molti altri progetti in tutto il continente.
Riferimenti

Vedi su eddyburg Gli sfrattati dello sviluppo

«È il momento culminante di un capitalismo che, avendo la propria egemonia in crisi, deve adoperarsi in ogni modo per favorire il consenso, per fare sì che l’odio e l’amore delle masse siano indirizzati, dove i signori del mondialismo hanno deciso debbano essere indirizzati». Il Fatto Quotidiano, il blog di Diego Fusaro, 20 dicembre 2016 (c.m.c.)

Ed è subito terrore. Ancora una volta. Secondo modalità che ritornano sempre invariate, sempre le stesse. Quasi come se si trattasse di un copione già scritto, un orrendo copione da mettere in scena a cadenza regolare. Questa volta è stato il turno di Berlino. Permettetemi, allora, di svolgere alcune considerazioni generalissime sul terrorismo e sulla sua funzione nel quadro storico post 1989.
1) Gli attentati si abbattono sempre e solo sulle masse subalterne, precarizzate, sottopagate e supersfruttate. L’ira delirante dei terroristi non si abbatte mai, curiosamente, sui luoghi reali del potere occidentale: banche, centri della finanza, ecc. I signori mondialisti non vengono mai nemmeno sfiorati. I terroristi avrebbero dichiarato guerra e poi attaccherebbero solo le masse schiavizzate, rendendo – guarda caso – un buon servizio ai signori mondialisti della finanza sradicata: i quali vedono il loro nemico di classe (le masse sottoproletarie, precarizzate e pauperizzate) letteralmente bombardato e fatto esplodere da agenzie terze;

2) Il terrorismo produce un grandioso spostamento dello sguardo dalla contraddizione principale, il nesso di forza classista finanziarizzato. A reti unificate ci fanno credere che il nostro nemico sia l’Islam e non il terrorismo quotidiano del capitalismo finanziario (guerre imperialistiche, ecatombi di lavoratori, suicidi di piccoli imprenditori, popoli mandati in rovina);

3) Ci fanno ora credere che il nemico, per il giovane disoccupato cristiano, sia il giovane disoccupato islamico e non il delocalizzatore, il magnate della finanza, l’apolide e sradicato signore del mondialismo che sta egualizzando il pianeta nella disuguaglianza del libero mercato. Per questa via, il conflitto servo-signore è, ancora una volta, frammentato alla base. Si ha l’ennesima guerra tra poveri, della quale a beneficiare sono coloro che poveri non sono. Il terrorismo frammenta il conflitto di classe e mette i servi in lotta tra loro (islamici vs cristiani, orientali vs occidentali);

4) Il terrorismo permette l’attivazione di quel paradigma securitario che, ancora una volta, giova unicamente al signore globalista e finanziario. Si attiva il modello Patriot Act Usa: per garantire sicurezza, si toglie libertà. Meno libertà di protesta, meno libertà di organizzazione, più controlli, più ispezioni, più limitazioni. La massa terrorizzata accetta ciò che in condizioni normali mai accetterebbe: la perdita della libertà in nome della sicurezza;

5) Si prepara il terreno – prepariamoci – per nuove guerre: guerre terroristiche e criminali contro i crimini del terrorismo. Come accadde in Afghanistan (2001) e recentemente in Siria. Il terrorismo legittima l’imperialismo occidentale, l’interventismo umanitario, il bombardamento etico, le guerre giuste, e mille altre pratiche orwelliane che, chiamate col loro nome, rientrerebbero esse stesse nella categoria del terrorismo. L’imperialismo occidentale coessenziale al regime capitalistico viene legittimato e fatto accettare alle masse terrorizzate e subalterne.

A differenza di Pasolini, io non so i nomi. Credo, tuttavia, di sapere che cos’è davvero il terrorismo. È la fase suprema del capitalismo. È il momento culminante di un capitalismo che, avendo la propria egemonia in crisi (per dirla con Gramsci), deve adoperarsi in ogni modo (letteralmente: in ogni modo) per favorire il consenso, per riallineare le masse, per disarticolare il dissenso, per sincronizzare le coscienze, per fare sì che l’odio e l’amore delle masse siano indirizzati, secondo le debite dosi, dove i signori del mondialismo hanno deciso debbano essere indirizzati.

». il manifesto, 9 dicembre 2016 (c.m.c.)

Le notizie sulla crescita delle ineguaglianze e degi impoveriti nel mondo sono diventate un ritornello cerimoniale. In Italia la raffica dei dati sulla devastazione sociale in corso è stata molto nutrita in questi ultimi giorni di «bilanci annuali». Mi riferisco al rapporto o dell’Istat («Condizioni di vita e reddito 2015») e al rapporto 2016 di Save the Children «Sconfiggere la povertà educativa. Fino all’ultimo bambino», diffusi entrambi all’inizio di questa settimana.

Il 28,7% delle le persone residenti in Italia è in stato di povertà o esclusione sociale, in aumento rispetto al 2014. Mica poco per il settimo paese più ricco del pianeta.

La quota delle persone impoverite sale al 48,3% (da 39,4%) se si tratta di coppie con tre o più figli e raggiunge il 51,2% (da 42,8%) nelle famiglie con tre o più minori; i livelli d’impoverimento sono superiori alla media nazionale in tutte le regioni del Mezzogiorno, con valori più elevati in Sicilia (55,4%), Puglia (47,8%) e Campania (46,1%). Quattro individui su dieci sono impoveriti in Sicilia, tre su dieci in Campania, Calabria, Puglia e Basilicata. Se nei paesi dell’Unione europea (più Islanda e Norvegia) oltre 26 milioni di bambini sono in stato d’impoverimento, in Italia, la percentuale tocca il 32% (contro il 28% in Ue). Alla radice dell’impoverimento e dell’esclusione sociale,ricorda Save the Children per l’ennesima volta, c’è la disuguaglianza. «Il 10% delle famiglie più ricche in Europa attualmente guadagna il 31% del reddito totale e possiede più del 50% della ricchezza totale, e il divario tra ricchi e poveri sta aumentando».

Si tratta di processi strutturali, non contingenti. Ebbene quali e dove sono le classi dirigenti europee che hanno dato e danno realmente la priorità alla strategia dello sradicamento dei fattori strutturali dell’impoverimento e dell’esclusione sociale?

Per cecità legata ai loro dogmatismi ideologici e per chiaro obiettivo di difesa dei loro interessi di classe, i dirigenti del mondo del business e della finanza, della tecnocrazia e del mondo della politica continuano con pervicacia ad applicare scelte e ad adottare misure il cui effetto principale, risultato indiscusso negli ultimi quaranta anni, è stato quello di alimentare e rafforzare la crescita delle ineguaglianza di reddito e dell’esclusione.

La loro formula trita e ritrita non è cambiata: meno tasse sui ceti medio-bassi e incentivi fiscali per i ceti medio-alti, più investimenti in infrastrutture (informatiche, energetiche, trasporti…), più libertà alle imprese (riduzione dei vincoli, autocertificazione, liberalizzazione del commercio e degli investimenti…), piccole porzioni di «redistribuzione» di reddito, ad hoc, di tipo assistenziale, sovente di natura elettoralistica. Il tutto allo scopo prioritario di favorire la crescita economica, la competitività internazionale e l’uso efficace ed efficiente delle risorse del pianeta.

In termini di rendimento finanziario, la riduzione delle tasse, anche quando ha indotto un modesto aumento dei consumi stimolando così la crescita della produzione e degli investimenti, si è tradotta nella capacità dei detentori di capitale di appropriarsi della parte più grande e consistente della ricchezza prodotta, contribuendo cosi all’aumento della forbice tra redditi da lavoro e redditi da capitale.

Allo stesso risultato si è giunti con le misure in favore degli investimenti nelle infrastrutture produttive e commerciali in supporto delle attività delle imprese private e privatizzabili, anziché nelle infrastrutture per il benessere socioeconomico di tutti, quali scuole, ospedali, asili infantil e servizi alle persone d’interesse generale pubblico. La ricchezza da essi creata è andata utlerioremente a remunerare il capitale dei gruppi sociali a reddito medioalto. Inoltre, le politiche di austerità, poste sotto il controllo di banche centrali come la Bce (politicamente indipendenti dai poteri pubblici eletti) e valutate da agenzie finanziarie private mondiali (le agenzie di rating), hanno considerevolmente avvantaggiato le classi più ricche.

Ciò è stato inevitabile in un contesto in cui, da un lato, l’imposizione dell’equilibrio di bilancio ha fatto si che spese pubbliche e sociali siano contabilizzate e quindi «da ridurre» (quelle militari ne sono escluse) e, dall’altro lato, la legalizzazione dell’evasione fiscale (paradisi fiscali, segreto bancario…) e l’esaltazione della finanza speculativa (si pensi alla finanza algoritmica, al millesimo di secondo) hanno condotto a un massiccio trasferimento di reddito nelle mani dei già ricchi. In confronto, le bricioline redistributive (80, 100 euro una tantum o le carte alimentari…) in favore dei più «bisognosi» costituiscono una forma vergognosa di assistenza caritatevole.

Non è un caso che il nuovo segretario al tesoro degli Usa, Steven Mnuchin, scelto da Trump, ha reso noto i tre punti chiavi del suo programma per ridare forza e fiducia all’economia: meno tasse, più investimenti in infrastrutture, più libertà alla finanza. E non a caso, gli Usa continueranno a figurare al primo posto della classifica nell’indice d’ineguaglianza sociale fra i paesi più ricchi al mondo. La verità è che le disuguaglianze non saranno ridotte dalla crescita del Pil perché il Pil che cresce secondo i canoni dell’economia dominante è, invece, il fattore strutturale chiave della creazione delle disuguaglianze.

Così è del tutto irresponsabile da parte di Vincenzo Boccia, presidente della Confindustria, affermare che per gli imprenditori gli obiettivi della crescita e della competitività restano centrali (Corriere della Sera del 6 dicembre). Altro che riforma dell’Italia. Business as usual. Che cecità.

«Trump ha messo in evidenza la brutalità inerente l’apparato patriarcale dominante, che caratterizza la forma attuale del capitalismo e della sua espressione politica. Si sta formando un’immensa ribellione politica che può andare in direzioni opposte, verso la catastrofe o verso l’emancipazione».

Comune.info, 8 dicembre 2016 (c.m.c.)

E al risveglio, l’incubo non si è dissolto. Era nel mondo reale, non nel sogno. Ciò che ha cominciato a dissolversi è la percezione illusoria che si aveva della realtà sociale e di se stessi.

Gli apparati del regime politico statunitense sono ancora lì, ma è scomparso ciò che dava loro vita e alimento: la credenza generale che il processo elettorale esprima la volontà collettiva e che le persone elette tramite quel processo rappresentino gli interessi e i desideri di quella maggioranza. È venuto alla luce che quel regime è dispotico e ingannatore, ed è al servizio dell’1 per cento della popolazione mondiale. Cresce una sfiducia profonda nei politici e nell’apparato stesso.

C’è un tentativo molto generale di ristabilire quella credenza. Il presidente Obama e la signora Clinton hanno invitato a unirsi intorno al nuovo presidente fin dal mattino del 9 novembre, perché l’evidente polarizzazione non si approfondisse. Sebbene in molta gente ci siano vergogna, tristezza e paura, si continua ad alimentare l’illusione che la società statunitense tornerà ad essere esempio e modello per il mondo, una volta che sarà stato posto rimedio ad alcuni dei suoi mali oggi tanto evidenti.

Persino gli scontenti si esprimono ancora nel quadro convenzionale; confidano che il dispositivo generale di governo sarà in grado di correggere il pasticcio. Alcuni pensano, ad esempio, che il Collegio elettorale potrà ribaltare il risultato o che gli equilibri e i contrappesi della grande democrazia statunitense addomesticheranno Trump e gli toglieranno gli spigoli più offensivi e pericolosi.

Tutto ritornerà presto alla normalità…Non tutti hanno il coraggio di vedere che la normalità è una società profondamente razzista e sessista, a carattere dispotico. Ciò che oggi fa orrore è stato patito da milioni di persone per molti anni, dentro e fuori gli Stati Uniti. L’occultamento ha resistito a tutte le denunce. Non si voleva accettare che razzismo e sessismo caratterizzassero la società attuale, a tutti i livelli. Non si tratta soltanto delle patologie dei suprematisti bianchi statunitensi; sono atteggiamenti profondamente radicati ovunque e imposti nel mondo dagli Stati Uniti.

E neppure si tratta di vecchie tracce di un passato ormai superato, ma di caratteristiche intrinseche dell’apparato patriarcale che contraddistingue il mondo attuale e che contagia la maggior parte della popolazione. Senza dubbio Trump ha ravvivato e stimolato atteggiamenti di odio. Ma l’odio per la vita è inerente all’apparato patriarcale dominante, che caratterizza la forma attuale del capitalismo e della sua espressione politica, il regime dispotico che ancora si chiama democrazia rappresentativa. Il suo impeto distruttivo si manifesta allo stesso modo nella sistematica distruzione della Madre Terra, che mette a rischio la sopravvivenza della specie umana, e nella lacerazione sistematica del tessuto sociale e delle basi stesse della convivenza, il che comporta discriminazione ed esclusione sempre più intense.

Invece di chiudere di nuovo gli occhi, è il momento di tenerli ben aperti. Abbiamo bisogno di percepire con chiarezza l’attuale momento di pericolo. Si è prodotta un’immensa ribellione politica che può andare in direzioni opposte: il suo destino non è predeterminato nella sua origine e non è scritto nelle stelle. Può essere un cammino verso la catastrofe o verso l’emancipazione. L’esito sarà di liberazione se da tutte le parti la gente si mobiliterà in basso e a sinistra, e non per mantenere uno stato di cose che sarebbe inevitabilmente catastrofico. Fascista non è il termine appropriato per qualificare la congiuntura attuale. Neofascista nemmeno; non chiarisce le differenze sostanziali rispetto agli anni Trenta in Europa. Però dobbiamo imparare dal passato.

Dobbiamo studiare come si forma il desiderio di essere diretti, il desiderio che un’altra persona regoli la nostra vita, il che dà luogo all’istinto del gregge e ancora ci rinchiude, sia nei partiti che negli atteggiamenti di fronte al governo. È ancora attuale la domanda fatta da Reich a proposito degli anni Trenta: come è possibile dare origine a masse che desiderino la propria distruzione? Quelli che non vogliono rispondere ritengono che la domanda non li riguardi, che il fascismo sia una cosa che ha potuto succedere ad altri, ma che non è il loro problema.

Oggi dovranno affrontare questa domanda, come tutti e tutte noi.Il pericolo attuale non è iniziato l’8 novembre. Si è aggravato in quel giorno, perché il risultato ha agglutinato e incoraggiato impulsi molto distruttivi. Ma quel giorno ha anche risvegliato molte e molti dormienti, che si sono messi in moto. Molte persone reagiscono, ancora legate alle inerzie del sistema in cui confidavano. Molte altre, come ambientalisti, femministe e difensori dei diritti umani, si propongono di raddoppiare il loro impegno, sia pure senza abbandonare la via che seguivano.

Ma un numero crescente di persone si sta riconoscendo nello specchio della società abominevole che è venuta alla luce e cominciano ad organizzarsi per smantellarla insieme. Iniziano con l’autocritica. Evitano con cura le inerzie del passato. Militano nel gruppo, per la riorganizzazione dal basso della nuova società, ma facendo questo si lasciano alle spalle le formule patriarcali, autoritarie, fasciste, che caratterizzano molti gruppi rivoluzionari e partitici, spesso agganciati a un leader; stanno dando forma a una militanza gioiosa, festosa, radicata nell’impulso vitale.

Tollerare significa sopportare con pazienza, dice il vocabolario. Invece di tollerare l’altro, perché non è come loro, queste persone cominciano a festeggiare la sua radicale alterità, aprendogli ospitalmente le braccia, la testa e il cuore. Questa militanza gioiosa e questa nuova ospitalità caratterizzano già varie mobilitazioni che danno un nuovo senso al terremoto socio-politico dell’8 novembre.

paesi europei della Nato dovranno addossarsi una spesa militare molto maggiore.». il manifesto, 6 dicembre 2016 (c.m.c.)

La maggioranza degli italiani, sfidando i poteri forti schierati con Renzi, ha sventato il suo piano di riforma anticostituzionale. Ma perché ciò possa aprire una nuova via al paese, occorre un altro fondamentale No: quello alla «riforma» bellicista che ha scardinato l’Articolo 11, uno dei pilastri basilari della nostra Costituzione.

Le scelte economiche e politiche interne, tipo quelle del governo Renzi bocciate dalla maggioranza degli italiani, sono infatti indissolubilmente legate a quelle di politica estera e militare. Le une sono funzionali alle altre. Quando giustamente ci si propone di aumentare la spesa sociale, non si può ignorare che l’Italia brucia nella spesa militare 55 milioni di euro al giorno (cifra fornita dalla Nato, in realtà più alta).

Quando giustamente si chiede che i cittadini abbiano voce nella politica interna, non si può ignorare che essi non hanno alcuna voce nella politica estera, che continua ad essere orientata verso la guerra. Mentre era in corso la campagna referendaria, è passato sotto quasi totale silenzio l’annuncio fatto agli inizi di novembre dall’ammiraglio Backer della U.S. Navy: «La stazione terrestre del Muos a Niscemi, che copre gran parte dell’Europa e dell’Africa, è operativa».

Realizzata dalla General Dymanics – gigante Usa dell’industria bellica, con fatturato annuo di 30 miliardi di dollari – quella di Niscemi è una delle quattro stazioni terrestri Muos (le altre sono in Virginia, nelle Hawaii e in Australia). Tramite i satelliti della Lockheed Martin – altro gigante Usa dell’industria bellica con 45 miliardi di fatturato – il Muos collega alla rete di comando del Pentagono sottomarini e navi da guerra, cacciabombardieri e droni, veicoli militari e reparti terrestri in movimento, in qualsiasi parte del mondo si trovino.

L’entrata in operatività della stazione Muos di Niscemi potenzia la funzione dell’Italia quale trampolino di lancio delle operazioni militari Usa/Nato verso Sud e verso Est, nel momento in cui gli Usa si preparano a installare sul nostro territorio le nuove bombe nucleari B61-12.

Passato sotto quasi totale silenzio, durante la campagna referendaria, anche il «piano per la difesa europea» presentato da Federica Mogherini: esso prevede l’impiego di gruppi di battaglia, dispiegabili entro dieci giorni fino a 6 mila km dall’Europa. Il maggiore, di cui l’Italia è «nazione guida», ha effettuato, nella seconda metà di novembre, l’esercitazione «European Wind 2016» in provincia di Udine. Vi hanno partecipato 1500 soldati di Italia, Austria, Croazia, Slovenia e Ungheria, con un centinaio di mezzi blindati e molti elicotteri. Il gruppo di battaglia a guida italiana, di cui è stata certificata la piena capacità operativa, è pronto ad essere dispiegato già da gennaio in «aree di crisi» soprattutto nell’Europa orientale.

A scanso di equivoci con Washington, la Mogherini ha precisato che ciò «non significa creare un esercito europeo, ma avere più cooperazione per una difesa più efficace in piena complementarietà con la Nato», in altre parole che la Ue vuole accrescere la sua forza militare restando sotto comando Usa nella Nato (di cui sono membri 22 dei 28 paesi dell’Unione).

Intanto, il segretario generale della Nato Stoltenberg ringrazia il neo-eletto presidente Trump per «aver sollevato la questione della spesa per la difesa», precisando che «nonostante i progressi compiuti nella ripartizione del carico, c’è ancora molto da fare». In altre parole, i paesi europei della Nato dovranno addossarsi una spesa militare molto maggiore. I 55 milioni di euro, che paghiamo ogni giorno per il militare, presto aumenteranno. Ma su questo non c’è referendum.

Le Monde Diplomatique» novembre 2003 (ripreso da www.disinformazione.it)

Dirigenti delle multinazionali, governanti dei paesi ricchi e sostenitori del liberismo economico hanno rapidamente compreso che dovevano agire di concerto se volevano imporre la propria visione del mondo. Nel luglio 1973, in mondo allora bipolare, David Rockefeller lancia la Commissione trilaterale, che segnerà il punto di partenza della guerra ideologica moderna. Meno mediatizzata del forum di Davos, la Trilaterale è molto attiva, attraverso una rete di influenze dalle molteplici ramificazioni.

Trent’anni fa, nel luglio 1973, su iniziativa di David Rockefeller, figura di spicco del capitalismo americano, nasceva la Commissione trilaterale. Cenacolo dell’élite politica ed economica internazionale, questo circolo chiusissimo e sempre attivo formato da alti dirigenti ha suscitato, soprattutto ai suoi inizi, molte controversie (1). All’epoca, la Commissione si prefiggeva di diventare un organo privato di concertazione e orientamento della politica internazionale dei paesi della triade (Stati uniti, Europa, Giappone). L’atto costitutivo spiega: «Basata sull’analisi delle più rilevanti questioni con cui si confrontano l’America e il Giappone, la Commissione si sforza di sviluppare proposte pratiche per un’azione congiunta. I membri della Commissione comprendono più di 200 insigni cittadini impegnati in settori diversi e provenienti dalle tre regioni». (2)

La creazione di questa organizzazione opaca in cui a porte chiuse e al riparo da qualsiasi intromissione mediatica si ritrovano fianco a fianco dirigenti di multinazionali, banchieri, uomini politici, esperti di politica internazionale e universitari, coincideva all’epoca con un periodo di incertezza e turbolenza della politica mondiale. La direzione dell’economia internazionale sembrava sfuggire alle élite dei paesi ricchi, le forze di sinistra apparivano potenti, soprattutto in Europa, e la crescente interdipendenza delle questioni economiche chiamava le grandi potenze a una cooperazione più stretta. Rapidamente, la Commissione trilaterale si impone come uno dei principali strumenti di questa concertazione, attenta al tempo stesso a proteggere gli interessi delle multinazionali e a «chiarire» attraverso le proprie analisi le decisioni dei dirigenti politici. (3)

Come i re filosofi della città platonica, che contemplavano il mondo delle idee per infondere la loro trascendente saggezza nella gestione degli affari terrestri, l’élite che si riunisce all’interno di questa istituzione molto poco democratica si adopera nel definire i criteri di un «buon governo» internazionale.
Veicola un ideale platonico di ordine e controllo, assicurato da una classe privilegiata di tecnocrati che mette la propria competenza e la propria esperienza al di sopra delle profane rivendicazioni dei semplici cittadini: «La cittadella trilaterale è un luogo protetto dove la techné è legge – commenta Gilbert Larochelle. E dove sentinelle dalle torri di guardia vegliano e sorvegliano. Ricorrere alla competenza non è affatto un lusso, ma offre la possibilità di mettere la società di fronte a se stessa. Il maggio benessere deriva solo dai migliori che, nella loro ispirata superiorità, elaborano criteri per poi inviarli verso il basso». (4)

All’interno di questa oligarchia della politica internazionale, le cui riunioni annuale si svolgono in varie città della triade, i temi vengono dibattuti in una discrezione che nessun media sembra più voler disturbare. Essi sono oggetto di rapporti annuali (The Trialogue) e di lavori tematici (Triangle Papers) realizzati da équipes di esperti americani, europei e giapponesi scelti molto accuratamente. Questi documenti pubblici, regolarmente pubblicati da circa trent’anni, mostrano l’attenzione che la trilaterale rivolge ai problemi globali che trascendono le sovranità nazionali, come la globalizzazione dei mercati, l’ambiente, la finanza internazionale, la liberalizzazione delle economie, la regionalizzazione degli scambi, i rapporti Est- Ovest (all’inizio), il debito dei paesi poveri.

Contro «gli eccessi della democrazia»
Gli interventi ruotano intorno ad alcune idee fondanti, ampiamente riprese dalla politica. La prima è la necessità di un «nuovo ordine internazionale». Il quadro sarebbe troppo angusto per trattare grandi questioni mondiali la cui «complessità» e «interdipendenza» vengono continuamente riaffermate. Un’analisi del genere giustifica e legittima le attività della Commissione che è sia un osservatorio privilegiato sia il capomastro di questa nuova architettura internazionale
.
In tal senso gli attentati dell’11 settembre hanno fornito una nuova occasione di ricordare, durante l’incontro di Washington nell’aprile del 2002, la necessità di un «ordine internazionale» e di una «risposta globale» a cui sono esortati a partecipare i più importanti dirigenti del pianeta sotto l’egidia statunitense. Alla già citata riunione annuale della trilaterale erano presenti Colin Powell (segretario americano) Donald Rumsfeld (segretario alla difesa) Richard Cheney (vicepresidente) e Alan Greenspan (presidente della Federal Reserve). (5)

La seconda idea fondante, che trae origine dalla prima, è il ruolo tutelare della triade, in particolare degli Stati uniti, nella riforma del sistema internazionale. I paesi ricchi sono invitati ad esprimersi con una sola voce e a unire i propri sforzi in una missione destinata a promuovere la «stabilità» del pianeta grazie alla diffusione del modello economico dominante. Le democrazie liberali sono il «centro vitale» dell’economia, della finanza e della tecnologia. Un centro che gli altri paesi dovranno integrare accettando l’ordine che esso si è dato.

L’unilateralismo americano sembra tuttavia aver messo a dura prova la coesione dei paesi della triade, i cui dissidenti si esprimono nei dibattiti della Commissione. Nel suo discorso del 6 aprile 2002, durante la già citata riunione, Colin Powell ha quindi difeso la posizione americana sui principali punti di disaccordo con il resto del mondo, ovvero rifiuto di firmare gli accordi di Kyoto, opposizione alla creazione di una Corte penale internazionale, analisi dell’«asse del male», intervento americano in Iraq, appoggio alla politica israeliana, e via dicendo.

L’egemonia delle democrazie liberali rafforza la fede nelle virtù della globalizzazione e della liberalizzazione delle economie espressa dal pensiero della trilaterale. La globalizzazione finanziaria e lo sviluppo degli scambi internazionali sarebbero al servizio del progresso e del miglioramento delle condizioni di vita di un gran numero di persone. Ma esse presuppongono la rimessa in causa delle sovranità nazionali e la soppressione delle misure protezioniste.

Questo credo neoliberista è dunque spesso centro dei dibattiti.
Durante l’incontro annuale dell’aprile 2003 a Seul è stata trattata in particolare la questione dell’integrazione economica dei paesi del Sud-Est asiatico e della partecipazione della Cina alle dinamiche della globalizzazione. Le riunioni dei due anni precedenti avevano dato occasione al direttore generale dell’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) Mike Moore di professare devotamente le virtù del libero scambio. Moore, dopo aver ricoperto di improperi il movimento anti-globalizzazione, aveva dichiarato che era «imperativo tenere a mente ancora e sempre quelle prove schiaccianti che dimostrano che il commercio internazionale rafforza la crescita economica». (6)

La tirata del direttore del Wto contro i gruppi che reclamano una globalizzazione diversa – chiamati «e-hippies» - sottolinea la terza caratteristica fondante della trilaterale: l’avversione per i movimenti popolari, che si era espressa nel celebre rapporto della Commissione sul governo delle democrazie redatto da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki (7).

Questo rapporto, del 1975, denunciava gli «eccessi della democrazia», espressi secondo gli autori dalle manifestazioni di contestazione dell’epoca. Manifestazioni che, un po’ come oggi, mettevano in causa la politica estera degli Stati uniti (ruolo della Cia nel golpe cileno, guerra del Vietnam) ed esigevano il riconoscimento di nuovi diritti sociali. Il rapporto provocò all’epoca molti commenti indignati che si scatenarono contro l’amministrazione democratica del presidente James Carter, essendo stato egli stesso un membro della trilaterale (come più tardi il presidente Clinton). (8)

Dall’inizio degli anni ’80, l’attenzione della stampa per questo tipo di istituzioni sembra essersi rivolta più che altro su incontri meno chiusi e soprattutto più divulgabili tramiti i media, come il Forum di Davos. L’importanza delle questioni dibattute nell’ambito della trilaterale e il livello di coloro che in questi ultimi anni hanno partecipato alle sue riunioni sottolineano però la sua persistente influenza. (9)

Note:

(1) Le Monde diplomatique ha dedicato molti articoli all’argomento nel corso degli anni ’70.
(2) Il numero dei «distinti cittadini» ammessi alla Commissione è stato in seguito allargato e oggi comprende più di 300 membri.
(3) Sulle reti di «coloro che decidono» si legga «Tous pouvoirs confundus», Epo, 2003
(4) Gilbert Larochelle, «L’imaginaire technocratique» Montreal, 1990, p.279
(5) I discorsi di questi interventi sono accessibili al sito ufficiale della Commissione: www.trilateral.org
(6) Mike Moore, «The Multilateral Trading Regime Is a Force for Good: Defend It, Improbe It». Riunione della Commissione trilaterale del’11 marzo 2001
(7) Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, «The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission», New York University Press, 1975
(8) Zbigniew Brezinski era stato uno dei grandi architetti di questa organizzazione prima di diventare il principale consigliere del presidente Carter sulle questioni di sicurezza nazionale
(9) David Rockefeller, Georges Berthoin e Takeshi Watanabe (1978) Prefazione a «Task Force Reports»: 9-14, New York University Press, p IX

Sole 24Ore, 3 novembre 2016

Siamo vicini all’alba del giorno dopo, del giorno in cui, subito dopo le elezioni americane ci sarà il brusco risveglio dalla retorica fiorita, dalle promesse facili, dai sogni impossibili, per confrontarsi con una realtà economica che resta difficile, problematica e non di facile soluzione. La sfida è duplice. Sul primo livello c’è quella economica. Come riportare il paese su tassi di crescita sostenibili più alti di quelli del nostro tempo? La seconda è il corollario della prima ed è ancora più complicata: come si riuscirà a rinfrancare, assicurare la classe media, delusa, preoccupata, infelice e pronta, non solo in America, al voto di protesta contro chiunque si trovi al governo o rappresenti presunti “poteri forti”?

La risposta la troviamo nel modello del “capitalismo inclusivo”. Un modello che vuole respingere le tentazioni ora “socialiste” ora “assolutiste” evocate dal populismo facile. Un modello messo a punto al Center for American Progress a partire dal 2012 sotto la leadership di John Podesta, con il brillante contributo creativo di Larry Summers, professore di economia a Harvard, autore, ex segretario al Tesoro, generalmente “larger then life”, come si dice da queste parti. Summers fu fra i primi, già durante il post crisi 2007-2009 a identificare il pericolo di una “stagnazione secolare”, capì prima di altri che le economie potevano ripartire, ma non avrebbero riproposto quei tassi di crescita del 4-5% che avevano caratterizzato i cicli economici degli ultimi 30 anni. E avendo identificato prima di altri il problema ha giocato d’anticipo identificando con altri economisti una soluzione che, necessariamente, passa non solo per lo Stato, ma anche e soprattutto per le aziende private che, solo negli ultimi dieci giorni, hanno annunciato operazioni di fusioni (preambolo del downsizing) per quasi 200 miliardi di dollari.

È ovvio dunque che per cambiare non bastano i governi, occorre partire per prima cosa dal coinvolgimento delle grandi aziende. Sono loro ad avere sul piano globale un forte impatto sull’occupazione e sui parametri di governance. Possono farlo applicando i tre principi del capitalismo inclusivo: 1) basta con gli obiettivi finanziari a breve e brevissimo termine, basta in sostanza di essere schiavi dei risultati trimestrali e dei gestori di portafoglio o di fondi pensione che “vendono” se non si raggiunge un certo parametro di rendimento. Occorre pensare al lungo termine, investire nel lungo termine anche nella gestione dell’occupazione; 2) aprire all’integrazione dei cosiddetti fattori ESG (environmental,social,governance) parte dell’ombrello della corporate social responsibility. Il modello per l’”inclusive capitalism” fa un passo in avanti, le scelte non diventano periferiche, parte della missione del “buon cittadino”, ma centrali alle politiche dell’istituzione che le persegue, centrali insomma in ogni aspetto delle decisioni di business che riguardano un’azienda. 3) La forza lavoro. Su questo Larry Summers non ha dubbi, non basta pensare all’addestramento, non basta concedere premi di produzione «occorre aumentare i salari, aumentarli in modo concreto e tangibile». Se l’aumento dei salari porta a una diminuzione dei profitti diventa allo stesso tempo motore dei consumi e dello sviluppo economico. Anche questa è lungimiranza: sacrifico oggi un 20% del profitto per vedermelo rientrare moltiplicato in un periodo anche breve, uno o due anni, grazie all’impatto macro sull’economia. Soprattutto se la scelta è fatta in modo unitario dalla comunità degli affari.

La cosa incoraggiante per chi si dovesse svegliare confuso la mattina del giorno dopo le elezioni americane è che in materia di “Capitalismo Inclusivo” siamo già passati dalla fase teorica alla fase pratica. Lynn Forester de Rothschild, donna d’affari di successo in America, vicina a Hillary Clinton, consigliere dell’Economist, di cui è azionista con il marito Evelyn de Rothschild, ha organizzato una “coalizione per il capitalismo inclusivo”, ha già allargato l’abbraccio a grandi aziende e istituzioni ed ha organizzato incontri operativi per passare dalla teoria alla pratica.

Ho partecipato al secondo seminario annuale organizzato dalla Rothschild qui a New York alcune settimane fa. Parterre “off the record” di altissimo livello, con interventi di alcuni dei principali capi di multinazionali americane e globali. Dialogo aperto e provocatorio, i leader, non solo aziendali, hanno davvero confrontato esperienze e problemi in libertà, certi che il “brain storming” restasse chiuso dietro le porte del Cipriani Wall Street, dove si è tenuto l’evento. Posso anche riferire che molti hanno preso degli impegni specifici per muoversi nella direzione di questa nuova frontiera che potrebbe essere quella capitalismo inclusivo.

Muoversi in questa direzione nuova, e farlo anche al di fuori dell’America è essenziale perché il problema del forte malessere della classe media è molto reale ed è complicato dal fatto che non si tratta soltanto di una forma di pessimismo psicologico.

Dobbiamo anche prendere atto che il percorso che ci ha portato a questa mancata risposta del capitalismo alle nuove sfide dell’economia non è quello tortuoso dei commerci, come sostiene Donald Trump, che vuole chiudere le frontiere, ma è la sfida dall’innovazione tecnologica, che non si può fermare con una semplice barriera tariffaria.

Ma Trump ha usato la dinamica della paura, come del resto ha fatto il concorrente a sinistra di Hillary Clinton Bernie Sanders, per denunciare questa accumulazione di potere e ricchezza. La miscela che ne consegue è esplosiva: da una parte quelli che “hanno” dall’altra quelli che “non hanno”.

Alcuni offrono altre soluzioni. L’economista Thomas Piketty, ad esempio,in base ai suoi studi lungo un periodo di 250 anni, ci dice che la concentrazione della ricchezza non si corregge da sola e propone una aggressiva redistribuzione del reddito attraverso fortissime tasse progressive.

Eccoci dunque alle alternative: a) ritorno allo statalismo con aliquote fiscali altissime, al 70-80% come succedeva negli anni Settanta, b) continuare lungo questa strada, della concentrazione dei poteri economici senza ritorni per la popolazione nel suo insieme c) abbracciare la strada del capitalismo inclusivo. Un paio di anticipazioni? Generiche, senza violare il segreto delle riunioni? I fondi pensioni hanno aperto al ritorno di lungo termine rassicurando i capi azienda. I capi azienda hanno capito che devono investire nel lungo termine in regioni come lìAfrica o il Sud America per incoraggiare le popolazioni a restare a casa. Hanno sottoscritto impegni per l’ambiente, meno carbone, meno miniere. E i minatori degli Appalchi votano compatti Donald Trump. L’equazione non è mai perfetta. L’importate è cominciare con il ridurre le incognite.

La Stampa, 24 ottobre 2016, con postilla

Da tempo l’Italia sollecita solidarietà in Europa per condividere l’onere dell’immigrazione. La richiesta, senza successo, è motivata da comunanza d’interessi di fronte a violenza e povertà in Africa. In effetti, l’esodo attraverso il Mediterraneo non è solo il risultato di miserie attuali. È conseguenza del più grande crimine nella storia dell’umanità: un delitto perpetrato a Londra, Parigi e Bruxelles – e che ora continua con il concorso di Pechino. Un crimine che ha causato, dice l’ex-capo Onu Kofi Annan, oltre 250 milioni di morti (neri): per farsi un’idea, il doppio dei morti (bianchi) nelle due guerre mondiali. Storia e giustizia motivano la richiesta italiana, non solo solidarietà.

Una parola sintetizza la tragedia africana: sfruttamento. La razzia incessante delle risorse -- umane, minerarie, agricole -- inizia nel XV secolo, quando i portoghesi mappano coste e sviluppano affari. Poi Spagna, Inghilterra e Francia trafficano spezie e, in maniera crescente, esseri umani. Per tre secoli gli europei non penetrano all’interno del continente: contano sugli arabi che assalgono i villaggi e organizzano interminabili carovane di prigionieri fino al mare – trasportati a oriente verso il Golfo e l’Asia, e a occidente verso le Americhe.

Schiavi tre su quattro

Nel ‘600 tre africani su quattro sono intrappolati in una qualche forma di servitù. Inglesi e francesi si distinguono per un lucroso commercio triangolare: trasportano cargo umano nelle Americhe, dove usano le acque fredde del Nord per disinfettare navi purulente di sangue e infestazioni. Poi caricano zucchero, cotone e caffè che trasportano in Europa (a Liverpool e Nantes). Quindi riempiono le stive di manufatti, alcool, armi e polvere da sparo che barattano in Africa con altre vittime. La razzia accelera quando, come risultato della guerra di successione spagnola (i trattati di Utrecht del 1713), Londra ottiene il quasi monopolio del traffico di schiavi attraverso l’Atlantico. Il picco è raggiunto alla fine del ‘700 per un totale di 100 milioni di vittime (stima incerta, ma realistica).

All’inizio del ‘800 due mutamenti storici convergono. Dopo decenni di lotta, il movimento anti-schiavista prevale: nel 1807 il Regno Unito decreta la fine del traffico internazionale di esseri umani; l’anno successivo aderiscono gli Usa. (Non e’ la fine della schiavitù, ma la fine del trasporto nell’Atlantico). Al contempo, e per recuperare reddito, inizia l’esplorazione del cuore dell’Africa: David Livingstone, H.M. Stanley e più avanti Richard Burton, mappano i fiumi del Congo, scoprono i grandi laghi e trovano le sorgenti del Nilo. Lo spirito d’avventura anima gli esploratori. La ricchezza delle risorse africane motiva i loro governi, afflitti da problemi economici: una lunga depressione in Francia e Germania (1873-96), un continuo disavanzo commerciale in Inghilterra. L’Africa è ritenuta la soluzione della crisi, grazie alle sue grandiose risorse: rame, diamanti, oro, stagno nel sottosuolo; cotone, gomma, tè e cocco in superficie.

L'occupazione

Entrano anche in gioco interessi individuali – anzi, personali. L’inglese Cecil Rhodes chiama Rhodesia (oggi Zimbabwe) il Paese del quale s’impossessa. Il re del Belgio Leopoldo II dichiara il Congo proprietà personale e passa dal furto delle risorse umane all’esproprio di quelle naturali. «Quando, dopo 200 anni, traffici umani, mutilazioni e mattanze terminano, inizia la razzia di avorio e caucciù», scrive Stephen Hoschchild, biografo di Leopoldo. In una storia di avidità e terrore, l’African Company (di proprietà del re) causa 10 milioni di morti ed espropria risorse per decine di miliardi attuali. Venti-trentamila elefanti sono abbattuti annualmente. E il Belgio emerge come il Paese più ricco in Europa.

Inevitabilmente la corsa a derubare l’Africa diventa ragione di scontro tra le potenze coloniali. Intimorito, il Kaiser Guglielmo II convoca la conferenza di Berlino (1884), durante la quale le potenze europee si spartiscono il continente: un accordo che dura fino al 1914. La demarcazione dei confini coloniali decisa a Berlino violenta le realtà africane: racchiude etnie, religioni e lingue in confini artificiali, al solo fine di perpetuare il saccheggio delle risorse. In breve, i confini tracciati dagli europei allora pongono le basi per la violenza e la povertà di ora.

La II guerra mondiale

Dopo la seconda guerra mondiale l’Africa diventa indipendente, con risultati non meno devastanti. In vari Paesi il potere passa nelle mani della maggiore etnia, che raramente coincide con la maggioranza della gente: chi è fuori dal clan è oppresso, spesso fisicamente. Imitando gli oppressori coloniali, i nuovi despoti gestiscono le risorse come proprietà personale. Rubano quanto possibile. Il resto finisce nelle tasche di amministratori corrotti, finanzia milizie a sostegno del potere e, soprattutto, compra la correità degli investitori esteri – inglesi, francesi e belgi. Nel primo mezzo secolo d’indipendenza africana gli interessi economico-finanziari europei (a volte americani) mantengono al potere dittatori sanguinari in nazioni artificiali. Rivolte e fame hanno un costo umanitario drammatico.

Una seconda liberazione si delinea dopo il 1990. Grandi despoti scompaiono, e con essi gli immensi patrimoni da loro saccheggiati. Il comunista Mengistu fugge dall’Etiopia, Mobutu muore in Congo, il nigeriano Abacha spira nelle braccia di una prostituta: questi due ultimi accusati di aver rubato almeno 5 miliardi di dollari a testa. Soldi impossibili da recuperare: all’Onu ho identificato parte dei fondi di Abacha in banche anglo-svizzere, che gli avvocati dei figli del dittatore hanno subito congelato. Inevitabilmente le risorse rubate ai cittadini africani finiscono con l’arricchire le banche di New York, Londra e Lussemburgo.

La situazione oggi

Oggigiorno, a distanza di un quarto di secolo, furti e violenza continuano, dal Sudan di Al-Bashir (2 milioni tra morti e rifugiati), al Congo di Kabila (6 milioni di morti); da Zimbabwe di Mugabe, al Sud Africa di Zuma. In Guinea equatoriale il presidente Obiang, al potere da 35 anni, nomina vice-presidente il figlio Mangue – un vizioso che colleziona auto di lusso, tra esse una Bugatti da 350 mila dollari che raggiunge i 300km/h in 12 sec. Il settimanale inglese The Economist elenca 7 Paesi africani su 48 come liberi e democratici: tra essi Botswana, Namibia, Senegal, Gambia e Benin. Altrove gli autocrati perpetuano il potere modificando la costituzione (in 18 Paesi), oppure ignorandola (Congo). Il vincitore «piglia tutto», dice Paul Collier di Oxford: ruba per ripartire le spoglie con quanti l’aiutano a preservare il potere. Nulla sfugge al suo controllo: parlamento, banca centrale, commissione elettorale e media.

A tutt’oggi, i Paesi europei che erigono muri e fili spinati contro gli immigrati africani continuano a depredare le materie prime dell’Africa. Non solo oro e petrolio, disponibili altrove. Sono soprattutto i minerali rari che interessano: uranio, coltano, niobium, tantalum e casserite, necessari nell’elettronica dei cellulari e in missilistica. Allo sfruttamento ora partecipa attivamente anche la Cina, prediletta dai despoti africani perché non condiziona prestiti e investimenti a clausole per proteggere democrazia e ambiente. Insomma, una catena d’interessi stranieri mantiene il continente nella disperazione: parlamenti e amministrazioni sono corrotti; strade, energia elettrica e ferrovie inesistenti.

Fuga verso l'Occidente [sic]

A questo punto la gente africana ha una misera scelta: morire di violenza e povertà in patria, oppure rischiare la vita nel Mediterraneo, in un esodo dalle dimensioni bibliche – decine di migliaia di persone negli ultimi mesi, decine di milioni negli anni a venire. Papa Francesco parla di carità. Il governo italiano di solidarietà. Certamente. Soprattutto il mondo riconosca che Londra, Parigi e Bruxelles hanno causato il dramma africano, derubando dignità e risorse a gente già povera. È tempo di risarcimento – com’è avvenuto dopo la prima guerra mondiale, dopo l’olocausto, e a seguito di disastri naturali. Risarcimento in termini di assistenza allo sviluppo (per fermare la migrazione) e in termini d’integrazione (per assistere gli immigrati). L’Italia, con le sue minime colpe coloniali, ha poco da risarcire e tanto da insegnare ai Paesi che ora erigono barriere contro le vittime della violenza europea.

postilla

Troppa benevolenza per l'Italia nell'articolo della Stampa. Bastano pochissimi nomi per ricordare la partecipazione dell'Italia d'oggi allo sfruttamento dell'Africa: Eni, Salini, Impregilo, Danieli, Enel Green Power. Lo ricorda, del resto, l'icona che abbiamo scelto per questo articolo

Il Canada e l’Ue non potranno firmare il 27 ottobre come previsto il Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement), il trattato di libero scambio considerato il più avanzato ed equilibrato dell’era della globalizzazione. La ministra canadese del commercio Chrystia Freeland, che si era precipitata in Belgio per evitare il disastro, è ripartita sbattendo la porta e pronunciando parole di fuoco. «Mi sembra evidente, e sembra evidente al Canada, che l’Unione europea non è in grado di stipulare un accordo internazionale, neppure con un Paese così gentile, paziente e che ha valori così europei come il Canada». La più gigantesca figuraccia diplomatica che la Ue sia riuscita a fare in tanti anni di esistenza e di negoziati commerciali porta la firma del parlamento regionale della Vallonia, la zona francofona del sud del Belgio con una popolazione inferiore a quella della Toscana. La settimana scorsa l’assemblea regionale vallona ha bocciato, con 46 voti favorevoli, 16 contrari e un’astensione, la ratifica del trattato. Senza il suo via libera, insieme a quello di altri 37 parlamenti e parlamentini nazionali e regionali, l’accordo non può essere sottoscritto dall’Ue, che lo aveva negoziato con il Canada per 7 anni.

Si arriva così al paradosso che la regione forse più europeista di tutta l’Europa, una delle pochissime dove i partiti populisti e anti Ue sono praticamente inesistenti, ha inferto alla Ue un colpo durissimo e un danno, sostanziale e di immagine, che neppure i più feroci euroscettici sarebbero riusciti a infliggere.

L’inghippo nasce dalla decisione, adottata sotto pressione dei governi francese e tedesco che si trovano in fase pre-elettorale, di considerare il Ceta un trattato “misto”. Ciò significa che, pur essendo stato negoziato solo dalla Commissione a nome di tutti i Ventotto, poiché i suoi effetti non solo solo commerciali ma hanno ripercussioni anche su altre normative, avrebbe dovuto essere sottoposto alla ratifica di tutti i Parlamenti nazionali. Una idea contro cui si era strenuamente ma inutilmente battuta l’Italia, secondo cui la politica commerciale di una superpotenza economica di 500 milioni di cittadini, qual è l’Europa, non può essere tenuta in ostaggio dalle pretese di questo o quel parlamento nazionale o regionale.

Infatti, poiché alcuni Stati hanno una struttura federale, le ratifiche necessarie ad approvare il Ceta sono balzate da 28, quanti sono i parlamenti nazionali, a ben 38. Da questo punto di vista il Paese più frammentato è certamente il Belgio, che, con soli 10 milioni di abitanti, conta ben sette parlamenti sovrani: le assemblee delle tre comunità linguistiche (fiamminga, francofona e germanofona), i parlamenti delle 3 regioni federali (Fiandre Vallonia e Regione di Bruxelles), oltre al Parlamento nazionale.

Dopo la bocciatura della settimana scorsa, nelle istituzioni europee è scattato l’allarme. Il capo del governo regionale vallone, Paul Magnette, è stato messo sotto pressione non solo dal suo rivale politico alla guida del governo federale belga, Charles Michel, ma anche dalla cancelliera Merkel, dal presidente Hollande e alla fine da tutti i Ventotto capi di governo riuniti a Bruxelles. Ma è rimasto irremovibile. La ministra canadese, precipitatasi per cercare di salvare l’accordo, ha fatto concessioni dell’ultima ora. Ma lo zelo no-global di Magnette non è stato intaccato. Ora che la cerimonia della firma, prevista per il 27 ottobre, è stata annullata, e che la ministra canadese è ripartita, c’è ancora chi, in Commissione, spera di far cambiare opinione a Magnette e ai suoi 46 deputati. Forse ci riusciranno. Ma intanto la clamorosa dimostrazione di impotenza europea avrà fatto il giro del mondo.

comune-info.net, 20 ottobre 2016 (p.d.)


La fame, uno.


Ci ho ripensato leggendo l’ultimo libro dell’argentino Martín Caparrós El hambre, la fame, pubblicato nel 2015 in Spagna, ora disponibile nella traduzione italiana. Frutto di alcuni anni di lavoro in giro per il mondo, racconta il lato osceno del capitalismo, quello che fa commercio del primo dei bisogni umani, mangiare. Mangiare molto spesso solo per sopravvivere, non per vivere una vita che consenta l’espressione di altri bisogni e desideri. Lato osceno anche dell’aiuto umanitario, della carità offerta sotto vesti laiche dalle organizzazioni non governative, dagli stati che dedicano una parte (sempre più scarsa!) dei loro PIL agli affamati e, in forma religioso-soccorrevole, dalle diverse chiese.

Nel raccontare la fame, quella che si prova come stato permanente e non quella che si sente per naturale necessità quotidiana (“pasar” hambre, non é “tener” hambre), è di neoliberismo che parla il testo. Neoliberismo come volto odierno del capitalismo. Gli effetti concretamente oggettivi di un’ideologia sui corpi di intere popolazioni, ma anche gli effetti riscontrabili in ambiti apparentemente astratti, che non metabolizzano proteine e carboidrati, ma pensieri, conoscenze, saperi. Apparentemente, perché è il nesso mente-corpo, il legame fra pensieri e modalità del vivere ad essere sistemico, suggerisce Caparrós. L’ideologia neoliberista non abbina, compone, in una micidiale unità superiore, i due ambiti.

Inciso.

La scuola occupa un posto centrale come luogo di elaborazione della complessa strategia neoliberista. La riforma della scuola operata con l’emanazione della Legge 13 luglio 2015 n.107 costituisce una misura di accompagnamento sovrastrutturale a un più vasto progetto di ingegneria sociale, la cui intenzione è disegnare un nuovo soggetto umano e dunque politico.

La crisi del 2007/2008 non ha ridotto in ginocchio il sistema-mondo idealmente unificato dopo la caduta del Muro, semmai lo ha rivitalizzato, mettendo in moto energie auto-generative, soprattutto di ordine culturale. Infatti, se il prefisso neo rimanda a una ridefinizione del capitalismo del libero mercato, nato ben prima delle teorizzazioni di Smith, la missione del nuovo mercato ha bisogno di un processo di naturalizzazione delle pratiche economiche. Per sostenere un’ideologia economica capace di modificare in profondità mentalità, aspirazioni, stili di vita, l’idea di uomo e di consorzio umano, bisogna mettere mano ai luoghi e alle forme della trasmissione culturale. I modelli di buona vita diffusi dai media agiscono in modo trasversale, implicito, quelli propri delle istituzioni deputate all’educazione e alla formazione lo fanno esplicitamente, direttamente operando sulle coscienze giovanili. Concetti come merito, meritocrazia, competenza in competizione, pari opportunità, velocità, ottimismo giovanilistico, ibridati dal gergo economico e sportivo, vengono diffusi attraverso l’informazione mediatica e costituiscono l’innervazione ideologica della nuova buona scuola.

Non so quanto sia diffusa fra i docenti e fra i responsabili della funzione genitoriale la consapevolezza del profondo legame tra la cornice neoliberista e il processo di riforma in atto nella scuola. L’analisi dei cambiamenti intervenuti in modo subdolo e contraddittorio dal 1999, il ruolo di perno dell’autonomia scolastica nella progressiva esplicitazione di questo disegno, tanto da essersi mantenuta intatta in tutte le legislature susseguitesi dalla sua emanazione, rimane spesso priva di rilievo. Tra l’altro, vige la convinzione che, malgrado tutto, i mutamenti in atto siano ancora governabili, che ci sia spazio per una sorta di indipendenza della scuola dalla deriva complessiva.

La fame, due.

Il libro di Martín Caparrós ha il merito – come ho detto – di affrontare in modo sistemico il problema dei 2.000 milioni di persone che soffrono di “insicurezza alimentare” (locuzione tranquillizzante rispetto a denutrizione), delle 10 che muoiono ogni 30 secondi. Non tralascia mai di ricordare che la fame di cibo provoca anemia del pensiero in chi la soffre e un profondo senso di impotenza-indifferenza in chi non la conosce se non come dato, insieme di dati. Ci rammenta come risulti addirittura funzionale al sistema economico-sociale che la produce, una sorta di malthusiano equilibrio fra risorse e popolazione, un modo per depotenziare le menti.

Il libro dello scrittore e saggista argentino proprio per la vastità e la profondità dell’analisi è un libro difficile, direi estenuante. Il fenomeno-fame è affrontato in cinque momenti, per altrettanti punti di vista su effetti e cause, con un angustiante viaggio nell’Altro Mondo (non terzo, non quarto, semplicemente “otro mundo”). Africa Nera, India, Bangladesh, Madagascar. Non sorprendentemente, l’Argentina e gli Stati Uniti, i cui poveri, con i white trash, la spazzatura bianca formatisi dopo la crisi economica, ammontano a 50 milioni di persone, il 16 per cento dell’intera popolazione. Certo, dice Caparrós, morire di inedia in Sudan sembra diverso dal nutrirsi di scarti alimentari, di immondizia, a Buenos Aires, ma le cause di fondo restano le stesse, ben radicate nella ferocia dello sfruttamento neoliberista.

Caparrós non è un economista, è uno che racconta storie, storie dentro la Storia, come già faceva prima della dittatura e dell’esilio con lo scrittore desaparecido Rodolfo Walsh, per la rivista di sinistra Noticias. Il suo è un lavoro quanti-qualitativo, come dovrebbe essere ogni buona ricerca in ambito sociale, e per questo appare assai convincente. Sono le vicende personali di donne, di uomini, di bambini a tessere il testo. Soprattutto donne, perché anche la fame è di genere, colpisce di più la popolazione femminile, in culture dove questo dato sembra una nemesi, visto che le donne sono deputate alla preparazione del cibo in modo pressoché esclusivo. Negli intermezzi intitolati Palabras de la Tribu l’autore raccoglie, come il controcanto di un coro greco, le nostre viziate convinzioni su come va il mondo, i nostri pregiudizi, le nostre autodifese, la nostra profonda ignoranza e incapacità di capire in quale sistema-mondo viviamo, tutti, ma proprio tutti, non solo gli affamati, non solo i poveri.

Caparrós non risparmia i colpi bassi alla nostra ipocrisia, e alla sua: sono “un canalla” perché scrivo questo libro per confessarmi e assolvermi, sono una canaglia perché per scriverlo ho usato i fondi di una agenzia di aiuti alla cooperazione che lavora nel modo che critico, sostenendo il modello, mettendoci le pezze. Non risparmia neanche i guru della microeconomia e del microcredito, gli “ecololò” dell’ecologismo “suntuario”, i teorici alla Vandana Shiva che, in fondo, predicano un capitalismo laborioso e bonario.

Ma, si domanda Caparrós, se questi “hambrientos”, se i nuovi poveri americani e africani ad un certo punto decidessero che basta, che bisogna far saltare le leve del manovratore? Se il terrorismo, l’ISIS, fossero solo un assaggio di quello che potrebbe accadere? Ma, si risponde, l’Altro Mondo non è la Parigi del 1789, nemmeno la Vandea contadina, è l’altrove dalla speranza, e l’altro dall’utopia. La povertà estrema, la perdita della propria dignità di lavoratore e di cittadino, la fame come condizione perenne del corpo e della mente, oggi sembrano assumere il compito di strumenti per la rassegnazione, per l’autopunizione (se sono povero è colpa mia), per il fatalismo (così vuole Allah, così vuole el Todopoderoso, l’Onnipotente).

Caparrós è affascinato e terrorizzato dalla mole di dati che si possono raccogliere e analizzare sul fenomeno dell’impoverimento di milioni di persone. Numeri in tabelle, statistiche, rapporti la cui fonte è talvolta ufficiale, governativa, altre volte ufficiosa, di nicchia. Grandi numeri che si contraddicono, si smentiscono e smentiscono troppo spesso la loro presunta oggettività. Ciò che sta alla base di tutto questo profluvio di numeri ha dei nomi: cambio climatico, desertificazione, urbanizzazione forzata, trattati di libero commercio (si veda alle attualissime voci TTP e TTIP…traffici geopolitici!), prodotti agroalimentari quotati in borsa, corruzione, distrazione di fondi dedicati: non c’entra la tiranna Natura, è il capitalismo, bellezza!

Ed è lo sconcerto intorno alla cifre che spinge Caparrós a raccontare storie di vita, perché il resoconto su una giornata in una “villamiseria”, uno slum, in Bangladesh, o fra i raccoglitori di immondizie alla periferia di Buenos Aires, controbilanciano la neutralità del numero, lo rendono vivo, lo piegano verso un’immagine da cui vorremmo scostare lo sguardo. In certi momenti, dice Caparrós, avrebbe voluto poterlo fare anche lui, si rammarica per chi legge, perché questo libro parla di cose schifose, di bruttezza, di malattia, di fluidi organici, di decomposizione. Che lo si voglia o no, questo è il corpo che noi siamo, quello che nelle province floride del capitalismo occultiamo con buone pietanze, sane digestioni, discrete eliminazioni, complete igienizzazioni. Ciò che parla da questo libro è il corpo sfatto, prostrato, disumanizzato. È il musulmano di Primo Levi, chino sulla crosta di pane.

Il musulmano che sta scomparendo, secondo altri analisti, quelli interni al sistema. Anche loro contro la felice e facile ecologia, contro gli astrattismi dei buoni alla Shiva, leggono e interpretano i dati per far quadrare i conti, da cui si ricava che la fame nel mondo ha dimezzato la sua cifra negli ultimi vent’anni grazie al progresso in campo scientifico. Basta leggere le contorsioni ideologiche dell’analista politico Marco Ponti in un acuminato elzeviro dal titolo: “I compagni felce e mirtillo che servono ai protezionisti”, pubblicato su Il fatto quotidiano del 12 ottobre scorso. Dài tempo al tempo, il capitalismo nella sua forma neo, informatizzata, numerica, geneticamente modificata, ci salverà ancora una volta. Caparrós non si accontenta della indignazione e non si aspetta nulla dal riformismo post-socialdemocratico. Chiede di trasformare un sentimento “elegante e controllato” di resilienza in qualcosa che “non si neghi all’azione, che denunci e che sollevi, che passi all’attacco”.

Certo, conclude il suo poderoso lavoro, “siamo in un momento privo di progetto… un’epoca difficile, orfana”, ma proprio per questo dobbiamo continuare a cercare, non possiamo accontentarci di stanare le malefatte del nemico di classe (e sì, ancora!), dobbiamo studiare e lottare, lottare per poter studiare. Stare in cerca è angustiante ed è affascinante, e abbiamo poco tempo.

Cercare. Occorrono menti critiche, occorrono strumenti di analisi non convenzionali, occorre un pensiero non conformista, non conforme. Occorre abbattere il muro dell’ignoranza, della rassegnazione, della induzione alla fame morale, politica.

Non c’è posto per la scuola in tutto questo?

Pubblicato su lacittafutura.it con il titolo originale completo Cibo per il corpo, cibo per la mente: i gironi del neoliberismo. L'autrice è stata dirigente scolastica per la scuola primaria Pietro Maffi di Roma.

Il manifesto, 20 ottobre 2016 (p.d.)
Quasi dieci anni fa scoppiava la crisi dei mutui subprime negli Usa. Il re era nudo, il ruolo nefasto della finanza ormai evidente, gli stipendi dei manager diventati improvvisamente intollerabili e scandalosi. Nel 2007, l’anno della crisi e del crollo della Borsa di Wall Street, la remunerazione dei bancari delle quattro principali banche statunitensi era aumentata del 9% arrivando a 66 miliardi di dollari, mentre le rispettive banche perdevano 50 miliardi di capitalizzazione in Borsa. I dipendenti venivano pagati in media 350 mila dollari a testa per bruciare ognuno 274mila dollari. Con centinaia di milioni di dollari per ciascun banchiere al momento della liquidazione.
Stan O’Neal, Ceo della Merill Lynch licenziato nell’autunno del 2007 in seguito al crollo in borsa della società, ricevette una liquidazione di 161 milioni di dollari. Charles Prince capo della potente City Group costretto alle dimissioni dopo aver portato la società vicina al fallimento, ricevette una liquidazione di 140 milioni di dollari.

Molti di noi hanno pensato che con il crollo delle Borse, con il licenziamento in massa degli operatori finanziari (150mila solo a New York), con gli evidenti effetti collaterali sull’economia reale, il sistema capitalistico mondiale dovesse cambiare rotta. Invece dopo 10 anni osserviamo che la capitalizzazione nelle principali Borse del mondo è tornata a livelli superiori al 2007, il debito pubblico e privato (Stato, famiglie e imprese) è arrivato al 265% del Pil mondiale (con un incremento del 35%) ed in particolare cresce il debito statale, impropriamente chiamato “sovrano”, di oltre 20 mila miliardi di dollari. Insomma, tutto è tornato come prima e peggio di prima nel mondo della finanza.

Come è ormai evidente questa crisi non è paragonabile a quelle precedenti: ha provocato una accelerazione nella diseguale distribuzione di redditi, patrimoni, potere; ha impoverito una buona parte della popolazione mondiale, compresi i paesi occidentali industrializzati che hanno visto per la prima volta una forte riduzione dei ceti medi.

Conosciamo gli effetti nefasti sull’occupazione, sulla crescita del disagio sociale, sul taglio dei servizi pubblici, sul crollo degli investimenti, ma non abbiamo ancora preso atto dei segni profondi che questa crisi ha lasciato, «segni invisibili» che le statistiche non registrano, ma che possiamo cogliere nei mutamenti culturali, nelle visioni del mondo, nell’agire quotidiano. Ha ragione Roberto Esposito quando afferma che «la crisi economica degli ultimi anni è diventata biopolitica nel senso che impatta fortemente con la vita delle persone».

Come docente universitario ho vissuto sia nel contatto con i miei studenti, sia attraverso delle ricerche sul campo, il dramma della inoccupazione giovanile, dei Neet (Not employement, education, training) ed ho percepito come prima cosa che i giovani laureati, ed anche “masterizzati” o “dottorati”, abbassavano di anno in anno le loro aspettative. Anche a livello nazionale, in alcune ricerche sulla condizione giovanile, emerge come i giovani (dai 18 ai 35 anni) tendano ad accontentarsi quando riescono ad avere un lavoro, magari malpagato, e che alcuni si sentono dei fortunati e privilegiati solo perché sono riusciti a vincere un concorso pubblico, magari per una mansione dequalificante e con uno stipendio, che in una grande città, ti consente appena di sopravvivere. In questo senso si può dire che la crisi economico-finanziaria ha avuto un carattere “disciplinante” nell’accezione di Foucault, ha abbassato le aspettative e quindi ha permesso di ridurre i diritti sociali senza che ci fossero delle grandi rivolte popolari (eccetto che in Francia, dove questi diritti erano storicamente più radicati). Chi viene sfruttato e maltrattato sul luogo di lavoro si lamenta, ma poi aggiunge «meglio di niente: almeno io un lavoro ce l’ho».

Ho visto una condizione simile, per la prima volta in vita mia, nel Cile di Pinochet nel 1986, quando ero in quel paese. Una sera un taxista che mi accompagnava a casa di compagni cileni mi raccontò il fallimento della azienda dove lavorava: «Ero un lavoratore superfluo ed ho dovuto trovarmi un altro lavoro e per fortuna ho trovato un padrone che mi affitta il suo taxi». Mi è rimasto impresso il suo senso di colpa, si era convinto che il licenziamento fosse giusto, che lui fosse il colpevole, come nelle culture premoderne lo erano (e lo sono ancora in alcune aree del mondo) le persone disabili che vivevano l’handicap come l’espiazione per un peccato commesso.

I «segni invisibili» della crisi li possiamo cogliere anche in una maggiore indifferenza verso i migranti e le guerre. E’ quella «indifferenza globalizzata» denunciata da papa Francesco. Cammina nei discorsi sul treno, al bar, o al ristorante, tra persone estranee quanto tra gli amici più cari. E’ il frutto di un profondo senso di impotenza che questa crisi ha rafforzato. Dalla finanza è transitata all’economia reale, segnando paradossalmente il trionfo del pensiero unico: il mercato è l’unica salvezza; non è possibile modificare questo modello di sviluppo capitalistico; i paesi del socialismo reale sono crollati e i comunisti cinesi e vietnamiti si sono salvati dal crollo e dalla perdita del potere convertendosi al turbo capitalismo.

Aldilà di una possibile ripresa economica (piuttosto improbabile) i segni della crisi resteranno per molto tempo, a segnare la forza del neoliberismo trionfante. Non è tanto e solo la concorrenza che ha scatenato tra lavoratori sempre più precarizzati, tra disoccupati ed immigrati, è il processo di interiorizzazione e di colpevolizzazione. L’idea che abbiamo vissuto per troppo tempo al di là delle nostre possibilità, che abbiamo esagerato nel welfare, nella spesa pubblica, nello Stato sprecone (vedi la necessità strombazzata di una spending review). Pertanto il debito insostenibile dello Stato - che è cresciuto iperbolicamente per salvare le grandi banche - è colpa nostra, la perdita di competitività delle nostre imprese è colpa nostra, dei lacci e lacciuoli che le leggi impongono (come lo Statuto dei lavoratori).

Chi vuole costruire un’alternativa economica e politica, non può non fare i conti con «i segni invisibili» della crisi penetrati nelle nuove generazioni, insieme alla paura del futuro. Una visione del mondo che è antitetica all’idea di progresso sociale, alla inevitabile evoluzione sociale positiva dell’umanità, che ha accompagnato il pensiero socialista, marxista, anarchico per due secoli.

Il modello è quello del TTIP. La Vallonia non è d'accordo , e frena l'intesa dei Grandi. . Noi stiamo con Davide. Agenzia ANSA, 18 ottobre 2016
"Non svendete la democrazia - #Stop CETA". E' il messaggio che compare su uno striscione di oltre 70 metri quadrati che quattordici attivisti di Greenpeace hanno aperto sul centro congressi europeo di Lussemburgo, dove i ministri per il Commercio dei paesi Ue si stanno per incontrare in occasione del Consiglio Trade. Greenpeace e altre organizzazioni della società civile, spiega l'organizzazione ambientalista in una nota, si oppongono alla ratifica del CETA, accordo commerciale tra Ue e Canada, perché "si tratta di una minaccia per la democrazia, per le politiche ambientali europee e i servizi pubblici".

"Il messaggio per il governo italiano e l'Unione europea è molto chiaro: il CETA va fermato", dichiara Federica Ferrario, responsabile campagna agricoltura e progetti speciali di Greenpeace Italia. "Se oggi i ministri dovessero firmare l'accordo - aggiunge - compierebbero un gesto contrario al volere della maggioranza dell'opinione pubblica europea. Le relazioni commerciali tra l'Ue e gli altri Paesi dovrebbero seguire i basilari principi democratici e contribuire a tutelare clima, ambiente, politiche sociali, oltre che raggiungere obiettivi di carattere economico. Il CETA invece, così com'è, antepone gli interessi delle multinazionali a quelli delle persone e del Pianeta".

Un punto di particolare preoccupazione, sottolinea Greenpeace, consiste nell'inclusione nel CETA dell'ICS - un sistema per la protezione degli investimenti - "che dà agli investitori stranieri particolari privilegi. Ogni multinazionale con sede o filiale in Canada potrà utilizzare questo sistema per sfidare leggi e standard dell'Ue". "Qualsiasi accordo che metta a rischio standard ambientali, di salute pubblica e del lavoro, per concedere poteri privilegiati alle multinazionali, servirà invece ad alimentare le disuguaglianze a scapito dei cittadini", conclude Ferrario

Riferimenti

Vedi su eddyburg gli articoli di Giorgio Lunghini e di Giovanna Ricoveri e l'intervista a Colin Crouch a proposito del Transatlantic Trade Treaty

La Repubblica, 2 ottobre 2016

Sulle rovine di Aleppo si decide la riscossa di Bashar al Assad o la tenuta del sedicente Stato Islamico. Ma ormai la devastazione di uno fra gli insediamenti umani più antichi della Storia è totale: mancano cibo, acqua e medicine. Ieri al centro dei bombardamenti — di caccia russi o siriani governativi — c’è stato il principale ospedale nella zona in mano ai ribelli, danneggiato in modo pesante, a seconda delle fonti si dice da bombe a grappolo o da barrel bombs.

Ma che il martirio sia nutrito di tecnologie moderne o di brutalità rudimentale, il risultato non cambia: per i civili di Aleppo restano strumenti di atrocità.

CLUSTER BOMB
Le cluster bomb (bombe a grappolo) sono costituite da un contenitore e numerose sub-munizioni, cilindretti grandi poco meno della lattina di una bibita: quando la bomba principale viene sganciata, le bombette vengono disperse in modo casuale. Non essendo la loro posizione controllabile, non sono registrate in una mappa e la bonifica è molto difficile.

Ad Aleppo bombe cluster “Rbk-500 Shoab 0,5” sarebbero state sganciate dall’artiglieria e dall’aviazione russa o da quella di Damasco: Mosca non aderisce alla convenzione che mette al bando le cluster, ma ha firmato l’impegno delle Convenzioni di Ginevra a non colpire indiscriminatamente i civili. Organizzazioni umanitarie segnalano che le cluster sono utilizzate dai caccia Su-24, Su-25 e Su-34 schierati nella base russa di Shagol e in quella siriana di Hmeymim, il Cremlino nega.

BUNKER-BUSTER
Secondo testimonianze filmate, i caccia da attacco al suolo Su-25 “Frogfoot” di Mosca hanno sbriciolato interi isolati di Aleppo utilizzando bombe “Betab-500”, in grado di penetrare attraverso strati di cemento prima della detonazione. Sono le equivalenti delle americane “bunker-buster”, destinate a distruggere rifugi sotterranei e arsenali di munizioni. Sarebbero già state usate contro installazioni dello Stato Islamico, ma fino ad ora mai adoperate in un contesto urbano.

BARREL BOMB
Economiche e facili da assemblare, sono l’equivalente per l’aviazione degli ordigni improvvisati IED. Si costruiscono con un contenitore cilindrico, come un bidone da petrolio, riempito di rottami metallici o da prodotti chimici aggressivi, come il cloro, assieme a una grande quantità di esplosivo, fino a una tonnellata. Vengono lanciate anche da elicotteri, provocando danni molto gravi perché i frammenti di metallo si spargono per un’area vasta. Secondo la Rete siriana per i diritti umani, nella prima metà dell’anno ne sarebbero state sganciate su Aleppo oltre seimila. Secondo Human Rights Watch, le bombe-barile hanno preso il posto delle armi chimiche per spargere paura fra la popolazione. Nel febbraio 2014 il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha chiesto alle parti nella risoluzione 2139 di non farne utilizzo. Ma secondo Amnesty quell’anno le persone uccise ad Aleppo dalle bombe-barili sono state oltre tremila.

AUTO-BOMBA
Sono lo strumento del terrore preferito per attacchi a obiettivi statici: ad Aleppo sono state usate (con un guidatore kamikaze) contro le caserme militari. Basate su automobili cariche di esplosivo, a volte fatte esplodere da lontano con un telecomando, sono un mezzo privilegiato per i miliziani del sedicente Stato islamico.

BOMBE AL FOSFORO
Il fosforo bianco è un materiale altamente infiammabile, usato per munizioni incendiarie o destinate a produrre fumo per nascondere le manovre. Le munizioni al fosforo possono essere lanciate dall’aviazione, ma anche dall’artiglieria leggera in dotazione alle truppe di terra. Le persone colpite lamentano ustioni gravi fino alla morte, soffocamento, danni all’apparato digerente e respiratorio.

ARMI CHIMICHE

Già nel 2013 razzi contenenti gas nervino Sarin sono stati usati contro la popolazione della zona di Khan al Assal, ad Aleppo. Governo siriano e miliziani dello Stato islamico si rinfacciano la responsabilità dell’attacco, in cui sono morte 26 persone. Il Sarin in possesso del governo siriano verrebbero da depositi sfuggiti ai controlli internazionali, quello in mano agli integralisti, secondo diverse testimonianze sarebbe stato fornito dall’Arabia Saudita. Il gas nervino ha l’effetto di paralizzare il sistema nervoso, fermando anche la respirazione e provocando la morte delle persone colpite. Nell’agosto scorso Dandanya, nella zona di Aleppo, controllata dalle Forze siriane democratiche (curde) è stata colpita con razzi che hanno diffuso gas irritante, probabilmente iprite: se respirato, può provocare il soffocamento. I curdi accusano del bombardamento le forze armate della Turchia.
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