. Internazionale online, 16 luglio 2017 (c.m.c)
«Prendersi cura, delle persone e delle cose, è un concetto assolutamente radicale», osserva Naomi Klein. «È interessante il fatto che ci metta in difficoltà. Penso che dobbiamo farlo nostro». Klein è quanto di più simile a una rock star si possa trovare nella sinistra radicale. È un personaggio pubblico fin da quando la sua opera prima, No logo, è diventato un libro di culto del movimento no global nei primi anni duemila, ma lei rifugge la celebrità.
La incontro all’inizio di giugno al People’s summit, una grande riunione dei progressisti statunitensi organizzata a Chicago, un paio di giorni prima della pubblicazione del suo ultimo libro, No is not enough. Ma Klein non è qui per promuovere il suo lavoro. Come tutti gli altri, è qui perché le importa.
«Trump sta creando e alimentando il desiderio di un cambiamento sistemico. Incarna un fallimento di sistema, che, sì, a quanto pare è un motore più potente dei cambiamenti climatici. Questo potenziale di trasformazione mi emoziona».
Il lavoro più urgente e personale
Klein parla davvero così, senza mai fermarsi. Si capisce che crede in quello che dice. Nata in Canada negli anni settanta da oppositori alla guerra del Vietnam, non ha mai chiesto scusa per il fatto di essere un’attivista oltre che un’autrice e una giornalista. No is not enough è il suo lavoro politico più urgente e istruttivo, oltre che il più personale.
Klein passa senza difficoltà dal discutere nuove strategie per combattere il programma sessista, razzista e schiavo delle multinazionali dell’amministrazione Trump alla descrizione della sua esperienza di madre (ha un figlio di quattro anni) e del modo in cui la sua comprensione della responsabilità umana è cambiata dopo l’ictus che sua madre ha avuto quando Naomi era appena un’adolescente. Ciò che tiene tutto assieme è l’architettura del prendersi cura. E il prendersi cura, mi spiega Klein, «è tutt’altro che un segno di debolezza».
“Il prendersi cura” ha una brutta reputazione all’interno della sinistra. Fa pensare agli orsi dei cartoni animati o alle adolescenti che hanno sentimenti esagerati per i delfini. The leap, il movimento canadese guidato da Klein, che combatte contro il cambiamento del clima e per la giustizia sociale, ha come slogan “Dedichiamoci alla terra e agli esseri umani”. In effetti, ammette Klein, sembra uno spot pubblicitario dell’attivismo biologico. Ma è anche un riassunto di ciò che gli esseri umani non sono riusciti a fare negli ultimi secoli e di ciò che dobbiamo imparare a fare, se non vogliamo andare incontro alla catastrofe.
Il lavoro di cura dell’uno nei confronti dell’altro e delle nostre comunità non rientra tanto in un programma femminista quanto in un programma declinato al femminile, ed è per questo che per così tanto tempo è rimasto fuori dal quadro politico più generale. Dunque è perfettamente logico che il motore del People’s summit sia il principale sindacato di infermieri degli Stati Uniti, il National nurses united (Nnu), che ha più di 150mila iscritti, in maggioranza donne non bianche.
La resistenza nell’era di Trump
«Seguirei un infermiere ovunque», ha dichiarato Klein nel comizio d’apertura, e ripete il concetto durante il nostro incontro dietro una piccola fila di bancarelle di libri nel terzo giorno del vertice. Quattromila persone hanno già passato 36 ore in questo cavernoso centro congressi, tra discussioni e workshop, con la luce artificiale e l’aria condizionata ad alimentare la sensazione di essere in uno spazio fuori dal tempo, dove tutto è possibile, anche (e soprattutto) nell’America di Donald Trump.
Klein ha un sesto senso per pubblicare il libro giusto al momento giusto. No is not enough è stato scritto in quattro mesi, mentre l’autrice gestiva un gruppo di attivisti e cresceva un figlio. È un’opera brillante, una guida alla resistenza nell’era di Trump, costruita sull’idea che limitarsi a resistere all’oppressione non basta.
Come società, spiega Klein, dobbiamo decidere non solo quali atrocità sono intollerabili, ma anche cosa siamo pronti a costruire per combattere queste atrocità. Il libro ha un pregio rarissimo nella scrittura politica: è stimolante e profondamente sensato. Leggendolo – e partecipando al People’s summit – mi sono trovata ad annuire davanti alla richiesta di un cambiamento profondo nel modo in cui organizziamo la politica economica, quella ambientale, la giustizia razziale e molto altro, nello stesso modo in cui annuiamo davanti a un medico che ci spiega la cura per una grave malattia. È una proposta che fa paura, ma è anche l’unica sensata. L’urgenza di questa fase della storia umana lo impone.
«Le nostre idee si diffondono sempre di più, ma lo stesso si può dire delle idee più dannose e pericolose del pianeta», spiega Klein. «Si manifestano con atti estremi di violenza in strada, commessi dallo stato e dai suprematisti di destra, spinti dal fatto che alla Casa Bianca ci sono persone che la pensano come loro. È una sfida intellettuale, sociale, ambientale».
In caduta libera
Se dovete sentirvi male a un raduno di qualsiasi tipo, vi consiglio di farlo a un raduno di infermieri. Sono arrivata a Chicago per intervistare Klein e capire se c’è una speranza per la sinistra nella prima, torrida estate dell’America di Trump. Ma appena ho messo piede fuori dell’aereo sono stata colpita da quella che la scienza definisce malattia immaginaria galoppante.
Sentivo le ossa come se fossero in un calderone di zuppa bollente. La mia testa era piena di una melma tossica. Ho chiesto al banco del check-in se avevano antidolorifici. Dieci minuti dopo ero seduta su un divano di plastica e cercavo di non vomitare la colazione. Deborah Burger, copresidente dell’Nnu, che sicuramente aveva qualcosa di meglio da fare, mi chiedeva cosa mi facesse male.
Tutto, volevo dirle che mi fa male tutto, che tutte le persone che conosco lavorano come bestie per quattro soldi e che il tardo capitalismo sta lentamente strangolando ciò che rimane dell’energia giovanile della mia generazione. Il mio paese è in caduta libera politica e sembra che ogni settimana ci sia uno psicopatico religioso che decide di ammazzare un po’ di gente. Come se non bastasse, avevo la madre di tutti i mal di testa.
Burger mi ha dato gli antidolorifici e un bicchiere di succo d’arancia. Poi mi ha parlato dell’imminente fine della cleptocrazia. È un’infermiera convinta che il suo lavoro non finisca quando il paziente va a casa. «Non possiamo limitare il nostro sostegno al letto d’ospedale. Dobbiamo allargarlo, perché vogliamo evitare che la gente arrivi in ospedale. Vogliamo sostenere la prevenzione. Vogliamo tenere le persone lontane dalle prigioni, perché il denaro speso per incarcerare la gente potrebbe essere impiegato nel sistema sanitario e per quello scolastico».
Parte del motivo per cui Klein ha potuto scrivere un libro così dettagliato in così poco tempo è che in un certo senso si preparava a scriverlo da tutta la sua vita adulta. È la sintesi delle teorie contenute nei tre libri politici precedenti: il potere politico dei marchi in No logo, il modo in cui l’élite sfrutta le crisi sociali ed economiche per consolidare il suo potere in Shock economy e il modo in cui la prossima crisi climatica renderà necessario un nuovo genere di attivismo per la sopravvivenza della specie in Una rivoluzione ci salverà.
«Ho scritto il libro per molte ragioni, ma la più urgente derivava dalla sensazione che gran parte delle discussioni su Trump non avesse un contesto storico», mi ha spiegato. Secondo Klein troppe persone continuano a trattare la crisi costituzionale in atto alla Casa Bianca «come una sconvolgente aberrazione destinata a sparire una volta che ci saremo liberati di Trump. Ma abbiamo già commesso questo errore, per esempio con George W. Bush». Trump, in ogni caso, ha reso tutto molto più chiaro.
Qui nessuno è contento che Trump sia il presidente degli Stati Uniti. Ma la posta in gioco ormai è evidente anche a quelli che prima tentennavano. Per esempio, è ovvio che le politiche favorevoli alle imprese e contrarie ai princìpi ecologici, oltre al ritorno al potere di sentimenti sessisti e razzisti, sono intimamente connessi, e la resistenza a queste due tendenze è una resistenza unica. Trump potrebbe essere l’onda d’urto – per utilizzare un’espressione di Klein – che spingerà la sinistra globale a rimettersi in sesto.
Un sovrumano signore gentilissimo
A un certo punto interviene Bernie Sanders. Fa un bel discorso, per quello che riesco a sentire tra applausi continui. È come un pasticcio tra un sermone e le parti più stimolanti di I Miserabili. Questo significa che, anche se non si è convinti dalle idee di Sanders, si può capire perché la gente si appassiona a lui. Prima di Sanders ci sono stati altri oratori carismatici, e Bernie non ha detto nulla che non sia già stato detto durante tutti gli incontri. Ma su di lui si riversa l’entusiasmo della massa. In qualche modo la sua parlata semplice e il suo atteggiamento da zio incazzato risultano affascinanti. Non abbastanza da farmi alzare in piedi e ruggire insieme a tutti gli altri, ma io sono un po’ troppo britannica e troppo malata per farlo.
È qui che ho capito il vero senso di Bernie Sanders. Avere ragione non basta. Bernie personifica un’idea il cui tempo è finalmente arrivato, anche perché dopo due anni passati a riempire gli stadi ha ancora l’aria di uno che non capisce perché la gente lo stia a sentire ed è triste perché si trova in un punto della storia in cui è rivoluzionario chiedere che gli ospedali non rifiutino di prendersi cura dei bambini malati.
Non dovrebbe essere così, ma negli Stati Uniti è così.
Ciò che rende diverso il People’s summit è qualcosa che manca da generazioni alla sinistra globale: funziona. Le persone che non hanno più tempo per i teatrini si ascoltano a vicenda e con rispetto, cercando di stringere legami. Le sessioni sono aperte a tutti e concrete. Il cibo è sufficiente e decente. Gli organizzatori riescono in qualche modo ad assicurarsi che quattromila persone sappiano sempre dove devono andare e quando. Non è una cosa da poco per uno strato sociale caotico, segnato da lotte interne, da fragilità e dall’incapacità di mettersi d’accordo anche sulle cose più semplici.
«Ci ricorda perché lo spazio fisico è importante», spiega Klein. «Dobbiamo guardarci negli occhi. Penso che in questo momento ci sia un grande desiderio di creare una cultura della responsabilità e la capacità di ascoltare le critiche e di avere conflitti senza però mandare tutto all’aria».
Le infermiere sono all’avanguardia di questo cambiamento perché lo vivono da anni, come spiega Kari Jones, dell’Nnu: «Penso che il motivo per cui le infermiere si sono fatte avanti come leader del movimento progressista è che incarnano un sistema di valori che è l’opposto di quello guidato dal profitto, un sistema basato sulla cura, l’assistenza, la compassione, la comunità. È difficile intaccare la volontà di un’infermiera».
Questa architettura del prendersi cura è il vero luogo della resistenza. Può essere un compito noioso come prendersi cura di una giornalista malata o una grande missione come riorganizzare la cultura di una superpotenza per dare la priorità alla salute e all’assistenza sociale. Può essere facile come garantire che i nativi d’America siano adeguatamente rappresentati nei nostri dibattiti o difficile come chiedere che il petrolio sepolto sotto le loro terre resti dov’è. È qui che si vive la lotta per il cambiamento. Manifestare nelle strade aiuta, ma non basta. Il centro di tutto è ciò che vogliamo per la nostra società, per il nostro paese e l’uno per l’altro.
La teorica Nancy Fraser ha identificato una “crisi del prendersi cura” accanto a quella che molti hanno indicato come crisi del capitalismo. L’opera di costruzione delle famiglie, delle comunità, delle istituzioni e della democrazia non è un lavoro che il capitale può assorbire e monetizzare, ma senza di essa la componente umana del capitalismo si atrofizza. La gente diventa triste e malata.
Per questo la lotta per l’assistenza sanitaria universale, a prescindere dal reddito, è diventata un tema centrale della sinistra americana. Ripristinare Obamacare non è sufficiente. In tutti i dibattiti e in ogni intervento del People’s summit la richiesta di un’assistenza sanitaria per tutti viene ripetuta in diverse forme e suscita sempre le reazioni più calorose.
Per fornire assistenza medica per tutti negli Stati Uniti ci vorrebbe una radicale redistribuzione delle ricchezze dai ricchi verso i poveri. In California lo stato potrebbe permettersi questo enorme costo, ma la legge per la creazione di un sistema sanitario gestito da un unico ente è bloccata al senato locale. È una questione di priorità, di senso del bene e del benessere comune. È una questione d’amore, e dico sul serio.
Quando Hillary ha scelto “Love trumps hate”, l’amore sconfigge l’odio (gioco di parole con trump, sconfiggere in inglese) è sembrato uno slogan stupido, e lo era. Era insipido e banale perché non nasceva da una comprensione solida di cosa è l’amore. L’amore, in senso politico, non è un sentimento. È un’azione. È inarrestabile e spietato. È la disciplina dell’esserci l’uno per l’altro e per il bene collettivo, ancora e ancora.
Il potere della responsabilità
Amare le altre persone è molto difficile. Passare 36 ore in un centro congressi con gli esponenti della sinistra internazionale me lo ha ricordato. “La gente” è immorale e distratta, si emoziona davanti alle celebrità e agli slogan. Per metà del tempo le persone non riescono a stare in una stanza con altre persone. Ma quando arriva il momento decisivo niente di tutto questo è importante. Importa solo esserci l’uno per l’altro.
In tanti fraintendono il significato di “potere della gente”. Prima di tutto “la gente” non è unita di per sé, e la frase non si riferisce a un potere fisico. Non si intende il potere di resistere ai proiettili o agli attacchi dei droni. Quel tipo di “potere della gente” può essere abbattuto facilmente. Il vero potere della gente è il potere della memoria e della resistenza. Il potere di dedicarsi l’uno all’altro, il potere della responsabilità.
«È una responsabilità spaventosa», mi dice Klein. «Non è una responsabilità con cui sono cresciuta. Nella mia vita politica adulta non abbiamo mai pensato che avremmo conquistato il potere. Ma la campagna di Bernie Sanders, quella di Jeremy Corbyn e anche quella del candidato presidenziale francese Jean-Luc Mélenchon e di Podemos ci fanno capire che il potere è a portata di mano. E la spaventosa responsabilità di questa consapevolezza, mentre il conto alla rovescia del clima continua a correre e le crisi ci colpiscono sovrapponendosi l’una all’altra… no, non la chiamerei speranza. Ma la descriverei come un momento significativo. Non voglio sprecare tempo pensando alla speranza».
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.
il manifesto, 14 luglio 2017
«Rapporto Istat Povertà in Italia 2016. Nel2016 oltre 4 milioni di persone in «povertà assoluta», erano la metà nel 2007.E aumenta anche il «lavoro povero». 8 milioni e 465mila persone, pari a 2milioni 734mila famiglie, sono in «povertà relativa». In questa condizione sitrova chi è prigioniero della «trappola della precarietà». 7 miliardi di euroall’anno sarebbero necessari per finanziare un sussidio contro la povertà.14-21 miliardi per un «reddito minimo». In Italia è in corso una guerraeconomica silenziosa, ma concretissima, che precarizza tutta la vita»
Nel paese dove si salvanole banche con 68 miliardi di euro, non si trovano i 7 miliardi all’annonecessari per un sostegno «universale» contro la povertà assoluta. Senzacontare i 14-21 miliardi necessari per finanziare le ipotesi di reddito minimoche permetterebbe di affrontare seriamente un nuovo problema: la «trappoladella precarietà». Oggi in Italia chi lavora con un reddito basso non riesce asottrarsi alla povertà e arrivare a fine mese.
La clamorosa asimmetria, prodotto di ungigantesco spostamento di ricchezza verso il capitale e di politiche economichesbagliate come i bonus a pioggia o l’abolizione della tassa sulla prima casa,si ritrova nel report «La povertà in Italia» nel 2016, pubblicato ieridall’Istat. Come sempre i dati vanno interpretati, e visti sulla tendenza dimedio periodo: gli ultimi dieci anni, quelli della crisi. L’Istat sostiene chenel 2016 i «poveri assoluti» erano 4 milioni e 742 mila persone, pari a 1milione e 619 mila famiglie residenti. La «povertà relativa» riguarda 8 milioni465mila persone, pari a 2 milioni 734mila famiglie. Rispetto al 2015, illivello si presenta «stabile». Dato in sé preoccupante a conferma che nulla èstato fatto in quei 12 mesi dal governo Renzi, in un periodo in cui lestatistiche attestavano una «crescita» che non produce occupazione fissa, né unarretramento della povertà. Tuttavia c’è qualcosa che peggiora ancora.L’incidenza della povertà assoluta sale tra le famiglie con tre o più figliminori e interessa più di 814 mila persone. Oggi aumenta e colpisce 1 milione e292 mila minori.
Parliamo di persone che non riescono araccogliere risorse primarie per il sostentamento umano: l’acqua, il cibo, ilvestiario o i soldi per un affitto. Questa situazione riguarda anche coloro chepossiedono un lavoro. L’incidenza della povertà assoluta è doppia per i nucleiil cui capofamiglia è un «male breadwinner» e lavora come operaio. L’Istatregistra anche un’altra tendenza: la «povertà relativa» colpisce di più lefamiglie giovani. Raggiunge il 14,6% se la persona di riferimento è un under35mentre scende al 7,9% nel caso di un ultra sessantaquattrenne. L’incidenzadella povertà relativa si mantiene elevata per gli operai (18,7%) e per lefamiglie dove il «breadwinner» è in cerca di occupazione (31,0%). Suggestionistatistiche che indicano l’esistenza di un continente sommerso: il lavoropovero, e non solo quello della deprivazione radicale a cui spesso è associatala tradizionale immagine della povertà.
La situazione generale è tale che MarcoLucchini, segretario della fondazione Banco alimentare onlus, ha sostenuto cheoltre 80 mila tonnellate di cibo distribuite in 8 mila strutture caritative inItalia hanno arginato la crescita del fenomeno, ma non non risolvonol’emergenza sociale più dimenticata nel Belpaese. Dieci anni fa, nel 2007, ipoveri assoluti erano 2 milioni e 427 mila persone. Oggi sono raddoppiati: 4milioni e 742 mila. È uno scenario di guerra, quella economica che proseguesilente, ma concretissima, da anni. A tutti i livelli.
I rimedi sono pannicelli caldi. Ieriil ministro del Welfare Giuliano Poletti si affannava, ancora, nel tentativo dispiegare come il governo ha modificato i criteri di accesso alla prima, emodesta, misura «contro la povertà». Quest’anno 800 mila persone dovrebberoprima beneficiare della social card del «Sia» che sarà trasformata in corsa nel«reddito di inclusione». La sproporzione è evidentissima: solo i poveriassoluti sono 4 milioni e 742 mila persone. Ci sarebbe bisogno di una misurapluriennale crescente fino a 7 miliardi, ma i fondi stanziati resteranno fermial miliardo. E poi dovranno essere rifinanziati. Ma questa è un’altra storia:riguarderà la prossima legislatura. Quindi un altro mondo, un altro universo,lontanissimo. Concretamente si parla di un sussidio di ultima istanza che va daun minino di 190 a un massimo di 485 euro per le famiglie più numerose con 5componenti. Importi per di più vincolati a una serie di condizionalità cherendono tale sussidio tutto tranne che «universale».
La disconnessione totale trala politica economica seguita in questi 10 anni e la condizione materiale cheurla da questi dati è evidente. L’Alleanza contro la povertà, il cartello diassociazioni e sindacati che ha premuto per ottenere il «reddito di inclusione»chiede l’introduzione di un piano pluriennale già dalla prossima legge dibilancio che permetta a chi non ha una famiglia con figli di condurre unostandard di vita dignitoso. Susanna Camusso (Cgil) ritiene che tale «reddito»sia uno «strumento corretto da finanziare» evitando di «distribuire bonus apioggia». Il Movimento 5 Stelle attribuisce gran parte delle responsabilità diquesta situazione «all’immobilismo politico del governo Renzi». Giulio Marcon(Sinistra Italiana) fa un ragionamento di sistema: questo è il frutto del ciecorigore delle politiche Ue e dell’incapacità dei governi di uscire dalledisuguaglianze e dalla precarizzazione progressiva<
«Possiamo inserire il nostro tempo in una nuova era geologica, l’antropocene, perché le tracce dell’uomo, si trovano ormai anche all’interno delle rocce». lasinistraquotidiana, 8 luglio 2017 (c.m.c.)
Viviamo in un Pianeta sempre più globalizzato ed interconnesso: il giro del mondo, che pareva prodigioso in 80 giorni, oggi si fa in 24 ore, ossia il tempo che sino al XIX secolo era necessario per fare un centinaio di chilometri. Nel frattempo, la popolazione umana, che ha impiegato cinquecentomila anni per raggiungere il Primo miliardo all’inizio dell’Ottocento, nei duecento anni successivi è sestuplicata, conferendo alla storia un’accelerazione senza precedenti.
Tale processo, reso possibile in seguito allo sviluppo dell’economia capitalistica e delle tecnologie ad essa legate,se da un lato ha certamente significato – seppur sempre con limiti di classe, e solo in seguito a grandi lotte sociali – l’aumento dell’aspettativa di vita, la fine di malattie secolari, l’affrancamento di milioni di persone dall’analfabetismo e la crescita della mobilità sociale, dall’altro ha determinato degli squilibri ecologici globali tali per i quali, a giusta ragione, possiamo inserire il nostro tempo in una nuova era geologica, l’antropocene, ché le tracce dell’uomo, sotto forma di emissioni, di plastiche e di polimeri, si trovano ormai anche all’interno delle rocce.
Allo stato attuale, dunque, la globalizzazione, la quale si presenta sotto un segno regressivo per la sua natura capitalistica, ha sviluppato due linee di faglia che rischiano di travolgere il Pianeta e la civilizzazione umana: la diseguaglianza che cresce in progressione geometrica, “grazie” ad una tecnologia che affina sempre di più la capacità di fare profitti e la crisi ecologica innescata da un sistema che è programmato per svilupparsi all’infinito, l’economia di mercato, all’interno però di un sistema chiuso, la biosfera.
Che tale fase regressiva, iniziata a partire dalle periodiche crisi finanziarie del capitalismo del secondo Novecento, sia in atto, è ben chiaro alle classi dominanti,che non a caso puntano alla privatizzazione integrale dei beni comuni,terreno di accaparramento senza scrupoli per multinazionali che impoveriscono milioni di persone, costringendole alla fame e alla migrazione in territori dove altri milioni di persone vengono aizzati contro di loro, scudi umani contro scudi umani, al fine di impedire nelle grandi masse del nord del mondo la presa di coscienza che pure nei secoli precedenti si era avuta.
Le classi dominanti, a differenza degli sfruttati, hanno infatti fatto tesoro della storia: onde evitare il rischio dello sviluppo di un nuovo socialismo e di una nuova coscienza di classe, e dunque un’espansione della democrazia sul terreno delle politiche redistributive, le classi dominanti fomentano lo sviluppo di partiti e movimenti xenofobi, utili idioti e gendarmi del sistema, mediaticamente sovraesposti in quanto fondamentali per deviare il malcontento popolare dalle reali cause (l’accaparramento delle risorse, la demolizione dello stato sociale, la distruzione della democrazia rappresentativa e della cultura di base) del loro malessere a quelle fittizie.
L’esplosione dei partiti e dei movimenti di estrema destra in tutta Europa – partiti di cui la Lega Nord è la variante nazionale – e della cosiddetta “fasciosfera”, ossia la bulimia di siti xenofobi che si autoreplicano diffondendo bufale e allarmando masse di persone deprivate degli strumenti critici di base, va dunque letta entro il contesto di redistribuzione della ricchezza verso l’alto mediante politiche austeritarie presentate come “riforme necessarie” e di conseguente abbandono di qualunque idea di intervento pubblico sul terreno sociale, civile e culturale.
Il rifluire delle grandi masse, dalla condizione di cittadini coscienti, a quella di plebe di consumatori indebitati, l’un contro l’altro armati grazie alla xenofobia ed al securitarismo, non è dunque un “danno collaterale” delle politiche neoliberiste, ma una precisa scelta che data almeno dalla metà degli anni Settanta, quando la Trilateral ammoniva il grande capitale circa i rischi degli “eccessi di democrazia” (sic!) che potevano danneggiare i profitti.
In sintesi, quando, di fronte al montare dell’estrema destra e del discorso razzista divenuto senso comune, ci troviamo ad essere impotenti, e frustrati assistiamo alla messa in mora di qualsiasi idea di solidarietà, dobbiamo mantenere la lucidità di un’analisi che ci permetta di storicizzare e contestualizzare il fenomeno, il quale è tutto tranne che spontaneo, e che dia, di conseguenza, la possibilità di invertire i rapporti di egemonia, attualmente drammaticamente sbilanciati dalla parte di un sistema che, per garantire la propria sopravvivenza, non esita a condannare a morte intere generazioni dell’Africa subsahariana, costruendo intere fortune politiche sulla rimozione collettiva delle migliaia di morti in mare e nel deserto, dato tanto certo quanto non percepito da quegli strati popolari europei che vengono aizzati come cani rabbiosi contro i più dannati fra i dannati della terra.
Ma è proprio nel momento di massimo scoramento, quando pare che l’avversario, la cui brutale razionalità sfida quotidianamente la ragionevolezza, abbia una potenza economica, mediatica e politica soverchiante, è proprio in tale momento che, lucidamente, dobbiamo renderci conto di un punto di partenza costituente anche la più grande contraddizione del sistema capitalistico, accanto a quelle con l’ambiente e con il lavoro: dal punto di vista antropologico, l’animale uomo non è un predatore individuale (come lo sono, ad esempio, i felini), ma fonda la propria sopravvivenza nella catena alimentare sulla sua capacità di agire collettivamente, di coordinare le proprie azioni con altri uomini.
Senza tale agire cooperativo, la specie umana sarebbe stata condannata a perire innanzi agli animali di grossa taglia e a quelli più veloci e più forti. Da questo dato di specie, nel corso dei secoli, si è evoluta poi l’etica in quanto prodotto storico, nata a partire dall’empatia con il prossimo, riconosciuto parte di un comune cammino di sopravvivenza. Ecco perché, se andiamo a scavare al fondo della questione, la grande distopia della destra, ossia il superuomo, non è altro che una super scemenza dietro alla quale sta una volontà non individuale (come viene propagandata), ma di classe, di difesa di una PARS di società contro un’altra, e dunque politicamente battibile attraverso lo sviluppo e la diffusione di diverse forme di pensiero.
Del resto, per paradosso apparente, il punto di massima forza delle propaganda di estrema destra è anche quello di estrema debolezza: quotidianamente, e ventiquattr’ore su ventiquattro, gli apprendisti stregoni delle classi dominanti e i loro utili idioti non fanno che gridare all’assedio, all’invasione e all’insicurezza, e, a loro modo, hanno ragione: i comunitarismi chiusi, gli egoismi di classe e di corporazione, i piccoli individualismi eretti a barriera dei grandi, sono effettivamente sotto assedio, invasi ed insicuri, ché un mondo nuovo, come si è visto all’inizio, avanza a passo spedito ed assedia i fortilizi dei poteri, rimescolando antropologicamente, ancor prima che politicamente, le carte in tavola, e determinando lo sviluppo di una storia che solo la miopia di una politica che si illude di sopravvivere alla crisi economica ed ecologica non sa o non vuole vedere.
Sta a noi mostrare la nudità del re, per poi abbattere la monarchia.
Su eddyburg a mostrare la nudità del re e a raccontare con chiarezza, profondità e rigore che cos'è "Antropocene", come ci siamo arrivati e come sopravviverci ci abbiamo già provato con la "opinione" di Enzo Scandurra, dal titolo, Natura e Cultura
«Il capitale avanza, la democrazia indietreggia. Saltano i vincoli politici e istituzionali che avevano trattenuto «gli spiriti animali» del capitalismo». l'Espresso, 9 luglio 2017 (c.m.c.)
«Il capitalismo sta morendo per overdose da sé stesso». È la tesi del sociologo Wolfgang Streeck, direttore del Max-Planck Institut di Colonia, tra i più autorevoli centri di ricerca in Europa. Nel suo ultimo libro, How Will Capitalism End? Essays on a Failing System (Verso book), Streeck conduce una diagnosi spietata sulle patologie del capitalismo democratico, quella particolare formazione sociale che, nel dopoguerra, aveva allineato democrazia e capitalismo intorno a un patto sociale che gli conferiva legittimità. Dagli anni Settanta, con la fine della crescita economica e, poi, con l'avanzare della rivoluzione neoliberista, quel patto sociale viene meno. Il capitale avanza, la democrazia indietreggia. Saltano i vincoli politici e istituzionali che avevano trattenuto «gli spiriti animali» del capitalismo. Che vince, ma vince troppo. Oggi, a rivoluzione compiuta, il capitalismo è in rovina «perché ha avuto troppo successo», spiega Wolfgang Streeck a l'Espresso.
Professor Streeck, per comprendere la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 lei ha scelto di enfatizzare «le continuità storiche» del capitalismo, rintracciando una lunga «traiettoria di crisi» iniziata negli anni Settanta del secolo scorso. Perché questa scelta?
«Perché la crisi attuale non è un fenomeno accidentale, ma il culmine di una lunga serie di disordini politici ed economici che indicano la dissoluzione di quella formazione sociale che definiamo capitalismo democratico. La traiettoria di crisi corrisponde al processo con cui il capitalismo si è liberato dalle catene, fragili, che gli erano state imposte dopo la seconda guerra mondiale. Indica la trasformazione dell'economia capitalistica dal keynesismo del dopoguerra a una formula politica opposta, di stampo neo-hayekiano, che punta alla crescita attraverso la redistribuzione dal basso all'alto, non più dall'alto al basso. È una transizione che produce una democrazia addomesticata dai mercati, ribaltando quel patto sociale post-bellico che vedeva i mercati addomesticati dalla democrazia. Considerata produttiva nel keynesismo, la democrazia egualitaria diventa un ostacolo all'efficienza».
Secondo la sua analisi, con il «crollo nel 2008 del keynesismo privatizzato» la crisi del capitalismo democratico sarebbe entrata nella sua «quarta e ultima fase». Quali sono le fasi che ci hanno condotto fin qui?
«Il capitalismo democratico del dopoguerra aveva trovato un equilibrio, instabile, tra gli interessi del capitale e dei cittadini. Dagli anni Settanta, venuta meno la crescita, i conflitti distributivi tra capitale e lavoro vengono affrontati con espedienti politici diversi, per creare l'illusione di una crescita inclusiva. Usati per guadagnare tempo, inflazione, debito pubblico e debito privato diventano però problemi di per sé, segnando tre crisi. La prima, negli anni Settanta, è quella dell'inflazione globale, a cui segue l'esplosione del debito pubblico negli anni Ottanta e la crescita dell'indebitamento privato nel decennio successivo, culminata nell'ultima fase, con il collasso dei mercati finanziari nel 2008. Da quattro decenni, lo squilibrio è la normalità. La crisi è dell'economia, ma anche del capitalismo come ordine sociale. Nei Paesi ricchi sono i tre sintomi principali, di lungo termine: il declino della crescita economica, l'aumento dell'indebitamento e la crescente disuguaglianza. A cui si aggiungono cinque disordini sistemici: la stagnazione, la redistribuzione oligarchica, il saccheggio del dominio pubblico, la corruzione e l'anarchia globale»
Per lei, queste crisi e trasformazioni non sono funzionali a un nuovo equilibrio sistemico, ma indicano un processo di «decadenza graduale ma inesorabile»: la fine del capitalismo. Se è vero che sin dall'Ottocento "le teorie sul capitalismo sono anche teorie sulla sua fine", perché dovrebbe essere diverso, questa volta?
«Il fatto che il capitalismo sia riuscito a sopravvivere alle teorie sulla sua fine non significa che sarà in grado di farlo sempre. La sua sopravvivenza è sempre dipesa da un costante lavoro di riparazioni. Ma oggi le tradizionali forze di stabilizzazione non possono più neutralizzarne la sindrome da debolezza accumulata. Il capitalismo sta morendo perché è divenuto più capitalistico di quanto gli sia utile. Perché ha avuto troppo successo, sgominando quegli stessi nemici che in passato lo hanno salvato, limitandolo e costringendolo ad assumere forme nuove. Siamo di fronte a una dinamica endogena di autodistruzione, a una morte per overdose da sé stesso. Seguirà un lungo interregnum, un prolungato periodo di entropia sociale e disordine. La sua fine va intesa come un processo, non come un evento».
Immanuel Wallerstein ritiene che l'interregnum sarà contrassegnato da un confronto globale tra i sostenitori e gli oppositori dell'ordine capitalistico, «la forza di Davos e quella di Porto Alegre». Al contrario, lei esclude conflitti sociali dalla natura globale. Perché?
«Diversamente da Wallerstein, non vedo un'opposizione globale e unita al capitalismo, che lo sfidi per istituire un ordine nuovo e migliore. Al livello nazionale, ci saranno e ci sono movimenti di opposizione e contestazione, ma disuniti e spesso disorientati, contro un sistema e una classe capitalistici globali. C'è una differenza fondamentale tra conflitti e trasformazione strategica. L'obiettivo strategico ultimo, comune, deve ancora essere sviluppato. Non c'è nessun nuovo ordine dietro le quinte. Ci aspetta invece un'era di disordine, di grande confusione e indeterminatezza, piena di rischi».
Lei da una parte sostiene che occorra «de-globalizzare il capitalismo» per «riportarlo nell'ambito del governo democratico», dall'altra che dovremmo «cominciare a pensare alle alternative al capitalismo», anziché migliorarlo. Sono fini compatibili? Un capitalismo de-globalizzato è realistico?
«Il capitalismo globale non può essere governato dalla democrazia nazionale. Al contrario, la evira. Dal momento che la democrazia globale è inconcepibile, ne risulta che il capitalismo globale è incompatibile con la democrazia. Se vogliamo che il capitalismo sia governato, dobbiamo renderlo meno globale. Cosa c'è di pericoloso in questo? È molto più pericoloso lasciare indifesi individui, famiglie, economie regionali e nazionali rispetto ai capricci dei mercati internazionali, con il rischio che cerchino protezione nei Trump e nei Le Pen di turno. Lo trovo evidente».
Per qualcuno l'Unione europea può ancora essere un argine contro la definitiva affermazione della globalizzazione neoliberista. Lei al contrario ritiene che l'integrazione europea sia un «sistematico svuotamento delle democrazie nazionali dai contenuti politico-economici». Perché?
«Basta guardare al Trattato di Maastricht. Negli anni Ottanta c'era ancora la speranza che l'"Europa" potesse interrompere la marcia nel neoliberismo cominciata da Margaret Thatcher. Ma l'"Europa sociale" e social-democratica è stata accantonata. E oggi non c'è strada che ci riporti alla socialdemocrazia. Sotto la dura moneta comune, per i governi nazionali ciò che rimane del compito "europeo" è imporre le "riforme strutturali" neoliberali nei propri Paesi. La Banca centrale europea, con il sostegno del governo tedesco, fa tutto ciò che può per mantenere al potere i governi pro-europei (pro-euro, pro-riforme neoliberali), aspettandosi che ricostruiscano le proprie società in linea con le prescrizioni neoliberali su competitività e flessibilità. È un esperimento sociale e tecnocratico condotto sui popoli dell'Europa».
Nella sinistra europea è diffusa l'idea che, per scongiurare la crescita di partiti e movimenti populisti, occorra rivendicare l'internazionalismo, aggiornandolo. Lei invece è molto scettico sulla democrazia e sulla società civile a dimensione continentale. Perché?
«Perché non ci sono le condizioni per realizzarle. Non esiste un'opinione pubblica europea. La popolazione è organizzata in popoli con lingue diverse, differenti memorie storiche, diverse istituzioni politico-economiche nell'intersezione tra il capitalismo e la società. Se una "democrazia pan-europea" dovesse essere una democrazia giacobina maggioritaria, funzionerebbe come l'euro: a vantaggio di alcune nazioni e a scapito di altre. Verrebbe percepita come un complemento alla tecnocrazia continentale dell'unione monetaria. Non esiste futuro ordine europeo senza gli Stati-nazione. Ogni tentativo di imporre un'unica soluzione ai problemi della governance democratica disgregherebbe l'Europa, anziché unirla. Come ha fatto l'euro»
Internazionale 7 luglio 2017 e un dettagliato articolo di E.T.Mantovani, Comitato Carlos Fonseca, 23 maggio 2017 per comprenderne le ragioni (i.b)
Internazionale, 7 luglio 2017 (ripreso da Prodavinci)
TRE IPOTESI PER IL FUTURO DEL VENEZUELA
di Luis Vincente Leon
Si possono fare tre ipotesi su come il Venezuela potrà uscire dalla crisi che sta vivendo da mesi. Nella prima, il governo di Nicolás Maduro (del Partito socialista unito del Venezuela) mantiene il potere, anche se la situazione nel paese continua a peggiorare. La crisi economica si aggrava e le manifestazioni proseguono, ma il governo fa di tutto per restare a galla.
La repressione delle manifestazioni diventa più severa fino al punto di coinvolgere anche altri componenti della forza armata. Il governo invita a lottare contro quella che viene definita un’insurrezione armata, mentre i militari mantengono una relativa unità. Con il passare del tempo si aggrava la situazione economica ma si logora anche l’opposizione, confusa e debole, chiusa in una battaglia a senso unico che non riesce a vincere ma ripropone ogni volta con le stesse modalità. Senza una leadership forte, la protesta non si allarga. Il governo ne esce indenne e convoca un’assemblea costituente, cambiando le regole elettorali e garantendo alla minoranza rivoluzionaria di restare al potere.
Garantire la convivenza
La seconda ipotesi prevede un’implosione negoziata e potrebbe realizzarsi solo a tre condizioni. Innanzitutto un leader dell’opposizione dovrebbe imporsi sugli altri prendendo decisioni, assumendo l’iniziativa, creando speranze e ampliando la base della protesta. Una maggiore partecipazione alle manifestazioni è la seconda condizione necessaria: se tutto il paese si opporrà al potere, non ci saranno carri armati, gas lacrimogeni o fucili che tengano. Le proteste pacifiche portano all’ingovernabilità e alla terza condizione: una spaccatura nel chavismo.
Chi spera di “convocare il popolo in piazza dietro una Giovanna d’Arco in estasi, che guidi i cittadini adoranti fino alle sedi del potere rischiando la morte” si illude. La protesta pacifica invece può penetrare nel palazzo presidenziale, nel tribunale supremo e nelle caserme. Non fisicamente, ma attraverso il dissenso interno che crea fazioni in lotta tra loro nel sistema. A quel punto ci può essere un cambiamento negoziato, con i militari che spingono per una trasformazione in grado di garantire la stabilità del paese. Le trattative servono anche a permettere ad alcuni protagonisti di uscire di scena incolumi e a ristrutturare le istituzioni, mantenendo però delle quote di potere chavista e militare in modo da assicurare la loro convivenza. Si forma così un governo di transizione che almeno all’inizio non è guidato dai soliti politici dell’opposizione.
Alla prima ipotesi attribuisco il 45 per cento di probabilità, alla seconda il 40 per cento. Nessuna delle due percentuali è bassa ed entrambe danno un’idea del clima d’incertezza in cui viviamo. E il restante 15 per cento?
È la terza possibilità: con un governo che non soddisfa i bisogni del popolo e un’opposizione che a volte sembra persa e confusa sugli obiettivi e i metodi di lotta, può venire allo scoperto qualche gruppo di cospiratori che immaginiamo esista negli ambienti militari venezuelani. In questo caso, la rottura e il cambiamento s’imporrebbero con un golpe militare. Considerata la situazione attuale del paese, secondo alcuni qualsiasi cambiamento sarebbe positivo. Le stesse persone in passato dicevano che niente poteva essere peggio di Hugo Chávez.
Comitato Carlos Fonseca, 23 maggio 2017
(ripreso da alainnet.org)
IL VENEZUELA DALL'INTERNO:
SETTE CHIAVI DI LETTURA
PER COMPRENDERE LA CRISI ATTUALE
di Emiliano Terán Mantovani
Non è possibile comprendere l’attuale crisi in Venezuela senza analizzare nel loro insieme le cause che si sviluppano “dall’interno”, e che non vengono spiegate nel complesso dai principali mezzi di comunicazione. Abbiamo individuato sette chiavi di lettura della crisi attuale che mostrano come non sia possibile comprendere quello che sta accadendo in Venezuela senza prendere in considerazione l’intervento straniero e che il concetto di “dittatura” non spiega né il caso venezuelano, né può considerarsi una specificità regionale di questo paese. Constatiamo a sua volta che il contratto sociale, le istituzioni e i principi dell’economia formale si stanno disfacendo, e che il futuro e le linee politiche nel contesto attuale si stanno definendo attraverso la via della forza e una buona dose di meccanismi informali, eccezionali e sotterranei. Sosteniamo che l’orizzonte condiviso dei due blocchi dei partiti che rappresentano il potere è neoliberale, che siamo di fronte a una crisi storica del capitalismo venezuelano della rendita e che le comunità, le organizzazioni popolari e i movimenti sociali si trovano di fronte a un progressivo annullamento del tessuto sociale.
L’immagine del Venezuela dipinta dai grandi mezzi di comunicazione internazionali di tutto il mondo è senza dubbio un’immagine che esula dall’ordinario. Non ci sono dubbi che ci sia troppa confusione a riguardo, troppo manicheismo, troppi slogan, troppe manipolazioni e omissioni.
Ma al di là delle versioni instupidite della neolingua mediatica che interpreta tutto quello che sta succedendo nel Paese come “crisi umanitaria”, “dittatura” o “prigionieri politici”, e della narrativa eroica del Venezuela del “socialismo” e della “rivoluzione” che interpreta tutto quello che sta succedendo nel Paese come “guerra economica” o “attacco dell’imperialismo”, ci sono molte tematiche, soggetti e processi resi invisibili, che agiscono più in profondità e che costituiscono l’essenza dello scenario politico nazionale. Non è possibile comprendere la crisi attuale in Venezuela senza analizzare nel loro insieme le cause che si sviluppano “dall’interno”.
Il criterio di azione e interpretazione fondato sulla logica “amico-nemico” risponde più a una disputa tra le élite dei partiti politici e dei gruppi economici che agli interessi fondamentali delle classi lavoratrici e alla difesa dei beni comuni. È necessario scommettere su sguardi complessi che analizzino il processo di crisi e il conflitto nazionale, e che contribuiscano a tracciare le coordinate per affrontare e immergersi nella congiuntura attuale.
In allegato il testo completo PDF dell'articolo con le sette chiavi di lettura "per comprendere tale contesto, analizzando non solo la disputa tra governo e opposizione, ma anche i processi che si stanno sviluppando nelle istituzioni politiche, nel tessuto sociale, nelle trame economiche, tenendo in considerazione le complessità del neoliberismo e dei regimi di governo nel Paese."
il manifesto, 9 luglio 2017
Amburgo. Centomila per alcunii partecipanti, 80mila per altri, 76mila nell’annuncio ufficiale degliscrupolosi organizzatori. Comunque tante e diverse persone hanno saputosconfiggere la paura, creata da esponenti governativi e dai media nazionali elocali, dopo gli scontri della notte.
Migliaia di giovani avevanoinfatti tenuto impegnate le forze dell’ordine per almeno quattro ore, travenerdì e sabato, in un vero e proprio «riot urbano»: erette e incendiatediverse barricate nel quartiere di Sternschanze, la polizia tenuta lontana dallancio di sassi e due supermercati interamente saccheggiati. Al di là delcontributo di alcuni gruppi organizzati, è stato evidente il coinvolgimentoattivo di migliaia di giovani abitanti di Amburgo, prevalentemente immigrati diseconda generazione, in una sorta di «carnevale di riappropriazione eautodifesa delle strade» dal dispositivo di militarizzazione, che si era vistoall’opera negli ultimi giorni.
Solo verso le due del mattino gli apparati di sicurezza sono riusciti ariprendere il controllo della situazione: con ripetute cariche, l’uso degliidranti e il lancio massiccio di gas lacrimogeni e irritanti, ma anche con ilrastrellamento di interi isolati, a mitra spianato, ad opera dei repartispeciali Sek.
Pesanteil bilancio dellanottata: secondo fonti ufficiali, sono 213 gli agenti feriti, un centinaio imanifestanti (ma molti hanno preferito rivolgersi per le cure alla Saniautogestita), per fortuna nessuno in modo grave, e 203 le persone fermate.Questo clima non ha scoraggiato, anzi, quanti si sono presentati, a partiredalle 11 di sabato mattina, in Deichtorplatz. La stessa composizione del corteoha saputo esprimere tutta la ricchezza di contenuti della mobilitazioneanti-G20. Ad aprire la marcia la rappresentanza delle delegazioniinternazionali presenti ad Amburgo: tra questi i greci della rete Diktyo e delCity Plaza occupato, i sindacalisti francesi di Sud-Solidaires, molti attivistiscandinavi e olandesi. Poi, forte di almeno 7.000 presenze lo spezzone dellecomunità curde in Germania, molte donne e molti giovani, uniti sotto le paroled’ordine del «confederalismo democratico», pronti a difendere l’esperienzadella Rojava autonoma e a denunciare le ambigue relazioni tra il governo Merkele il regime del sultano Erdogan. Subito dopo, in più di diecimila, le attivistee gli attivisti delle reti di movimento «post-autonome» tedesche, la «SinistraIntervenzionista» e «Ums Ganze», protagonisti della giornata dei blocchi divenerdì e, a seguire, i gruppi autonomi e anarchici di «Welcome to hell».
Particolarmentevivace, come da tradizione, il blocco dei tifosi del Sankt Pauli, ilcui stadio è stato uno dei punti di riferimento per la preparazione nell’ultimoanno della protesta contro il vertice. Significativo lo spezzone dei movimentidei migranti e delle associazioni di solidarietà, a partire da quelle impegnateanche nel Mediterraneo, come Sea Watch e Jugend Rettet, a marcare come laquestione della libertà di movimento, dell’apertura dei confini e diun’accoglienza solidale e degna, sia tema decisivo di qualsiasi propostapolitica globale. Poi arrivava l’arancione di Attac; le «tute bianche» deimovimenti contro i cambiamenti climatici e per una radicale conversioneecologica del sistema produttivo nella coalizione Ende Gelände; le bandiererosse del partito die Linke; gli striscioni del sindacato Ver.di, deimetalmeccanici della Ig Metall e di alcune sezioni della stessa confederazioneDgb.
Un arcobaleno di colori e di proposte di rottura con il modellorappresentato dai Venti Grandi e in sostanza difeso da un corteo, «Hamburgzeigt Haltung», convocato dai socialdemocratici e associazioni collaterali innome di un generico «sostegno ai diritti umani», che avrebbe volutocontrobilanciare le contestazioni, ma che ha raccolto circa 4mila partecipanti.
Dasegnalare provocazionidella polizia: un attacco con gli idranti ai margini della piazza conclusiva e,soprattutto, diversi controlli, perquisizioni e fermi nei confronti diattivisti che venissero riconosciuti come «italiani, francesi o spagnoli».Inutili arroganze, a lavori del summit ampiamente conclusi, di cui ha fatto lespese anche l’europarlamentare della Lista Tsipras, Eleonora Forenza (poirilasciata; mentre scriviamo altre persone sono ancora in stato di fermo).
Ma al di là di questo, la riuscita della manifestazione della«Solidarietà senza confini» ha degnamente concluso una settimana dimobilitazione e lotta capace di mostrare, in modalità assai differenti fraloro, un campo ricco di proposte alternative all’esito, semplicementedisastroso, del vertice dei G20. Come tali conflitti e tali alternative sianocapaci di connettersi, convergere e costruire forza comune, in modo dariequilibrare, se non rovesciare, i rapporti di potere dati, è questionestrategica ancora tutta da affrontare.
TgCom News24 e A.Zoratti, Sbilanciamoci online, 5-6 luglio 2017 (i.b)
TGCom News24, 6 luglio 2017
CETA: ACCORDO DI LIBERO SCAMBIO
EU E CANADA ENTRA IN VIGORE
di Carlo Max Botta
L’accordo di libero scambio tra la UE e il Canada entra in vigore, anche se in forma provvisoria in attesa delle ratifiche parlamentari dei vari stati membri.
Siamo di fronte a un’altra minaccia molto preoccupante partorita nelle stanze segrete della Commissione Europea, la commissione che oggi rappresenta probabilmente il nido mondiale delle lobby. Il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement ) è un trattato simile al TTIP stipulato tra l’UE e il Canada.
Tribunali aziendali. Come il contestatissimo TTIP, anche il CETA prevede un nuovo sistema giuridico, aperto solo alle società e agli investitori stranieri. Questo permetterà alle aziende canadesi di citare in giudizio il governo (nel nostro caso l’Italia) per ‘ingiustizia’ ogni volta che i loro profitti vengono considerati a rischio. Lo stesso vale per un gran numero di società americane che hanno interessi in Canada. In poche parole le lobby potranno istituire una sorta di tribunale sovranazionale privato la cui giurisdizione si pone addirittura al di sopra del nostro ordinamento giuridico.
Una vera follia. Sarà l’ennesima entità indipendente autopotenziata che tutelerà gli interessi delle lobby, svincolandosi allo stesso tempo da ogni giudizio sia morale che politico (come appunto la BCE, il FMI e la stessa Commissione Europea)! Una sorta di dittatura togata che a suon di miliardi potrà mettere in difficoltà qualsiasi Stato che provi ad intralciare gli interessi delle lobby e delle multinazionali.
Il CETA elimina sia le barriere tariffarie (dazi doganali appunto) che quelle non tariffarie, ovvero dei livelli minimi di standard qualitativi previsti per tutte le categorie di prodotto scambiato, inclusi quelli agricoli e sanitari, con enormi ripercussioni negative in termini sociali, economici, ambientali e salutari.
Il Canada ad esempio produce un grano che richiede trattamenti chimici per ovviare alla mancanza del clima ottimale per farlo maturare: sole e sana ventilazione (come ad esempio le aree del sud Italia). Queste sostanza oltre che cancerogene sono pericolosissime in termini genetici.
In merito a tale aspetto sono stati analizzate (su mandato della Coldiretti pugliese) alcune note marche di pasta italiane che hanno adoperato negli ultimi lotti il grano canadese. Dai risultati emerge che tali paste manifestano livelli altissimi di sostanze velenose che nei grani italiani sono pressoché inesistenti.
Inoltre va sottolineato, l’incredibile revisione di tolleranza della Commissione Europea, infatti gli euro-commissari hanno alzato il tasso di tolleranza dell’80% di tali veleni per facilitare appunto il commercio di questi prodotti sulle nostre tavole (tolleranze che prima del CETA erano proibite addirittura già per alimenti destinati agli animali in allevamento).
Tali nuovi livelli di “idoneità” rendono la pasta pericolosa ai bambini al di sotto dei 3 anni (livelli di DON), pertanto già oggi i packaging dovrebbero riportare obbligatoriamente che “il prodotto non può essere somministrato a bimbi di età inferiore ad anni 3“. Capite che invece di migliorare la salubrità alimentare, tali accordi legalizzano l’esatto contrario?
Nessun notiziario però racconta ciò che lo scrivente ha vissuto personalmente a Bruxelles, parlo del modus operandi di tali trattati. Le regole sono più ferree dei vecchi apparati come il KGB sovietico. Giudicate voi se esagero. Innanzitutto a nessun parlamentare è concesso entrare nelle stanze in cui le multinazionali, lobbisti e commissari europei discutono le sessioni del trattato.
I membri accreditati alla commissione che possono entrare nelle “stanze segrete” non possono portarvi all’interno il telefonino, nessun apparecchio elettronico, ancor meno registratori, nessun foglio di carta per appunti e nemmeno una banale biro! Capite la follia? Se fosse una cosa bella e lodevole per il popolo perchè tutta questa ossessionata segretezza? Con una corretta informazione non verrebbe più tollerata questa linea vile ed ingannevole di promozione della lobby UE.
Lo scopo del CETA è quello di ridurre il regolamento per affari. Potrebbero venir meno a tutto campo le basi di tutele per cittadini, lavoratori, consumatori, ambiente ecc; in quanto ritenuti «ostacoli agli scambi». In poche parole anche la nostra Costituzione che si basa sulla salvaguardia della salute e di quei diritti inalienabili, per il CETA è un ostacolo intollerabile (ecco il motivo del tribunale sovranazionale).
Una minaccia per i servizi pubblici. Se non è abbastanza chiaro, lo Stato sarà obbligato attraverso il CETA a cedere alle multinazionali i servizi pubblici inalienabili, fra questi cito ad esempio energia, acqua e sanità. Chi avrà la possibilità economica potrà “comprarsi” tali servizi, mentre per gli altri non ci sarà alcuna pietà o Un orrore che cancellerà ogni dignità del cittadino, specie per le future generazioni.
CETA è una minaccia per l’ambiente. Vengono legalizzati usi di idrocarburi altamente inquinantiattualmente proibiti in Europa oltre ad alzare i livelli di tolleranza di inquinamenti in più campi (che si manifesteranno appunto intolleranti per la salute e per l’ambiente)
Insomma questa Europa impone solo provvedimenti e direttive che, guarda caso, sono tutte, ripeto, tutte azioni che si vedono in netto contrasto con la nostra Costituzione, ma soprattutto in contrapposizione con le esigenze reali e le volontà dei cittadini.
Sbilanciamoci online, 5 luglio 2017
LA LUNGA MARCIA DEL CETA
di Alberto Zoratti
Non è bastato Justin Trudeau, il primo ministro canadese in visita in Italia durante il G7 di Taormina, a far calmare gli animi accesi sul CETA, l’accordo di libero scambio tra UE e Canada sulla strada della ratifica parlamentare. Ci hanno provato, descrivendo il leader canadese come un novello Kennedy, salito sulla trincea della lotta al cambiamento climatico e della difesa delle libertà economiche dinanzi all’America First di Donald Trump. “Un leader femminista”, come ha avuto modo di presentarlo la presidentessa della Camera Laura Boldrini, all’interno di una narrazione che preparava la strada al processo più sostanziale dell’approvazione del trattato.
La lunga corsa inizia da lontano. Era il 2009 e gli accordi di libero scambio di seconda generazione (che comprendono cioè sia l’abbattimento dei dazi che delle barriere non tariffarie) erano appena venuti alla luce. In quel momento gli occhi erano puntati sull’accordo con la Corea del Sud, trattato molto sensibile non solo per i nostri produttori di riso ma anche per le nostre case automobilistiche, che vedevano nei colossi sudcoreani dei possibili competitori. E dove non ha potuto l’agricoltura ci hanno pensato le auto, considerato che l’unico veto all’approvazione dell’accordo con la Corea al Consiglio Europeo dell’ottobre 2011 fu proprio italiano.
Fu in quel brodo primordiale che prese forma il CETA, negoziato in modo opaco e sostanzialmente segreto (le questioni legate alla trasparenza vennero affrontate solo con il TTIP alcuni anni dopo, grazie alle ingenti mobilitazioni e alle pressioni della società civile) fino al settembre 2014, quando con una stretta di mano Unione Europea e Canada suggellarono un accordo che a quanto diceva l’allora Commissario europeo De Gutch avrebbe dovuto vedere la luce in breve tempo. “EU only”, pensavano: dopotutto venne interpretato come “accordo non misto”, cioè di pura competenza europea, e avrebbe avuto il fast track della sola ratifica europarlamentare.
Ma le cose non furono così semplici. Da una parte la mobilitazione della società civile, che spinse fortemente per il carattere misto dell’accordo (cioè con competenze concorrenti Stati membri – Unione europea) e che portò alla decisione di renderlo tale nel Consiglio Europeo del luglio 2016. Nei primi mesi del 2017 la Corte di Giustizia Europea confermò la posizione mista, con una sentenza sull’accordo Unione Europea – Singapore sul suo capitolo investimenti (che era al centro della contesa). Questo fu il caso in cui l’Italia perse quel minimo scatto di orgoglio di pochi anni prima: la Campagna Stop TTIP Italia pubblicò nel giugno 2016 un carteggio privato tra il Ministro Carlo Calenda e la Commissaria Malmstrom in cui l’Italia sosteneva l’ipotesi del carattere EU only. Che in parole semplici significava: evitiamo la ratifica del nostro Parlamento, per correre più veloci verso l’approvazione.
Altri furono gli ostacoli in questa corsa contro il tempo, che vedeva come spade di Damocle le elezioni francesi, quelle potenziali italiane, le tedesche e la stessa Brexit. Nell’ottobre 2016 toccò alla piccola Vallonia, il cui parlamento è titolato a ratificare accordi commerciali (conditio sine qua non per la ratifica del Parlamento belga), e al suo primo ministro Paul Magnette. La lotta di Davide contro Golia durò quasi un mese, velato di minacce, pressioni e intimidazioni. Ma il piccolo parlamento nordeuropeo riuscì comunque nell’impresa di far mettere nero su bianco alcune “linee rosse” da non superare, non ultime la questione dello sviluppo sostenibile e quello della tutela degli investimenti.
Già, perchè a far fronte alle proteste della società civile ci pensava la retorica europea secondo la quale questi accordi di nuova generazione, come TTIP e Ceta, avrebbero garantito alti standard sociali e ambientali. Peccato che il capitolo specifico sia solamente consultivo, che il rispetto alle Convenzioni dell’OIL sia sottolineato ma per nulla rafforzato con meccanismi di enforcement chiari, a differenza di ciò che riguarda la questione investimenti dove un arbitrato specifico ha la possibilità di imporre richiesta di compensazione economica davanti a un arbitrato a quei Governi (nazionali o locali) accusati di distorsione del mercato (o di esproprio indiretto, con un’interpretazione molto ampia). Uno sbilanciamento molto pericoloso, che rischia di diminuire lo spazio di agibilità degli Stati.
Un esempio di come questi due ambiti siano in conflitto lo si trova in Germania, vicino ad Amburgo, dove la Vattenfall (impresa energetica scandinava con molti interessi nel nucleare e nel termoelettrico tedesco), facendo leva su un accordo internazionale di liberalizzazione dell’energia di cui Germania e Svezia sono firmatari (Energy Charter Treaty) è riuscita a far modificare a sua favore una norma sull’emissione di acque di scarico dalla sua centrale termoelettrica alla periferia della città tedesca grazie alla denuncia davanti a un arbitrato. La causa è finita in patteggiamento, con la municipalità di Amburgo che ha scelto di allentare le norme. Peccato che pochi anni dopo, con una sentenza resa pubblica nell’aprile scorso, la Corte di Giustizia Europea ha strigliato il Governo tedesco proprio perché quell’allentamento negli standard è andato contro le norme di tutela ambientale comunitaria.
Anche il CETA presenta un capitolo sulla tutela degli investimenti. Al posto dell’arbitrato classico investitore – Stato (ISDS) una mobilitazione internazionale durata più di un anno ha indotto l’Unione Europea a proporre un dispositivo riformato: un po’ più trasparente e pubblico, ma ispirato agli stessi principi dei vecchi arbitrati. Pochi passi avanti e parziali, secondo le campagne internazionali, che chiedono che il capitolo sia stralciato definitivamente o congelato.
Ma d’altra parte, cosa potrebbe accadere? Il recente caso Ombrina Mare è significativo: l’impresa energetica Rockhopper, propietaria dell’impianto denuncia l’Italia davanti a un arbitrato dell’Energy Charter Treaty con una possibile richiesta di 13 milioni di euro (i dati però non sono pubblici) per il ritiro della concessione di prospezione e di estrazione di idrocarburi dall’Adriatico. Un’azione prevedibile, considerato che sono già diverse le cause a cui l’Italia dovrà rispondere, sempre sotto l’ombrello dell’ECT, per la rimodulazione degli incentivi al fotovoltaico, ma che evidentemente non scalfisce la piena fiducia delle istituzioni negli arbitrati, qualunque struttura abbiano.
Lo sbilanciamento è talmente evidente che lo scorso 3 luglio, a un seminario con la società civile organizzato a Bruxelles dalla direzione commercio internazionale – DG Trade – della Commissione europea proprio sul capitolo “Sviluppo sostenibile” dei trattati di libero scambio, Georgios Altintzis dell’ITUC (International Trade Union Confederation, la confederazione internazionale dei sindacati) sottolineava come il modello proposto negli accordi commerciali sia inaccettabile: problemi con la Corea del Sud sulla libertà di associazione sindacale, con il Guatemala e il Salvador sempre sul rispetto delle Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL) o con la Colombia per il rispetto della Convenzione CITES sulle specie protette, non riescono a essere affrontati e risolti perchè il meccanismo è troppo farraginoso e inconcludente. “Bisognerebbe far sottostare l’approvazione dei trattati di libero cambio da parte dei Parlamenti alla ratifica e applicazione delle Convenzioni OIL e di quelle ambientali” ha sottolineato con forza Altintzis, ma Madeleine Tuininga, direttrice del dipartimento Commercio e Sviluppo sostenibile della DG Trade ha chiarito come “esistano approcci differenti, ognuno con i suoi pro e contro”. In attesa del documento annunciato dalla Commissione Europea sullo sviluppo sostenibile e il commercio, queste parole non depongono a favore di un sostegno incontrastato all’attuale politica commerciale comunitaria.
Criticità evidenti, quindi, ma almeno con il CETA le indicazioni geografiche sono protette, così sottolinea il Ministero dello Sviluppo Economico. “In Canada riceveranno protezione”, ricorda Coldiretti, “un elenco di 171 prodotti ad indicazione geografica dell’Unione Europea tra cui figurano 41 nomi italiani rispetto alle 289 denominazioni Made in Italy registrate”. I produttori canadesi potranno continuare ad utilizzare il termine Parmesan ma anche produrre e vendere, come già fanno, Gorgonzola, Asiago, Fontina (anche se con l’indicazione Made in Canada). Il prosciutto di Parma Dop con il CETA potrà entrare in Canada, ma in coesistenza con quello dell’azienda privata che ne ha registrato il marchio. Una vittoria? Non sembrerebbe.
Eppure nonostante questi limiti e queste criticità, il Governo italiano corre verso una ratifica impedendo un vero dibattito nel Paese. Alla fine di giugno alla Commissione Esteri del Senato una maggioranza PD – Forza Italia, con l’assenza di Articolo Uno MDP, ha spianato la strada verso Palazzo Madama.
Ma in strada, o meglio in piazza – il 5 luglio a piazza Montecitorio – scendono anche la Campagna Stop TTIP Italia, Coldiretti, Slow Food, CGIL, Greenpeace e molti altri, per chiedere uno Stop immediato alla ratifica, e l’apertura di un serio dibattito attorno al tema degli impatti sociali e ambientali non solo del CETA, ma anche degli altri trattati che la Commissione europea sta negoziando, nonostante le critiche e gli avvertimenti provenienti dalla società civile e dal mondo produttivo della piccola e media impresa.
Riferimenti
Intervista di D.Sacchetto a E.O.Wright, l'animatore di un progetto globale di alternativa al capitalismo, in cui uguaglianza, libertà, partecipazione sono i principi guida.
il manifesto, 6 luglio 2017 (c.m.c.)
«È sempre una sfida dire qualcosa di ragionevole in merito alle alternative al mondo esistente, specie quando si tratta di questioni complesse come un sistema sociale. Progetti esaurienti per modi alternativi di organizzare la società sembrano sempre innaturali, e sicuramente frutto di congetture.
Questo è uno dei motivi per cui Marx è sempre stato scettico verso questi sforzi. Tuttavia, se non riusciamo a pensare ad alternative, il mondo così com’è si presenta sempre come naturalizzato». Gli interessi di ricerca di Erik Olin Wright – docente presso l’Università del Wisconsin e già presidente dell’Associazione statunitense di sociologia – si sono a lungo soffermarti sul concetto di classe e sulle forme di oppressione prodotte dal sistema capitalistico. Negli anni più recenti ha sviluppato un progetto, Real Utopias che è diventato anche un libro (Verso 2010). Il progetto mira all’analisi delle forme economiche alternative al capitalismo.
Abbiamo incontrato Wright durante il suo soggiorno in Italia, dove ha partecipato ad alcuni seminari e a un Convegno «Cooperative Pathways Meeting» tenutosi all’Università di Padova. Si tratta del quarto incontro nell’ambito del progetto Real Utopias, dopo quelli di Barcellona (2015), Buenos Aires (2015), e Johannesburg (2016).
Negli ultimi anni ha prestato particolare attenzione a forme alternative alla produzione capitalistica. Questa alternativa è connessa al suo progetto «utopie reali». Come si sviluppa questo progetto?
L’analisi inizia specificando i valori che si vorrebbe vedere accolti nelle nostre istituzioni sociali. Questo compito si riferisce alla necessità di elaborare fondamenti normativi di una scienza sociale emancipativa. Nel mio lavoro, mi sono dedicato prevalentemente a tre gruppi di valori: uguaglianza e onestà, democrazia e libertà, comunità e solidarietà. Questi fondamenti normativi mirano a due obiettivi: in primo luogo essi forniscono le basi per una diagnosi e una critica al capitalismo. In secondo luogo, sono fondamenti che forniscono un metro di giudizio per le alternative. Una cosa è dichiarare i valori o princìpi che animano un’alternativa e un’altra è specificare il progetto istituzionale che potrebbe realizzare questi valori. Noi vogliamo un’economia che sia profondamente e solidamente democratica.
Cosa significa in pratica?
L’utopia di cui parlo nel mio libro sulle «utopie reali» identifica i valori emancipativi di questa visione; mentre il reale guarda ai modi pratici per creare delle istituzioni in cui questi valori siano inclusi. Questo interessa due tipi di analisi. Primo, lo studio delle utopie reali comprende studi di casi concreti nel mondo, casi che, sebbene in modo imperfetto, rappresentano princìpi anticapitalistici congruenti con i valori emancipativi. Ne sono un esempio le cooperative, i bilanci partecipativi, l’economia sociale e solidale, le biblioteche pubbliche, le comunità legate da fini specifici, e molte altre cose.
Il punto saliente è capire come queste istituzioni operano, quali problemi esse si trovano di fronte, e quali cambiamenti nella loro esistenza potrebbe facilitarne l’espansione. Secondo, lo studio sulle utopie reali implica l’attenzione a proposte per nuove istituzioni che potrebbero essere organizzate all’interno delle economie capitalistiche e che potrebbero espandere le possibilità emancipative, ad esempio un reddito di base incondizionato e nuove forme di potere democratico, come assemblee legislative di cittadini/e scelti/e casualmente.
La strategia di base pensata intorno a queste linee di ricerca è che l’espansione di strutture e pratiche non capitalistiche all’interno delle economie capitalistiche possa prima o poi erodere il dominio del capitalismo. Questa strategia può essere fatta propria dal movimento operaio oppure servono nuovi movimenti sociali?
Abbiamo bisogno di entrambi. I movimenti necessitano di superare la strategia delle lotte che provano a migliorare le cose senza preoccuparsi delle trasformazioni delle condizioni di vita nel lungo periodo. Le lotte per il miglioramento delle condizioni di vita sono importanti certamente; ma noi abbiamo bisogno di riforme che cerchino di creare i «mattoni» per un futuro di emancipazione: una più incisiva democrazia in economia, nello stato e nella società civile.
Questi mattoni sono anche nell’interesse di un’ampia gamma di identità sociali e sono perciò congruenti con l’aspirazione di molti movimenti sociali popolari.
L’anticapitalismo è un modo di unire movimenti operai e molti altri movimenti sociali che si impegnano sull’ambiente e su varie forme di oppressione e diseguaglianze quali il genere, la «razza», l’etnicità, il sesso, la disabilità e l’emarginazione.
I movimenti sociali più recenti negli Stati Uniti e in Europa non sembrano essere basati su questioni relative alla classe (Occupy, 15M, etc..). Pensa che la questione di classe rimanga importante nell’attuale situazione globale?
Il mio punto di vista è abbastanza semplice: se il capitalismo rimane centrale, allora la classe deve essere importante, perché una delle caratteristiche che definisce il capitalismo è la sua struttura di classe basata sulle relazioni di potere. Questo non significa che l’identità di classe dei lavoratori rimanga importante come nel passato.
L’identità di classe operaia quale base per un’azione collettiva è stata infatti indebolita a causa di fattori sia strutturali (incremento della frammentazione ed eterogeneità della forza lavoro) sia politici (l’individualizzazione dei rischi, risultato delle politiche neoliberiste, in particolare grazie alla privatizzazione delle responsabilità). Ma questo non implica che la classe come struttura di relazioni di potere sia caduta verticalmente per quanto riguarda sia la determinazione delle condizioni di vita delle persone sia le forme del conflitto.
Negli ultimi trent’anni molti ricercatori hanno sottolineato come il capitalismo si stia strutturando attraverso catene del valore globali. Ma queste categorie possano essere di un qualche aiuto per comprendere la nuova organizzazione del capitalismo contemporaneo?
Non c’è dubbio che la produzione si strutturi oggi attraverso complesse catene e reti globali del valore. Ogni merce che arriva sul mercato è assemblata attraverso input – dalle materie prime ai semilavorati – prodotti in varie parti del mondo. Ma è anche importante sottolineare come molte delle attività economiche rimangano radicate a livello locale. In quest’ambito locale c’è infatti maggiore spazio di azione di quanto le persone pensino, in particolare per quanto riguarda la tassazione.
Quando la socialdemocrazia raggiunse il suo massimo splendore, la maggior parte della tassazione che sosteneva lo stato sociale proveniva dalla redistribuzione delle tasse dei lavoratori, non dal trasferimento dei profitti allo Stato. L’argomento critico rimane il livello di solidarietà tra salariati e la loro volontà di vedere la loro qualità di vita dipendere da quello che possiamo chiamare salario sociale piuttosto che dal loro «salario individuale».
Negli ultimi anni negli Stati Uniti e in Europa alcune delle più importanti proteste sono state sostenute dai lavoratori migranti. Pensi che la i lavoratori migranti siano in grado di modificare a fondo la classe operaia occidentale?
Negli Stati Uniti i lavoratori migranti sono così vulnerabili alla deportazione che è difficile definirli come un’avanguardia. Sospetto che questo sia vero anche per l’Europa. Inoltre le proteste dei lavoratori migranti spesso alimentano le divisioni razziali ed etniche, e quindi non è chiaro se questo di per sé favorisca nell’avvenire la ripresa di nuove solidarietà necessarie per la rigenerazione del movimento operaio.
Ma sono divisioni che devono essere perciò superate. Questo è successo nel passato in alcuni luoghi, sebbene altrettanto spesso questi sforzi siano falliti. Comunque, è chiaro che ogni rinnovamento del movimento operaio deve coinvolgere il lavoro migrante.
il manifesto, 2 luglio 2017 (m.p.r.)
Dal cuore di Old Dakha, la capitale del Bangladesh, bisogna prendere dei piccoli battellini per attraversare il Buriganga e raggiungere l’altra sponda. Su questo largo fiume dalle acque nere come la pece si viene traghettati su piroghe sottili e dall’equilibrio apparentemente instabile.
C’è un gran traffico di umanità, animali, utensili che, per qualche centesimo, si spostano dalla riva dove troneggia il Palazzo rosa di Ahsan Manzil, una volta sede del «nababbo» (nawab), a un quartiere anonimo dall’altra parte del fiume che scorre verso il Golfo del Bengala. Pieno di negozi di tessuti naturalmente, una delle grandi ricchezze del Bangladesh che ogni anno frutta al Paese 30 miliardi di dollari in valuta. Le fabbriche però, grandi o piccole, sono lontane dal centro città: stanno a Savar, dove si è consumato il dramma del Rana Plaza, o ad Ashulia, distretti suburbani industriali. In pieno centro c’è invece il cuore della produzione di un altro grande bene primario del Bangladesh che se ne va tutto in esportazione: il cuoio. Decine di fabbriche dove si fa la concia delle pelli: la prima lavorazione e quella più tossica che trasforma la materia prima nel prodotto base che può poi diventare scarpa o borsetta. A un pugno di isolati dal Palazzo rosa, nel distretto di Kamrangirchar e in quello gemello di Hazaribagh, divisi dal Buriganga, si lavora in condizioni bestiali anche con l’aiuto di ragazzi di 8 anni.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il 90% di chi lavora in queste fabbriche di veleni che si sciolgono nel fiume non supera i cinquant’anni. Pavlo Kolovos, il responsabile di tre cliniche di Medici Senza Frontiere a Kamrangirchar, spiega che «la metà dei pazienti che viene negli ambulatori di Msf lo fa per problemi legati al lavoro: malattie della pelle, intossicazioni, insufficienze respiratorie…». «Le nostre inchieste - dice Deborah Lucchetti della campagna Abiti Puliti - mostrano come l’esposizione al cromo, quando viene trattato in maniera non adeguata e si trasforma in cromo esavalente, possa portare anche al tumore. Senza contare che gli scarti delle lavorazioni vanno a finire in falde e terreni espandendo il danno anche oltre la fabbrica».
Il paradosso è che la materia prima - cotone o cuoio - non sempre viene dal Bangladesh che pure è un grande produttore di uno dei migliori cotoni del mondo. E non sempre i semilavorati finiscono, come avveniva una volta, nei Paesi dove hanno sede le grandi firme americane o europee che sono le vere regine del mercato dell’abbigliamento, dalla gonna allo stiletto, dalla t-shirt al mocassino. Uno dei grandi produttori mondiali di cotone ad esempio è l’Uzbekistan. È una produzione antica come il mondo che un tempo rese famosa la Valle di Fergana. E il cotone uzbeco va a finire in Bangladesh che non ne produce abbastanza per alimentare un’industria che vale il 90% dell’export nazionale. Quanto al cuoio, la pelle conciata, prima di andare a finire come scarpa nelle boutique di via Montenapoleone o di Bond Street, fa strade molto diverse. Magari arriva in Serbia oppure, ancora in Asia, in Indonesia, Cina, Cambogia.
Condizioni critiche anche dietro al cuoio lavorato nei laboratori del Bangladesh
Due recenti inchieste ci aiutano a gettare una luce, anche se assai sinistra, su questa retrovia dei nostri abiti e delle nostre scarpe. Cominciamo dall’Uzbekistan. Un rapporto di Human Rights Watch mette sotto accusa il finanziamento di svariati milioni di dollari concesso dalla Banca mondiale all’Uzbekistan proprio nel campo del cotone. Si chiama aiuto allo sviluppo. Ma se si va a far visita al campo di cotone vero e proprio si scoprono cose molto spiacevoli: nel dossier
We Can’t Refuse to Pick Cotton Hrw sostiene che il cotone viene raccolto anche da minori e, in gran parte, da gente che non avrebbe nessuna voglia di raccoglierlo (per 5 euro al giorno). Hrw non è l’unica organizzazione ad aver messo sotto la lente la filiera del cotone uzbeco e soprattutto i suoi finanziamenti. Come quello per l’irrigazione – oltre 300 milioni di dollari – nei distretti di Turtkul, Beruni, Ellikkala nel Karakalpakstan dove il cotone conta per il 50% delle terre arate, in un Paese che è il quinto produttore mondiale ed esporta in Cina, Bangladesh, Turchia, Iran.
In quelle zone, dice il rapporto, lavoro forzato e minorile continuano. E la Banca mondiale lo sa perché un gruppo misto - Uzbek-German Forum for Human Rights - glielo ha già fatto sapere da un paio d’anni. Ma anziché sospendere i finanziamenti, la Banca mondiale li ha allargati. Per la verità anche la Banca mondiale sta attenta alle condizioni di lavoro e anzi il lavoro minorile è un mantra assoluto nella scala dei diritti da rispettare. Ma i burocrati di Washington non hanno sempre il tempo e la voglia di guardare oltre le carte e così hanno chiesto all’Ufficio internazionale del lavoro di fare accertamenti. L’Ilo l’ha fatto e ha stilato un rapporto dove si citano «progressi».
Ma gli attivisti di Hrw fanno notare che, per stessa ammissione dell’Ilo, non solo un terzo dei raccoglitori è stato obbligato a lavorare (quasi un milione di lavoratori su tre), ma le autorità avevano messo in guardia gli intervistati. Lo stesso rapporto ammette che «…molti intervistati sembravano essere stati preparati alle domande». Secondo Hrw la Banca mondiale e la International Finance Corporation (Ifc), un’agenzia della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, dovrebbero immediatamente sospendere ogni finanziamento fino a che il governo non riesca a dimostrare che non esiste più lavoro minorile e lavoro forzato.
E nelle fabbriche cambogiane usate dai marchi sportivi più famosi le cose non vanno meglio
Passando alla Cambogia, qualche giorno fa il britannico The Observer ha pubblicato un’inchiesta condotta con la ong Danwatch sugli incidenti nelle fabbriche cambogiane di alcune delle più note marche sportive: Nike, Puma, Asics e VF Corporation. Solo nell'ultimo anno, più di 500 dipendenti di quattro diverse fabbriche che lavorano per le firme occidentali sono state ricoverate in ospedale. Svenimenti di massa. Il problema è il caldo, la mancanza di ventilazione e di regole sui limiti sopportabili in giornate di lavoro anche di dieci ore. I prodotti chimici usati per la produzione fanno il resto. Insomma si lavora così. Lontano dai negozi a quattro luci che esibiscono scarpette e tailleur. Nell’ombra asfissiante del grande supermercato asiatico.
la Repubblica, 28 giugno 2017 (m.p.r.)
New York. Cinque giganti americani stanno rivoluzionando le nostre abitudini di consumo. L’Europa vuole evitare che questo si traduca in un oligopolio incontrollato, soffocante, distruttivo per i diritti dei consumatori, per il libero mercato, la competizione, l’innovazione. Oggi tocca a Google, domani potranno essere Amazon e Facebook, Apple o Ebay. La posta in gioco è immensa: i consumatori abbandonano velocemente comportamenti consolidati, lo shopping online cresce con prepotenza, in America è già in atto il tramonto dei centri commerciali e tutta la grande distribuzione soffre una crisi profonda. Il rischio del nuovo scenario è che la libertà di scelta del consumatore sia più immaginaria che reale; i nuovi metodi di manipolazione delle nostre scelte sono più subdoli che mai. La decisione europea tenta di costringere uno dei giganti digitali a cambiare strada. Ci riuscirà? A vantaggio di chi?
Google Shopping è uno dei protagonisti più formidabili nel nuovo mondo del consumo. Figlio del motore di ricerca Google, è diventato lo spazio virtuale dove i nostri desideri e i nostri soldi cercano di tradursi in acquisti. Catalogo virtuale di tutto ciò che è in vendita, guida intelligente, promette un accesso rapido, semplificato, in pochi clic e frazioni di secondo percorriamo più “scaffali e vetrine” che in settimane di passeggiate tra grandi magazzini, boutique o ipermercati. È tutto più facile, e siamo grati a chi ha disegnato un mondo così fluido e confortevole. Ma l’inganno c’è. In realtà siamo meno sovrani che mai. Il consumatore è docile preda di un algoritmo che lo guida verso il risultato deciso da altri.
Google Shopping non fa mistero della sua regola principe: ordina i risultati delle nostre ricerche dando priorità agli annunci a pagamento. È una grande macchina di raccolta pubblicitaria e di manipolazione delle scelte di spesa. Applica alla Rete l’antica pratica dei supermercati che si fanno pagare dalle grandi marche per piazzare i loro prodotti negli scaffali più visibili e più accessibili. Ma su Google Shopping quel trucco antico raggiunge una potenza immensamente superiore, è molto più raffinato. L’algoritmo fa scomparire dall’universo online altri servizi specializzati nella spesa comparativa, che offrono cataloghi intelligenti, recensioni, paragoni su qualità-prezzo.
I rivali potenziali, tutto ciò che introduce concorrenza a vantaggio del consumatore, viene relegato “molte pagine” più in là, ben lontano dai nostri sguardi frettolosi. Peggio ancora se usiamo lo smartphone, dove lo spazio è più ridotto e quindi finiamo per accontentarci delle opzioni iniziali.
La magia dell’algoritmo spiega la storia fantastica di Google, che alla sua prima quotazione in Borsa nel 2004 collocò l’azione a un prezzo di 85 dollari e oggi ne vale quasi mille. Con un tesoro di guerra di 172 miliardi di asset, può ben permettersi di pagare la multa europea senza che questo sconquassi il suo bilancio. Più problematico invece sarà mettere le mani nell’algoritmo per aprirlo alla concorrenza. Anche perché nel frattempo i maggiori rivali sviluppano strategie alternative per occupare lo spazio online. Amazon – che da sempre si distingue perché assomiglia più a un grande magazzino virtuale, mentre Google è più “catalogo di annunci” – ha fatto notizia di recente rafforzandosi nella distribuzione di prodotti alimentari freschi con la scalata alla catena salutista Whole Foods. Apple dal canto suo sta investendo sul ruolo di banca o carta di credito con lo smartphone come sistema di pagamento.
I primi a trarre beneficio della sanzione europea su Google dovrebbero essere i siti alternativi specializzati nel “giudizio comparativo”, nel raffronto qualità-prezzo tra prodotti concorrenti. Sono piccoli ma agguerriti, tra questi alcune società inglesi come Foundem e Kelkoo che furono le prime a promuovere azioni legali contro Google Shopping. «Per più di un decennio – ha detto il chief executive di Foundem – il motore di ricerca di Google ha deciso cosa leggiamo, usiamo e compriamo online. Se nessuno interviene a controllarlo, questo guardiano dell’accesso alla Rete non conosce limiti al suo potere». Gli esperti di Bruxelles hanno dimostrato che quando Google Shopping iniziò a manipolare il suo algoritmo per “retrocedere” i concorrenti sempre più lontano dagli occhi dei consumatori, i siti rivali videro sparire dall’80% al 90% dei propri utenti.
L’Europa è ormai la vera protagonista mondiale delle politiche antitrust, dopo che l’America si è arresa allo strapotere oligopolistico dei suoi big. Ora si apre una sfida nuova, in cui le autorità di Bruxelles dovranno vigilare sulle modifiche che Google introdurrà nel suo servizio. Senza trascurare gli altri Padroni della Rete, che con strategie diverse perseguono la stessa occupazione sistematica della nostra attenzione e del nostro potere d’acquisto.
la Repubblica, 25 giugno 2017
Fra tante analisi, accuse e difese del neoliberismo, la vera domanda è quella posta da un celebre saggio di Colin Crouch, sulla sua “strana non-morte”. Come ha fatto a sopravvivere al suo palese fallimento, uscendo rafforzato da una crisi che avrebbe dovuto distruggerlo? Perché, dopo tanti avvisi di sfratto, continua a restare il paradigma di riferimento delle politiche globali – una specie di zombie, come lo chiamò Paul Krugman sul New York Times? Se l’interpretazione del neoliberismo si fermasse alle formule correnti che lo dipingono solo come generatore di povertà, nemico della democrazia e fomentatore di conflitti sociali, la sua lunga resistenza resterebbe inspiegata. Probabilmente c’è qualcosa di più da comprendere, prima di contrastarlo con strumenti adeguati al reale livello in cui si muove.
Già Pierre Dardot e Christian Laval, nel loro Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista (DeriveApprodi), fanno un primo passo in questa direzione. Diversamente da quanti vedono nel neoliberismo un meccanismo puramente economico, essi lo considerano un vero sistema di governo della società, che modella in base alle proprie esigenze. Esso penetra nella stessa vita del lavoratore, facendone una sorta di imprenditore di se stesso. L’individuo non deve limitarsi ad avere un’impresa, ma deve esserlo, adoperando la sua medesima vita come un capitale umano su cui investire. In questo quadro la politica non si è eclissata, come spesso si dice, ma adeguata a tale orientamento. Siamo lontani dalle analisi economicistiche di Thomas Piketty, che attribuisce l’aumento delle disuguaglianze alla divaricazione tra tassi di crescita del reddito nazionale e tassi di rendimento del capitale. In realtà la strategia neoliberista è assai più capillare. Essa richiede da un lato interventi politici coerenti; dall’altro una modificazione radicale delle rappresentazioni simboliche che incidono profondamente sulla psicologia degli individui.
Un contributo ancora più sottile alla comprensione del fenomeno viene adesso dall’ultimo libro di Massimo De Carolis, Il rovescio della libertà ( Quodlibet 2017). Tutt’altro che essere una forza negativa, impegnata soltanto nello smantellamento dello Stato sociale, il neoliberismo ha colto le potenzialità innovative contenute nella crisi della civiltà moderna. Contrariamente ai filosofi che vi hanno visto soltanto nichilismo e alienazione, esso ne ha legato i passaggi traumatici a un vero e proprio progetto antropologico. Piuttosto che condannare gli animal spirits, vale a dire la potenziale concorrenza degli individui, li ha valorizzati, incanalandoli in istituzioni capaci di contenerne la carica conflittuale entro limiti accettabili. Da qui una netta svolta rispetto al liberismo classico. Se questo intendeva ridurre al minimo ogni regolamentazione, immaginando che la libera fluttuazione dei prezzi determinasse un equilibrio ottimale, il neoliberismo affida alle istituzioni il compito di governare tale processo, proteggendolo, almeno in teoria, dall’ingerenza di fattori devianti.
Intanto bisogna distinguere, all’interno della galassia neoliberista, la scuola austriaca di Friedrich von Hayek e Ludwig Mises, influente soprattutto nel mondo anglosassone, da quella tedesca rappresentata da Walter Eucken, Alexander Rüstow, Wilhelm Röpke, riunita, già negli anni Quaranta del secolo scorso, intorno alla rivista Ordo. Se i primi si muovono ancora nel solco classico della riduzione al minimo dei vincoli sociali, i secondi abbandonano la via tradizionale del laissez faire, sostenendo un forte interventismo da parte dello Stato, che deve garantire la stabilità monetaria, difendere l’economia dall’inflazione, imporre il pareggio di bilancio. Che tale ideologia governi ancora la società tedesca è facile vedere.
Se si leggono libri come Civitas humana di Röpke e Human Action di Mises con gli occhiali fornitici da Michel Foucault vi riconosciamo una vera e propria “politica della vita”, tesa a disciplinarla secondo le esigenze del mercato. Al suo centro l’assunzione in positivo degli istinti biologici degli individui, destinati a produrre una continua dinamizzazione dei processi sociali. Quelle stesse mutazioni profonde delle società ipermoderne, interpretate dai filosofi primonovecenteschi come sintomi regressivi dello spirito europeo, vengono valorizzate come risorse innovative dai teorici neoliberisti.
Come tale progetto sia andato incontro a una serie di fallimenti epocali è dimostrato dagli effetti distruttivi delle attuali politiche neoliberiste, sempre più gestite da grandi agglomerati economico- politici a vantaggio dei ceti più abbienti con uno spettacolare incremento delle disuguaglianze. Quella in atto è una sorta di rifeudalizzazione del mercato che tende ad atrofizzare le stesse potenze che ha liberato, in un intreccio opaco tra affari e potere. In questo modo la crisi, assunta come forma di governo, alimenta nuove crisi, spingendo fasce sempre maggiori di popolazione verso la soglia di povertà.
Ma la resistenza a questi processi involutivi deve essere condotta allo stesso livello di discorso. E cioè deve basarsi sulle medesime potenzialità innovative evocate, e tradite, dal progetto neoliberista. Le dinamiche di globalizzazione e i processi di tecnologizzazione delle competenze sono troppo avanzati per tentare di bloccarli dall’alto. Non resta che cercare di guidarli in una direzione diversa. Le nostre classi politiche appaiono largamente inadeguate. Ma, se si vuole spezzare l’avvitamento della crisi su se stessa, non c’è altra strada.
cagliaripad.it, 25 giugno 2017 (c.m.c.)
In questi giorni è in discussione in Senato il Ceta( Comprehensive Economic and Trade Agreement), l’accordo commerciale ed economico fra il Canada e la UE. Se sarà approvato sarà un’altra vittoria del trionfante mercato globale. Infatti il Ceta è uno dei sette trattati internazionali di libero scambio che sono: Ttip, Tpp, Tisa, Nafta, Alca e Cafta. Sono le sette teste dell’Idra. Il profeta dell’Apocalisse aveva descritto il grande mercato che era l’Impero Romano come una Bestia dalle sette teste. E il profeta aggiungeva che «una delle sue teste sembrò colpita a morte, ma la sua piaga mortale fu guarita» (Ap. 13,3).
Così oggi alcune teste della Bestia sembrano colpite a morte, perché Trump si è scagliato contro il TTIP (Accordo commerciale tra USA e UE), contro il Tpp(Accordo commerciale tra USA e nove paesi del Pacifico) e il NAFTA (Accordo commerciale fra USA, Canada e Messico). Sembravano colpite a morte, ma ora vengono riproposte sotto nuove forme, soprattutto il Ttip. La ‘Bestia’ infatti, nelle sue varie teste, sembra che stia lì lì per morire, ma riprende subito vita. Non dobbiamo quindi mai allentare l’attenzione su questi Accordi che sono il cuore pulsante del grande mercato globale. Soprattutto in questo momento dobbiamo stare molto attenti al Ceta.
Da anni è in atto una forte campagna in Europa contro il Ceta, con forti pressioni sul Parlamento europeo. Ma nonostante tutto questo, il 30 ottobre 2016 la UE ha firmato il Trattato e il 15 febbraio 2017 anche il Parlamento Europeo lo ha ratificato con 408 voti favorevoli e 254 contrari. Ma ci resta ancora una speranza:il Trattato deve essere approvato da tutti i Parlamenti dei 27 Stati. La resistenza nei parlamenti francesi e spagnoli è forte. Ora il testo del Trattato è in discussione nel nostro Senato, dove è stata incardinata l’8 giugno scorso. Dobbiamo tutti mobilitarci perché questo Accordo non venga approvato. Il 5 luglio, al mattino, ci sarà un sit-in davanti al Senato e al pomeriggio una manifestazione indetta dalla Coldiretti davanti al Parlamento.
Per noi questo trattato è «un gigantesco regalo alle multinazionali e un’ ulteriore limitazione al ruolo e alle competenze di governi ed enti locali ai danni dei diritti e delle tutele di milioni di cittadini e consumatori.» Così lo definisce la deputata europea Eleonora Forenza. Infatti il Ceta non prevede solo un’abolizione della quasi totalità dei dazi doganali (già molto bassi) , ma soprattutto l’eliminazione di gran parte delle “barriere non tariffarie”, ovvero norme tecniche standard e criteri di conformità dei diversi prodotti di cui gli Stati si dotano per proteggere la salute, l’ambiente, i consumatori e i lavoratori.
«Chi ha a cuore il futuro dell’agricoltura di piccola scala e della produzione alimentare di qualità – scrive Carlo Petrini – non può che sperare che l’Accordo venga rigettato. Ancora una volta siamo di fronte a una misura volta a promuovere, sostenere, difendere e affermare esclusivamente gli interessi della grande industria a scapito dei cittadini e dei piccoli produttori». Il Ceta è un attacco al diritto al lavoro, agli standard ambientali, alla difesa dei beni comuni e dei servizi pubblici. In questo trattato vi sono clausole che impediscono la ripubblicizzazione dei servizi idrici e dei trasporti.
Per queste ragioni chiediamo ai senatori di bocciare l’Accordo. Invece Pierferdinando Casini, presidente della Commissione Esteri del Senato, sta premendo perché si arrivi al più presto al voto. Le Commissioni Difesa e Affari Costituzionali hanno dato il loro ok. Ora tocca a noi premere sui senatori e senatrici dei nostri territori, scrivendo lettere, inviando e-mail. Ma in questo momento abbiamo bisogno della voce forte dei nostri vescovi italiani. Per questo mi appello ai nostri vescovi, alla CEI perché si esprimano sul Ceta.
Non possono continuare a rimanere in silenzio su un Trattato che rafforzerà la tirannia dei mercati e delle multinazionali a scapito dei cittadini soprattutto i più deboli. Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium attacca con forza «l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria» perché «negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale,che impone in modo unilaterale e implacabile le sue leggi e le sue regole»(56).
E’ questo lo scopo dei Trattati di libero scambio, fra cui il Ceta. Se verrà approvato, il Ceta aprirà le porte al TTIP che è di nuovo riproposto dagli USA e poi al Tisa (Accordo sul commercio dei servizi) che stanno segretamente preparando. Quest’ultimo Accordo è il più pericoloso, perché porterà alla privatizzazione dei servizi pubblici, dall’acqua alla sanità, dalla scuola al welfare.
E poi tocca a noi , laici e credenti, unirci insieme, fare rete per dire NO all’Idra dalle sette teste e un SI’ a un mondo più equo, più solidale, più sicuro per tutti.
il Fatto Quotidiano on line,18 giugno 2017 (m.p.r.)
Ci sono volute le immagini raccapriccianti di un inferno di cemento, lamiere, plastica e vetro per aprire nel Regno Unito il dibattito sui privilegi delle classi più abbienti. E già, perché a Londra, dopo la tragedia della Grenfell Tower non si è parlato delle diseguaglianze di reddito – tema ormai trito e ritrito – ma dell’ingiustizia perpetrata da un sistema dove i poveri sono diventati invisibili e, tutt’al più, diventano numeri quando si trasformano nei corpi carbonizzati delle vittime di un incendio. Per chi voglia capire cosa sta succedendo nel Regno Unito, perché si è votato Brexit e perché il filo-marxista Corbyn ha portato a casa il 40 per cento dei voti, suggerisco di usare come parole guida ingiustizia e Grenfell Tower. Quest’ultima faceva parte della vecchia Londra, una città popolata dagli sfollati alla fine della seconda guerra mondiale, una città che sembrava una fetta di formaggio gruviere, tanti erano le voragini scavate dalle bombe dei blitz.
Al loro posto, dal 1945 fino agli anni Settanta, vennero eretti complessi di case popolari, palazzi e grattacieli che come ha commentato una residente della Grenfell Tower oggi assomigliano più a piccionaie che a edifici residenziali. Una o massimo due camere da letto incastrate una sopra all’altra con al centro due ascensori puzzolenti e una singola scala. Protezione contro gli incendi inesistente. Ma tutto ciò avveniva nel dopoguerra.
Nelle case popolari andarono a vivere i poveri, i senza tetto e chiunque non avesse la possibilità di vivere in una casa propria. Ma la vita non era così difficile. I governi laburisti e conservatori costruirono intorno a questi centri scuole, ospedali, uffici postali e così via, pietre miliari della vita societaria. E a tutti questi servizi accedevano anche coloro che avevano una casa loro. La parola d’ordine era dunque integrazione.
Fu la signora Thatcher a offrire ai residenti delle case popolari la possibilità di acquistare a prezzi stracciati l’appartamento in cui vivevano. Potevano diventare landlord e farci quel che volevano. Successe negli anni Ottanta e da allora molti di questi palazzi e grattacieli sono stati privatizzati e ristrutturati, gli appartamenti venduti o affittati. Ed è esattamente quello che è successo alla Grenfell Tower. Ciò spiega perché tra i dispersi c’erano stranieri, come il profugo siriano o la coppia di giovani italiani, andati a Londra a cercare fortuna.
Nonostante la privatizzazione degli appartamenti, le parti comuni sono rimaste pubbliche e le ristrutturazioni sono state a carico delle circoscrizioni. Quasi tutte non hanno trasformate torri come la Grenfell in edifici sicuri, a norma con le moderne regole anti-incendio. Sono costruzioni vecchie, che spesso non possono essere migliorate, bisognerebbe buttarle giù e ricostruirne di nuove, ma lo Stato non ha i soldi per farlo. Allora cosa si fa? Ci si concentra sull’aspetto esteriore, pretendendo che si siano fatte grandi cose.
Molti hanno detto che si è voluto abbellire la Grenfell Tower perché si affacciava sui giardini delle case dei multimiliardari di Holland Park e Kensington, ma la verità è ancora più cruda. Nell’era dell’austerità ingannare gli inquilini e l’elettorato è diventata un’arte. E come i padroni di case coprono le crepe con una mano di vernice così lo Stato britannico ha coperto con pannelli di alluminio i pericoli della Grenfell Tower.
Ma torniamo all’ingiustizia, tema che in questa Londra di metà giugno, stranamente calda e luminosa, rischia di diventare una buccia di banana per la signora May. A est della città, intorno alla City e anche a sud, dall’altra parte del fiume, negli ultimi dieci anni sono sorti grattacieli spettacolari dove si sono ubicate le imprese più ricche del mondo. Alcuni, specialmente quelli lungo il fiume, a Dockland, ospitano appartamenti con viste mozzafiato sulla città, simili a quelle dei piani più alti di Grenfell Tower. Lì però i sistemi di sicurezza sono tutti a norma, ci sono gli allarmi anti-incendio che aprono automaticamente rubinetti incastrati nei soffitti da dove scorrono fiumi e fiumi di acqua; ci sono scale anti incendio accessibilissime e tanti ascensori.
Queste costruzioni appartengono al settore privato mentre le case popolari rientrano in quello pubblico. Due pesi e due misure, insomma, chi ha costruito i nuovi edifici ha dovuto farlo seguendo regole che non sono state rispettate nella ristrutturazione di quelli vecchi.
Come i grattacieli anche la popolazione di Londra si bipartisce intorno alla dicotomia pubblico/privato dove vige il principio di due pesi e due misure. I ricchi non usano l’Nhs, il sistema sanitario pubblico, non fanno la fila per mesi per fare la chemio, non mandano i figli alla scuola pubblica, a stento usano la metro… I ricchi abitano la Londra del settore privato dove tutto funziona, tutto è sicuro e tutto è costosissimo.
Per chi, come i residenti della Grenfell Tower, sopravvive all’interno del settore pubblico Londra è invece un inferno: sovrappopolata, con lavori sottopagati, sporca e con sempre meno servizi pubblici. Con la scusa dell’austerità i governi conservatori, e ahimè, prima di loro anche quelli laburisti, hanno tagliato i fondi al settore pubblico e fatto orecchie da mercante alle proteste dei residenti delle case popolari. Grenfell Tower è solo la punta dell’iceberg, ce ne sono centinaia di migliaia di edifici simili in tutto il Regno Unito pronti a prendere fuoco per un corto circuito.
La rabbia dei sopravvissuti è diretta verso tutti questi governi che si sono avvicendati dagli anni Ottanta in poi, una classe politica che ha tagliato le tasse ai ricchi, ha aperto le frontiere agli stranieri e quando l’economia ha iniziato a perdere quota ha introdotto politiche di austerità sulla pelle dei meno abbienti e dei poveri. Comportamenti ingiusti che hanno prodotto la tragedia di Grenfell.
La voce dei sopravvissuti è la voce di una nazione che vuole cambiare, che è stufa delle promesse da marinaio dei governi e che vede di buon occhio le proposte ‘socialiste’ di Corbyn, perchè da sempre abita nel settore pubblico, l’unico che conosce, ma anche non ne può più di un’Europa guidata da politici che di loro non ne vogliono sapere.
il manifesto, 17 giugno 2017
I paradossi scandiscono da sempre la produzione teorica di Slavoj Zizek. È in base al loro uso smodato che il filosofo sloveno occupa da anni il centro della scena pubblica. È in base ad essi che si è gettato a testa bassa contro le ipocrisie, le contraddizioni della produzione culturale mainstream. Lo ha fatto nel denunciare l’apparente ragionevolezza del politicamente corretto o la tesi sull’attuale sistema di vita come imperfetto, ma che è senza alternative. Zizek ha mostrato e dimostrato che la tolleranza, il rispetto delle minoranze, il diritto alla diversità sono spesso le sbarre che definiscono i confini di un vivere sociale dove sono stigmatizzati gli antagonismi sociali. Per far questo ha attinto a piene mani nella fantascienza, nella musica rock, nelle serie televisive, individuando nella cultura pop il contesto obbligato per decostruire il pensiero dominante. Spesso però i paradossi e le iperboli di Zizek offuscavano il lavoro teorico che vi era alla loro base. Alla fine i paradossi e le iperboli scivolavano via come sabbia. E nulla rimaneva nelle mani del lettore.
Il libro che Ponte alle Grazie, la casa editrice che ha pubblicato gran parte della torrentizia produzione di Zizek, ha mandato alle stampe Il coraggio della disperazione (pp. 412, euro 20), una raccolta di scritti a commento dell’ultimo biennio, scegliendo un registro diverso, a tratti antitetico a quello del passato. Più che fare sfoggio di brillanti paradossi e iperboli, Zizek si propone di fare i conti con i paradossi presenti nelle opere di autori conservatori (Peter Sloderdijk), liberal (Paul Krugman e Joseph Stiglitz) e della cosiddetta «sinistra radicale» che invita a declinare il populismo in senso progressista, perché solo così si riuscirebbe a parlare alla «gente» e al «popolo».
I temi dai quali prende spunto Zizek sono la crescita dei partiti xenofobi in Europa, la crisi dell’Unione europea, la Brexit, l’esperienza politica di Syriza in Grecia, quella di Podemos in Spagna, la novità politica costituita dalle figure politiche di Bernie Sanders e Jeremy Corbin, il politicamente corretto del femminismo statunitense mainstream, la politicizzazione della religione islamica e protestante, il relativismo culturale. Infine, l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. Temi dunque legati alla contingenza, perché solo dalla contingenza, afferma l’autore, parafrasando una tesi di Alain Badiou, è possibile fare filosofia.
Il prologo è programmatico. Viviamo in tempi disperati, afferma Zizek, perché non possiamo immaginare nessuna credibile alternativa al capitalismo globale. Risibili sono le proposte di una dolce decrescita o sulla diffusione virale di cooperative sociali e produttive non mercantili. Velleitario è anche il richiamo a fantasmatiche fuoriuscite dal capitalismo fondate su modi di produzioni locali o autoctoni. Sono tutte esperienze che rafforzano il capitalismo, sentenzia Zizek. Giudizio impietoso. E talvolta errato quando affronta il mutuo soccorso o la cooperazione sociale autorganizzata cresciuta in questa ultima decade. I loro limiti, semmai, non vanno cercati nell’incapacità di sviluppare antagonismo, bensì nella visione semplicistica del Politico e dei rapporti sociali di produzione che veicolano.
In ogni caso, vanno proprio nella direzione auspicata da Zizek. Consentono cioè di guadagnare tempo, mantenere aperta la possibilità di sovvertire lo status quo. Sono infatti istituzioni di contropotere aperte a una sperimentazione propedeutica all’accumulo di potenza politica da usare quando le condizioni la richiedono. Più o meno, come Zizek auspicava nel 2015 alla Grecia di Syriza.
Da Slavoj Zizek ci si aspetterebbe un j’accuse contro il «tradimento» di Alexis Tsipras e del suo governo rispetto il referendum vittorioso che chiedeva di non accettare il ditkat della Troika europea. Invece nessun dito puntato, Syriza non aveva alternativa, chiosa Zizek.
L’errore che ha compiuto questo governo di sinistra sta nel non aver immaginato una politica dei due tempi: accettare l’austerity e lavorare ad allargare i margini di iniziativa politica e sociale a favore di operai, impiegati, disoccupati, pensionati. L’austerity, sostiene Zizek, doveva essere usata come leva per modernizzare la struttura statale e come ariete contro l’oligarchia. Bisognava cioè salvare il capitalismo da se stesso per poi immaginare un suo superamento, evocando un celebre passo di un saggio del «marxista irregolare» Yanis Varoufakis, in queste pagine dipinto come l’unico esponente politico lucido sulla portata del braccio di ferro tra la Grecia e l’Unione europea.
In Grecia la posta in gioco era quella di pensare a come gestire il potere in una condizione sfavorevole, avversa, ricomponendo il nesso tra modernizzazione e lotta di classe. Non c’è rivoluzione se non c’è modernizzazione, sentenzia il filosofo sloveno. La matassa da sbrogliare è quindi sempre quella che solo la Rivoluzione di Ottobre e la vittoria dell’armata rossa in Cina nel 1949 erano riuscite a dipanare. Come governare un paese in una situazione di rapporti di forza sfavorevoli?
Il primo paradosso che va interrogato è dato quindi dal proposito di salvare il capitalismo da se stesso e al contempo immaginare un suo superamento. Ma i paradossi, oltre che interrogati vanno smontati, destrutturati per evidenziare le trappole e gli esiti conservativi dello status quo che contengono. La disperazione può, sì, dare la buona dose di adrenalina teorica, ma poi occorre passare a un più prosaico e niente affatto disperato momento costruttivo, aperto all’impossibile ma ancorato ai rapporti sociali. Ogni momento «destituente» è infatti effimero se non presente al tempo stesso il carattere costituente che l’antagonismo prefigura. Per Zizek l’antagonismo è un misteriosofico «uno che si divide in due», citando nuovamente la frase ad effetto che Alain Baidiou ha usato per immaginare una «politica comunista».
L’encomiabile tentativo si interrogare i paradossi del reale oscura per le sue ambivalenze. Sono queste che vanno quindi interpellate, sciolte, come nel caso del populismo di sinistra. Zizek svolge una critica pungente al concetto di gente – «la gente non esiste», scrive a ragione Zizek – e al concetto di popolo, unità indistinta ed espressione di un’astrazione tesa a legittimare un sovrano o un parlamento che dovrebbero rappresentarli. Ma quando si trova vis-à-vis con i rapporti sociali di produzione e le soggettività che agiscono in essi, si ritrae per incamminarsi su strade note.
Il populismo è dunque visto, a ragione, come un dispositivo politico che risponde alla marxiana falsa coscienza. Non esiste, infatti, il popolo come unità organica, definita da un territorio e dei confini. Il populismo si costruisce a partire da un Altro da sé, da un esterno che nel capitalismo globale non è lo «straniero», bensì la casta, l’oligarchia, che parassitariamente si appropriano della ricchezza prodotta e che si fanno forti del loro essere senza patria. È il vecchio e mai tramontato «socialismo degli imbecilli», anticamera del fascismo e del nazismo.
A sinistra, invece, i balbettii sulla possibilità di usare il frame populista sono mimetici. Il popolo è un aggregato di operai, disoccupati, precari, ceto medio impoverito, espressioni di interessi sociali e culturali parziali che una sintesi superiore ricomporrà. Da qui la nostalgia della forma politica del partito che ha il potere di ricomporre al suo interno le parzialità in base proprio a una sintesi superiore esterna al popolo. Un miraggio, per Zizek.
Qui la consultazione dei paradossi però si arresta. Zizek richiama la moltitudine in quanto categoria del Politico; ne sottolinea la forza performativa, ma poi scantona perché vi vede tracce di un vitalismo – la potenza del fare, lo «strutturalismo delle passioni» – che l’antropologia filosofia «pessimista» che scandisce il libro avversa, perché considerata, chissà perché, anticamera di una adesione allo status quo. Per Zizek è infatti la disperazione il sentimento che consente di pensare l’impossibile – la rivoluzione, forse -, non la potenza del desiderio o del comune riscoperto come ripetono alcuni teorici marxisti o alcune filosofe femministe (Zizek cita Judith Butler e Frédéric Lordon). Più che la disperazione, viene il sospetto, il coraggio giunge però da quell’esercizio di un ottimismo della ragione, che scommette sull’impossibile intravisto proprio in quelle esperienze di autorganizzazione sociali senza le quali non sarebbe immaginabile pensare l’impossibile.
il manifesto
, 3 giugno 2017 (c.m.c.)
“Un intervento necessario perché altrimenti il sistema economico, non solo bancario, andrebbe in crisi», dichiaravano nell’aprile 2016 il sempiterno presidente di Acri (le fondazioni bancarie) Giuseppe Guzzetti e Claudio Costamagna, presidente di Cassa Depositi e Prestiti, in merito all’avvio del Fondo Atlante. Fondo di 4,25 miliardi, creato per sostenere la ricapitalizzazione delle banche in difficoltà e risolvere il problema delle sofferenze, finanziato, fra gli altri, con 500 milioni di Cassa Depositi e Prestiti.L’intervento salva-banche, sempre secondo i due autorevoli presidenti, si era reso necessario perché l’Italia è un paese molto «bancocentrico», dove le imprese e le famiglie per avere prestiti e mutui si rivolgono alle banche, le quali «se falliscono mandano in crisi l’intero sistema».
Da non credere: dopo aver azzerato in 25 anni il controllo pubblico sulle banche – nel ’92 era pari al 74,5% – ed aver privatizzato persino Cassa Depositi e Prestiti, oggi ci si stupisce che famiglie e imprese per chiedere prestiti vadano in banca.. Ma tant’è.
Il Fondo si è da subito cimentato con gli aumenti di capitale di Veneto Banca e della Popolare di Vicenza, con l’obiettivo di evitare a qualunque costo che, dopo Popolare Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara, altre banche, di ben maggiori dimensioni, finissero in risoluzione, innescando una crisi di sfiducia rovinosa per l’intero sistema bancario.
Ma già in questa prima operazione, dovendo il Fondo coprire tutta la ricapitalizzazione delle banche venete e non solo una parte come inizialmente previsto, le risorse a disposizione del Fondo si sono rapidamente esaurite e, con esse, la fiducia degli investitori di portare a casa i rendimenti del 6% allora vagheggiati. Prosciugate le risorse sul primo obiettivo -la ricapitalizzazione delle banche- nell’agosto 2016 è stato creato Atlante 2 per intervenire sulle sofferenze bancarie. Questa volta il Fondo raggiunge solo 1,7 miliardi (di cui una parte proveniente dal Fondo Atlante), e l’entusiasmo di Giuseppe Guzzetti si è già trasformato in aperta delusione «il contenuto numero di adesioni rischia di vanificare in larga misura lo scopo per cui Atlante è nato: non solo strumento per governare alcune emergenze, ma intervento per creare un vero mercato dei crediti deteriorati».
Un anno dopo, il fallimento è conclamato, certificato dalla svalutazione che banche come Unicredit e IntesaSanpaolo hanno fatto del proprio investimento in Atlante.
Oggi la situazione per le due banche venete è, per usare un eufemismo,in salita. L’intervento dello Stato (20 miliardi di garanzie pubbliche approvati per il salvataggio di una serie di banche) può essere messa in campo solo ottemperando alla richiesta della Ue di individuare 1 miliardo da soggetti privati, in modo da alleggerire il peso dell’intervento pubblico. Soldi che nessun privato è intenzionato a mettere e tanto meno il Fondo Atlante, che ha dichiarato inesistenti le condizioni per qualsiasi ulteriore investimento nelle due banche.
Nel frattempo, Atlante 2 acquista crediti deteriorati delle banche in sofferenza: è recentissimo l’acquisto da Banca Marche, Banca Etruria e CariChieti di 2,2 miliardi lordi, tra sofferenze e incagli, pagati 713 milioni, pari al 32,5% del loro valore, una soglia decisamente più alta della media delle transazioni di mercato. La tipica copertura di una falla, senza alcuna strategia: le banche, attraverso Atlante, comprano i crediti deteriorati pagandoli più di quanto varrebbero sul mercato, con l’intento di dirottare verso quel soggetto i soldi dei risparmiatori esasperati che non vogliono sentir più parlare di subordinate e cercano qualcosa di «sicuro».
Da qualsiasi punto la si osservi, la crisi sistemica delle banche sembra aggrovigliarsi su se stessa.
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E’ evidente che quello di Taormina è stato un estremo tentativo di salvare l’immagine di un Occidente che attraversa una crisi irreversibile e che non riesce nemmeno a trovare al suo interno un minimo di strategia comune». il manifesto,
28 maggio 2017 (c.m.c.)
Quello che si è svolto a Taormina sarà ricordato come il G7 più inutile, ridicolo, patetico della storia di questi incontri a livello internazionale. Un disperato tentativo di portare all’indietro le lancette della storia, a prima dell’89, della caduta del muro di Berlino. Come si fa, infatti, ad escludere oggi grandi potenze come la Cina o l’India che contano il 38 per cento degli abitanti della terra ed il 30 per cento del Pil mondiale?
Come si fa a convocare un meeting che si autodefinisce dei Grandi e ad escludere la Russia, la seconda potenza militare del mondo e con un apparato di intelligence tra i più efficienti, proprio quando un tema prioritario è quello del terrorismo. Come si fa a pensare che l’Italia, con tutto l’affetto per il nostro paese e l’orgoglio di appartenenza, possa far parte dei 7 Grandi della terra ? Forse perché ha il debito pubblico, in rapporto al Pil più grande del mondo dopo il Giappone! Ed è mai possibile pensare che il paese del sol levante in stagnazione cronica, con un peso decrescente sulla scena mondiale possa rappresentare «da solo» l’Asia , il continente dove negli ultimi trent’anni si è spostato il baricentro dell’economia mondiale? Oppure, c’è da domandarsi, che peso può avere il Canada oggi, la cui popolazione è poco più di quella della capitale cinese e , malgrado il simpatico e progressista presidente Trudeau, il suo valore aggiunto all’economia mondo è inferiore a quello della California.
E’ evidente che quello di Taormina è stato un estremo tentativo di salvare l’immagine di un Occidente che attraversa una crisi irreversibile e che non riesce nemmeno a trovare al suo interno un minimo di strategia comune. Trovare l’accordo per una lotta senza quartiere al terrorismo, senza individuare cause e attori principali, è assolutamente ridicolo se non avesse conseguenze tragiche. Lo sanno bene le famiglie siriane che vedono i loro bambini morire sotto le bombe dei Grandi , e lo sanno tutti ormai che l’Arabia Saudita gioca un ruolo fondamentale nella strategia terroristica su scala mondiale, paese con cui Trump ha stretto pochi giorni fa un accordo per un centinaio di miliardi di forniture di armi da guerra. Certo che va combattuto l’Isis, ma lo si può fare veramente solo mettendo fuori gioco chi lo finanzia, e ridefinendo la categoria di «terrorismo» che oggi viene usata a senso unico.
Nella stupenda cornice del sito siciliano, più volte richiamata e sottolineata da tutti i media, suonava patetico, non so trovare definizione migliore, il discorso del nostro presidente del Consiglio che pensava di convincere Trump , di ammorbidirlo grazie alla bellezza di Taormina ed all’energia magmatica dell’Etna. Come se il presidente Usa fosse un bambinone cattivello che bisognava rabbonire, e non l’espressione di potenti interessi delle lobby del petrolio e del carbone che gli ordinano di boicottare gli accordi di Parigi sul clima, e dell’industria degli armamenti che aveva bisogno di rilanciare il mercato mondiale delle armi pesanti.
Donald Trump si sta dimostrando un ottimo rappresentante di questi interessi forti e consolidati negli Usa, ed ha bisogno di tutto il loro appoggio per affrontare il difficile momento, il Russia-gate, che dovrà affrontare tornando in patria. Probabilmente questo incredibile quanto rozzo presidente della superpotenza Usa non avrà vita lunga , sul piano politico, ma ha rappresentato plasticamente la fine dell’egemonia nordamericana e l’inizio della sua inarrestabile caduta. Insieme all’Occidente, a partire dalla Ue che non è più in grado di trovare una sua autonomia, di difendere la sua dignità e la sua storia, di giocare il ruolo che le spetta nel bacino del Mediterraneo.
Quello di Taormina non è stato un meeting tra i Grandi della Terra, ma un triste incontro tra i rappresentanti della Alleanza Atlantica come ai tempi della guerra fredda. E’ il canto del cigno dell’Occidente, che non vuole vedere il suo tramonto e si rifugia nostalgicamente tra le braccia dell’ anfiteatro greco più famoso del mondo, con lo sguardo rivolto al passato glorioso mentre il vento della storia lo sta travolgendo, come nell’Angelus Novus di Paul Klee : « Questa tempesta lo spinge irreversibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui nel cielo» (Walter Benjamin)
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«Il rapporto “Verso un’economia trasformativa” analizza lo stato dell’arte dell’economia sociale e solidale in tutto il mondo. Una rassegna di buone pratiche che creano lavoro e partecipazione».
Sbilanciamoci.info, 23 maggio 2017 (c.m.c)
55 territori coinvolti (46 in Europa e 9 nel resto del mondo), in 32 Paesi di cui 23 membri dell’Unione europea. Circa 30 organizzazioni della società civile attivate con oltre 80 ricercatori al lavoro che hanno mappato oltre 1100 pratiche rilevanti di Economia sociale e solidale intervistando oltre 550 stakeholder rilevanti tra i quali oltre 100 rappresentanti di autorità locali, nazionali e istituzioni internazionali. Il rapporto “Verso un’economia trasformativa”, realizzato nell’ambito del progetto europeo “Social and Solidarity Economy as Development Approach for Sustainability in Eyd 2015 and beyond” (Essdas) analizza lo stato dell’arte dell’economia sociale e solidale in tutto il mondo.
Ma cosa intendiamo esattamente per Economia Sociale e Solidale (Ess)? Una sua definizione è stata data nel 2015 nel documento “Visione globale dell’economia sociale solidale” della rete Ripess (Rete Intercontinentale di Promozione dell’Economia Sociale Solidale): secondo questa l’ESS è «un movimento che si propone di cambiare l’intero sistema economico e sociale, promuovendo un nuovo paradigma di sviluppo che sostiene i principi dell’economia solidale. L’economia sociale solidale riguarda una dinamica di reciprocità e solidarietà che collega gli interessi individuali a quelli collettivi».
L’Ess è una pratica che si è sviluppata in America Latina agli inizi dello scorso decennio, e che in diversi Paesi ha avuto un riconoscimento sia formale che sostanziale: nel 2003 in Brasile è stata istituita la carica di Segretario dell’Economia Solidale, mentre, tra il 2011 e il 2012 anche il Messico e l’Equador hanno riconosciuto le nuove pratiche sociali attraverso leggi apposite. Si è poi diffusa successivamente in Europa, anche in Italia, dove esistono attualmente 10 leggi regionali sull’Economia sociale, ed una normativa nazionale sul diritto del commercio equo e solidale è in cantiere da tempo: entro la fine della legislatura potrebbe avvenire la sua approvazione.
Il primo documento ad analizzare lo stato dell’arte dell’Ess è un rapporto dell’Ilo del 2011: un settore, secondo il report, che conta il 6% dell’occupazione in tutta Europa, con due milioni di organizzazioni che rappresentano il 10% di tutte le aziende. Nel mondo, invece, il suo fatturato globale è del valore di 7,5 milioni di euro, e conta di oltre 2 milioni di lavoratori e agricoltori. Esperienze simili, conclude il rapporto, esistono anche nei Paesi emergenti, come l’India, dove 30 milioni di persone sono organizzate in 2 milioni di gruppi di auto aiuto.
Grazie al rapporto Essdas è ora possibile mappare la presenza di tutte queste esperienze alternative sul suolo non solo europeo, ma di tutto il mondo. Anche il nostro Paese è denso di esperienze simili: le regioni più “sensibili” sono Marche, Puglia, Emilia Romagna e Toscana.
I settori produttivi più attivi, secondo lo studio, sono soprattutto quelli legati alla produzione e distribuzione di prodotti agricoli: ben 34 realtà su 55 operano nel campo della sicurezza alimentare e agricola. Spiccano poi altri campi, quali il commercio equo e solidale (16), il consumo critico (15), la promozione di stili di vita sostenibili (14), le pratiche di riuso e riciclo (11).
Per quanto riguarda le funzioni economiche svolte all’interno di tali attività il documento segnala una prevalenza delle attività commerciali di beni e servizi (42%), seguite da quelle di lavorazione e trasformazione (29%), consumo (17%) e distribuzione (12%).
Il report sottolinea poi anche l’alto numero di partecipazione delle persone ai progetti Ess: secondo Essdas gli individui direttamente coinvolti sono circa 13.000, mentre altri 1.500 sono direttamente o indirettamente occupati. Tra le realtà più “virtuose” spicca la cooperativa Manchester Home Care, che conta in tutto 800 persone, mentre la Central Cooperative Marketing delle Isole Andaman e Nicobar dà lavoro a circa 160 persone. Altro esempio da segnalare è l’organizzazione di microcredito solidale inglese Shared Interest, con oltre 9000 soci sostenitori.
E dal punto di vista del reddito? Secondo il rapporto l’impatto economico di tutte queste attività è complessivamente di 90 milioni di euro: al primo posto c’è la già citata Shared Interest, con un giro d’affari di oltre 42 milioni di euro, mentre la Home Care di Manchester registra un “fatturato” annuo di 14 milioni. Secondo le stime, il reddito medio generato da ciascuna realtà attiva nell’ambito Ess è di circa 300 mila euro. E un’altra buona notizia è che non solo gli impatti sociali e ambientali di queste realtà siano positivi, ma anche come queste contribuiscano a creare network e partecipazione sul territorio.
Cattive notizie sul fronte istituzionale: oltre alle scarse performance in termini di comunicazione e advocacy da parte del settore Ess, viene sottolineato che molti Paesi non hanno ancora leggi nazionali quadro sull’economia solidale, e che oltre il 50% di queste realtà non hanno né fondi né sponsor istituzionali, né intrattengono rapporto alcuno con le istituzioni. Di conseguenza, conclude il rapporto, l’impatto sulla politica e sulla vita pubblica è basso o addirittura nullo.
Il rapporto è stato anche presentato alla Camera dei Deputati lo scorso 26 aprile, alla presenza delle diverse forze politiche. L’obiettivo è quello di arrivare ad una legge condivisa che promuova e inquadri a livello legislativo le attività legate all’economia sociale e solidale: nello specifico lo studio, si propone di «contribuire ad aumentare le competenze delle realtà/reti che si occupano economia locale, in particolare rispetto al ruolo che può svolgere nella lotta globale alla povertà e nella promozione di uno stile di vita equo e sostenibile».
Il tutto in linea con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile 2015 – 2030 approvati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2014, dove nello specifico si sottolinea come tutti i partecipanti «richiedono trasformazioni significative delle nostre economie. Invitano a rendere i nostri modelli di crescita più inclusivi e sostenibili. La gente vuole un lavoro dignitoso, una protezione sociale, robusti sistemi agricoli e la prosperità rurale, città sostenibili, un’industrializzazione inclusiva e compatibile, infrastrutture resilienti e energia verde per tutti», e con gli obiettivi Europa 2020, che sostengono la necessità di creare un futuro più tecnologico, sostenibile e inclusivo. Un futuro in cui ci sia posto per tutti, una necessità per non lasciare indietro più nessuno.
Guardian rintraccia le origini e lo sviluppo di quella teoria neoliberale che dagli anni ’80 ha pervaso le nostre società. Il trionfo del neoliberalismo riflette anche il fallimento della sinistra ». vocidall'estero, 15 aprile 2017 (c.m.c.)
Immaginate se il popolo dell’Unione Sovietica non avesse mai sentito parlare del comunismo. L’ideologia che domina le nostre vite, per la maggior parte di noi non ha un nome. Menzionatela nelle vostre conversazioni e avrete in risposta una scrollata di spalle. Anche se i vostri ascoltatori hanno già sentito questo termine, faranno fatica a definirlo. Neoliberalismo: sapete di cosa si tratta?
Il suo anonimato è sia un sintomo che la causa del suo potere. Essa ha svolto un ruolo importante in una notevole varietà di crisi: la crisi finanziaria del 2007-8, la delocalizzazione di ricchezza e potere, di cui i Panama Papers ci offrono solo un assaggio, il lento collasso della sanità pubblica e dell’istruzione, l’aumento dei bambini poveri, l’epidemia della solitudine, la distruzione degli ecosistemi, l’ascesa di Donald Trump. Ma noi rispondiamo a queste crisi come se fossero dei casi isolati, apparentemente inconsapevoli del fatto che tutte sono state catalizzate o aggravate dalla stessa filosofia di base; una filosofia che ha – o ha avuto – un nome. Quale potere più grande dell’agire nel completo anonimato?
Il neoliberalismo è diventato così pervasivo che ormai raramente lo consideriamo come una ideologia. Sembriamo accettare la tesi che questa utopica fede millenaria rappresenti una forza neutrale; una sorta di legge biologica, come la teoria dell’evoluzione di Darwin. Ma la filosofia è nata come un tentativo consapevole di trasformare la vita umana e spostare il luogo del potere.
Il neoliberalismo vede la competizione come la caratteristica che definisce le relazioni umane. Ridefinisce i cittadini in quanto consumatori, le cui scelte democratiche sono meglio esercitate con l’acquisto e la vendita, un processo che premia il merito e punisce l’inefficienza. Essa sostiene che “il mercato” offre dei vantaggi che non potrebbero mai essere offerti dalla pianificazione dell’economia.
I tentativi di limitare la concorrenza sono trattati come ostili alla libertà. Pressione fiscale e regolamentazione dovrebbero essere ridotte al minimo, i servizi pubblici dovrebbero essere privatizzati. L’organizzazione del lavoro e la contrattazione collettiva da parte dei sindacati sono considerate come distorsioni del mercato, che impediscono lo stabilirsi di una naturale gerarchia di vincitori e vinti. La disuguaglianza è ridefinita come virtuosa: un premio per i migliori e un generatore di ricchezza che viene redistribuita verso il basso per arricchire tutti. Gli sforzi per creare una società più equa sono sia controproducenti che moralmente condannabili. Il mercato fa sì che ognuno ottenga ciò che merita.
Noi interiorizziamo e diffondiamo questo credo. I ricchi si autoconvincono di aver acquisito la loro ricchezza attraverso il merito, ignorando i vantaggi – come l’istruzione, l’eredità e la classe sociale d’appartenenza – che possono averli aiutati ad assicurarsela. I poveri cominciano a incolpare se stessi per i propri fallimenti, anche quando possono fare poco per cambiare la situazione.
Per non parlare della disoccupazione strutturale: se non si ha un lavoro è perché non lo si è cercato abbastanza. E nemmeno dei costi impossibili degli alloggi: se la vostra carta di credito è in rosso, siete stati irresponsabili e imprevidenti. Non importa che i vostri figli non abbiano più un cortile a scuola dove poter giocare: se ingrassano, è colpa vostra. In un mondo governato dalla competizione, chi rimane indietro viene definito e si percepisce come perdente.
Tra i risultati, come documentato da Paul Verhaeghe nel suo libro What About Me?, vi sono epidemie di autolesionismo, disturbi alimentari, depressione, solitudine, ansia da prestazione e fobia sociale. Forse non è sorprendente che la Gran Bretagna, dove l’ideologia neoliberale è stata applicata più rigorosamente, sia la capitale europea della solitudine. Ormai siamo tutti neoliberali.
Il termine neoliberalismo è stato coniato durante una riunione a Parigi nel 1938. Tra i delegati vi erano due uomini che giunsero a definire l’ideologia, Ludwig von Mises e Friedrich Hayek. Entrambi esuli provenienti dall’Austria, vedevano nella socialdemocrazia, esemplificata dal New Deal di Franklin Roosevelt e dal graduale sviluppo del welfare britannico, la manifestazione di un collettivismo di stampo simile al nazismo e al comunismo.
Nel suo libro La via della schiavitù, pubblicato nel 1944, Hayek sosteneva che la pianificazione del governo, schiacciando l’individualismo, avrebbe portato inesorabilmente al controllo totalitario. Come il libro di Mises Burocrazia, La via della schiavitù ebbe una grande diffusione. Riuscì ad attirare l’attenzione di persone molto ricche, che vedevano in questa filosofia la possibilità di liberarsi dalla regolamentazione e dalle tasse. Quando, nel 1947, Hayek fondò la prima organizzazione che avrebbe diffuso la dottrina del neoliberalismo – la Mont Pelerin Society – fu sostenuto finanziariamente da ricchi milionari e dalle loro fondazioni.
Con il loro aiuto, cominciò a creare quello che Daniel Stedman Jones descrive in Padroni dell’Universo come “una sorta di internazionale del liberalismo”: una rete transatlantica di accademici, uomini d’affari, giornalisti e attivisti. Ricchi banchieri appartenenti al movimento finanziarono una serie di think thank per affinare e promuovere l’ideologia. Tra di loro c’erano l’ American Enterprise Institute , la Heritage Foundation, il Cato Institute, l’Institute of Economic Affairs, il Centre of Policies Studies e l’Adam Smith Institute. Essi finanziarono inoltre posizioni accademiche e dipartimenti, in particolare presso le università di Chicago e della Virginia.
Man mano che si è evoluto, il neoliberalismo è diventato più stridente. La visione di Hayek sui governi che dovrebbero regolamentare la concorrenza per impedire la formazione di monopoli ha ceduto il posto – tra i seguaci americani come Milton Friedman – alla convinzione che il potere di monopolio potrebbe essere visto come una ricompensa per l’efficienza.
Durante questa transizione però è accaduto qualcosa: il movimento ha perso il suo nome. Nel 1951, Friedman era felice di descrivere se stesso come un neoliberale. Ma subito dopo, il termine ha cominciato a scomparire. Ancora più strano, anche se l’ideologia era diventata più netta e il movimento più coerente, il nome perduto non è stato sostituito da alcuna alternativa comunemente accettata.
In un primo momento, nonostante il suo lauto finanziamento, il neoliberalismo rimase ai margini. Il consenso del dopoguerra era quasi universale: le indicazioni economiche di John Maynard Keynes erano ampiamente applicate, la piena occupazione e la riduzione della povertà erano obiettivi condivisi negli Stati Uniti e in gran parte dell’Europa occidentale, le aliquote d’imposta sui redditi alti erano elevate e i governi perseguivano i loro obiettivi sociali senza ostacoli, creando nuovi servizi pubblici e reti di sicurezza sociale.
Ma negli anni Settanta, quando le politiche keynesiane cominciarono a crollare e le crisi economiche colpivano su entrambe le sponde dell’Atlantico, le idee neoliberali cominciarono a entrare nel mainstream. Come osservò Friedman, «quando venne il momento che si doveva cambiare … c’era un’alternativa già pronta lì per essere colta». Con l’aiuto di giornalisti compiacenti e consiglieri politici, elementi del neoliberalismo, in particolare le sue indicazioni circa la politica monetaria, furono adottati dall’amministrazione di Jimmy Carter negli Stati Uniti e dal governo di Jim Callaghan in Gran Bretagna.
Dopo che Margaret Thatcher e Ronald Reagan presero il potere, il resto del pacchetto fu presto applicato: massicci tagli alle tasse per i ricchi, smantellamento dei sindacati, deregolamentazione, privatizzazioni, esternalizzazioni e concorrenza nei servizi pubblici. Attraverso il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, il trattato di Maastricht e l’Organizzazione mondiale del commercio, le politiche neoliberali sono state imposte – spesso senza il consenso democratico – in gran parte del mondo. La cosa più notevole è stata l’adozione del neoliberalismo tra i partiti che un tempo appartenevano alla sinistra: i Laburisti e i Democratici, per esempio. Come osserva Stedman Jones, «è difficile pensare ad un’altra utopia che sia stata così pienamente realizzata».
Può sembrare paradossale che una dottrina che promette possibilità di scelta e libertà sia stata promossa con lo slogan “here is no alternative” (non c’è alternativa, ndt). Ma, come osservò Hayek durante una visita nel Cile di Pinochet – una delle prime nazioni in cui il programma venne ampiamente applicato – «la mia preferenza personale pende verso una dittatura liberale piuttosto che verso un governo democratico privo del liberalismo». La libertà che il neoliberalismo offre, che suona così seducente se espressa in termini generali, si rivela essere libertà per il luccio, non per i pesciolini.
Libertà dai sindacati e dalla contrattazione collettiva significa libertà di reprimere i salari. Libertà dalla regolamentazione significa libertà di avvelenare i fiumi, mettere in pericolo i lavoratori, applicare tassi di interesse iniqui e inventare strumenti finanziari esotici. Libertà dalle tasse significa libertà dalla redistribuzione della ricchezza che solleva le persone dalla povertà.
Come documentato da Naomi Klein in The Shock Doctrine ( uscito in italiano col titolo Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, NdR), teorici neoliberali hanno sostenuto l’uso della crisi per imporre politiche impopolari, approfittando della distrazione creata dalla situazione di crisi: cosi è successo in occasione del colpo di stato di Pinochet, della guerra in Iraq e dell’uragano Katrina, quest’ultimo descritto da Friedman come «un’opportunità per riformare radicalmente il sistema educativo» di New Orleans.
Dove le politiche neoliberiste non possono essere imposte a livello nazionale, sono imposte a livello internazionale, attraverso trattati commerciali che incorporano la cosiddetta “risoluzione delle controversie tra investitori e Stato”: tribunali off-shore in cui le grandi società possono fare pressioni per la rimozione delle protezioni sociali e ambientali. Quando i parlamenti hanno votato a favore della limitazione della vendita di sigarette, o per proteggere le riserve idriche nei confronti delle compagnie minerarie, congelare le bollette energetiche o evitare l’eccessivo aumento dei prezzi da parte delle case farmaceutiche, le società hanno fatto causa, spesso con successo. La democrazia è ridotta a un teatro.
Un altro paradosso del neoliberalismo è che la competizione universale si basa sulla altrettanto universale comparazione e selezione. Il risultato è che i lavoratori, i disoccupati e i servizi pubblici di ogni genere sono soggetti ad un pernicioso e soffocante regime di valutazione e monitoraggio, ideato per identificare i vincitori e punire i perdenti. La dottrina proposta da Von Mises. che ci avrebbe liberato dall’incubo burocratico della pianificazione centrale, al contrario, ha realizzato proprio questo.
Il neoliberalismo non è stato concepito come un meccanismo autoreferenziale, ma lo è rapidamente diventato. La crescita economica è stata nettamente più lenta nell’era neoliberista (dal 1980 in Gran Bretagna e negli Stati Uniti) di quanto non fosse nei decenni precedenti; ma non per i più ricchi. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, dopo 60 anni di declino, in questo periodo è di nuovo aumentata rapidamente a causa della distruzione dei sindacati, le riduzioni fiscali, l’aumento delle rendite, le privatizzazioni e la deregolamentazione.
La privatizzazione o mercatizzazione dei servizi pubblici, quali l’energia, l’acqua, i trasporti, la sanità, l’istruzione, le strade e le carceri, ha permesso alle grandi aziende di imporre delle tariffe sui beni essenziali e pretendere il pagamento per l’accesso, sia dai cittadini che dai governi. Rendita è un altro termine per significare reddito senza lavoro. Quando si paga un prezzo gonfiato per un biglietto del treno, solo una parte della tariffa compensa gli operatori per i soldi che spendono per il carburante, i salari, il materiale rotabile e altre spese. Il resto riflette il fatto che vi hanno messo con le spalle al muro.
Coloro che possiedono e gestiscono i servizi privatizzati o semi-privatizzati del Regno Unito fanno immense fortune investendo poco e ricaricando molto. In Russia e in India, oligarchi hanno acquisito beni precedentemente dello Stato grazie a delle svendite. In Messico, a Carlos Slim è stato concesso il controllo di quasi tutti i servizi di rete fissa e telefonia mobile, così che è divenuto ben presto l’uomo più ricco del mondo.
La finanziarizzazione dell’economia, come osserva Andrew Sayer in Why We Can’t Afford the Rich , ha avuto un impatto simile. «Come le rendite», sostiene, «gli interessi sono … redditi non da lavoro, che maturano senza alcuno sforzo». Come i poveri diventano più poveri e i ricchi diventano più ricchi, i ricchi acquisiscono sempre più il controllo su un’altra risorsa cruciale: la moneta. La spesa per interessi, in modo schiacciante, rappresenta un trasferimento di denaro dai poveri ai ricchi. Man mano che i prezzi degli immobili e la fine dei finanziamenti pubblici caricano le persone di debiti (si pensi al passaggio dalle borse di studio ai prestiti agli studenti), le banche e i loro dirigenti sbancano.
Sayer sostiene che gli ultimi quattro decenni sono stati caratterizzati da un trasferimento di ricchezza non solo dai poveri ai ricchi, ma anche tra le fila dei ricchi: da quelli che fanno soldi con la produzione di nuovi beni o servizi a coloro che fanno soldi controllando i beni esistenti e traendone delle rendite, interessi o plusvalenze. Il reddito da lavoro è stato soppiantato dalla rendita senza lavoro.
Le politiche neoliberiste sono ovunque afflitte dai fallimenti del mercato. Non solo le banche sono troppo grandi per fallire (“too big to fail“), ma lo sono anche le società ora incaricate di fornire servizi pubblici. Come Tony Judt ha sottolineato nel suo libro “Ill Fares The Land“, Hayek ha dimenticato che i servizi pubblici vitali per un paese non possono fallire, il che significa che la concorrenza non può fare il suo corso. Gli investitori prendono i profitti, lo Stato si assume il rischio.
Maggiore è il fallimento, più estrema diventa l’ideologia. I governi usano le crisi neoliberiste come pretesto e occasione per tagliare le tasse, privatizzare i restanti servizi pubblici, creare strappi nella rete di sicurezza sociale, deregolamentare le imprese e disciplinare i cittadini. Lo Stato autolesionista ora affonda i denti in ogni organo del settore pubblico.
Forse l’impatto più pericoloso del neoliberalismo non è la crisi economica che ha causato, ma la crisi politica. Come il peso dello Stato è ridotto, così è ridotta la nostra capacità di cambiare il corso delle nostre vite attraverso il voto. Invece, la teoria neoliberale afferma che le persone possono esercitare una scelta attraverso la spesa. Ma alcuni hanno più da spendere rispetto ad altri: nella democrazia del consumatore o dell’azionista, il diritto di voto non è equamente distribuito. Il risultato è una riduzione dei diritti dei meno abbienti e della classe media. Mentre i partiti di destra e della ex sinistra adottano politiche neoliberali simili, la riduzione del potere statale si traduce in una revoca dei diritti. Un gran numero di persone sono state escluse dalla politica.
Chris Hedges osserva che «i movimenti fascisti costruiscono il loro fondamento non sulla base degli attivisti, ma di coloro che sono politicamente inattivi, i ‘perdenti’, che percepiscono, spesso in modo corretto, di non avere alcuna voce in capitolo nel mondo politico». Quando il dibattito politico non parla più a tutti, allora le persone diventano sensibili a slogan, simboli e sensazioni. Per gli ammiratori di Trump, ad esempio, i fatti e gli argomenti appaiono irrilevanti.
Judt ha spiegato che quando la fitta rete di interazioni tra il popolo e lo Stato viene ridotto a nulla se non all’autorità e all’obbedienza, l’unica forza che ci lega è il potere dello stato. Il totalitarismo che Hayek temeva ha più probabilità di emergere quando i governi, dopo aver perso l’autorità morale che nasce dalla erogazione dei servizi pubblici, si riducono a «blandire, minacciare e, infine, costringere la gente a obbedire».
Come il comunismo, il neoliberalismo è il Dio che ha fallito. Ma la dottrina zombie vacilla e uno dei motivi è il suo anonimato. O meglio, un insieme di anonimati.
La dottrina invisibile della mano invisibile è promossa da sostenitori invisibili. Lentamente, molto lentamente, abbiamo iniziato a scoprire i nomi di alcuni di loro. Vediamo che l’Institute of Economic Affairs, che ha sostenuto con forza sui media la campagna contro l’ulteriore regolamentazione del settore del tabacco, è stato segretamente finanziato dalla British American Tobacco sin dal 1963. Scopriamo che Charles e David Koch, due degli uomini più ricchi del mondo, fondarono l’istituto che ha messo in piedi il movimento Tea Party. Scopriamo che Charles Koch, nell’istituire uno dei suoi think tank, osservò che «al fine di evitare critiche indesiderate, non si dovrebbe fare molta pubblicità sul modo come l’organizzazione è controllata e diretta».
Le parole usate dal neoliberismo spesso nascondono più di quanto chiariscano. “Il mercato” suona come un sistema naturale che potrebbe essere paragonato alla gravità o alla pressione atmosferica. Ma è gravido di relazioni di potere. Ciò che “il mercato vuole” tende a significare ciò che le aziende ed i loro capi vogliono.“Investimento”, come nota Sayer, significa due cose molto diverse. Uno è il finanziamento di attività produttive e socialmente utili, l’altro è l’acquisto di beni esistenti per ottenere una rendita, interessi, dividendi e plusvalenze. Utilizzare la stessa parola per le diverse attività “mimetizza le fonti della ricchezza”, il che ci porta a confondere l’estrazione di ricchezza con la creazione di ricchezza.
Un secolo fa, i nuovi ricchi venivano denigrati da coloro che avevano ereditato il loro denaro. Gli imprenditori ricercavano l’accettazione sociale facendosi passare per rentiers. Oggi, il rapporto è stato invertito: i rentiers e gli ereditieri si definiscono imprenditori. Sostengono di essersi guadagnati le loro rendite, che in realtà non derivano dal lavoro.
Questo anonimato e questa confusione si mischiano all’opacità senza nome e senza luogo del capitalismo moderno: il modello di franchising assicura che i lavoratori non sappiano per chi lavorano esattamente; società registrate off-shore dietro ad una rete di segretezza così complessa che neanche la polizia può risalire ai proprietari reali; regimi fiscali che infinocchiano i governi; prodotti finanziari che nessuno comprende.
L’anonimato del neoliberalismo è ferocemente difeso. Coloro che sono influenzati da Hayek, Mises e Friedman tendono a rifiutare il termine, poiché esso – e non a torto – è oggi utilizzato solo in senso dispregiativo. Ma non ci offrono un’alternativa. Alcuni si definiscono liberali classici o libertari, ma queste descrizioni sono stranamente defilate e fuorvianti, in quanto suggeriscono che nei libri La via della schiavitù e Burocrazia, o nel classico di Friedman Capitalismo e Libertà, non vi sia in realtà niente di nuovo.
Per tutte queste ragioni, nel progetto neoliberale c’è qualcosa di ammirevole, almeno nelle sue fasi iniziali. Si è trattato di una peculiare, innovativa filosofia promossa da una rete di pensatori e attivisti coerenti e con un chiaro piano d’azione. Portato avanti con pazienza e tenacia. La via della schiavitù è diventata la strada per il potere.
Il trionfo del neoliberalismo riflette anche il fallimento della sinistra. Quando nel 1929 l’economia del laissez-faire portò alla catastrofe, Keynes ideò una teoria economica globale per sostituirla. Quando negli anni ’70 la gestione keynesiana della domanda andò fuori strada, c’era un’alternativa pronta. Ma quando nel 2008 il neoliberalismo è crollato, non c’era… niente. Ecco perché la marcia degli zombie. La sinistra e il centro non hanno prodotto alcun nuovo inquadramento generale del pensiero economico per 80 anni.
Ogni invocazione di Lord Keynes è un’ammissione di fallimento. Proporre soluzioni keynesiane alle crisi del 21° secolo significa ignorare tre problemi evidenti. E’ difficile mobilitare le persone intorno a vecchie idee; le falle messe in luce negli anni ’70 non sono scomparse; e, sopratutto, non tengono in considerazione la nostra più grave emergenza: la crisi ambientale. Il Keynesismo agisce stimolando la domanda dei consumatori per promuovere la crescita economica. La domanda dei consumatori e la crescita economica sono i motori della distruzione ambientale.
Quel che la storia del keynesismo e del neoliberalismo ci dimostra è che nessuno dei due si è dimostrato adeguato a controbilanciare le criticità del sistema.Bisogna proporre un’alternativa coerente. Per i Laburisti, i Democratici e più in generale la sinistra, il compito centrale dovrebbe essere quello di sviluppare un programma economico che sia come l’Apollo (il programma spaziale, Ndt), un tentativo maturo di progettare un nuovo sistema progettato su misura per le esigenze del 21 ° secolo.
Traduzione di @chemicalture
«Il concetto di giustizia – e ingiustizia – ambientale è entrato di recente, ed è stato sviluppato contestualmente alle proteste e alle rivolte di comunità urbane emarginate». il blog di Guido Viale, 16 marzo 2017 (c.m.c.)
Il corpo umano ha la sua estensione naturale nell’ambiente, originario o artificiale, in cui è inserito, così come ogni essere umano è una efflorescenza particolare dell’ambiente in cui vive. La condizione umana, intesa come esistenza particolare di ogni singolo uomo o di ogni singola donna, o di ogni comunità territorialmente situata, e non di un astratto “essere umano”, è indissolubilmente legata alle condizioni in cui si svolge la sua esistenza.
Condizioni che possono essere determinate tanto dalle dinamiche che interessano un determinato territorio, quanto dalla mobilità che contraddistingue l’individuo, la comunità o il gruppo sociale a cui l’individuo appartiene. Quanto al primo punto, un determinato territorio può essere caratterizzato sia da una relativa invarianza – restare più o meno uguale a se stesso nei secoli o nei millenni – quanto da una elevata varietà che può essere provocata sia da eventi naturali che da interventi migliorativi o devastanti di origine antropica; interventi che possono a loro volta provocare sia progressi o regressi del benessere dei suoi abitanti, sia catastrofi che richiedono un radicale ri-orientamento di molti dei loro comportamenti, fino al completo abbandono di un territorio. Quanto alla mobilità, e innanzitutto alle migrazioni che dall’origine hanno accompagnato l’evoluzione della specie umana e la differenziazione delle sue culture, oggi è uno dei fattori più rilevanti della stratificazione sociale.
Grosso modo, nel mondo globalizzato di oggi, possiamo distinguere il vertice di una piramide, costituita da una élite internazionale (il famigerato 1 per cento; ma probabilmente molti meno), sempre meno legata a un territorio particolare perché impegnata in investimenti e operazioni che spaziano su tutto il globo, e quindi scarsamente interessata alla qualità di un ambiente particolare, perché in grado in ogni momento di scegliersene uno più gradevole.
Mentre al fondo della piramide sociale, intere comunità sono costrette ad abbandonare, tutti insieme o un po’ per volta, il territorio in cui sono nati e cresciuti sia loro che le loro famiglie, perché reso inospitale e inabitabile da qualche catastrofe naturale o, sempre più, dai cambiamenti climatici in corso; oppure da progetti di “sviluppo” o da accaparramenti di risorse locali, per lo più promossi e gestiti da chi quel territorio non lo abita e non lo frequenta mai.
In mezzo a questi estremi, c’è una folta schiera di abitanti di questo pianeta che vivono in ambienti (aria, acque, suolo e alimenti) sempre meno naturali e sempre più non solo antropizzati, ma anche e soprattutto inquinati; e che tentano, perché ne hanno la possibilità, di sottrarsi al loro impatto per brevi periodi, come il week-end o le vacanze, alla ricerca di aria, acque e paesaggi meno compromessi. Ma la maggioranza degli abitanti di questa terra questa possibilità non ce l’ha; come non ha la possibilità di scegliere gli alimenti, l’acqua o la casa e si deve accontentare di ciò che è, quando lo è, alla sua portata.
Le diseguaglianze mostruose che affliggono la popolazione mondiale e che pregiudicano il suo futuro non sono sicuramente riconducibili soltanto al fattore ambiente; ma l’ambiente incide su di esse, e sulle dinamiche che le caratterizzano, molto più di quanto ci abbia insegnato a individuarle l’approccio ai problemi sociali sganciato dall’analisi di quelli ambientali proprio della cultura affermatasi prima in occidente, e poi in tutto il mondo, fondata sulla contrapposizione, e non sulla integrazione, tra uomo e natura.
In questa cultura il concetto di giustizia – e ingiustizia – ambientale è entrato di recente, ed è stato sviluppato contestualmente alle proteste e alle rivolte di comunità urbane emarginate o discriminate per ragioni economiche o razziali, che vedevano i territori in cui erano state relegate dallo sviluppo urbano venir scelte come sede degli interventi più impattanti: fabbriche inquinanti, discariche, inceneritori, depuratori, autostrade urbane, ecc. Lì il contrasto tra l’ambiente curato e, per quanto possibile, salvaguardato in cui avevano la loro residenza i ceti più privilegiati, da un lato, e le aree elette a discariche tanto degli “scarti umani” che di quelli industriali, dall’altro, era evidente e diventava sempre più intollerabile.
Ma in altre culture, che avevano mantenuto per secoli o millenni un rapporto più stretto con l’ambiente naturale in cui e di cui vivevano, la convinzione che la convivenza sociale tra i membri di una comunità su basi paritarie, cioè la giustizia sociale, fosse indissolubilmente legata al rispetto della natura e dei suoi cicli non era mai venuta meno.
Questo approccio sta diventando oggi sentire comune tra un numero crescente di uomini e donne impegnate nelle battaglie più diverse contro le diseguaglianze sociali, lo sfruttamento e l’oppressione. E non a caso è il centro del più importante documento politico di questo inizio di secolo: l’enciclica Laudato sì di papa Francesco. La connessione tra giustizia ambientale (il rispetto della natura e dei suoi cicli) e giustizia sociale (la lotta contro le diseguaglianze, lo sfruttamento è l’oppressione) è un paradigma destinato a cambiare dalle radici la cultura sociale e il progetto di un mondo diverso.
Qualcosa di questi temi, il rapporto tra le diseguaglianze sociali e il degrado ambientale, la traduzione in iniziative e progetti concreti la lotta contro i cambiamenti climatici che a parole tutti condividono, il rispetto dell’ambiente di tutti, e soprattutto di quello degli ultimi sta ispirando l’agire politico dell’establishment economico, politico o mediatico europeo? Neanche parlarne.
». il manifesto, 18 marzo 2017 (c.m.c.)
Occorreranno studi approfonditi di psicologia per riuscire un giorno o l’altro finalmente a capire come mai, ogni volta che si parla di debito pubblico, al ministro dell’Economia di turno brillino gli occhi, si guardi furtivamente intorno e con riflesso pavloviano decida di mettere sul mercato un altro pezzo di ricchezza sociale.
Come fossimo agli albori della dottrina neoliberale, ci tocca ogni volta sentire la litania: «Servono le privatizzazioni per abbattere il debito pubblico».
Nel frattempo, ci siamo venduti quasi tutto e il debito pubblico ha continuato allegramente la sua irresistibile ascesa.
Poco importa. Ormai sappiamo che ogni volta che si «accende» lo «scontro» tra il nostro governo e e l’Unione Europea, dobbiamo controllare le nostre tasche perché è quasi automatica la soluzione: la sottrazione di un bene comune..
Per carità, questa volta siamo solo alla fase istruttoria, ma il fatto che sia già uscita sulla stampa appare una studiata strategia di sondaggio preventivo per vedere di nascosto l’effetto che fa.
Il ministero dell’Economia sta studiando un nuovo assetto della Cassa depositi e prestiti (Cdp), che prevede la cessione di una quota del 15%, che porterebbe la proprietà pubblica al 65% (essendo il 15,93% già in possesso delle Fondazioni bancarie. Essendo il patrimonio complessivo pari a 33 miliardi, nelle casse dello Stato entrebbero 5 miliardi che naturalmente sarebbero destinati all’abbattimento del debito pubblico.
Inutile sottolineare come la parola «abbattimento» nel dizionario italiano ha un preciso significato: demolizione, distruzione, abolizione. Può chiamarsi abbattimento un’operazione che porterà il nostro debito pubblico dagli attuali 2.217,7 miliardi (dicembre 2016) ai futuri 2.212,7 miliardi?
In compenso, se l’ultimo dividendo staccato da Cdp corrispondeva a 850 milioni di euro (dei quali, 680 milioni sono andati allo Stato), in futuro, su ogni dividendo simile, lo Stato ne incasserà solo 550. Non è neppure chiaro ad oggi a chi verrà ceduto il 15% se a investitori istituzionali, a fondi o banche estere.
La svendita di un ulteriore pezzo di Cdp si incrocia anche con le grandi manovre intorno alla privatizzazione di Poste: l’idea del ministero dell’Economia è quella di cedere entro l’anno il residuo 29,3% (dopo aver ceduto il 35% a Cdp e il 36,7% a investitori individuali e istituzionali).
Grandi manovre finanziarie, fatte all’oscuro di tutti i detentori della ricchezza di Cassa Depositi e Prestiti, ovvero quelle oltre 20 milioni di persone che vi depositano i risparmi (oltre 250 miliardi) e che sapranno sempre meno intorno alla loro tutela e utilizzo.
Forse è davvero giunto il momento di rilanciare una campagna di massa per la socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, per il suo decentramento territoriale e per la gestione partecipativa dell’utilizzo del risparmio postale.
Hanno venduto tutti i beni comuni e ora scappano con la Cassa. È il momento di riprenderci la ricchezza sociale che rappresenta.
Il sistema produttivo del capitalismo - come già prima il commercio degli ultimi millenni - si basa sul rapporto credito-debito. (vedi David Graeber, Debito. I primi 5000 anni, Il Saggiatore, 2012). E dall'antichità si sono succeduti periodici annullamenti del debito per non portare in rovina le popolazioni e per rinnovare le basi di un'economia produttiva.
In Europa basti ricordare la ristrutturazione o meglio l'annullamento pressoché totale dell'ingente debito estero della Germania (debito della prima guerra/Versailles e gran parte delle riparazioni della seconda guerra mondiale) nella Conferenza di Londra del 1953 ad opera degli ex-alleati occidentali, dove Herman Josef Abs, grande banchiere da Hitler all'Euro, riuscì a mettere le premesse finanziarie per il successivo miracolo economico della Repubblica Federale di Germania.
Non a caso fu nel passato il governo greco e per ultimo Alexis Tsipras a ricordare questo evento di fronte all'intransigenza tedesca verso i debiti dei paesi sudeuropei. Appare ovvio che i paesi creditori (ovvero le loro banche che detengono il debito pubblico e privato) hanno l'interesse a mantenere in vita i debitori per poterli spremere anziché aiutarli a ripagare i loro debiti.
Ma non è un mistero che nessuno degli attuali debiti pubblici potrà mai essere ripagato. Sono i paesi ricchi che detengono il debito pubblico (e privato) più alto: USA, Giappone, la stessa Cina. La Germania ha il debito pubblico più alto in Europa (ora ca. 2.284 mrd.€), non ancora superato da quello italiano (ora ca. 2.220 mrd.) Decisivo per la stabilitá delle economie non è l'ammontare del debito in sé, ma il suo rapporto col PIL, che in Germania è comunque ben più alto del 60%, la norma arbitraria fissata a Maastricht. E la Germania paga anche interessi molto minori rispetto all'Italia, dove il rapporto debito/ PIL supera il 132%. É proprio l'ammontare degli interessi che lo Stato paga ai suoi creditori, per lo più istituzionali, che autoalimenta la crescita costante del debito.
L'Italia ha un bilancio primario in positivo da ca. 20 anni, ma anno per anno deve sborsare cifre di interesse intorno ai 80-100 miliardi! Il debito italiano era cresciuto negli anni '80 da 114 mrd. € (1980) a ben 850 mrd.€ (1992), ma l' aumento era costituito da soli 140 mrd. di nuovo prestito e ben 596 mrd. di interessi. Ovvero gli interessi ammontavano ormai a oltre due volte il debito in soli dieci anni (vedi Paolo Ferrero, La truffa del debito pubblico, Derive Approdi 2014)
Solo Romano Prodi era riuscito attraverso una manovra "lacrime e sangue" a spese del welfare ad abbassare temporaneamente il rapporto debito/PIL per portare l'Italia nell' Euro. Da allora gli interessi sul debito pubblico costituiscono la terza spesa dopo pensioni e sanitá in Italia. E i tagli vengono scaricati dallo Stato centrale ai vari livelli locali: regioni e comuni arrivano sull'orlo del fallimento e la crescente debolezza delle istituzioni alimenta dappertutto la corruzione, ormai endemica.
Se in un futuro non lontano dovessero scattare anche le misure punitive del Fiscal compact, allora sarà difficile mantenere la quiete sociale. Di fronte a queste prospettive serve assolutamente una verifica sulla natura in gran parte illegittima e insostenibile del debito pubblico, ovvero un'audit, a livello nazionale e una maggiore informazione pubblica in merito. L'assemblea nazionale del Comitato per l'abolizione dei debiti illegittimi che si terrá a Roma il 4 marzo intende avviare questo percorso verso l'istituzione di una Commissione popolare indipendente in Italia.
Riferimenti
«Intervento di Serge Latouche preparato per un incontro promosso a Dublino (il 24 e 25 febbraio 2017) dal titolo “La via della decrescita come risposta all’inganno dello sviluppo sostenibile”». comune-info, 28 febbraio 2017 (c.m.c.)
Fare della decrescita, come hanno fatto certi autori, una variante dello sviluppo sostenibile, costituisce un controsenso storico, teorico e politico sul significato e sulla portata del progetto. La necessità, provata da tutta una corrente dell’ecologia politica e dei critici dello sviluppo, di rompere con il linguaggio fasullo dello sviluppo sostenibile, ha portato a lanciare, quasi per caso, la parola d’ordine della decrescita.
All’inizio, quindi, non si trattava di un concetto, e in ogni caso di una idea simmetrica a quella della crescita, ma di uno slogan politico di provocazione, il cui contenuto era soprattutto diretto a far ritrovare il senso dei limiti; in particolare, la decrescita non è una recessione e neppure una crescita negativa. La parola quindi non deve essere presa in considerazione alla lettera: decrescere solo per decrescere sarebbe altrettanto assurdo di crescere soltanto per crescere. Tuttavia, i decrescenti volevano far crescere la qualità della vita, dell’aria, dell’acqua e di una pluralità di cose che la crescita per la crescita ha distrutto.
Per parlare in modo più rigoroso, si dovrebbe indubbiamente usare il termine a-crescita, con l’ «a» privativo greco, come si parla di ateismo. In quanto si tratta, d’altronde, esattamente di abbandonare una fede e una religione. È necessario diventare degli atei della crescita e dell’economia, degli agnostici del progresso e dello sviluppo. La rottura della decrescita incide quindi insieme sulle parole e sulle cose, implica una decolonizzazione dell’immaginario e la realizzazione di un altro mondo possibile.
La rottura con il produttivismo e la truffa dello sviluppo sostenibile
Seppure esiste un certo margine di incertezza nel concatenersi degli avvenimenti, l’emergere di un movimento radicale che propone una alternativa reale alla società dei consumi e al dogma della crescita, rispondeva sicuramente a una necessità che non è certo esagerato definire storica. Di fronte al trionfo dell’ultra liberalismo e all’arrogante affermazione della famosa Tina (acronimo di There is non alternative, non vi sono alternative) da parte della Margaret Thatcher, le piccole massonerie che si opponevano allo sviluppo e che auspicavano il rispetto dell’ecologia non potevano più accontentarsi di una critica teorica quasi confidenziale usata solo dai sostenitori del terzomondismo.
Inoltre l’altra faccia del trionfo dell’ideologia del pensiero unico non era altro che lo slogan consensuale dello «sviluppo sostenibile», un bell’ossimoro lanciato dal Pnue (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) per tentare di salvare la religione della crescita che doveva fronteggiare la crisi ecologica, e visione nella quale il movimento antiglobalizzazione sembrava essere perfettamente a suo agio. Diventava urgente contrapporre al capitalismo di mercato globalizzato un altro progetto di civilizzazione, o, più esattamente, di dare visibilità ad un disegno, da tempo in gestazione, ma che si evolveva in modo molto nascosto, quasi sotterraneo. Il movimento che prende il nome della decrescita trova il suo atto di nascita durante il colloquio «Disfare lo sviluppo, rifare il mondo», che si è tenuto all’Unesco nel marzo del 2002, una avventura culturale confermata dalla nascita, qualche mese più tardi, del giornale La décroissance che le ha procurato un eco più diffuso.
Diventato rapidamente la bandiera sotto la quale raccogliersi di tutti coloro che aspirano a costruire una reale alternativa a una società di consumo ecologicamente e socialmente insostenibile, la decrescita costituisce ormai uno spettacolo significativo per rendere evidente la necessità di una rottura rispetto alla società della crescita e per far emergere una civilizzazione basata su una abbondanza frugale. La rottura con lo sviluppismo, forma di produttivismo da offrire in uso ai Paesi cosiddetti in via di sviluppo, è stata quindi la base fondante di questo progetto alternativo. Ciò si è dapprima manifestato sotto forma di denuncia dell’etnocentrismo del concetto di sviluppo, prima ancora della rottura nei confronti del produttivismo come logica distruttiva dell’ambiente. Su questo punto, il contributo degli antropologi (Marcel Mauss, Karl Polanyi, Marshall Salhins, ad esempio), ignorato dagli economisti, è stato fondamentale.
Si tratta allora, con la decrescita di un altro paradigma economico, che contesta l’ortodossia neoclassica confrontabile con ciò che è stato il keynesismo a suo tempo? Questo è il significato che tentano di attribuirgli certe persone sulla scia del progetto di Bioeconomia di Nicholas Georgescu-Roegen. È chiaro che esistono altre politiche economiche possibili diverse dall’austerità imposta da Bruxelles all’interno di una società della crescita. Il periodo chiamato «i trenta gloriosi», (1945-1975) che ha visto il trionfo della regolamentazione keyneso-fordita ne costituisce la prova. Tuttavia, in una società della crescita senza una crescita, cioè la situazione in cui si trovano attualmente i paesi industrializzati, le politiche economiche alternative a quelle di ispirazione neo-liberista, sembrano impossibili da realizzare senza rimettere in causa il sistema economico e/o aggravare la crisi ecologica.
La denuncia della truffa dello sviluppo sostenibile è fondamentale per comprendere la necessità della rottura che la decrescita comporta e comprenderne tuta la portata. Questa, in effetti, è insieme un ossimoro e un pleonasma. Un ossimoro perché in realtà ne la crescita ne lo sviluppo sono in alcun modo sostenibili o durevoli. Questo è ciò che dimostra l’ecologia ed è il contributo di Nicholas Georgescu- Roegen: «Una crescita infinità è incompatibile con un pianeta finito». Un pleonasma, perché Walt Whitman Rostow ne Le tappe della crescita economica definisce lo sviluppo come una «crescita che si autosostiene», che sarebbe come dire che una crescita sostenibile o durevole, è una crescita durevole che dura.
Contrariamente a quanto sostengono alcuni dei suoi difensori, lo sviluppo sostenibile non si è allontanato dal suo significato e dalla sua funzione originali. Inventata, secondo la leggenda, da alcuni sinceri ecologisti, il progetto sarebbe stato deviato da alcune cattive imprese transnazionali preoccupate per il green washing, la spinta a mostrare un aspetto ecologico, e da responsabili politici senza scrupoli. Questo mito, che è duro a morire, non resiste all’analisi dei fatti. Lo sviluppo sostenibile fu lanciato esattamente come una marca di detersivo e con una accurata sceneggiatura, alla Conferenza di Rio del giugno 1992, da un buono, Maurice Strong segretario del Pnud. Poiché l’operazione seduttiva è pienamente riuscita al di la delle aspettative, le folle sono cadute nella trappola, inclusi gli intellettuali critici di Attac e gli ecologisti.
Verso la fine degli anni Settanta, lo sviluppo sostenibile si è imposto contro l’espressione più neutra di «ecosviluppo» , adottata nel 1972 alla Coferenza di Stoccolma, sotto la pressione della lobby industriale statunitense e grazie all’intervento personale di Henry kissinger. L’ecosviluppo sembrava troppo «ecologico» e poco «sviluppo» , soprattutto dopo che il paesi del Sud del Mondo se ne sono impadroniti alla conferenza di Cocoyoc del 1974, con lo scopo di rivendicare un nuovo ordine economico internazionale.
Lo sviluppo sostenibile del quale si ritrova l’invocazione in tutti i programmi politici, «ha solo la funzione – precisa Hervè Kempf – di mantenere i profitti e di evitare il cambiamento delle abitudini, modificando appena la superficie». Il fatto che il principale promotore dello sviluppo sostenibile, Stephan Schmidheiny, si sia rivelato un assassino seriale è quasi troppo bello per coloro che da anni si scagliano violentemente contro questo pseudo concetto per denunciare l’intera truffa. Questo miliardario svizzero, fondatore del World Business Council for Sustainable Development, eroe di Rio 1992, e che si presenta sul suo sito come filantropo, non è altro che l’ex-proprietario dell’impresa Eternit, chiamata in causa durante il processo per l’amianto di Casale Monferrato. L’industriale condannato dal tribunale di Milano a sedici anni di prigione e il paladino dell’ecologia industriale e della responsabilità sociale di impresa si sono scoperti essere la stessa identica persona.
Il progetto della decrescita non è ne quello di un’altra crescita, né quello di un altro sviluppo (sostenibile, sociale, solidale, ecc.). Esige di uscire dalla religione della crescita, ma questo aspetto merita di essere spiegato meglio. La crescita è un fenomeno naturale e in quanto tale è indiscutibile. Il ciclo biologico della nascita, dello sviluppo, della maturazione, del declino e della morte degli esseri viventi e la loro riproduzione sono anche la condizione della sopravvivenza della specie umana, che che deve metabolizzarsi con il suo contesto vegetale e animale. Gli uomini con molta naturalezza hanno celebrato le forze cosmiche che garantivano il loro benessere nella forma simbolica del riconoscimento di questa interdipendenza e del loro debito verso la natura per tutti questi aspetti.
Il problema nasce quando la distanza tra il simbolico e il reale scompare. Mentre tutte le società umane hanno dedicato un culto giustificato alla crescita, solo l’Occidente moderno ne ha fatto la sua religione. Il prodotto del capitale, risultato di una astuzia o di una frode commerciale, e quasi sempre di uno sfruttamento della forza dei lavoratori, è considerato simile all’accrescimento di una pianta. Con il capitalismo l’organismo economico, cioè l’organizzazione della sopravvivenza della società, non più in simbiosi con la natura, ma attraverso un suo sfruttamento senza pietà, deve crescere in modo infinito, come deve crescere il suo feticcio, il capitale. La riproduzione del capitale/economia mettono insieme, confondendoli, la fecondità e l’accrescimento, il tasso di interesse e il tasso di crescita.
Questa apoteosi dell’economia/capitale si trasforma nel fantasma dell’immortalità della società dei consumi. È in questo modo che noi viviamo nella società della crescita. La società della crescita può essere definita come una società dominata da una economia della crescita e che tende a lasciarsene assorbire. La crescita per la crescita diventa così l’obiettivo primordiale se non addirittura l’unico dell’economia e della vita. Non si tratta più di crescere per soddisfare dei bisogni riconosciuti, cosa che sarebbe ancora positiva, ma di crescere per crescere.
La società dei consumi è l’approdo normale di una società della crescita. Ciò si basa su una triplice mancanza di limiti: una produzione senza limiti e quindi sono illimitati anche i prelievi delle risorse, rinnovabili e non rinnovabili; assenza di limiti nei consumi, e quindi anche nella produzione di bisogni e di prodotti superflui; mancanza di limiti nella produzione di rifiuti e quindi nelle emissioni di scarichi e di inquinanti (dell’aria, della terra e dell’acqua).
Per essere sostenibile e durevole, qualunque società deve porsi dei limiti. Ora, la nostra, si vanta di essersi liberata da qualunque vincolo e ha optato per la dismisura. Certo, nella natura umana esiste qualche elemento che spinge l’uomo a superarsi continuamente. Ciò costituisce insieme la sua grandezza e una minaccia. Così tutte le società, eccetto la nostra, hanno cercato di canalizzare questa capacità e di farla lavorare per il bene comune. In effetti, quando la si spende nello sport non commercializzato, questa aspirazione può non essere nociva. Viceversa, essa diviene distruttiva quando si lascia libero corso alla pulsione dell’avidità («ricercare sempre qualcosa in più») nell’accumulazione di merci e di denaro. Si deve quindi ritrovare il senso del limite per garantire la sopravvivenza dell’umanità e del pianeta. Con la decrescita, si intende uscire da una società fagocitata dal feticismo della crescita. E per questo la decolonizzazione dell’immaginario è indispensabile.
Il progetto di una società dell’abbondanza frugale
La parola decrescita indica ormai un progetto alternativo complesso e che possiede una portata analitica e politica che non può essere contestata. Si tratta di costruire un’altra società, una società dell’abbondanza frugale, una società post-crescita (Niko Paech), cioè della prosperità senza crescita (Tim Jackson). In altre parole, non si tratta di creare all’improvviso un progetto economico, fosse pure di un’altra economia, ma un progetto societario che comporta di uscire dall’economia come realtà e come logica imperialista. Ciò che viene prima è dunque la decolonizzazione dell’immaginario.
L’idea e il progetto della decolonizzazione dell’immaginario hanno due fonti principali: la filosofia di Cornelius Castoriadis da una parte e la critica antropologica dell’imperialismo dall’altra. Queste due fonti si trovano in modo molto naturale, a fianco della critica ecologica, alle origine della decrescita. In Castoriadis l’accento è posto naturalmente sull’immaginario, mentre negli antropologi dell’imperialismo riguarda la decolonizzazione. Per cercare di pensare ad una uscita dall’immaginario dominante, si deve in primo luogo riandare al modo con il quale ci siamo entrati, vale a dire al processo di economicizzazione degli spiriti che si è verificato nello stesso momento della mercificazione del mondo. Per Castoriadis, come per noi, l’incredibile resilienza ideologica dello sviluppo si fonda su una non meno stupefacente resilienza del progresso. Come lo esprime mirabilmente:
«Nessuno più crede veramente nel progresso. Tutti vogliono avere qualcosa in più nell’anno successivo, ma nessuno crede che la felicità dell’umanità consista veramente nella crescita del 3 per cento all’anno del livello dei consumi. L’immaginario della crescita è certamente sempre lì: è sicuramente il solo che resiste nel mondo occidentale. L’uomo occidentale non crede più a nulla, se non nel fatto che potrà avere presto un televisore ad alta definizione» .
D’altra parte, nell’analisi dei rapporti Nord/Sud, la forma di sradicamento di una credenza si formula volentieri attraverso la metafora della decolonizzazione. Il termine colonizzazione, utilizzato correntemente dall’antropologia antimperialista per quanto riguarda le mentalità, si ritrova nel titolo di numerose opere. Ad esempio, Serge Gruzinski pubblica, nel 1988, La colonizzazione dell’immaginario, il cui sottotitolo evoca anche il processo di occidentalizzazione.
Con la crescita e lo sviluppo, si tratta proprio di avviare un processo di conversione delle mentalità, quindi di natura ideologica e quasi religiosa, diretto a fondare l’immaginario del progresso e dell’economia, ma la violazione dell’immaginario, per riprendere la bella espressione di Aminata Traorè, rimane simbolica. Con la colonizzazione dell’immaginario in Occidente, noi abbiamo a che fare con una invasione mentale di cui noi siamo le vittime ma anche gli agenti. Si tratta ampiamente di una autocolonizzazione, di una servitù in parte volontaria.
La decolonizzazione dell’immaginario comporta quindi all’inizio, ma non soltanto, un cambiamento della logica o del paradigma, o, ancora, una vera e propria rivoluzione culturale. Si tratta di uscire dall’economia, di cambiare i valori, e quindi, in qualche modo, di disoccidentarsi. E precisamente il programma sviluppato nel progetto sul dopo sviluppo dei «partigiani» della decrescita. Il problema dell’uscita dall’immaginario dominante o coloniale, per gli antropologi antimperialisti, come per noi, è una questione centrale, ma molto difficile, perché non si può decidere di cambiare il proprio immaginario, e ancora meno quello degli altri, soprattutto se essi sono «dipendenti» dalla droga della crescita. La cura di disintossicazione non è completamente possibile fino a quando la società della decrescita non è stata realizzata. Si dovrebbe preliminarmente essere usciti dalla società dei consumi e dal suo regime di «cretinizzazione civica», cosa che ci blocca dentro un cerchio che occorre rompere.
Denunciare l’aggressione pubblicitaria, oggi veicolo dell’ideologia, costituisce certamente il punto di partenza della controffensiva diretta a uscire da ciò che Castoriadis chiama «l’onanismo consumistico e televisivo». Il fatto che il giornale La décroissance sia edito dall’associazione Casseurs de pub , distruttori della pubblicità, non è certamente dovuto al caso poiché la pubblicità costituisce una forza essenziale nella società della crescita, e il movimento degli obiettori della crescita è largamente e naturalmente connesso con la resistenza all’aggressione pubblicitaria.
Infine, la decrescita non è l’alternativa, ma una matrice di alternative che riapre l’avventura umana a una pluralità di destini e lo spazio della creatività sollevando la cappa di piombo del totalitarismo economico. Si tratta di uscire dal paradigma dell’homo oeconomicus o dell’uomo a una dimensione di Marcuse, principale fonte dell’uniformatizzazione planetaria e del suicidio delle culture. Ne consegue che la società della a-crescita non si affermerà nello stesso modo in Europa, nell’Africa a sud del Sahara, oppure in America Latina, nel Texas e nel Chiapas, nel Senegal e nel Portogallo. Ciò che importa è favorire o ritrovare la diversità e il pluralismo. Non si può dunque proporre un modello chiavi in mano di una società della decrescita, ma solamente un abbozzo degli elementi fondamentali di qualunque società non produttivista sostenibile e degli esempi concreti di programmi di transizione.
Di sicuro, come in tutte le società umane, una società della decrescita dovrà organizzare la produzione necessaria per la sua vita e a questo scopo dovrà utilizzare in modo ragionevole le risorse offerte dal proprio ambiente e consumarle attraverso la realizzazione di beni materiali e di servizi, ma un pò come le società dell’abbondanza dell’età della pietra, descritte da Marshall Salhins, che non sono mai entrate nell’epoca dell’economia. Essa non lo farà costretta nel busto di ferro della rarità, dei bisogni, del calcolo economico e dell’homo oeconomicus. Queste basi immaginarie dell’istituzione dell’economia devono anche essere rimesse in discussione. Come aveva ben visto ai suoi tempi il sociologo Jean Baudrillard, il consumerismo genera «una pauperizzazione psicologica», uno stato di insoddisfazione generalizzato, che, egli dice, «definisce la società della crescita come il contrario di una società dell’abbondanza».
La frugalità ritrovata permette di ricostruire una società dell’abbondanza sulla base di quella che Ivan Illich definiva la «sussistenza moderna». Vale a dire »un modo di vivere in una economia post-industriale all’interno della quale le persone possono ridurre la loro dipendenza rispetto al mercato , e dove sono pervenuti proteggendo – con dei mezzi politici – una infrastruttura nella quale le tecniche e gli strumenti servono, in primo luogo, a creare dei valori d’uso non quantificati e non quantificabili dai fabbricanti professionisti di bisogni». Su questa base si è imposta l’idea che una società senza crescita che sia sostenibile, giusta e prospera non può essere che frugale.
L’abbondanza frugale quindi non è più un ossimoro ma una necessità logica. «La scelta (…), nota intelligentemente Jacques Ellul, è tra una austerità subita, ingiusta, imposta dalle circostanze sfavorevoli, e una frugalità comune, generale, volontaria e organizzata, che deriva da una scelta più di libertà e meno di consumo di beni materiali. Essa sarà legata ad un consumo diffuso di beni di base (…) una abbondanza frugale».
Se l’orizzonte di senso così definito e sintetizzato nella forma dei cerchi virtuosi delle 8R (Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocaliazzare, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare) presuppone una rottura veramente rivoluzionaria, i programmi di transizione saranno necessariamente riformisti. Di conseguenza, molte delle proposte «alternative» che non rivendicano esplicitamente la decrescita possono trovare un loro spazio. La decrescita offre così un quadro generale che da un senso a numerose lotte settoriali o locali favorendo dei compromessi strategici e delle alleanze tattiche.
Uscire dall’immaginario economico implica tuttavia delle rotture molto concrete. Si tratterà di fissare delle regole che inquadrino e limitino lo scatenarsi delle avidità degli operatori (ricerca del profitto, del sempre di più): protezionismo ecologico e sociale, legislazione del lavoro, limitazioni delle dimensioni delle imprese,ecc. E in primo luogo, la «demercificazione» di quelle tre merci fittizie (nel senso di Polanyi) che sono il lavoro, la terra e la moneta.
Il loro ritiro dal mercato globalizzato segnerebbe il punto di inizio di una reincorporazione/reincastramento dell’economico nel sociale, nello stesso tempo di una lotta contro lo spirito del capitalismo. La ridefinizione della felicità come «abbondanza frugale in una società solidale» corrispondente alla rottura creata dal progetto della decrescita presuppone di uscire dal cerchio infernale della creazione illimitata dei bisogni e dei consumi e dalla frustrazione crescente che esso comporta. L’autolimitazione è la condizione per conseguire una prosperità senza crescita ed evitare in questo modo l’annientamento della civilizzazione umana.
Conclusione
I recenti dibattiti sulla significatività degli indicatori di ricchezza, hanno avuto il merito di ricordare l’inconsistenza del prodotto interno lordo, il Pil, come indice che possa permettere di misurare il benessere, mentre costituisce il simbolo feticcio indissolubilmente funzionale alla società della crescita. Non ci si è abbastanza accorti in quell’occasione che è la stessa inconsistenza ontologica dell’economia che è messa in evidenza nello stesso momento.
Criticando il Pil, sono le fondamenta stesse della fede nell’economia o dell’eonomia come religione che vengono ridotte in pezzi. L’economia come discorso presuppone il suo oggetto, la vita economica che non esiste come tale soltanto in grazia ad essa. In effetti, quale che sia la definizione di economia politica che si è scelta, quella dei classici (produzione, distribuzione, consumo) o quella dei neoclassici (allocazione ottimale delle risorse rare di uso alternativo), l’economia esiste solo a condizione di presupporre se stessa.
Il campo specifico della pratica e della teoria perseguite non può essere delimitato se la ricchezza come l’allocazione delle risorse concernono soltanto l’economia. Garry Becker è più coerente quando afferma che tutto ciò che costituisce l’oggetto di un desiderio umano fa di diritto parte dell’economia, salvo che se tutto è economico, niente lo è. In questo caso, la quantificazione totale del sociale e l’ossessione calcolatrice che egli descrive non sono che il risultato di un colpo di mano, quello della istituzione del capitalismo come mercificazione totale del mondo. È proprio contro questo progetto di trasformazione del mondo in merci che la globalizzazione ha largamente contribuito a realizzare che intende reagire il movimento della decrescita.
Traduzione per Comune-info di Alberto Castagnola.
«Singoli Stati, come pure singoli individui, potranno certo andare in miseria, ma non di meno prevarrà, in grazia di un’insondabile provvidenza immanente, l’equilibrio generale del mercato». Il FattoQuotidiano, blog di Diego Fusaro, 1 marzo 2017 (c.m.c.)
Con le parole di Deleuze e Guattari, «le multinazionali fabbricano una sorta di spazio liscio deterritorializzato» (Mille piani), ciò che siamo soliti definire “mondializzazione”. Modelli insuperati dell’“azienda irresponsabile” (Luciano Gallino), le imprese multinazionali e delocalizzate sono ovunque e in nessun luogo: sono ovunque, allorché si tratta di trovare in ogni angolo del pianeta manodopera da sfruttare a basso costo e di vendere prodotti (secondo le due leve della delocalizzazione della produzione e dell’immigrazione di massa come nuova deportazione di masse di lavoratori da sfruttare ad libitum); e sono in nessun luogo, quando v’è da dichiarare i profitti delle vendite, da pagare le tasse e da rispettare la dignità del lavoro umano e le condizioni dell’ambiente.
Coessenziale al capitale fin dal suo momento genetico, la tendenza allo sradicamento e alla deterritorializzazione giunge a compimento, per un verso, con la mondializzazione come dinamica di riconfigurazione del pianeta come unico mercato omologato e senza distinzioni; e, per un altro, con l’instaurazione del dominio post-borghese della nuova aristocrazia finanziaria, avversa a ogni forma di vita etica radicata simbolicamente e materialmente. La cattiva universalità del mondialismo può dirsi realizzata, nell’inveramento della logica già delineata da Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni: «Il possessore di capitali è propriamente un cittadino del mondo e non è necessariamente legato a nessun paese particolare. Egli sarebbe pronto ad abbandonare il paese in cui è stato esposto a una indagine vessatoria per l’accertamento di un’imposta gravosa e trasferirebbe i suoi fondi in qualche altro paese dove poter svolgere la sua attività o godersi la sua ricchezza a suo agio».
Del resto, l’invisible hand teorizzata e magnificata da Smith non contempla alcuna territorialità o localizzazione, alcun radicamento o regionalità. Opera negli spazi globali, nelle distese virtualmente infinite del mercato denazionalizzato, poiché la sintesi spontanea degli egoismi – la nuova teodicea economica del moderno – fondata sulla moltiplicazione rizomatica degli interessi privatistici si produrrà su scala planetaria, nel piano liscio dello scambio senza frontiere e limitazioni.
Singoli Stati, come pure singoli individui, potranno certo andare in miseria, ma non di meno prevarrà, in grazia di un’insondabile provvidenza immanente, l’equilibrio generale del mercato. Si realizza così quello “sradicamento” che già Martin Heidegger – gigante oggi deriso e schernito da una tribù di pennivendoli e surfers del pensiero – aveva denunciato come cifra del tecnocapitalismo.
Caro Salzano
trovo molto bella la tua riflessione sul tema del debito pubblico e la tua “diversa visione” – rispetto a quella da me espressa - sulla quale ampiamente concordo. Il fatto è che il mio contributo era mirato a un tema specifico, come quello di che fare col nostro enorme e crescente debito pubblico, che solo in minima parte dipende dalle nuove tendenze di globalizzazione della finanza, mentre la tua riflessione affronta con coerenza il tema politico della trasformazione recente del capitalismo finanziario.
E’ molto vero che da sempre con il cosiddetto Washington consensus il paese leader del capitalismo mondiale ha imposto ai paesi in via di sviluppo, ma anche ai paesi sviluppati, ricette di politica economica che andavano contro gli interessi di questi paesi (privatizzazioni, apertura alle multinazionali e al commercio internazionale di materie prime, politiche fiscali inesistenti per compiacere le élite “compradore” e corrotte, politiche monetarie restrittive) e nel chiaro interesse del/i paesi leader. Ed è anche molto vero che, a partire dagli anni ’90, il sistema capitalistico ha sposato decisamente la dimensione finanziaria cambiando di colpo l’arena del confronto con i singoli paesi e le loro istituzioni (che aveva portato a quel compromesso fra capitalismo e democrazia che hai richiamato): la nuova arena è diventata il mondo globale in cui non esistono istituzioni legittimate dai popoli, quelle poche che esistono sono deboli e ampiamente controllate, le regolamentazioni finanziarie praticamente inesistenti. Solo dopo la catastrofe della crisi del 2008, determinata totalmente dalle pratiche truffaldine e opache della finanza ed enfatizzata dalla somiglianza dei criteri di azione dei software con cui i titoli vengono scambiati internazionalmente, gli Stati Uniti hanno varato strette regole (interne) di comportamento per le banche e le istituzioni finanziarie, che tuttavia Trump sta iniziando ad azzerare.
Mentre occorrerebbe una forte solidarietà politica internazionale per redigere le nuove regole valide per tutti (come Joseph Stiglitz non smette di raccomandare), nuovi governi di destra minacciano di costruire nuovi paradisi fiscali per la finanza (il Regno Unito della May). E i nuovi irresponsabili populisti europei (Marine Le Pen) e nostrani (Salvini e Grillo), minacciando o invocando l’uscita dall’euro vanno approntando tappeti rossi alla speculazione finanziaria internazionale che, attraverso le inevitabili drastiche svalutazioni delle monete nazionali che seguirebbero, si impossesserebbe con un pugno di dollari delle ricchezze, finanziarie e immobiliari, degli italiani.
Ma vengo al punto su cui le nostre visioni divergono. Tutto quello che ho detto, e che tu hai detto meglio, non c’entra niente col nostro debito pubblico e con le nostre banche. Queste ultime hanno fatto certo “operazioni speculative sbagliate o addirittura criminose”, le più grandi lanciandosi nella finanza immobiliare e nella finanza (politicizzata) degli anni del boom dell’inizio del secolo senza la necessaria competenza e correttezza (e per questo hanno pagato con la perdita di due terzi, in media, del loro capitale e con le attuali ricapitalizzazioni forzate), e le piccole e medie banche con truffe non diverse da quelle dei “furbetti” romani, pagando nello stesso modo fino al quasi azzeramento del loro capitale. Lo stato sta salvando queste ultime dal fallimento, ma il supporto non è destinato ai precedenti padroni o ai manager corrotti che sono indagati dalla magistratura, ma al mantenimento delle aziende e dell’occupazione; come nel caso americano, in cui le grandi banche hanno finito in questi mesi di restituire allo stato gli aiuti elargiti da Obama, così pure questi supporti dovranno essere ripagati dalle nuove gestioni (e su questo in genere nel dibattito non si fa chiarezza). Ma tutto ciò, come dicevo, non c’entra niente col debito pubblico italiano, cresciuto a dismisura per la facile disponibilità dei governi a far pagare alle generazioni future (che sono quelle di oggi) i compromessi e le elargizioni del passato. Non siamo tenuti a rimborsare i soldi che il nostro sistema bancario ha perso “per colpa sua”, ma i nostri debiti: per questo ho detto che “prendersela col debito è scorretto” (e anche rischioso, se qualche politico di livello nazionale dovesse accodarsi pubblicamente a questa “sparata”, come dici tu).
Come ho detto nel mio articolo, la soluzione al problema del debito sta, almeno in parte, in una forte tassazione una tantum dei grandi patrimoni: una misura di equità fiscale, che non genera caduta dei consumi e della domanda e che sarebbe internazionalmente apprezzata. Ma Renzi non ha mai voluto sentir parlare di tasse!
Riferimenti
L'articolo di Camagni fa seguito a un documento del CADTM, alla replica critica di Roberto Camagni e al successivo intervento di Edoardo Salzano,