La Repubblica, 7 luglio 2015
Il casus belli sono 7 colonne dell’edificio eretto il 75 d.C. da Vespasiano. Torneranno in piedi sotto i tendoni del cantiere della Blasi srl su via dei Fori imperiali. E il 21 aprile, Natale di Roma, due “monoliti” sono stati già mostrati «in fase di premontaggio», precisa l’autore del progetto, l’ingegner Mario Bellini. Poi la sospensione dei lavori, per il palco del 2 giugno, che dovrebbero essere ultimati «entro la fine dell’estate».
Avverso all’erigenda macchina è però, tra gli altri, il pool di studiosi dell’associazione Bianchi Bandinelli che, spinta dall’architetto Sandro Maccallini, promotore della campagna contro questa ricostruzione («il pericolo — dichiara — è che questo tipo di anastilosi, di falso, diventi un modello su tutto il territorio nazionale»), ha visitato il cantiere delle polemiche. E, dopo il sopralluogo, spara contro le colonne a palle incatenate. «Per costruire le nuove basi in cemento hanno distrutto quelle antiche», attacca l’ingegner Salvatore d’Agostino, strutturista della Federico II di Napoli: «Stanno praticando un foro nei blocchi di granito per sostenere le strutture con pali di acciaio. Ma così si violano i principi di integrità e di autenticità: il colonnato diventa un fenomeno da baraccone». E l’ex soprintendente di Salerno, l’archeologa Giuliana Tocco, gli è accanto: «Sembra di essere tornati agli anni Sessanta, l’apoteosi del cemento che poi abbiamo capito quanti danni abbia invece prodotto. E poi si nega il principio di reversibilità, fondamentale in ogni restauro». Stesso tono di Pietro Guzzo, per anni a capo della soprintendenza di Pompei: «Le basi in cemento armato che devono sostenere le colonne ricostruite? Impossibile rimuoverle. Né mi riconosco in questa smania per la cosiddetta valorizzazione: davanti a tanti resti che hanno bisogno di cure, spendiamo fondi in operazioni di pura immagine».
Il ri-innalzamento delle 7 colonne della discordia viene difeso invece a spada tratta da Francesco Prosperetti, soprintendente all’archeologica di Roma. «Le basi in cemento e i perni in acciaio sono necessari perché rispondono alle nuove leggi in materia di sicurezza antisismica, altrimenti l’anastilosi non si può fare», rimarca l’architetto.
Ma lo studioso che ha messo per primo il sigillo sul progetto è il responsabile dei Beni culturali comunali, Claudio Parisi Presicce. «Le polemiche sono sollevate da una parte della comunità scientifica che vuole lasciare l’antichità allo stato di rovina, di rudere» taglia corto l’archeologo. Che poi entra nel merito: «È vero che è stato praticato un foro centrale del diametro di 8 centimetri, ma le statue antiche non si perforano forse allo stesso modo per inserire i perni che le sostengano? ». Né importa se pochi sono i pezzi originali superstiti: «Per l’anastilosi è sufficiente che siano i due quinti».
E il cemento che viene impiegato nelle colonne non viola il principio della reversibilità? «Per le integrazioni — spiega stavolta l’ingegner Bellini — usiamo una malta di riscostruzione, una pietra artificale che si intonerà con i colori originari del granito, del marmo lunense e del travertino. Uno strato di calce fa sì che essi non entrino in contatto con il cemento: la reversibilità è assicurata».
Infine, alla domanda perché mai spendere 665.900 euro quando i resti delle colonne potevano restare a terra e la ricostruzione affidarla alla tecnologia virtuale e luminosa di un Piero Angela, Parisi Presicce dichiara sorprendentemente: «La condizione migliore per conservare quei blocchi di granito è riportarli nella posizione originaria, che è verticale. Ricevono più danni a restare sdraiati a terra ». Dopo le prime sette, una selva di colonne potrebbe riconquistare la posizione eretta nel cuore di Roma.
La Repubblica, 27 giugno 2015, con postilla
IL GOVERNO del patrimonio culturale italiano versa oggi in uno stato confusionale. Come in molti avevano previsto, l’applicazione della riforma Franceschini (pur non priva di moventi condivisibili) rischia di dare il colpo di grazia al corpo, già provatissimo, delle soprintendenze e dei musei italiani.
Il punto più critico riguarda la rigida e meccanica «separazione della funzione di tutela da quella di fruizione/valorizzazione» (così l’ultima circolare della Direzione Mibact per l’Organizzazione): che è come la separazione tra la circolazione sanguigna e i muscoli di un corpo. Gli effetti più gravi di questo ideologico smembramento riguardano il destino dei musei confluiti nei Poli regionali: cioè di tutti tranne che dei venti supermusei, i quali peraltro aspettano ancora i superdirettori che avrebbero dovuto essere nominati entro maggio.
La ratio della riforma, come fu pensata dalla commissione Bray (della quale faceva parte anche chi scrive), era quella di consentire una vera autonomia, in primo luogo culturale e dunque anche ammi-nistrativa, ad alcuni grandi musei: per farli diventare veri istituti di ricerca e di redistribuzione della conoscenza. Ma la creazione parallela dei Poli museali regionali ha invece generato il caos. Questi contenitori omnibus tengono insieme musei di rilevanza mondiale (si pensi alla Pinacoteca Nazionale di Siena) con piccolissimi siti (come il Castello di Lerici), e mescolano musei storico-artistici a musei di antichità, staccando questi ultimi dalle soprintendenze archeologiche. L’unico criterio seguito è quello, brutalmente burocratico, della bigliettazione: se si paga è «valorizzazione», e dunque si va nel calderone dei Poli, se non si paga è tutela, e dunque si rimane nelle soprintendenze. Prendiamo il caso cruciale dell’archeologia: a chi devono essere assegnate, per esempio, le cassette colme di materiali di scavo non ancora studiati e inventariati? Devono rimanere alle soprintendenze, come vorrebbe il buon senso, o confluire in piccolissimi siti museali spesso senza personale archeologico?
Ma anche i supermusei si troveranno alle prese con l’assurdo divorzio tra tutela e valorizzazione. Il futuro direttore degli Uffizi — pur essendo uno storico dell’arte (sempre che alla fine non sia scelto tra i “manager” collegati alla politica: ipotesi che per ora va ricacciata nel novero degli incubi) — non potrà decidere né il restauro né il prestito di un suo dipinto senza il benestare della Soprintendente di Firenze: che è una architetto. Né potrà usare come meglio crede il personale del proprio museo, farcito di custodi col dottorato di ricerca, cui però è proibito alzarsi dalla obsoleta sedia di sorveglianza. E dunque, nonostante tutto, non sarà ancora un vero direttore.
Si aggiunga il fatto che passano di mano «gli immobili e i mobili», ma non li segue il personale: le risorse umane vengono assegnate ai Poli museali in via transitoria e provvisoria. E per le fondamentali strutture (come i laboratori fotografici e quelli di restauro) si resta in attesa di un «piano di razionalizzazione »: che è difficile da partorire perché se è arduo smembrare (o accorpare: come nel caso delle nuove soprintendenze miste, che infatti non decollano) organismi complessi, è davvero impossibile farlo a costo zero. Caratteristica, questa ultima, che è l’irredimibile peccato originale della riforma.
Si sta rivelando critico anche il rapporto tra i nuovi segretariati regionali e i soprintendenti: perché i primi tendono a intendere il proprio ruolo come quello dei vecchi direttori regionali, e dunque a intervenire nelle autonome scelte dei secondi. E questi ultimi, già privati della valorizzazione, rischiano di essere di fatto svuotati da ogni funzione. Certo, potrebbero dedicarsi finalmente alla tutela del territorio: difendendolo, per esempio, dalla cementificazione selvaggia. Ma lo Sblocca Italia, e ora la riforma Madia della Pubblica Amministrazione, che in questi giorni approda in commissione, impongono il silenzio-assenso, togliendo di fatto l’ultimo compito alle morenti soprintendenze. Sarà un caso, ma è stato Matteo Renzi a scrivere che «sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia».
Huffington Post, 24 giugno 2015
Mentre leggete questo articolo, sfrecciano sulla vostra testa aerei carichi di Caravaggio e Botticelli: mai la definizione di patrimonio artistico mobile è stata presa alla lettera come oggi, quando si stima che ogni anno (e solo in Italia) vengano movimentati circa 15.000 pezzi archeologici e circa 10.000 opere d'arte dal Medioevo all'Ottocento. Ma dove va tutto questo ben di Dio? Alle mostre, naturalmente: nell'ultimo anno per il quale esistono dati attendibili (2009) in Italia se ne sono inaugurate 225 di arte antica, alle quali bisogna aggiungerne 365 di arte dell'Otto e del primo Novecento, 73 di archeologia e 96 di architettura. E senza contare l'imbarazzante bazar dell'arte italiana che è stato messo in piedi nel serraglio dell'Expo di Milano. Sono molti i motivi per i quali dovremmo avere seri dubbi su questa sarabanda: uno è che gli effetti di questo moto perpetuo sulla conservazione delle opere saranno misurabili quando forse sarà troppo tardi.
Un altro è che si tratta di un'industria che genera profitto privato a spese di un patrimonio pubblico. Ma forse il più serio è che siamo di fronte alla più grande operazione di rimozione del contesto mai messa in atto. Tanto che nel senso comune è ormai ovvio che esistano due turismi di massa: quello delle persone e quello delle opere d'arte. E oltre ai problemi che ciò pone sul fronte della conoscenza, ce n'è uno anche più serio sul fronte della democrazia: anche nel patrimonio culturale siamo sempre più clienti, sempre meno cittadini. Come si può provare ad invertire la rotta? Sarebbe urgente che il Ministero per i Beni Culturali italiano si desse regole più serie, e che il vaglio della qualità delle mostre fosse più rigoroso. Ma la pressione degli interessi economici e la debolezza culturale del Mibact inducono a credere che questo non avverrà. E, d'altra parte, la vera battaglia contro un simile modello commerciale si deve combattere sul piano culturale, non su quello dei divieti. E non in nome di tabu cattedratici, ma mostrando l'attualità e la forza di un modello alternativo.
Un modello come quello della filosofia Sloow Food, per esempio. Carlo Petrini ha raccontato più volte l'aspirazione contestuale di Sloow Food: non "la gastronomia nelle asettiche cucine di lusso delle città", ma la frequentazione dei contadini, degli osti e dei vignaioli "a casa loro". Bisognava attuare l'idea di Luigi Veronelli, che parlava di "camminare le osterie", "camminare le cantine": e da lì "camminare la terra", "camminare le campagne". Insomma: "bisognava rompere la gabbia", e riconquistare il nesso essenziale con la salubrità di aria, terra, acqua, con la memoria e la storia, con la salvaguardia del paesaggio. Non sono parole e valori ignoti alla tradizione della storia dell'arte: anzi, le appartengono da sempre. Ma oggi dobbiamo avere l'umiltà di reimpararli da chi ha saputo, più degli storici dell'arte, parlare al nostro tempo. Perché c'è urgente bisogno di "rompere la gabbia" degli eventi, e di ricominciare a "camminare il patrimonio". Come farlo, in concreto? Per esempio, adottando il paradigma del "chilometro zero".
Nessuno di noi è stato educato a guardarsi intorno, a considerare il rapporto con l'arte del passato un fatto quotidiano. Per farlo bisogna costruire e condividere un modello sostenibile di rapporto con il contesto che abitiamo: con lo spazio pubblico monumentale, che è il vero capolavoro della storia dell'arte italiana. Invece di andare a vedere una mostra che si intitola "Tuthankamon Caravaggio Van Gogh" (è il successo annunciato per il 2015), potremmo camminare per quindici minuti nella nostra città (per esempio andando al lavoro), accorgendoci finalmente di ciò che ci circonda: un palazzo, una cappella, anche solo un portale o un'epigrafe memoriale, un albero secolare, semplici frammenti del passato inglobati dal tessuto moderno. E sculture e quadri, naturalmente: perché in Italia i quadri (anche quelli di Caravaggio) stanno ancora nelle chiese (quando non sono in mostra, beninteso).
Potremmo iniziare a "camminare" il fitto tessuto artistico delle nostre città: ricominciare a leggere una bellezza le cui chiavi ci sono scivolate di mano. Questo consumo culturale consapevole, spontaneo e non organizzato potrebbe indurci a scegliere di non entrare, diciamo per un anno, in nessun evento per cui occorra pagare un biglietto. Una simile astensione dall'industria culturale - ormai insostenibile - ci farebbe immediatamente vedere l'enorme patrimonio cui possiamo accedere gratuitamente: il "patrimonio storico e artistico della nazione italiana" (art. 9 della Costituzione), che manteniamo con le nostre tasse. E non sarebbe certo un risultato irraggiungibile, se solo le amministrazioni locali, le soprintendenze, le società di servizi e gli editori si convincessero che un monumento può avere il successo di una mostra. Allora si potrebbe mettere al servizio del patrimonio artistico monumentale e permanente una parte anche minima dell'onnipotente marketing che oggi vende con tanto successo l'effimero e l'inesistente. Naturalmente questa presa di coscienza dovrebbe cominciare a scuola: dove si studia, invece, sempre meno storia dell'arte. Se i ragazzi fossero messi in grado di prendere coscienza del luogo che dà forma alla loro vita, se avessero il desiderio e gli strumenti per farlo, per così dire, in automatico, e quotidianamente, sarebbe un successo strepitoso: anche se non sapessero nulla di Tuthankamon, Caravaggio o Van Gogh. Ribaltiamo il modello mainstream: prendiamo tutto il tempo che avremmo speso in manifestazioni 'culturali' a pagamento e dedichiamolo a visitare luoghi culturali gratuiti, e possibilmente a chilometro zero, cioè presenti sui nostri itinerari quotidiani. Una simile scelta equivale ad aprire gli occhi: ad accendere la luce nella casa in cui abitiamo al buio perché mai abbiamo avuto il desiderio di vederla. Ed equivale anche ad essere cittadini, e non clienti; visitatori e non consumatori; educatori di noi stessi e non contenitori da riempire.
Ma accanto al "km zero" della piccola patria ci vuole l'ambizione di conoscere, direttamente e profondamente, la grande patria europea. E perché questo accada davvero c'è bisogno di un segnale molto forte, di un accordo europeo per invertire la rotta. La proposta, dunque, è la seguente: i governi dell'Unione europea dovrebbero firmare un accordo per sospendere per (diciamo) cinque anni i prestiti delle opere d'arte tra i rispettivi musei. Ma questa è solo la prima parte della proposta, quella negativa. La seconda, costruttiva, è che quell'accordo preveda di destinare tutti i fondi pubblici (centrali, locali, museali) che sarebbero stati spesi nelle mostre ad un fondo europeo per incentivare viaggi di cittadini europei tra i 18 e i 25 anni, vincolando i giovani viaggiatori a itinerari che includano visite ai musei e al patrimonio culturale monumentale, dove li aspetterebbe una campagna di comunicazione a loro rivolta. Una specie di Grand Tour popolare, e finanziato dall'Unione, che ribalti il paradigma dominante: e cioè che sostituisca ai viaggi delle opere i viaggi dei cittadini. Un modo per rispettare il patrimonio, ma soprattutto per ridare al patrimonio culturale europeo la sua funzione fondamentale: formare europei del futuro che abbiano un senso vivo dell'identità collettiva europea fondata sulla cultura. Ritornare a camminare l'Europa per costruire più Europa.
Il business immaginato dagli uomini d’affari passa per la proposta di mostre all’estero, e a rotazione, di lotti della collezione allestita nel corso dell’Ottocento dai banchieri che diedero la propria villa sulla Nomentana a Mussolini. I Torlonia non confermano i contatti con il sedicente trust americano. Ma dell’affaire è venuta a conoscenza Italia Nostra, che ha allertato il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. L’associazione rivela che il ministero ha confermato la «concretezza delle voci sull’offerta di alienazione» della collezione. Ma che ha anche annunciato che «prenderà tutte le contromisure» affinché il piano naufraghi. Quelli che autorevoli fonti del Collegio romano definiscono “faccendieri senza scrupoli”, avrebbero «millantato rapporti con la fondazione Getty di Malibu, di cui si spacciano come referenti, pur di convincere i Torlonia ». Il ministero è convinto che gli stessi proprietari non sarebbero disposti a cedere alle lusinghe della milionaria offerta di vendita, impossibile da contrastare in sede di diritto di prelazione. Ma per non correre rischi gli uffici legali del ministero già sventolano il vincolo al territorio italiano.
Una trasformazione inaccettabile: ridurre un grande e bel giardino dedicato alla memoria e alla natura, del quale persone grandi e piccole possano godere, in un qualsiasi parco pubblico, peraltro assai bruttino . Un appello da sottoscrivere in tanti
È motivo d’orgoglio per Milano e per l’Italia che esista al Monte Stella, parco pubblico apprezzato dagli abitanti del quartiere QT8 e meta verde di tutti i cittadini, il Giardino dei Giusti. Qui il richiamo alla memoria ben si sposa con la serenità del luogo e con la storia e lo spirito da cui ha avuto origine il Monte Stella: un sacrario civile costituito dalle macerie della città devastata dai bombardamenti. Il progettista, Piero Bottoni, lo ha pensato come oasi di pace, monito contro l’orrore della guerra. Ed è per la preziosità e il senso profondo di questo luogo che esprimiamo al Comune di Milano allarme per un progetto che, sotto la definizione fallace di riqualificazione, rischia di compromettere questi valori che ben si integrano con la bellissima iniziativa del Giardino dei Giusti.
Come risulta dal rendering allegato, l'impatto sarebbe violento: verrebbero costruiti muri, totem, pareti metalliche e un anfiteatro, tradendo la natura stessa del giardino, fatto di alberi e di cippi, togliendo armonia al suo inserimento nel contesto e aprendo la strada a usi impropri e a un possibile degrado.
Sullo stravolgimento del luogo ha già espresso parere negativo, tramite una lettera inviata a due assessori della Giunta, la Sovrintendenza alle Belle Arti e Paesaggio. Una presa di posizione che oltretutto è in linea con la richiesta di un Vincolo ambientale per il QT8 e il Monte Stella, avanzata alla Soprintendenza dallo stesso Comune di Milano.
Ci appelliamo al Sindaco e alla Giunta di Milano perché il Giardino dei Giusti non diventi un ingiusto giardino, ma conservi il suo spirito e senso più veri.
Giancarlo Consonni, condirettore dell'Archivio Bottoni del Politecnico di Milano
Graziella Tonon, condirettore dell'Archivio Bottoni del Politecnico di Milano
Lodovico Meneghetti, già ordinario di urbanistica, Politecnico di Milano
Jacopo Gardella, architetto, Italia Nostra
Giuliana Parabiago, direttrice di Vogue Bambini e Vogue Sposa
Vivian Lamarque, poetessa
Anna Steiner, architetto
Franco Origoni, architetto
Erminia dell’Oro, scrittrice
Paolo Maddalena, vice presidente emerito della Corte Costituzionale
Alberto Mioni, già ordinario di Urbanistica, Politecnico di Milano
Paolo Berdini, urbanista, membro del Consiglio nazionale del Wwf
Cesare De Seta, già ordinario di Storia dell’architettura, Università Federico II di Napoli
Salvatore Settis, accademico dei Lincei
Emanuele Banfi, presidente della Società Linguistica Italiana
Fulvio Papi, emerito di Filosofia, Università di Pavia
Edoardo Salzano, direttore di Eddyburg
Carlo Bertelli, già soprintendente per i beni artistici e storici
Francesco Borella, architetto, progettista e ex direttore del Parco Nord Milano
Piero Bevilacqua, ordinario di Storia contemporanea, Università La Sapienza di Roma
Per aderire inviare un messaggio a Enrico Fedrighini
enrico.fedrighini@polimi.it
Il contrabbando è solo il più marginale e pittoresco dei lati oscuri del ciclo della pietra. L’economia estrattiva è notoriamente fondata sullo sfruttamento semigratuito di risorse comuni – non a caso “estrazione” è una metafora ricorrente nelle descrizioni del capitalismo contemporaneo, estesa alla sfera della conoscenza e dei beni immateriali –, ma pone anche problemi di inquinamento delle falde e dell’aria, implica una trasformazione radicale del paesaggio, crea vuoti che possono essere riempiti nei modi più rischiosi e inopportuni. Più in architettura si fa ricorso alla pietra per le sue qualità estetiche e naturali, più si inasprisce la battaglia sugli effetti della sua produzione.
Certo, oramai è impossibile non cogliere la bellezza lunare delle cave dismesse di tufo o di travertino, o non citare progetti spettacolari come lo stadio di Souto de Moura incastonato in un’ex cava a Braga e le prospettive autostradali di Bernard Lassus sulle cave di Crazannes, oppure i tanti parchi e teatri all’aperto, come quello di Fantiano a Grottaglie progettato dallo studio Donati-D’Elia Associati. E anche i più reazionari dovranno riconoscere che per paesaggio non si intende oggi solo quello forgiato dalla Natura matrigna, ma anche quello antropizzato, manipolato dall’uomo e dall’industria. Ma i bei progetti e i siti incantati sono una minoranza rispetto al numero totale delle cave dismesse. E in un paese come l’Italia, dove esistono 5600 cave attive e 16000 fuori uso, sarebbe impensabile ricorrere in modo massiccio a delle soluzioni così sofisticate e individualizzate: sarà meno sexy agli occhi di architetti e paesaggisti, ma per il momento garantire uno standard di puro recupero ambientale (bonifica, riempimento, rinaturalizzazione o ripristino dell’attività agricola) è di gran lunga più urgente.
La qualità estetica del paesaggio di cava dipende dalla posizione geografica, dalla tecnica di estrazione e molto dal tipo di materiale estratto: è più probabile che le coltivazioni di pietre ornamentali offrano una vista migliore. In Italia solo il 6,6% delle cave appartiene a questa categoria. Il resto (80 milioni di metri cubi l’anno) è quasi tutto calcare, sabbia e ghiaia, e segue il ciclo brutale del cemento, che aggredisce colline e pianure, paga canoni di concessione irrisori e rivende a prezzi altissimi: il rapporto tra le due cifre su scala nazionale è 35 milioni contro un miliardo di euro, il 3,5%. In un campo come questo l’estetica e l’ecologia sono tenuti in nessun conto, e nelle regioni dove i controlli sono meno stretti o le leggi meno definite non viene quasi mai fatto il minimo intervento di ripristino ambientale o bonifica. E il fenomeno più grave è la quasi totale assenza di riciclo dei materiali: gli altri paesi Europei riciclano dal 30 al 90% dei materiali inerti, l’Italia butta il 90% in discarica, appesantendo il già emergenziale sistema dei rifiuti.
Tuttavia la differenza tra la Cementir che sventra i monti Tufatini nel Casertano e i cavatori di Carrara o del Veneto è meno rilevante di quello che potrebbe sembrare, e ha a che fare più con lo storytelling che con la sostanza. Le favolette su Michelangelo, sul rapporto equilibrato uomo-pietra, sull’azione paziente e metodica che il lavoro produce sul paesaggio, quasi lo modellasse in scultura, sull’indotto della lavorazione artigianale, coprono una realtà che erode le montagne, taglia le vette, concentra i profitti nelle mani di pochissimi privati, rende pochissimo alle istituzioni pubbliche, e di lavoro ne offre ormai poco e niente, un decimo rispetto agli anni Sessanta. Gli stessi lobbisti del settore ammettono che la pressione del mercato cinese e mediorientale ha sballato i prezzi e convoglia i blocchi grezzi verso porti lontani, dove la lavorazione costa molto meno. Il recente passaggio del 50% della proprietà di una parte consistente delle cave carraresi nelle mani della famiglia Bin Laden mette in chiaro che i soldi finiscono più all’estero che sul territorio, secondo un modello comune a molte piantagioni intensive sudamericane o miniere africane, per intendersi.
Nella selva legislativa che governa le cave italiane, dove ogni regione si regola in un modo diverso e l’ultima legge unitaria risale a un decreto regio del 1927, la battaglia appena conclusa per l’approvazione del Piano paesaggistico della Toscana rappresenta un passaggio fondamentale. Il piano prevede dei vincoli precisi, come il divieto ad aprire nuove cave oltre i 1200 metri per non alterare lo skyline delle Apuane, il raddoppio dei canoni di concessione e l’obbligo di lavorare in loco una certa percentuale di marmo, per incentivare la filiera produttiva. Ha preso politicamente in carico le istanze degli abitanti e dei comitati presenti sul territorio, e per questo motivo è stato violentemente attaccato dalle lobby dell’industria estrattiva.
Corriere della Sera, ed. Roma, 9 giugno 2015
Il Colosseo fa sempre notizia. Ma è certamente una “notiziona”, come si dice in gergo, che il ministro Dario Franceschini sia riuscito a raspare, in un bilancio massacrato da anni di tagli, 20 milioni per il ripristino nell’Anfiteatro Flavio dell’arena che tante fantasie suscita (persino di cristiani dati ai leoni lì dentro, palese falso storico). Venti milioni - mentre chiude l’Opificio delle Pietre Dure, archivi e biblioteche non hanno i soldi per le bollette, non ci sono fondi per le missioni - per un’opera molto discussa e discutibile per diversi motivi. A partire da quelli strutturali. Sotto il Colosseo infatti c’è un flusso poderoso di acque che invano dall’800 si cerca di imbrigliare e che, ad ogni alluvione, diventa inarrestabile: nel 2010, non secoli fa, l’acqua è salita sino al primo piano del monumento. Se ci fosse già stata la costosa copertura dell’arena, sarebbe saltata senza rimedio. E’ una priorità - questa dell’idraulica sotterranea - invocata dalla direttrice del Colosseo Rossella Rea, dall’architetto Piero Meogrossi che vi ha lavorato da architetto per decenni e da Adriano La Regina indimenticato soprintendente che curò nel ’92 il vero restauro strutturale dell’Anfiteatro. Quanto costa da sola quest’opera idraulica mai realizzata e, essa sì, decisamente utile?
Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2015
“Non dobbiamo pensare all’area archeologica centrale come un’area deputata solo alla fruizione dell’archeologia, ma come un pezzo di città, ricco di eventi, nel rispetto dei monumenti. I luoghi dell’archeologia sono attrattivi: sfondo ideale per realizzazioni virtuali, teatro, spettacoli, musica, arte”, spiega il soprintendente speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale romano e l’area archeologica di Roma, Francesco Prosperetti. Il tema è la sorte delCirco Massimo che, dunque, sarà ancora il contenitore per tutte le occasioni. Concerti, ma non solo.
“Non sono contrario in maniera pregiudiziale ai concerti al Circo Massimo, se ci sono dei motivi ostativi, li faremo valere al tavolo permanente con il Comune”, dice ancora Prosperetti. Chiedersi quali possano essere questi motivi è naturalmente lecito. Conoscerli al momento, impossibile. Certo è che risulta già stabilito che nel 2016 nell’area suoneranno i Coldpay, nel concerto del tour di addio della band. Insomma non sembra cambiare nulla per il luogo centrale dell’archeologia romana più utilizzato. Per finalità di ogni tipo.
Condivisibile l’idea che i pezzi di città nei quali ci sono monumenti antichi debbano uscire dal ghetto nel quale sono stati lasciati finora. Che vengano finalmente legati ai contesti esterni. Che insomma tornino ad essere patrimonio di tutti. Spazi non più da osservare dall’ “esterno”, ma da vivere dall’ “interno”. Riassemblare la città, fascendo uscire dalla loro sostanziale marginalità i luoghi dell’archeologia, è un proposito legittimo. Esito di un’idea di Roma moderna, corretto. Perché mira ad includere, realmente.
Più discutibile è invece ritenere che funzionale a questa operazione di inclusione dei luoghi dell’archeologia sia il loro utilizzo. Più incerta la tesi secondo cui sia necessario che i monumenti del passato debbano essere cornice di eventi. Insomma come sostiene il soprintendente, “sfondo ideale per realizzazioni virtuali, teatro, spettacoli, musica, arte”. L’attrattiva non si incrementa riempiendo di eventi strutture antiche svuotate dell’originaria funzione e del loro significato identitario. Semmai, ci si dovrebbe spendere perché accada il contrario. Cioè perché quei luoghi, relitti del passato, diventino poli culturali, da fruire. Nelle migliori condizioni possibili. Ovunque. Non solo nel centro, ma anche più fuori, fin dove il territorio dei municipi più esterni confina con altri comuni.
Il Circo Massimo secondo la visione delineata da Prosperetti corre il rischio di continuare ad essere un luogo neutro. Una spianata nella quale l’archeologia è confinata ad un settore. Rilevantissimo, ma esiguo. Quanto l’utilizzo indiscriminato dell’arena possa portare dei benefici all’area archeologica non è chiaro. Quanto il sacrificio di quegli spazi sia accettabile, compensato da una migliore valorizzazione dei resti antichi, incomprensibile.
“I resti del grande arco realizzato per l’imperatore Tito. Straordinario rinvenimento sovrintendenza al Circo Massimo”, ha twittato alcuni giorni fa Giovanna Marinelli, Assessore alla Cultura di Roma Capitale. Una bella notizia, a metà. Dal momento che la mancanza di fondi hanno costretto a ricoprire tutto.
Italianostra-venezia.org, 5 Giugno 2015 (m.p.r.)
(Immagine: in questa forma il Fontego non sarà più visibile date le trasformazioni al tetto che ora sono state autorizzate). Il Consiglio di Stato ha respinto l'appello di Italia Nostra contro la sentenza del TAR che considerava legittima la trasfromazione del Fontego dei Tedeschi in centro commerciale e tutte le modifiche edilizie connesse all'operazione. Il nostro appello al Consiglio di Stato era l'unica arma che rimaneva per impedire che uno storico edificio veneziano venisse deformato nella sua natura architettonica e sottratto all'uso pubblico per divenire un ennesimo centro commerciale ad uso dei turisti e a beneficio delle società proprietarie.
Avremo modo nei prossimi giorni di esaminare la sentenza e di commentarla nei dettagli. Per ora riportiamo qui il comunicato stampa con il quale il Comune dà la notizia ai media, citando alcune parole dalla sentenza. Secondo quelle parole, le deroghe concesse dal Comune ai proprietari sarebbero giustificate dalla "effettiva sussistenza dell'interesse pubblico" e dagli "effetti benefici per la collettività che dalla deroga derivano". In aggiunta, il Consiglio ritiene che i sacrifici per l'immobile siano "minimi" mentre l'edificio verrebbe "restituito alla città con la destinazione originaria del 1500, che era proprio quella commerciale". La differenza tra uso di fondaco nel 1500 e uso di centro commerciale Vuitton nel 2015 è evidentemente troppo sottile per contare qualcosa. Ritorneremo presto sull'argomento con i dettagli.
Leggi il comunicato stampa del Comune.
Riferimenti
Sulla vicenda si veda su eddyburg di Francesco Erbani L’odissea veneziana del Fontego dei Tedeschi tra pubblico e privato, di Salvatore Settis Quel centro commerciale che ferisce Venezia. La strategia di occupazione concertata (con i sindaci veneziani, da Massimo Cacciari a Giorgo Orsoni) è documentatamente raccontata da Paola Somma nel saggetto Benettown, un ventennio di mecenatismo, edito da Corte del fontego editore, nella collana "Occhi aperti su Venezia". La vicenda del Fontego dei Tedeschi è narrato, nella medesima collana, dal libretto di Lidua Fersuoch, Il nostro Fontego dei Tedeschi
Siamo tutti annichiliti dalla bestialità con cui l'Is distrugge lo straordinario patrimonio culturale dei territori che conquista. È probabilmente dalla Seconda Guerra Mondiale che l'umanità non perde monumenti così importanti.
La Repubblica, 24 maggio 2015
Sono parole che ci hanno fatto pensare che Pompei fosse un’”emergenza” (magari per giustificarne il commissariamento da parte della Protezione Civile) o un «tesoro» (che potesse legittimare faraonici progetti di luna park dell’archeologia, e speculazioni di ogni tipo). Trovare altre parole per Pompei è urgente: tanto da far accogliere con grande favore persino una mostra, nonostante che il desiderio di una moratoria assoluta delle esposizioni si faccia acutissimo nel momento in cui tonnellate (letteralmente) di opere d’arte vengono irresponsabilmente tradotte al gran bazar dell’Expo.
Ma «Pompei e l’Europa» è un’altra cosa. Perché dietro c’è un solido progetto culturale e scientifico: un primo frutto intellettuale del governo affidato al generale Giovanni Nistri (direttore del Grande Progetto Pompei) e all’archeologo Massimo Osanna, soprintendente e ora curatore di questa mostra insieme alla storica dell’arte Maria Teresa Caracciolo e allo storico dell’architettura Luigi Gallo.
La mostra non vuole sciorinare i “capolavori” restituiti dalla terra che copriva Pompei, né esserne una sostituzione, un succedaneo commerciale da far girare per il mondo (come è invece accaduto anche molto di recente). È, invece, un invito a ritornare nelle strade della città antica, o ad andarci per la prima volta: ma vedendola attraverso gli occhi dei pittori, degli architetti e degli scrittori europei che la amarono dal tempo della sua scoperta, alla metà del Settecento, fino al terribile bombardamento del 1943. Nel 1839 l’architetto tedesco Johann Daniel Engelhardt affermava che «un giovane architetto dovrebbe assolutamente visitare Pompei, anche se questa si trovasse in Giappone». Visitare la mostra significa ritrovare le parole con cui l’Europa, per due secoli, ha parlato di Pompei: per poterle ritessere in un discorso nuovo.
La prima di queste parole è «contesto». Nel 1747 fu il grande antiquario veronese Scipione Maffei a intuire perché la scoperta di Pompei fosse un evento fuori scala: «O qual grande ventura de’ nostri giorni è mai che si discopra non uno ed altro antico monumento, ma una città!». Riavere Pompei significava conoscere l’antichità non attraverso una somma di oggetti disparati, ma poter camminare, respirare in una città antica “resuscitata”. Ci volle un secolo, e il genio di Giuseppe Fiorelli, perché questo diventasse possibile: ma intanto Pompei aveva fatto capire che il patrimonio culturale è una rete di relazioni che va conosciuta tutta intera. Quando, cinquant’anni dopo, Napoleone smontò il contesto vivo dell’arte italiana per portarne il fior fiore al museo imperiale del Louvre, un grande intellettuale francese — Antoine Quatremère de Quincy — gridò che «il paese stesso è il museo... senza dubbio non crederete che si possano imballare le vedute di Roma!». Era la lezione di Pompei: una lezione che oggi abbiamo dimenticato.
La seconda parola, tutt’altro che banale, è «conoscenza». Di fronte alle lettere in cui il grande Winckelmann denunciava gli errori delle autorità napoletane, tutta l’Europa colta — la Repubblica delle Lettere, come si diceva allora — rivendicò la sovranità della conoscenza contro quella giuridica della dinastia borbonica: Pompei apparteneva a tutti coloro che la volevano conoscere. Ancora oggi è urgente chiedersi “di chi è Pompei”, e ancora oggi è rivoluzionario rispondere che è di chi la studia, aprendone a tutti la conoscenza.
Un’altra parola terribilmente urgente è «lavoro». Il 20 dicembre del 1860 il grande soprintendente Giuseppe Fiorelli (l’inventore del nuovo metodo per ottenere i celeberrimi calchi dei corpi dei pompeiani: calchi restaurati, e resi nuovamente visibili, in occasione della mostra) annota di aver scritto ai «sindaci dei comuni vicini, onde tutte le persone bisognevoli di lavoro fossero inviate agli scavi, riservandomi di determinare il numero dei lavoratori». Quella era la manovalanza degli scavi: ma quanto lavoro — a partire da quello per i nostri famosi cervelli in fuga — potrebbe oggi dare una Pompei che torni ad essere una città aperta della ricerca!
Potrà sorprendere, ma un’ultima parola che scaturisce dalla città morta è «politica». Nel 1848 «i custodi delle rovine di Pompei, usati a vivere taciturni tra gli squallidi avanzi di un popolo che da 18 secoli è scomparso dalla terra, hanno ivi giurato fedeltà al Re e alla costituzione con un grido che rimbombando fra queste solitudini troverà un’eco nel cuore di tutti gli italiani, della cui antica gloria, potere e indipendenza qui gelosamente conserviamo molte sacre reliquie».
Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2015
Sabato mattina intorno a Castel Sant’Angelo a Roma: mucchietti di spazzatura dispersi dai gabbiani, pantegane che saltellano e spaventano i passanti, gazebi sventrati e non ancora smontati. Per sei giorni e sei notti, le mastodontiche tribune per inaugurare la Mille Miglia hanno occupato oltre mille metri quadri in un luogo che è tappa obbligatoria per i turisti. Nonostante la rievocazione della mitologica corsa sia finanziata da multinazionali col fatturato miliardario (Mercedes, Banca Ubi, Alfa Romeo), la società ha saldato un conto più che modesto: 14.100 euro. Il sindaco Ignazio Marino ha ottenuto in assemblea un aumento tariffario, ma ancora il prezzo è molto abbordabile e accessibile per eventi
meno blasonati del transito di macchine d’epoca. Con Gianni Alemanno, per lo stesso periodo, Mille Miglia ha lasciato una mancia di 2.553 nel 2013. Marino ha ricalibrato le tariffe per sedare la polemica dopo lo scandalo degli 8.000 euro chiesti ai Rolling Stones per il concerto al Circo Massimo. La questione non è soltanto ospitare e chiedere un obolo per le Mille Miglia, ma garantire poi la pulizia e il decoro per i turisti. Non è accaduto. Quest’episodio non è l’ultimo e neanche il più eclatante: è l’Italia intera, dagli scavi di Pompei al museo degli Uffizi, a mettersi in affitto per custodire l’immenso patrimonio culturale che viene ignorato dai governi. Per restare ancora a Roma, però, va citata la moda degli
“aperitivi archeologici”. Esiste un portale che, per circa venti euro, propone ai turisti assaggi di cucina locale nei luoghi più suggestivi (e vincolati) di Roma, niente coratella o pajata, bensì stuzzichini che si possono consumare nei sotterranei domiziani di Piazza Navona, nella rinascimentale Cappella del cardinale Bessarione o nei ruderi romani al Celio.
Il circus Agonalis, lo stadio di Domiziano che risale al I secolo, fu restaurato da un mecenate che donò 1,5 milioni di euro al Campidoglio dell’allora sindaco Gianni Alemanno e così, per nove anni, lo gestisce come se fosse di sua proprietà.
La cappella e i ruderi, invece, ricadono nella giurisdizione della sovrintendenza: anche lì s’è preferito adibire i siti per visite e spuntini. Sui tavoli della chiesetta di piazza Santi Apostoli, che ospita dipinti del ’400 e conserva impronte bizantine, gli avventori possono trovare la famosa “torta alla bisbetica” che forse piaceva al cardinale. Chissà. Sempre venti euro a coperto. Ai privati. Non al pubblico, non per le casse dello Stato che mette in affitto se stesso.
I beni culturali pubblici possono essere “prestati” ai privati per merito della legge Ronchey del 1993 e del Codice dei beni culturali (2004). “Il ministero, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali – si legge – possono concedere l’uso dei beni culturali che abbiano in consegna, per finalità compatibili con la loro destinazione culturale, a singoli richiedenti”. Unica condizione: un “canone dovuto”. Quali siano “finalità compatibili” e “canone dovuto”, si decide di volta in volta. Per esempio, sabato 29 giugno l’allora sindaco Matteo Renzi concesse per un’intera serata il Ponte Vecchio di Firenze alla festa privata della Ferrari. In cambio – disse – di 120 mila euro. Anche stavolta l’erede Dario Nardella ha aumentato le tariffe per l’occupazione delle aree di interesse artistico (il costo giornaliero per metro quadro per alcune piazze storiche di Firenze è quintuplicato). Il comune ha anche reso pubblico il tariffario dettagliato dei suoi pezzi pregiati. Per organizzare un concerto nella galleria degli Uffizi, per esempio, servono 15 mila euro, per presentare un libro nello splendido museo di Orsanmichele ne bastano appena 500, mentre un convegno nella Sala Bianca della Galleria Palatina costa 2 mila. Altrove i prezzi non sono noti. Ma si affitta di tutto. Nell’estate del 2013, l’anfiteatro di Pompei è stato concesso per la modica cifra di 20.000 euro alla cena degli agenti di Fondiaria Sai. L’estate successiva la villa di Poppea di Oplontis – stessa area archeologica – è stata “prestata” a un’azienda privata per una festa con 2 mila invitati. Prezzo? Appena 5.000 euro. Il tariffario – conferma la Soprintendenza – nel frattempo non è cambiato.
Non è cambiato nemmeno quello dell’area archeologica di Segesta: il tempio del V secolo a.C. è stato concesso per alcune serate a un gruppo di facoltosi privati statunitensi. Prezzo, anche qui: 5 mila euro a sera. Il direttore Sergio Aguglia promette una gestione più sobria: “Tendenzialmente non lo concediamo”. Ma “tendenzialmente” la tariffa resta quella. Nord, centro e sud. Si affitta ovunque: il Castello mediceo di Ottaviano, ex feudo del boss Raffaele Cutolo,oggi si apre a matrimoni e mercatini invernali, i musei della Fondazione Torino – si legge sul sito – mettono a disposizione di tutti “angoli di charme per momenti indimenticabili”. E ancora: la Reggia di Venaria, la Villa Reale di Monza e così via. Basta aprire il portafogli.
La Repubblica, 14 maggio 2015
Ma come ha fatto la Deposizione ad arrivare al nostro tempo sana e salva, attraversando centinaia di torride estati romane senza climatizzazione artificiale? Semplice: in quelle epoche si seguivano i principi elementari della conservazione, e le finestre della Borghese erano protette da pesanti imposte, sempre chiuse durante le ore di insolazione estiva. Imposte eliminate alla riapertura della Galleria nel 1997, quando tutto fu affidato all’impianto: se questo non funziona, Raffaello muore.
L’attuale direttrice, Anna Coliva, ha ripetutamente chiesto alla Soprintendenza di manutenere o sostituire gli impianti: invano. Evidentemente la priorità è l’organizzazione di mostre, spesso mediocrissime. Mentre i musei non si son mai visti conferire gli introiti dei loro biglietti, promessi un anno fa da Dario Franceschini: e ora non riescono più a fare nemmeno la manutenzione ordinaria. Nella fatale attesa che sia scelto il superdirettore previsto dalla riforma Franceschini, la Borghese fa capo al Segretariato regionale dei beni culturali, retto da Daniela Porro: la quale ammette che l’impianto «non ha mai funzionato» (aggiungendo che solo ora «si sta dando avvio alla sostituzione dei macchinari », anche se presto si dovrà pensare ad una «completa sostituzione dell’impianto»), e dichiara che in base al costante monitoraggio si è sicuri che, per ora, il colore non è saltato via dal legno. Per ora. Finché la manutenzione non passerà dall’annuncio alla realtà, tutte le tavole della Borghese sono in pericolo, e viene in mente il disastro di quelle della Galleria Sabauda di Torino: rovinate nel 2012 dal malfunzionamento della climatizzazione. Allora, Enrico Castelnuovo invocò un’«associazione per i diritti delle opere d’arte». Quell’associazione sarebbe il Ministero per i Beni culturali: se non fosse un corpo morente da anni, che rischia di ricevere il colpo di grazia dalla caotica applicazione di una riforma che punta tutto sulla “valorizzazione”. Ma quale fantomatico manager potrà mai “valorizzare” un Raffaello distrutto?
Ilfatto quotidiano.it, 1° maggio 2015 (m.p.r.)
Il Museo Civico archeologico di Cirò Marina dal 9 aprile ospita, provvisoriamente, l’acrolito di Apollo Aleo, proveniente dal Museo Archeologico di Reggio Calabria ma recuperato nel 1929, durante la prima campagna di scavi nell’area archeologica di Punta Alice. Un pezzo straordinario allontanato dal suo contesto. Il santuario scavato nel 1924 da Paolo Orsi e poi, tra gli anni Settanta e Novanta, interessato da campagne di scavo e di rilievo eseguite dall’Istituto Germanico e dalla Soprintendernza archeologica della Calabria. Un edificio datato al VI secolo a.C., ma la cui attività di luogo sacro si protrasse almeno per due secoli. Santuario del quale restano per breve altezza lo zoccolo del muro perimetrale della cella e le basi del colonnato centrale e dei pilastridell’ambiente ad ovest della cella. Le condizioni di conservazione più che precarie. Con le superfici dei blocchi, quasi tutti distaccati, alveolizzate.
La musealizzazione all’aperto poco più di un’idea. Con il pannello didattico, appoggiato a terra, leggibile solo in parte. L’accessibilità all’area recintata assicurata da un cancello. Sempre aperto. Al taglio dell’erba spontanea, provvedono gli animali al pascolo. Un luogo quasi incantato. Con il mare all’orizzonte e prima il faro. Ma quasi a ridosso dell’area archeologica le strutture industriali dello Stabilimento Syndial. Un frammento di paesaggio nel quale le scelte industriali del passato continuano a mostrarsi nella loro ingombrante fisicità. Ma intanto meritoriamente si è deciso di provvedere alla risistemazione dell’area archeologica. Aggiudicata la gara di appalto per i lavori di ‘scavo, restauro e musealizzazione del santuario dedicato ad Apollo Aleo’, finanziati con fondi Por Calabria, Fesr 2007-2013 per un importo di quasi500 mila euro. Tra le misure previste anche interventi conservativi, adeguamenti funzionali e di sicurezza, oltre ad un centro polifunzionale.
“Una struttura molto flessibile, predisposta ad ogni tipo di attività artistica e culturale, darà servizi e potrà accogliere manifestazioni ed istallazioni volte a valorizzare in ogni caso il sito e il territorio in generale“, si legge nelle Relazioni tecniche generali. Mentre nelle Relazioni specialistiche si specificano luoghi e modalità delle indagini, alle quali sono da aggiungersi “scavi preventivi laddove il progetto prevede la realizzazione della struttura del punto informativo“. Insomma sembra che si sia pensato proprio a tutto. Naturalmente compresa la scelta della ditta che si occuperà dei lavori, l’impresa edile Serafina Sammarco, che ha avuto la meglio anche su società con chiare competenze nell’ambito dei Beni Culturali. Circostanza questa che potrebbe essere poco rilevante se non fosse che nella cifra complessiva a disposizione il 43,51%, pari a 212.953,85 euro, come da capitolato, sarà per lavori di scavo archeologico.
Cifra alla quale vanno aggiunti i 51.142,70 euro, pari al 10,51% dell’intera cifra, per il restauro archeologico. Eccezione questa alla quale la Relazione specialistica Scavo, restauro e musealizzazioneha pensato. Basterà fare ricorso ad “archeologi specializzati di provata esperienza che dovranno avere un curriculum vitae che dimostri un’esperienza continuativa di almeno cinque anni in cantieri archeologici diretti da Soprintendenze o Dipartimenti Universitari e … a topografi-disegnatori che dovranno avere un curriculum vitae che dimostri un’esperienza continuativa di almeno sette anni in cantieri archeologici diretti da Soprintendenze o Dipartimenti universitari“. Quindi alla mancanza di competenze specifiche l’impresa ovvierà con il coinvolgimento di professionisti che rispondano ai requisiti indicati. Ma non è tutto.
A suscitare una certa preoccupazione è il criterio stesso che ha indirizzato la scelta finale, ovvero il ribasso percentuale sulla cifra complessiva. Un 21,80%, che ha sbaragliato la concorrenza. Un ribasso lontano da quelli ben oltre il 50% registrati a Pompei, in diversi appalti per il restauro di parti della città antica. Ma in ogni caso meritevole di una giusta attenzione. Perché quel che è accaduto al teatro della città campana, restaurato impropriamente e al centro prima di ribassi e poi di rialzi praticati dalla Caccavo srl è un caso emblematico. Di come, spesso il ribasso preceda il rialzo, non di rado comportando interventi sbagliati con materiali inadeguati. Passare dall’abbandono, motivato dalla mancanza di risorse, ad un intervento inappropriato, causato da incerte competenze, sarebbe una sciagura. Che il tempio di Apollo ‘protettore del mare e della navigazione’ non merita.
Ma questa confusione tra misure ordinarie e straordinarie, per non dire quella tra effimero e stabile, non è un’invenzione del commissario Fiori: questi si è limitato a interpretare (saranno i processi a dirci se spingendosi fino al compimento di reati e alla produzione di danni all’erario) la retorica corrente della procedura di emergenza come strumento per il governo dell’ordinario. Pompei è nello stesso Paese del Mose e dell’Expo: e soprattutto nello stesso Paese dello Sblocca Italia e nel disegno di legge Madia sulla mitologica “semplificazione”. Due leggi, queste ultime, con le quali il governo Renzi ha dimostrato di non voler affatto rompere con il regime dell’emergenza: come se per “fare” (ciò che tutti vogliamo) non fosse necessario disboscare in modo razionale la giungla delle norme contraddittorie, ma fosse possibile (e anzi preferibile) aggirare le singole leggi con la figura eccezionale del commissario, o della corsia di emergenza. Durante l’audizione parlamentare preliminare all’approvazione dello Sblocca Italia, la Banca d’Italia ha inutilmente provato a mettere in guardia circa il potenziale criminogeno delle procedure eccezionali: avendo buon gioco a prevedere che l’unico frutto della legge sarebbe stata (oltre al cemento) la corruzione. E dunque i processi a Fiori saranno importanti perché potranno dimostrare, ex post e su un caso preciso ed eccellente, quanto sia necessario abbandonare questa strada, sempre contrabbandata come innovativa, e in verità già tante volte disastrosamente sperimentata.
C’è, infine, la seconda questione. Ammesso, e non concesso, che il commissario potesse fare anche valorizzazione, sfigurare un monumento per trasformarlo in “set” è valorizzazione o no? Se io fossi l’avvocato difensore di Fiori, convocherei come testimoni il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini, il presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali Giuliano Volpe e il professore di archeologia Daniele Manacorda. Che sono gli entusiastici sostenitori dell’idea di costruire arena e spalti nel Colosseo, per adibirlo a location di spettacoli di cassetta su cui lucrare i diritti televisivi. Un’idea che non solo subordina la conoscenza alla spettacolarizzazione, ma che interpreta la valorizzazione come messa a reddito, trasformandola in una scelta “politica” (la propugna il ministro, non il soprintendente) totalmente separata dalla tutela. E, anzi, potenzialmente in conflitto con quest’ultima: perché non si dica che adibire il Colosseo a luogo di spettacoli di massa sarebbe compatibile con una corretta conservazione e fruizione del monumento.
La Pompei di Fiori come laboratorio della valorizzazione-spettacolarizzazione dell’età di Renzi? È forse presto per dirlo, ma è certo che il processo contabile che si celebrerà a Napoli promette di avere un significato che trascende di gran lunga il caso specifico, pur clamoroso.
«Un impegno mantenuto e una scelta di civiltà: il ritorno della storia dell’arte e della musica nelle scuole», ha annunciato il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini. Ma in questi giorni un vasto movimento di insegnanti di storia dell'arte si chiede se le cose stiano davvero così: e a leggere il disegno di legge sulla cosiddetta Buona Scuola lo scetticisimo appare del tutto fondato.
L’Associazione dei direttori dei musei americani ha stilato una policy che fissa alcuni paletti: il più importante dei quali è che il denaro ricavato dalla vendita può essere usato solo per acquistare altre opere. E quando un museo non lo rispetta, scattano sanzioni non simboliche. Nel 2014 l’Art Museum of Delaware ha venduto un bel quadro preraffaellita per ripianare parte di un debito contratto per un’espansione edilizia: l’Associazione ha disposto una sorta di embargo in forza del quale i suoi 242 musei non hanno più alcun rapporto (di ricerca o di prestiti) col museo “colpevole”. Misure forti, ma certo non capaci di fronteggiare situazioni di emergenza: come il fallimento della città di Detroit, che ha quasi provocato lo smembramento e l’intera vendita delle importanti collezioni del municipale Detroit Institute of Arts (con opere di Rembrandt o Beato Angelico). Un’apocalisse evitata a stento, grazie alla raccolta di 816 milioni di dollari (offerti da fondazioni, privati e dallo Stato del Michigan) e alla conseguente, dolorosissima, privatizzazione del museo, passato dalla proprietà della città a quella di un charitable trust. È di fronte a episodi come questi che Lee Rosenbaum (una delle più seguite opinioniste americane in materia d’arte) ha proposto, sul Wall Street Journal, di adottare una legislazione simile a quella europea: per «evitare che le collezioni vengano monetizzate per coprire i costi di esercizio o pagare i debiti».
Ma nello stesso momento alcuni musei europei abbracciano il modello di cui gli americani stessi iniziano a dubitare. Il governo inglese ha cessato di erogare fondi pubblici al Northampton Museum, reo di aver venduto una statua egiziana (per 38 milioni di euro) allo scopo di finanziare un riallestimento. Mentre in Germania è il museo pubblico di Münster a rischiare di esser privato di 400 opere (dalle pitture del senese quattrocentesco Giovanni di Paolo alle sculture di Henry Moore), a causa del fallimento di un banca appartenente al Land della Renania-Westfalia. E in Portogallo infuria da mesi una battaglia di opinione circa la possibilità che il governo metta all’asta 85 opere di Joan Miró (alcune assai importanti), anch’esse appartenenti ad una banca pubblica fallita: ed è di questi giorni la notizia che ci sarà un ennesimo pronunciamento giudiziario.
Insomma, il tema è così caldo che un artista e avvocato newyorchese, Sergio Muñoz Sarmiento, ha aperto un informatissimo e assai vigile Deaccessioning blog dove è possibile farsi un’idea delle dimensioni globali della questione. E da noi? In Italia le collezioni pubbliche sono inalienabili, ma negli ultimi anni una serie di disegni di legge ha proposto di “valorizzare” i depositi dei musei noleggiandone le opere a pagamento, e a lungo termine, a musei stranieri o a privati. E considerando che la “valorizzazione” degli immobili pubblici praticata dall’Agenzia del Demanio contempla l’alienazione come possibilità culminante (e oggi praticatissima: anche per quelli storici e di gran pregio), la prospettiva non sarebbe rassicurante.
Negli scorsi giorni si è tenuto a Milano un convegno (promosso dalla Rics, società britannica di consulenza finanziaria e immobiliare) dal titolo esplicito: Patrimonio culturale: quanto vale? . L’ultima risposta disponibile (della Ragioneria dello Stato, 2012) indicava la cifra di 179 miliardi di euro, mentre nel 2014 la Corte dei Conti ha contestato alle agenzie internazionali di rating il non aver conteggiato, in 234 miliardi, proprio quel presunto capitale pubblico italiano.
Ma oltre al fatto che non è per nulla chiaro come si arrivi a queste cifre, è evidente che si carica una pistola solo se si inizia a pensare di poterla usare. Quando, nel 1965, Carlo Ludovico Ragghianti lanciò una iniziativa simile (gli Uffizi furono stimati 400 miliardi di lire), Roberto Longhi rispose che si stava allestendo «un volgare listino»: a ragione, visto che Ragghianti stesso era favorevole alla possibilità di vendere le opere dei musei.
Ma una simile scelta sarebbe un grave errore: in primo luogo per ragioni pratiche. Poche settimane fa un antiquario italiano ha potuto comprare ad un’asta l’unico modello noto per la Fontana di Trevi: una terracotta venduta dall’Art Museum di Seattle, che non sapeva cosa stava vendendo. Non si tratta di negligenza: la storia dell’arte è una disciplina relativamente giovane, e sono più le cose che ignoriamo di quelle che sappiamo. E conoscenza e gusto oscillano insieme: se intorno al 1880 i musei italiani si fossero disfatti delle opere “secondarie” e allora non esposte, probabilmente oggi non possederebbero un solo Caravaggio. Senza contare il tasso di corruzione italiano: facile immaginare che i soliti noti farebbero incetta di capolavori pubblici a prezzi di saldo.
Ma ci sono ragioni più profonde per avere seri dubbi circa l’orizzonte del deaccessioning. In Italia i musei non si sono formati sulle raccolte di capricciosi collezionisti, nelle quali un Monet vale (forse) un altro: essi sono invece lo specchio e il deposito estremo dell’arte e della storia di un territorio, e una rete fittissima di nessi stringe anche la più umile tela al massimo capolavoro. Ogni vendita determinerebbe dunque un vuoto, letteralmente incolmabile.
E poi l’idea che – in un mondo sempre più diseguale – i super ricchi possano gettare anche sulle pareti di un museo lo sguardo cupido che si riserva ad un supermercato di articoli di lusso, mina l’idea stessa del museo come (ultimo?) luogo libero dalla dittatura del mercato. Perché «i musei rappresentano ancora quel genere di spazio pubblico dove è bandito il consumismo sfacciato»: lo ha detto lo scrittore Jonathan Franzen. Un americano.
«È la prima volta che vengo a Pompei», dice senza reticenze Matteo Renzi. Era stato Berlusconi ad affrancare gli italiani dalla vergogna dell'ignoranza: e i due sono profondamente uniti dall'ostentato disprezzo per la conoscenza.Ma fa un certo effetto sentire una simile confessione da chi ha dedicato un'enorme parte del proprio discorso pubblico al patrimonio culturale, anzi alla cultura. Parlare di cultura porta consenso: praticare la cultura porta via tempo. E pazienza se si ammanniscono ricette per governare qualcosa di cui si ignora tutto: sarà il governo presieduto da uno che non era mai stato a Pompei a rifare l'arena del Colosseo, per adibirlo a luogo di spettacoli televisivi. C'è del metodo in questa follia.E l'aspetto peggiore della questione è che per Renzi – come per la massima parte della classe dirigente nata e cresciuta a nord di Roma – tutto il Mezzogiorno d'Italia è una terra incognita. E qui capisci che non manca solo un progetto (che non sia quello del potere personale): manca la seppur minima conoscenza del Paese che si vorrebbe governare.
Il Sole 24 Ore, supplemento culturale, 12 aprile 2014
Benedetto Croce chiamava i loro paesaggi “il volto amato della Patria”, ma a noi che in Abruzzo andavamo a sostenere, in pochi, i soliti pochi (Antonio Cederna, Mario Fazio, Salvatore Rea, chi scrive e qualche altro) le battaglie di Michele Cifarelli presidente del Parco Nazionale e di Franco Tassi sagace direttore, rinfacciavano di essere “amici del lupo e dell’orso, non dell’uomo”. Eppure quel Parco e l’altro del Gran Paradiso esistevano dal 1922 e li avevano voluti Croce quale ministro della Pubblica Istruzione e il sottosegretario Giovanni Rosadi. Unitamente alla legge, pure del 1922, sulle “bellezze naturali”. Il fascismo ne aveva aggiunti due: Circeo, dalla storia travagliata, e Stelvio. Poi più nulla per settant’ anni. E anche quel poco che c’era sovente a rischio. A Pescasseroli patria di don Benedetto alcuni avvocati dello Stato avevano per primi costruito residences abusivi. Il senatore Mario Spallone, aveva proposto una sorta di autostrada urbana nel Parco da intitolare all’amico Palmiro Togliatti. Di parchi regionali neppure si parlava anche se Italia Nostra presieduta dallo scrittore Giorgio Bassani e il Wwf fondato da Fulco Pratesi stavano rilanciando alla grande le aree protette.
Nell’estate del 1972 ci trovammo, sempre con Bassani, Cederna, Bernardo Rossi Doria, Paolo Ravenna alla splendida Abbazia di Pomposa per un convegno sul Parco del Delta ancora sulla carta. Lì ci fu annunciata una marcia, non proprio pacifica, degli aspiranti lottizzatori di Goro, i quali reclamavano una strada litoranea che consentisse di far proseguire i Lidi ferraresi a nord tranciando il Boscone estense della Mesola. Dovette mettersi in mezzo il presidente della Regione Guido Fanti per fermare fisicamente e politicamente il corteo. Purtroppo si riuscirono a realizzare, anni dopo, dal Polesine al Ravennate, soltanto due Parchi regionali dalla vita piuttosto mediocre. Eppure allora la spinta politica c’era se un modesto quanto appassionato artigiano, l’assessore Germano Todoli, chiuse alla caccia la storica Pineta comunale di Cervia, provocando un terremoto. “E’ tornata a cantare l’upupa”, mi annunciò un giorno emozionato. Tornata anche ad essere - come canta Eugenio Montale - ilare “nunzio di primavera”. Poi la grande crescita, negli anni ’80 e ’90, a partire dall’Aspromonte, di sempre nuovi Parchi Nazionali e regionali, i primi in specie coi ministri Ruffolo, Spini e Baratta. Fino a raggiungere quota 23, più il Parco del Gennargentu per il quale purtroppo non si è mossa foglia. Siamo così passati dalla miseria di un 3 % di territorio protetto dai Parchi Nazionali al 10,5. Circa 1 milione e mezzo di ettari. Oltre 3 milioni se sommati a parchi regionali, oasi, riserve naturali. Una quota inimmaginabile anni fa e che ha certo concorso, con questi poderosi “polmoni” di verde, a migliorare la qualità della natura e quindi della vita di tutti. Purtroppo i fondi destinati ai Parchi nazionali si sono fatti sempre più avari. Nel 2012 appena 63 milioni di euro, 42 per ettaro, 20 % in meno della media europea. Mentre soltanto di tasse lo Stato ne ricava 300 milioni, e i visitatori assommano a 34 milioni, con un giro d’affari della “economia dei parchi”, sostenibile, biologica, superiore al miliardo.
Inoltre i criteri di nomina dei responsabili degli Enti sono sempre meno tecnico-scientifici e sempre più circoscritti: ex sindaci (magari, come per le Foreste Casentinesi, mirabile parco storico-naturalistico, ex presidenti dei cacciatori), ex assessori, sostenitori di ski-lift e sciovie a tutto spiano, rappresentanti di interessi corporativi e/o localistici. Con la tendenza ad “aprire” gli stessi consigli ai rappresentanti di attività incompatibili. Si pensi alle accese polemiche dei cavatori industriali dei marmi delle Apuane contro il Piano paesaggistico appena approvato dalla Regione Toscana. Addirittura si tende a smembrare i grandi Parchi Nazionali. Ne è minacciato da anni il più antico, il Gran Paradiso, ma ancor più il Parco dello Stelvio a ottant’anni dalla sua istituzione: pochi giorni fa la Commissione dei Dodici ha deciso il trasferimento delle competenze dallo Stato alle due Province Autonome di Trento e Bolzano e alla Regione Lombardia. Tocca al governo perfezionare ora con decreto quello che la fondatrice del FAI, Giulia Maria Mozzoni Crespi, definisce “un gigantesco passo indietro, una scelta senza precedenti in Europa”. Uno “spezzatino” che già nel marzo 2011 il presidente Napolitano, va ricordato, si rifiutò di firmare.
Repubblica.it, 27 marzo 2015
Fra i più esaltati sacerdoti del culto del Privato va annoverata la presidente di Confcultura, Patrizia Asproni, per la quale il modello ideale sarebbe quello in cui «il privato presenta un progetto per cui si assume l'onere del finanziamento a fronte di una gestione complessiva di un bene culturale. Il project financing prevede un promotore il cui progetto viene messo a gara, in una procedura concorrenziale e trasparente. Il privato avrebbe quindi il compito della gestione, mentre resterebbe in capo allo Stato sia la proprietà che la tutela». Di fatto si tratterebbe di una superconcessione pluridecennale chiavi in mano in cambio di un finanziamento: una società per azioni paga la conclusione dei lavori degli Uffizi, e se li prende per vent'anni.
Che ci sarebbe di male? – dirà qualcuno. Per capire cosa può voler dire, in concreto, si può prendere l'esempio della Fondazione Torino Musei (che è l'ente di diritto privato cui il Comune di Torino ha conferito i musei civici, istradandoli verso future, più sostanziali, privatizzazioni): anche perché a guidarla è proprio Patrizia Asproni.
Ebbene, la Fondazione ha appena deciso che la principale biblioteca d'arte di Torino (quella della Galleria d'Arte Moderna) – cito un bellissimo post di Gabriele Ferraris – «d'ora in poi sarà aperta soltanto il venerdì dalle 10 alle 17 e il sabato dalle 10 alle 14. Avete letto bene: si passa da 5 giorni (ovvero 35 ore) di apertura settimanale a due giorni (per un totale di 11 ore)». Perché? Per «ottimizzare le risorse», ha risposto Asproni a Ferraris. Che, tradotto, vuol dire: per spendere quei soldi in mostre ed eventi. A chi interessa più nulla delle biblioteche, infatti?
Oggi «i docenti di storia dell’arte dei dipartimenti di studi storici e umanistici dell’Università di Torino, i funzionari storici dell’arte delle Soprintendenze piemontesi, gli studiosi di storia dell’arte, le associazioni culturali e le istituzionali museali presenti sul territorio piemontese, in risposta alla grave contrazione dell’orario di apertura della Biblioteca di storia dell’arte della Gam di Torino» hanno rivolto «alla Fondazione Torino Musei un addolorato e appassionato appello perché non svigorisca una delle più importanti strutture di studio e di ricerca di storia dell’arte cittadine, costruita e a lungo diretta con sapienza e attenzione, vero patrimonio culturale della città».
Ma il punto è proprio questo: quel patrimonio non è ormai più «della città», ma della «Fondazione Torino Musei». Che non è una fragile utopia, ma una solida realtà.
La Repubblica online, blog "Articolo 9", 22 marzo 2015
Sabato prossimo scadono, infatti, i termini entro i quali il Governo può impugnare davanti alla Corte Costituzionale il Programma Strategico Territoriale approvato dal Consiglio regionale dell'Umbria (legge regionale 1 del 2015). E ci sono ottimi motivi per il quale dovrebbe essere il Ministro per i Beni culturali Dario Franceschini a proporre al Consiglio dei ministri di rivolgersi alla Corte.
Questo Programma è infatti finalizzato esclusivamente allo sviluppo economico, ma pretende di essere sovraordinato al futuro Piano Paesaggistico. In altre parole, quello stravolgimento del Piano in senso di consumo del territorio che i consiglieri toscani del Pd e di Forza Italia hanno fatto nella fase finale del lavoro delle commissioni del Consiglio Regionale, in Umbria si fa – più comodamente – prima ancora di scrivere il Piano. Fissando, cioè, a quest'ultimo un recinto ben preciso: stabilendo prima le esigenze (vere? clientelari? indotte da interessi privati, o addirittura corruttivi?) dello 'sviluppo' e solo dopo permettendo la tutela di quel che rimane. Un'idea di 'mani sul territorio' che viene ipocritamente fatta passare per 'valorizzazione' del paesaggio.
E i comuni umbri saranno addirittura obbligati a seguire il Programma Strategico (sovraordinato) e a disattendere il Piano Paesaggistico (sottoordinato), quando (prevedibilmente molto spesso) saranno in contrasto: insomma, corrompere le leggi per poi corrompere legalmente l'ambiente. E le stesse soprintendenze non avranno, in pratica, più gli strumenti per far applicare i vincoli, che saranno ridotti a mere invocazioni. Il delitto perfetto.
Tutto questo è illegale (contrasta frontalmente con gli articoli 135 e 143 del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio), ma è soprattutto radicalmente incostituzionale. Perché rende carta straccia il secondo comma dell'articolo 9 della Costituzione («La Repubblica tutela il paesaggio ... della Nazione»), che essendo un principio fondamentale non può essere subordinato a nessun'altra esigenza. Non posso prima decidere cosa voglio cementificare e poi decidere cosa devo tutelare: devo fare esattamente il contrario, o sono fuori dalla Costituzione.
In pratica si vede già quale sarà il primo caso di applicazione di questo scempio giuridico: la solita Orte-Mestre, l'inutile autostrada di 400 km promossa dal politico del Nuovo Centro Destra Vito Bonsignore (indagato nell'inchiesta di Firenze), e finanziata con uno sgravio fiscale di 2 miliardi e mezzo di euro dallo Sblocca Italia Renzi-Lupi.
In Umbria – che ne sarà integralmente attraversata, da sud a nord - a gennaio 2014 (mentre si lavorava a questa legge) il Consiglio regionale si pronunciò a favore, bipartisan: FI e PD all'unisono. Ormai sta emergendo che – oltre al consumo di suolo e al devastante scempio paesaggistico del 'cuore verde' d'Italia – i cittadini e le imprese umbri ne sarebbero robustamente penalizzati a causa dei pedaggi per remunerare il concessionario. Va cadendo la favola che ne potrebbero essere esenti: il diritto europeo non tollera queste 'discriminazioni'. Ma la prevalenza del Piano Strategico Territoriale sul Piano Paesaggistico Regionale, aprirà un'autostrada giuridica alla autostrada di cemento di Bonsignore.
Come nel caso del Piano toscano, solo un forte movimento di opinione può costringere il Partito Democratico a ricordasi di non essere (ancora) del tutto identico a Forza Italia. Solo così possiamo sperare di salvare il futuro dell'Umbria.
Privati del patrimonio siamo stati e continuiamo a essere tutti noi, cittadini italiani, vittime per lo più distratte ma spesso cieche e consenzienti di quello che Tomaso Montanari definisce il “romanzo criminale” dei depositi pubblici della cultura e dell’arte. Che però non è un romanzo: è la storia dell’Italia nell’epoca della Grande Trasformazione. Nell’Italia povera e devastata del dopoguerra si entrava gratis agli Uffizi e negli altri grandi luoghi d’arte. E il restauro era un’attività di alta qualificazione soggetta a rigorose norme pubbliche.
Quando Totò voleva far ridere inventava lo sketch della vendita della fontana di Trevi. Oggi non c’è più niente da ridere: l’idea di vendere il patrimonio pubblico per ripianare i debiti del paese è l’opinione “mainstream”. Intanto le opere d’arte viaggiano freneticamente, qualche volta periscono in viaggio (vedi gesso del Canova): fanno lo spogliarello in sfilate di moda. Si è costituito un jet set dell’arte che vede in prima classe i Bronzi di Riace, Leonardo, Michelangelo, Caravaggio e pochi altri. ’ignoranza trionfa. Montanari racconta di mandrie di visitatori migranti verso la mostra strombazzata ignorando il grande capolavoro nella vicina chiesa. E chi fa ballare i burattini sono enti privati, fondazioni sedicenti “no profit” a cui gli enti pubblici — regioni, comuni, ministeri — pagano rimborsi a piè di lista o affittano la riscossione dei biglietti. Si fanno mostre assurde, culturalmente ignobili. Si fanno cose chiamate “eventi”: e si pronunzia con unzione devota la detestabile parola. Gli studi e il restauro non esistono quasi più.
Perché accade questo? Ce lo spiega molto bene Tomaso Montanari in Privati del patrimonio, che meriterebbe di essere letto come un manuale di storia contemporanea nelle scuole italiane. Chi ha giurato fedeltà alla Costituzione ne ha tradito e deformato il linguaggio. Alla “tutela” ha sostituito la “valorizzazione”. Nel contesto del liberismo selvaggio trionfante senza resistenze nel paese del più grande partito comunista d’Occidente , valorizzare ha significato privatizzare. ’arte e il paesaggio sono stati abbandonati ai privati. Un tradimento della Costituzione.
Chi è stato? Il suo nome è legione. Basta vedere nell’elenco di Montanari quanti hanno rivenduto la micidiale metafora inventata da un mediocrissimo ministro piduista della cultura, quella del patrimonio artistico come “petrolio italiano”. Si fa prima a dire chi non lo ha fatto, per esempio il presidente Ciampi. Sul lato opposto è d’obbligo la presenza dei ministri della cultura (tutti quelli succeduti a Pedini, fino a oggi). Qualcuno ha ricamato intorno all’immagine: così ad esempio tale Giovanna Melandri passata direttamente dalla politica al governo del Maxxi, che immaginò l’Italia come una bella signora femminilmente seduta sul suo tesoro. Più efficace e diretta nella sua rozzezza la definizione che il grande comunicatore Matteo Renzi ebbe a dare degli Uffizi: una macchina da soldi. Ma, come dimostra in maniera inappuntabile Montanari, quella macchina funziona a rovescio: prende soldi pubblici e li trasferisce a privati. Se al Colosseo ancora non si fanno le battaglie di gladiatori auspicate dal giornale della Confindustria, basterà la gestione ordinaria a garantire al privato capitalista che se n’è assunto il restauro di lucrare per anni in pubblicità e soldi. E intanto la Società Autostrade ha messo le mani sull’Appia Antica.
Roma e Firenze unite nel disastro: a Firenze, capitale del Rinascimento antico e della nuova controriforma, tutto si merca: ponti storici, sale di musei, Cappellone degli Spagnoli, saloni di Palazzo Vecchio. Il “bel San Giovanni” di Dante forse non arriverà al centenario della morte di Dante in mano pubblica. Intanto si è visto impennacchiare da una ditta di moda come il cavallo di una scuderia privata. E da Firenze la rete dell’associazione “no profit” Civita, presieduta da Gianni Letta, con la sua “Civita cultura”, dove spicca il nome di Paolucci, si allunga come una piovra.a verità è amara, la libertà d’opinione è a mal partito. Montanari si prepari a pagare per le sue campagne.
Come quella che in questi giorni lo oppone a un Pd toscano che sta preparandosi a espellere dal governo della Regione l’assessore Anna Marson, colpevole di aver tentato di difendere le Apuane dallo sfruttamento selvaggio favorito dal partito del mattone e delle pietre. E delle privatizzazioni. Nello Stato privatizzato e servile del “jobs act”, tutti coloro che vivono di lavoro, intellettuale o manuale, stanno imparando sulla loro pelle che non è dello Stato che debbono avere paura: del resto, lo scriveva profeticamente Giuseppe Dossetti, un padre della Costituzione nel cui nome Montanari chiude il suo libro.
La gigantesca migrazione incrociata dei soprintendenti italiani, che è in corso in queste ore, assomiglia più ad un massacro delle competenze che non ad un vero rinnovamento. La Uil parla di «palesi scorrettezze e arbitri»: e se forse è presto per dare un giudizio complessivo, colpiscono (negativamente) scelte come quella di rimuovere da Napoli Giorgio Cozzolino (colpevole forse di essersi opposto alla commercializzazione delle piazze di Napoli), e più in generale di gettare al vento comprovate esperienze virtuose.
Ma la scelta più incomprensibile appare quella di affidare la Soprintendenza più importante d'Italia – quella di Roma – a Renata Codello, fino a ieri soprintendente ai monumenti di Venezia.
Con questa decisione il Ministero sembra aver voluto «onorare e riconoscere ai livelli più alti» – come ha subito notato, elegantemente, l'interessata – il lavoro veneziano della Codello.
Un lavoro, in questi anni, al centro di pesantissime e fondatissime critiche da parte dell'opinione pubblica veneziana, delle associazioni di tutela, del migliore giornalismo italiano: che hanno rimproverato alla Codello nientemeno che i «silenzi sul raddoppio dell’hotel Santa Chiara (vetro, cemento e acciaio: sul Canal Grande) e sulle immense navi da crociera che sfilano davanti a San Marco». Italia Nostra ha messo in file le prove della Soprintendente Codello: la «distruttiva lottizzazione di Ca’ Roman», lo «scandaloso progetto di “restauro” del Fontego dei Tedeschi», il raddoppio del Santa Chiara, «i progetti al Lido che hanno ridotto l’isola a spettro di se stessa».
Per tutta risposta, la Codello ha querelato Italia Nostra e Gian Antonio Stella. Scelta che non certifica esattamente un attitudine ad un aperto e franco confronto con i cittadini.
Insomma, proprio ciò di cui ha bisogno la già provatissima Capitale. E uno si chiede: ma il ministro Dario Franceschini, il Segretario Generale del Ministero e il Direttore delle Belle arti lo leggono il «Corriere della sera»? La scelta di premiare la Codello con la Soprintendenza di Roma sembra così incredibilmente inopportuna da far quasi pensare che lo leggano eccome, e che l'abbiano fatto apposta. Il Presidente del Consiglio ha scritto - come è noto - che «sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia». Si sa, Matteo Renzi non ama che i fatti lo contraddicano: ed eccolo accontentato.