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«Se i partiti lo vogliono possono essere promotori della società civile e della buona politica. Possono tornare alla funzione costituzionale di corpi intermedi, capaci di filtrare, interpretare, rappresentare bisogni e speranze del paese».

Il manifesto, 17 marzo 2013

L'elezione di Laura Boldrini alla presidenza della Camera e di Pietro Grasso a quella del Senato, sono la prima, importante, inaspettata risposta alla domanda di cambiamento uscita dalle urne. Sono la dimostrazione dello spazio grande aperto dal voto di febbraio per un rinnovamento della classe dirigente.I nuovi presidenti del Parlamento nascono da una scelta dei gruppi di centrosinistra (Boldrini candidata nelle liste di Sel, Grasso in quelle del Pd) e le loro biografie dicono che se i partiti lo vogliono possono essere promotori della società civile e della buona politica. Possono tornare alla funzione costituzionale di corpi intermedi, capaci di filtrare, interpretare, rappresentare bisogni e speranze del paese. E possono restituire, come la giornata di ieri anche simbolicamente dimostra, credibilità e prestigio alle istituzioni repubblicane svilite e asservite, purtroppo per tanti anni, alla legge del più ricco e del più forte. Ce lo racconta l'emozione che ha accompagnato, tra lacrime e applausi, il breve discorso della presidente Boldrini, una riflessione che dà corpo allo spirito costituzionale riassunto con poche parole: «In parlamento sono stati scritti i diritti universali della nostra Costituzione, ma sono stati costruiti fuori di qui, liberando l'Italia e gli italiani dal fascismo».

Non saremmo arrivati a questa rottura di contenuti, di linguaggio, di volti se non si fossero prodotte le due premesse che l'hanno determinata. Naturalmente e prima di tutto il clamoroso gesto di protesta degli elettori con il voto grillino e, a catena, lo spostamento a sinistra del Pd con la segreteria di Bersani e l'alleanza con Vendola. L'onda d'urto a 5 Stelle ha ridotto a vecchio arnese tutto l'armamentario "tecnico" della realpolitik, attivo fino alla notte di ieri, nel tentativo di tenere in vita candidature di partito preludio al gioco della grande coalizione di governo. Bersani ha tenuto ferma la barra, tra ironie e sguardi di sufficienza, sull'asse privilegiato con i parlamentari grillini. Fino a smacchiarli con l'elezione in senato di Pietro Grasso contro il conterraneo berlusconiano Renato Schifani. Smentendo il vangelo populista del «sono tutti uguali», costringendoli a dividersi e, per alcuni di loro, a scegliere il voto per Grasso. Le voci del Palazzo dicono che Boldrini e Grasso sono due belle bandiere, niente di più. Dicono che saranno presto ammainate perché questa diciassettesima legislatura sarà di breve durata, buona solo a portarci verso nuove elezioni.

Può darsi, ma combattere una battaglia elettorale sotto queste insegne, e le altre che, speriamo con un effetto a catena, si innalzeranno, sarà finalmente una sfida che varrà la pena di agire. Con la passione per i diritti, il lavoro, la difesa degli ultimi, il rispetto delle donne, l'Europa, declinati dalla presidente della Camera, e con la fermezza contro la piovra del malaffare, contro la mafia e la corruzione iscritti nella storia del presidente del Senato.

L'appassionato benvenuto a una speranza che arriva da Palazzo Montecitorio

. La Repubblica, 18 marzo 2013
Succede a volte di dirsi: non avrei voluto vivere fino a vedere… Non avrei voluto vedere l’Italia trasformata nel “paese dei respingimenti in mare”, e di troppe altre bandiere triste. Ieri ero incredulo e grato di poter vedere una donna giovane, emozionata e risoluta, che diceva dal seggio più alto di Montecitorio le cose più belle che si possano augurare al proprio paese, al mondo e a se stessi. Era un repertorio scrupoloso e imperterrito, e consentiva di reinterrogarsi sulla differenza fra la correttezza politica e la nobiltà politica. La differenza, se si eccettuino le sciocchezze dello zelo fanatico, che sono solo sciocchezze, non riguarda tanto le cose dette, ma il loro rapporto con chi le dice. Il pulpito. Laura Boldrini, deputata quasi per caso e appena dopo presidente della Camera dei deputati quasi per caso, stava argomentando principi e propositi cui si è ispirata e che ha perseguito nel lavoro e nella vita. In bocca ad altri, le belle parole sarebbero suonate stridenti come un gesso nuovo su una vecchia lavagna. L’assemblea, con le doverose eccezioni –innoblesse oblige– l’ha molto applaudita, e dalla seconda o la terza volta in poi si è sentito che gli applausi non erano più riservati a lei, ma andavano a chi applaudiva, e si sentiva incoraggiato a prendere sul serio quei nobili propositi, che si trattasse di navigati marpioni o di giovani donne e uomini al primo imbarco.

Il primo giorno di un parlamento può promettersi una vita nuova, come la prima pagina di un quaderno — di un file di testo, per chi non voglia più saperne dei quaderni. E quando il parlamento sia andato troppo oltre nella propria mortificazione, l’impressione di un riscatto possibile sarà tanto più forte e trascinante. Cose così succedono nei film, dal discorso finale del piccolo barbiere ebreo sosia del Grande dittatore a quello del fratello matto, cioè savio, del segretario del partito; i film di Hollywood sono maestri di questo genere di sostituzioni di un attore a un presidente alla Casa Bianca, finché ci arriva davvero un presidente nero che sembra un attore.

Un regista che avesse noleggiato l’aula di Montecitorio per mettere in scena un risarcimento alla depressione del pubblico italiano non avrebbe potuto fare meglio di così. E ora paragonate la giornata di ieri — in ambedue i rami del parlamento, per giunta – alla fretta rassegnata o ingorda con cui il giorno prima si era dichiarato indecente lo spettacolo offerto da una maggioranza che votava scheda bianca, e ammettete che si possa sbagliare anche per un piacere del disastro, e che il regista dello spettacolo reale cui abbiamo assistito – chiamiamolo Napolitano, che ha rimandato Monti dietro la lavagna, o Bersani e Vendola, per semplificare — ha avuto uno sguardo più lungo di quello dei critici indignati. Il Dario Franceschini che salutava i giornalisti dicendosi «l’ex presidente della Camera» faceva simpatia, naturalmente più che se l’avessero eletto.

La giornata di ieri ha confermato che ci sono due circostanze in cui si è forti: quando si è forti, oppure quando si è molto deboli. Il Pd è molto debole, dallo scorso 25 febbraio, e i 5Stelle molto forti. Ieri le parti si sono invertite, con la felice misurata eccezione del voto al Senato. Prendiamo la miglior formulazione – a me pare, soprattutto se la si confronti col delirante filmato su Gaia e i miliardi di morti e il Nuovo Ordine Mondiale e il Grande Fratello finale – di progetti di Grillo e Casaleggio, quella affabilmente esposta nella conversazione con Dario Fo: se se ne ricavasse il ritratto ideale di un candidato e del suo discorso di apertura, non se ne troverebbero migliori di Laura Boldrini e delle sue parole di ieri. Ora proviamo a immaginare che la legge demenziale non avesse dato al Pd la larghissima maggioranza che gli ha dato, e che l’elettorato di Laura Boldrini non fosse autosufficiente: che cosa avrebbero fatto i bravi giovani deputati e deputate di 5Stelle? Avrebbero lasciato passare un altro autorevole candidato, non so, Giovanardi?

Ci siamo rassegnati in molti, quanto alla vita pubblica, alla pazienza e alla riduzione dei danni: ieri, per un giorno almeno, le cose sono andate nel modo migliore. Un giorno di festa, e poi la quaresima di sempre? Probabile. Però un giorno in cui l’invidia per il conclave, che aveva tirato fuori da una crisi precipitosa un papa straniero e Francesco, è stata compensata da una presidente della Camera abbastanza straniera anche lei e donna – peculiarità alla quale la Chiesa non è ancora pronta. Non è la prima volta, ma è avvenuto nel parlamento più in bilico di sempre, e però quello in cui la presenza di donne, specialmente giovani, è significativamente cresciuta, nel Pd in primo luogo. Il quale Pd ha vinto le elezioni perdendole, o le ha perse vincendole, come preferite, ma, scalcagnato com’è, e ridotto troppo spesso al centro e nei famosi territori a cordate e clientele in cagnesco, ha impedito di un soffio che a vincere le elezioni – e vincendole – fosse Berlusconi. E tutte le meditate analisi sulla consunzione dei partiti vacillano fino a rovinare quando si traducono in una rinuncia o un dileggio del voto “utile”.

Detto questo, il discorso di Laura Boldrini di ieri ha dato, a chi guardava e ascoltava, la sensazione rara e commossa che il voto possa, oltre che scansare il peggio, tradursi in una realizzazione preziosa. Da domani (non) si fa credito, naturalmente. Ma sentire commemorare le migliaia di morti senza nome del Mediterraneo non da una fervida commissaria delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ma da quello scranno alto di Montecitorio, valeva davvero la pena. Anche se fosse stata storia di un solo giorno. Lei però ha concluso: «Stiamo cominciando un viaggio». Allora buon viaggio.

UIl manifesto, 15 marzo 2013

Che il Presidente della Repubblica si preoccupi di conservare l'equilibrio tra i poteri dello Stato fa parte delle sue funzioni fondamentali. Che cerchi di incanalare nell'alveo costituzionale situazioni pericolose per le istituzioni democratiche è comprensibile. Ma francamente e con tutto il rispetto dovuto ad un Presidente che ha saputo svolgere il suo ruolo in maniera equilibrata e positiva, il primo dei due comunicati, emesso al termine dell'incontro con la delegazione del Pdl sembra rispondere più ad una logica di equidistanza che di equilibrio. E contiene una dose di ambiguità, che ha permesso interpretazioni disparate e sbilanciate delle sue parole. Intanto il Presidente riprende nel suo messaggio posizioni note e già manifestate in passato sul senso di equilibrio e di responsabilità e sulla necessità di evitare conflitti tra politica e magistratura.

Ma la situazione che doveva a fronteggiare non era quella di un conflitto provocato da posizioni assunte dalle due parti, da richiamare entrambe all'ordine e al rispetto della Costituzione. No. Il contesto era quello di una intimidazione al potere giudiziario, più precisamente a giudici che stanno conducendo processi prossimi al giudizio finale, condotta da un folto gruppi di parlamentari che sono penetrati nel palazzo di giustizia di Milano e sono arrivati fino all'aula in cui si sta svolgendo uno di quei processi. Qui c'è poco da disquisire: siamo ai limiti dell'eversione costituzionale. E che in futuro potrebbe legittimare altri gruppi sostenitori di imputati a occupare le sedi degli uffici giudiziari e a intimidire i magistrati. Insomma sono il potere giudiziario e la sua indipendenza ad essere sotto tiro. E allora va bene l'equilibrio, ma non l'equidistanza. Il "rammarico" per la manifestazione doveva consistere in una ferma e netta condanna a difesa dell'indipendenza della magistratura e doveva essere la questione centrale sulla quale il Capo dello Stato, anche nella sua veste di Presidente del CSM, doveva mettere l'accento.

In secondo luogo i riferimenti alla magistratura, al suo dovere di agire con equilibrio e di rispettare i diritti della difesa e i principi del giusto processo in astratto sono certo condivisibili. Ma il guaio è che essi non potevano fare astrazione dalla situazione concreta che si era determinata e quindi riaffermarli in quella situazione correva il rischio, che poi si è tradotto in realtà nelle interpretazioni date dal PDL e da Berlusconi, ma anche nello sconforto che si è manifestato all'interno della magistratura, di lasciar intendere che i magistrati che stanno facendo i processi, o almeno alcuni di loro, li stanno conducendo senza rispettare appieno i diritti e i principi succitati. E allora sarà bene ricordare che l'ingorgo processuale che si è determinato a carico dell'imputato Berlusconi è derivato dal fatto che leggi varie ad personam e continue manovre dilatorie hanno fatto sì che processi nati in momenti diversi e per reati diversi sono arrivati a convergere temporalmente all'indomani delle elezioni. Quanto poi al legittimo impedimento, più volte e ripetutamente invocato dalla difesa, è opportuno ricordare che la legge del 2010, che stabiliva un trattamento di favore per i membri del Governo, è stata prima sfrondata dalla Corte Costituzionale, poi abrogata da uno dei referendum del 2011 con la maggioranza del 94,6% dei voti. E quindi ai titolari di cariche pubbliche si applica il diritto comune, che prevede certo il legittimo impedimento per il cittadino impossibilitato a partecipare all'udienza, ma anche che il giudice possa far accertare l'effettiva sussistenza e consistenza dell'impedimento. Cosa che il tribunale di Milano ha fatto e che l'ha indotto tra l'altro, disattendendo l'opinione dei PM, a rinviare per due volte l'udienza. Altro che accanimento giudiziario!

Infine la parte sicuramente più ambigua del comunicato presidenziale è quella che sostiene la necessità per il PDL "di veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento" e in particolare agli adempimenti costituzionali previsti fino a metà aprile. Cosa significa? Forse che i giudici dovevano rinviare a quella data le future udienze, resuscitando il legittimo impedimento previsto da una legge cancellata dal corpo elettorale non per situazioni concrete ma per periodi prolungati di tempo? Il Presidente ha contestato questa interpretazione con una lettera a Repubblica, un quotidiano certo non sospettabile di ostilità nei suoi confronti. Ma la sue prime parole si prestavano o no ad un'interpretazione che è stata data non solo da Repubblica, ma anche da organi di stampa e esponenti del PDL e da molti magistrati? Tant'è che, appena il tribunale di Milano ha fissato il nuovo calendario delle udienze, è stato subito accusato di avere violato le indicazioni date dal Capo dello Stato. Ora il Presidente ci dice che così non è e questo è un bene e ne va preso atto. Ma in questa vicenda c'è un bene supremo da tutelare: l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla giurisdizione, che non può essere inflessibile per i poveri Cristi e di mani larghissime per gli imputati "eccellenti". E ancora c'è da tutelare lo Stato costituzionale di diritto, che non può consentire a nessuno di dichiarare che la magistratura è peggiore della mafia e che chi è stato votato dal popolo non deve rispondere dei reati commessi. Sono certo che il Presidente Napolitano, che ho avuto modo di apprezzare durante la mia permanenza al CSM, condivide quei beni supremi e nella sua lettera a Repubblica li ribadisce. Ma se dovesse continuare l'aggressione del PDL alle istituzioni giudiziarie, non è possibile alcuna via di mezzo: le parole del Presidente dovrebbero risuonare alte e forti in difesa dell'indipendenza della magistratura messa sotto attacco.

Una intervista al segretario generale della Fiom, importante punto di riferimento della sinistra italiana.

Il manifesto, 14 marzo 2013

«Il voto impone un rinnovamento anche al sindacato. Resto con le tute blu, se sarò votato. Ma contribuirò alla discussione in Cgil»

Segretario Landini, partiamo da un dato: secondo gli istituti di ricerca il centrosinistra è al terzo posto nel voto operaio, dopo M5S e persino dopo il Pdl. In alcuni quartieri operai di Torino Grillo ha fatto il pieno. Come interpreta questo dato?

È una conferma che quello di febbraio è stato innanzitutto un voto contro le politiche del governo Monti. Un voto che chiede un cambiamento. Già a giugno la Fiom aveva organizzato un incontro con tutti i segretari del centrosinistra, e non solo. In quella sede dicemmo: c'è un vuoto, in questi anni il lavoro non è stato rappresentato. C'è bisogno di chi difenda i diritti di chi lavora e dei giovani che cercano lavoro. Perché il voto di cui si parla non l'hanno dato solo gli operai ma anche i giovani, i precari, le partite Iva. (Parla Maurizio Landini, segretario della Fiom, corteggiatissimo dalla sinistra prima del voto come 'federatore'. A tutti ha risposto no, rivendicando il ruolo e l'autonomia del sindacato).

Una domanda di cambiamento interpretata da Grillo. Ma Grillo è lontano dalle posizioni dei sindacati, per usare un eufemismo: ne ha dichiarato esaurito il ruolo.
Non c'era bisogno di Grillo per prendere atto di una crisi della rappresentanza politica e anche di quella sindacale. Il problema non è correre dietro Grillo. Il punto è che i sindacati, in questo caso parlo per la Fiom e la Cgil, debbono ritrovarsi. Cioè democratizzarsi. Un lavoratore dipendente può votare alle elezioni, alle primarie se vuole, ai referendum, per il sindaco, per il presidente di regione. L'unico posto in cui non ha diritto di votare è in fabbrica: lì non può eleggere i suoi delegati. Per Fiat e Federmeccanica chi non è d'accordo non ha diritto di esistere. Così però anche sui contratti: nella maggioranza dei luoghi di lavoro la democrazia non c'è e i sindacati non garantiscono né sono portatori di questa domanda. E vista la tendenza delle imprese a rendere aziendali i rapporti, alla lunga, il rischio è che salti il sindacato. A questa crisi della rappresentanza il sindacato non può rispondere 'io non c'entro'. Poi c'è il rinnovamento delle politiche sindacali: da tempo penso che ci debba essere da un lato l'universalizzazione degli ammortizzatori sociali: la cassa integrazione e le forme di tutela dalla disoccupazione debbono essere estese a tutti; oggi così non è per esempio nelle aziende artigiane, del commercio, per tanti precari. Dall'altra bisogna introdurre forme di reddito di cittadinanza sia per garantire il diritto allo studio sia per tutelare chi perde il lavoro o ha finito gli ammortizzatori e lo sta cercando. Un altro dramma sociale che già c'è: ci sono centinaia di migliaia di precari che non hanno tutele e milioni di persone sta per scadere la cassa, o la cassa in deroga.

M5S propone il reddito minimo al posto della cassa integrazione.
Non sanno di quello di cui parlano. Come avviene in Europa, il reddito di cittadinanza deve essere sostenuto dalla fiscalità generale. Ma la cassa integrazione, e questo in troppi non lo sanno, non è pagata dai soldi pubblici, ma da quelli dei lavoratori e delle imprese. Per estenderla è sufficiente che i lavoratori e le imprese che non ce l'hanno paghino un contributo per averla. È un'idea di riforma in senso europeo.

Serve una riforma degli ammortizzatori sociali. A maggio iniziano a scadere la cassa integrazione. Tutto questo rende necessario un governo in carica?
Qualsiasi persona di buon senso, per la crisi che c'è in questo paese, con il rischio che il sistema industriale salti - non c'è giorno che un'impresa non dichiari esuberi, di chiudere o di trasferirsi - sente la necessità di un governo che governi. Bisogna bloccare i licenziamenti, ridurre l'orario, fare politiche industriali che riguardano la Finmeccanica, la Fiat la siderurgia, la piccola e media impresa. Ma non mi voglio sostituire né al parlamento né alle istituzioni cui spetta questa discussione. Ognuno si assumerà le sue responsabilità di fronte al paese.

Sta dicendo che è preferibile non tornare al voto? M5S dice che non appoggerà il governo Bersani. Tira aria di un nuovo governo tecnico, o di larghe intese.
No, sto dicendo che c'è bisogno di un governo che cambi le politiche che fatte da Berlusconi e Monti. Non sta a me decidere se è meglio tornare o no al voto. Il paese ha problemi enormi, bisogna trovare le soluzioni. I governi tecnici non esistono, lo ha dimostrato Monti. Ci vuole un governo che cambi. Un governo per continuare la linea Monti sarebbe un danno per l'Italia e per i lavoratori. Il 30 per cento degli italiani non è andato a votare. Sommato al resto, siamo di fronte al fatto che la maggioranza del paese reale non si riconosce nelle classiche rappresentanze politiche. È un segnale di cambiamento epocale per tutti. Noi della Fiom in queste ore stiamo scrivendo a tutti gli eletti per indicare quelle che secondo noi sono le priorità del mondo del lavoro.

Quali sono?
Lo dicevo prima: cancellare le leggi che hanno aumentato la precarietà, cancellare l'art.8 della legge Sacconi, una legge sulla rappresentanza, politiche industriali, incentivi alla riduzione dell'orario di lavoro, blocco dei licenziamenti.

Quello che lei dice è negli 8 punti di programma del governo 'di combattimento' di Bersani? Riformulo la domanda: il programma Bersani per lei rappresenta un inizio?
Noto che non c'è nulla sulle leggi sul lavoro, non c'è l'impegno su una legge sulla rappresentanza, né contro l'art. 8, non si dice nulla sulla riforma Fornero, né il blocco dei licenziamenti. Senza un piano straordinario di investimenti pubblici e privati non si creano posti di lavoro, trovando le risorse con una patrimoniale. Ragionamenti di questa natura vanno affrontati immediatamente.

Il centrosinistra per i sindacati rappresenta sempre la tentazione del 'governo amico'. Oggi c'è questo rischio nella Cgi. lLa scarsa autonomia in questi anni è stato uno dei problemi di tutti i sindacati. Il sindacato non dev'essere di governo o di opposizione. Dev'essere un soggetto democratico, perché costruisce le sue proposte con i lavoratori. E autonomo, che giudica un governo per quello che fa. È anche questo il cambiamento di cui parlo.

Se lei non fosse il segretario Fiom firmerebbe l'appello 'facciamolo' della sinistra per chiedere a Grillo di votare il governo Bersani?
Sono il segretario generale della Fiom. Non ho dato né indicazioni di voto né fatto scelte che potevano mettere in discussione il mio ruolo. Finché lo sono, continuerò così.

Ha intenzione di correre per la segreteria confederale della Cgil?
Ho intenzione di ricandidarmi a fare il segretario della Fiom, se mi eleggerano. Penso che nella Cgil ci sia bisogno di una discussione strategica vera e democratica. E da segretario Fiom ho intenzione di dare un contributo a questa discussione nella Cgil. Che deve darsi strumenti, anche innovativi, per far partecipare realmente gli iscritti alle decisioni. Il congresso, tanto più oggi, non deve essere un'occasione semplicemente burocratica. E il problema non è solo come si sceglie il segretario.

Nei sarcasmi letterari del grande penalista ce n’è per tutti - Grillo, Bersani, Monti, D’Alema - ma la pietra di paragone della scandalosità è l’intramontabile Caimano.

La Repubblica, 14 marzo 2013

Dati i numeri elettorali e l’umore nelle Cinque Stelle, non stupisce l’impasse: forte d’una minuscola maggioranza (124 mila voti alla Camera, sui quali escresce il premio affatturato dal Caimano 2006), il leader Pd tenta un’apertura ai nuovi venuti; e l’escandescente condottiero risponde picche; vuole l’intero governo; la sindrome egocratica regna anche fuori d’Arcore. P. B. non demorde e formula un programma stabilendo che la destra berlusconiana non sia contraente possibile, mai: sugli otto punti ivi definiti chiederà la fiducia; e se gliela nega, smentendo quel che predicava, l’homo novus ne risponde agli elettori. L’ovvio sèguito è uno scioglimento delle Camere appena nate ma qui cala un silenzio ambiguo. I visi nel summit Pd lasciano pochi dubbi: nessuno o quasi crede possibile l’accordo; è sottinteso che, cadendo l’offerta, i giochi cambino. Vediamo le alternative, cominciando dal discorso serio: qualora il fattore personale osti, cambiare cavallo, rectius uomo, prendendolo fuori della nomenclatura; e definire il programma in tal modo che l’eventuale rifiuto non sia decorosamente sostenibile «in piazza»; allora l’inevitabile bis elettorale diventa occasione da cogliere, se etica e intelligenza politiche contano ancora qualcosa (non è detto dopo i devastanti vent’anni berlusconiani).

Agli antipodi sta l’accordo col Pdl: lo invocano i berluscones fingendosi patrioti accorati; ma nemmeno i piagnoni delle «larghe intese» osano trescare in pubblico con chi, governando in due delle tre ultime legislature, affossava l’Italia; e nei tredici mesi della maggioranza spuria 2011-12 impediva riforme capitali, dal meccanismo elettorale alle norme contro una corruzione che dissangua il paese; né agirebbe diversamente, patrono organico del malaffare. La rentrée gli garantisce comode vittorie finché viva e magari oltre, quando gli addetti al culto svelino ai fedeli cos’hanno udito dalla venerabile mummia (l’ultimo coup de théatre è il ricovero notturno al San Raffaele col quale guadagna tempo nel dibattimento Ruby; e i farceurs ululano: s’erano mai visti inquisitori così crudeli da infierire sul sofferente nelle congiuntive?). Ormai è partita a carte scoperte: gl’italiani sanno chi sia, mago della frode, così avendo accumulato l’enorme fortuna; in che conto tenga gli animali umani, dall’harem olgiatense al mercato parlamentare; e l’arte gangsteristica nel colpire gli avversari (Boffo, Fassino, Fini, Marrazzo). L’audience meno sveglia poteva bere la favola: imprenditore ingegnoso, selfmade, lontano dal cinismo politicante (i cui favori pagava gonfiandosi); vent’anni dopo solo qualche circonvenuto può ancora crederlo. Esiste un motivo dominante nel voto dei sei milioni che gli restano: l’Impunito è figura carismatica; l’ammirano; ha del capolavoro lo schernevole scacco in cui tiene Dike schivando d’un filo le condanne (ogni tanto lamenta che le strategie d’impunità costino un occhio). Gli misurano le braccia, lunghe quanto nessuno sinora le sognava: dispone d’una macchina da guerra, e l’avere perso solo metà dei voti 2008 è impresa d’agonista, dato lo stato disastroso in cui versava 16 mesi fa. Lo vedono talmente forte da sostenere che il bianco sia nero, e affascinati, saltano sul carro sbagliando calcolo: il profitto va agli arruolati nella compagnia; i creduloni pagano. Insomma, corrompe e froda anche gli elettori. Ovvio quindi che fuori del giro mercenario nessuno osi candidarlo a consorte dell’Union sacrée.

Torniamo al voto plenario col quale il Pd salutava P. B. prendendo le misure della bara: i fatti diranno come uscire dall’impasse, supponendo insensibili le Cinque stelle, e tutti le ritengono tali; il presupposto è «mai in compagnia dell’Olonese ». Clausola lodevole, non sappiamo fin dove arrivi. L’insigne Bicamerista M. D’Alema, ad esempio, appare ancora più dialogante d’allora (5 febbraio 1997-9 giugno 1998), gravi essendo i pericoli: secondo lui, l’accordo con la destra sarebbe in re ipsa se non vi fosse un ostacolo; ed è Silvio Berlusconi. Deprecatio d’alto effetto, perentoria, ma la mimica lascia intuire i sottintesi: difficoltà insuperabile?; Dio non voglia. Casi simili esigono sano ottimismo: divus Berlusco appartiene alla storia d’Italia; compia un gesto nobile tirandosi indietro; ed ecco il governo virtuoso, trasversalmente composto da uomini dei due campi (armonia perfetta se convolassero i Letta, zio e nipote). Dovendo riscrivere Tartuffe nello scenario italiano 2013, cosa direbbe Molière? Ovvio: un Pdl absente Berluscone è forse pensabile nella luna, non quaggiù; appena Dominus comandi, vanno in scena spettacoli d’umanità avvilita, perché ha un potere degradante sulle persone e se ne compiace. Con quante smorfie dolenti il garrulo notabile Cl deplora la richiesta d’una visita medica fiscale (venerdì 8 marzo). L’indomani la Corte d’appello nega il rinvio e i tromboni soffiano l’anima: «macabra caccia all’uomo », medici legali nazisti, terrore staliniano; un difensore rinuncia all’arringa. Siano più cauti nell’usare gli aggettivi, arnesi pericolosi: quel «macabro» è cospicua gaffe; evoca figure del teatro nero d’Arcore. Le abbiamo negli occhi. Se anziché mastino dell’Olonese, il Pdl fosse un partito dove contano le idee e dei pensanti le discutono, Fini l’avrebbe svuotato andandosene, e tra i voti raccolti dal redivivo nove su dieci sarebbero in mano a Monti, collettore d’una destra pulita; ma le logiche politiche non c’entrano: costoro vogliono Re Lanterna, inscindibile dalle sue opere (tra le più consuete, parlamentari corrotti, testimoni comprati, menzogna assordante). In greco un Pdl che non dipenda da B. è oxýmoron, formato da due parole incompatibili: che il partito sia Lui, lo esclamava dal cuore Angelino Alfano, occhi sgranati, e consta dal quotidiano servizio liturgico vocale. Quando anche l’istrione simuli malinconico disinteresse, muore suicida un Pd che s’imbranchi col Pdl. Lì Grillo raddoppia i voti pigliando tutto. La via d’uscita sta nelle urne, al più presto, chimerica essendo l’ipotesi d’un governo trasversale che cambi in meglio le regole elettorali. Al pirata viene comodo scegliersi gli automi parlamentari.

Ezio Mauro, su la Repubblica e Norma Rangeri, sul manifesto del 12 marzo 2013 commentano l'efferatezza del giornoI CAIMANI di Ezio Mauro

UN PRESUNTO uomo di Stato, che ha avuto l’onore di guidare per tre volte il governo di un Paese democratico, ieri ha organizzato una gazzarra davanti al Tribunale di Milano schierando i deputati e i senatori Pdl contro la magistratura che lo indaga per reati comuni e portandoli addirittura a rumoreggiare di fronte all’aula del processo Ruby. La scena finale resterà nelle memorie peggiori del Paese, con i parlamentari in fila contro lo Stato come dei caimani in versione Lacoste, che purtroppo trasformano in piazza l’Inno di Mameli in una marcia antirepubblicana ed eversiva.
L’ordalia finale di un leader soffocato dalla sventura costruita con le sue stesse mani – nella dismisura degli abusi e della corruzione, all’ombra dell’impunità – ha travolto infine i sedicenti moderati della destra, cancellandoli in un’omologazione estremista che annulla ogni autonomia di destino per il Pdl, costretto all’identificazione fanatica col destino padronale, nella vita come nella morte politica.

La verità è che non c’è più politica, in questo salto nel cerchio di fuoco che tutto consuma, compresi (per fortuna) i piani di qualche statista per arrivare ad un governo Pd-Pdl. Ma prima ancora, l’avventurismo berlusconiano brucia ogni ruolo istituzionale della destra, qualsiasi condivisione riformista, persino l’agibilità del Parlamento, che infatti Alfano minaccia di abbandonare come protesta per “l’emergenza democratica”.
Ci aspettavamo che Napolitano non ricevesse al Colle chi dopo aver chiesto udienza al Quirinale trascina il Parlamento in piazza. Ma dal Capo dello Stato Alfano e Berlusconi impareranno che il Quirinale non è un quarto grado di giudizio. Così come dovranno capire che in democrazia non si porta il potere legislativo in strada contro il potere giudiziario. E soprattutto che la legge è uguale per tutti, anche per chi alza la voce perché non può dire la verità sugli scandali che lo avvolgono: e maschera la sua disperazione politica da prova di forza, trasformando un partito in un bullo collettivo, come se la democrazia fosse una taverna.


GUARDIA SCELTA
di Norma Rangeri

Una scena con molti caimani, tutta la guardia scelta del padre-padrone. Marciano compatti verso il tribunale di Milano con l'intenzione di intimidire la magistratura nell'estremo tentativo di bloccare i processi contro Berlusconi, per evitargli, con le prossime sentenze, la probabile interdizione dai pubblici uffici (processo Mediaset e Ruby). I parlamentari del Pdl, in prima fila le facce note più richieste dai conduttori dei nostri talk-show, hanno occupato la scalinata del palazzo di giustizia, sono entrati dirigendosi in massa verso l'aula del pubblico ministero Boccassini, impegnata nelle battute finali del processo per prostituzione minorile (le cene eleganti con Ruby e le altre).
L'adunata milanese avviene in un momento di delicati passaggi istituzionali e di massima confusione politica. E' l'istantanea di un'Italia malata, umiliata per salvare le sorti giudiziarie di un politico. Si assedia un giudice e si tira in ballo il capo dello stato chiedendogli di salvare il paese «dall'emergenza democratica». Che di emergenza si tratti è davanti agli occhi della maggioranza degli italiani, come ha appena dimostrato l'esito delle elezioni. Ma per ragioni che nulla hanno a che vedere con i guai giudiziari di Berlusconi e molto con la crisi che coinvolge i due terzi delle famiglie italiane. E' di ieri il bollettino dell'Istat con la cifra di sette milioni di persone in difficoltà economiche. Una deriva sociale aggravata da una classe dirigente incapace di governo, complice di poteri corrotti. Il centrodestra, i vent'anni di berlusconismo lo confermano, ne porta la massima responsabilità.

Miracolato nelle urne dalla campagna elettorale di Berlusconi, il Pdl sa che il vecchio leader è l'unico, e perciò insostituibile, argine all'emorragia di più di sei milioni di elettori decretata dal voto. Per tenerlo politicamente in vita, i suoi avvocati lo hanno ricoverato tra le pareti dell'ospedale amico, mentre i suoi senatori e deputati tentano l'ultima difesa inscenando la gazzarra sulle scale del tribunale milanese, cantando l'inno nazionale, reclamando un incontro con Napolitano, come se il capo dello stato fosse la Cassazione.

Il Presidente della Repubblica li riceverà oggi, alla vigilia delle votazioni per l'elezione del presidente del senato. Il ricatto è palese: chi tocca il grande inquisito deve sapere che il Pdl trascinerà il paese verso nuove elezioni, e, come antipasto, boicotterà le prime sedute del parlamento giocando la carta "aventiniana".Rinviato negli anni il giudizio penale con leggi ad personam, prescrizioni, legittimi impedimenti arriviamo ai giorni decisivi delle sentenze con l'inedito picco eversivo della marcia contro i tribunali della Repubblica. La crisi democratica non dovrebbe essere l'assillo della sinistra, o di quel che ne resta. E dovrebbero cominciare a capirlo anche i "cittadini" a cinque stelle. Con la destra italiana non si scherza.

L'Istituto Centrale di Statistica presenta quella che potrebbe essere una delle tracce per rivedere i nostri giudizi e relative politiche su società e sviluppo.

Huffington Post, 11 marzo 2013, postilla

"Quello di oggi è solo il punto di partenza per realizzare un cambiamento culturale che, mi auguro, aiuterà a migliorare in concreto il benessere della generazione attuale e di quelle future". Il presidente dell'Istat Enrico Giovannini presenta così il primo rapporto sul Benessere eco-sostenìbile in Italia.

A fianco del Pil, arriva così il Bes, il nuovo indice di 'benessere equo e sostenibile' coniato dall'istituto di statistica. Non un singolo indicatore ma un complesso, e pressoché unico al mondo, insieme di 134 parametri che descrivono i 12 ambiti - dall'istruzione, al lavoro, passando per le relazioni sociali e il paesaggio.

Secondo il presidente dell'Istat Giovannini, "per ciò che concerne la politica, le esperienze internazionali, quelle australiana e neozelandese, offrono importanti spunti per l'utilizzo del Bes". E fa un esempio che è anche una proposta: " Le relazioni tecniche di accompagnamento e le nuove leggi descrivano l'effetto atteso sulle diverse dimensioni del benessere e non solo sulle variabili finanziarie".

Il rapporto Istat Cnel ha poi anche fatto una fotografia sul crescente disagio degli italiani, alle prese con un peggioramento delle condizioni economiche e sociali: in estrema sintesi gli italiani sono sempre meno felici.

Sempre più poveri. In Italia, tra il 2010 e il 2011, l'indicatore della 'grave deprivazione' sale dal 6,9% all'11,1%, ciò significa che 6,7 milioni di persone sono in difficoltà economiche, con un rialzo di 2,5 milioni in un anno.

Occupazione, peggio di noi solo Ungheria e Grecia. Nel 2011 il tasso d'occupazione per
la classe 20-64enni è sceso al 61,2%, dal 63% del 2008. Nell'Ue a 27 presentano un tasso ancora più basso dell'Italia solo l'Ungheria e la Grecia.

Potere d'acquisto delle famiglie. Cinque punti percentuali: di tanto si è ridotto, dal 2007 al 2011, il potere d'acquisto delle famiglie italiane. Una contrazione che, tuttavia, si è riflessa solo in parte sui consumi che in termini reali sono diminuiti solo dell'1,1%. Questo perchè, nei primi anni della crisi, le famiglie hanno intaccato il patrimonio e risparmiato meno nel tentativo di mantenere il proprio standard di vita.

Giovani: emergenza lavoro. L'italia è il paese europeo che, dopo la Spagna, presenta la più forte esclusione dal lavoro dei giovani e l'unico con bassissime opportunità di occupazione regolare. Solo poco più di tre giovani su dieci lavorano con un tasso di occupazione del 33,8% tra i 20-24enni. La quota dei Neet, ovvero dei ragazzi tra i 15 e i 29 anni che nè studiano nè lavorano, tra il 2009 e il 2011 è balzata dal 19,5% al 22,7%. Quasi un giovane su 4 dunque non è impegnato in percorsi formativi e non ha un posto.

Sfiducia nelle istituzioni. Sfiducia nei partiti, nel parlamento, nei consigli regionali, provinciali e comunali, nel sistema giudiziario. Una sentimento trasversale che attraversa tutti i segmenti della popolazione, tutte le zone del paese. Il dato peggiore sul fronte della fiducia dei cittadini verso le istituzioni riguarda, infatti, i partiti politici: la fiducia media verso i partiti politici, su una scala da 0 a 10, è pari a 2,3; seguono parlamento (3,6), amministrazioni locali (4) e la giustizia (4,4).

postilla
come si intuisce scorrendo il breve sommario fornito dall'articolo, si tratta di un tema complesso e articolato, su cui è difficile formulare giudizi sommari e non adeguatamente meditati. Eddyburg chiederà a questo proposito dei commenti ai suoi più qualificati collaboratori, studiosi dei vari aspetti, e ne renderà conto al più presto su queste pagine. Il testo della relazione dell'ISTAT è scaricabile qui.

Un articolo di Rachele Gonnelli e un'intervista a Michele Serra di Luca Landò illustrano e commentano l'appello per un un «esecutivo di alto profilo» che rispetti il risultato delle urne», lanciato ai decisori da 10 autorevoli voci dell'opinione pubblica.

L'Unità, 11 marzo 2013

Per un governo di cambiamento

di Rachele Gonnelli

Si intitola «Facciamolo» in inglese sarebbe stato più forte anche se con maggiori riverberi di doppi sensi, we can do it il nuovo appello lanciato ieri per un governo di cambiamento, che anche il Movimento Cinque Stelle dovrebbe aiutare a far nascere. A lanciarlo questa volta non sono gli intellettuali, anche se Salvatore Settis ha firmato ambedue, ma un gruppo di personalità provenienti da mondi diversi: c’è don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera , un altro sacerdote «di battaglia» come don Andrea Gallo, genovese come Beppe Grillo e suo vecchio amico, il cantautore Lorenzo Jovanotti, Roberto Benigni, il fondatore di Slow Food e Terra Madre Carlin Petrini e l’imprenditore della ristorazione di qualità della catena Eataly Oscar Farinetti, Roberto Saviano, i giornalisti Barbara Spinelli e Michele Serra.

L’appello, diffuso anche attraverso i social network, non entra nel merito della scelta del Quirinale su chi debba avviare le consultazioni, si limita a chiedere un esecutivo «di alto profilo» che rispetti il risultato delle urne. «Mai, dal dopoguerra a oggi comincia il Parlamento italiano è stato così profondamente rinnovato dal voto popolare. Per la prima volta i giovani e le donne sono parte cospicua delle due Camere. Per la prima volta ci sono i numeri per dare corpo a un cambiamento sempre invocato, mai realizzato. Sarebbe grave e triste che questa occasione venisse tradita, soprattutto in presenza di una crisi economica e sociale gravissima».

I 10 firmatari chiedono perciò «gentilmente ma ad alta voce, senza avere alcun titolo istituzionale o politico per farlo, ma nella coscienza di interpretare il pensiero e le aspettative di una maggioranza vera, reale di italiani» che sia rispettata «la volontà popolare sortita dal voto del 24-25 febbraio». Chiedono che questa speranza «non venga travolta da interessi di partito, calcoli di vertice, chiusure settarie, diffidenze, personalismi». E ritengono di interpretare «questa maggioranza, fatta di cittadine e cittadini elettori che vogliono voltare pagina dopo vent'anni di scandali, di malapolitica, di sperperi, di prepotenze, di illegalità, di discredito dell'Italia nel mondo». Una stragrande parte del Paese che sottolineano «chiede ai suoi rappresentanti eletti in Parlamento, ai loro leader e ai loro portavoce, di impegnarsi fino allo stremo per riuscire a dare una fisionomia politica, dunque un governo di alto profilo» alle aspettative di un cambiamento. Don Gallo, il primo tra questi dieci a essersi espresso, giorni fa, a favore di una collaborazione tra parlamentari di centrosinistra e cinquestelle, ha poi aggiunto che a suo dire si dovrebbe anche rispettare il voto delle primarie Pd-Sel. A chi gli chiede se con Matteo Renzi il Pd avrebbe vinto le elezioni, risponde: «Secondo me no, ci sono state le primarie e il risultato va rispettato. Io conosco Renzi ha aggiunto e, come si dice per i calciatori, è uno di quei talenti che deve però maturare».


Michele Serra: «Questa occasione non vada sprecata»
di Luca Landò

Cosa ti ha spinto a firmare e lanciare l’appello? L’ottimismo della disperazione?

«Diciamo di sì. Unito alla voglia di definire in poche parole un umore molto diffuso, quello di chi spera di uscire da vent’anni di puro orrore politico, vede un Parlamento profondamente rinnovato (il più giovane d’Europa come età media) e teme che da tutto questo non esca uno straccio di governo. E si torni a votare senza nessuna garanzia che ci sia una maggioranza».

Mi sembra di capire che l’appello si rivolga al Pd, al Movimento 5 Stelle e probabilmente a tutti i parlamentari di buona volontà. È così? Sei davvero convinto che il Movimento 5 Stelle possa muoversi senza Grillo? O che addirittura possa spostare Grillo?

«Definirlo appello mi sembra eccessivo. È un volantino, un piccolo memo da appiccicare sul muro, è rivolto a nessuno e a tutti, chi vuole ne tiene conto, chi non vuole è libero di disprezzare la nostra fatica di metterci la faccia e il nome. Le domande sul Movimento Cinque stelle, esattamente come le domande sul Pd, vanno rivolte ai diretti interessati. Non ho alcuna idea di quale peso reale abbia lo slogan “uno vale uno” in un movimento così coeso. Allo stesso modo non ho alcuna idea di quanto il Pd, che è un partito di cultura soprattutto industrialista, sia disposto a fare davvero i conti con molte delle istanze delle Cinque stelle, a partire da quelle ambientaliste. Mi limito a sperare che qualcosa accada. Sperare èancora lecito, credo».

Per fare un matrimonio ci vogliono delle affinità, se non elettive almeno elettorali. Che cosa potrebbe convincere il Movimento 5 Stelle a sostenere, sia pure con riserve, un governo guidato dal centrosinistra?
«Per esempio, che non fosse un governo “guidato dal centrosinistra”. Ma un governo sostenuto dal centrosinistra. E formato da personalità considerate con rispetto sia dal centrosinistra che dalle Cinque Stelle. Hai presente un’utopia? Ecco».

Nel testo scrivete che per la prima volta ci sono i numeri per “dare corpo a un cambiamento sempre invocato, mai realizzato”. La lista delle cose che vorresti cambiare immagino sia lunga: da dove cominceresti?
«Legge elettorale, legge anticorruzione, riforma radicale dei partiti (molti meno soldi, molta più trasparenza, più democrazia interna), stop alla cementificazione dei suoli, avvio della sola Grande Opera che cambierebbe in meglio la faccia del Paese e la sua dignità: risanare il territorio e recuperare il patrimonio edilizio dismesso».

Nell’appello parlate di «governo di alto profilo». È la speranza di tutti noi. Ma pensi che un governo senza una maggioranza precostituita possa andare alla Camera e giocarsi l’osso del collo in un voto alla «o la va o la spacca»?
«Se è formato da gente per bene e autorevole, se il programma è chiaro e virtuoso, e se si trova il modo di parlarsi senza spregio reciproco, penso che ci si potrebbe provare. C’è una possibilità su cento. Più che al Superenalotto».

Leggete e firmate l'appello qui

E’ necessaria «una radicale rimessa in discussione dei vincoli di bilancio. Con una campagna promossa in modo coordinato a livello europeo (le forze non mancano), ma radicata nelle iniziative di base che costellano da tempo l'intero paese».

Il manifesto, 8 marzo 2013

Governo dei mercati? O governo dei cittadini, membri della civitas: cioè, oggi, tutti coloro che vivono nello stesso paese? Un concetto da tener presente - senza impuntarsi sulle parole - quando si parla di reddito di cittadinanza: una misura che "rende cittadini", consegnando a tutti il diritto a una vita dignitosa. Il governo dei mercati, quello di Monti (regista Napolitano), ha ricevuto dal voto una solenne sconfessione. Come il progetto di sostituirlo con un centro-sinistra, eletto e non nominato, che ne rilevasse i punti qualificanti del programma. Che sono i vincoli finanziari - pareggio di bilancio e fiscal compact - per garantire alla finanza internazionale la solvibilità del debito pubblico e dei relativi interessi: a spese di salari, pensioni, occupazione, giovani, piccole imprese, sanità, cultura, istruzione, e tutto il resto. Si tratta di consegnare ogni anno alla finanza, per i prossimi 20 anni, 130-150 miliardi, da ricavare interamente dalle entrate fiscali estratte dal corpo vivo del lavoro e dalla compressione continua della spesa pubblica: un salasso di proporzioni inimmaginabili, che finora nessun governo aveva mai nemmeno tentato.

Quei vincoli restano, anche se forse verranno sottoposti a qualche rimodulazione che non ne attenuerà comunque le conseguenze. Ma non avranno più chi li amministri da Palazzo Chigi: e questo è un rischio mortale non solo per il nostro paese, ma anche per l'euro e per l'economia del mondo intero. Le cui classi dirigenti, soprattutto in Europa (ma il Fondo Monetario Internazionale non è stato da meno) hanno dimostrato di non avere alcuna strategia per affrontare la crisi che hanno provocato. Non avevano previsto il disastro umano e civile imposto alla Grecia che ha anticipato quello che sta travolgendo oggi i paesi balcanici e che sta per esplodere in Portogallo, Spagna e Italia. Ora comincia a tremare anche la Francia e non stanno molto bene nemmeno gli arroganti governi dell'Europa centro-settentrionale.

Nessuno ha finora prospettato delle soluzioni sensate per invertire la rotta: le politiche keynesiane, amministrate a livello statuale o di eurozona, non bastano più e le proposte che le sponsorizzano a colpi di Grandi Opere sono penose (e perdenti). Per questo navigano tutti a vista, preoccupati soltanto di ricavarne qualche tornaconto finanziario o politico immediato. Monti (il terzo clown, bocciato insieme al cagnolino che doveva renderlo simpatico e lo ha reso ridicolo) è tra loro: aveva salutato il primo e il secondo memorandum, che ha mandato in malora la Grecia, come la strada per metterla in salvo; e mentre si vanta di aver evitato all'Italia la stessa fine, ci ha imposto esattamente la stessa ricetta, con risultati che ogni giorno diventano più evidenti. Ma quanto potrà durare una prospettiva del genere se il fuoco comincia a dilagare per tutta la prateria europea?

Nessun partito in Italia, ma presto anche in molti altri paesi, è più in grado di garantire il rispetto di quei vincoli finanziari chiaramente insostenibili. Ma nessuno, oggi, è in grado di respingerli apertamente, imponendone - o anche solo lavorando per imporne - una drastica rinegoziazione. E' un'estenuante e micidiale pantomima in attesa che l'euro si dissolva da sé, trascinando nel caos un paese dietro l'altro, per l'incapacità di governarlo; o che i paesi più forti abbandonino la nave che affonda, lasciando affogare gli altri paesi-membri e sperando di mettere in salvo quanto resta del malloppo che hanno lucrato nei dieci anni di euro (non poco: sbocchi per le loro esportazioni e prestiti usurari delle loro banche, bassi tassi di cambio e di interesse sul loro debito pubblico e sui crediti alle loro imprese; pace sociale e altro ancora). Ma l'ingovernabilità si sta facendo endemica e ormai dilaga in tutto il continente.

I risultati delle elezioni italiane, con la vittoria del non-partito del non-governo di Beppe Grillo riflette esattamente questo stallo, destinato a protrarsi nel tempo e a diffondersi nello spazio. Perché il fallimento del governo dei mercati non apre di per sé la strada a un governo dei cittadini: non saranno Beppe Grillo, né il partito-azienda di Casaleggio, né il Movimento cinque stelle, né il suo elettorato (che sono quattro cose distinte e differenti, e presto ce ne accorgeremo; e se ne accorgeranno anche gli interessati), non saranno loro a introdurre in Italia un governo dei cittadini: il loro programma, dove indicazioni generiche si mischiano a progetti sacrosanti e a prescrizioni perentorie, non lo prevede. Anzi, non prevede alcun governo.

D'altronde un governo dei cittadini non si decide né si programma in parlamento, e meno che mai su un blog; se nasce, nasce dal basso, a pezzi e bocconi, quando si presentano congiuntamente le condizioni per realizzarlo, la volontà - o anche solo la necessità - di costituirlo e la capacità e le competenze per costruirlo. E' il governo indispensabile per promuovere un'autentica conversione ecologica; è fatto soprattutto di "corpi intermedi", di assemblee, di comitati, di gruppi di lavoro, di iniziative civiche; non può che essere incentrato su progetti e programmi locali di riconversione, circostanziati e promossi dai lavoratori e dai cittadini direttamente coinvolti dal "fermo-macchine" della produzione; deve essere animato dalla partecipazione diretta al governo dei servizi pubblici e alle decisioni delle amministrazioni locali. Sono tutte cose che si interpongono tra una leadership e la sua base, e che possono minare dal basso la compattezza della falange parlamentare delle cinque stelle. Non è detto che Beppe Grillo le contrasti: certo finora non le ha favorite, anche se si è molto avvantaggiato di quelle che sono cresciute per conto loro in questi anni. Ma è qui, ai "piani bassi", e non certo a livello di governo e di programmi nazionali, che si possono per ora inserire iniziative di convergenza, di collaborazione, senza escludere possibili conflitti: sia con la miriade di buone pratiche sociali e di lotte che in vario modo si sono coagulate nel voto alle cinque stelle; sia con milioni di cittadini e lavoratori, elettori di Grillo e non, che in questo clima di dissoluzione della rappresentanza possono ritrovare la strada di un loro nuovo o rinnovato impegno politico e civile. Tenendo conto che il tempo stringe.

E tenendo soprattutto conto che le misure, sensate e non, ma in gran parte propagandistiche, prospettate dai diversi schieramenti in campagna elettorale, dal reddito di cittadinanza (o di sussistenza) alla green economy, dal finanziamento di scuola e ricerca alla conversione energetica, dalla difesa dell'occupazione alla nazionalizzazione di banche e grandi utilities, dal microcredito alla salvaguardia dei suoli, per non parlare della restituzione o della riduzione dell'Imu, non sono praticabili nel quadro dei vincoli accettati e sottoscritti dal governo Monti e da chi l'ha sostenuto fino a ieri (addirittura con una riforma della costituzione sottratta alla verifica di un referendum). Dunque?

La vera discriminante politica - il risultato principale che emerge dall'esito, per altri versi confuso e indecifrabile, delle elezioni - è la necessità di una radicale rimessa in discussione dei vincoli di bilancio. Con una campagna promossa in modo coordinato a livello europeo (le forze non mancano), ma radicata nelle iniziative di base che costellano da tempo l'intero paese. Occorre collegarsi con i movimenti organizzati degli altri paesi-membri dell'Ue che si trovano in una situazione analoga - senza trascurare le intese con i movimenti dell'altra sponda del Mediterraneo - e unire le forze in una mobilitazione generale contro l'economia del debito: per la sua mutualizzazione, o la sua rinegoziazione, o il suo congelamento (l'Italia, peraltro, ha un debito gigantesco, ma anche un avanzo primario rilevante; congelando il debito potrebbe evitare il ricorso ai mercati finanziari per anni).

Sono misure che possono venir combinate in diversi mix; ma che costituiscono comunque l'altra faccia, indispensabile, di quel processo di costruzione di un governo dei cittadini che l'attuale vacanza politica mette all'ordine del giorno. La mancanza di questa dimensione è il limite principale contro cui si stanno scontrando, da un lato, la giunta Pizzarotti, che avrebbe dovuto fornire a tutto il paese la prova della capacità di governo del movimento cinque stelle; dall'altro, la giunta De Magistris, che dovrebbe fornire a tutti un modello da generalizzare per una gestione partecipata dei beni comuni. Ma dentro il patto di stabilità, senza una mobilitazione generale per azzerarlo, l'iniziativa locale soffoca. E per rimuovere quel patto bisogna smuovere l'intera Europa. Un solo Golia, ma tanti David.

Il tempo per scegliere non è molto, e le alternative a una rottura netta col passato sono inquietanti. La storia le ha già conosciute, nel “secolo breve”.

La Repubblica, 6 marzo 2013

Pierluigi Bersani ha messo sul tavolo le sue carte. Molte delle quali erano già note. Ha chiesto al suo partito di sostenerlo in questa prima fase di trattative. Basa il suo ragionamento sul risultato elettorale: il centrosinistra ha la maggioranza assoluta alla Camera, quella relativa al Senato. Un dato sufficiente per reclamare l’incarico di formare un governo. O almeno di provarci: di sondare fino in fondo l’indisponibilità di Beppe Grillo a far nascere qualsiasi tipo di esecutivo che non sia guidato da un esponente del Movimento 5Stelle. Una esplorazione avviata rimettendo sul tappeto due concetti che, a suo giudizio, potrebbero intercettare il gradimento grillino (e anche di Matteo Renzi): quello di unire l’opportunità di un’alleanza Pd-M5S al cambiamento; e quella della governabilità non disgiunta dalla società civile. Quasi che volesse dire all’ex comico: sono pronto a guidare il Paese tenendo conto delle istanze esplose nel voto al Movimento e provenienti dai ceti più disagiati e disgustati dai “vecchi” partiti. Certo, è il ragionamento di Bersani, se poi la risposta resta negativa, allora la responsabilità del caos non può che ricadere su Grillo: ci abbiamo provato ma se i vitalizi, gli stipendi dei parlamentari, i costi della politica sono sempre gli stessi, allora la colpa è loro e non nostra.

Un ragionamento che per ora è stato sufficiente per incassare il via libera dei Democratici. Per ora. Perché la vera partita si giocherà nei prossimi giorni. Nel Pd, infatti, in pochi scommettono sulla possibilità che il cosiddetto “piano A”, quello disegnato dal segretario, possa avere davvero successo. Non lo pensano i leader delle correnti e soprattutto non lo crede il presidente della Repubblica Napolitano. Il voto sostanzialmente unanime espresso al termine della riunione è il segno più marcato che si è trattato di un passaggio preliminare. Di un modo per tutelare la collegialità rinviando il confronto sulle “subordinate”. Quali? Un altro governo, con un presidente del Consiglio non di partito, che raccolga i voti in tutti gli schieramenti. Anche il Pdl. Oppure il ritorno alle urne. Il Pd, se e quando Bersani avrà esaurito il suo mandato, si troverà di fronte ad un bivio che può spaccarlo come è accaduto in passato. Stavolta, però, il quadro è decisamente più complicato. Perché sulle due alternative è già in corso da dieci giorni un vero e proprio braccio di ferro tra il Quirinale e la segreteria democratica. Napolitano non può accettare di concludere il suo settennato lasciando l’Italia nel limbo di un’altra campagna elettorale, Bersani non può accettare di far cadere il suo partito nella trappola delle “larghe intese” consegnando un vantaggio competitivo ai grillini alle prossime elezioni. Soprattutto non può accettare l’idea di dar vita ad una coalizione con Berlusconi. Come dice Massimo D’Alema: con un centrodestra normale sarebbe naturale fare un “inciucio”, ma con il Cavaliere no. Una condizione che per la sua popolarità nel centrosinistra può diventare il vero atout contro il “compromesso” ma anche l’irresistibile chiodo a cui appendere lo scioglimento del Parlamento e le elezioni già questa estate.

Eppure nel Pd la faglia si è già aperta. Basti pensare che Veltroni non ha parlato e che lo stesso D’Alema ha comunque prospettato la necessità teorica di una Grosse Koalition.

La paura di sottoporsi di nuovo al giudizio dei cittadini infatti spaventa tutti: centrodestra e centrosinistra. Il fronte pronto ad ingoiare un’altra maggioranza spuria si è quindi già materializzato. E il Colle ha fatto intuire quali possano essere le subordinate. Il percorso che conduce ad un “governo del presidente” è la prima vera alternativa. La pressione dell’emergenza economica e i giudizi della comunità internazionale saranno i due fattori che condizioneranno la seconda fase della trattativa. Napolitano vuole fare in fretta: il suo mandato di fatto scade il 15 aprile, quando le Camere si riuniranno per eleggere il suo successore. Il fantasma che agita una parte del Pd (a cominciare dai bersaniani) è quindi quello di un esecutivo che agisca sotto l’ombrello protettivo del presidente della Repubblica, che offra le adeguate garanzie all’Europa e ai mercati internazionali, e che permetta l’approvazione di una nuova legge elettorale. Ma con una controindicazione: può un “governo del Presidente” nascere e restare in vita se il Presidente cambia? Come è accaduto per Monti, Napolitano è stato il vero tutor dei tecnici. Come è possibile che accada lo stesso se il settennato del Quirinale sta per scadere? Non è possibile, a meno che l’itinerario istituzionale non preveda anche la conferma sul Colle dell’attuale inquilino. Eppure ormai tutto spinge in quella direzione. Se poi le borse e lo spread faranno sentire il fiato sul collo della nostra politica, se le agenzie di rating dovessero lanciare un ennesimo avvertimento, allora la strada per un esecutivo del presidente diventerà obbligatoria.

Ma quella è forse la terza fase di questa lunga partita a scacchi. Tra due settimane il capo dello Stato affiderà il “primo” incarico. Da qui ad allora, Bersani scommetterà ancora sull’accordo con i grillini. Spera che alcuni dei senatori del M5S inducano il loro capo a più miti consigli e ad avallare almeno una iniziale nascita del governo Bersani. Una speranza che allo stato si sta rivelando vana. Esattamente la considerazione che molti democratici hanno fatto ieri. Forse per questo molti di loro hanno iniziato a sperare in una “seconda carta” interna al partito, magari una donna, se il centrodestra riuscirà concretamente a “deberlusconizzarsi” il prossimo 23 marzo quando è prevista la sentenza d’appello per il processo Mediaset. Ma affidare le speranze al passo indietro del Cavaliere significa non aver ancora capito come è fatta la destra italiana e quanto è tenace il suo leader. Una ulteriore sentenza di condanna non farà altro che rendere ancora più indigeribile l’opzione di una maggioranza con il Pdl. Anche se qualcuno le volesse mascherare dietro un abusato motto della Prima Repubblica: le convergenze parallele.

«La nostra democrazia sopravvivrà solo se dalle macerie nasceranno dei veri partiti democratici.». La

Repubblica, 4 marzo 2013

PROTESO a realizzare il suo obiettivo dichiarato – cioè una democrazia senza partiti – Beppe Grillo ha garantito ai suoi elettori che, tanto per cominciare, questi partiti fra sei mesi non ci saranno più. Magari stroncandoli in un nuovo passaggio elettorale, che appare sempre più probabile
Ieri i neoeletti rivoluzionari 5 Stelle hanno avviato i preparativi per aprire il Parlamento «come una scatoletta di tonno», all’apparenza incuranti della drammaticità del momento. Lui medita, soverchiato dall’immensa responsabilità che gli tocca. Ma finora, dall’esterno, ha concentrato la sua vis polemica nel tentativo di frantumare l’ultimo partito che in Italia mantiene una significativa struttura nazionale, cioè il Pd. Altro che dialogo, collaborazione, alleanze. Grillo non demorde: Bersani è «fuori dalla storia»; e «quando si aprirà la voragine del Monte dei Paschi di Siena forse del pd noelle non rimarrà neanche il ricordo». La sua intenzione, a meno di un ripensamento, è estrema: ridurre anche il Pd a mero agglomerato di potentati locali, come di fatto sono già le altre formazioni politiche. Naturalmente s’impongono ottime ragioni per denunciare l’inadeguatezza burocratica degli apparati che sopravvivono alla crisi del sistema dei partiti. Lo stesso Movimento 5 Stelle porta nelle istituzioni significative rappresentanze del solidarismo comunitario cresciuto in numerose vertenze territoriali, incomprese e respinte dalla forma-partito. Uno spirito civico, un’idea di pubblico, una spinta partecipativa che la politica non ha saputo riconoscere.

Ma resta, drammatica, la domanda: può esistere una democrazia senza partiti? O il vuoto che essi lasciano è destinato a essere riempito da un nuovo potere tecnocratico calato dall’alto? Se infatti è vero che la Repubblica italiana in sessantacinque anni non ha regolato l’articolo 49 della sua Costituzione, là dove prescrive che i partiti devono agire “con metodo democratico”, non è un caso che risulti altrettanto inevasa l’attuazione del successivo articolo 50: “Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità”. Quando mai le Camere si sono aperte alla legittima partecipazione dei cittadini? Beppe Grillo non è un improvvisatore quando proclama, a pagina 79 del libro scritto con Dario Fo e Gianroberto Casaleggio (Il grillo canta sempre al tramonto, Chiarelettere): “Noi vorremmo che i partiti scomparissero radicalmente”. E difatti prosegue: “Lo so, molti potrebbero domandare: ma in Parlamento se non ci sono i partiti chi ci sarà? Come può esistere un Parlamento senza i partiti? Ci saranno i movimenti, i comitati, tutte espressioni di esigenze che provengono dalla società civile”. Prima di liquidarlo come velleitario utopista o, peggio, come eversore, dobbiamo riconoscere che il suo pensiero si inscrive in un filone movimentista di antica tradizione giacobina, anarchica, pansindacalista: da Saint Just a Bakunin, a Sorel. Per oltre un secolo i movimenti rivoluzionari sono stati percorsi da questa contrapposizione fra partiti e anti-partito che talora ha assunto forme violente. Da ultimo il leader 5 Stelle ha voluto richiamarsi a un testo del 1940 di Simone Weil, uscito postumo col titolo Manifesto per la soppressione dei partiti politici.

Poco importa che la giovane pensatrice francese l’avesse concepito in polemica col totalitarismo stalinista, nell’ambito di un dibattito sulle forme organizzative che avrebbe dovuto assumere la Resistenza all’occupazione nazista. Né importa che quel suo richiamo assoluto ai principi della Rivoluzione francese, degenerata nel Terrore, e allo scetticismo antidemocratico di Platone, già avesse ispirato Maurras e i primi movimenti fascisti d’oltralpe. A Grillo interessa sostenere, con Simone Weil, che “ogni partito è totalitario in nuce”.

Per replicare all’idea M5S di una democrazia senza partiti, nei giorni scorsi è stato diffuso su Internet un filmato di Hitler che nel 1932 adoperava contro i partiti della Repubblica di Weimar un linguaggio molto simile a quello grillino: “Noi non siamo come loro! Loro sono morti, e vogliamo vederli tutti nella tomba!”. Ma sono schermaglie di scarso significato. Sottoposto com’è a una sfida esistenziale, il Partito democratico, in special modo – per via delle sue finalità sociali e dello stesso nome che porta – non può ignorare il trauma dei legami recisi con tanti protagonisti di conflitti economici, ambientali e civili. Non può liquidare come fenomeno di destra la confusa aspirazione a far senza questi partiti così malridotti. L’errore madornale del Pd è stato quello di proporsi la conquista di un voto moderato del tutto esiguo, anziché farsi interprete della radicalità delle questioni etiche e sociali esplose nella Grande Depressione.

Salvaguardare il Partito democratico dal concreto pericolo di demolizione implica quindi una relazione aperta con il nuovo movimento antipartito. Fino ad aprirsi alle sue istanze partecipative che imporranno al Pd un ricambio generazionale e culturale del gruppo dirigente, oltre che una profonda mutazione organizzativa e di stili di vita. La difesa di una democrazia rappresentativa, come tale fondata sul pluralismo delle formazioni politiche, ma capace di dare voce nelle istituzioni alla partecipazione dei cittadini, nei prossimi anni si configura come l’unica risposta possibile ai diktat autoritari sempre in agguato, quando esplode la rivolta.

Se è vero, infatti, che il progetto di Grillo ha connotati teoricamente rivoluzionari, resta ben singolare la natura del suo movimento: a differenza di Occupy Wall Street e degli Indignados, fenomeni giovanili di critica radicale al sistema capitalistico, il M5S è stato concepito da due maturi benestanti. Sebbene abbiano già raccolto intorno a sé la maggioranza della generazione under 40 sacrificata dal sistema, per ora la instradano in una sorta di lunga marcia nelle istituzioni. Contrariamente alle intenzioni dichiarate da Grillo e Casaleggio, è probabile quindi che per loro sia segnato il destino di dar vita a un nuovo partito. Per l’appunto, la nostra democrazia sopravvivrà solo se dalle macerie nasceranno dei veri partiti democratici.

Forse la via d'uscita dall'attuale crisi politica e di rappresentanza si può cercare nella Carta fondativa del nostro paese, dalle potenzialità spesso sottovalutate.

La Repubblica, 3 marzo 2013

La spietata eloquenza dei numeri azzera la retorica liquidatoria che fino a ieri bollava di “antipolitica” ogni sillaba di ogni grillino e porta il Movimento Cinquestelle, divenuto il primo partito italiano, al centro della politica. «Antipolitica, parola violenta e disonesta», ha scritto Gustavo Zagrebelsky in queste pagine; violenta specialmente in bocca a chi ha sdoganato in passato, in nome della Realpolitik, indiscussi campioni dell’antipolitica come Berlusconi e la Lega. Oggi i numeri del Senato impongono la scelta fra due strade: la prima è l’abbraccio mortale con Berlusconi per un cosiddetto governissimo che sarebbe un governicchio incapace di gestire non dico la crisi ma l’ordinaria amministrazione, in una legislatura breve destinata a finire rovinosamente sfociando in nuove elezioni con Grillo sopra il 50%.

La seconda, verso la quale si registrano faticose aperture, è una maggioranza d’obiettivo Pd-5Stelle. Ezio Mauro ha detto quale dovrebbe essere il programma, peraltro obbligato, di un’alleanza come questa: nuova legge elettorale, drastiche misure contro il conflitto di interessi, riduzione dei costi della politica, revisione del bicameralismo perfetto; Stefano Rodotà ha aggiunto diritti delle persone e beni comuni. Su questo terreno è possibile una convergenza tattica di breve periodo, se il piano è di eleggere i presidenti delle Camere e il Capo dello Stato, affrontare il menu delle riforme e tornare al voto. Sarebbe una maggioranza fragile, afflitta da mutue diffidenze, potenzialmente rissosa. E assediata da Berlusconi e da montiani con voglie di rivalsa. Gettando il cuore oltre l’ostacolo, è dunque il caso di chiedersi se non sia possibile cercare un terreno d’intesa strategica più ampio e radicale.

La prima mossa per farlo è una pratica abbandonata, una virtù desueta: quella dell’autocritica. Il Pd sembra specialmente allergico a qualsiasi analisi dei propri errori, dalla Bicamerale all’incondizionato appoggio al governo “tecnico”, che ha ridotto lo spread al costo di paralizzare il Paese, accrescere la disoccupazione e il disagio sociale, mettere in campo un nuovo partitino di destra. Ma il fallimento di una campagna elettorale che si è afflosciata subito dopo le primarie, quasi che fossero più importanti delle elezioni nazionali, dovrebbe far riflettere. Milioni di italiani (anche chi ha votato Ingroia) hanno dichiarato col voto di non poter più seguire un Pd il cui progetto per il futuro si fonda sull’obbedienza al Volere dei Mercati (ripetendo fedelmente le giaculatorie di Monti). Grillo e i suoi, molti ripetono, non hanno cultura di governo; sanno dire solo dei no, vogliono spaccare tutto all’insegna di una generica indignazione civile, non hanno un vero programma.

E se invece i formidabili anticorpi spontanei contro il sistema che hanno raccolto più di otto milioni di elettori intorno al Movimento 5Stelle avessero un dna comune, una matrice riconoscibile, da cui possa partire una vera proposta di governo? E se il Pd, dopo la vittoria di Pirro che deve ancora digerire, ritrovasse in quello stesso dna qualche ragione di riflessione su se stesso, sull’Italia, sul futuro? Questo terreno comune esiste, nonostante lo sforzo di auto-accecamento che ci impedisce di vederlo: si chiama Costituzione.

Negli ultimi decenni si è aperto un baratro fra i principi della Carta fondamentale e le pratiche di governo. Nella Costituzione troviamo scritta la sovranità popolare, il diritto al lavoro, il diritto alla salute, il diritto alla cultura, il precetto di orientare l’economia e la proprietà secondo il principio supremo dell’utilità sociale (cioè del bene comune). Troviamo un orizzonte dei diritti, mai pienamente attuato, per cui possiamo dire con Calamandrei che «lo Stato siamo noi». Lo Stato, non i governi. Perché i governi hanno fatto il contrario: hanno smontato lo Stato, ridotto lo spazio dei diritti, svenduto le proprietà pubbliche, anteposto il guadagno delle imprese al pubblico interesse, promosso la macelleria sociale (l’espressione è di Mario Draghi) e la creazione di “generazioni perdute” di giovani.

In nome di una concezione miserabile dell’economia come cieca obbedienza alle manovre della finanza, genuflessione ai mercati, concentrazione della ricchezza e pauperizzazione dei più, la democrazia è stata sospesa e mortificata, sono cambiate le regole della politica. “Politica” è il pubblico discorso fra cittadini, che ha come fine la pubblica utilità, come strumento il governo, come regola la democrazia. “Antipolitica” è regolare le sfere vitali della comunità (economia, società, etica) sfuggendo alle regole della democrazia, ponendo l’impersonale supremazia dei mercati al di sopra di ogni istanza di giustizia, di libertà, di eguaglianza. I cittadini che protestano contro tanta violenza, anche se in modo scapigliato e informe, hanno più voglia di politica di molti che la fanno per mestiere, storditi dai tatticismi di partito.

Associazioni e movimenti reclamano più (e non meno) politica, cioè una più alta, forte e consapevole voce dei cittadini. Questo è il senso del travolgente referendum sulla proprietà pubblica dell’acqua, questo è (lo ha scritto in queste pagine Barbara Spinelli) il senso del successo-tsunami del Movimento 5Stelle. Una forte iniezione di Costituzione nelle ragioni dei movimenti non ne cambia le istanze di fondo, le rafforza. In nome della Costituzione, gli anticorpi spontanei che si manifestano oggi nell’indignazione e nel voto (e domani potrebbero diventare barricate e sommosse) possono prendere coscienza del drammatico gap fra orizzonte dei diritti e pratiche di governo. Possono provare a sanare questo gap non chiudendo gli occhi davanti ai problemi (per esempio il debito pubblico), ma cercandone la soluzione in nome non solo dei mercati ma dell’utilità sociale (per esempio colpendo l’evasione fiscale)

Con lo Stato contro i governi: questa lettura del “voto di protesta” (o delle astensioni) passa attraverso la legalità e la Costituzione. Ci ricorda un antico principio del diritto romano (resuscitato in alcune recenti Costituzioni, per esempio in Brasile), l’azione popolare, e cioè il diritto dei cittadini di agire in giudizio, in nome della legalità, contro governi e pubbliche amministrazioni che non la rispettino. Misurare i drammi dell’economia sul metro della Costituzione, cercarvi soluzioni graduali tenendo l’ago della bussola fisso sul bene comune, principio supremo che informa ogni parola della nostra Carta fondamentale. Su questo terreno comune, perché non potrebbe formarsi oggi una maggioranza di governo un po’ più coraggiosa, un po’ meno fragile?

«Un vero e proprio atto di corruzione che, se confermato, avrebbe certamente cambiato la storia del nostro Paese».

La Repubblica, 2 marzo 2013

È SOPRATTUTTO l’illuminante radiografia di un’operazione che configura «un attentato alla democrazia», come dice la vittima di quel complotto, Romano Prodi: «Un vero e proprio atto di corruzione che, se confermato, avrebbe certamente cambiato la storia del nostro Paese».

BANCONOTE DA 500 EURO

Volendola raccontare, forse è giusto dunque chiamarla in un altro modo: tecnica di un golpe bianco. Perché leggendo la desolante confessione di De Gregorio — l’uomo che incassava pacchi di biglietti da 500 euro e aveva persino l’ingenuità di domandare “scusate, ma perché me li date in nero?” — scorrendo l’inquietante ricostruzione degli eventi che i magistrati hanno appena consegnato al Parlamento, è difficile sfuggire al sospetto che sedici anni di vita politica italiana, dal primo voltagabbana che nel 1994 consentì a Berlusconi di avere la fiducia al Senato fino all’ultima transumanza pilotata, quella con cui i “Responsabili” evitarono al Cavaliere di cadere alla Camera alla fine del 2010, siano stati inquinati, avvelenati, truccati da un inconfessabile fiume carsico di milioni in nero, distribuiti a piene mani da un uomo che ha sempre creduto che tutti, alla fine, abbiano un prezzo.
L’OPERAZIONE LIBERTA’
Dei soldi sappiamo già tutto. Quella che De Gregorio, con linguaggio da ragioniere, ha definito «la mia previsione di cassa», era di tre milioni di euro, anche se poi Lavitola gliene consegnò solo due, «in tranches da 200 e 300 mila euro ». A partire dal mese di luglio 2006: e la data è importante, perché in quel momento, e ancora per altri due mesi, De Gregorio è un senatore del gruppo di Italia dei Valori. Eletto dai dipietristi, da Berlusconi. Pagato per fare cosa, esattamente? Siamo nel 2006, Prodi ha vinto d’un soffio le elezioni e ha una maggioranza risicatissima al Senato: il margine è di quattro voti, basta che due passino dall’altra parte e il governo cadrà.
Così, racconta De Gregorio, lancia la sua Operazione Libertà: «Era deciso a individuare il malessere di alcuni senatori che potessero determinare l’evento finale». In concreto, spiega l’astuto ex senatore napoletano, io ebbi un compito preciso: «Il sabotaggio del governo Prodi». Avvenne subito dopo la sua elezione a presidente della commissione Difesa con i voti del centrodestra e contro il centrosinistra, che candidava Lidia Menapace. «Allora discussi a Palazzo Grazioli con Berlusconi una strategia di sabotaggio, che io accettai di adottare rimanendo dentro il gruppo di Italia dei Valori». Come? domandano i magistrati. «Attraverso una serie di azioni che avrebbero indebolito sicuramente il governo all’interno della sua eterogeneità». Per esempio? «I metodi erano diversi», risponde De Gregorio. Il principale però era uno: «Procurarsi dei voti in Parlamento».
L’ODORE DEI SOLDI
“Procurarsi” è una parola anfibia, nel terreno della politica. In Parlamento convincere gli altri a cambiare idea, a sposare la propria causa o ad accettare un compromesso, è il pane quotidiano. Ma non è del libero convincimento che il furbo De Gregorio sta parlando. Non si tratta di persuaderli, si tratta di corromperli. Di comprarli a uno a uno. L’operazione è ad ampio raggio, come vedremo, ma De Gregorio si assume il compito di acquistare il voto di un compagno di partito. «Dissi a Berlusconi che forse Giuseppe Caforio poteva ascriversi al ruolo degli indecisi ». «Puoi offrirgli fino a cinque milioni» risponde il Cavaliere. Ma l’operazione fallisce: Caforio finge di stare al gioco, registra il colloquio e presenta una denuncia penale. Meno uno.

De Gregorio intanto è stato messo alla porta, e il 24 settembre del 2006 esce dall’Idv. In commissione Difesa fa il sabotatore, bloccando tutte le richieste del governo, ma in aula continua a votare la fiducia.

E’ presto per uscire allo scoperto, bisogna aspettare il momento buono. Berlusconi decide di fare una prima prova il 28 febbraio 2007, quando Prodi viene rinviato alle Camere da Napolitano. De Gregorio vota no, finisce 162 a 157: bisogna conquistare ancora tre senatori, per buttare giù il governo. Ci vorranno altri undici mesi, prima che l’impresa riesca.
LA CADUTA DI PRODI
La prima crepa si apre il 16 gennaio 2008, quando Clemente Mastella arriva sconvolto a Montecitorio e annuncia in aula le sue dimissioni da ministro Guardasigilli. Cos’è successo? Ha appena saputo che la procura di Santa Maria Capua Vetere vuole chiedere l’arresto di sua moglie. Chi gliel’ha detto? Non si sa, ma lo scopriremo tra poco. Quattro giorni dopo, Mastella ritira l’appoggio dell’Udeur al governo, costringendo Prodi a presentarsi un’altra volta al Senato per la fiducia, il 24 gennaio 2008. E stavolta viene impallinato: 161 a 156.
Scorriamo l’elenco di chi è passato dall’altra parte: accanto a De Gregorio, e a Mastella, ci sono due “liberaldemocratici”, Lamberto Dini e Giuseppe Scalera. E tutti notano l’assenza di Luigi Pallaro, detto “el senador”, eletto in Argentina dagli emigrati. Misteriosamente, invece di presentarsi in aula ha mandato uno strano messaggio: «In questo difficile momento di crisi non partecipo al voto per lasciare spazio alle decisioni del capo dello Stato». In Parlamento si sparge l’odore dei soldi. Qualcuno è stato corrotto, accusa il Pd. Ma le prove, dove sono le prove?
LAVITOLA RIVELA IL PIANO
Le prove, i magistrati le trovano in una lunga lettera che il faccendiere Valter Lavitola ha inviato a Berlusconi dalla latitanza in Brasile (latitanza consigliatagli dallo stesso Cavaliere, risulta agli atti), un documento che i magistrati napoletani definiscono «di fondamentale e speciale importanza». Al presidente del Consiglio, il 13 dicembre 2011 il faccendiere latitante chiede aiuto, ricordandogli i debiti che ha verso di lui: «Lei subito dopo la formazione del governo, in questa legislatura, con Ghedini e Verdini presenti, mi disse che era in debito con me e che Lei era uso essere almeno alla pari. Era in debito per aver io “comprato” De Gregorio, tenuto fuori dalla votazione cruciale Pallaro, fatto pervenire a Mastella le notizie dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, da dove erano arrivate le pressioni per il vergognoso arresto della moglie, e assieme a Ferruccio Saro e al povero Comincioli “lavorato” Dini.
Ciò dopo essere stato io a convincerLa a comprare i senatori necessari a far cadere Prodi».
Ecco cosa prevedeva dunque l’Operazione Libertà, ed ecco chi ne era stato il braccio esecutivo (non l’unico, come vedremo). E’ un millantatore, questo Lavitola? Macchè. Come lui stesso ricorda puntigliosamente nella lettera, oltre alla promessa di un seggio al Parlamento europeo o di un posto nel cda della Rai, Berlusconi gli aveva già concesso molte cose: «La Ioannucci nel cda delle Poste (aveva promesso di darle anche la presidenza di Banco Posta, anche se ciò non è stato mantenuto) e il commissario delle dighe (ruolo inventato da me con Masi, quando era a Palazzo Chigi». Non solo, ma il Cavaliere aveva anche messo mano al portafogli: «Un finanziamento all’Avanti! di 400 mila euro nel 2008» e «4-500 mila euro (non ricordo) di rimborso spese per la “Casa di Montecarlo” (...) quando io le portai i documenti originali di Santa Lucia». La “Casa di Montecarlo”, come tutti sanno, è il dossier scagliato contro Fini per vendicarsi della sua uscita dal Pdl.
LA VERITA’ SUI VOTI COMPRATI
Capire quello che accadde davvero quel 24 gennaio 2008, quando Prodi venne abbattuto a Palazzo Madama con un margine di tre senatori, diventa più semplice. De Gregorio era stato comprato a suon di milioni. A Mastella era stata fatta arrivare al momento giusto una notizia ancora coperta dal segreto istruttorio, spingendolo a rompere con Prodi. Pallaro era stato convinto — non sappiamo con quali argomenti ma possiamo averne un’idea — a restare lontano dal Parlamento proprio nel giorno in cui il suo voto poteva risultare decisivo. L’ex premier Lamberto Dini era stato, per usare l’espressione di Lavitola, “lavorato”. Quanto all’altro “liberaldemocratico” che con la sua astensione ha dato anche lui il suo contributo alla caduta del governo, il senatore napoletano Giuseppe Scalera, leggiamo quello che dichiara ai magistrati uno dei protagonisti dell’inchiesta sulla P3, Arcangelo Martino:
«Sica (ex assessore della Regione Campania, ndr) mi disse che Berlusconi doveva a lui la caduta del governo Prodi, in quanto si era adoperato con l’aiuto di un imprenditore ben conosciuto da Berlusconi per convincere, previo esborso di denaro, alcuni senatori a votare contro il governo. Mi fece il nome del senatore Andreotti e del senatore Scalera. Mi mostrò anche dei fogli su cui, a suo dire, vi erano segnati gli estremi dei bonifici». Dei bonifici, però, i magistrati non hanno trovato traccia.
A questo punto, il quadro è nitidissimo. Non serve neanche ricordare le voci di un’offerta di due milioni di euro che si diffusero nel novembre 2007, due mesi prima del colpo di grazia, quando Berlusconi ebbe un lungo incontro con il senatore Nino Randazzo — eletto nel più grande collegio del pianeta: Asia-Africa-Oceania-Antartide — costringendo l’interessato a smentire: «E’ vero, ho visto Berlusconi ma abbiamo parlato solo di Australia. Lui è un incantatore di serpenti». E Randazzo, probabilmente, non si era fatto incantare.

«La Repubblica, 1 marzo 2013

L’INVENZIONE politica e istituzionale battezzata “Seconda Repubblica” è crollata miseramente e rischia di seppellire il paese sotto le sue rovine. Un esito purtroppo prevedibile, viste le illusioni sulle quali quella nuova fase era stata fondata. Ricordiamole. Il bipolarismo come bene in sé, che avrebbe inevitabilmente prodotto stabilità governativa, governabilità a tutto campo, efficienza, fine della corruzione grazie all’alternanza al governo di diverse coalizioni. Oggi sarebbe persino impietoso ricordare con nomi e cognomi chi ha assecondato questa deriva, anche se prima o poi bisognerà pur farlo. Ma, intanto, si deve almeno sottolineare come non si sia voluto vedere l’abisso crescente tra quelle illusioni e la realtà, tanto che si arrivò addirittura a dire, dopo le elezioni del 2008, che l’orribile “Porcellum” aveva comunque avuto come effetto quello di stabilizzare il bipolarismo. Se vogliamo comprendere il presente, e progettare il futuro in maniera meno avventurosa, si dovrà partire proprio da una severa lettura critica dell’intera storia della cosiddetta Seconda Repubblica.
In questo momento, il criterio di analisi e di valutazione è ovviamente rappresentato dalle vere novità politiche del voto di domenica e lunedì. Che sono tre: la vittoria del Movimento 5 Stelle, il rifiuto dell’Agenda Monti, il ritorno della politica dei contenuti. La vittoria di Grillo e del suo movimento è già stata commentata nei modi più diversi. Ma la sua “anomalia” si somma al fatto che critiche sostanzialmente analoghe alla politica condotta e poi rilanciata da Mario Monti sono state l’elemento forte della campagna di Silvio Berlusconi. Che gli elettori hanno bocciato in modo sonoro la personificazione di quell’Agenda affidata alla lista “Scelta civica” e che da Monti aveva preso le distanze anche una parte del Pd. Questo dato politico non può essere minimizzato e anzi, nel momento in cui si insiste sulla necessità di andare in Parlamento con proposte precise, contiene una indicazione importante per quanto riguarda appunto i criteri di selezione delle proposte.

Il dimezzamento dei parlamentari e il taglio radicale dei costi della politica, che compaiono in cima all’ipotetica nuova agenda di governo, sono proposte che circolavano da anni e sono la conferma evidente di quel che si diceva all’inizio, dunque della lontana origine della crisi attuale. Ma ridurre della metà il numero dei parlamentari è misura certamente assai simbolica, che tuttavia avrebbe risultati economici modesti, e persino qualche effetto negativo. Nell’ultimo decennio è emersa una enorme manomorta politica, alimentata da aumenti ingiustificati e insensati delle indennità corrisposte agli eletti a qualsiasi livello, accompagnati da una ulteriore attribuzione di risorse a singoli e gruppi che nulla ha a che vedere con lo svolgimento dell’attività istituzionale. Questa manomorta deve essere abbattuta, eliminando ogni beneficio aggiuntivo rispetto alle indennità, a loro volta riportate a cifre socialmente accettabili, con un intervento che azzeri gli appelli alle competenze locali.

Questa operazione, però, deve andare al di là del ceto politico in senso stretto. Un’altra deriva degli anni passati è quella che ha portato ad un altrettanto ingiustificato dilatarsi delle retribuzioni nella dirigenza pubblica. Sono molti i dirigenti che hanno compensi persino doppi rispetto all’indennizzo previsto per il Presidente della Repubblica (248.000 euro). Si può polemizzare con Marchionne sottolineando che la sua retribuzione è 415 volte superiore a quella di un operaio Fiat e ignorare del tutto che sperequazioni ancora maggiori vi sono tra dirigenti pubblici e poliziotti in strada o impiegati ministeriali? Interventi in queste direzioni, insieme alla rottura delle cordate di magistrati amministrativi che ormai governano le strutture pubbliche, non garantirebbero soltanto risparmi, ma sarebbero un segnale importante verso un recupero dell’eguaglianza.

Proprio i principi di eguaglianza e di dignità sono all’origine di un’altra tra le proposte che circolano, quella riguardante il reddito di cittadinanza. Anche qui, tuttavia, bisogna liberarsi delle genericità, evitando di guardare a misure del genere come l’avvio di una fulminea palingenesi sociale. Vi sono ipotesi serie, già trasformate in proposte di legge d’iniziativa popolare, che possono essere subito sottoposte all’attenzione parlamentare, avviando così anche l’indispensabile riordino degli ammortizzatori sociali e sfidando un certo conservatorismo sindacale. È tempo, peraltro, di restituire al mondo sindacale una pienezza democratica per troppi versi perduta, con una legge sulla rappresentanza che davvero può stare in un programma dei cento giorni. Allo stesso modo, ai diritti del lavoro deve essere restituita la loro dimensione costituzionale, abrogando l’articolo 8 del decreto dell’agosto 2011 che permette di stipulare accordi anche in contrasto con le leggi vigenti, ampliando in maniera abnorme il potere imprenditoriale.

Questi esempi vogliono ricordare che un vero governo di programma, capace di abbandonare stereotipi e chiusure d’orizzonte, deve essere esplicito su provvedimenti che riguardino la dimensione sociale, ponendo basi solide per vere politiche del lavoro. Non si tratta di dare un “segnale”, ma di stabilire le giuste priorità in una situazione che, data la tensione sociale crescente, non può essere affrontata insistendo soltanto su misure istituzionali. Intendiamoci. La tensione è alimentata anche dalle gravi inadeguatezze istituzionali che, di nuovo, ci riportano ai vizi della Seconda Repubblica. Enormi si rivelano oggi le responsabilità di quanti, da troppe parti, hanno impedito la riforma della legge elettorale, invocando la necessità che una nuova legge salvaguardasse bipolarismo e governabilità. Abbiamo visto com’è andata a finire.

La riforma elettorale, dunque, è una priorità assoluta, ma pure una buona legge faticherebbe a funzionare se non venissero rimossi gli ostacoli al suo funzionamento, che esigono norme severe sui conflitti d’interesse, riforma del sistema dei mezzi di comunicazione, disciplina davvero severa contro la corruzione, a cominciare dalle norme penali sul falso in bilancio. E nuove norme sulla partecipazione dei cittadini, per riaprire i canali necessari alla comunicazione tra società e politica. Tutte cose che sappiamo a memoria e fin da troppo tempo, e che devono essere prese terribilmente sul serio se si vuol dare una pur minima credibilità ad una prospettiva di governo. Se questa prospettiva dovrà essere coltivata in primo luogo dal Pd, come buona logica istituzionale vuole, bisognerà considerare un’altra novità politica. Il tracollo dell’Udc, considerata come partner necessario, libera dalla subordinazione alle pretese di questo partito su due questioni chiave: i diritti delle persone e i beni comuni. Il Pd ha ormai l’obbligo di proporre norme finalmente sottratte ai diktat fondamentalisti sulla procreazione assistita, sulle unioni tra persone dello stesso sesso, sulle decisioni di fine vita. E deve dichiarare esplicitamente la sua volontà di seguire la strada indicata dai referendum sull’acqua. È un compito difficile, una sfida ai conservatorismi e alle incrostazioni che sono il lascito pesantissimo di un ventennio. Un compito, allora, che non può essere affidato ad alcun tecnico. I punti programmatici diventano credibili solo se vengono incarnati da un governo dichiaratamente politico e provveduto di un altissimo tasso di competenze. Solo così può essere ripreso l’impervio cammino della ricostruzione della fiducia nella politica. E, se uno spirito deve essere invocato, forse è quello del discorso sulle quattro libertà pronunciato da Roosevelt all’indomani dell’attacco giapponese a Pearl Harbor. La ricostruzione della Repubblica esige che agli italiani vengano restituite due di quelle libertà: quella dal bisogno e quella dalla paura.

Un'opinione sulle ragioni immediate dello scossone che ha sconvolto il quadro politico. La parola "populismo".

La Repubblica , 27 febbraio 2013

La cosa più difficile, dopo il gran botto delle elezioni, è districare il groviglio di luoghi comuni, frasi fatte, formule-slogan che ci accompagnano da mesi e anni. La parola populismo innanzitutto.

Ovvero quest'accusa lanciata disordinatamente contro chiunque abbia l'ardire di accusare i politici regnanti e le loro vaste provinciali inadeguatezze. Ma anche vocaboli come sacrifici, austerità: presentati come nobili porte strette che ci avrebbero restituito prestigio europeo, e che dovevamo alle generazioni future. Infine il concetto-chiave: governabilità. Parola un po' irrisoria, quando il termine oggi preferito non è governo ma l'inafferrabile governance tecnica. Si sono accartocciate come foglie, queste frasi fatte, trascinate da un vento che non sappiamo dove andrà ma sappiamo da dove viene, sempre che si voglia reimparare non solo la politica, ma anche la geografia di un'Italia così poco perlustrata, e compresa.

Ilvo Diamanti ha detto una delle cose più sensate, constatando lunedì lo straordinario successo di Grillo e la non meno portentosa ripresa di Berlusconi. Ha detto, quasi smarrito: "Non sappiano quale sarà la prossima storia d'Italia". È uno smarrimento salutare: sospende il giudizio davanti al monumentale evento. Comunque non lo interpreta ricorrendo ai luoghi comuni su cui tanta parte della politica, della stampa, della Tv, da tempo sono adagiati.

È vero: c'è del populismo in Grillo come in Berlusconi. C'è l'antico ribrezzo provato dalla democrazia sostanziale (il paese reale) verso la democrazia formale, rappresentativa (il paese legale). Se però l'avanzata di Grillo e la rivolta fiscale berlusconiana fossero un vento solo distruttivo, la storia sarebbe prevedibile. Non lo è affatto invece. Anche se dissimili, i populismi non sono oggi solo furia e raptus.

Altro s'intuisce, specie nel voto a Grillo. C'è il desiderio del popolo di farsi cittadino, anziché massa informe, zittita, spostabile. E c'è una vera e propria esplosione partecipativa: non un fuoriuscire dalle istituzioni pubbliche, come in Forza Italia o Lega, ma una presa di parola. Qualcosa di simile all'Azione popolare che Salvatore Settis chiede ai "cittadini per il bene comune", al loro spirito comunitario. Il cittadino dipinto da Grillo non intende annientare lo Stato: "si fa Stato", vuol essere ascoltato, contare. Diffida di un patto con le generazioni future che "salti" quella presente.

Non fu Monti a dire, senza arrossire, che esisteva una generazione perduta di 30-40enni? Citiamo quel che disse al Corriere il 27 luglio 2012: "Esiste un aspetto di 'generazione perduta', purtroppo. Si può cercare di ridurre al minimo i danni, di trovare formule compensative di appoggio, ma più che attenuare il fenomeno con parole buone, credo che chi (...) partecipa alle decisioni pubbliche debba guardare alla crudezza di questo fenomeno e dire: facciamo il possibile per limitare i danni alla generazione perduta, ma soprattutto impegniamoci seriamente a non ripetere gli errori del passato, a non crearne altre, di 'generazioni perdute'". Non facile, per tale generazione, votare senza far deflagrare questa disinvoltura.

Viene poi l'austerità: la condanna di gran parte dei votanti è detta irresponsabile, come se le elezioni fossero una tavola rotonda fra massimi esperti e massime dottrine. Ma un paese deciso a prender la parola non disquisisce calmo: ne va della sua pelle. Qui è l'aspetto più sconvolgente del voto, a mio parere. È l'abissale ignoranza di quel che bolliva nei nostri sottofondi: non da mesi, ma dall'inizio della crisi e forse prima. Le prime iniziative civiche nascono negli anni '90, così come i Verdi tedeschi son figli di Iniziative cittadine (Bürgerinitiativen) che negli anni '70 immaginarono un altro sviluppo economico, un vivere più austero, e nuovi diritti civili (comunità familiari, unioni analoghe ai matrimoni, anche omosessuali).

Il sottosuolo italiano era ignoto a quasi ogni partito, e la lotta elettorale non sarà dimenticata: chi è andato a parlare al Sulcis o a Taranto, chi ha scandagliato la Sicilia città dopo città, come i comunisti d'un tempo, se non Grillo? Gridava slogan, ma era lì dove si soffriva, l'occhio fisso sulla crisi. Grillo non nega il baratro, a differenza di Berlusconi. Guarda in faccia le paure annunciando guerre, ma il legame crisi-guerra è innegabile. Non solo. È stato l'unico a dire l'acre verità, per noi e i paesi industrializzati: "Saremo tutti più poveri, forse, ma almeno saremo più solidali". All'Economist ha confidato: "Il mio movimento è un antidetonante: regola la paura". Difficile confutare il suo presagio: senza M5S, l'ira popolare secernerebbe un'Alba Dorata greca o il dispotismo ungherese di Orbán.

Si è parlato più volte del New Deal di Roosevelt, per vincere una crisi che ricorda il '29. Nulla di analogo viene proposto, né dai governi né dall'Europa, che se solo lo volesse potrebbe lanciare un piano simile. Vorremmo ricordare tuttavia che il New Deal non costruì solo strade, ponti, scuole, università. Roosevelt era convinto che il governo dell'economia aveva fallito, cedendo ai mercati, per un'altra ragione, non contabile ma culturale: l'immane continente americano era ignoto, oscurato da stampa, libri e cinema. Il gran pentolone andava scoperchiato: primo perché chi vive nel cono d'ombra - se visto - si sente riconosciuto, riconquista dignità; secondo perché i governanti correggono i mali solo se li discernono.

Nacque così negli anni '30 il WPA (Work Progress Administration), finanziato dal pubblico e incaricato di esplorare i recessi dell'America. Senza quel programma non avremmo avuto Il Furore di Steinbeck; le emissioni radio e le messinscene teatrali di Orson Welles (fra il '36 e il '37); le musiche popolari raccolte in tutta America da Nicholas Ray; i documentari e fotoreportage sul continente invisibile. Venne poi il Living Newspaper: i fatti del presente venivano inscenati in teatri molto popolari, promuovendo la partecipazione sociale (senza remore ideologiche si imitò il teatro-agitprop sovietico).

C'è chi parla di macerie: tale sarebbe l'Italia dopo il voto. Ma anche questo è luogo comune. Le macerie già c'erano, affastellate da partiti chiusi nei recinti e da regioni (la Lombardia, non esclusivamente la Sicilia) prive di senso dello Stato da un secolo e più. In tutta la campagna, Bersani non ha trovato un solo progetto forte, che oltrepassasse la propria cerchia e si mettesse in ascolto di rivolte e paure. Tanto temeva il populismo che ha sottostimato la rivolta contro le tasse, quasi non sapesse che pagare un'Imu altissima in piena crisi era impossibile a persone con una casa, ma senza soldi. Ha minacciato di tassare i patrimoni superiori a 1,3 milioni, impaurendo le classi medie più che i veri ricchi. Vuol vietare i pagamenti in contante oltre i 300 euro, e ironizza sulla "storiella delle vecchiette" senza carta di credito. Tutt'altro che storiella in un paese vecchio, non abituato alla credit card. Non sono certo lì gli evasori.

L'ignoranza del paese ha distrutto partiti-padroni, e tutto diventa davvero imprevedibile. Ma l'imprevedibilità può essere anche un'enorme occasione: incita a cambiamenti sociali profondi. I progetti alternativi ai dogmi dell'austerità possono sortire effetti negativi: tanti lo temono, insieme al governo tedesco. Ma anche l'anticipazione di effetti perversi può fallire. Se ci precludessimo ogni sperimentazione saremmo paralizzati, prede di ricette che già annientano la Grecia. Nella vita individuale come in quella collettiva vale la pena buttarsi nell'ignoto, riconoscere che certe cure sono mortali. In Italia vale la pena tentare alleanze inedite (l'accordo prospettato da M5S sulle idee: conflitto d'interessi, corruzione, costi della politica), perché solo osando e provando tramuteremo la crisi in una trasformazione. E non è una trasformazione, ciò cui aspiriamo?

Fra i risultati più vistosi del disastro elettorale italiano, l'incapacità di ascolto del centrosinistra, tutto, su un tema legato a doppio filo allo sviluppo socio-territoriale e all'urbanizzazione globale. Articolo di Paolo Berizzi, e intervista a Andrea Di Stefano di Luca Fazio,

la Repubblicail manifesto, 27 febbraio 2013, postilla (f.b.)

la Repubblica
Addio Padania, federalismo tramontato ora il sogno è il cantone con la Baviera
di Paolo Berizzi

MILANO — Chi è allergico alle meline linguistiche può ripescare l’ultimo Bossi. «Se vinciamo in Lombardia il Nord si stacca» (Repubblica, 3 febbraio). Adesso che la Lega, dopo Veneto e Piemonte, ha preso anche il Pirellone la domanda è: si fa o non si fa questa macroregione del Nord? E che cosa sarà, o dovrebbe essere, esattamente? Le nuvole che fino a pochi giorni fa galleggiavano nel cielo “padano” – «via alla macroregione del Nord», «è solo una bufala», «bella idea, ma irrealizzabile», se ne sono sentite di ogni – adesso si diradano: e ora il progetto è destinato a camminare, così almeno pare. Chiamatelo come preferite. Cantone. «Macroregione alpina».
Land settentrionale. In sostanza ci sono quattro Regioni – Lombardia, Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia – che vogliono confederarsi.

Si ritengono, di fatto, già unite da un «patto di solidarietà territoriale». Una «sintesi» che in soldoni sta nelle parole del neogovernatore Maroni il 16 febbraio a Sirmione (Bobo era ancora in campagna elettorale, la prima pietra del progetto fu posata simbolicamente sul Garda da tre presidenti di Regione più lui). «Se una Regione ha un problema, diventa il problema di tutti». Conviene partire da qui, dai «problemi». Anzi “dal” problema: le imprese. L’economia. «Dobbiamo preservare il nostro tessuto economico sulla base di rapporti di amicizia con la forza delle Regioni del Nord», ancora Maroni. La forza. Le quattro Regioni che sognano di «andare da sole» entrerebbero a far parte della «macroregione alpina» lanciata dalla Baviera il 29 giugno (accordo firmato dai presidenti del Nord Italia, della Carinzia, della Slovenia, e appunto della Baviera).

È questo, nella ridisegnata geografia del Carroccio post naufragio federalista, l’approdo finale, il «sogno». Sulla carta quella che verrebbe a delinearsi sarebbe l’area economico-manifatturiera più
importante d’Europa e del mondo: 70 milioni di abitanti spalmati su 49 regioni di 7 Stati, una superficie di 450mila chilometri quadrati con un prodotto interno lordo pro capite annuo di 22.800 euro. Un mega-motore europeo che però fa del localismo e dell’antieuropeismo
la sua cifra. Ma in che forma Lombardia, Piemonte, Veneto e Friuli si consocerebbero? Il concetto che ha in mente Maroni è quello di un «sindacato territoriale». Una sorta di cartello contro la pressione del fisco e a difesa del patrimonio delle aree interessate. «Un patto, faremo un patto». L’hanno ripetuto come un mantra i governatori del Nord: i tre leghisti Maroni, Cota e Zaia, e il pidiellino friulano Renzo Tondo. Il «patto». Ognuno l’ha declinato a modo suo. Per Cota è un «patto di solidarietà». Per Zaia un «patto d’attacco, di legittima difesa contro la cialtronaggine nazionale ». «Parlare di macroregione significa confrontarsi in Europa per proporre un modello cantonale come la Svizzera», ha ragionato ieri il presidente veneto senza risparmiare una stoccata a Flavio Tosi («non è che la Csu italiana se la fanno in tre in una cabina telefonica »).

Zaia è l’unico che in Veneto è riuscito a arginare l’emorragia di voti leghisti. Al modello bavarese lui, e non è il solo, sostiene di preferire quello dell’Svp in Alto Adige. O quello già abbozzato del Gect, l’Euregio senza confini sottoscritto a Venezia tra Veneto, Friuli e Carinzia. Si tratta di «nuove forme di collaborazioni sovraregionali anche transfrontaliere», “cartelli” senza confini ma nei quali ogni realtà mantiene la propria identità territoriale. Un altro precedente è quello dell’euroregione Alpi-Mediterraneo attiva dal 2007 tra Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta, Provence- Alpes-Cote d’Azur e Rhone- Alpes.

E la “Padania”? Nessuno ne parla più. Era stato uno dei primi comandamenti del nuovo corso Maroni: basta fantaregioni, meglio la parola «Nord»: più concreta, propedeutica al «patto» macroregionale. Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo qualche ostacolo. Per esempio la Costituzione (dovrebbe essere modificata tranne che si sfrutti l’art. 132 che disciplina la fusione di nuove Regioni, e comunque è il Parlamento che decide). Di più: le euroregioni già esistenti (più di cento) sono sì partecipate da soggetti territoriali dell’una e dell’altra parte dei confini, ma non presuppongono nuovi livelli di amministrazione. Poi c’è il Pdl, che al netto di un «accordo elettorale nero su bianco» (Maroni), non sembra essere proprio appassionatissimo al tema. C’è stato un tempo in cui il sogno leghista si chiamava federalismo. Poi è andata come è andata. Ma in via Bellerio in queste ore nessuno ha voglia di ricordarlo.

il manifesto «Perdiamo perché non abbiamo espresso la radicalità del M5S»
intervista a Andrea Di Stefano, di Luca Fazio

MILANO - Sembra trascorso un secolo da quando la sinistra aveva pescato il jolly per cercare di accompagnare Ambrosoli in cima al Palazzo della Regione Lombardia. Andrea Di Stefano, capolista di Etico a Sinistra, direttore della rivista di finanza etica Valori, aveva ridato fiducia a un elettorato deluso dagli ormai ex partiti della sinistra storica (Prc, Pdci, Verdi).

Un disastro, te l'aspettavi una sconfitta di queste proporzioni?Sinceramente mi aspettavo almeno un testa a testa. Tutti noi abbiamo sottovalutato la forza del centrodestra e soprattutto il voto grillino, quelli erano voti nostri.

Eppure, ancora adesso, molti a sinistra parlano di deriva populista e voto fascista, prevale il livore sull'analisi.Ritengo questo atteggiamento profondamente sbagliato, prima e tanto più dopo il voto. Si tratta di un segnale chiaro e democraticamente ineccepibile. E' evidente che i vecchi stilemi della sinistra ormai sono morti, probabilmente la nostra coalizione è stata vissuta dall'elettorato come vecchia e superata, e l'abbiamo pagata molto cara.

Altri errori compiuti durante la campagna elettorale?Direi che siamo stati titubanti su alcuni temi. Avremmo dovuto dare l'idea di un cambio radicale su tematiche centrali come le grandi opere, la gestione del territorio, se non altro per soddisfare quella domanda reale di cambiamento che si respira girando per la regione. Il voto grillino è un voto radicale, e noi non lo siamo stati abbastanza. Basta dare un'occhiata al programma dei grillini per comprendere che quel 13% della loro candidata esprime una cultura a noi molto vicina.

Il centrodestra in Lombardia era ai minimi storici, frantumato dagli scandali, infiltrato dalla 'ndrangheta. Perdere oggi significa non vincere mai più.E' la sconfitta più grave. Non siamo stati in grado di dare un segnale di discontinuità. E' stato un errore anche caratterizzare la campagna sfruttando la presenza dei leader nazionali, non siamo riusciti a rappresentare una rottura col passato.

La sinistra non esiste più. Ti sembra possibile ripartire da zero, o è davvero finita?Anche la lista Etico a Sinistra ha sofferto la classica alchimia delle segreterie dei partiti che respinge l'elettorato. Ma non considero di destra il voto grillino, è una ripartenza democratica con cui si può dialogare, dimostra che il messaggio conta più delle persone e dei candidati, del resto chi li conosceva i nuovi eletti lombardi del M5S? Nessuno. Per cui bisogna ricominciare ragionando a partire dai contenuti, con meno spocchia e molta umiltà: sai quanti sono i militanti dell'Arci, per esempio, che hanno votato Grillo?

Eppure una parte della sinistra sembra ancora troppo sotto botta per un approccio meno pregiudiziale.Invece io penso che l'esito del voto dimostri che siamo un paese avanzato dal punto di vista democratico, perché laddove c'è stato un voto di protesta contro le sciagurate politiche economiche europee sono nate formazioni di estrema destra, come Alba Dorata. Si possono non condividere posizioni forti tipo l'uscita dall'euro, ma non per questo si deve rifiutare un confronto con l'M5S.

La tua carriera politica è terminata?Sono rimasto molto coinvolto da questa esperienza, ma devo riflettere.

Beh, prima o poi a Palazzo Marino la sinistra dovrà rieleggere un sindaco.Va beh, ne parliamo un'altra volta...

postilla
Non mi pare affatto importante aggiungere una irrilevante voce allo sterminato coro (sono in tantissimi a sostenerlo, oggi) del noi l'avevamo detto, che così vi stavate scavando la fossa. C'è, di sicuro, un verificato consenso popolare su alcuni temi centrali, per nulla ascoltati dalla politica o relegati in terza e quarta fila, ma colti intuitivamente dalla Lega di Maroni, che naturalmente li declina a proprio modo e vantaggio. Quello della Megalopoli è forse il principale, il contenitore di tutto, per sommare i grandi interessi alle aspirazioni individuali e locali. E sarà certamente il caso di tornarci sul tema in questo sito, perché più che mai società, politica, città, territorio, ambiente, sviluppo, democrazia e partecipazione là dentro già convivono, in una specie di coppia di fatto aperta. Da interpretare, e non da negare o peggio ideologicamente, ciecamente reprimere. Anche perché Savonarola non porta neppure voti (f.b.)

Un pizzico a Monti, uno schiaffo a Ingroia un presago calcio a Grillo, una carezza e un buffetto per Bersani.

La Repubblica, 22 febbraio 2013

Monti si candida venendo meno a una parola detta parecchie volte, e dopo un prolisso gioco di reticenze: Bersani ha un po’ le mani legate, un po’ se le lega, per senso di responsabilità e per la sorpresa. La candidatura di Monti invece resuscita Berlusconi, che annaspava – prometteva di rinunciare a capeggiare il suo schieramento in rotta, era arrivato a invitare Monti a prenderne la guida. Berlusconi, che non ha il senso di responsabilità e delle convenienze che frena Bersani, si precipita a raccogliere l’insofferenza e anche l’esasperazione popolare verso il governo Monti: occorre una gran faccia tosta – ce l’ha. Di qui in poi l’orientamento della sua campagna è segnato, e non si negherà alcun eccesso, né glielo negheranno i suoi servi-padroni, a partire da Maroni. Bersani oscilla a lungo fra la moderazione dialogante verso Monti e l’impegno a raddrizzare la rotta. Oltretutto, accanto a lui ha dirigenti che fanno dell’alleanza subalterna a Monti l’asse della politica futura del Pd. Forse continua a pensare che tenere la posizione gli giovi, ma non è così. Tanto più che arriva il Monte dei Paschi, ed è il vero tornante critico della campagna.

Ma era già arrivato. Non è il Pd l’imputato, ma un peculiare intreccio senese di correnti contrapposte dentro e fuori del Pd e della massoneria, spesso trasversali. “Il Pd” però è stato al gioco e, quando finalmente ha cercato di smetterlo, ha confidato nelle linee interne dei nuovi amministratori. Ma quando, nel giugno scorso, il comune di Siena –simbolo per eccellenza della storia cittadina dell’Europa–viene commissariato, come una Giugliano o una Platì, e la cosa passa pressoché inosservata agli occhi della nazione, lì c’è una reticenza inspiegabile. Così, mentre la campagna di Bersani prendeva respiro e, soprattutto negli incontri diretti, affrontava le questioni essenziali, a cominciare dal lavoro e dai diritti, la rappresentazione pubblica era improntata alle formule più ridicole e alla sarabanda degli scandali. C’è del resto una differenza essenziale fra la cosiddetta tangentopoli e il ma-laffare attuale: che i vent’anni passati hanno fissato un’abitudine. Allora persone persuase d’essere impunite, e spesso incapaci di ammettere con se stesse di far male finché non fossero afferrate per la collottola, avevano una paura e una vergogna dannate del carcere. Alcuni preferirono morire. Vent’anni non sono bastati a riformare i costumi d’affare, al contrario: ma a cancellare la vergogna e la paura sì. Un po’ di galera, un po’ di gogna, ci sta: in proporzione ai guadagni. La sarabanda di scandali sarebbe stata pane per i denti di “Rivoluzione civile”, assembramento (avvilita traduzione del francese rassemblement) di pubblici ministeri e di partiti residui e per lo più autoritari, aspiranti a costituire “la vera sinistra”. Il voto a questa lista (promesso, di buono o di cattivo grado, da persone che sono sinceramente di sinistra) sorprende, non solo perché, com’è evidente, è “sprecato” e anzi vantaggioso per la peggiore destra, ma anche perché mostra uno sconcertante elettoralismo. Si mira a far arrivare in Parlamento una pattuglia di rappresentanti della “vera sinistra” (nel caso specifico: un pubblico ministero, tre segretari di partitini esausti, e così via) che non faranno se non perdersi d’occhio nei corridoi dei passi perduti. Peggio ancora se una simile scelta voglia giustificarsi decretando che “Berlusconi o Monti o Bersani, è tutta la stessa cosa”: altra sciocchezza troppo evidente per essere dibattuta. Quando si voleva, o si volesse ancora, fare una rivoluzione all’antica, partecipazione elettorale o astensione potrebbero essere discusse secondo il criterio del maggior vantaggio per il proposito di scardinare la “democrazia borghese” e di avere una tribuna per il proprio programma di sovversione. Quando non si voglia questo, le elezioni sono “semplicemente” il momento in cui si sceglie uno schieramento, e dunque un governo, rispetto a un altro: non la proiezione immediata e “pura” del proprio desiderio di palingenesi, ma la prospettiva più giusta e affidabile – o la meno iniqua e inaffidabile, le due formulazioni tendendo a fondersi.
Ma nemmeno gli scandali o l’esasperazione sociale basteranno a gonfiare le vele di un’ “estrema sinistra” raffazzonata, perché c’è Grillo. C’è da molto tempo, e il vento è suo. Fra uno che sullo Stretto vuole fare il ponte, e uno che lo attraversa a nuoto, è sciocco meravigliarsi che la gente applauda il secondo. Fa sorridere che lo si chiami comico. Grillo è un attore, non solo comico, e anzi si è sempre preso molto sul serio. Casaleggio dice oggi che Grillo è come Gesù: c’è dell’esagerazione, come disse Churchill alla notizia della sua morte. Ma Grillo, in quel film di Comencini del 1982 che si chiamava “Cercasi Gesù”, niente affatto comico, gli assomigliava davvero, e comunque faceva camminare i paralitici. Grillo è un attore che si identifica con il suo personaggio, e non gli mette limiti. Da molti anni recita la parte del capo che riscatta un popolo. Alcune scene gli riuscirono: la Parmalat strappava gli applausi. Altre sono orrende. Problema di copione. Il fatto è che un attore che si identifica pienamente e a lungo col proprio ruolo fuori dalla scena diventa qualcosa d’altro: un impostore.

Grillo è un grosso impostore (quanto grosso, vedremo; abbastanza da far guardare con tenerezza a Giannino e le sue lauree). Altro che comico. Fa la guerra, annuncia il bagno di sangue, intima allo Stato italiano di arrendersi: è troppo tardi, per tutti e per lui, per dire “è tutto uno scherzo”. Deve sbraitare oltre, finché gli resta fiato nei polmoni. Non è né fascista né comunista né ecologista e nemmeno, guardate, populista: cioè, è forse un po’ di tutte queste cose. È un impostore. Un tempo bisognava davvero fare delle terribili rivoluzioni per arrivare a Palazzo: ora basta la televisione, il web, una Procura. La storia di Grillo è scritta ne “La figlia del capitano” di Pushkin. C’è un brigante, Pugaciov, che dice di essere lo zar Pietro III, e si mette alla testa di una rivolta gigantesca. Dopo la caduta, in ceppi, prima d’essere giustiziato, a chi gli chiede pietosamente che cosa l’abbia spinto a quella pazzia, risponde fiero: “Io un giorno sono stato zar”. Succederà così anche a Grillo.

Intanto però, e torno all’inizio, al mio favore per Bersani e la sua competente misura –il tic di dire: “un po’”– bisogna che il Pd, le persone del Pd, traggano la lezione dal punto cui è arrivata: che le primarie e il loro rinnovamento non sono affatto un confine oltrepassato dal vecchio al nuovo. Il rinnovamento è un processo senza fine: non la terapia di una crisi, ma la circolazione ripristinata dentro un organismo non ostruito e soffocato. Se n’è accorto perfino un vecchio Papa.


Uno scenario inquietante e una possibile terapia: Roberto Biorcio e Paolo Hutter in una analisi complementare di prospettive e strategie.

Il manifestola Repubblica Milano, 20 febbraio 2013 (f.b.)

il manifesto La scommessa della Lega
di Roberto Biorcio

In Lombardia si gioca una sfida decisiva per queste elezioni, molto importante per le possibilità di governo del paese da parte del centrosinistra, ma soprattutto per il futuro del centrodestra e della Lega. Candidandosi alla guida della regione Maroni cerca di realizzare, approfittando delle difficoltà di Berlusconi, un obiettivo che appariva irraggiungibile in passato, anche nelle fasi di maggiori successi elettorali del Carroccio. Con l'obiettivo di ridisegnare profondamente il profilo e il ruolo del suo partito nella politica italiana. Nella Seconda Repubblica la Lombardia è sempre rimasta saldamente nelle mani del centrodestra. La regione rappresentava il perno del cosiddetto "asse del Nord", l'alleanza fra Bossi e Berlusconi, che ha avuto un ruolo decisivo nella politica italiana. La conquista della città di Milano nel 2011, da parte della coalizione guidata da Pisapia, aveva già aperto una breccia nell'egemonia del centrodestra, ma i rapporti di forza nella regione sono ancora in discussione. La geografia elettorale lombarda è d'altra parte molto cambiata rispetto alle regionali del 2010. Meno di due anni fa Formigoni conquistava per la terza volta la guida della regione con il 56% dei voti, mentre il Pdl otteneva il 32% dei consensi e la Lega il 26.

Oggi il partito di Berlusconi ha dimezzato il proprio consenso, almeno nelle intenzioni di voto (16%), mentre la Lega ha perso più di dieci punti. I voti persi da Berlusconi dopo la fine del suo governo sono stati recuperati solo in misura limitata con la nuova "discesa in campo" del Cavaliere e le sue performance televisive. La Lega aveva già perso molti voti nelle amministrative del 2012, dopo gli scandali che avevano investito anche la famiglia di Umberto Bossi. Il rilancio del partito tentato da Maroni con una forte opposizione al governo Monti aveva ottenuto solo un limitato recupero dei consensi. Il nuovo patto con Berlusconi ha in parte disorientato l'elettorato leghista.

Molti elettori che in passato votavano per il centrodestra sono ancora indecisi oppure si orientano verso altre scelte. Tra gli indecisi, gli ex elettori leghisti rappresentano il segmento più ampio. Gli elettori di centrodestra che scelgono altre liste si orientano su opzioni molto diverse. Non pochi si propongono di votare per la lista Monti, che può far rivivere le antiche opzioni democristiane, ancora popolari in diversi contesti territoriali. Altri scelgono Grillo, condividendo la feroce critica al sistema dei partiti, e la protesta contro le politiche del governo e delle banche. Le tendenze di voto in direzioni opposte mettono in evidenza le difficoltà a mantenere l'unità dell'area elettorale che in passato aveva votato per il Pdl o la Lega, spesso oscillando fra le due opzioni. Gli ex-elettori del Pdl sono relativamente più attratti dalla lista Monti, mentre gli ex elettori del Carroccio sono più sensibili ai richiami del comico genovese, promotore di una protesta che ricorda quella Lega di venti anni fa. E' così cambiato il profilo sociale dell'elettorato del Carroccio nella regione: rispetto al passato, i consensi si sono ridotti soprattutto fra gli operai, i commercianti e gli artigiani, i settori sociali che avevano garantito il maggiore sostegno al Carroccio nelle fasi di successo.

Non è un caso che oggi sia il Movimento 5 stelle ad ottenere i migliori risultati in queste aree sociali. La scommessa lanciata da Maroni, in una fase di declino comune delle due formazioni di centrodestra, è quella di ricreare un nuovo "asse del Nord" in grado di misurarsi con le politiche del prossimo governo, gestendo eventualmente l'opposizione dell'area territoriale più ricca e produttiva del paese. Un progetto che fa leva sulle stesse idee gestite in Europa da Angela Merkel e da diversi partiti autonomisti: di fronte alla crisi economica, ciascuno pensa per sé, mentre si può lasciare cadere ogni solidarietà nei confronti delle aree territoriali più in difficoltà. La proposta principale di Maroni è quella di lasciare il 75% del prelievo fiscale nelle regioni del Nord, trasformando la Lega in un «sindacato del territorio», come ha ricordato spesso la Padania. Le battaglie leghiste contro la "partitocrazia" non sono più credibili perché il Carroccio si è ormai omologato alle pratiche e ai costumi degli agli altri partiti. Vengono ancora proposte campagne e iniziative contro gli immigrati e i rom, ma con un rilievo minore rispetto al passato perché anche gli elettori leghisti sono soprattutto preoccupati per gli effetti della crisi.

La scommessa di Maroni è ottenere, con la vittoria in Lombardia, una leadership del Carroccio sull'intera area del centrodestra nelle regioni settentrionali. Berlusconi ha fatto non poche concessioni a questo progetto. Il "patto territoriale" firmato a Sirmione per promuovere la Macroregione del Nord è stato sottoscritto anche da esponenti del Pdl come il sindaco di Pavia Cattaneo e il governatore del Friuli Tondo.

In questo contesto il Pd, con un limitato aumento di consensi rispetto al 2008, è diventato il primo partito della regione. Le perdite di voti non trascurabili verso la lista Monti e il movimento di Grillo sono state compensate dal recupero di consensi da altri partiti di centrosinistra e soprattutto da quelli resi disponibili per la crisi della Lega e del Pdl. La conquista della regione Lombardia resta però una partita ancora aperta: le intenzioni di voto per Ambrosoli e Maroni risultano quasi in parità. Potranno essere decisive le eventuali scelte di "voto disgiunto" degli elettori di altre forze. Appelli al "voto utile" sono stati lanciati da candidati della lista Monti e da sostenitori della lista Ingroia, preoccupati per gli effetti che può avere la conquista della Lombardia da parte della Lega. Qualche preoccupazione serpeggia anche nell'elettorato di centrodestra se lunedì, a Milano, Berlusconi ha ribadito il sostegno a Maroni ricordando però che i governatori leghisti dipendono in ogni caso dal sostegno del Pdl. Indecisi Indecisi Tra gli ex elettori del centrodestra, quelli leghisti sono il segmento più ampio e sensibile ai richiami grillini.

la Repubblica Milano
Un voto disgiunto per cambiare la Lombardia
di Paolo Hutter

SI È fatta confusione: non tutti hanno capito cos’è esattamente il voto disgiunto? Eppure, applicato il concetto al voto regionale per la Lombardia, potrebbe essere l’arma decisiva per evitare il ritorno del fronte leghista-berlusconiano al Pirellone. Dare voti diversi per la Camera, il Senato e la Regione non è voto disgiunto, è articolazione del voto. Si chiama voto disgiunto, invece, una possibilità molto specifica, offerta dal sistema elettorale delle Regioni e dei Comuni, e solo da questi due, e cioè la possibilità di votare, sulla stessa scheda, per una lista al Consiglio regionale (eventualmente scrivendo il nome di un candidato, come preferenza) e per un candidato Presidente di uno schieramento diverso e concorrente rispetto a quella lista. In tal caso il voto al presidente può servire a farlo vincere, con la sua coalizione, invece il voto alla lista e al candidato consigliere serve a determinare il peso di quella lista nel Consiglio, e l’identità dei suoi eletti.

Applichiamo lo schema al caso in questione. Se un elettore lombardo vuole votare il Movimento 5 Stelle, perché si sente rappresentato da quel tipo di battaglia, o condivide la protesta, sa però anche che realisticamente a vincere saranno comunque o Ambrosoli o Maroni. Può decidere col voto disgiunto chi sarà a governare, senza togliere neanche un centesimo di forza al M5S. C’È UN’ALTRA cosa che molti non sanno. Il candidato presidente viene automaticamente eletto in Consiglio regionale solo se vince o arriva secondo. Dal terzo posto compreso in poi, il candidato presidente non viene eletto. Infatti la candidata di 5 Stelle, Silvana Carcano, che lo sa bene, è anche candidata consigliera. Il voto alla Carcano o ad Albertini come presidenti, stando alle previsioni dei sondaggisti, è inutile perché non determina chi vincerà. E non determina neppure chi sederà in Consiglio a rappresentare il M5S.

L’opportunità del voto disgiunto è sconosciuta ai più, e non viene propagandata dai partiti perché temono di perdere qualcosa. E invece hanno poco da perdere, quelli della coalizione Ambrosoli, e molto da guadagnare se almeno qualcuno tra gli elettori di 5 Stelle si ricorderà che Maroni e Formigoni sono l’opposto dei loro ideali. Per loro si tratterebbe solo di capire bene il meccanismo e, senza togliere un solo voto alla loro lista, potrebbero, votando Ambrosoli (o Maroni) scegliere anche a quale giunta fare opposizione. Certo questo interrogativo, questa sorta di secondo turno nello stesso voto sono un’operazione verità che comporta rischi per tutti: può esserci il 5 Stelle di destra che il voto disgiunto lo dà a Maroni, e ci saranno moltissimi che si rifiuteranno di scegliere. Ma, com’è accaduto per il ballottaggio di Pisapia, saranno più numerosi quelli che sceglieranno di favorire il cambiamento. Purché glielo si proponga.

Lo slogan che esalta il paese reale non è originale: lo coniò nel primo ’900 la destra di Charles Maurras, contro i mostri della democrazia, e il comunismo lo adottò per decenni. Meglio a questo punto se Berlusconi dicesse il vero: la sua operazione è riuscita, gran parte dell’Italia entra antropologicamente mutata in un’era effettivamente nuova – Grillo ha ragione – ma vi entra sprovvista di strumenti che le permettano di governarla, razionalizzarla. Vi sono tuttavia differenze non trascurabili, fra l’irresistibile ascesa dei due leader. Il primo, quando entrò in politica, disponeva di ricchezze inaudite (accumulate con aiuti pubblici, va ricordato) che il Movimento 5 Stelle neanche si sogna. Soprattutto, possedeva un potere cruciale: tutte le Tv private, cui s’aggiungeva, da premier, il servizio pubblico Rai. Non solo: Grillo vede la crisi; Berlusconi s’ostina a negarla, garantendo che con lui al governo sarà spazzata via. Siamo stati indotti a considerare il suo conflitto di interessi un impedimento. Fu invece il dispositivo che gli consentì di piegare i politici: in ogni accenno al suo dominio mediatico egli vedeva un’espropriazione. Non stupisce che il conflitto sopravviva tale e quale da anni.

Stupisce che non sia stato visto come un problema gravissimo prima che il giocatore entrasse in politica con quell’asso. Che non si sia capito subito l’essenziale: un controllo così pervasivo della comunicazione, in un paese dove l’80 per cento dei cittadini s’informa alla Tv, storce le usanze democratiche, e infine chiama vendetta. Spegne il pluralismo, corrompe e uniforma le menti, trasforma i vocabolari di tutti: governanti, oppositori, classi dirigenti, cittadini comuni.

Da questo punto di vista Grillo innova e dice cose non incongrue, quando denuncia i politici, le istituzioni, i giornali. Tende a fare di ogni erba un fascio – è giusto dirlo – ma è vero che tante erbe si son fatte volontariamente fasciare per anni. Al tempo stesso è figlio di quel dispositivo, al cui centro c’è un’idea di democrazia diretta che usa l’informazione non per seminare conoscenze ma per forgiare un pensiero unico sull’Italia, l’Europa, il mondo. Il suo mezzo non è più la televisione: questa scatola più che mai tonta, come la chiamano gli spagnoli. Né la stampa cartacea, che ha una memoria meno immediata di quella digitale. È il mondo non più inscatolato ma aperto, informe, straordinariamente libero di Internet.Un mondo già scoperto da Obama, quando diventò Presidente nel 2009. Grazie al web, egli ha ottenuto due volte un mandato popolare che lo emancipa, se vuole, da lobby e partiti. Capace di disseminazione virale, la rete scavalca la senile televisione. Ma essendo informe è anche in grado di farsi bellicosa: nel libro di Grillo e Casaleggio, la parola guerra è ricorrente, incalzante (Siamo in Guerra, Chiarelettere 2011). Guerra «feroce e sempre più rapida», finita la quale «il vecchio mondo sparirà» e con esso i partiti di ieri, in Italia e ovunque. Guerra totale, addirittura: un termine per nulla anodino, visto che nel 1935 lo usò in un opuscolo omonimo il generale tedesco Ludendorff. Nelle guerre totali non si concedono interviste a giornalisti che ti interrompono con dubbi e domande, anziché applausi. Quel che conta, per Ludendorff, è «abbattere il morale delle retroguardie» (le rappresentanze delle popolazioni non combattenti) più che l’avanguardia al fronte.

In questa lotta fra scatola tonta e web è il secondo, sicuramente, il Nuovo che ci aspetta. In un discorso tenuto nel febbraio 2012 per l’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi, il giurista Piergaetano Marchetti indica i motivi per cui il futuro è nel web, con le sue immense promesse e i suoi rischi. «La comunicazione e l’informazione di massa (attraverso la rete) è un potente canale e amplificatore di domande, di richieste di rendiconto, un assordante coro di «perché». Un fiato continuo sul collo di chi governa. Una pressione che genera risposte, trasparenza, informazione. E tutto ciò, a sua volta, in un circolo virtuoso, genera altre domande diaccountability». L’accountability – la cultura del render conto – latita in Italia. È strano che se ne parli così poco in campagna elettorale, visto il prezzo che paghiamo per la sua assenza. Ma se la «scossa partecipativa» è formidabilmente liberatoria, osserva Marchetti, non mancano i possibili effetti perversi. Ogni grande liberazione distrugge altri diritti, ogni proclamazione di supremi valori declassa valori non meno importanti. Nella visione di chi guida il Movimento 5 Stelle non c’è coscienza dei limiti, perché i capi interagiscono con la blogosfera rifiutando ogni corpo intermedio, in un tu-per-tu fatale, mai complicabile da persone terze. Non tutti i perché, non tutti i bisogni e i valori che sorgono in rete sono sacrosanti: vanno confrontati con altri princìpi, bisogni. Un’idea prova la sua forza se incoraggia forti idee opposte. Altrimenti si ossifica, e anche se modernissima muore.In questo Berlusconi e Grillo si somigliano: non sanno contare fino a tre, e in fondo neppure fino a due perché il tu-per-tu col popolo è fusione nell’Uno. Ogni avversario è da abbattere: a cominciare da chi su Internet non naviga, e in un’Italia che invecchia il divario digitale è vasto. Parole come guerra e rivoluzione sono incendi. Ricordano la peste di Atene narrata da Tucidide, che «spezza i freni morali degli uomini» e «travolge gli argini della legalità fino allora vigente nella vita cittadina». La paura è la stoffa delle guerre e dei despoti, e Grillo lo sa quando dice, e spera: «Il mio movimento regola la paura» (The Economist16-2).Grillo farà eleggere molti parlamentari, ed è un bene perché il Parlamento è la sede dove gli interessi imbrigliano le passioni. Non gli interessi economici, ma l’interesse come lo si intendeva nel ’500: la passione razionale che controbilancia quelle irrazionali, e secerne l’interesse generale e la separazione dei poteri.

Grillo e Casaleggio scrivono che sarà la rete a scrivere leggi e costituzioni. Ma la rete cos’è? Come delibera precisamente? Se la rete vuole la pena di morte la reintroduciamo? In Islanda (un modello, per Grillo) la Costituzione è stata ridiscussa in rete, ma riscritta da più piccoli comitati. In ogni mutazione c’è qualcosa da preservare, da non uccidere. Altrimenti entriamo nella logica del potere indiscutibile, legibus solutus, anelato da Berlusconi.A questa mutazione, i partiti più o meno vecchi reagiscono spesso con lo smarrimento, se non l’afonia. Non gridano, è vero. Il centro-sinistra in particolare ripudia il modernismo della personalizzazione: ci sono anacronismi che durano ben più del Nuovo. Ma sul mondo che cambia è terribilmente indietro, senza vocabolari né inventività. Tanti cittadini sono delusi dal ceto politico. Reagiscono moltiplicando le richieste di rendiconto, con rotolanti cori di «perché». Chiedere «un po’ più di lavoro», come fa Bersani, è un soffio quasi inudito. Tutto sarà diverso dopo il voto, anche se Berlusconi dovesse vincere. Sarà arduo discernere, in Parlamento, le passioni selvagge dagli interessi cittadini. La democrazia toccherà reinventarla, l’antico dibattito ottocentesco sul suffragio universale andrà ripreso, perché la scatola tonta e il web l’hanno sfinita. Ambedue puntano all’ingovernabilità, perché di essa si nutrono passioni difficilmente regolabili. È uno dei rischi del Glorioso Mondo Nuovo promesso dal web.

Federica Fantozzi intervista la politologa, co-firmatrice appello per il centrosinistra (con Asor Rosa, Bevilacqua, Bonsanti, Camilleri, Eco, Gregotti, Spinelli, Rodotà, Zagrebelsky e altri).

L’Unità, 17 febbraio 2013. Vedi l'appello in calce, con postilla

Perché ha firmato l’appello per il voto a favore del centrosinistra? Quali sono le sue preoccupazioni?
«Il mio principale timore è la frammentazione del voto a sinistra. Non è un appello al voto utile, visto che ogni voto lo è, bensì al voto intelligente. Strategico. Razionale. Bisogna considerare il nostro sistema elettorale ed evitare la perdita di rappresentatività. Anche dal punto di vista dello scopo: servono un governo e una maggioranza forti».

Se, invece, alla fine il Pd non fosse nelle condizioni di «dirigere il traffico»?

«A mio avviso, ci sono tutte le condizioni per tornare a votare poco dopo. È questo il motivo dell’appello. Bisogna rafforzare il centrosinistra per rendere più stabile l’eventuale alleanza con il centro. Altrimenti saranno più facili rotture, incomprensioni e tensioni a sinistra. Con il rischio concreto di elezioni anticipate».

Al di là della loro consistenza numerica, come giudica le nuove forze in campo, da Grillo a Ingroia a Giannino?

«Sono ovviamente diverse. Il M5S e Rivoluzione Civile sono movimenti demagogici e populisti. Usano uno scontento giustificato e argomenti veri per una proposta che non è né potrà mai essere di governo. E’ irragionevole pensare che Ingroia diventi premier».

Però ha appena annunciato la squadra. lui premier con l’Interim alla Giustizia, Travaglio all’Informazione, Giacché all’Economia.
«Certo, non può dire che si presenta per quindici deputati, ma è uno scenario senza fondamento. Irragionevole. Queste piccole formazioni fanno azione di contrasto per non consentire una maggioranza stabile e duratura. Vogliono mantenere sempre i giochi aperti. La democrazia lo consente, ma lo schema deve essere ciclico: ogni cinque anni, non in ogni momento».

Lei esclude, dopo il voto, la possibilità di un’intesa con Ingroia?

«Assolutamente sì. Già sarà complicato in queste condizioni fare un accordo con Monti, figurarsi con frammenti radicali che rappresentano scontento popolare e dissociazione rispetto all’establishment politico».
Queste forze potranno avere, nel prossimo Parlamento, una funzione utile di cane da guardia rispetto ad abusi dell’«establishment politico»?

«E’ la funzione dell’opposizione. Ma se è frammentaria e debole non funziona. Nel nostro sistema elettorale troppi cani da guardia finiscono per abbaiare ma non mordere. L’unico effetto è rendere difficile la governabilità. La situazione dell’Italia è molto difficile».

Che pronostico fa per Grillo? Come sarà il nuovo Parlamento contaminato dalla società civile?

«Grillo è un fenomeno ben più grosso di Ingroia. Ed è un’incognita reale. Cosa faranno i grillini in Parlamento? Dove andranno? Che proposte faranno? Nessuno lo sa»

La “salita” in campo di Monti lha migliorato o peggiorato lo scenario italiano?
«Il suo passaggio da tecnico a politico ha significato varie cose. La neutralizzazione del bipolarismo, intanto, che rende la strada del futuro governo più ardua».

La scelta del premier l’ha delusa?
«È un paradosso: alla fine è diventato un fattore destabilizzante anche lui. A modo suo ha contribuito a quell’ingovernabilità che voleva combattere. Poi, per rastrellare più voti, deve attaccare un giorno a destra e un giorno a sinistra».

Al di là della tattica, non crede che l’interlocutore di Monti sia Bersani?

«Se il centrosinistra sarà più forte sì. Altrimenti sarà il centrodestra. Non vuole essere di parte. Vuole fare l’ago della bilancia. E deve prendere peso: con il 10% Monti è un soffio, non potrà imporre i temi della sua agenda».

Non crede che la presenza in campo di Monti, come contraltare alla sinistra, porterebbe in un eventuale maggioranza a una condivisione di responsabilità per il Pd in un momento molto complicato in cui è facile fare errori?
«Questo tipo di ombrello funziona fino a un certo punto. Al momento di decisioni forti, positive o negative, non si può delegare ad un alleato. Col senno di poi, tutto parte dal novembre 2011: il voto avrebbe chiarito le cose. È come se l’Italia avesse paura dell’alternanza: fa di tutto per cercare mediazioni e compromessi. Che vanno anche bene: ma dopo, non prima».

Con un Pd forte e un centrosinistra stabile, invece, ci sarebbero le condizioni per una legislatura capace di fronteggiare la crisi e fare le riforme strutturali che servono all’Italia?

«È difficile dirlo. Non credo alle svolte, la democrazia procede in direzione riformista ma non è un sistema rivoluzionario. Certo, in quel modo sarebbero più facili scelte coraggiose come contenere il dogma dello spread e reindirizzare le politiche dell’Unione Europee».

In che direzione dovrebbe andare l’Europa?


«Le decisioni che privilegiano l’austerity e i sacrifici economici non sono le più convincenti per noi. Ma è ovvio che in assenza di un contraltare a Cameron e Merkel si va a finire lì. Un nuovo sistema di alleanze, invece, sarebbe in grado di contenere la frana liberista».

L’APPELLO PER IL CENTRO SINISTRA

Siamo alle ultime battute di una campagna elettorale confusa, rissosa, e da parte di taluni estremamente menzognera. Due scenari inquietanti si profilano come possibili dall esito del voto: o un caos ingovernabile; o il ritorno al potere di uomini e di forze, che negli anni passati hanno già portato il Paese verso la catastrofe.

Per evitare tutto questo, l’unica strada è votare per la coalizione di centro-sinistra, assicurandole l autosufficienza, che le consentirebbe di mettere in piedi un governo stabile, autorevole, rispettabile a livello europeo, in grado di gestire al meglio politiche e alleanze.

L’Italia ha un disperato bisogno di trasparenza politica e di giustizia sociale: se nei prossimi cinque anni non saremo in grado di restituire dignità alle istituzioni, rispetto per la politica, fiducia nei partiti, strategie di sviluppo e insieme un colossale mutamento di rotta nei confronti delle classi lavoratrici e dei ceti disagiati, ci ritroveremo, come altre nazioni europee, nel baratro.

Questo è vero per l’intero territorio nazionale. Ancor più vero in quelle regioni a rischio (dalla Lombardia alla Sicilia), dove poche decine di migliaia di voti possono fare la differenza tra un nuovo inizio e una pessima fine. Ogni voto è perciò prezioso a questo scopo: chiediamo all’opinione pubblica e agli elettori di scegliere come una ragione responsabile spinge inequivocabilmente a fare. E chiediamo ai cittadini che lo condividano di sottoscrivere e promuovere questo appello.

Umberto Eco, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Claudio Magris, Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Nadia Urbinati, Guido Rossi, Tullio De Mauro, Natalia Aspesi, Giorgio Parisi, Vittorio Gregotti, Alberto Melloni, Sandra Bonsanti, Luigi Ferrajoli, Filippo Gentiloni, Piero Bevilacqua, Alberto Asor Rosa.

Postilla

Molto difficile aderire a questo appello per chi, come me, ritiene (1) che il vero problema politico dell’Italia è l’assenza di una sinistra che possa chiamarsi tale e abbia una consistenza capace da poter stipulare durevoli alleanze di governo con altre componenti organizzate della società; (2) che un ostacolo alla formazione di una siffatta sinistra è l’esistenza stessa del PD, gabbia che racchiude elementi che sarebbero essenziali per costituire una vera sinistra; (3) che, in particolare, l’ideologia oggi dominante nel PD è omologa a quella liberista dell’area di Monti.


Tuttavia, gli scenari che si aprirebbero nel caso di una sconfitta delle forze che fanno capo al PD e a SEL (affermazione delle destre e formazione di un centrodestra Berlusconi-Monti) inducono a considerare con attenzione l’appello: un governo Bersani darebbe maggiori garanzie di ricostituzione delle condizioni democratiche essenziali per la maturazione di proposte di governo della società e del territorio alternative rispetto a quelle del finanzcapitalismo e del saccheggio dei beni comuni (e.s.)

I www sbilanciamoci .info, postato il 16 febbraio 2013

Appese alle pareti della casa di Luciano Gallino, le foto della moglie Tilde mescolano molteplici piani attraverso giochi di specchi, spingendosi oltre la percezione di un istante e cogliendo la sfuggente complessità d’insieme. È uno sforzo, questo, che si ritrova poco più in là, negli scaffali ricolmi di libri del professore, perché afferrare la complessità, arrivare al cuore delle cose, necessita di uno studio meticoloso e incessante. E spiegarla, poi, richiede un impegno altrettanto esigente, senza sosta, né risparmio: un impegno generoso, che passa per conferenze in Italia e all’estero, interviste e un nuovo libro per raccontare cos’è accaduto e come mai la gente continua a farlo accadere. Nel contesto odierno, dominato da semplificazioni populistiche e una visione neoliberista talmente radicata e potente da riuscire nel paradosso di gestire l’incendio dopo aver appiccato il fuoco, la voce di Luciano Gallino è un punto di riferimento prezioso per tracciare la rotta da seguire.

Una rotta che nasce dalla necessità del lavoro. “In Italia, ci sono circa quattro milioni di persone fra disoccupati e non occupati. Di conseguenza, una ricchezza pari a decine di miliardi l’anno non viene prodotta e non diventa domanda, commesse per le imprese, consumi. Il risultato è che la disoccupazione crea disoccupazione”.

Per creare occupazione bisogna seguire l’esempio di Roosevelt. “Con il New Deal, lo Stato si è impegnato a creare direttamente occupazione e in alcuni mesi furono assunti milioni di persone”. Un New Deal italiano permetterebbe non solo di creare ricchezza, ma anche di risolvere annosi problemi. A cominciare dal suolo. “Il dissesto idrogeologico riguarda più di un terzo del Paese. È un campo in cui i soldi si trovano sempre a posteriori, quando sono stati distrutti o allagati interi quartieri o quando ci sono frane, morti. Allora sì che si trovano i miliardi per riparare i danni. Sarebbe meglio spenderli prima, oculatamente, in opere da individuare”.

Prioritaria è anche la terribile situazione delle scuole. “Il 48% delle scuole italiane non ha un certificato che assicuri che l’edificio è a norma dal punto di vista della sicurezza statica. È possibile che i ragazzi italiani vadano in scuole metà delle quali non è a norma dal punto di vista della sicurezza? Non si tratta di pavimenti sconnessi o rubinetti che perdono, o servizi inadeguati, ma di muri, tetti, fondamenta, che bisognerebbe rivedere e rimettere a norma”.

La miopia riguarda anche il potenziale punto di forza dell’Italia. “Il degrado del nostro immenso patrimonio culturale è per molti aspetti sotto gli occhi di tutti. Negli anni si è puntato a migliorare i punti di ristoro nei musei, insistendo sulla fruibilità da parte di pubblici sempre più vasti, invece di intervenire sulla catalogazione digitale, sulla tutela effettiva, sulla custodia. Un’azione mirata può creare centinaia di migliaia di posti di lavoro”.

C’è poi il problema della riconversione del modello produttivo. “Il modello produttivo attuale è finito nell’estate del 2007. È impensabile che i posti di lavoro che si sono persi in questi anni siano ricostituiti, ripercorrendo lo stesso modello produttivo. Processi come l’automazione e la razionalizzazione hanno soppresso quote impressionanti di posti di lavoro e molte imprese si dirigono sempre di più verso Paesi in cui i salari, le condizioni ambientali o fiscali sono più favorevoli. Occorrerebbe pensare a forme di ecoindustria, cercando di evitare errori e compromessi che hanno, in alcuni casi, caratterizzato lo sviluppo di nuovi settori, come ad esempio si è visto con la creazione di parchi eolici”.

Una riconversione che riguarda anche l’agricoltura. “Anche qui, l’epoca in cui la lattuga del Cile o i pomodori di un altro Paese facevano 10 o 20 mila km prima di arrivare sulla tavola di qualcuno probabilmente è finita. Il costo dei carburanti, degli aerei e della logistica stanno in qualche modo imponendo forme di consumi agricoli, consumi alimentari che non saranno a km zero, ma certamente non a km 10 mila o 20 mila, come è stato invece per molti anni. Il ministero dell’agricoltura dovrebbe occuparsi della riduzione dei km che pomodori, lattuga e formaggi e altro percorrono prima di arrivare sulle nostre tavole”.

Per creare occupazione, l’ideale sarebbe un’agenzia centrale. “So che a molti sale la temperatura quando sentono parlare di Stato che occupa le persone. Bisognerebbe creare un’agenzia centrale che determina i limiti e che incassa i soldi da varie fonti, magari appunto dallo Stato stesso o da una rivisitazione degli ammortizzatori sociali. L’assunzione diretta può essere affidata ai cosiddetti territori, al non profit, al volontariato, ai servizi per l’impiego, alla miriade di entità locali, comprese piccole e medie imprese”.

L’occupazione diretta servirebbe molto di più dei soliti incentivi. “Una miriade di rapporti e documenti testimoniano che, se voglio creare un posto di lavoro, è molto più conveniente dare mille euro al mese a uno che lavora piuttosto che trasformarli in sconti fiscali, contributi alle imprese, nel caso assumano qualcuno. L’assunzione diretta ha un effetto immediato sulla persona e sull’economia, perché il giorno dopo che ho versato a qualcuno mille euro di stipendio, quello li spende contribuendo così al lavoro di qualcun altro. L’incentivo all’impresa, lo sgravio fiscale, la riduzione del cuneo fiscale e altre cose del genere hanno, invece, effetti molto più ritardati”.

E sotto attacco finirebbero ancora i meccanismi di protezione sociale. “Quando si parla di riduzione del cuneo fiscale, si ha in mente la riduzione dei contributi per le pensioni, la sanità e altro. La riduzione dei contributi implica che qualcuno pagherà ticket sanitari più elevati, magari a fronte di mezzi familiari scarsi, o che subirà un’ulteriore riduzione della pensione. Si annuncia di ridurre il cuneo fiscale, ma non si precisa come si recuperano quei contributi che vengono a mancare”. Un modo sottile per continuare a prosciugare il welfare.

Ma come finanziare gli interventi proposti? Per capirlo, bisogna ragionare su vari aspetti. Innanzi tutto il ruolo della Banca Centrale Europea. “Noi non disponiamo di una moneta sovrana, dipendiamo da una moneta che per certi aspetti è una moneta straniera. Non vuole essere una polemica contro l’euro, perché le polemiche contro l’euro sono semplicemente idiote e non vorrei minimamente essere accostato a quelle. Resta, però, il fatto che, mentre la Federal Reserve può creare quanto denaro vuole, noi non possiamo prendere in prestito soldi direttamente dalla Banca centrale per creare occupazione”.

Il problema è che i soldi ci sono, ma non arrivano a destinazione. “Tra il novembre 2011 e il febbraio 2012, la BCE ha prestato alle banche 1.100 miliardi di euro, con un interesse dell’1%. E li ha prestati senza chiedere nulla. Alla fine, si è scoperto che soltanto un rivoletto di quei 1.100 miliardi è finito alle imprese, al lavoro, all’economia reale”. E allora? “Allora, è davvero politicamente impossibile pretendere in sede europea che la BCE presti soldi soltanto se questi vengono destinati, attraverso le banche, all’economia reale e se le imprese e le società non profit che li prendono a prestito firmano l’impegno scritto di creare occupazione?”

Un altro aspetto importante riguarda la cassa integrazione. “La cassa integrazione ha superato il miliardo di ore. È denaro che è sacrosanto spendere per sostenere le famiglie, per porre un argine alla disperazione. Tuttavia, invece di pagare 750 euro al mese con il vincolo di non fare nessun altro lavoro, si potrebbe pensare di aggiungere 300/ 400 euro a quei 750 e convertirli, così, in un salario pagato dallo Stato: lo scopo sarebbe quello di far assumere da imprese non profit, imprese private, servizi per l’impiego, comuni e regioni le persone in cassa integrazione che sono disposte a fare altri lavori. In questo modo, si produrrebbe ricchezza e molti soggetti da passivi diverrebbero attivi. Pensiamo ai benefici economici che si genererebbero attraverso i cosiddetti moltiplicatori”.

Le risorse potrebbero essere ricavate, poi, dal rivedere spese apparentemente insensate. “L’idea di comprare un cacciabombardiere, che pare pure pessimo dal punto di vista strategico e militare, impegnando circa 15 miliardi, a fronte dello scandalo disoccupazione, a me pare uno scandalo per certi aspetti altrettanto grave”.

Infine, sul piano del fisco, non si può prescindere dall’economia sommersa. “L’economia sommersa c’è da ogni parte, ma in Francia, Germania, Gran Bretagna, è tra il 5 e il 10% del Pil, mentre in Italia è al 22% del Pil. Tra l’altro, con la crisi, i tagli alle pensioni e le riforme cosiddette del mercato del lavoro, l’economia sommersa ha fatto ulteriori passi avanti e fornisce incentivi molto convincenti a chi deve fare i conti con ogni singolo euro per arrivare alla fine del mese. Ridurre l’economia sommersa al livello di Francia o Germania significherebbe, per lo Stato, incassare almeno 60 o 70 miliardi l’anno di maggiori imposte di vario genere, dall’Iva alle imposte dirette”.

Oggi ancora peggio di Tangentopoli. Sarà capace la politica di domani di cancellare l’onta denunciata da Giacomo Leopardi e Italo Calvino (ed Enrico Berlinguer)?

La Repubblica, 17 febbraio 2013

CHE cosa è successo davvero al Paese in questi anni? Perché ci troviamo di fronte ad una devastazione dell’etica capace di evocare, talora in forme ancor più squallide e pervasive, il fantasma di Tangentopoli? Lo rimuovemmo per quasi vent’anni, quel fantasma, per riscoprire all’improvviso grandi e piccole vergogne.Per riscoprire le cricche e le banconote nascoste in un pacchetto di sigarette, o la risata di un imprenditore nella notte del dolore aquilano: da Tangentopoli, insomma, non eravamo mai usciti, e riprese poi una slavina che non ha risparmiato quasi nessuna istituzione o parte politica. Quasi nessuna area del Paese. E siamo ora a chiederci che cosa non abbiamo compreso del nostro passato e che cosa semmai è cambiato: da dove nasce cioè una violazione quotidiana della legalità che non riguarda più solo la politica.

Era prevedibile, purtroppo, come era stato prevedibile quel che le indagini di Mani Pulite misero in luce. Italo Calvino aveva descritto lucidamente la realtà già nel 1980, in un “Apologo sull’onestà nel Paese dei corrotti” dall’inizio fulminante: «C’era un Paese che si reggeva sull’illecito ». Calvino proseguiva: «Nel finanziarsi per via illecita ogni centro di potere non era sfiorato da nessun senso di colpa perché (…) ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito, anzi benemerito, in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale, quindi, non escludeva una superiore legalità sostanziale ». Una illegalità profondamente interiorizzata, dunque, e quasi “sincera” nella sua arroganza: di qui il carattere drammatico che il disvelamento talora ebbe, le crisi laceranti che talora indusse. “Rivelava” le conseguenze di una lotta per l’occupazione dello Stato e dell’economia condotta negli anni Ottanta da partiti sempre più privi di progetti e ragioni ideali (lo analizzava con dolente lucidità uno storico attento ai valori etici e civili come Pietro Scoppola). Sullo sfondo, allora, un Paese immerso nei falsi bagliori di una “modernità” basata su consumi e arricchimenti sfrenati, artificialmente alimentati da un debito pubblico che ingigantiva. Un Paese che si illudeva di poter sperperare senza pagare dazio: e dilapidava così non solo il proprio denaro ma anche il proprio essere responsabile e civile. Un vero dramma, insomma, di cui il degradare del ceto politico era l’espressione più visibile ma non l’unica, come per un attimo ci illudemmo.

Per certi versi oggi siamo ancora oltre, con il dilagare di una “normalità della corruzione” in cui confluiscono, nelle loro differenze, il Batman di Anagni e l’industria privata e pubblica, il potentato lombardo di Formigoni e il Monte dei Paschi di Siena, manager e immobiliaristi, con un melmoso e infinito contorno di nutelle, cartucce da caccia e usi ancor meno nobili del denaro dei cittadini. Sullo sfondo, oggi, il ventennio berlusconiano e la crescente centralità di un arricchimento privato che era elemento solo accessorio, e spesso perfino assente, nella corruzione politica di vent’anni fa. Le cronache inoltre ci dicono con impietosa chiarezza che oggi è chiamata in qualche modo in causa non solo la classe politica ma una classe dirigente più ampia: quella “società stretta” – quella élite, in altri termini – su cui Giacomo Leopardi rifletteva quasi due secoli fa analizzando «lo stato presente del costume degli italiani». Da essa, annotava, viene l’impronta a tutta la nazione, e qui vi è però una differenza di enorme rilievo rispetto ad altri Paesi europei: «Gli uomini politi di quelle nazioni si vergognano di fare il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito o con un panno logoro o lacero». Da noi non è così, concludeva Leopardi, e da questo nasceva il suo rovello.

A questo rinviano anche, pur in forme diverse, le domande che attraversano oggi un Paese in sofferenza, impoverito, attraversato da pulsioni spesso dolorose. Scosso alle fondamenta da una sfiducia nella politica che dà fiato a nuovi avventurieri del populismo antipolitico – come avvenne già negli anni Novanta – e al tempo stesso tiene artificialmente e paradossalmente in vita i più vecchi e screditati araldi di quegli stessi inganni. E siamo alla vigilia di un voto che può essere decisivo, in diverse e opposte direzioni. Può aprire varchi a disastri persino inimmaginabili se dà vita ad un Parlamento ingovernabile o pesantemente condizionato dal centrodestra. Ma può anche dare il primo avvio ad un’inversione di tendenza: il primissimo passo di una risalita inevitabilmente lunga e difficile. Oggi più che mai la speranza di un “buon voto” può esser tenuta in vita ed alimentata solo da un impegno del centrosinistra di grandissimo respiro, in primo luogo sul terreno che ha visto le frane più devastanti. Dalla politica sono venuti molti anni fa i segnali più visibili di un degrado avanzante, spetta oggi alla politica dare impulso ad un possibile cambiamento di rotta.

È indubbiamente essenziale che il centrosinistra illustri con la massima chiarezza sino all’ultima ora, sino all’ultimo minuto le sue proposte principali, da quelle fiscali a quelle relative alla crescita. E indichi gli strumenti e le competenze che saranno messe in campo, anche con la delineazione di un possibile governo di altissimo profilo: una “squadra di governo” capace di dare fiducia e speranza ad un’Italia sperduta, provata, talora incattivita. Vi è però un impegno preliminare e non rimandabile, da “comunicare” con una nettezza e chiarezza senza precedenti: misure assolutamente drastiche ed esemplari contro la corruzione e al tempo stesso tagli fortissimi ai costi e agli sperperi della politica. Misure da adottare – queste sì – nel primo consiglio dei ministri dopo le elezioni, nella sua primissima delibera. È un impegno assolutamente indispensabile per poter parlare al Paese. Per garantirgli che si può uscire insieme dalla bufera, e da una crisi del sistema politico sin qui incapace di riformarsi. E incapace quindi di riformare l’Italia.

Per connessione di materia ricordiamo, e vi invitiamo a rileggerre, lo scritto "La questione morale" di Enrico Berlinguer (1981).

L’europeismo dei governi non è l’unico possibile. Ma bisognerebbe che i movimenti di protesta «si impegnassero assieme non per meno Europa, ma per un’altra Europa».

La Repubblica,15 febbraio 2013

È UN’EUROPA vecchia e svuotata, quella che ha visto i suoi leader accordarsi su un bilancio striminzito, figlio di dogmi rigoristi pieni di sonno, emanazione di un’Unione dove gli interessi degli Stati duellano senza produrre neanche l’ombra di un interesse generale.

È un’Europa rattrappita («il mondo è divenuto così malvagio, che gli scriccioli predano dove le aquile non osano appollaiarsi», come in Shakespeare), e non a caso il rigetto nelle sue genti cresce. Il conciliabolo tra i finti suoi sovrani non poteva che finire così. Per la prima volta nella storia dell’Unione è prevista una diminuzione delle risorse comuni, come se la crisi semplicemente non ci fosse: un taglio di 34 miliardi di euro, rispetto al bilancio previsionale 2007-2013, e come tetto invalicabile meno dell’1 per cento della ricchezza prodotta. Questo chiedeva l’inglese Cameron, complice la Merkel e alcuni paesi nordici, e l’ha ottenuto: il Guardian registra il suo trionfo.

Inutile tacciare di infantilismo chi, come Bersani, si adira. Le cifre parlano chiaro, i fatti hanno più forza delle propagande elettorali. Sono cifre e fatti che hanno ormai una storia, una genealogia. Fino a quando l’Europa sarà una Confederazione di Stati abbarbicati a sovranità assolute (maschere utili in campagna elettorale, ma pur sempre maschere) le grandi scelte saranno intergovernative, dunque unanimi, e l’intesa difficilmente oserà vere scommesse sul futuro. La Confederazione, diceva Ernesto Rossi, è fumo senza arrosto. Non è affare dottrinale, scegliere l’arrosto della Federazione. Se la crisi del debito ha lambito con tanta furia l’Unione e la sua moneta, dalla fine del 2009, è a causa di quest’architettura imprecisa, ignara dell’interesse generale, mantenuta in vita non solo da Stati potenti ma anche dai piccoli che esistono gonfiando le proprie taglie. Cifre e fatti parlano da soli, per chi voglia esplorare le radici autentiche dei mali presenti. L’Europa non sta peggio degli Stati Uniti, né del Giappone. Se nella zona euro il debito inghiotte l’88 per cento della ricchezza prodotta, ben più alto è quello americano, giapponese: fino all’anno scorso, rispettivamente il 100% e il 226% del Pil. Ma nei due paesi non è in gioco, ogni volta, la vita o la morte della moneta, o della federazione, o dello Stato. In Europa invece sì, e questo vuol dire che la sua crisi è politica prima che economica. Dietro yen e dollaro ci sono Stati centrali che magari allarmano i mercati, ma non trasformano questi ultimi in padroni assoluti. Dietro il dollaro, c’è un bilancio federale che copre il 22,8 per cento del Pil: capace non solo di annunciare ma di realizzare politiche di sostegno, in congiunzione con una Banca centrale sicura di avere di fronte a sé un interlocutore politico. L’1 per cento fissato come limite insormontabile nell’Unione, nessuno lo dice ma è una beffa. Non solo pesa pochissimo sui cittadini (si calcola che il costo è di 70 centesimi al giorno: più o meno un caffè al bar ogni mattina. Il 2 per cento reclamato dai più arditi costerebbe un caffè e cornetto). Neanche politicamente può funzionare, se permane il metodo, anch’esso datato, dei contributi versati dagli Stati: quando c’è crisi, è fatale che i negoziati degenerino nelle fiere della taccagneria che sono i vertici intergovernativi. Occorre che l’Unione acquisisca un potere impositivo proprio, come Washington o Tokyo. Che l’Europa chieda direttamente al cittadino di finanziare l’avventura, perché solo in tal modo rende il secondo partecipe, e la prima appetibile e controllabile. È così che le democrazie nascono e diventano indipendenti, attive nel mondo: legando indissolubilmente tassazione e rappresentanza parlamentare. L’alternativa c’è e si chiama «giusto ritorno»: lo reclamò negli anni ’80 Margaret Thatcher, ed è oggi vizio ben condiviso. Lo vediamo da anni: ogni capo di governo esige di ridurre i propri contributi o di ricevere in cambio giuste restituzioni, come se l’Europa non trascendesse mai la somma dei Ventisette.

Quando il capo torna a casa dai conciliaboli ha in mano un trionfo personale, e un fallimento europeo. È il caso di Monti. Nella sostanza, venerdì, ha venduto per un piatto di lenticchie la linea più audace che pure gli era stata chiesta dal Parlamento: bloccare, minacciando il veto, un bilancio decurtato che condanna l’Europa all’irrilevanza. È per non perdere questo potere euforizzante ma sterile, che gli Stati s’ostinano a non affidare all’Unione poteri autonomi di imposizione: le tasse sulle transazioni finanziarie (Tobin tax) e l’imposta sulle emissioni di anidride carbonica (carbon tax), finita nei dimenticatoi nonostante l’effetto benefico che essa potrebbe avere su uno sviluppo diverso, meno inquinante per il clima. Bastano le frasi ipocrite che suggellano i vertici (l’ultimo comunicato assicura che «il bilancio, guardando il futuro, ci farà uscire dalla crisi», e «dovrà essere un catalizzatore per la crescita e l’occupazione in tutta Europa») per svegliarci dal sonno dei dogmi.

Merkel e Monti dicono che le elezioni nazionali non c’entrano, ma non è affatto vero. È per fingersi in patria sovrani possenti che difendono accordi fatti per screditare e abbassare l’Europa. Tra le righe fanno capire che un giorno si potranno correggere le cose: dopo le elezioni tedesche, comunque. Ma i deputati europei hanno il potere e il diritto di reagire subito, e già lo fanno. Sorretti dal Presidente Martin Schulz, i capi dei principali gruppi del Parlamento (Daul del Ppe, il socialista Swoboda, il liberale Verhofstadt, i Verdi Cohn-Bendit e Harms) lo dicono in un comunicato: l’accordo «non rafforzerà ma indebolirà la competitività dell’economia europea, e non è nell’interesse prioritario dei cittadini europei».

Non deve passare un «bilancio basato esclusivamente su priorità del passato», indifferente a promesse del futuro come ricerca, energie alternative, trasporti: «Non accetteremo un bilancio di austerità per sette anni». Perché l'accordo sia bocciato dal Parlamento europeo, non c’è bisogno di aspettare le elezioni tedesche né una nuova Costituzione europea, anche se l’urgenza di quest’ultima è massima. Fin d’ora, la legge è inequivocabile: il bilancio pluriennale è deliberato all'unanimità dal Consiglio dei ministri « previa approvazione del Parlamento europeo », prescrive l’articolo 312 del Trattato di Lisbona. Questo significa che noi cittadini possiamo esigere dal nostro Parlamento a Strasburgo che voti contro l’accordo (e che nelle elezioni europee del 2014 dia battaglia sul bilancio). E possiamo chiedere ai governi di fare meglio quei «compiti a casa» che sono loro assegnati dai cittadini oltre che dalla Bce, e non concernono solo il rigore contabile casalingo ma gli investimenti dell’Unione e al contempo la sua visione d’un mondo in mutazione. Non è detto che Schulz, meno coraggioso del previsto, abbia l’ardire di dire No. Vale la pena incalzarlo, e ricordargli l’appello personale che gli rivolse Helmut Schmidt, al congresso socialdemocratico del dicembre 2011: che promuovesse, appena eletto presidente dell’Assemblea, un’«insurrezione del Parlamento europeo» contro la sudditanza dei governi ai mercati. Essenzialmente, è quello che ha scritto su questo giornale Ulrich Beck, il 25 novembre 2012, sulla rabbia dei popoli contro l’Unione e le sue trojke. La questione sociale è diventata una questione non più nazionale ma europea, e «per il futuro sarà decisivo che questa convinzione si affermi. In effetti, se i movimenti di protesta prendessero a cuore l’imperativo cosmopolitico, cioè cooperassero in tutta Europa al di là delle frontiere e si impegnassero assieme non per meno Europa, ma per un’altra Europa, si creerebbe una nuova situazione ». Una situazione che Beck chiama Primavera europea.

«Non si può non vedere come dentro ognuna di queste vicende giudiziarie, al di là delle singole responsabilità penali, ci sia la trama di un potere fuori controllo».

Il manifesto, 15 febbraio 2013
A meno dieci dal giorno del giudizio non si può che prenderne atto. Al centro della campagna elettorale non sono stati i temi del lavoro e della ripresa economica, che avrebbero favorito Bersani. E nemmeno quelli della crisi e del rischio default, che favoriscono la paura e Monti. E in definitiva neanche con le capriole Berlusconi è riuscito a imporre la centralità del fisco, con cui da sempre spinge le sue rimonte. Niente da fare. L'attenzione del cittadino elettore continua ad essere distratta da altro, e non è colpa del papa né di Sanremo. Ma della cronaca che ogni giorno registra un nuovo scandalo, nuovi arresti, nuovi episodi di corruzione, inquinamento mafioso, ruberie. Ed è facile prevedere chi se ne avvantaggerà.

Beppe Grillo è stato l'unico fin qui a riempire le piazze e anche l'unico a salire nei sondaggi (fino a che si poteva pubblicarli) e non di qualche zero virgola ma di cinque, sei punti al giro. Non bastasse, è lecito pensare che il Movimento 5 Stelle possa andar meglio nel voto vero rispetto al voto previsto. È accaduto così nell'occasione più recente, le regionali siciliane. Senza contare che il voto cosiddetto «di protesta» tende tradizionalmente a ridursi in prossimità delle data delle elezioni, quando gli schieramenti si definiscono. A Grillo sta accadendo il contrario: era in flessione e ha cominciato a riprendersi. Segno che qualcosa di profondo è cambiato, tra gli elettori.

I dettagli sul coinvolgimento di Formigoni negli affari della sanità privata lombarda e le mazzette internazionali di Finmeccanica raccontano storie di malaffare targato centrodestra; cosa che del resto fanno gli ultimi arresti, tutti di ieri: il para editore Rizzoli, il finto finanziere Proto e persino il sindaco di Quartu Sant'Elena, Contini. Ma il primo squillo di tromba di questa campagna elettorale ballata al ritmo degli atti giudiziari è arrivato da Siena. Grillo parla delle inchieste sul Monte dei Paschi come del «più grande scandalo finanziario della storia». Magari esagera, ma di certo il coinvolgimento del Pd lo aiuta a mettere tutti i partiti sullo stesso piano. Operazione nella quale eccelle e che gli vale la tribuna del moralizzatore. E così cresce. Di questa crescita i partiti si sono accorti solo quando l’hanno letta nelle curve dei sondaggi. Probabilmente l’unico strumento che gli è rimasto per conoscere il paese che in- tendono governare.

Liquidare il fenomeno come populismo rischia di essere troppo semplice. Non si può non vedere come dentro ognuna di queste vicende giudiziarie, al di là delle singole responsabilità penali, ci sia la trama di un potere fuori controllo. Nessuno di questi scandali si sarebbe sviluppato se imprenditori e faccendieri corrotti non avessero potuto contare sul rapporto stretto con una classe politica titolare di una rendita di posizione. Tutt’altro che onnipotente, anzi molto spesso dipendente dai favori illeciti dei corruttori. Forte, anzi, solo del suo essere fuori dal controllo dei cittadini. Fiacca élite, sorpresa dal precipitare degli eventi mentre già si accordava per mettere insieme le reciproche debolezze, in nome dell’emergenza sbagliata.

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