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L’Unità, 17 gennaio 2013

L’altro ieri eravamo insieme con Carla a una riunione della associazione che abbiamo fondato insieme con lei. E come al solito si vantava d’esser più vecchia di me e io le dicevo che era una ragazza. Ed era vero. Nella sua battaglia per far capire alla sinistra tutta – e a noi – che non c’è sinistra senza la capacità di capire che lo sviluppo che si sta seguendo è insensato e inumano c’era una passione giovanile, il fervore di un convincimento sincero e profondo. Ed era piena di progetti e di volontà.

L’ultimo era quello di una intervista in cui io avrei dovuto avanzarle le obiezioni più informate, cioè non quelle più dozzinali, di una sinistra sviluppista, anche se non le condividevo tutte. E l’avevo indirizzata a qualcuno più bravo di me a sostenere quella parte. Aveva scritto tanto per una visione della lotta ambientalista che risalisse, prima e oltre il capitalismo, alle ragioni costitutive di una deriva che minaccia l’avvenire stesso dell’umanità. Ma non ne era appagata.

Sentiva che c’era tanto da fare per affermare una cultura economica e politica diversa, come quando, in anni lontani, a Milano, era stata tra le più combattive a spendersi, come giornalista e scrittrice, nell’azione per coinvolgere la sinistra di allora, a partire dal Pci, nelle lotte del primo femminismo. La sua forza stava nel fatto che la passione era nutrita di rigore e di capacità critica.

Di qui veniva l’acutezza di una instancabile e competente contestazione dei luoghi comuni di una cultura economica e politica incapace di vedere i nessi tra produzione e ambiente, tra mercato e qualità delle nostre vite, tra vacuità delle spinte al consumo e gravità di un disastro annunciato. Il suo insegnamento è prezioso per costruire una nuova sinistra politica e sindacale, in grado di superare le durissime sconfitte passate e recenti. Un insegnamento che raccogliamo e vogliamo continuare a coltivare con lo spirito combattivo del suo carattere.

Qui le opinioni di Carla Ravaioli per eddyburg. E qui la notizia della sua morte, con il video di un suo recente intervento

La Repubblica, 6 gennaio 2014

La misteriosa scomparsa di Federico Caffè avvenuta ventisette anni fa ha reso questo schivo economista una celebrità. Un uomo che per tutta la vita aveva tanto accuratamente evitato il clamore della scena pubblica quanto amato la riservatezza dell’insegnamento è diventato famoso per l’ultimo episodio della sua vita. Oggi avrebbe compiuto cento anni e a chi gli faceva gli auguri, con l’autoironia che gli era propria, rammentava di essere “un figlio della Befana”.

Il carisma che ha esercitato su un’ ampia generazione di allievi ha fatto sì che ognuno di loro abbia sentito la necessità di rievocare il comune maestro, come se questo fosse il modo migliore per esprimergli tardiva gratitudine. Perché Caffè ha lasciato un vuoto che chi lo ha conosciuto non è riuscito a riempire se non con il ricordo.

La sua eredità non si esaurisce in una univoca scuola di pensiero. Tra i suoi numerosissimi allievi troviamo di tutto: i paladini dell’antagonismo sociale, come Bruno Amoroso, i difensori intransigenti dell’intervento pubblico, come Nicola Acocella, gli esploratori di nuove forme di protezione sociale, come Enrico Giovannini, i fautori di una attiva politica economica capace di controllare l’azione dei mercati, come Marcello de Cecco. Che tra i suoi allievi ci siano anche il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, e il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, indica quanto la sua scuola sia stata tutt’altro che monocorde. Caffè aveva le sue idee, e le difendeva con accanimento, ma era capace di ascoltare e di accettare opinioni diverse.

Che cosa è rimasto del suo pensiero? Tre idee ci sembrano oggi ancora più importanti di uno quarto di secolo fa: il pieno impiego, l’assistenza sociale e la politica economica.

1) Caffè riteneva che il lavoro fosse non solo uno degli aspetti essenziali della emancipazione umana ma anche la più solida garanzia di tenuta sociale di un Paese. Certo, era consapevole quale fosse la differenza tra la Gran Bretagna del suo amato Keynes e la nostra penisola: da noi, gli effetti peggiori della disoccupazione, specie quella giovanile, erano e sono parzialmente assorbiti dalla famiglia. Ma Caffè aveva compreso che il ritardato inserimento nel mercato dei lavoro dei giovani, anche quando sono sostenuti dalle famiglie, provocava un distruzione di risorse umane, condannando intere generazioni ad acquisire tardivamente e spesso malamente le competenze ed esperienze della vita professionale. Riteneva, pertanto, che lì dove il mercato falliva, fosse compito specifico dell’operatore pubblico trovare lavoro per i giovani tramite piani straordinari per il lavoro.

2) Come indica il titolo del suo ultimo libro, In difesa del Welfare State, Caffè sosteneva accanitamente la protezione sociale, anche in un periodo come gli anni Ottanta in cui il debito pubblico italiano stava esplodendo. Società opulente dovevano farsi carico dei più deboli aumentando la tassazione sui più ricchi. Per tutta la sua vita, e ancor di più negli ultimi anni, Caffè sentì moltissimo il problema dell’assistenza agli anziani, troppo spesso privi di quei servizi essenziali che invece esistevano in altre parti del mondo; prima ancora di criticare il Welfare State, sosteneva, sarebbe stato necessario realizzarlo. Queste opinioni erano anche associate ai suoi timori personali: temeva di diventare di peso e questa fu una delle cause della sua depressione. Allo Stato rimproverava di “prelevare” male e di “spendere” peggio, e in ciò occorreva rintracciare la crisi dell’assistenza sociale. La soluzione ai problemi del bilancio pubblico non andava ricercata affidando al mercato problemi che non erano di sua competenza, quanto piuttosto riformando radicalmente il funzionamento dell’amministrazione statale.

3) Infine, per Caffè la politica economica poteva e doveva avere un ruolo chiave per la coesione sociale. “Politica economica” non era solo la materia che insegnava, ma anche la pressante richiesta al governo di agire per assorbire i conflitti sociali, aumentare la produzione, soddisfare i bisogni umani. Non digeriva i diktat degli organismi internazionali quali il Fondo monetario e la Commissione europea. La politica economica doveva controllare i mercati per evitare che le risorse finanziarie si indirizzassero verso attività speculative piuttosto che produttive. Era compito del governo trovare soluzioni concrete lì dove i mercati non riuscivano a raggiungere gli obiettivi sociali. Imprese a partecipazione statale, servizi collettivi, lavori pubblici e politica monetaria erano solamente gli strumenti a disposizione del governo per realizzarli. Era fiducioso nel fatto che un loro uso illuminato avrebbe consentito al governo di raggiungere più occupazione e più benessere.

Passano gli anni, i problemi cambiano eppure rimangono simili. Rileggere oggi i suoi scritti ci fa capire quanti appuntamenti siano stati mancati dalla politica italiana per risolvere i problemi strutturali del Paese. La disoccupazione, in particolare quella giovanile, ha toccato nuovi record storici e i pubblici poteri delegano ancora al mercato la risoluzione del problema. Il debito pubblico continua a dominare il dibattito di politica economica ma ancora oggi il governo non è capace di identificare i benefici generati dalla buona spesa e dai buoni investimenti pubblici. La politica economica del governo subisce passivamente i vincoli esterni. No, Federico Caffè non avrebbe ragione di essere soddisfatto dell’Italia di oggi. E chissà se avrebbe ancora la voglia di indicare quotidianamente la via di un riformismo possibile.


Il manifesto, 9 novembre 2013

Sala del Teatro de' Servi, via del Tritone a Roma, affollata per il convegno dal titolo «Togliatti e la Costituzione» promosso dall'Associazione Futura Umanità.

Tocca subito a Giampasquale Santomassimo tratteggiare la complessa personalità di Togliatti. Lo fa iniziando da un particolare biografico poco conosciuto: «Negli anni 1922-1923, mentre il fascismo si insediava, scomparve e fu Umberto Terracini a chiedergli di farsi vivo. Togliatti passava le giornate studiando, pensando a una seconda laurea e a risolvere il dubbio esistenziale sulla politica come vera vocazione. Togliatti non fu un totus politicus ». Parte da qui una ricostruzione che spiega come il leader comunista fu eletto segretario del Pci solo nel 1946 diventandone ben prima il leader indiscusso, dopo essere stato in Spagna nel corso della guerra civile di fine anni Trenta dove imparò sul campo come si debba rispondere al tema delle alleanze sociali e della democrazia, se non si vuole essere sconfitti; poi fu in Francia dove apprese la lezione dei «fronti popolari». La tesi di Santomassimo è che quel Togliatti che arriva in Italia alla caduta del fascismo è un politico a tutto tondo: aveva nella sua esperienza già accumulato tutte le riflessioni di quella «via italiana al socialismo» e di quel «partito nuovo» che segneranno così fortemente la storia della democrazia italiana e del Pci.
Dall'osservatorio del Teatro de' Servi, sembrano lontani i tempi in cui Togliatti era personaggio divisivo sia nel confronto tra Pci e Psi (gli anni del craxismo), sia all'interno del Pci (21 agosto 1989, l'articolo dal titolo «C'era una volta Togliatti» su «l'Unità» a firma del filosofo Biagio De Giovanni), sia ancora nel rapporto tra alcuni gruppi della nuova sinistra sessantottina e la politica togliattiana. Nel convegno, tra relazioni e interventi, affiora invece un forte bisogno di togliattismo, inteso come strategia e progetto sociale.
Gianni Ferrara, nella sua relazione, propone per esempio l'affascinante tesi di Togliatti «rivoluzionario costituente», ricordando che fu il solo dei segretari di partito dell'Assemblea costituente che volle far parte della Commissione dei 75 a cui fu affidato il compito di elaborare il progetto di Costituzione. Ferrara ricorda che Togliatti era un giurista. Ciò gli permise di giocare un ruolo di primo piano perfino nella formulazione dei singoli articoli contribuendo a quella vera rivoluzione culturale che fu far poggiare la Carta sulla centralità del lavoro e dei lavoratori ponendo la questione della proprietà in termini nuovi. Molti interventi sviluppano approcci particolari alla «questione Togliatti».
Piero Di Siena ricorda come proprio la strategia togliattiana pose in termini inediti il tema dell'unità nazionale. Poi analizza le ultime tappe di riflessione di Togliatti: il discorso a Bergamo del marzo 1963, quando rivolse l'invito ai cattolici al dialogo sui «destini dell'uomo»; il Memoriale di Yalta dove affiora la consapevolezza della crisi del socialismo reale.
Luciana Castellina ricorda il Togliatti della svolta di Salerno di fine marzo 1944 che gettò le basi del «partito nuovo e di massa» e dell'accettazione della democrazia come terreno d'azione: «Per lui, il partito era innanzitutto rappresentanza sociale».
Paolo Ciofi, presidente dell'associazione che ha promosso il convegno, analizza le novità contenute nella strategia della «via italiana al socialismo» e nella Costituzione dove «la società dei proprietari cede il passo alla società dei lavoratori». Sono sufficienti alcune citazioni di Togliatti nella fase costituente per cogliere la svolta politica: «Siamo democratici in quanto siamo non soltanto antifascisti, ma socialisti e comunisti. Tra democrazia e socialismo non c'è contraddizione». Ciofi spiega la rivoluzione concettuale operata dal leader comunista su un punto fondamentale: «Libertà del lavoro e libertà della persona si intrecciano, giacché il lavoro, in una sintesi inedita che non contrappone la classe all'individuo, è considerato come fattore costitutivo della personalità». La democrazia che si organizza, come amava ripetere Togliatti, conclude Ciofi, prende forma con i partiti di massa e si dispiegherà nel progetto di nuova società che non esclude compromessi con l'avversario.
Emanuele Macaluso, autore di un recente libro dedicato a Togliatti, esprime subito una tesi netta: «Senza di lui ci sarebbe stato comunque un partito comunista in Italia ma non avremmo avuto la democrazia italiana. Va riconosciuto senza tentennamenti il ruolo di Togliatti nella storia repubblicana. La straordinaria strategia togliattiana va però in crisi definitiva nel 1989, quando cade l'Urss. Lui aveva mantenuto quel legame e non lo aveva rotto del tutto neppure Enrico Berlinguer che nel 1983 era stato vittima in Bulgaria di un incidente che interpretò come un tentativo di farlo fuori fisicamente». Quanto all'attualità, Macaluso invita a non rigettare ipotesi di riforma della Costituzione: «Servono i partiti di massa, servono le riforme per far funzionale meglio la democrazia».
Argomenta Mario Tronti «Togliatti è la politica, chi vuole fare politica a quella scuola deve andare e chi vuole pensare la politica deve fare altrettanto. La Costituzione fu un miracolo politico. Il compromesso, del resto è una modalità della politica, proprio come lo è il conflitto. Oggi è l'assenza dei partiti uno dei mali della situazione».
Secondo Aldo Tortorella, le modalità della svolta occhettiana del 1989 impedirono al Pci di riflettere su se stesso e sui propri errori: «Fummo posti seccamente di fronte a un sì o a un no, senza la possibilità di discutere sul perché avevamo perso. Togliatti e la sua generazione si erano arrovellati sull'avvento del fascismo come regime reazionario di massa». Dice Tortorella: «Non ci accorgevamo dei cambiamenti della società italiana, non avvertivamo la necessità di rielaborare un programma. Io non mi assolvo, perché ho svolto funzioni dirigenti».

Corriere della Sera, 31 ottobre 2013, con postilla e barzelletta

La colonia di scrittori, intellettuali e uomini di scienza che animavano la Olivetti era una fabbrica nella fabbrica. Di cui però nella fiction La forza di un sogno , trasmessa lunedì e martedì da «RaiUno», non c’è traccia. «Non dico che sia calata una saracinesca, ma è una diminutio eccessiva» sostiene Franco Ferrarotti, tra i collaboratori stretti di Adriano Olivetti. «Una storia della Olivetti senza gli intellettuali è impossibile - dice Luciano Gallino, che non ha visto la fiction e fa un ragionamento per assurdo - perché non sarebbe la storia della Olivetti».

Al Corriere della Sera, Ferrarotti (classe 1926) parla con schiettezza: «La fiction racconta benissimo Olivetti uomo, interpretato magistralmente da Zingaretti: Adriano era così, volitivo e trattenuto, razionale e intuivo». Bene anche la regia di Michele Soavi. Ma l’ipotesi del complotto della Cia, adombrata, per Ferrarotti è errata: «Si drammatizza troppo il contrasto con gli americani, con l’agente americana infiltrata e alcune allusioni; in realtà la fortuna Olivetti deriva anche dai contatti con gli americani, in Svizzera, dove conosce Allen Dulles, poi direttore della Cia, grazie al quale riuscirà a non far bombardare Ivrea durante la guerra».

Ferrarotti non contesta le licenze di finzione, ma il fatto che il peso dato al complotto, e al romanzo familiare, metta in subordine il ruolo degli intellettuali: «Senza di loro non ci sarebbe il mito Olivetti. Non sarebbe arrivato al Museum di modern art a New York. Perché Ivrea, in quegli anni, era una piccola Atene industrializzata. C’erano Geno Pampaloni, scrittore e critico letterario, che faceva il segretario personale di Adriano, poi Renzo Zorzi, che veniva dal Partito d’azione, e Paolo Volponi, che non si limitò a dirigere le risorse umane, ma ricavò dall’esperienza dell’Olivetti i suoi libri Il memoriale e Corporale ». E ancora, Ottiero Ottieri, mandato da Olivetti come psicologo alla fabbrica di Pozzuoli «perché lì, in una fabbrica nuova in una zona non industrializzata — sottolinea Ferrarotti — i neo operai avrebbero avuto problemi particolari». Almeno il critico Franco Fortini, dice Ferrarotti, si poteva citare: «Fu lui a regalare lo slogan di grande successo per la prima macchina Lexicon 80, che diceva “Scriverà le parole del vostro avvenire”».

Ma attenzione. Olivetti non era un mecenate. «Era un capitalista che andava oltre il capitalismo — sostiene Ferrarotti —, un imprenditore che intuiva, per vie misteriose e a lui naturali, l’enorme importanza e il riverbero intellettuale e propagandistico dei suoi prodotti. Era una strana figura di ingegnere, umanista e post-rinascimentale, mezzo ebreo e mezzo protestante, meticcio come Obama, diciamo, sovversivo come Jobs... Un vero imprenditore perché non si limitava a gestire l’esistente».

Il sociologo Luciano Gallino (1927), collaboratore di Olivetti per l’Istituito di relazioni sociali, ricorda che a Ivrea il ruolo degli intellettuali era duplice: «Alcuni continuavano a fare quello che facevano prima, e si occupavano delle attività culturali dell’azienda, come Luciano Codignola e Ludovico Zorzi. Mostre, esposizioni, spettacoli a ciclo continuo. Altri svolgevano compiti manageriali, come Volponi, che era un dirigente anche severo, oltre che un vero romanziere. Ma non dimenticava mai di essere un intellettuale». Cosa vuol dire? «Non dimenticarsi mai — risponde Gallino — di avere davanti persone, la cui componente umana è inseparabile da quella economica, produttiva, come credevano i capitalisti che pensavano solo alla prestazione. E che oggi, purtroppo, hanno vinto. Olivetti diceva che la fabbrica, l’azienda, che molto prende e chiede in termini di sacrifici fisici, psicologici, familiari, ha il dovere di restituire. Oggi che il lavoro è presentato come un regalo fatto al lavoratore, suona assurdo».

postilla

Giustamente Ferrarotti e Gallino criticano la fiction su Olivetti per aver trascurato di sottolineare l’attenzione con cui Adriano Olivetti chiamava gli intellettuali a lavorare nella sua fabbrica, dove costituivano, come dice Ferrarotti "una fabbrica nella fabbrica". A questo proposito, e a conferma delle osservazioni di Ferrarotti e Gallino, voglio raccontare a chi in quegli anni non c’era una meravigliosa storiella, nata e diffusa qualche decennio fa. La trovate nella cartella Humour del vecchio archivio di eddyburg,it, precisamente qui

Fra i tanti lavori che negli ambiti più diversi Italo Insolera ha progettato e realizzato, ve n'è uno rimasto di necessità in ombra nei numerosi articoli comparsi a suo ricordo: quello del restauro e del recupero dell'antico. Ricordo come mi illustrasse con affetto particolare il ripristino filologico dei giardini sopra Villa Giulia a Roma, quelli che connettono la residenza di papa Ciocchi Dal Monte alla contigua Villa Borromeo, e quanto tenesse a quella verde reintegrazione che costituiva un altro passo avanti nel completamento del restauro del sistema delle Ville romane, da Villa Borghese fino a Villa Giulia.

In quell'ambito ebbe poi l'incarico di restaurare Villa Poniatovski (nobili polacchi innamorati della musica e musicisti più che amatoriali essi stessi, grandi amici di Rossini), in origine Sinibaldi, rimaneggiata dal Valadier e più tardi degradata e manomessa a cereria industriale. Vi girammo con lui un servizio per "Bellitalia" (Raitre) all'epoca curata da Fernando Ferrigno. Restauro durato a lungo e al quale concorse Francesco Scoppola che molti anni prima aveva studiato con Italo a Ginevra. Anche di quel significativo ripristino completato poco tempo fa Insolera parlava con affetto intenso. A quel punto al sistema delle ville mancava - e putroppo manca - all'appello soltanto Villa Strohl Fern lasciata dal nobile alsaziano alla Francia e dai francesi maltrattata come poche.

In questi siti, come a San Paolo alla Regola, Italo, lo voglio sottolineare, portò la sua grande conoscenza di storico di Roma e una precisa consapevolezza filologica , senza pretendere di "lasciare il segno", a differenza di tanti architetti suoi contemporanei. Un grande merito pure questo.

I due volumi realizzati per ENI a metà degli anni Sessanta: quello sulle coste e quello sugli Appennini, furono per me il primo approccio con Italo Insolera. Quello in particolare sui paesaggi appenninici, ai quali pure iniziavo a dedicarmi, mi apparve quanto di più chiaro, sintetico e al tempo stesso profondo, si potesse realizzare per illustrare agli italiani la complessità sedimentata dei quadri visivi depositati dalla natura e dalla storia del lavoro umano. Uno spunto prezioso, per avviare poi un’analisi sistematica dei rapporti fra paesaggi ed aree culturali nell’ambito delle Campagne di rilevamento promosse da Andrea Emiliani, prima, e poi delle attività dell’Istituto per i Beni culturali dell’Emilia Romagna.

La collaborazione , nello scambio di opinioni e di esperienze, venne in seguito, con l’elaborazione del Piano Paesistico regionale negli spazi e con molti dei materiali raccolti dall’IBC. Le colonie sulla costa “riminizzata”, l’inventario e la perimetrazione dei centri storici, l’organizzazione degli insediamenti e del territorio rurali e i metodi di analisi ai fini di una tutela mirata, passarono sotto la sua visione e i suoi consigli grafici per essere trasferiti nelle norme e nella cartografia di Piano, con l’attenzione rivolta alla comprensione anche dei cittadini non addetti ai lavori.

L’ultimo incontro, preparato da Lucio Gambi, avvenne nella sua casa sul lago Maggiore, dove ci accolse , con Annina, con grande calore, per offrire all’IBC il prezioso archivio fotografico del fratello Delfino, al quale si doveva, fra l’altro, la collana audiovisiva “Conosci la tua regione” curata da Franca Cantelli.

È come se, d’improvviso, le solitudini delle nostre città si fossero fatte più acute, il loro degrado più irreversibile, la loro ingiustizia più radicale. Assieme agli occhi dell’architetto e urbanista Italo Insolera (nato a Torino nel 1929 e scomparso a Roma lunedì) si spegne, infatti, uno degli ultimi sguardi capaci di diagnosticare il male che sforma il nostro tessuto urbano e, con esso, il nostro modo di essere, anzi di non essere più, cittadini.

Una delle ultime, fulminanti diagnosi, Insolera l’aveva affidata a un’intervista a Francesco Erbani (Repubblica, 13 aprile 2010): “L’urbanistica? È ormai figlia dell’architettura. E l’architettura ridotta a pura forma assorbe tutto il dibattito culturale. Tutto lo spazio dell’informazione. Diventa il paradiso delle archistar. Si bada più al singolo progetto che non al disegno complessivo. Più al singolo manufatto che non alla città. Più all’individuo che non al collettivo. Occorre invece che l’urbanistica recuperi la sua linfa sociale”. Parole profetiche, una per una: proviamo a verificarle pescando a caso nella cronaca di questi giorni, anzi di queste ore.

Ieri il ministro Corrado Clini (che ormai porterà incollata per sempre la definizione geniale che ne ha dato Riccardo Mannelli su questo giornale: “Il ministro dell’Abbiente”), il governatore del Veneto, il presidente della Provincia e il sindaco di Venezia hanno inaugurato la mostra sul cosiddetto Palais Lumière di Pierre Cardin. Ancor prima che l’Enac dica se la torre di 250 metri che dovrebbe nascere a Marghera sia compatibile col traffico aereo, le istituzioni benedicono e consacrano un progetto – il dettaglio è grottesco – che scaturisce dalla tesi del nipote dello stilista, laureatosi con essa a Padova nel 2011. Le stesse istituzioni che non sono state capaci di aprire un vero confronto pubblico sul recupero della zona industriale di Marghera, di pianificare un risanamento urbano attraverso la partecipazione popolare, si prostrano all’istante di fronte a un singolo privato che presenta un progetto faraonico fatto in casa, che si basa sull’evidente desiderio di “oltraggiare Venezia” (così Salvatore Settis), modificandone per sempre lo skyline con una gigantesca torre luminosa degna del più cafone degli emiri.

Immancabilmente, il dibattito pubblico si è concentrato sulla forma della torre e sul suo valore estetico (“è bella o non è bella, mi piace o non mi piace”) sotterrando sotto il soggettivismo dell’archistar (in questo caso dell’apprendista archistar) ogni idea di città, di sviluppo sociale, di comunità. Naturalmente l’argomento più forte è che Cardin ci mette i soldi, e che siccome è molto anziano bisogna dire di sì all’istante: così, come in un nuovo medioevo, le torri dei feudatari più ricchi e potenti simboleggiano nel modo più violento e indelebile il trionfo degli individui sul collettivo, espellendo dalle vene esauste dell’urbanistica italiana le ultime gocce di linfa sociale (per usare le parole di Insolera).

In un bellissimo ricordo di quest’ultimo comparso ieri sul Corriere della Sera di Roma, Paolo Fallai ha citato un’intervista del 1993, quando qualcuno propose la candidatura dell’urbanista a sindaco di Roma. Insolera era forse il più profondo conoscitore della storia urbanistica recente della città, a cui nel 1962 aveva dedicato il fondamentale Roma moderna, ripubblicato da Einaudi nel 2011, con ampliamenti e contributi di Paolo Berdini (il quale è vicino a Insolera anche nell’impegno civile). Ma, nonostante questa indubbia competenza, Insolera declinò l’invito, e non già per pigrizia o codardia: “Non ho mai pensato di aver l’idea chiave in grado di capovolgere le cose – dichiarò in quell’intervista –. Un uomo, un’idea, un progetto non cambiano niente. Può riuscirci solo un lavoro faticoso, paziente, di tante persone. Solo la società può cambiare la società”. E al giornalista che gli chiedeva quando Roma sarebbe potuta rinascere, Insolera rispose: “Quando tornerà l’ideologia, una qualsiasi, si potrà fare. Per ricostruire, per risanare, occorre prima sapere quale tipo di città si vuole”.

Vent’anni dopo non solo questa analisi è ancora drammaticamente attuale, ma si può trasferire dall’urbanistica alla politica, da Roma all’Italia: con l’abdicazione della politica e il commissariamento dei tecnici tentiamo di risanare e ricostruire un Paese facendo a meno di un progetto comune. Ma, continua a martellarci la voce di Insolera, “solo la società può cambiare la società”.

So di dover resistere alla tentazione che la commozione e il dolore per la perdita di un amico prevalgano sul dolore e la commozione per la scomparsa del grande urbanista, intellettuale, storico, studioso di città. Sui giornali di oggi firme autorevoli – Paolo Berdini, Vittorio Emiliani, Francesco Erbani, Paolo Fallai, Grazia Pagnotta, Walter Tocci – e tanti altri sui blog e sui siti informatici – Ella Baffoni, Edoardo Salzano, Sauro Turroni – ricordano le cose fondamentali della sua vita di piemontese innamorato di Roma e che ha dedicato alla capitale le sue straordinarie attitudini. Aggiungo qualche disordinata riflessione. Ci saranno altre più meditate circostanze per ricordare compiutamente la sua figura e la sua opera.

Prima di ammalarsi Italo ha completato la nuova stesura di Roma moderna, il suo capolavoro, il più importante libro sulla storia urbana della capitale. Fu presentato nel novembre dell’anno scorso presso l’istituto francese di piazza Navona da Renato Nicolini, altro grande eretico, prestigioso esponente della cultura antiaccademica che ci ha lasciato da pochi giorni. La novità più rilevante dell’ultima edizione di Roma moderna, alla quale ha collaborato Paolo Berdini, riguarda l’inizio del racconto, spostato all’indietro, al 27 luglio 1811, data in cui Napoleone I firmò il decreto imperiale per “l’embellissement de Rome”. Insolera scrive nella premessa che la Rivoluzione francese “ha un carisma storico-culturale ben maggiore dei ministri e dei generali della modesta dinastia sabauda, incerta se allearsi con Garibaldi, sicura di avere in Mazzini un nemico”, e perciò è giusto attribuire ai francesi il merito di aver dato inizio a Roma moderna.

Il racconto di duecento anni di urbanistica romana – dal 1811 al 2011 – è la storia di un massacro, e dovrebbe indurre alla disperazione, la conclusione dovrebbe essere che hanno vinto i portatori degli interessi fondiari e speculativi.

Ma Italo Insolera non si arrende. Il suo amore per Roma lo induce all’ottimismo, proponendo per Roma moderna una prima conclusione riferita all’Appia Antica come “un auspicio per un futuro migliore”. L’Appia Antica – lo sappiamo – è una parte essenziale della vita di Insolera.

Ma a questa prima, forse scontata, aggiunge una seconda sorprendente conclusione: “Roma multietnica”. Si intitola così l’ultimo capitolo del libro che racconta della recente immigrazione. La capitale è sempre stata multietnica, da Adriano in poi gli imperatori provenivano dalle terre conquistate. Così anche le legioni che formarono nuovi nuclei familiari. E lo stesso è per la Chiesa cattolica con la presenza di religiosi provenienti da tutto il mondo.

Oggi a Roma vivono circa 600 mila immigrati ma continua a prevalere un atteggiamento di diffusa chiusura. Insolera racconta drammatici episodi generati dalla negazione dell’accoglienza e la tragica sorte dei Rom sui quali “si scaricano i pregiudizi e il latente razzismo della popolazione romana”.

Ma nonostante tutto l’integrazione va avanti e il quartiere di piazza Vittorio è diventato il simbolo della trasformazione. Proprio da piazza Vittorio prende nome l’orchestra formata da musicisti provenienti da ogni parte del mondo: Argentina, Brasile, Cuba, Ecuador, India, Mali, Senegal, Stati Uniti, Tunisia e Ungheria. Un insieme di sensibilità, strumenti e suoni che “getta alle ortiche la difesa di ormai inservibili identità culturali e religiose. Meno male che a Roma c’è l’Orchestra di Piazza Vittorio”: scrive Insolera. Non poteva esserci una più appropriata, convincente e conclusiva dichiarazione d’amore per Roma.

La prima edizione di Roma moderna del 1962 raccoglieva lunghi e documentati articoli scritti alla fine degli anni Cinquanta per la rivista «Urbanistica» che, allora, ai tempi di Adriano Olivetti e Giovanni Astengo, era la più importante rivista del mondo in materia di città e di territorio. A Torino, nella redazione di «Urbanistica» conobbe Annina, giovanissima, ma che già aveva alle spalle una bella storia, e poco nota, di staffetta partigiana, che da quel momento, schiva e silenziosa, ha seguito passo dopo passo con competenza e intelligenza il lavoro e la vita di Italo, la sua libertà intellettuale. E di questo, sapendo di interpretare il pensiero di quanti hanno conosciuto e stimato Italo, voglio ringraziarla, con tutto il cuore.

Torno a Roma, città che non ha ricambiato l’amore irriducibile di Italo. Mi riferisco alla Roma ufficiale, alle istituzioni rappresentative che hanno sempre accuratamente evitato di avvalersi della sua competenza. Talvolta chiamando in causa il suo brutto carattere. Prima o poi si dovrà scrivere la storia dei delitti commessi con il pretesto di scansare i portatori di temperamenti non accomodanti. Il brutto carattere di Insolera è una bugia, era solo rigoroso, e chi lo ha conosciuto, chi ha lavorato con lui sa quanto fosse illimitata la sua disponibilità all’ascolto e alle ragioni degli altri, al farsi carico dei problemi della pubblica amministrazione, quanto fosse trascinante la sua ironia, quanta insospettata dolcezza ci fosse anche nei rapporti professionali.

Il punto è che Italo aveva idee chiare e chiaramente le esponeva. Cito qui una sua intervista a l'Unità sull'esperienza delle giunte di sinistra in Campidoglio cominciata nel 1976 e stancamente finita nel 1985. “Non voglio dimenticare nulla, né la sparizione delle borgate, né le estati romane. Ricordo tutto e lo apprezzo (...). Dico che mancò una filosofia complessiva del cambiamento, non si cambia nel profondo se si insiste nell'abbandono di ogni ideologia come ispiratrice dei fini e dei mezzi. E se qualcuno sostiene che la pianificazione non occorre sono costretto a ricordargli che non occorre alle classi dirigenti, ma alle altre sì”.

E in un'altra intervista al Corriere della sera che gli chiede a quali condizioni Roma può rinascere, Insolera risponde: "Quando tornerà l'ideologia". E a una successiva domanda sull'utilità di un nuovo piano regolatore, risponde che sarebbe utile "solo se avesse un obiettivo ideologico, se puntasse a realizzare una grande idea. Se andasse oltre i metri cubi".

Era questa chiarezza d’idee, non il brutto carattere, era la sua concezione che l’urbanistica non può essere acriticamente asservita alle idee di chi esercita il potere che ha impedito ai mediocri esponenti della politica romana di passare alla storia lavorando con Insolera.

Insomma, Roma con Italo è stata matrigna. Ha studiato le vicende di Roma per oltre mezzo secolo (e non da erudito anodino ma da appassionato e fattivo elaboratore di idee ed i proposte): il mezzo secolo durante il quale sono stati formati due piani regolatori, un numero sconfinato di varianti, di studi, di progetti. Mentre Insolera continuava a essere inascoltato.

Vittoria Calzolari e Walter Tocci sono stati gli unici assessori del comune di Roma che hanno chiesto la sua collaborazione, Vittoria per il restauro degli alloggi di San Paolino alla Regola, Walter per la mobilità e soprattutto per il ritorno del tram. Quest’ultima esperienza, Insolera, Tocci e Domitilla Morandi l’hanno raccontata in un libro Avanti c’è posto, fra i più utili per comprendere le recenti vicende dell’urbanistica di Roma.

Diversa è la storia con la soprintendenza archeologica di Roma, e per essa intendo Adriano La Regina e Rita Paris, che hanno stabilito un duraturo e vitale rapporto di collaborazione con Insolera. Ripetuti e continui i contributi che in varia forma Italo ha dato all’Appia Antica. E posso appena ricordare la mirabile intesa che si stabilì fra La Regina, Antonio Cederna, Insolera, Leonardo Benevolo al tempo del sindaco Luigi Petroselli, quando sembrava che il progetto Fori fosse davvero fattibile, quando si credeva che la storia, anche quella più remota, potesse agire da protagonista della città moderna. E poi Tormarancia. Si deve allo studio condotto da Insolera se quella spettacolare porzione di campagna romana non è finita sotto il cemento e l’asfalto e oggi è integrata nell’Appia Antica.

Allora non è un caso se il luogo in cui siamo oggi, dove Roma saluta Insolera, è un’espressione della storia e dell’archeologia.

Insolera non si è occupato solo di Roma. Ha insegnato a Firenze, Venezia, Ginevra. Ha lavorato per tante città. Qui mi pare importante ricordare che fu progettista – insieme a Leonardo Benevolo, Carlo Melograni, Tommaso Giura Longo e altri – dei piani coordinati di Cecina, Castagneto Carducci, San Vincenzo, Sassetta, Bibbona, comuni della Maremma livornese. Un’esperienza eccezionale dovuta ad amministratori illuminati che raccolsero le idee e le proposte di Italia Nostra contro “il mare in gabbia”. Si deve a quei piani se nella Maremma livornese – nonostante più recenti cedimenti – sopravvivono tratti di costa sottratti all’edificazione e spazi pinetati aperti a tutti.

Italo se n’è andato – lo hanno ricordato in molti – nello stesso giorno in cui sedici anni fa ci lasciò Antonio Cederna. Il sodalizio Cederna – Insolera è stato quello più detestato dai nemici del genere umano, come Cederna usava definire speculatori e associati. Fra le tante virtù che li affratellavano mi pare importante ricordare il saldo e indiscusso rapporto che entrambi ebbero sempre con le associazioni ambientaliste e culturali, e più in generale con il mondo della partecipazione popolare, dei comitati, della protesta.

È questa – di saper stabilire un rapporto fecondo fra l’alta cultura e i fermenti autentici e profondi della società – l’eredità più difficile che dobbiamo raccogliere.

Arrivederci Roma

Paolo Berdiniil manifesto

Italo Insolera È scomparso a 83 anni, l'intellettuale, urbanista e architetto che ha dedicato una vita di feconde riflessioni alle metropoli e alle trasformazioni del territorio italiano Italo Insolera È scomparso a 83 anni, l'intellettuale, urbanista e architetto che ha dedicato una vita di feconde riflessioni alle metropoli e alle trasformazioni del territorio italiano. Chiunque si sia occupato o si occuperà dell'evoluzione storica, urbanistica e sociale della città eterna si è formato su i suoi studi. Un

Italo Insolera ha dedicato una vita di feconde riflessioni alle città e alle trasformazioni del territorio italiano e la morte di un grande intellettuale lascia sempre un vuoto incolmabile. Mancheranno i suoi insostituibili libri, le sue intuizioni, il suo profondo impegno morale per rendere migliore la vita urbana. Mancherà il suo impegno formativo verso tante generazioni di urbanisti compiuto con i primi incarichi di insegnamento presso la facoltà di Architettura di Roma, continuato dal 1960 con la docenza presso l'Università di Venezia per poi concludersi all'università di Ginevra. Potremo rendere meno violenta la sua scomparsa soltanto se sapremo far iniziare in Italia e in tante sue città una profonda fase di trasformazioni urbane pensate in sintonia con il suo straordinario pensiero.

Italo Insolera nasce a Torino nel 1929, ma compie i suoi studi a Roma dove la famiglia si era trasferita poco dopo la sua nascita e si laurea in architettura presso l'Università La Sapienza nel 1953. Negli anni della formazione romana entra in contatto con il mondo di Italia Nostra e dell'Istituto nazionale di urbanistica. Con Antonio Cederna inizia un sodalizio che durerà tutta la vita e produrrà la straordinaria elaborazione sul parco archeologico dei Fori e dell'Appia Antica. Nell'Istituto nazionale di Urbanistica, allora profondamente ispirato dal pensiero di Adriano Olivetti, inizia a occuparsi sistematicamente di Roma e sul prestigioso periodico Urbanistica, allora diretta da Giovanni Astengo, scriverà due memorabili numeri sulla storia urbanistica di Roma moderna.

Roma diviene così il baricentro della sua vita. Grande intellettuale e uomo di vasta cultura, si è interessato dell'urbanistica italiana e dello sviluppo delle città. Questa attenzione è magistralmente esemplificato in una delle opere più straordinarie: la voce «urbanistica» nella Storia d'Italia edita da Einaudi (1973). In una meravigliosa sintesi traccia la storia delle evoluzioni delle maggiori città, ricercandone le attinenze dettate dalla congiuntura economica e culturale dei vari momenti e le specificità dovute alle generali origini storiche, alle condizioni morfologiche, alla storia locale come elemento connotativo dell'incessante evoluzione delle città e dei territori. Il suo ragionamento parte da una illuminante intuizione iniziale: «La città considerata come principio ideale delle istorie italiane: così Carlo Cattaneo alla fine del 1958 intitolava un saggio che muovendo da alcune considerazioni sulle città nella storia preunitaria, implicitamente poneva il problema del ruolo delle città italiane nell'imminente Stato unitario». La sua grande lezione è quella di saper partire dai concetti fondamentali che sono alla base delle trasformazioni del territorio, del paesaggio e delle singole città. Un percorso logico che nella sua vita ha dato frutti straordinari. Tra i tanti importanti saggi pubblicati, è almeno il caso di ricordare il bellissimo Saper vedere l'ambiente (De Luca, 2008), dove le trasformazioni dell'ambiente umano vengono rese intellegibili nel loro inscindibile rapporto con l'azione umana egli errori delle azioni delle classi dirigenti.

Oltre a questa insostituibile elaborazione di carattere generale, è a Roma che Insolera ha dedicato studi e approfondimenti, lasciando un patrimonio di conoscenze senza uguali. I due numeri monografici di Urbanistica diventeranno nel 1962 Roma moderna la prima e la più completa storia delle trasformazioni della città. Il volume edito da Einaudi verrà ristampato e ampliato ben 14 volte fino alla suo aggiornamento di pochi mesi fa, in occasione del cinquantenario dalla prima edizione. Chiunque si sia occupato o si occuperà dell'evoluzione storica, urbanistica e sociale della città eterna si è formato su quel fondamentale volume. Nella premessa di Roma moderna, Italo Insolera sottolineò i ringraziamenti ad Antonio Cederna «per il suo continuo insegnamento e per avermi proposto cinquant'anni fa di scrivere questo libro». Sono gli anni in cui Cederna inizia la sua strenua battaglia in difesa dell'Appia antica e Insolera con i suoi studi urbanistici fornisce prezioso materiale alla elaborazione del grande progetto di sistemazione dell'area centrale dei Fori e della creazione del parco dell'Appia Antica. Numerosi articoli, libri fondamentali, mostre documentarie e lavori condotti per conto della soprintendenza di Stato, in particolare quando essa è diretta da Adriano La Regina, costituiscono le basi scientifiche e culturali con cui questi due grandi intellettuali italiani hanno lasciato il loro più straordinario risultato. Questo legame tra i due grandi italiani è sottolineato anche da un fatto simbolico: Insolera muore il 27 agosto, sedici anni esatti di distanza dal suo grande amico Antonio Cederna.

Ma, come dicevamo per il suo atteggiamento sulla storia urbana italiana, lo sguardo di Insolera per la sua città elettiva era sempre rivolto al futuro. La immensa conoscenza della sua storia era lo strumento per pensare a una città migliore, umana, rispettosa dei diritti di tutti i cittadini, a iniziare dalle fasce socialmente più sfavorite. Questa sua tensione verso il futuro trova un parziale riconoscimento negli anni '90 durante i primi anni delle amministrazioni di centro sinistra nate sulla spinta morale del post Tangentopoli. È il vice sindaco Tocci ha chiamarlo in qualità di consulente sulla materia della mobilità e anche questa volta Insolera pensa alla città del futuro. Propone nuove linee tramviarie (memorabile quella di costruire una linea sui lungoteveri così da abbattere il traffico di attraversamento che li soffocano) e collabora alla realizzazione della linea tramviaria 8, la più grande realizzazione della recente vita della città. Un altro tassello della concezione unitaria dell'Appia antica, Insolera lo mette a segno proprio in quegli anni, collaborando all'interramento del Grande raccordo anulare che prima spezzava in due la «regina viarum» e, ancora, nella relazione di vincolo sul comprensorio di Tor Marancia, scritta su incarico della soprintendenza archeologica di Stato insieme a Vezio De Lucia e Carlo Blasi. E, ancora una volta, la sua attività professionale lascia lo spazio per una più generale riflessione sulla città in Avanti c'è posto, scritto con Walter Tocci e Domitilla Morandi (Donzelli, 2008).

E proprio concludendo la sua riflessione su Roma culminata con la nuova edizione (2011) di Roma moderna, Insolera ci lascia la grande eredità per il futuro. Dopo essersi infatti chiesto se non fosse il caso di mutare il titolo del libro apponendovi un punto interrogativo, giudicando dunque Roma una città non moderna al pari delle altri capitali europee, perché lasciata dai pubblici poteri in balia della più avida speculazione immobiliare, conclude il libro con una straordinaria idea. Roma potrà diventare moderna se saprà fare del grande vuoto del parco dell'Appia antica la «spina dorsale» di uno sviluppo che guarda al benessere dei cittadini e non all'affarismo di pochi speculatori immobiliari.

Oggi l'Italia della grande crisi economica è ad un bivio: siamo ancora in tempo per seguire la sua lezione abbandonando la speculazione e iniziando a pensare che le città sono il luogo della vita di milioni di cittadini. Farli vivere bene è un grande obiettivo etico e morale. Al raggiungimento di questo obiettivo ha dedicato la vita Italo Insolera.

La Roma di Insolera

Vittorio Emiliani– L’Unità

Si spegne con Italo Insolera una delle voci più alte, autorevoli coraggiose dell’urbanistica e della sua travagliata e entusiasmante storia. Scompare con lui uno degli intellettuali di sinistra che, con idee ben chiare e fermamente praticate, hanno segnato in positivo la vita democratica delle nostre città e, in particolare, di Roma. Alla quale Italo ha dedicato tanta parte delle ricerche, della elaborazioni progettuali, degli scritti di una incessante attività di architetto e urbanista, di esperto di restauri antichi e di mobilità urbana, di storiografo e saggista.

Nasce nel 1929 a Torino dove il padre Filadelfo, importante matematico originario di Lentini, in Sicilia, ha cattedra da tempo. Tre anni dopo la famiglia si trasferisce a Roma, dove Filadelfo ha studiato, e dove Italo si laureerà in architettura alla Sapienza nel 1953. Ben presto è in contatto con gli ambienti di Italia Nostra e dell’INU, all’epoca presieduto da Giovanni Astengo, si lega soprattutto ad Antonio Cederna, di otto anni più anziano, che dalle pagine del “Mondo” polemizza a tutto campo contro una speculazione selvaggia. Sodalizio durato una vita con al centro il tema, enorme e affascinante, del rapporto fra passato, presente e futuro.

Nel ’62 esce “Roma moderna” che, ampliato e aggiornato, avrà 14 ristampe e costituisce lo straordinario breviario laico per chiunque voglia occuparsi della più complessa delle capitali, fra Cesari, Papi e Terza Roma, in mezzo a ondate speculative che le forze democratiche hanno cercato di controllare con la pianificazione e col trasporto pubblico su ferro. Non però con l’energia severa che Italo aveva nel proprio Dna, morale e culturale.

Con Cederna collabora attivamente al progetto – fatto proprio da Luigi Petroselli – di un grande parco urbano dai Fori ai Castelli. Inoltre sovrintende al recupero di San Paolo alla Regola e, più tardi, all’interramento del raccordo anulare che trancia l’Appia Antica. Egli lavora in numerose città e regioni, come architetto e come pianificatore. Con una visione internazionale che gli viene dai molti anni di insegnamento a Ginevra e dalle consulenze, l’ultima – per il Consiglio d’Europa – finalizzata al recupero del centro storico di Antigua (Guatemala). Con Leonardo Benevolo e Pier Luigi Cervellati si occupa a lungo del centro storico di Palermo. L’esito finale non li soddisfa e però, sul piano teorico/pratico, essi dettano linee e metodi di intervento tuttora fondamentali.

L’ho avuto per sette anni collaboratore al “Messaggero” e ne ho apprezzato la capacità di lucido divulgatore. Come quando raccontava la stridente contraddizione di un’Italia che non progredisce nel trasporto su rotaia e invece esporta il know-how per tramvie e metrò. E dalla bocca gli uscivano lente e sarcastiche le battute per le quali andava noto. Se Roma è in parte tornata al tram, lo si deve in buona misura alla sua sagacia e al lavoro che, soprattutto con la Giunta Rutelli-Tocci poté mettere in cantiere, partendo da una straordinaria conoscenza storica di Roma che ai tempi del sindaco Nathan vantava primati in fatto di tramvie, purtroppo divelte da Mussolini (le giudicava “poco confacenti col carattere imperiale di Roma”) e anche dalle giunte post-belliche.

E’ stato in prima fila in tutte le buone battaglie per l’urbanistica, per la difesa del paesaggio, dall’Agro Romano, che conosceva come pochi, al nuovo Auditorium di Roma sul quale ci ha lasciato un libro esemplare. Battaglia che Cederna, lui, Vezio De Lucia, Giovanni Pieraccini ed altri condussero da posizioni culturali di minoranza. Per risultare poi vincenti.

Non ebbe, o forse non volle avere, a differenza di altri esponenti della cultura urbanistica e ambientale, una “chance” parlamentare (lo stesso Cederna fu candidato ed eletto una sola volta alla Camera). Troppo severo, autonomo, libero di mente, come Antonio del resto, scomparso anch’egli un 27 agosto di sedici anni fa. Ma è dal loro lavoro che si deve di nuovo passare, oggi e domani, se si vuole riprendere il filo rosso di una pianificazione democratica e incisiva che riporti in onore un valore da parecchi anni oscurato o dimenticato: l’interesse generale. Te ne siamo riconoscenti, Italo, la tua lezione resta con noi.

Addio a Insolera urbanista militante

Francesco Erbanila Repubblica

Italo Insolera è morto ieri. Architetto, urbanista, storico, aveva ottantatré anni e appena un anno fa aveva dato alle stampe una nuova edizione del suo libro più importante, Roma moderna.

Molti malesseri lo tormentavano dolorosamente. Ma era contento, il velo di malinconia degli ultimi tempi svaniva mentre sfogliava quel volume che Einaudi aveva rilegato con una copertina grigia e tre foto aeree della città. Il libro l’aveva scritto nel 1962, più volte ristampato e infine aggiornato alle ultime vicende della capitale, con l’aggiunta di un capitolo iniziale sulla Roma napoleonica (in questa fatica era stato aiutato da Paolo Berdini). In chiusura aveva inserito un “glossario dell’urbanistica romana”. Quasi che il modo di crescere della città in due secoli avesse qualcosa di singolare e di esemplare al tempo stesso, fino a esprimersi in una lingua propria, poi diventata universale. Abusivismo, borgata, condono, palazzina, palazzinari, Società generale immobiliare...

Era nato a Torino nel 1929 e si era laureato a Roma nel 1953. Ha insegnato (a Venezia e a Ginevra). Ha realizzato piani territoriali (in Abruzzo, Sardegna, Puglia, Toscana, Emilia Romagna) e piani regolatori di città (a Livorno, a Lucca), si è occupato del centro storico di Palermo (con Leonardo Benevolo e Pierluigi Cervellati, sindaco Leoluca Orlando), di quartieri Ina-Casa (da Napoli a Siracusa) e di parchi (l’Appia Antica). Ha scritto tanti libri, in gran parte dedicati a Roma, agli sventramenti fascisti, all’Eur, all’Appia Antica, ai Fori imperiali. In un volume, scritto con Water Tocci e Domitilla Morandi, Avanti c’è posto (Donzelli), ha illustrato un piano di mobilità romana fondata sul ritorno del tram e in particolare su una linea che sarebbe dovuta correre sul Lungotevere ai bordi del centro storico, trasformato in un fantastico boulevard. Nessuna amministrazione comunale è stata però all’altezza delle sue idee.

Sui Fori imperiali è ritratto in una foto del 1981 (conservata nell’Archivio Cederna). Al collo ha una macchina fotografica e lo sguardo accigliato rivaleggia con quello, che si intravede, di Cederna. Eppure è passato appena qualche mese dalla distruzione, voluta dal sindaco Luigi Petroselli, di via della Consolazione, la strada che taglia i Fori sotto al Campidoglio. Il primo atto di un grande progetto che ha una valenza storico-culturale e urbanistica, l’eliminazione della via dei Fori imperiali e la riunificazione di tutta l’area archeologica. In quel progetto Insolera crede moltissimo (con Cederna, Benevolo, La Regina e altri). Ma non se ne farà nulla, nessuno dichiarerà decaduta l’idea, e silenziosamente anche questa, troppo alta per chi governava Roma, scomparirà dalla scena della città.

In esergo a Roma moderna aveva voluto una frase di Giulio Carlo Argan, sindaco di Roma fra il ‘76 e il ‘79: «La storia urbanistica di Roma è tutta e soltanto la storia della rendita fondiaria, dei suoi eccessi speculativi, delle sue convenienze e complicità colpevoli». Espressione lapidaria, che nel libro trovava una distesa articolazione, niente affatto costretta dentro un abito declamatorio e invece sostenuta da una documentazione impressionante. Storia urbanistica, ma tout court della città, dai decreti napoleonici che prefiguravano un parco archeologico fra Fori, Palatino e Colosseo, fino al “piano casa” e all’incubo proposto da Alemanno, e fortunatamente svanito, di trasformare l’Eur in una pista per la Formula 1. E fino al sogno che Roma possa diventare veramente moderna puntando sul suo essere multietnica.

«E l’urbanistica?», si domandava. L’urbanistica «è ormai figlia dell’architettura», rispondeva. «E l’architettura, ridotta a pura forma, assorbe tutto il dibattito culturale. Si bada al singolo progetto e non al disegno complessivo, al singolo manufatto e non alla città, all’individuo e non al collettivo». Occorre, aggiungeva, che l’urbanistica recuperi la linfa sociale smarrita, sovrastata com’è da un’attitudine analitica e descrittiva che oscura il resto, limitandosi a raccontare ciò che accade nelle città e fuori di esse e ritenendo inevitabili, irreversibili, al massimo mitigabili, la dispersione abitativa e il consumo del suolo. E invece lui insisteva su un’altra dimensione dell’urbanistica, a tratti militante, che attraverso la pianificazione può consentire alle persone un vero diritto alla città e una vita meno in affanno.

Non abbiamo dato il giusto ascolto alle idee di Italo

Walter TocciL’Unità

Scrivo questo ricordo di Insolera sulla sua scrivania. Ero venuto ad abbracciare Annina, l’amatissima compagna della sua vita, quando mi hanno telefonato da l’Unità. Qui ci sono le carte e i libri su cui stava lavorando, con difficoltà crescente a causa della malattia, ma con la curiosità mai sazia della sua pur sconfinata cultura, con il guizzo geniale e l’attenzione ai particolari, con lo scetticismo di tante delusioni ma con l’indomita fiducia nell’invenzione che talvolta sgorgava da un imprevedibile sorriso. In evidenza ci sono i materiali dell’ultimo libro che non è riuscito a concludere, un ripensamento del progetto di Quintino Sella per Roma, la grande idea di una capitale della cultura, come luogo dedicato al «cozzo delle idee», da realizzare tramite l’insediamento delle migliori università e centri di ricerca nelle stupende ville storiche che allora circondavano la città barocca, prima di essere distrutte dalla speculazione edilizia. Legare un primato moderno a quello antico era il solo modo per fare di Roma una vera capitale.

Quella intuizione era per Italo di straordinaria attualità e aveva mobilitato tutti i suoi amici per studiarne i dettagli. Quando si andava a trovarlo ognuno di noi doveva portare qualche nuovo contributo alla sua ricerca, ma era soprattutto un grande piacere ascoltarlo. Dopo averlo salutato, spesso, mi chiedevo le ragioni di quella passione. C’era forse un’inconsapevole identificazione con quel piemontese come lui che era rimasto ammaliato da Roma. Ancora di più, nell’insistenza su quella ricerca riaffiorava - stavolta quasi in forma di congedo - il suo vecchio assillo di comprendere come un progetto di città possa sposarsi con unaforte volontà politica.

Era lo stesso motivo che lo aveva portato a sostenere con sapienza ed entusiasmo il Progetto Fori di Luigi Petroselli, il sindaco che aveva saputo ascoltarlo. Ma ancora prima, c’era stata la speranza che le lotte popolari della periferia romana potessero costituire quell’energia riformatrice mancata alle perfide classi dirigenti della città nel secolo postunitario, come scrive nella prefazione all’edizione del 1971 di Roma Moderna: «se nei prossimi anni qualcuno dalle baracche, dalle borgate, dalla periferia riprenderà la lotta per un avvenire civile di questa città e troverà in essa ancora qualcosa da amare, qualcosa da vivere, sarà merito della loro tenace opposizione alla sistematica distruzione di Roma».

Sembrava allora possibile coniugare l’illuminismo del progetto con la concretezza della vita popolare. Una piccola conferma veniva anche dalla straordinaria diffusione di quel libro nei luoghi più diversi: nel seminario universitario, nell’ufficio di progettazione, nella redazione di un giornale, nella sede di un comitato di quartiere o di una sezione di partito. Poi nelle edizioni successive scomparve quell’inno alle lotte popolari e la speranza venne poggiata sull’impegno civile di Antonio Cederna. Se ne sono andati nello stesso giorno, il 27 agosto. E insieme spesso sono rimasti inascoltati.

Quando di questo saremo pienamente consapevoli ci mancheranno, non solo per i loro studi, per la passione civile, per l’esempio morale, ma per quella ricerca ancora da portare avanti di un legame tra il progetto di città e la vita quotidiana dei cittadini. La mia generazione ha avuto il privilegio di studiare sui suoi libri. Abbiamo imparato tante cose, ma non siamo riusciti a metterle in pratica compiutamente. Alle nuove generazioni non mancherà l’occasione di rileggerli con spirito nuovo, per fare meglio di noi. L’opera di Insolera merita di esser compresa in avvenire. Perfino Annina, dopo averlo amato per una vita, mi dice nel suo sobrio dolore che vorrebbe ancora chiedergli tante cose.

Anche Italo ci ha lasciato. Siamo sempre più soli a contrastare l’inesorabile avanzata del cemento e dell’asfalto sui paesaggi italiani, a difendere i nostri beni culturali dalla manomissione, a cercare di contrastare il mercimonio a cui si sono ridotti l’urbanistica e il governo del territorio.

Le sue idee, i suoi scritti, insieme con quelli di Antonio Cederna hanno indirizzato la vita di molti di noi. E’ stato così anche per me, sia per quel che riguarda l’attività professionale sia quella politica.

Di lui voglio ricordare due cose fra tante : l’appoggio forte e senza alcuna remora alla durissima ed estenuante battaglia che avevamo intrapreso per impedire la manomissione del San Domenico di Forlì, aiutandoci col suo sostegno e la sua autorevolezza a contrastare un progetto che avrebbe devastato una antica chiesa e i chiostri del convento, restituiti oggi alla città, finalmente restaurati ed adibiti a spazi culturali così come anch’egli suggeriva. Ricordo la fermezza con cui volle che il Piano Paesaggistico dell’Emilia Romagna a metà degli anno 80 venisse rappresentato interamente con tavole colorate, di immediata lettura e inequivocabile comprensione, anche e soprattutto per i cittadini che avrebbero così potuto meglio comprendere il sistema di tutele a cui veniva sottoposto il paesaggio della nostra regione di cui le carte ne rappresentavano anche gli elementi costitutivi.

Quando in Parlamento, talvolta anche in solitudine, cercavo di contrastare provvedimenti che avrebbero minacciato il nostro patrimonio storico artistico, i nostri beni archeologici, o quelli con cui si cercava di venderli o quando si varavano condoni edilizi, quando contestavo ciò che si voleva fare a Roma con sottopassi come a Castel Sant’Angelo o con piazze manomesse come quella di Montecitorio sapevo sempre che avrei ricevuto da Italo un sostegno sobrio e fermo che mi sarebbe stato di grande e insostituibile aiuto e conforto.

l’Unità

Chiarante, forza gentile del Pci

di Aldo Tortorella

Scrivere della scomparsa di un amico e compagno carissimo, con cui ho condiviso scelte e lotte politiche per un quarantennio, è cosa assai dolorosa e difficile. Incominciammo a lavorare insieme quando assunsi la responsabilità della sezione culturale ed egli si occupava della scuola. E la comune visione di quel che dovesse e potesse essere la sinistra ci ha portato, insieme, sino ad ieri. Ci separavano pochi anni, quello che bastava perché lui non potesse partecipare alla Resistenza e vivere quella esperienza che portò parecchi di noi, allora studenti, alla adesione al Pci. Chiarante seguì una strada completamente diversa, che diverrà esemplare di coraggio politico e di forza morale. Partecipe del mondo cattolico, iniziò il suo percorso nel movimento giovanile della Democrazia cristiana, di cui divenne rapidamente uno dei massimi dirigenti, schierato con la sinistra di Giuseppe Dossetti, uno dei principali estensori della Costituzione repubblicana. Protagonista nel 1953 della fondazione della corrente di Base, che raccolse l’eredità di Dossetti fattosi sacerdote, venne eletto, poco più che ventenne, nel consiglio nazionale della Dc al congresso del 54 che vide l’affermazione di Amintore Fanfani.

Erano, quelli, gli anni più aspri della guerra fredda. La contrapposizione tra i blocchi, e il monopolio statunitense dell’arma atomica, faceva temere la possibilità di una nuova catastrofica guerra. Chiarante, con altri esponenti di parte cattolica e molti intellettuali indipendenti di ogni parte d’Europa, decise di partecipare come osservatore al congresso costitutivo del movimento internazionale dei «partigiani della pace», subito bollato come filosovietico. Ne nacque una dura polemica con Fanfani, culminata con il rifiuto dell’autocritica e con l’espulsione. Da allora si fece più stretto l’incontro di Chiarante e del gruppo che faceva capo a lui e a Lucio Magri con le posizioni dei comunisti cattolici di Franco Rodano, con cui fondò la combattiva rivista Il dibattito politico. Quell’incontro sfociò, poi, nella adesione al Pci. Chiarante, come giornalista, era, intanto, divenuto vice direttore di Paese sera, quotidiano progressista indipendente di ampia diffusione.

Nella discussione interna al partito, egli portò le posizioni di chi, pur condividendo pienamente la scelta democratica e gradualista di Togliatti, sottolineava la necessità di marcare le esigenze riformatrici e trasformatrici, particolarmente dopo il superamento dell’arretratezza e l’avvenuta trasformazione dell’Italia in un Paese industriale avanzato. La discussione divenne più acuta dopo la scomparsa di Togliatti con cui Chiarante si era già misurato sulle colonne di Nuovi Argomenti quando si incominciò ad intravedere che venivano maturando tempi nuovi e temi fino a quel momento sconosciuti. Si era alla vigilia del 68, e dei mutamenti ma anche delle involuzioni di quel moto che fu, in Italia, giovanile e operaio. Chiarante fu allora con i compagni che sentivano il fascino delle posizioni di Ingrao, ma non parteciparono poi alla esperienza del Manifesto, pur rifiutandone la radiazione avvenuta sulla base di uno statuto che cambierà troppo tardi.

La differenza di opinioni non impediva però, allora, la assunzione di responsabilità rilevantissime. Chiarante fu responsabile della politica per la scuola, e poi delle politiche per la cultura, e direttore di Rinascita, la rivista settimanale edita dal partito: ovunque portando il peso della sua personalità pacata e ferma, come la sua scrittura. Il primato della scuola, della ricerca, della cultura per un Paese che voglia dirsi moderno e avanzato ebbero in Chiarante un interprete rigoroso e creativo. E la legislazione italiana per la difesa del nostro patrimonio culturale gli deve molto. Ma proprio perciò egli, come accadde a me e ad altri, temette, nel momento in cui fu proposto il mutamento del Pci in altro da sé, la dispersione di una comunità e di un grande patrimonio che non era solo di memorie e di sentimenti pur cari, ma di elaborazioni concrete e precise, perfettibili certamente, ma non così povere da dover rincominciare da zero. Non comprendevamo l’ansia di tagliare le proprie radici che non erano le medesime di quelle che avevano prodotto frutti avvelenati, anche se capivamo il bisogno di rinnovamento di una nuova generazione. Perciò non volemmo la scissione. E Chiarante assunse, anzi, quale esponente della minoranza congressuale, la responsabilità del gruppo senatoriale e della commissione di garanzia del nuovo partito reggendole entrambe con grande capacità e lealtà.

Parve a lui, e a me, che la nostra storia di partito dovesse concludersi con il bombardamento di Belgrado. Eravamo nel ‘98. Non ci convinceva la lacerazione tra le due sinistre, tema che oggi si ripropone, e perciò, assieme ad altri, partecipammo alla costruzione di una associazione per il rinnovamento e per l’unità della sinistra, di cui Chiarante è stato animatore determinante. Egli ha riassunto la sua storia, che è gran parte della storia del dibattito nel gruppo dirigente del Pci tra il ‘60 e il ‘90 in due densi volumi. Chi li legge può vedere non solo quante realtà egli avesse visto in anticipo. Ma quanta fermezza e coerenza vi sia stata nella sua volontà di una sinistra veramente nuova e aperta al futuro. Ciò che non si può leggere è che persona squisita fosse, quanta forza trasmetteva la sua serena coscienza, mai esibita. Anche per questo rimarrà non solo nei suoi scritti ma nell’animo di chiunque l’abbia conosciuto.

il manifesto

Addio a Giuseppe Chiarante Tutta la saggezza e le speranze degli anni '60

di Rossana Rossanda

Quel che è più triste dell'invecchiare è il perdere gli amici d'una vita. Quelli un poco più anziani di me se ne sono in gran parte andati, e anche diversi più giovani. Fra essi era Giuseppe Chiarante, Beppe, dal bel viso sereno e la voce tranquilla; lo conoscevo da non so quanto, più di mezzo secolo e abbiamo a lungo lavorato insieme, oltre che spartire le corse fuori porta, quando eravamo giovani e vispi settentrionali nella dorata Roma. Era l'amico e sodale di Lucio Magri, i due poco più che ragazzi della sinistra cattolica di Bergamo, negli anni '50 la città più inquieta della enorme Democrazia cristiana. Erano una fronda, facevano insieme il ribelle e il conformista, avevano finito con l'iscriversi al Pci, assieme ai grandi, i deputati Mario Melloni, Fortebraccio, e Ugo Bartesaghi. Non erano soli, altri ne condividevano molte idee senza però fare il salto. E non potevano essere più diversi nel carattere: quanto Lucio era prometeico, asseverativo, ostinato, tanto Beppe era prudente, pur nell'autonomia delle scelte, dialogante, aperto anche al dubbio. Lucio aveva le qualità del capo, Beppe quelle del saggio. Negli anni '60, quando fui chiamata a Roma per dirigere la sezione culturale in via Botteghe Oscure, Beppe ne fu incaricato come me e con me rimase finché fui allontanata, prezioso nel lavoro e nei rapporti, coltissimo, leale. Dei '60 condividemmo le speranze, cui il partito credeva di meno. Non so quanto contasse in lui l'essere cattolico, il suo riserbo non mi permetteva domande, ma la questione fra comunisti e cattolici gli stava molto a cuore, alimentata da quel Concilio Vaticano II che sembrò aprire tutte le strade e che i pontefici successivi a Giovanni XXIII chiusero, lentamente, forse senza una precisa intenzione Montini, con una accelerazione Karol Woytjla e non senza brutalità Ratzinger. L'incontro fra le due culture non doveva essere quello fra Dc e Pci, ma proprio fra una ispirazione di fondo che parve privilegiare i valori invece che i consumi, i "fondamentali" invece che le manovre. Ma anche una comune avversione a quello che il Pci chiamava, con la scusa di Gramsci, economicismo, in chiunque si occupava di più del capitale - la famosa struttura - che delle vicende politiche, l'altrettanto famosa sovrastruttura.

Su questo d'altronde Enrico Berlinguer avrebbe tentato negli anni '70 quel compromesso storico che non funzionò. Nei '70 il Pci era già meno comunista e la Dc meno cristiana di quanto fossero venti anni prima. Alla commissione culturale facemmo due convegni nei quali l'apporto di Chiarante fu decisivo: uno sulla famiglia, che contribuì alla fama di eterodossia che presto ci avvolse - eravamo antifamilisti e anticlericali - per cui Nilde Jotti e Emilio Sereni ci criticarono assai, e uno sulla scuola, sulla scia di quel Convegno sulle tendenze del capitalismo italiano che era stato organizzato dall'Istituto Gramsci nel 1962 e segna una prima linea, se non di rottura, di divisione nell'analisi che il partito faceva sulla situazione. Pur pensando in gran parte come noi, Chiarante non ci seguì nella vicenda del manifesto: e non per mancanza di coraggio ma per la persuasione che non sarebbe bastata una forza minoritaria a produrre in Italia un cambiamento. La sua posizione fu dunque non poco scomoda, perché restò nel Pci ma votando, assieme a pochi altri, contro la nostra radiazione. E del Pci seguì le sorti agitate, alleandosi con la mozione del "no" sulla svolta, negli anni turbolenti che seguirono l'89. Sperò anche lui in una presa di posizione fondamentale che si sarebbe dovuta prendere alla riunione di Arco e non fu presa. Da allora il Pci venne via via perdendo molti compagni, non occhettiani né dalemiani, ma neppure in consonanza con Rifondazione. Con Aldo Tortorella salvò dall'estinzione Critica marxista, che ha diretto assieme a lui assieme alla Associazione per il rinnovamento della sinistra, che opera tuttora cercando di riunificarne gli spezzoni non su proposte politiche estemporanee a breve, ma su un filone culturale ed etico, per la cui mancanza il Pci e poi il Pds avrebbero cessato di esistere. La confusione che seguiva nell'ex Pci ad ogni cambiamento di nome, impedì al partito di compiere ogni sforzo per trattenere loro, ma prima Ingrao, poi Bertinotti, e poi altri ancora, senza rendersi conto che stava perdendo l'essenziale del suo patrimonio politico ed umano.

Quando decidemmo come manifesto di riprendere una nuova serie del mensile sul quale eravamo nati, Chiarante lavorò con noi. E parallelamente scriveva, oltre che su Critica marxista, i tre volumi di storia del Pci ( La fine del Pci. Dall'alternativa democratica di Berlinguer all'ultimo Congresso 1979-1991, del 2009, Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico 1958-1975 del 2007 e Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta del 2006), tutti pubblicati dall'editore Carocci, che sono una miniera di dati. Nel confronto con Il sarto di Ulm di Lucio Magri si vede la differenza dei caratteri: Magri è sempre sui limiti di quel che il Pci avrebbe potuto fare, Chiarante si attiene a una documentazione e testimonianza niente affatto asettica, appena un po' meno spietata. Oltre a questo, Beppe sperò a lungo come senatore che fosse perseguibile una difesa coerente del patrimonio culturale del paese, preceduto dalla compagna della sua esistenza, Sara Staccioli. Li vedevo assieme anche alle grandi esposizioni di Parigi, finché le condizioni di salute gli permisero di vedere: la perdita della vista fu, fra i mali che lo hanno assalito da anni, quello che lo tormentava di più. L'ho visto per l'ultima volta alcuni mesi fa, con l'indomita Sara che lo portava a un concerto all'Auditorium; era come sempre affettuoso ma stanco, molto.

Addio, caro Beppe, compagno ed amico. Il mio universo non è più lo stesso, ne guardo l'orizzonte e troppe sono le assenze.

il manifesto

Addio a Giuseppe Chiarante Passione, cultura, intelligenza. Ci mancherà molto

di Luciana Castellina

Ieri notte Beppe Chiarante ci ha lasciati. Era il giorno del suo ottantatreesimo compleanno, nove giorni più vecchio di me e infatti celebravamo spesso assieme l'anniversario: da circa sessant'anni, ché tanti sono quelli della nostra strettissima amicizia. Beppe aveva avuto fino alla nostra rottura del manifesto lo stesso percorso di Lucio Magri, di cui si può dire che sia stato fratello.

Nati e cresciuti nella stessa città, Bergamo, ambedue entrati nei Gruppi giovanili Dc, perché in quella provincia bianchissima (a meno di non vivere nella fabbrica ed essere uno straordinario, precoce e però isolatissimo operaio come il nostro Eliseo Milani) la politica lasciava solo la scelta fra le correnti di quel partito. Quella di Beppe e Lucio fu la scelta della sinistra dossettiana, la cosa più a sinistra che lì si potesse incontrare. Ma i Gruppi giovanili andarono parecchio oltre nella loro critica anticapitalista, tanto che Fanfani, alla vigilia del congresso di Napoli del '54, sciolse l'esecutivo dell'organizzazione e poi cacciò Beppe dal Consiglio nazionale del partito cui, molto precocemente, era stato nel frattempo promosso.

Ma una parte consistente di loro non abdicò e dette vita ad una serie di pubblicazioni di cui Beppe fu, con Lucio, uno dei principali animatori: Il ribelle e il conformista, diretto da un altro bergamasco (e in seguito colonna de il manifesto), Carlo Leidi, e Prospettive, in cui ritroviamo le firme dei tanti che poi approdarono alle fila comuniste: Baduel, Guerzoni, Asperti...

Ricordo questa vicenda non solo perché è fondante dell'itinerario politico di Chiarante, ma perché è un pezzo di storia italiana di cui poco si è scritto e che è stata invece di grande interesse. Lo stesso travaglio dei Gruppi giovanili della Dc fu infatti vissuto negli stessi anni dalla ben più corposa Giac, la Gioventù di Azione cattolica, i cui due presidenti, difronte al viscerale anticomunismo di Gedda e alla realtà democristiana, preferirono la via di un esule sacerdozio.

La Fgci - ma anche il Pci - capì poco e tardò ad offrire una sponda.

Da ponte, loro ormai fuori dalla Dc, funzionò il Dibattito politico di Franco Rodano, una rivista di cui Beppe fu per un periodo anche vicedirettore. Era nata per raccogliere i cattolici di sinistra e diventò invece - di fatto - una voce nuova e più di sinistra rispetto alla linea ufficiale del Pci. Poi ci fu l'ingresso nel partito, di cui Beppe sperimentò tutti i livelli: vicedirettore de Il Paese, dove lavorammo assieme all'inizio degli anni '60, poi con Rossana alla cultura, quindi con Tortorella, direttore di Critica marxista, di Rinascita, nella direzione e alla fine nella segreteria del Pci, nella seconda fase berlingueriana.

Non c'è stato mai, io credo, un vero dissidio politico fra noi che abbiamo scelto di dar vita al manifesto e Beppe, ma forse una differenza di carattere che ci ha portato a compiere scelte difformi: lui era prudente e paziente, noi no.

Giudicò allora il nostro un errore tattico. Ma non perché Beppe fosse un moderato: i suoi tantissimi scritti testimoniano la radicalità del suo pensiero. Quando nacque il Pds in quel nuovo partito resse poco: ne uscì con Aldo Tortorella in occasione della guerra alla Jugoslavia e con lui dette vita all'Ars, l'Associazione per il rinnovamento della Sinistra.

Ci ha lasciato la più lucida e completa analisi del dopoguerra in Tra De Gasperi e Togliatti; Da Togliatti a D'Alema; Con Togliatti e Berlinguer; Italia '95, la democrazia difficile; La fine del Pci.

Ai tanti di noi che l'hanno avuto per amico e compagno mancherà moltissimo la sua straordinaria intelligenza, il suo equilibrio, la sua cultura. Anche la sua passione, celata dietro il suo carattere schivo. Io non so più a chi potrò andare a chiedere consiglio. Sua moglie Sara è stata bravissima: sembrava fragile, è stata fortissima nell'aiutarlo a vivere in questi anni in cui la malattia l'ha attaccato. Le siamo vicini, come manifesto, il giornale cui aveva finito per collaborare spesso.

Il 12 giugno è morta Elinor Ostrom, insignita nel 2009 del premio Nobel per l'Economia. La ricordiamo pubblicando un estratto dell'introduzione al volume "La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica", a cura di E. Ostrom e di C. Hess, pubblicato da Bruno Mondadori nel 2009.

Con la parola “conoscenza” (knowledge() si intendono in questo libro tutte le idee, le informazioni e i dati comprensibili, in qualsiasi forma essi vengano espressi o ottenuti. Il nostro approccio è in linea con quello di Davenport e Prusak (1998, p. 6), i quali scrivono che «la conoscenza deriva dalle informazioni come le informazioni derivano dai dati». Machlup (1983, p. 641) ha introdotto questa distinzione fra dati, informazioni e conoscenza, in cui i primi sono frammenti di informazione allo stato grezzo, le informazioni sono costituite dall’organizzazione contestualizzata dei dati, e la conoscenza è l’assimilazione delle informazioni e la comprensione del modo in cui esse vanno utilizzate. In questo libro impieghiamo il termine “conoscenza” per riferirci a tutte le forme di sapere conseguito attraverso l’esperienza o lo studio, sia esso espresso in forma di cultura locale, scientifica, erudita o in qualsiasi altra. Il concetto include anche le opere creative come per esempio la musica, le arti visive e il teatro. Alcuni ritengono che la conoscenza sia “dialettica”,
nel senso che possiede una doppia “faccia”: in quanto merce e in quanto elemento fondante della società (Reichman e Franklin 1999; Braman 1989). Questa doppia funzionalità – come esigenza umana e come bene economico – è indizio immediato della natura complessa di questa risorsa. Acquisire e scoprire conoscenza è al contempo un processo sociale e un processo profondamente personale (Polanyi 1958).

Ancora: la conoscenza è cumulativa. Nel caso delle idee l’effetto cumulativo genera vantaggi per tutti nella misura in cui l’accesso a tale patrimonio sia aperto a tutti, ma sia quello dell’accesso sia quello della conservazione erano problemi seri già molto prima dell’avvento delle tecnologie digitali. Una quantità infinita di conoscenza attende di essere disvelata. La scoperta delle conoscenze future è un tesoro collettivo di cui dobbiamo rispondere di fronte alle generazioni che ci seguiranno. Ecco perché la sfida di quella attuale è tenere aperti i sentieri della scoperta.

Assicurare l’accesso alla conoscenza diventa più facile se se ne analizza la natura e si mette bene a fuoco la sua peculiarità di bene comune. Questo approccio è in contrasto con la corrente letteratura economica, nella quale la conoscenza è stata spesso indicata come tipico esempio di bene pubblico “puro”: un bene disponibile per tutti e il cui uso da parte di una persona non limita le possibilità d’uso da parte degli altri. Nella trattazione classica dei beni pubblici, Paul A. Samuelson (1954, pp. 387- 389) ha classificato tutti i beni che possono essere utilizzati dagli esseri umani come puramente privati o puramente pubblici. Samuelson e altri, tra cui Musgrave (1959), hanno posto tutta l’enfasi sull’
esclusione: i beni dal cui uso gli individui potevano essere esclusi andavano considerati privati. Nell’affrontare questi problemi, gli economisti si concentrarono dapprima sull’impossibilità dell’esclusione, per poi orientarsi verso una classificazione basata sull’alto costo
dell’esclusione. Da quel momento i beni sono stati trat-tati come se esistesse una sola dimensione. Solo quando gli studiosi hanno sviluppato una duplice classificazione dei beni (V. Ostrom ed E. Ostrom 1977), è stato pienamente riconosciuta l’esistenza di un loro secondo attributo. Il nuovo approccio ha introdotto infatti il concetto di
sottraibilità (a volte definita anche
rivalità) – per cui l’uso del bene da parte di una persona sottrae qualcosa dalla disponibilità
dello stesso per gli altri – come fattore determinante di pari importanza per la natura di un bene. Ciò ha condotto a una classificazione bidimensionale dei beni. La conoscenza, nella sua forma intangibile, è rientrata allora nella categoria di bene pubblico, dal momento che, una volta compiuta una scoperta, è difficile impedire ad altre persone di venirne a conoscenza. L’utilizzo della conoscenza (come per esempio la teoria della relatività di Einstein) da parte di una persona non sottrae nulla alla capacità di fruizione da parte di un’altra persona. Questo esempio, naturalmente, si riferisce alle idee, ai pensieri e al sapere derivanti dalla lettura di un libro: non al libro in quanto oggetto, che sarebbe classificato come bene privato.

In questo volume impieghiamo le espressioni
beni comuni della conoscenza e
beni comuni dell’informazione in maniera intercambiabile. Alcuni capitoli si concentrano in particolare sulla comunicazione scientifica e accademica, ma le questioni discusse hanno un’importanza cruciale che si estende ben al di là della “torre d’avorio”. Ciascun
capitolo si dedica a un particolare aspetto della conoscenza in forma
digitale, principalmente perché le tecnologie che consentono una distribuzione globale e interattiva dell’informazione hanno trasformato

radicalmente la struttura della conoscenza come risorsa. Uno dei fattori critici relativi alla conoscenza digitale è la continua e radicale trasformazione (“ipercambiamento” o (hyperchange) ( delle tecnologie
e delle reti sociali che coinvolge ogni aspetto della gestione e del governo delle conoscenze, compresi i modi in cui esse sono generate, immagazzinate e conservate.

I sempre più numerosi studi sui vari approcci ai beni comuni della conoscenza mostrano la complessità e la natura interdisciplinare di queste risorse. Alcuni beni comuni della conoscenza risiedono al livello locale, altri al livello globale o in una posizione intermedia e tutti sono suscettibili di una molteplicità di utilizzi diversi e sono oggetto di interessi in competizione. Le aziende hanno premuto per misure più rigide a tutela di brevetti e copyright, mentre molti ricercatori, studiosi e professionisti si impegnano per assicurare il libero accesso alle informazioni. Le università si trovano su entrambi i fronti del dibattito sui beni comuni: da una parte, sono detentrici di un crescente numero di brevetti e fanno sempre più affidamento sulle sovvenzioni alla ricerca da parte delle aziende; dall’altra, incoraggiano il libero accesso alla conoscenza e la creazione di archivi digitali per i risultati delle ricerche svolte nei loro dipartimenti.

Gran parte dei problemi e dilemmi che affrontiamo in questo libro sono sorti in seguito all’invenzione delle nuove tecnologie digitali. L’introduzione di nuove tecnologie può rivelarsi decisiva per la robustezza o la vulnerabilità di un bene comune. Le nuove tecnologie possono consentire l’appropriazione di quelli che prima erano beni pubblici gratuiti e liberi: così è avvenuto, per esempio, nel caso di numerosi “beni comuni globali” come i fondali marini, l’atmosfera, lo spettro elettromagnetico e lo spazio. Questa capacità di appropriarsi di ciò che prima non consentiva appropriazione determina una meta-morfosi sostanziale nella natura stessa della risorsa: da bene pubblico non sottraibile e non esclusivo, essa è convertita in una risorsa comune che deve essere gestita, monitorata e protetta, per garantirne la sostenibilità e la preservazione.

Titolo originale: A Passion For Urban Planning, And For Food – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

La vita di Terry Tondro ha toccato cose diversissime. Professore di diritto lontanissimo dall’accademico nella sua torre d’avorio, adorava la buona tavola e il buon vino, preferendo cucinare da solo. E adorava le città: profondamente urbanista, ma che sapeva apprezzare l’oceano e l’aria frizzante del Maine rurale. Conoscitore della musica operistica, ascoltava anche con passione Ella Fitgerald. Ha lavorato per tutelare edifici storici, ma anche contribuito a realizzare case per e meno abbienti e la popolazione di colore. Uomo d’azione, Tondro, ma che faceva ogni cosa con stile e buon gusto. Affermato e riconosciuto esperto nel campo dell’urbanistica e del territorio, rimase sempre una persone umile.

"Era un egualitario nel profondo" ricorda il figlio Trevor. "Detestava apparire in qualche modo snob, pretenzioso, superiore rispetto agli altri. Era più un tipo dalle maniche rimboccate che uno con la camicia inamidata". Tondro è morto a Hartford, dove abitava, per un infarto in 26 aprile, due settimane prima del 74° compleanno. Era nato il 7 maggio 1938, cresciuto sulla sponda dell’oceano a Santa Monica, California, vicino a Los Angeles. Maggiore dei cinque figli di Lloyd e Italia Tondro (famiglia francese, il cognome originario si scrive Tondreau). Padre imbianchino, gran sostenitore di Franklin Delano Roosevelt e dell’idea di pari opportunità per tutti. Tondro inizia a lavorare in un caffè, poi in un elegante ristorante sul Wilshire Boulevard a Los Angeles durante le medie superiori. Il tutore scolastico gli consiglia ("un tipo senza troppa immaginazione" giudica oggi la moglie di Tondro) di iscriversi alla Scuola Superiore Alberghiera della Cornell University per diventare uno chef. Contemporaneamente Tondro ottiene anche una borsa per la Stanford University.

Desideroso di viaggiare sceglie la Cornell, ma dopo due anni a studiare “ospitalità” e raffinate tecniche di cucina, vuole passare ad un percorso di studi diverso. L’iscrizione al Reserve Officer Training Corps gli garantisce la copertura finanziaria. Dopo aver ottenuto il diploma nel 1961, Tondro entra nell’Esercito, e davanti alla scelta fra i carristi (servizio in Germania) e i paracadutisti (servizio nel territorio dello stato), opta ancora per la destinazione più lontana. Sfrutta le vacanze per viaggiare in Europa. L’idea originaria era di proseguire gli studi in Storia Americana, ma dopo il servizio militare ha imparato il valore dell’esperienza pratica, di “fare delle cose”. E così si iscrive a Legge. Per ingannare l’attesa dei corsi che cominciano solo nell’autunno 1964, Tondro torna in California dove lavora come istruttore di guida. Una delle allieve è Helle Stueland, giovane norvegese appena laureata all’Università di Berkeley. Si vedono regolarmente dietro il volante di una VolksWagen. Quando Helle si trasferisce a est l’inverno seguente sono ufficialmente fidanzati, si sposeranno nel giugno 1965.

Tondro ha ottimi voti alla Scuola di Diritto della New York University, e dopo aver ottenuto il titolo lavora per un anno all’Office of Economic Opportunity nel quadro del programma di Guerra alla Povertà del Presidente Lyndon B. Johnson: un’esperienza molto formativa. Per un breve periodo collabora anche con la fabbrica di calzature Paul Weiss di New York, salvo scoprire che detesta il diritto privato. Si iscrive allora alla Yale University per studiare urbanistica sino a ottenere una specializzazione in American Studies. Nel 1973 inizia a insegnare diritto all’Università del Connecticut, proprio nel momento in cui la città di Hartford sperimenta un percorso urbanistico chiamato Hartford Process. Progetto fallito, ma Tondro ha trovato la sua collocazione.

È coautore di una memoria presentata alla Cortre Suprema del Connecticut su un caso di variante all’ordinanza di zoning per East Hampton che impone una superficie minima degli alloggi di cento metri quadrati, considerata discriminante per i poveri (la corte stabilirà che si tratta di un provvedimento irrazionale e senza giustificazioni imposto dall’amministrazione, e lo boccia). Svolge approfondite ricerche su vari casi di destinazioni d’uso e zoning traendone un testo che diventerà per decenni una specie di bibbia per costruttori, urbanisti, amministratori e magistrati. "È stato in pratica un manuale per come prendere le decisioni in quell’area" commenta Dwight Merriam, esperto di diritto urbanistico di Hartford, che ne ha una copia tenuta insieme da strisce di nastro adesivo. Oltre a studiare casi, Tondro aveva inserito anche commenti propri di carattere più generale, sulle sentenze per le l’ambiente, le lottizzazioni, lo sviluppo urbano. Alle assemblee si portavano tutti il libro di Tondro, Connecticut Land Use Regulation: A Legal Guide for Lawyers, Commissioners, Consultants and Other Users of the Land tenendolo aperto sulle ginocchia.

“Facevamo a gara fra chi citava meglio quei passaggi scritti da Terry e che consideravamo più importanti per il nostro punto di vista" ha ricordato il magistrato Mark Dubois nella serata dedicata a Tondro. "Era diritto urbanistico reso accessibile a tantissimi" ricorda Tim Hollister, relatore di maggioranza per il caso East Hampton. "Aveva opinioni molto nette e non mancava mai di schierarsi chiaramente. Testimoniava anche cosa volesse dire esprimere un punto di vista disinteressato sulle scelte". Fu nominato dal Governatore William O'Neill presidente della Blue Ribbon Commission on Housing, e scrisse gran parte dei provvedimenti che oggi consentono di introdurre quote di case economiche in trasformazioni di abitazioni più costose, rendendo molto difficile per le amministrazioni escludere dal proprio territorio le case popolari. Secondo Tondro il sostegno alla casa per tutti non doveva arrivare solo dai comitati per i diritti, ma anche da chi come l’amministrazione vuole un alloggio per i ceti medi. A differenza di tanti professori che vivono in un mondo fatto di aule e biblioteche, Tondro apprezzava la militanza, vedere le proprie idee trasformarsi in realtà."Era uno di quei tipi di accademici, sempre più rari, davvero disponibili a partecipare e schierarsi sulle questioni urbane. Teneva un piede in entrambe le scarpe: gli studi, e la partecipazione urbanistica" ricorda Merriam.

Nella scuola legale, Tondro insegnava vari aspetti del diritto."Era abbastanza concentrato sugli aspetti economici delle trasformazioni, come la finanza influisca sulle capacità dei costruttori, sul rischio che una separazione per zone induca una divisione di classe” ricorda Michael Ziska, ex studente che ricorda Tondro come maestro. “Terry cercava sempre di unire pianificazione urbanistica e la possibilità di case per tutti. È grazie alle sue capacità che abbiamo fatto progressi". Da ragazzo Tondro aveva aiutato il padre nei lavori di manutenzione edilizia, e capiva essenzialmente il settore. Gli piacevano molto gli edifici storici, in particolare a Hartford quelli in stile vittoriano del XIX secolo. Nel 1973, quando sorse la protesta per la demolizione di un edificio storico sulla Prospect Avenue a Hartford, Tondro entrò nella Hartford Architecture Conservancy partecipando poi ad altre battaglie di tutela, con la Connecticut Trust for Historic Preservation, di cui fu presidente di sezione, e consigliere del Trust for Historic Preservation nazionale.

Fu approvata una legge sugli sgravi fiscali che rendeva più conveniente per le proprietà conservare gli edifici storici. “Terry vide la possibilità che in Connecticut si potesse fare tutela” ricorda Jared Edwards, architetto fra i fondatori della Hartford Conservacy. Tondro coinvolgeva ex studenti diventati deputati statali per sostenere il disegno di legge, che avrebbe protetto tanti edifici anche industriali. “Nel suo modo molto posato faceva notare quanto lo stato dovesse assumere un ruolo guida per gli investimenti privati nella tutela" ricorda Edwards. “Mise le basi per leggi che hanno ottenuto enormi risultati per decenni”. Svolse anche un ruolo essenziale per la destinazione a parco nazionale della tenuta agricola Wilton, del pittore impressionista ottocentesco J. Alden Weir. “Col suo talento arrivava a risultati che si ritenevano impossibili”.

Tra le grandi passioni di Tondro c’era anche la buona tavola. Dopo aver trascorso un mese in Italia con la famiglia nel 1978, era tornato portandosi ricette di cucina del tutto nuove: niente a che vedere con il solito sugo alla marinara, spaghetti e polpette. Le sue cene erano la leggenda di tutto il West End a Hartford. “L’invito era per le sette, si cominciava a mangiare alle nove, e ci si alzava all’una di notte” ricorda ancora Edwards. “Quando eravamo convinti di aver finite, ecco che spuntava un altro piatto ancora più elaborato. ... Quella sì che era vita. Certo con dieci chili in più”. Quando stava con la famiglia a New York andavano all’opera due volte la settimana, biglietti posti in piedi da uno a tre dollari. Lo facevano anche abitando in Connecticut. Dal 2000,dopo il pensionamento, passava ogni anno sei mesi con la moglie a Roma, studiando la lingua, sperimentando la la cucina, frequentando concerti e musei, soprattutto passeggiando per la città.

Tondro adorava le cravatte a papillon, che indossava con molto stile. Negli ultimi anni aveva avuto qualche piccolo attacco, ma anche quest’inverno era comunque andato qualche mese a Roma. Oltre alla moglie lascia due figli e tre nipoti. È sepoloto al Cimitero dei Veterani di Middletown. Molto adatto a lui, commenta la moglie: tutti con la medesima lapide, indipendentemente dal grado o dalla posizione sociale. Col rumore delle auto che ricorda a tutti quanto nonostante il prato verde si sia sempre in città. “Aveva un senso egualitario difficile da descrivere” ricorda Bill Breetz, vicino di casa ed ex collega di insegnamento. “Una cosa che ha attraversato tutta la sua opera: le case popolari, un’urbanistica inclusiva, la tutela per tutti della Weir Farm, e fare delle città posti migliori per viverci”.

Titolo originale: Jane Jacobs and the Power of Women Planners – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini



Fanno cinquant’anni a novembre, da quando l’uscita di La vita e la morte delle grandi città di Jane Jacobs cambiava in tutto il mondo il modo di considerarle. Eppure, nonostante da allora la si riconosca come un importantissimo contributo, c’è sempre invariabilmente quell’aggettivo di “casalinga”. Parlando di strategie per lo sviluppo urbano e socioeconomico, non c’è gran posto per le donne al tavolo delle decisioni. Certo lavorano nel settore, ma raramente in posizioni chiave dal punto di vista critico. Jane è stata un’eccezione. Ma la norma non è molto cambiata.

La Jacobs fece quella sua irruzione nel dibattito nazionale sulle città quasi per caso. Piuttosto riluttante a sostituire il suo direttore maschio dell’Architectural Forum al convegno del 1956. Aveva pubblicato alcuni articoli rivelatori sul metabolismo delle città, soprattutto su Vogue, a documentare il modo in cui a New York City crescevano armoniosamente i quartieri attorno a settori come pellicce o fiorai. Oggi quelle riflessioni sono considerate assolutamente innovative. Ma all’epoca si limitarono a metterla un po’ in luce.

E quella prima attenzione la Jacobs con gli articoli sia su Architectural Forum che su Fortune la trovò da parte di un prestigioso redattore maschio, William Holly Whyte. Lui era diventato famoso come autore del L’Uomo dell’Organizzazione, oltre che per sostenere idee simili alle sue. Ma anche lui fu costretto a superare i contrasti con un furioso e paonazzo editore di Fortune che gli chiedeva “Ma chi è quella pazza?”. Inaccettabile, quella casalinga senza una laurea. E anche la stessa caustica recensione di Lewis Mumford a La vita e la morte … era stata intitolata “Le ricette casalinghe di Mamma Jacobs”.

Riflettendo sul perché si consideravano in modo tanto diverso i contributi delle donne e degli uomini sul tema delle città, lei sottolineava quanto le donne tendessero a soffermarsi su cose prossime: la via, il quartiere, le relazioni. Coglievano così più facilmente quanta differenza si potesse fare, a partire da piccole cose. Gli uomini pensano in grande, nazionale, globale. Hanno un atteggiamento top-down. Un punto di vista proposto molto esplicitamente al pubblico quando il costruttore James Rouse e Jane Jacobs nel 1980 si presentarono insieme a Boston alla Conferenza sulle Grandi Città. L’argomento era se ci si dovesse orientare verso grandi prospettive e visioni ispirate, oppure procedere per più modeste trasformazioni progressive.

Parlò per primo Rouse, ricordando le parole di Daniel Burnham, “Non fate progetti modesti, sono senza magia, non rimescolano il sangue nelle vene degli uomini” citava. Venne il turno della Jacobs che esordì con, “Divertente, quei grossi progetti non rimescolano affatto il sangue delle donne. Loro hanno sempre preferito guardare ai progetti più piccoli”. Fu sommersa dagli applausi. Rouse sosteneva che coi grandi progetti si poteva consegnare al mondo città straordinarie. La Jacobs rispondeva che i grandi progetti portano a grandi errori, schiacciando creatività e possibilità alternative. Rouse affermava che con i grandi progetti si evita di sprecarsi in interventi sparsi e casuali. La Jacobs replicava che così ci si limita a standardizzare, a uniformare, a livellare.

Era il 1980. Molto tempo era passato da quando la Jacobs contribuiva sconfiggere Robert Moses su tre progetti che potevano cambiare radicalmente la città. E contribuiva anche ad accelerare il suo pensionamento. Era famosa in tutto il mondo per i suoi libri. Ma non pensò mai e poi mai che quanto sosteneva potesse avere lo stesso peso di qualcosa detto da uomini. Sono in tanti oggi ad affermare che i loro progetti si conformano ai precetti della Jacobs, mentre invece seguono l’idea della visione audace alla Robert Moses. Anche la Jacobs naturalmente sapeva pensare in grande, ma in modo diverso da Moses: non grossi progetti di demolizioni e superstrade, ma un complesso di infrastrutture e spazi sociali, dai trasporti alle biblioteche, o grandi reti urbane fatte di piccoli elementi, di interconnessioni fra quartieri.

Nell’introduzione all’edizione 1993 di La vita e la morte … per la Modern Library, Jane metteva in dubbio la diffusa convinzione che quel libro avesse tanto cambiato la cultura urbanistica. Cosa interessante, divideva il mondo in due, fra la gente che cammina e quella che va in macchina. A chi va a piedi, certo, quel libro forse aveva dato “legittimazione a quanto già sapevano, ma che gli esperti dell’epoca consideravano antiquato e contrario al progresso”. E proseguiva: Non è facile per chi non ha un ruolo formale opporsi a chi ce l’ha, anche quando i sedicenti esperti sono immersi fino al collo nell’ignoranza e nell’azzardo. Questo libro ha saputo dimostrarsi un’arma molto utile contro quel genere di esperti. Ma non è esatto chiamarlo qualcosa che ha avuto “influenza”, forse ha rafforzato, indotto a collaborare. Per contro, non ha mai voluto collaborare con quelli che ragionano in macchina, né li ha influenzati in alcun modo. Per quanto posso capire li lascia indifferenti anche oggi.

Il retropensiero, qui e in altri contributi della Jacobs, ricorda quello scambio di opinioni con Rouse, quel modo di verso di vedere le cose tra uomini e donne. Ne abbiamo discusso parecchio io e lei nel corso degli anni. Adorava ascoltare quanto le raccontavo delle mie ricerche in tutto il paese per i libri che stavo scrivendo, storie di riqualificazione urbana o di quartiere dove il catalizzatore erano sempre piccoli progetti, ancor più spesso sostenuti da donne. Oggi donne così ce ne sono un po’ dappertutto. A New York, Mindy Fullilove. Alexie Torres Flemming. Majora Carter. Kate Wood. Elizabeth Yampiere. Joan Byron. A New Orleans, Tanya Harris, Karen Gadbois, Carol Bebelle. Si tratta di attiviste, così come lo era la Jacobs. Un conto è stare nel mondo dei grandi principi, un altro partecipare attivamente alle trasformazioni di cui si avverte il bisogno. Qualunque osservatore attento delle città, nel XX o XXI secolo, non può negare che le donne siano sempre state all’avanguardia della loro salvezza e riqualificazione. Jane Jacobs era semplicemente una di loro.

Della sua bella e lunga vita mi piace ricordare un momento importante, che forse pochi conoscono, e che fa di Mario uno dei protagonisti dell’urbanistica moderna in Italia.

Mi riferisco al ruolo da lui svolto nella formazione di quelle misure – volute dal ministro Giacomo Mancini e dal direttore generale Michele Martuscelli, dopo la frana di Agrigento del luglio 1966 – che furono definite standard urbanistici, per migliorare le condizioni di vita nelle città, aumentare e qualificare le dotazioni di servizi e di spazi pubblici.

Mario Ghio dette il meglio di sé. Diventò di fatto il coordinatore del gruppo di lavoro, al quale collaboravano illustri urbanisti: Giovanni Astengo, Edoardo Detti, Luigi Piccinato, Fabrizio Giovenale, Marcello Vittorini, Vincenzo Di Gioia, Bubi Campos Venuti, Edoardo Salzano e altri. Il lavoro era molto seguito dalla stampa e da giornalisti, soprattutto da quelli, come Antonio Cederna e Vittorio Emiliani, più attenti alle sorti delle città e dei cittadini.

Chi vi parla era allora giovane funzionario del ministero incaricato di seguire il lavoro della commissione. Divenni subito il più diretto collaboratore di Mario. So che in circostanze come queste non è bello riferire in prima persona, mi permetto di farlo soprattutto per testimoniare una delle qualità di Mario: la sua straordinaria attitudine a lavorare con i giovani, a formare i giovani. Per me fu una prestigiosa scuola privata che ben pochi hanno potuto permettersi.

Alla base del nostro lavoro stava quel libro prezioso, scritto da Mario e da Vittoria, Verde per la città, che ha fatto conoscere in Italia la cultura degli spazi aperti e le migliori esperienze straniere. “Un libro che mi ha aperto la mente”: mi ha detto qui stamattina Giuliano Prasca.

Ho raccontato altre volte del “terrificante perfezionismo” di Mario, e della sua sconfinata capacità di lavoro. Finito l’orario d’ufficio continuavamo a casa Ghio. Elaborò tabelle e quadri sinottici complicatissimi. Poi drasticamente semplificati e sottoposti a discussioni anche aspre, in ogni sede, prima di essere tradotti nel decreto ben noto a chi si occupa di urbanistica. Ma la tenacia, la determinazione, anche il coraggio di Mario, non permisero che fossero sacrificate le quantità e la qualità dei servizi collettivi.

Voglio solo ripetere che se in molti paesi e città italiani, a cominciare da Roma, si dispone di verde e di aree per il gioco, lo svago, l’istruzione, la cultura, la contemplazione, lo si deve anche a Mario Ghio.

Nella sua bella e lunga vita Mario ha sempre lavorato intensamente, all’università, nella professione, nelle associazioni culturali, ha scritto testi e disegnato piani che restano fondamentali. Sempre con la stessa caparbia fermezza mostrata al tempo degli standard. Sempre insensibile al cambio delle stagioni politiche e culturali. Avendo sempre lo stesso indiscusso obiettivo della prevalenza dell’interesse generale.

Addio Mario, non ti dimenticheremo.

La morte di Mario Manieri Elia riporta alla memoria alcuni momenti cruciali del dibattito tra gli architetti italiani. Non posso lasciarli sotto silenzio senza favorire la tendenza (particolarmente diffusa oggi non solo tra gli architetti) a depurare di ogni elemento creativo e conflittuale il pensiero specialistico. Allora si concepiva il lavoro dell'architetto come indissolubilmente connesso all'urbanistica e alla storia. Il movimento moderno in architettura voleva far saltare l'agnosticismo morale della professione ottocentesca. Ricordo ancora il mio primo incontro con Manieri Elia, da studente iscritto, nel 1960-61, al primo anno alla Facoltà di Architettura. Dopo aver ascoltato una sua conferenza gli domandai (e l'Avanti! ci fece il titolo...) se non fosse vero che l'urbanista non potesse non essere socialista. Ne parlo perché dà il clima di quegli anni, in cui maturava il centrosinistra, e sembrava che il fulcro del progetto riformista dovesse essere una nuova legge per il governo del territorio, asse della programmazione (Sullo e Pieraccini ci hanno provato invano). E per confrontarlo col clima presente, dove (in Italia, non in tutta l'Europa) sembra acquisita la rinuncia a ogni rapporto dei poteri pubblici con i costruttori che non sia di dipendenza passiva

È significativo che nell'ultimo libro pubblicato in vita di Manieri Elia, I vissuti dell'architettura, cinque diadi di protagonisti a confronto - che comincia con la coppia mitica Dedalo-Prometeo - l'età contemporanea sia rappresentata dall'opposizione tra Rem Koolhaaas (il massimo del realismo, anche a prezzo della rinuncia preventiva ad ogni opposizione al potere) e Manfredo Tafuri. Tafuri sta pagando un oblio troppo rapido per non doversi concludere con la sua riscoperta, ma la commozione che mi prende per l'ultimo omaggio che Manieri Elia gli ha reso, riservandogli il posto della coscienza critica e dell'opposizione del nostro tempo (con uno schizzo del volto barbuto di Manfredo che campeggia in copertina), dipende dalla capacità che ha così dimostrato di passare sopra allo scontro che proprio con Tafuri aveva avuto a proposito di William Morris. Manieri Elia, oltre che della "città americana" e di Henry Sullivan, è stato sicuramente il massimo specialista di William Morris (Architettura e socialismo, William Morris e l'ideologia dell'architettura moderna, Opere di William Morris).

La polemica di Tafuri contro Manieri Elia colpiva senza indulgenza, come manifestazione di romanticismo acritico, ascientifico e sentimentale, l'idea stessa di una possibile derivazione della modernità dal socialismo utopico e dall'artigianato di qualità morrisiano. I recenti saggi di Richard Sennet, la moderna questione del "bene comune" pongono la questione forse in una luce diversa, dove sperimentalità e sapienza del fare appaiono estranei, più che all'Ottocento, agli idola fori del marxismo degli anni Settanta troppo legati alla società di massa.

Il secondo motivo per cui è necessario ricordare Mario Manieri Elia è il ruolo di protagonista che ha avuto negli sviluppi del progetto Fori, pilastro centrale dell'idea per Roma di Luigi Petroselli, successivi alla morte del Sindaco. Manieri Elia ha avuto la pazienza e la capacità di ascolto per mediare in quella colossale battaglia nel campo di Agramante scoppiata tra archeologi e architetti a proposito della cancellazione di via dei Fori Imperiali. Già nel 1981 aveva osservato, in un libretto per l'Electa, che la cancellazione fisica di via dei Fori non era la parte essenziale di un'idea che trovava il suo significato più profondo nell'affermazione della centralità per Roma non del traffico ma della cultura, su un'area che si estendeva dal Campidoglio all'Appia Antica allo stesso territorio dei Castelli. Negli ultimi tempi, in parallelo al Master Storia e Progetto che conduceva per l'Università di Roma Tre, Manieri Elia dedicava grande attenzione a raffinate questioni teoriche della mentalità progettuale, in una serie di volumi Topos e Progetto pubblicati da Gangemi, di cui sono usciti quelli intitolati Il vuoto e L'attesa, mentre è imminente la pubblicazione - ormai postuma - de L'ascolto.

Mario Manieri Elia faceva infine parte del gruppo capeggiato da Francesco Cellini (assieme al sottoscritto, Alessandra Macchioni, Vanessa Squadroni, Maria Margarita Segarra Lagunes, Giovanni Manieri Elia, Dieter Mertens, Carlo Gasparrini, Elisabeth Keven, José Tito Rojo, Giovanni Longobardi, Renzo Candidi, Andrea Mandara) vincitore del Concorso internazionale per la riqualificazione di Largo Augusto Imperatore - il cui inizio dei lavori si attende ormai da cinque anni, ed è stato recentemente nuovamente riannunciato.

La Carta di Gubbio fu discussa e approvata da un gruppo di studiosi e di amministratori comunali nella città umbra settembre nel 1960. E' grazie a quel lavoro che si comprese che le qualità da salvaguardare non sono solo i monumenti eccezionali, ma l’intero contesto storico di cui essi sono parte, la società che li ha prodotti e che in essa vive, il territorio di cui sono parte costitutiva. E si comprese che la loro tutela ha la sua premessa in una corretta pianificazione della città e del territorio.

Da allora l’Italia è (era) considerata all’avanguardia nel settore, e la ricchezza del suo patrimonio trovava una corrispondenza nella cultura e nelle pratiche. Grazie, Mario, e buon viaggio alle tue idee

Da Edoardo Salzano, “Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto”, Corte del fòntego, Venezia 2010, p. 47-50

Al ministero di Porta Pia

Se la sua proposta organica di riforma urbanistica era stata scandalosamente bocciata, Sullo era riuscito a far approvare la legge 167 del 1962, che consentiva di espropriare le aree necessarie per realizzare l’edilizia economica e popolare. Una legge che si rivelò decisiva per impostare una coerente politica della casa nel corso degli anni Settanta. L’ufficio del ministero dei LLPP incaricato di seguire l’attuazione della legge 167 fu il germe della nuova struttura che, dopo i drammatici eventi del 1966, il ministro dei LLPP, il socialista Giacomo Mancini, aveva deciso di costituire: la Direzione generale per l’urbanistica, affidandone la direzione a Michele Martuscelli. Nel suo ambito era stato costituito da poco un Centro studi, affidato inizialmente a Fabrizio Giovenale: un generoso apostolo dell’urbanistica sociale. Disponeva di due soli giovani funzionari: un amministrativo, Carmelo Grasso, e un architetto, Vezio De Lucia. L’anno successivo l’ufficio era stato affidato a un attivissimo ingegnere, Marcello Vittorini, che avevo conosciuto a San Pietro in Vincoli dove era assistente del professore di Architettura tecnica.

Marcello aveva avuto le risorse per rafforzare il Centro studi. Assunse a contratto un buon numero di giovani tecnici. Tra loro ricordo Gianluigi Nigro, Giusa Marcialis, Massimo Perna, Daria Ripa di Meana, Rinaldo Sebasti, Giulio Tamburini. Assunsi l’impegno molto seriamente. […]

Il lavoro era stressante ma entusiasmante. L’urbanistica e la programmazione economica erano al centro dell’attenzione politica. Dopo la sconfitta del tentativo di riforma urbanistica di Fiorentino Sullo, il crollo di Agrigento e l’appassionato dibattito parlamentare che ne era seguito avevano prodotto un vero colpo di frusta sull’opinione pubblica. Politica e cultura erano combattive e lottavano su diversi fronti per un efficace e moderno governo del territorio, non più infeudato ai poteri forti della rendita fondiaria urbana. Tra la cultura urbanistica, validamente rappresentata in quegli anni dall’Istituto nazionale di urbanistica, e la politica del Parlamento e dei partiti, il ruolo della pattuglia urbanistica del Ministero dei LLPP era spesso quello di cerniera.

Nel concreto dell’ufficio, si andava dal collaborare all’istruttoria per l’approvazione dei Prg comunali da parte del Consiglio superiore dei LLPP alla predisposizione di proposte di legge nelle diverse materie di competenza del ministero, dalla definizione di programmi e progetti speciali per determinate situazioni o problemi (dai provvedimenti per Venezia e Firenze dopo l’alluvione del 1966 a quelli per i terremoti) alla formazione di circolari interpretative delle leggi, alla collaborazione con altri ministeri e uffici pubblici o alla contestazione delle loro proposte quando venivano giudicate lesive degli interessi pubblici territoriali.

Nei momenti più rilevanti la pattuglia di testa della galassia urbanistica del ministero (Martuscelli, Vittorini, Di Gioia che era subentrato a Valle nella presidenza della sezione del Consiglio superiore) aveva contatti diretti con parlamentari sia dei partiti governativi (soprattutto con quelli della sinistra socialista) che con alcuni del Pci. Una vera collaborazione si stabilì quando si presentarono e discussero le leggi più rilevanti di quegli anni: la legge ponte urbanistica del 1967 e il successivo decreto sugli standard, le leggi per la casa dell’inizio degli anni Settanta.

Diversi erano gli stili di Martuscelli, Di Gioia, Vittorini. Il primo esercitava con abilità e fermezza la chiave burocratica, Di Gioia adoperava la felpata morbidezza dei diplomatici. Marcello era un carro armato, un corsaro. Lavorava così. Si impadroniva di una pratica, magari curiosando sulla scrivania del ministro, o esaminando l’ordine del giorno delle commissioni e comitati di cui il ministero era parte, oppure perché qualche funzionario lo informava dell’argomento. A seconda del tempo a disposizione (generalmente era brevissimo, un paio di giorni o poche ore) costituiva un piccolo gruppo di lavoro, dettava la scaletta di una relazione o un promemoria o un appunto, distribuiva il lavoro, lo verificava e completava e lo inseriva nella copertina ufficiale. Poi lo consegnava al ministro, o lo illustrava lui stesso là dove si discuteva (e magari si decideva).

Ricordo in paio di occasioni. Al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) si doveva dare il parere sulla installazione di un deposito petrolifero. “È uno scandalo – ci diceva - .L’Italia sta diventando un gigantesco deposito di prodotti pericolosi ed inquinanti, nelle zone costiere più belle”. In pochissimi giorni, mobilitando i più diligenti e presenti del suo ufficio (Vezio c’era sempre) produceva una documentata relazione: l’unica, oltre a quella dei proponenti, che veniva presentata alla riunione dove si sarebbe deciso.

Un’altra volta il ministro in carica, il democristiano Natali, abruzzese come lui e amico personale, gli chiese di preparare un appunto per il discorso che avrebbe tenuto al convegno nazionale della Dc. Marcello chiamò me e Vezio, ci propose la scaletta del discorso, ci sedemmo alla sua scrivania dalla sera alla mattina dopo, e ciascuno ne compose un pezzo. Facemmo recitare al ministro un discorso nel quale, oltre a una serie di cose molto audaci e ragionevoli in materia di opere pubbliche e loro impatto territoriale, sosteneva la necessità di una riforma urbanistica che comprendesse (riprendendola dalla proposta di Fiorentino Sullo, bocciata pochi anni prima e ripresentata da parlamentari comunisti) l’esproprio generalizzato dei terreni di nuova edificazione o ristrutturazione urbanistica. “L’Unità”, che allora era l’organo ufficiale del Pci, illustrò con stupito compiacimento la proposta dell’autorevole ministro democristiano.

Vezio De Lucia, 72 anni, napoletano, è un urbanista militante in servizio permanente effettivo. Già direttore generale dell’Urbanistica presso il ministero dei Lavori pubblici e membro del Consiglio superiore, è stato assessore all’Urbanistica di Antonio Bassolino ai tempi dell’effimera rinascita di Napoli. Poi litigò con ‘o sindaco e non venne confermato. Vanta anche un altro licenziamento lusinghiero: quando lavorava a Porta Pia fu silurato dal ministro Dc Giovanni Prandini, poi travolto da Tangentopoli. Consigliere nazionale di Italia Nostra, ha firmato molti piani e vinto il premio Cederna 2006 per l’urbanistica.

De Lucia, l’urbanistica è davvero in crisi?

«In una crisi irreversibile, direi. Il dato drammatico è che nel frattempo si consuma il territorio, con conseguenze gravissime. Vede, l’urbanistica è molto diversa dalla finanza: il condono fiscale può avere esiti molto pesanti per l’economia e la morale collettiva, ma trascorsi dieci anni è possibile dimenticarlo, praticando una politica opposta, in grado di veicolare principi diversi. Il condono edilizio, invece, lascia un segno irreversibile: le sue ricadute sul territorio non possono più essere rimosse, se non a costi spropositati e impraticabili. Questo rende drammatico il panorama in cui siamo calati. La dilapidazione delle risorse territoriali prosegue. E all’orizzonte non vedo speranze di cambiamento.»

Quali le ragioni della crisi?

«Sono di natura politica. Siamo tutti d’accordo, ormai, nell’affermare che l’urbanistica è componente fondamentale della politica tout court. È a quella scala, dunque, che bisogna fare riferimento per comprendere le cause della crisi, determinate soprattutto dal declino della prevalenza dell’interesse pubblico. Una tendenza cominciata trent’anni fa, negli anni Ottanta, quando è cambiato lo scenario politico, con la prevalenza dell’impostazione thatcheriana e reaganiana. Privato è bello: è la filosofia del ciascuno padrone a casa propria. La città, si pensa, funziona meglio se soddisfa la gran parte degli interessi privati. Ma è vero il contrario. Roma è un esempio clamoroso di questo disastro. Si pensi alla sua mobilità impossibile, alle periferie disumane perché completamente scardinate dal corpo urbano. Tutti gli insegnamenti di decenni di urbanistica sono stati dimenticati per inseguire solo gli interessi della proprietà fondiaria.»

Mi pare una tendenza piuttosto affermata. In fondo, se Roma piange, Milano non certo non ride. Che ne pensa?

«In effetti la mala pianta nasce a Milano, interprete Maurizio Lupi (l’attuale vicepresidente della Camera, ndr). C’è un documento alla base dell’urbanistica contrattata ed è “Ricostruire la grande Milano”, firmato da Luigi Mazza del 2000 ma commissionato da Lupi, allora assessore comunale allo Sviluppo del territorio: qui viene teorizzata la fine della disciplina, che non controlla più nulla ed è formata dalla somma delle decisioni edilizie private. A questo documento fa poi seguito, qualche anno dopo, il testo di riforma nazionale urbanistica, meglio conosciuto come ddl Lupi, che ripercorre quell’impostazione. E che per fortuna non si trasformerà mai in legge. Ma la linea ormai è tracciata. Ricordo che all’epoca anche l’Inu appoggiò la riforma.»

In realtà solo in parte. Anzi, l’allora presidente Paolo Avarello si sentì lasciato solo, in quella posizione.

«Poco importa. Il punto è un altro: la crisi della città – e dell’urbanistica –è sempre stata poco analizzata dalla politica. Anche dalla sinistra, parte cui storicamente faccio riferimento. Lo ha ricordato alcuni anni fa Leonardo Benevolo in uno scritto: nessuno dei principali esponenti della politica nazionale del dopoguerra – da De Gasperi a Togliatti, da Moro a Berlinguer, fino a Fini e D’Alema – ha mai affrontato il problema. Chi invece ha cavalcato il tema con successo è Silvio Berlusconi: su un piano opposto, certo, proponendo le soluzioni cui facevo riferimento prima – i condoni edilizi, il piano casa eccetera – e agendo sui peggiori istinti degli italiani. Ma a determinare il distacco della politica dall’urbanistica ha giocato anche un altro fattore.»

Quale?

«La sorte toccata a due personaggi importanti della politica italiana che hanno cercato di misurarsi con i problemi della condizione urbana. Il primo fu Fiorentino Sullo, spazzato via dal suo stesso partito, la Dc, per avere proposto una riforma urbanistica molto evoluta ed efficace in materia di controllo della rendita immobiliare, che avrebbe potuto portare l’Italia al livello delle grandi socialdemocrazie europee. L’altro, a una scala inferiore, fu Achille Occhetto. Che esordì clamorosamente in materia imponendo alla giunta rossa di Firenze di bloccare quel clamoroso esempio di urbanistica contrattata che era l’operazione Fiat-Fondiaria.

«Era il giugno del 1989, cinque mesi prima della svolta della Bolognina. La telefonata dell’allora segretario del Pci fece saltare il grande insediamento a Novoli e a Castello, dove erano previsti un centro congressuale e un centro espositivo».

Credo che nessuno abbia gli elementi in mano per affermare che questa vicenda portò alla fine politica di Occhetto. Ma se si indagasse a fondo, forse si potrebbe scoprire che, sotto sotto, un legame c’è. Inutile dire che a Firenze, uscito di scena Occhetto, il progetto è andato avanti, come ha evidenziato il recente scandalo sulle lottizzazioni di Castello. Probabilmente questi esempi inducono molti politici italiani a ritenere che l’urbanistica sia materia alquanto pericolosa, da cui è meglio girare alla larga».

Scendiamo nello specifico della disciplina. Lei crede che nella crisi abbia pesato la mancata riforma generale?

«Certo. Io ho dedicato la vita ai tentativi di riforma. Ma il tema ormai mi sembra fuori scala, essendo stato sancito il superamento delle regole urbanistiche. La situazione odierna è molto più grave dell’immediato dopoguerra: allora nessuno pensava che le norme potessero essere bypassate. Torniamo un attimo al piano casa, che è un’iniziativa delle Regioni. La legge quadro nazionale, infatti, è stata più volte annunciata ma mai varata, anche perché incostituzionale. Comunque, il governo ha enunciato principi ai quali volontariamente tutte le Regioni, comprese quelle di centrosinistra, si sono adeguate. E questo è gravissimo. Significativo il caso della Toscana, la prima ad approvare una normativa in materia. L’ha fatto in modo corretto, per carità: le agevolazioni sono erogate a condizione che gli interventi proposti siano rispettosi della legislazione urbanistica. Ma avrebbe avuto i titoli per opporsi alla manovra. Invece si è allineata alla direzione generale derogatoria».

Avrebbe anche potuto non varare alcuna legge, com’è avvenuto in Trentino Alto Adige.

«Infatti. Questo è un segno di complicità oggettiva, come si diceva una volta: destra e sinistra si incontrano sempre su questo terreno».

«Lei afferma che le regole urbanistiche non contano. Ma l’Italia è coperta da piani di ogni genere. Come si spiega questo aspetto?

Viviamo in una situazione di apparente schizofrenia: la pianificazione si continua a fare, così come proseguono le operazioni di segno opposto sul nostro territorio. Ma va anche detto che non tutta l’Italia è travolta dal modello milanese e romano. Esistono realtà in cui l’urbanistica corretta continua a essere dominante».

Cosa pensa della proposta di riforma urbanistica promossa dall’Inu nel 1995, con il nuovo piano regolatore diviso in una parte strutturale e una attuativa, poi ripreso da molte leggi urbanistiche regionali?

«Il bilancio dell’esperienza non è positivo. Faccio riferimento soprattutto alla situazione toscana, che conosco meglio. In primo luogo, la speditezza che avrebbe dovuto garantire un modello costituito da piano strutturale a lungo termine, da attuare progressivamente attraverso strumenti operativi più agili, spesso coincidenti con il mandato del sindaco, non è mai stata raggiunta. In Toscana l’attuazione del nuovo piano richiede tempi molto più lunghi rispetto ai vecchi prg. E poi non è vero che a un piano strutturale corrispondano uno o più strumenti operativi. Di solito viene varato un documento strutturale, poi uno operativo, poi la necessità di varianti induce a realizzare un altro piano strutturale e un altro operativo, e così via. Qualcosa non funziona, evidentemente. Secondo me il problema di fondo è la disarticolazione dell’urbanistica. Alla fine, l’unico piano che conta davvero è quello comunale. Non si è mai riusciti a instaurare una vera pianificazione di area vasta che, anche dove vigente, è priva di efficacia, non affrontando questioni cruciali come il dimensionamento e la configurazione delle espansioni. Tutto è ricondotto alla scala urbana. La Toscana, per rimanere al mio esempio, è ormai formata da un’unica enorme conurbazione che unisce fisicamente, senza soluzione di continuità, tutti i capoluoghi di provincia: circa cento Comuni per due milioni di abitanti. Le pare possibile che tutto questo possa essere governato da cento piani strutturali e almeno altrettanti piani operativi? Se le scelte strutturali spettassero alle Province e la loro attuazione ai Comuni, già compiremmo un passo avanti, evitando duplicazioni. E un gran consumo di suolo».

Come se ne esce?

«Non possiamo aspettare chissà quale evoluzione culturale, economica, politica. C’è bisogno di affermare alcune idee molto semplici, ma altrettanto forti. La prima, che si dovrebbe realizzare a furor di popolo, è lo stop al consumo di suolo. Salviamo il salvabile. Tracciamo una linea rossa intorno all’edificato così come si è delineato negli ultimi anni e diciamo: queste sono le colonne d’Ercole, al di là non si può andare. Altrove in Europa è già così: è sempre molto chiara la linea rossa. Finisce la città, comincia la campagna. E si resta sbalorditi dalla nettezza del mutamento. Questo stacco, in Italia, non esiste più: ecco perché riaffermare la distinzione fra città e campagna mi pare sia questione importante e anche efficace, utile a migliorare la nostra qualità della vita. Altro punto fondamentale è la difesa dalla bellezza del nostro paesaggio, che deve diventare un valore condiviso. Anche la sicurezza fisica è da tenere in considerazione: la lotta al dissesto idrogeologico e al rischio sismico va combattuta. È un tema che riguarda anche la spesa pubblica, naturalmente: è stato dimostrato che una politica oculata di prevenzione costa meno del mero risarcimento dei danni. Inoltre è ad alta intensità di lavoro e a bassa densità di capitale: si pensi solo al cuci-e-scuci delle vecchie case in pietra per consentire, ad esempio, gli interventi di sicurezza antisismica».

In realtà, oggi il termine sicurezza viene utilizzato diversamente. E i quartieri cintati, serrati entro mura e sorvegliati dalla vigilanza privata, cominciano a comparire anche nel nostro territorio. Vede anche lei questo rischio nel futuro delle città italiane?

«La sicurezza privatistica ghettizzata nelle gated community mi aveva colpito già molti anni fa, durante un viaggio di studio negli Stati uniti. Mi ero convinto fosse un modello inconcepibile per la cultura europea. Purtroppo, invece, ha attecchito anche qui. Persino a Napoli. Alludo al Centro direzionale, la madre di tutte le speculazioni edilizie che, essendo sorvegliato dalla vigilanza privata, è diventato un luogo frequentato anche dai ceti popolari dei quartieri vicini. Evidentemente risponde a un’esigenza di sicurezza, oggi molto sentita. Napoli, certo, è una città un po’ estrema sotto questo aspetto, forse non fa testo. Ma a me pare che il problema sia più percepito che reale. Oggi le nostre città sono molto più sicure rispetto a trent’anni fa».

Secondo lei si dà troppo credito all’urbanistica che, in fondo, non è mai riuscita a guidare le trasformazioni del nostro territorio?

«Non sono d’accordo. L’urbanistica che si sta praticando a Napoli, per esempio, è esattamente quella prevista dal prg e che riscuote un consenso vasto, a cominciare dai costruttori. Alcune scelte di fondo, per esempio il blocco dell’edificazione nelle zone non urbanizzate, sono state rispettate. E posso citare tanti altri esempi positivi in tutta Italia.»

Forse allora c’è un problema di attuazione dell’urbanistica. Lei parlava del prg di Napoli, varato quando era assessore comunale all’Urbanistica. Ma il recupero dell’area di Bagnoli, prevista da quel disegno, non è mai partito.

«Vero, ma almeno non si è realizzato nulla di diverso o di sbagliato. Semplicemente, non si è fatto nulla: solo la bonifica si trascina da lustri. Probabilmente è fondato e legittimo sospettare che gli appetiti su quell’area siano altri. Ma per ora possiamo registrare solo un clamoroso ritardo.»

Secondo l’assessore all’Urbanistica di Roma Marco Corsini, l’amministrazione pubblica in Italia ha sempre inseguito gli interessi privati, ricevendone una risposta funzionale alla propria sopravvivenza. Che ne pensa? E quanto pesa la possibilità di destinare alla spesa corrente comunale gli oneri di urbanizzazione, vero grimaldello per la messa a reddito del territorio?

«Pesa moltissimo, su quest’ultimo punto siamo tutti d’accordo: è stata una sciagura. In urbanistica però non hanno sempre prevalso gli interessi privati. Sicuramente da vent’anni sono prevalenti, ma in passato sono state scritte pagine splendide di contrasto alla rendita fondiaria. Si pensi all’Appia antica, 2.500 ettari lottizzati di proprietà del Vaticano e del generone romano sottratti alla speculazione edilizia da una decisione politica. Ecco, sarebbe importante ripercorrere la storia recente delle nostre città, anche negli atenei. Nessuno oggi ricorda quella vicenda, che maturò in anni difficili, durante il sacco edilizio del paese. Eppure fu una battaglia vinta. Così come vinsero a Firenze Edoardo Detti e a Bologna Giuseppe Campos Venuti, gli assessori all’Urbanistica che bloccarono l’edificazione sulle colline. Lotte costate lacrime e sangue, ma ne valeva la pena. Sa perché quelle aree furono salvate e il Vomero, Posilippo o Monte Mario no? Perché furono oggetto di politiche diverse. Che ancora oggi, in fondo, sono possibili.»

Il disegno è di Paolo Bacilieri

« Con Vendola il clima e la sensibilità giusti per una grande esperienza urbanistica»

NAPOLI — Nella città dove si conciona su tutto, il più spesso a sproposito, Roberto Giannì incarna una virtuosa vistosa eccezione. Da trent’anni, questo distinto signore si ostina a girare sempre in bicicletta, indifferente a qualsiasi clima, salita o delirio di traffico, occupa ruoli strategici all’interno della macchina comunale. Fedele alla regola di un’assoluta discrezione, parla oggi, ed è la prima volta, alla vigilia della sua partenza per Bari, dove dal gennaio dirigerà l’area urbanistica della Regione Puglia.

Un ritorno a casa: sei nato ad Acquarica del Capo, provincia di Lecce. Ma per tutti sei napoletano. «Beh, sono qui dal 1965, quando m’iscrissi al terzo anno dell’Istituto tecnico industriale Enrico Fermi».

Come mai venisti a Napoli?

«Amavo il nuoto e avevo il mito di Fritz Dennerlein. Dopo il biennio, quando si trattò di scegliere la specializzazione, m’inventai una passione per la fisica nucleare, a Casarano non c’era. A Napoli, però, passai presto a edilizia, la specializzazione più sfigata, scelta da chi non s’era iscritto a geometri. Capitai in una classe di pluriripetenti che non si spiegavano come mai fossi tra loro, visto mi applicavo piuttosto seriamente» .

Da lì, il passaggio ad Architettura e alla Casa dello studente («un posto magnifico, appeso alla collina di Capodimonte con vista sul golfo. Era l’unica di Napoli e fu chiusa ’73. Sarebbe bene che la Regione, che ne è proprietaria, la rimettesse in sesto» ). Tempi di tumultuosa ricerca. Con Sergio Cappelli e Benedetto Gravagnuolo facemmo amicizia col gruppo radicale degli Archizoom, che nel ’73 c’invitarono alla Triennale a Milano. Portammo un Super8 con spezzoni di film legati in una sorta di Non toccare la donna bianca. Era la lotta tra soldati blu e indiani associata alle lotte per la casa» .

Dopo gli innamoramenti iniziali per l’architettura radicale e (grazie ai corsi di Renato De Fusco e ai libri di Cesare de Seta) per la storia, all’urbanistica Giannì arriva dal versante politico. Decisivo l’incontro con Attilio Belli, che Napoli collaborava a Città-Classe. «Mi laureai con lui, Riccardo Dalisi correlatore: un tentativo estremo di tenere insieme due anime diverse» .

Era l’anno 1975, data fatidica per Napoli. «L’anno della prima giunta rossa. Stavo col manifesto e i collettivi di facoltà. Era una svolta: si poteva far qualcosa subito senza aspettare la rivoluzione. Per un’area politica da sempre fuori da tutto, si aprivano scenari impensabili. Mi si presentò l’occasione di lavorare con un gruppo di urbanisti, tra i quali Gianni Cerami e Sandro Dal Piaz, al Piano quadro delle attrezzature. Arrivarono altri giovani neolaureati: Elena Camerlingo, Giovanni Dispoto, Laura Travaglini, Giuseppe Pulli, Mario Moraca, quelli che poi sarebbero stati definiti i ragazzi del Piano. Lavorare al Comune era ritenuto un ripiego; ma noi, animati una forte sensibilità civile, volevamo convincere il Comune a dotarsi di un suo ufficio urbanistico, che non esisteva. Con Elena andammo a Venezia da Salzano, e a Bologna da Cervellati. Ci guardavano con simpatia, piaceva l’idea di un risveglio civico a Napoli. E potevamo contare un’amministrazione di persone intelligenti: Andrea Geremicca, Aldo Cennamo, eccellente assessore al Personale, Giulio Di Donato, assessore all’Urbanistica e nostro quasi coetaneo... Capivano che la pianificazione era un tema nodale».

Ai ragazzi furono affidati molti piani, tra cui quello delle periferie, approvato all’unanimità in consiglio comunale pochi mesi prima del terremoto: «Un frutto tipico dell’epoca, nato dalle lotte nei quartieri. Certe foto di Mimmo Jodice documentano quei luoghi prima del piano: vi si viveva in condizioni disumane, 3-4 persone a vano. Il piano voleva riorganizzare i quartieri conservandone il tessuto sociale. È significativo che mentre a Bologna si lavorava sul centro storico, a Napoli si partisse dalle periferie. Non era facile. Una volta, Giovanni Dispoto bussò a casa di una vecchietta che rispose: ‘‘ Chi site?’’ Siamo del Comune’’. ‘‘ E nun ve mettite scuorno?’’ [Non vi vergognate?]. La gente voleva i palazzi, e noi facemmo le case nuove, ma recuperammo pure le vecchie, e alla fine tutti avrebbero voluto tornarvi».

Risale ad allora l’incontro con Vezio De Lucia, alla Direzione generale del coordinamento territoriale del ministero dei Lavori pubblici, sancta sanctorum dell’urbanistica italiana. «Cercavamo aiuto per il piano e lo trovammo. ’76, Vezio aveva firmato con Antonio Iannello il mitico numero 65 della rivista Urbanistica dedicato a Napoli: quasi una folgorazione. Quella era una scuola di caratura internazionale. Per dire, il rinnovamento di Barcellona s’ispirò a quella rivista» . E quella cultura è anche alla base lavoro svolto, con De Lucia e i ragazzi del piano, al programma per la ricostruzione. «Fui colpito da un’affermazione di Leonardo Benevolo, che sosteneva la necessità di prevedere programmi di urbanizzazione pubblica, un sistema in cui si crea sinergia tra amministrazione pubblica e imprenditori illuminati. Si poteva immaginare un rapporto simile, basato su regole condivise, anche in una città in cui il piano regolatore del ’72 aveva dovuto presentarsi in pratica solo come uno scudo per proteggersi dalle nefandezze speculative? Fortuna volle incontrassimo Francesco Rallo, presidente dell’Associazione dei costruttori, che stabilì un ottimo rapporto con Guido Alborghetti, venuto a Napoli per assistere Valenzi. Fu Rallo, nell’ ‘83, a scrivere a Valenzi chiedendogli insistere sul recupero, perché Napoli era il più grande laboratorio italiano in questo campo».

Questa è pure la filosofia del lavoro svolto per redigere prg di Napoli, nato con l’arrivo di Bassolino sulla poltrona di sindaco nel ’93 e approvato nel 2004. «E ai molti che dicono che il mancato rinnovamento della città dipende dalle scelte urbanistiche fatte, rispondo che il vero problema, per me, è un altro. Quello di una mancata coesione corpo sociale. Il meccanismo s’inceppa proprio quando si dovrebbe avere la partecipazione convinta e fattiva una pluralità d’interlocutori per rendere operative le scelte del piano. In questi anni molte piccole cose si sono fatte, basti dire del progetto Sirena, intervenuto sul 10% patrimonio edilizio utilizzando le regole del Prg. Ma è mancata una collaborazione, una mobilitazione corale. Avviene il contrario: e ogni passaggio che si potrebbe fare pochi giorni impiega mesi, e magari s’insabbia fino alla paralisi».

Per esempio? «Il completamento del centro direzionale. Basato sulla finanza di progetto, è stato approvato cinque anni fa, ma i lavori non sono ancora iniziati. Nel frattempo sono insorte tante e tali complicazioni che se ne potrebbe fare un romanzo. Non so se accade dappertutto, ma insomma: superato il problema urbanistico, servono altri cinque anni per affrontare gli altri problemi».

Un po’ troppo per i partner privati. «Sì. Eppure, le scelte del piano hanno fatto sì che oggi siano in campo 40 grandi iniziative, non solo a Napoli per circa 3 miliardi di euro di investimenti privati. Ovviamente non potranno aspettare troppo. Vedi: tra i migliori conoscitori del piano, ci sono molti imprenditori. È curioso che in questi anni abbiamo avuto intellettuali pronti a giudicarlo impraticabile, e imprenditori che la pensano in modo opposto».

La Napoli di oggi presenta enormi criticità... «Ma io sono riconoscente al sindaco Iervolino e al vicesindaco Santangelo. Hanno sempre condiviso le scelte del prg e ne hanno tenute aperte le possibilità di riuscita senza cedere alle sirene della deregulation. Che partono, con molta superficialità, pure da sinistra».

E ora te ne vai. Tirando un respiro di sollievo? «Sono pugliese e avverto che in Puglia c’è un clima nuovo, una sensibilità al paesaggio, una dimensione imprenditoriale interessante. Vendola ha saputo catalizzare questa voglia di fare. Inoltre, mi manca un’esperienza di programmazione su scala più ampia».

Niente fughe, dunque? «Napoli vive un momento difficile, ma mi ha dato moltissimo. E sono abituato a tirare le somme algebriche: quelle dove, se prevale il segno più o il segno meno, lo capisci solo alla fine, evitando bilanci affrettati».

Rimpianti? «Ho ricordi bellissimi. Della dolcezza che Napoli ha saputo comunicarmi. E di una forza autentica: in quale altra città sarebbe stato possibile che a un gruppo di giovanissimi fossero affidate tante responsabilità? Avevo trent’anni firmavo stati di avanzamento per 40 miliardi al mese... Non dovrei dirlo io, ma il nostro ufficio di piano è stato giudicato un’eccellenza tra le amministrazioni italiane. E non escludo che mi abbiano chiamato in Puglia anche per questo, in un’area di coordinamento dove s’incontrano tante diverse specificità. Nel clima di grandi novità che rende quello di Vendola un esperimento più collettivo individuale, spero di ritrovare la dimensione in cui ho avuto il privilegio di crescere.

Vedi anche l' articolo di Vezio De Lucia su eddyburg

Era ordinario di “Valutazione e gestione dei progetti” al Politecnico di Milano ed era stato vicedirettore della rivista Urbanistica.

La doppia laurea, in Architettura ed Economia, gli aveva consentito di occuparsi di problematiche, spesso scivolose e ambigue, quali la programmazione complessa, la fiscalità urbanistica e la compensazione, con una grande capacità teorica e con uno sguardo acuto e critico, e sempre lungimirante.

Insieme abbiamo curato nel 1996 il volume “Pianificazione strategica e gestione dello sviluppo urbano”, quando il tema era ancora ignoto nel nostro paese e le aspettative in materia di rilancio di una pianificazione di area vasta non più gerarchicamente ordinata, ma costruita dal basso attraverso procedure interattive e partecipative e attraverso la costruzione di “visioni condivise”, sembravano cariche di promesse.

Oggi, in un contesto (quello lombardo e milanese) in cui le tristi vicende quotidiane sempre più testimoniano di una caduta dei valori etici e collettivi e di un processo di deregulation urbanistica senza eguali in Europa, mi piace ricordare a tutti i lettori di eddyburg questo studioso senza compromessi, questo docente appassionato ed estremamente apprezzato dagli studenti (nonostante la “complessità” del linguaggio) e questo insostituibile amico.

Maria Cristina Gibelli

Renato Pollini erano uno di noi, unpezzo della nostra storia. La sua morte ci lascia un immenso vuoto e il ricordo di una grande stagione politica. Faceva parte, infatti, di quella generazione che ha costruito la democrazia italiana. Sin da 1946, a 21 anni, quando divenne consigliere provinciale, poi assessore ai lavori pubblici, fino all’elezione, nel 1951, a sindaco di Grosseto. Aveva appena 25 anni e riuscì a cambiare la città seguendo sempre la stella polare degli interessi generali. Quando altrove si imponeva uno sviluppo sregolato e predatorio, a Grosseto si puntò invece sull’idea di una città senza periferie, di uno sviluppo a dimensione umana. Un modello che vedeva nella partecipazione e nella forza della cultura i suoi perni essenziali. Erano i tasselli di quello che D’Alema ha definito il «riformismo reale» del Pci, che fu ragione del suo radicamento nella società. Nel1970 l’esperienza di amministratore di Pollini fece un salto di qualità: consigliere regionale e assessore alle finanze della Regione Toscana. Partecipò così alla fase fondativa di un importante istituto della nostra democrazia, che proprio con le elezioni del 1970 muoveva i primi passi. Dovette misurarsi con problemi forse più complessi malo fece sempre con coraggio, senza pause e tentennamenti. Aveva un forte spirito di servizio e fu per questo che arrivato alla maturità, essendouncomunista italiano, non scelse la tranquillità degli allori ma rispose alla richiesta di un impegno che costava molta fatica e nessuna visibilità: il tesoriere del Pci. Quell’incarico Renato lo svolse in anni complicati, quali furono per il Pci gli anni ‘80, fino alla crisi dei partiti. Ma lo portò avanti impegnandosi per salvaguardare e accrescere un patrimonio unico, costruito dai militanti del Pci. Non si accontentò mai di amministrare i soldi del finanziamento pubblico, ma continuò sempre a puntare sulla partecipazione, a considerare l’autofinanziamento come una forma insostituibile di esercizio della democrazia. Lo ha detto lui stesso più volte: è stata quella scelta a prevenire la degenerazione della politica, che pure in quegli anni si avvicinava alla sua esplosione. Pollini conobbe personalmente l’amarezza dei processi degli anni di tangentopoli. Fu inquisito otto volte e otto volte è stato assolto: la presunta benevolenza delle procure nei confronti del Pci, come Marcello Stefanini purtroppo non può raccontare, è quindi solouna livorosa favola propagandistica. Quando a febbraio festeggiammo a Firenze i suoi 85 anni, Renato ci ha ringraziato con queste parole che voglio ricordare: «Se ho potuto fare vari mestieri, li ho potuti fare grazie al Pci, perché è grazie al Pci che ho imparato quello che so. Vi ringrazio per tutto quello che mi avete insegnato». Ora che non ci sei più, caro Renato, siamo noi, con la tristezza nel cuore, a dirti grazie per sempre.

Postilla

È stato soprattutto un grande sindaco. Era diventato noto come “il sindaco dell’Ombrone” quando, dopo la paurosa rotta del fiume di Grosseto, si prodigò personalmente tra il fango e le correnti, in mezzo al suo popolo, e fu protagonista della ricostruzione dopo l’evento. Fu l’unico comune d’Italia che riuscì ad applicare il famoso articolo 18 della legge urbanistica del 1942 ed espropriare le aree per l’espansione della città (“una città senza periferie”, come la voleva), dopo anni di vertenze con il tribunale amministrativo.



Fu protagonista d’un riformismo che sapeva guardare a traguardi lontani e rispettare fedeltà internazionali che rendevano globali le lotte locali. Il sistema di asili nido e scuole materne introdotte a Grosseto contendevano il primato alle istituzioni per l’infanzia dei comuni rossi dell’Emilia Romagna. Un esempio limpido di un welfare urbano, ispirato alle città eque e vivibili delle socialdemocrazie nordeuropee, che sapeva durare (fu sindaco per 19 anni, dal 1952 al 1970, e seppe formarsi un successore, Giovanni Battista Finetti, che ne continuò l’opera con coraggio) perché sapeva che costruire una città giusta è un lavoro di lunga lena.

In occasione della festa organizzatagli per l'85° compleanno ha detto, "Io credo che la più grossa intuizione che abbiamo avuto è stata di avere subito un il Piano regolatore", per realizzare "una città senza periferie" e senza squilibri tra città e campagna. (vedi il filmato, al minuti 1'20").

Come amministratore del PCI fu coinvolto nelle vertenze giudiziarie di Mani pulite, uscendone pulito dopo otto processi.

Era amico di quanti, nei suoi anni, si occupava di urbanistica. Anche per questo vogliamo ricordarlo. Qui potete scaricare il link a un filmato realizzato da Ugo Sposetti per l'85° compleannio; potrete rivedere il suo volto e ascoltare le sue parole.

Carlo Aymonino si è spento l’altra notte a Roma. Avrebbe compiuto 84 anni fra qualche giorno. Architetto, professore universitario (fu anche rettore dello Iuav di Venezia), assessore al Centro storico di Roma nella giunta guidata da Ugo Vetere, nei primi anni ‘80, esponente di spicco del Pci nella capitale, era nipote di Marcello Piacentini, ma non ereditò nulla della magniloquenza retorica dell’architetto fascista, che pure sopravvisse al regime. I suoi primi lavori romani, dopo la laurea nel 1950 in un’università ancora dominata dagli uomini di Piacentini e dell’altro campione della retorica mussoliniana, Arnaldo Foschini, furono di tutt’altro segno e fecero rivivere linguaggi diversi non solo d’architettura, ma artistici, come quelli della Scuola romana, della pittura neorealista e di Mario Scialoja. Come esperienza d’esordio, Aymonino si impegnò in uno dei quartieri esemplari dell’Ina-Casa a Roma e non solo, il Tiburtino, in un gruppo capeggiato da Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi, e formato da giovanissimi esponenti dell’architettura che dagli anni Trenta avevano tratto altra linfa (quella di Giuseppe Pagano) e cioè Carlo Melograni, Carlo Chiarini, Mario Fiorentino, Piero Lugli.

Aymonino lavorò per l’Ina-Casa anche altrove, a Brindisi, per esempio, e a Foggia. E compì interventi di edilizia popolare alle Spine Bianche di Matera, sul finire degli anni ‘50. Fu tra i protagonisti di quei generosi e contraddittori esempi di un’architettura pubblica concepita per chi aveva bisogno di case e che rappresentava l’alternativa ai quartieri costruiti su suoli privati e a fini di speculazione (alternativa fino a un certo punto, perché spesso l’iniziativa pubblica agevolò proprietari fondiari e costruttori).

Quella stagione dell’architettura italiana resterà ai margini delle città e della loro caotica crescita. E di interventi pubblici se ne faranno complessivamente assai meno che altrove in Europa. Il nome di Aymonino si lega, poi, fra la fine degli anni ‘60 e i primi ‘70, al complesso Monte Amiata, nel quartiere gallaratese di Milano, un intervento realizzato però in convenzione fra pubblico e privato. Con lui lavorano il fratello Maurizio e Aldo Rossi. È un quartiere residenziale, che si arricchisce di molte soluzioni progettuali, le quali caratterizzeranno lo stile di Aymonino. In questo e nei periodi successivi l’architetto romano realizza complessi scolastici, un centro direzionale e abitazioni a Pesaro, il Palazzo di Giustizia a Ferrara e altri edifici.

Negli anni Ottanta, dopo l’esperienza all’università di Venezia, Aymonino torna a Roma, alla "Sapienza", e diventa assessore al Centro storico, al posto di Vittoria Calzolari. Dopo lo slancio impresso all’amministrazione capitolina da Giulio Carlo Argan e Luigi Petroselli, inizia una fase di ripiegamento.

I grandi progetti, come quello dei Fori – con la soppressione di via dei Fori Imperiali e la formazione di un’area archeologica e verde che riconnetteva la testa di via Appia con il centro della città, progetto promosso da Antonio Cederna, Adriano La Regina, Filippo Coarelli, Leonardo Benevolo e Italo Insolera – entrano nel congelatore (anche se Aymonino non fu tra i detrattori del progetto Fori, anzi lo sostenne). Ma era tutta la politica romana che procedeva con passo lento, anche sulle questioni urbanistiche, in sintonia con quanto accadeva nel resto del Paese. Aymonino si impegnò con costanza sul centro di Roma, teorizzando l’intervento moderno nell’antico e immaginando il riempimento dei tanti vuoti che lo caratterizzavano. E ancora lo caratterizzano, perché molto poco di quelle idee, che suscitarono vivaci discussioni, andò in porto.

Fra le ultime cose significative di Aymonino c’è sempre il centro storico della capitale, segno di un’attrazione intellettuale e culturale, prima che progettuale. In un caso portando a termine la sistemazione della statua equestre di Marco Aurelio; nell’altro partecipando, insieme a Leonardo Benevolo, ma senza l’attenzione che a detta di molti avrebbe meritato, al concorso per l’assetto di uno dei luoghi più irrisolti, o malamente risolti, della capitale: piazza Augusto Imperatore.

L'icona è un autoritratto del 1983, "PTrovato dalla vita"; dal sito exibart.com

Quando Adriano Olivetti decide di realizzare un nuovo stabilimento di produzione a Pozzuoli, affida il progetto al grande architetto e intellettuale napoletano Luigi Cosenza a cui chiede che siano create ampie finestre verso il mare e verso il parco (che verrà progettato da Pietro Porcinai) così da rendere più gradevole e bello il luogo di lavoro. Era il 1955 e in quel periodo le fabbriche erano rigorosamente chiuse verso l’esterno. Piccoli fortilizi che giravano le spalle alla città. Olivetti afferma invece che la fabbrica deve dialogare con la natura e il paesaggio Questa attenzione al luogo in cui vivono per molte ore al giorno i lavoratori non è né l’unica né la più importante novità che introduce nel panorama culturale italiano.

L’ambiente in cui si forma Olivetti, il padre ebreo e la madre valdese, gli consente di costruire una visione del mondo complessa e originale. Afferma che la vita produttiva è soltanto uno degli aspetti della persona umana. Un altro, fondamentale, è quello relativo agli ideali spirituali e alla crescita culturale. I due aspetti devono, sono sue parole, riunificarsi nel progetto di società futura che ha in mente, e cioè nel modello comunitario che si organizza dal basso. Nel pensiero olivettiano, la città è la proiezione fuori delle mura dei luoghi di lavoro: la qualità degli spazi pubblici e dei servizi serve a favorire l’evoluzione della coscienza civile degli abitanti. Se dunque, come nel caso di Pozzuoli, Olivetti pone grande attenzione alla qualità dei luoghi del lavoro, ben maggiore energia dedica nella sua vita ad affermare l’esigenza di creare città vivibili in grado di facilitare “l’autoaffermazione della persona”.

Il suo impegno per diffondere la pianificazione del territorio e delle città non è pertanto un fatto tecnico: deriva dalla consapevolezza che soltanto con scelte complesse e condivise si possono creare luoghi armonici in cui vivere bene. La pianificazione è il metodo con cui gli interessi della comunità possono prevalere sul dominio dei pochi proprietari degli immobili: l’interesse e il profitto non sono i soli orizzonti da perseguire. E’ per questa profonda convinzione che Olivetti incarica i grandi nomi dell’architettura razionalista italiana (BBPR, Bottoni, Figini e Pollini) di redigere nel 1936 il Piano territoriale della Valle d’Aosta di cui il canavese faceva parte e negli anni che vanno dal 1947 al 1950 la redazione del piano regolatore di Ivrea.

Negli anni ‘50 assume la direzione di Urbanistica, l’autorevole periodico dell’Istituto nazionale di urbanistica e poi la presidenza stessa dell’istituto. Un impegno che tenta di legare le esperienze pratiche –coronate da insuccessi perché la prima verrà accantonata dal regime fascista e la seconda bocciata dal consiglio comunale di Ivrea- alla riflessione teorica e alla redazione di proposte di riforma urbanistica. In quegli anni l’Italia vive il suo periodo più fecondo di riforme in questo campo, dal decreto ministeriale sul diritto agli spazi pubblici, alla legge ponte che salvaguarderà i centri antichi fino alla legge Bucalossi che nel 1977 tenterà di rendere l’urbanistica una prassi normale in ogni città italiana. L’Inu vive la sua fase più feconda diretto da Giovanni Astengo e Edoardo Detti che aveva lavorato come assessore nella Firenze di Giorgio La Pira.

Il decreto sugli spazi pubblici risale al 1968, ed è indubbio che il lavoro dei tecnici del ministero dei Lavori pubblici allora guidato da Giacomo Mancini trasse ispirazione dalle esperienze di Ivrea, dove la politica dell’azienda favorì l’apertura di una estesa serie di servizi sociali che non ha uguali con nessuna altra città italiana di quel periodo. La scuola materna, il doposcuola, i centri culturali, la biblioteca i servizi sanitari integrativi. Tutti edifici, come noto, firmati da grandi architetti.

Nel pensiero olivettiano, poi, le città non devono distruggere lo spazio naturale che le circonda, ma vivere in equilibrio e rispetto della natura. E’ noto ad esempio che l’obiettivo di contenere la crescita urbana di Ivrea -che pure sarebbe potuta diventare una città di più ampie dimensioni demografiche in relazione alla dimensione del numero dei lavoratori impiegati nell’azienda- fu risolta con una intelligente politica dei trasporti. A questa scelta illuminata si deve la preservazione della bellezza del canavese. E per sottolineare l’importanza del suo pensiero nei decenni successivi alla sua morte, la lettura della città come organismo complesso verrà ripresa da Antonio Cederna che nei suoi scritti affermerà “che il compito della pianificazione è quellodella tutela dell’identità culturale e dell’equilibrio naturale dei luoghi”. Questo binomio fu posto da Gigi Scano alla base di una proposta di legge di riforma urbanistica promossa dagli urbanisti che collaborano al sito.eddyburg fondato da Edoardo Salzano, presidente dell’Inu negli anni ’80.

A distanza di cinquant’anni dalla morte di Olivetti sembra inevitabile dover prendere atto di un sostanziale fallimento del disegno urbanistico olivettiano. Lo dimostrano almeno tre elementi. Il primo è il generale trionfo della cultura della cancellazione delle regole urbanistiche in atto da almeno venti anni e concretizzatosi nella legge di cui è primo firmatario l’on. Lupi, (pdl) che cancella gli standard e –per molti versi- la stessa pianificazione urbanistica. Il secondo è quello della sostituzione della prassi complessa della pianificazione con una serie di progetti tra loro scoordinati ed approvati con deroghe mediante “l’accordo di programma”. Il terzo è infine relativo allo ruolo dell’Istituto nazionale di urbanistica che in anni recenti ha privilegiato eventi che vanno sotto il nome di Urbanpromo, mentre Olivetti stesso metteva in guardia dal privilegiare le mere ragioni del profitto. In questi anni di liberismo selvaggio è stata oggettivamente sconfitta la cultura della pianificazione.

Ma questo giudizio negativo è profondamente sbagliato per almeno tre ordini di considerazioni che partono proprio dalla città di Ivrea.

Uno dei pilastri del pensiero olivettiano è l’idea “dell’impresa responsabile” che privilegia una sistematica opera di formazione dei tecnici e dei lavoratori. Questa straordinaria scuola, è lunga la lista degli intellettuali che hanno lavorato a Ivrea- ha lasciato un vasto tessuto di conoscenze ed esperienze che permette ad Ivrea di continuare di guardare al futuro anche in questo momento di crisi. Mentre a livello nazionale si persegue una sistematica demolizione della scuola pubblica e dell’università e della ricerca, nella capitale del canavese continua a vivere una cultura straordinaria. Lettera 22 è come noto esposta al Modern art di New York: un piccolo punto della periferia del mondo è diventato centrale proprio grazie alla qualità del lavoro di una comunità.

Il secondo motivo di ottimismo riguarda la qualità dello spazio fisico di relazione della città di Ivrea in cui il grande patrimonio di interventi dei decenni olivettiani continua a produrre idee feconde di riuso, di nuova utilizzazione pubblica, come ad esempio il museo all’aperto. Si continua cioè a stratificare e perfezionare la struttura urbana formata in quegli anni lontani. Altre città, lasciate ad una disordinata crescita speculativa pagano oggi un prezzo altissimo per la oggettiva contrazione dei servizi pubblici. I luoghi pensati e pianificati affrontano meglio i momenti di crisi salvaguardando la qualità della vita. Un modello per l’Italia.

Il terzo è infine relativo alla dimensione urbana di Ivrea, una dimensione che ha permesso di mantenere identità e comunità. Stiamo vivendo una evidente crisi dei grandi aggregati urbani in termini di convivenza civile e in termini di gravi livelli di inquinamento ambientale. Il sogno olivettiano della piccola comunità favorisce invece quelle integrazioni di funzioni produttive, agricole e ambientali oggi indispensabili per gettare le basi per una nuova fase di sviluppo fondato sulla cultura dell’inclusione.

Sono certo in questo senso, e vorrei concludere con una visione augurale, che Ivrea sarà inserita nel patrimonio culturale tutelato dall’Unesco. Sarà un evento di portata straordinaria. A parte infatti alcune meravigliose città del rinascimento (Ferrara, Pienza, Mantova e Sabbioneta) l’orologio delle nostre città tutelate si ferma a Crespi D’Adda e cioè ai decenni a cavallo dell’ottocento. La declaratoria dei motivi della protezione parla esplicitamente di “company town”, di città nata per volontà di imprenditori illuminati.

Ivrea sarebbe invece il primo esempio di una città preesistente rimodellata e reinventata secondo paradigmi moderni del periodo industriale e attuati nel rispetto della sua storia e della sua natura. Una città che ha messo al centro la dignità del lavoro e delle persone e ha favorito la diffusione della cultura. Una città inclusiva dunque, un esempio straordinariamente attuale che potrà ancora portare grandi frutti nel futuro dell’Italia.

Un modello del tutto simile a quello di Ferrara che attualizzò il vecchio centro medievale in una ampia visione rinascimentale. E se in quel luogo era comunque il “principe” che plasmava la città secondo i suoi desideri, nel caso di Ivrea le trasformazioni hanno riguardato una popolazione intera, mettendo in moto un grande processo di evoluzione sociale e di inclusione.

Ulteriore conferma dell’importanza di uomini come Adriano Olivetti che hanno saputo svolgere fini in fondo il ruolo di classe dirigente di cui oggi si sente un assoluto bisogno.

Nota: per contrasto, il modello tristemente "vincente" all'italiana del rapporto fra imprenditoria, politica e territorio è molto ben incarnato nel caso di Renzo Zingone e della sua "new town" privata anni '60 (f.b.)

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