Pompei «è una città alla quale manca la condizione dell’abitare, ma della dimensione urbana possiede molte altre caratteristiche. Vive in un ambiente dal quale dipendono sia il suo stato di salute sia molte cause del suo degrado».Un estratto del libro "Pompei, Italia" di Francesco Erbani. La Repubblica, 25 agosto 2015
Vista dall’alto, dal terrapieno dove sorge la Casina Dell’Aquila, Pompei trasmette un senso di calma. Il silenzio sembra mescolarsi a una specie di muta saggezza e riveste le pareti scoperchiate, le pietre e i colonnati della città antica. In una mattina d’estate, con il sole che emette solo opachi bagliori, quel che anima le strade, il frastuono di chi visita gli scavi non intacca la quiete che pare attinga la propria misura direttamente dal mondo classico di cui Pompei è testimone. È una trama di muri e di vegetazione, di opere dell’uomo e della natura, un paesaggio culturale che, se si volta lo sguardo verso nord, scivola senza che apparentemente nulla lo contamini fino al Vesuvio, lo “sterminator Vesevo” al quale Giacomo Leopardi nella “Ginestra” conferisce il ruolo di arbitro di un destino contro cui gli esseri umani hanno pochi o nessuno strumento per opporsi. La città morta, insomma, vista da qui sovrasta ogni cosa viva, pulsante, nervosa e rumorosa, e quasi fortifica l’illusione che solo il passato sia sede dell’armonia e che qualunque contatto con il contemporaneo sia un’intrusione, indebita e rovinosa.
È, appunto, un’illusione. Meglio: una pericolosa illusione consolatoria. Senza rapporti con il contemporaneo, con il contesto, Pompei non è più nulla, non essendo un oggetto chiuso dentro la bacheca di un museo. È una città alla quale manca la condizione dell’abitare, ma della dimensione urbana possiede molte altre caratteristiche. Vive in un ambiente dal quale dipendono sia il suo stato di salute sia molte cause del suo degrado.
L’area archeologica è grande 66 ettari, la parte scavata 44. Conta 1.500 domus, vanta 242 mila metri quadrati di superfici murarie, 18 mila di superfici dipinte, 20 mila di intonaci, 12 mila di pavimenti. Pompei non è in un museo e neanche in un lembo desertico né è avvolta da una specie di green belt, una cintura protettiva, una camera di compensazione con tanti filtri che depurano tutto ciò che entra, materiale o immateriale che sia. Pompei vive, sebbene morta, in un contesto dove la densità di popolazione è fra le più alte d’Europa. La sua storia inizia nel VI secolo avanti Cristo, ma ora è parte – grosso modo il 5 per cento – di un comune che si chiama sempre Pompei, nato appena nel 1928 e dove risiedono oltre 25 mila persone. Alle quali si aggiungono, almeno, le 44 mila di Torre Annunziata, le 64 mila di Castellammare di Stabia e le 50 mila di Scafati, tre paesi che stringono la città antica in una morsa edilizia spaventosamente dilatatasi dagli anni Cinquanta del Novecento nella piana del fiume Sarno, fra il Vesuvio e il monte Faito, spazzando via campi fertilissimi e lasciando pochi lacerti di un tessuto residenziale che va ancora tristemente fiero della propria gentilezza, talvolta di una sontuosa solennità – la Reggia di Portici, le ville vesuviane. Mescolando legalità e illegalità, in quest’area della provincia di Napoli si è prodotta una qualità abitativa che anche solo un fugace sguardo coglie nell’inusuale e casuale brutalità.
Pompei è qui dentro, in un ammasso senza vuoti. È una città recintata, gli accessi sono limitati alle ore diurne (salvo rari casi). È una città laboratorio, la si studia, vi si scava. Ma la sua antica e silenziosa saggezza fa i conti con il disagio di questa terra, con gli indici della disoccupazione, in specie giovanile, indici già alti ma aggravati dalla crisi industriale degli ultimi decenni; con la criminalità camorrista; con un ceto politico e amministrativo – non tutto, per carità – che articola il proprio consenso in termini clientelari e che guarda proprio agli scavi di Pompei come serbatoio cui attingere a mani basse; con ambienti imprenditoriali che immaginano grandi affari dentro e soprattutto fuori delle sue mura; con un mondo di piccoli e spesso miserabili commerci ambulanti, attività che si affollano agli ingressi, in parte abusive o con licenze frutto di contrattazioni politiche. E poi i visitatori. Due milioni e mezzo, circa, ogni anno. (…) Pompei è un enigma italiano, metafora della condizione generale del nostro patrimonio storico e culturale, del suo stato di conservazione, dei valori che esprime e della qualità della sua fruizione. Ed è metafora di un paese, di tanti aspetti della sua vicenda politica e sociale, un paese che, prendendosi scadente cura di quel patrimonio, mostra un volto di sé rivelatore di un malessere che si fatica anche solo a definire e di una condizione non all’altezza dell’eredità ricevuta e poco adeguata al futuro che quest’eredità lascia intravedere. Pompei assume su di sé altre metafore. È la metafora di un atteggiamento politico, culturale e finanche antropologico per cui ci si muove in maniera ondivaga, inseguendo emergenze, l’ultima emergenza, forzando gli apparati amministrativi e varando provvedimenti di legge sempre in affanno, in contraddizione l’uno con l’altro, e orientandosi al massimo sulla breve durata. (…) Pompei è poi metafora delle relazioni con l’Europa, relazioni segnate da adesioni e ripulse che s’inseguono a singhiozzo, da richieste d’aiuto e timori di commissariamenti, da solidarietà e messe in mora. Dalle casse di Bruxelles provengono i 105 milioni del Grande Progetto Pompei destinati a restaurare oltre una cinquantina di domus e ad altri interventi. Deliberati nel 2012, a marzo del 2015 erano stati spesi in una percentuale minima: appena 5,9 i milioni versati per una manciata di cantieri chiusi, ma non ancora collaudati. Il programma dei lavori prevede come scadenza inderogabile il dicembre 2015, pena il rien- tro di quel pacco di milioni nei forzieri europei, a meno che non si trovi un accordo con Bruxelles per una proroga.
E ancora: come non leggere in tante recenti storie pompeiane la metafora di una dialettica fra il Grande Intervento e la cura minuta e costante, fra la Grande Opera e la manutenzione puntuale? È una dialettica giocata al tavolo di una retorica che contrappone il fare al riflettere e al discutere. Una retorica che molte cose dice dell’ethos contemporaneo e che in Italia è diventata spesso conflitto su regole e deroghe, sulle funzioni di controllo proprie di una democrazia complessa e sulle accelerazioni forzate, dettate da insofferenza verso quei controlli e scandite da invettive contro un’imprecisata burocrazia: una guerra fra procedure ordinarie e straordinarie – invocando, per gestire queste ultime, commissari, prefetti, manager e generali.
E, sempre restando all’ambito dei beni culturali, Pompei è metafora di altre discussioni, spesso ridotte a ritornello: quella su pubblico e privato, su quanto spetti allo Stato (obbligato dall’articolo 9 della Costituzione) e quanto possano fare imprese, persone singole, associazioni di cittadini, cooperative di giovani; e quella su conservazione e fruizione, perennemente sbilanciata e incapace di verificare nel concreto quanto il buon assetto della prima possa servire alla seconda e quanto un corretto esercizio della seconda sia essenziale per la prima.
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IL LIBRO
Il brano che qui pubblichiamo è in libreria da dopodomani L’autore lo presenta al Festivaletteratura di Mantova venerdì 11 settembre alle 16,30
«Sono passati dieci anni dalle devastazioni dell’uragano Katrina, ma la città non è mai guarita: i crimini si sono moltiplicati, la ricostruzione è stato un affare solo per i ricchi, migliaia di afroamericani sono “esiliati” in altre città “Non è stato solo un disastro naturale. È stata una catastrofe razziale”». La Repubblica, 25 agosto 2015
«Avevo nove anni quando l’uragano Katrina si è abbattuto su di noi. È quel giorno che sono diventata nera». Madeleine Le Cesne, giovane poetessa afroamericana, ricorda così la tragedia di dieci anni fa: una «catastrofe razziale», per il modo in cui un’intera popolazione venne abbandonata per giorni alla mercè delle acque, nel collasso della protezione civile, senza i soccorsi degni della nazione più ricca del mondo. Fu quel giorno che Madeleine capì cosa voleva dire essere nera. Fu quel giorno, anche, che perse la sua innocenza. «Che cosa ricordo della New Orleans della mia infanzia? Rovine. Case abbandonate. Cimiteri. Campi di gioco distrutti. La nostra evacuazione verso il Texas. La fine di ogni fiducia. I miei genitori avevano sempre pagato le tasse, avevano sempre votato, ma nessuno si è occupato di loro. Casa nostra fu distrutta. Quest’anno, diventata maggiorenne, io non mi sono neppure iscritta al registro degli elettori».
Amarezza, disincanto, cinismo: la voce severa di questa ragazza poeta interpreta una generazione. Com’è diversa dall’aspetto ufficiale che New Orleans vuole offrire al resto del mondo, in questa settimana di celebrazioni ufficiali. Sono arrivato qui per una conferenza organizzata dalla rivista The Atlantic , quattro giorni prima della visita dei “tre presidenti”: Barack Obama, George W. Bush e Bill Clinton saranno tutti in città giovedì, per le commemorazioni solenni. New Orleans ha messo l’abito da festa. Per il turista distratto è più bella che mai: i palazzi storici del French Quarter, dell’epoca coloniale spagnolesca o di Luigi XIV, hanno le verande e le balaustre di ferro battuto ridipinte e lustrate, meglio che nel Mardi Gras carnevalesco. La vegetazione tropicale è lussureggiante, il quartiere residenziale del Garden District è elegante come ai tempi delle piantagioni schiaviste. Per gli intenditori il jazz è sempre sublime, per esempio allo Snug Harbor Cafe sulla Frenchmen Street o al Royal Sonesta sulla Bourbon. Ma la giornalista nera Gwen Ifill della Pbs mi mette in guardia contro le apparenze: «Questa città non è più la stessa. Non è guarita dopo quella tragedia. Fu la peggiore esperienza nella storia americana recente». È lei a sottolineare come nella “rinascita” di New Orleans «l’edificio nuovo più visibile, arrivando all’aeroporto, è un supercarcere ».
A parlare ossessivamente di rinascita, di riscatto, di “resilienza”, è il sindaco Mitch Landrieu che incontro alla conferenza di The Atlantic allo Sheraton. 55 anni, democratico, bianco. Figlio e fratello di politici di professione, anche lui il prodotto di una politica “dinastica”. Landrieu interpreta a meraviglia la volontà di riscatto di questa città, il pensare positivo.
Ha preparato nei minimi dettagli le celebrazioni di questa settimana, anche il contestatissimo invito a Bush. Landrieu non vuole cancellare le responsabilità politiche gravi di «colui che era il comandante supremo nell’ora della catastrofe». Ricorda che «la tragedia di Katrina non fu affatto una calamità naturale, fu un collasso delle istituzioni, un fallimento umano, politico, organizzativo. I danni li provocarono gli uomini, non l’uragano. La furia dell’uragano era quasi passata, quando ci fu il vero disastro e cioè il cedimento degli argini, e l’inondazione di interi quartieri cittadini». Ammette che «ancora oggi, a dieci anni di distanza, siamo solo un po’ più preparati, potremmo resistere a un uragano forza 3, ma non ad uno che raggiunga la forza 5».
Landrieu sa anche che la sua fortuna politica è indissolubilmente legata a Katrina. Che travolse il suo predecessore nero, Ray Nagin, poi condannato a dieci anni di carcere per corruzione. Soprattutto, Katrina ha modificato gli equilibri demografici ed anche elettorali di questa città. «Centomila neri evacuati non sono più tornati, la maggior parte di loro adesso vivono a Houston e Atlanta». Senza quel calo vistoso nella popolazione nera, oggi New Orleans forse non avrebbe un sindaco bianco. Né avrebbe una maggioranza bianca in consiglio comunale. È questa nuova classe dirigente guidata da Landrieu, a recitare il mantra della resilienza e della rinascita. Anche se democratico, Landrieu non prende veramente le distanze da quel grande esperimento economico, poli- tico e sociale che la destra repubblicana volle lanciare qui dopo Katrina. Che cos’è stato questo esperimento, lo ricorda un giovane artista afroamericano, Lolis Eric Elie, scrittore e regista cinematografico. «La ricostruzione della mia città — dice — ha esposto il volto peggiore del capitalismo americano. Chi dice che oggi New Orleans è rinata, usa un solo metro di misura: l’arricchimento dei ricchi».
Per capire a cosa allude Elie sono andato a seguire una contro-celebrazione del decimo anniversario di Katrina, organizzata dal centro culturale Ashe sull’Oretha Castle Haley Boulevard. Una denuncia accorata delle due principali novità introdotte nel dopo-Katrina: la privatizzazione degli alloggi popolari e delle scuole pubbliche. Noncurante della figuraccia fatta dalla sua Amministrazione nei giorni dell’uragano, Bush nel dopo-Katrina affidò New Orleans ai guru del neoliberismo. Ebbero carta bianca per sperimentare le loro ricette più estreme. Voucher ai poveri invece delle case popolari: col risultato che i poveri restano senza alloggi, perché i padroni di appartamenti privati non li vogliono. Voucher anche al posto delle scuole statali: ma le “charter school” (istituti privati che ricevono aiuti pubblici) sono libere di selezionare la popolazione studentesca, rifiutando i meno bravi per non sfigurare nelle statistiche sulle promozioni.
Tracie Washington è una leader riconosciuta della comunità nera: militante dei diritti civili, avvocatessa, presidente del Louisiana Justice Center. «La New Orleans in cui sono nata e cresciuta — dice — era una città speciale per l’intensità dei legami fra di noi. Mi era impossibile passeggiare in un quartiere senza riconoscere quasi tutti. Eravamo davvero una grande famiglia, abituati a frequentarci da generazioni. Oggi l’aver perso centomila abitanti neri, è un’amputazione, la perdita di un pezzo di quel che significava New Orleans. Questa è una città dove il 52% dei maschi adulti afroamericani sono disoccupati. Dove la gentrification espelle i neri anche dal centro storico, e gli artisti che suonano nei locali jazz non possono abitare lì vicino, neppure possono permettersi di pagare il parcheggio nel French Quarter».
Il sindaco obietta che i problemi sociali e il declino della sua città sono ben più antichi di Katrina. «Nel 1960 New Orleans aveva 680 mila abitanti — dice Landrieu — cioè più del doppio di oggi, lo spopolamento è stato graduale, inarrestabile. E sì che siamo un’area economicamente strategica per tutta la nazione. Non siamo solo la culla storica del jazz o un gioiello di architettura: qui si raffina e si trasporta più di un terzo di tutto il petrolio americano. Eppure dopo i 150 miliardi di danni provocati da Katrina, gli aiuti pubblici per la ricostruzione non sono arrivati neanche alla metà».
L’emergenza nuova che New Orleans deve fronteggiare, è un’escalation di violenza, con gli omicidi che sono risaliti quasi ai massimi storici nonostante la popolazione sia ridotta. Landrieu ammette la sua impotenza, e perfino l’incapacità di capirne le cause: «Non è un problema solo locale visto che sta accadendo anche a Chicago, Baltimora, Oakland, perfino a Boston. La stragrande maggioranza delle vittime assomigliano ai loro omicidi: sono giovani maschi neri. Noi in Louisiana mettiamo più gente in carcere che in qualsiasi altra parte d’America e del mondo, evidentemente non è questa la risposta. E continuiamo ad avere alti tassi di recidiva, chi esce dal carcere commette nuovi delitti».
Landrieu sta preparando New Orleans per un evento ben più festoso del decimo anniversario di Katrina: si avvicina il terzo centenario della fondazione della città, che coinciderà con la conclusione del suo mandato. Resilienza, rilancio, rinascita, sono gli slogan che la New Orleans bianca, ricca e turistica vuole diffondere nel resto del mondo. Di qui anche la scelta del sindaco democratico di commemorare Katrina in modo «inclusivo», senza polemiche di parte, senza regolamenti di conti: «Bush da presidente fu lento e inadeguato — dice Landrieu — ma non fu solo lui a sbagliare. Nessuno di noi fu immune da colpe». Vedere Bush qui insieme a Obama servirà almeno a ricordare una cosa: chi oggi teorizza che c’è una recrudescenza della “questione razziale” perché l’America ha un presidente nero dimostra di avere la memoria corta.
Una testimonianza dal Mezzogiorno. I problemi urbanistici di Catanzaro e l’indicazione di soluzioni ragionevoli per una migliore condizione urbana, non solo in un'area di una parte dell'Italia troppo spesso dimenticata
Nota scritta in occasione di Convegno sul tema “Catanzaro tra passato e presente” organizzato dalla Fondazione Imes e Italia Nostra per discutere di PSC (piano strutturale comunale) che il Comune intende varare al più presto per ridisegnare il volto della città. La hanno tenuto un Convegno su “Catanzaro tra passato e presente” per discutere di PSC (piano strutturale comunale) che il Comune intende varare al più presto per ridisegnare il volto della città. Il convegno è stato un primo momento per mettere in campo proposte alternative a quelle delle forze che guidano l’amministrazione locale e che si muovono su una linea di continuità con gli interessi della speculazione edilizia e della rendita fondiaria.
Da decenni Catanzaro ha sconfinato dalle sue mura. Ha seguito, come molte città, un modello insediativo diffuso che è andato – per quanto la riguarda - nelle più svariate direzioni (Siano, S.Elia, Mater Domini, Gagliano, S.Maria, Cava, e poi, da Cz Lido a Sellia fino a Cropani e Botricello, da Cz Lido a Copanello fino a Montepaone e Soverato). Il continuum urbano di Cz, fatto di residenze, attività commerciali e di servizio, qualche piccola impresa, presenta un aspetto frantumato, sparpagliato, di disordine. Un territorio informe e pieno e di contraddizioni. E con un centro storico che sembra aver smarrito la sua identità dopo lo sventramento dei primi anni sessanta. L’insediamento dell’Università e della Regione a Germaneto hanno creato un nuovo polo urbano che, in assenza di politiche adeguate, rischia di dare un colpo definitivo alla città storica.
L’evoluzione urbana della città è stata, quindi, caratterizzata da un’occupazione a macchia d’olio del suolo. Naturalmente, i governi nazionali e locali hanno dato il loro contributo: con l’abbandono di fatto di qualsiasi idea di pianificazione del territorio, e poi con la politica dei condoni, con continue sanatorie, varianti, cambi di destinazione, opere infrastrutturali e quant’altro. I cambiamenti sono stati affidati a processi apparentemente spontanei, ma in realtà rispondenti a precisi interessi della speculazione e della rendita, e hanno prodotto costi sociali e ambientali molto alti. I confini geografici della città non corrispondono più ai suoi confini amministrativi e richiamano l’urgenza di pensare ai problemi della città con strumenti programmatici di area vasta. Come affrontare altrimenti questioni come la mobilità, i rifiuti e, ancora, la sanità e l’università?
Il mito dell'automobile
Pensiamo, per citare uno dei problemi, all’impatto della motorizzazione privata e al fenomeno del pendolarismo, esploso con lo spostamento massiccio di popolazione dal centro cittadino alle aree periurbane. Ai problemi del traffico si sono date risposte che hanno rappresentato rimedi peggiori del male. Invece di dotarsi di un trasporto pubblico locale degno di questo nome, efficiente e capace di riconnettere un territorio molto vasto, disarticolato e frammentato, si è pensato di costruire tangenziali, sopraelevate, tunnel, che hanno creato ancora più traffico e inquinamento. Le automobili si sono impadronite della città, hanno occupato strade, piazze, marciapiedi, sono causa di incidenti, di stress, di malattie. Hanno infine impoverito la vita di relazione e la vivibilità della città. Tutto ciò è avvenuto nella totale indifferenza dei cittadini, senza reazioni e senza avvertire particolari differenziazioni tra destra e sinistra. D’altra parte, non poteva essere altrimenti. Siamo cresciuti, infatti, nel mito dell’automobile, che fa il paio con un altro mito, quello della casa in proprietà (di cui parlerò più avanti).
L’automobile è considerata corum populi il principale strumento di mobilità, una scelta di libertà. Mito dell’automobile e mito della casa, dunque, sono la cifra caratterizzante dello sviluppo urbano e, direi, dello sviluppo in generale. Uno sviluppo che, da un lato, si basa sul ricambio sempre più veloce di beni e prodotti - l’economia del ricambio, appunto, o anche dell’”usa e getta” (si acquistano beni per rimpiazzare quelli in uso) - e dall’altro lato si basa sul grande spreco di suolo, di risorse, di energia. Si sono costruiti milioni di immobili e realizzate infrastrutture non sempre utili e senza alcun riguardo verso le nostre campagne, verso le montagne, verso le coste, i laghi e i fiumi. E verso il paesaggio. C’è un gran parlare di debito pubblico e di crisi finanziaria, ma si parla poco dell’enorme debito accumulato con la natura per una gestione urbanistica dissennata.
La vicenda di Catanzaro racconta, nella sua emblematicità, la storia urbanistica del Mezzogiorno e di gran parte del nostro paese e impone a tutti una riflessione sulla necessità di mettere in discussione un modello di sviluppo e, in particolare, un modello di espansione edilizia e urbana che ha fatto proliferare periferie degradate e ha distrutto le città per come le abbiamo conosciute anche noi, nati dopo il secondo dopoguerra. Ma l’espansione, come dicevo, è anche la principale responsabile delle ferite inferte al territorio. E’ tra le cause di tanti disastri ambientali (frane, alluvioni, fenomeni pericolosi e irreversibili di inquinamento delle falde acquifere). Le nostre case sono diventate più vulnerabili perché anche normali eventi naturali si abbattono su una situazione compromessa dal cattivo uso che l’uomo ha fatto e fa del suolo e delle risorse naturali. Infine l’espansione ha la principale responsabilità degli innumerevoli scempi a un paesaggio tanto straordinario da meritarci l’appellativo di “Bel Paese”. Nella logica espansiva, infatti, il paesaggio è res nullius, non un bene da salvaguardare, ma cosa di nessuno, da poter mortificare e persino annullare.
Se, dunque, negli anni settanta e ottanta, e in modo sempre più accelerato negli anni novanta, siamo passati dalla città compatta alla città estesa, che resta il modello urbano dominante, il tema ora è invertire la rotta. La sfida è passare dall’espansione alla manutenzione urbana. La stessa rigenerazione, come si dice, va inserita dentro un’azione paziente e più complessiva di manutenzione e di risanamento del territorio. Qualcosa di diverso - ma non per forza divergente - del rammendo o ricucitura urbana di cui parla Renzo Piano. Solo questo passaggio, tra l’altro, rende possibile avviare un’azione per il risanamento e la tutela del territorio e del paesaggio. Passare dall’espansione alla manutenzione presuppone leggi regionali, piani regolatori, piani casa, piani operativi coerenti con questo obiettivo. Il contrario di quanto avviene oggi. Infatti tutti concordano nel mettere uno stop o un freno al consumo di suolo, salvo poi mettere in atto comportamenti, a livello istituzionale, che sacrificano l’interesse generale sull’altare degli interessi di parte. Il fatto è che i cosiddetti “diritti edificatori” sono considerati intoccabili e persino gli abusi edilizi sono ancora tollerati da chi dovrebbe vigilare.
Nonostante le buone intenzioni e le belle parole è prevalente l’idea secondo cui tutto il territorio è urbanizzabile, negoziabile, edificabile. La rendita immobiliare e urbana si nutre di questa convinzione, che è l’esatto opposto di un’idea di programmazione. Così, grazie all’urbanistica “contrattata” tra amministrazioni locali e proprietari dei suoli (e costruttori) le aree urbane sono cresciute mediamente del 300%. Dal 2000 ad oggi sono stati cementificati circa tre milioni di ettari di terreno agricolo. Si sono realizzati milioni di nuovi alloggi, migliaia di super/ipermercati, decine di migliaia di nuovi km di strade. E’ stata l’apoteosi del cemento e dell’asfalto. Si è rinunciato a riconvertire spazi urbani inutilizzati o degradati, a intervenire prioritariamente sul patrimonio edilizio esistente, che dovrebbe essere recuperato e riqualificato – specialmente quello risalente a più di cinquant’anni, che rappresenta il 50% del totale -.
Il mito della casa
Contemporaneamente l’espansione urbana ha creato gravi distorsioni sul piano economico e sociale. Pensiamo al rapporto tra espansione e casa. L’espansione si è alimentata del mito della casa in proprietà, magari della villetta fuori le mura come indice di benessere, segno di un nuovo status raggiunto. E il mito della casa in proprietà è stato un grande incentivo all’espansione. Milioni di giovani coppie sono state indotte ad acquistare un appartamento impegnando, per 20-30 anni, metà del reddito familiare. Una scelta irrazionale, spesso avulsa da ogni serio ragionamento sul proprio futuro, specie in una situazione dominata da un percorso di vita e di lavoro molto accidentato. Molte giovani coppie hanno acquistato casa al di fuori di una obiettiva considerazione sul lavoro, che è sempre più mobile, e senza una valutazione sulle conseguenze che l’investimento sulla casa avrebbe avuto sugli altri consumi o, magari, sulla impossibilità di investire in direzioni più utili come, ad esempio, la pensione integrativa. Tutte cose sacrificate al mito della casa in proprietà.
Non voglio qui entrare nel merito della questione abitativa in Italia e dell’assenza di un mercato dell’affitto degno di questo nome. Voglio soltanto ricordare che l’espansione edilizia e urbana è stata funzionale a un’idea superata dell’abitare, non più adatta ai tempi moderni, ha finito sostanzialmente con l’ingrassare la rendita fondiaria e immobiliare. Non è un caso che il livello della rendita annua oggi in Italia si aggira intorno ai 400 miliardi di euro, cioè è quasi pari all’ammontare complessivo delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. E nel sistema bancario l’ammontare dei mutui da estinguere è di circa 350 miliardi, con gravi sofferenze per milioni di famiglie – soprattutto quelle che hanno comprato negli ultimi dieci/quindici anni - che si sono indebitate per inseguire il sogno della casa, ma ora spesso non ce la fanno a onorare le scadenze. Il tutto, com’è evidente, è stato un colossale trasferimento di denaro dal lavoro alla rendita. Soldi transitati dalle tasche dai redditi medi o medio-bassi ai redditi alti. Qui sta anche l’origine di tante e nuove diseguaglianze, ingiustizie, iniquità fiscali.
Abbiamo parlato dell’espansione e dei suoi effetti nefasti. Ma paradossalmente anche i processi di rigenerazione urbana possono diventare ulteriori regali alla rendita ed essere fonte di distorsioni se la progettazione degli interventi non è agganciata ad una corretta considerazione del contesto sociale e se prescinde dalle condizioni abitative o non tiene conto delle esigenze reali del territorio. E’ sempre presente infatti il rischio che la rigenerazione comporti la gentrification ovvero la sostituzione dei vecchi residenti con residenti più facoltosi. A parte alcuni esempi positivi, concentrati soprattutto nei quartieri pubblici (quelli delle case popolari), la rigenerazione produce effetti non sempre desiderabili in conseguenza della crescita dei prezzi immobiliari. A trarne vantaggio sono i ricchi, che così beneficiano anche degli investimenti pubblici, mentre gli altri, il più delle volte, devono abbandonare il campo.
Dal valore di scambioal valore d'uso
Quindi non basta soltanto un cambio di paradigma dall’espansione alla manutenzione. Il punto è spostare il baricentro dal “valore di scambio” al “valore d’uso”. Dalla mera ricerca del profitto, come si diceva una volta, a una maggiore attenzione verso gli interessi della collettività, a cominciare dai residenti e delle fasce sociali più deboli. La politica di manutenzione va sostenuta con forte determinazione, con provvedimenti urbanistici efficaci, con misure fiscali adeguate. Altrimenti è sempre la spinta del mercato a prevalere, in sostanza la spinta di chi ritiene più conveniente continuare a costruire ex novo. Il massimo che la lobby dei costruttori è disposta a cedere è la rottamazione/ricostruzione degli edifici più vecchi o fatiscenti – che in alcuni casi è pure necessaria – ma non è comprensiva né esaustiva delle politiche di manutenzione e rigenerazione urbana per come le intendiamo noi. Passare dal valore di scambio al valore d’uso negli interventi urbani significa, ad esempio, incorporare le nuove domande abitative nei processi di trasformazione; significa che i processi di rigenerazione non seguano solo la logica della “valorizzazione”; significa utilizzare e riqualificare gli spazi disponibili tenendo conto dei bisogni sociali effettivi. Significa migliorare i servizi. Tutto ciò è possibile solo con un prelievo sulla rendita urbana. Spostare il baricentro sul valore d’uso si può a condizione di restituire alla collettività, ai cittadini, una parte degli enormi guadagni di cui hanno beneficiato e ancora beneficiano i proprietari fondiari, i costruttori, le banche. Ci vuole una vera riforma fiscale, ma ancora non sappiamo se quella annunciata dell’attuale governo conterrà misure di equità, capaci di ridimensionare il peso e il ruolo della rendita finanziaria e immobiliare in Italia.
Un uso sapiente della leva fiscale potrebbe, invece, rimettere in sesto le dissestate finanze locali e consentire di trovare i finanziamenti per intervanti innovativi:
1. Con l’istituzione di un’imposta in grado di intercettare le plusvalenze immobiliari, il capital gain derivante dagli interventi di rigenerazione e, più in generale, dai programmi di riqualificazione urbana. Il Comune potrebbe così trovare le risorse da riutilizzare in un’opera continua di manutenzione, che non può essere una una tantum.
2. Ripristinando l’Imu sulla prima casa per le famiglie più facoltose, quelle che superano i sessanta – settanta mila euro.
3. Estendendo gli sgravi fiscali per le ristrutturazioni edilizie anche alla messa in sicurezza degli edifici contro il rischio sismico o altre calamità naturali.
Naturalmente occorre sapere utilizzare bene – e senza dispersioni – anche i fondi europei a disposizione.
Per concludere, i processi di trasformazione urbana - e quelli di riqualificazione in particolare – hanno una stretta correlazione con i processi economici e hanno un impatto diretto sull’assetto sociale, sui rapporti di forza, sui nuovi equilibri che si determinano sul territorio. In una parola possono essere un fattore di rafforzamento della rendita urbana o diventare un fattore si sviluppo sostenibile. Dipende dalla capacità delle forze in campo.
La capitale globale della finanza e della speculazione immobiliare che le è tanto organica, dovrebbe suonare un campanello d'allarme, sul crescere di una certa idea di città, ma l'informazione forse non lo coglie. La Repubblica, 5 marzo 2015, postilla (f.b.)
Date un’occhiata all’orizzonte, la prossima volta che vi trovate sul Tamigi: vedrete una foresta di alberi meccanici. Non è un’illusione ottica: la riva meridionale del fiume somiglia a un gigantesco cantiere. Sono già stati approvati piani per costruirci, nei prossimi dieci anni, duecentocinquanta grattacieli o perlomeno edifici di oltre venti piani l’uno. Un’esagerazione, dirà chi ama la Londra di casette vittoriane; ma intanto l’industria edilizia festeggia e ci sono all’opera più gru qui che in tutto il Regno Unito. Un’altra esagerazione. Ma è questa, ormai, la misura standard della capitale britannica. Sotto qualunque aspetto la si esamini, la città all’ombra (si fa per dire) del Big Ben sommerge il resto della nazione che le sta intorno. E pure, a spingere lo sguardo più in là, il resto d’Europa. E forse, a ben rifletterci, il resto del mondo. Nemmeno New York, scrive questa settimana il Financial Times, rappresenta la globalizzazione quanto Londra. In America, comunque, esistono altre grandi città: Los Angeles, Chicago. Il gigantismo di Londra divora e fa scomparire tutti.
Nei giorni scorsi ha raggiunto il suo record storico di popolazione: 8 milioni e 615 mila abitanti. Quarant’anni fa erano 6 milioni e mezzo. Tra dieci anni si stima che saranno ancora di più: 10 milioni (e sono già 12 milioni adesso, in effetti, contando gli sterminati sobborghi). Ancora più significativa del totale, tuttavia, è la composizione della popolazione: il 40 per cento degli abitanti sono nati all’estero, percentuale destinata a diventare maggioranza entro un decennio. Nelle sue strade si parlano 300 lingue. Ci sono almeno 50 comunità etniche di 50 mila o più persone: come dire 50 piccole città straniere racchiuse in una sola. L’etnia più numerosa? I polacchi. Noi italiani siamo al sesto posto.
Lo strapotere di Londra ha ucciso le altre città del regno. La seconda maggiore è Birmingham, 1 milione di abitanti: alzi la mano chi l’ha visitata. Manchester e Liverpool non decollano. Edimburgo vive del festival estivo e comunque ambisce a diventare capitale di uno stato indipendente – la Scozia. A proposito: il valore di tutti gli immobili di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, le tre regioni autonome del Regno Unito, è pari ai dieci quartieri più posh di Londra (che di quartieri, in tutto, ne ha 88). Il valore medio di una casa, nel resto del paese, è 220 mila sterline (270 mila euro). A Londra è più del doppio, mezzo milione di sterline. Nelle zone più chic come Chelsea e South Kensington è due milioni. Il boom del mattone è finanziato dai ricchi: tutti quelli della terra vogliono un pied-a-terre da queste parti e proprio ieri l’Independent ha rivelato un giro di paradisi fiscali e riciclaggio di denaro dietro gli investimenti immobiliari. Ma a Londra circolano più soldi anche per gli altri. Il reddito medio britannico è 25 mila sterline, quello di Londra 50 mila. Se Londra fosse una nazione, negli ultimi quattro anni il suo pil sarebbe cresciuto del 12 per cento, più del doppio di quello britannico.
E’ anche una città di forti diseguaglianze, con sacche di profonda miseria e costi proibitivi: in questi giorni una campagna di poster denuncia il caro- vita con lo slogan «sono costretto ad andarmene». E’ pure più violenta dell’immagine che se ne fanno i turisti a spasso per il centro: nel 2014 ci sono stati 93 omicidi (ma nel 2001 erano 200), le gang giovanili fanno stragi di adolescenti, l’ultimo un 15enne ucciso da una coltellata a Islington, quartiere alla moda dove un tempo viveva Tony Blair, per rubargli la bici. Eppure frotte di immigrati ci sbarcano da tutto il mondo, attirati come da una calamita che offre di più: più opportunità, più cultura, più tutto. Un columnist propone che diventi una città-nazione, suggerendo come confine l’M25, la circonvallazione che le gira intorno: lunga 275 chilometri, per avere un’idea delle dimensioni. Londra potrebbe perfino avere il proprio campionato di calcio e sarebbe di ottimo livello: ha 6 squadre di Premier League e altrettante in B. Due sono agli ottavi di Champions: più di quante ne ha l’Italia.
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Come ci racconta localmente, ad esempio, il blog del cronista Dave Hill sul Guardian, presumibilmente ignorato dal corrispondente italiano, questi due mondi delle scintillanti torri di Central London e delle diseguaglianze sociali e urbane, non sono solo due facce di una medaglia, ma hanno un vero e proprio rapporto di causa ed effetto: da un lato la consegna nelle mani delle finanziarie internazionali di quella enorme fetta di metropoli in via di trasformazione e speculazione, dall'altro la conseguente espulsione (a volte ai limiti della violenza) di tutto ciò che le è incompatibile, vale a dire le fasce di reddito basse, medie, a volte anche medio-alte. Così l'emergenza casa, nella mente un po' perversa dei Conservatori più liberisti, si traduce anche in emergenza all'italiana, da sfruttare a proprio piacimento per allentare i vincoli ambientali della greenbelt. Ovvero allarghiamo l'area metropolitana in quanto area costruita (più o meno come succede a Milano con le Tangenziali esterne del centrodestra) per dare nuove case agli espulsi dal centro. Mentre il sindaco Boris Johnson, grande sponsor di queste forme di investimento finanziario colonizzatore e micidiale, si fa bello per la sua idea di “mobilità sostenibile”, con un po' di biciclette e le piste sospese che piacciono tanto a certi disattenti ambientalisti di maniera. Con la devolution delle maggiori autonomie, richiesta per questa specie di città-stato moderna, il ciclo si chiuderebbe: speriamo in un rivolgimento delle maggioranze politiche, locali e nazionali (f.b.)
Bologna: nel traffico inquinante dei viali non moriranno solo gli ippocastani, ma soffocheranno anche gli umani. Ma ciò che conta, per gli amministratori d'oggi, è l'immagine. Postilla
Come cittadino, mi sento sempre più disadattato. La comunicazione politica mi irrita a causa del suo tenore mistificato e farlocco e nessuno si ribella. Guardate questa. «Bologna. Il 13 settembre si inaugura la Tangenziale della bicicletta .
Per i pochi che non lo sanno, Bologna anticamente aveva delle mura che furono abbattute verso la fine del XIX secolo. Al loro posto sorge oggi una sorta di lungo marciapiede che rinchiude la città in un anello che s’interrompe all’altezza delle antiche e ancora visibili (non proprio tutte) dodici porte, attraversate dalle vie radiali che conducono all’esterno verso Rimini, Ravenna, Modena, ecc. All’interno e all’esterno di questo marciapiede corrono le due carreggiate, ciascuna a doppia corsia, dei cosiddetti viali di circonvallazione.
Sorta di autostrada ancora cinquant’anni fa; oggi collo di bottiglia, specialmente in certe ore e all’altezza di certe porte. Sotto il marciapiede vivono, vivacchiano, sopravvivono o addirittura muoiono le radici di alti ippocastani che spuntano dalle aiuole e svettano verso un cielo raramente limpido. Farebbero un bel vedere in generale e anche ombra durante l’estate se non fossero ridotti alle condizioni di malati al Lazzaretto. Quando erano più in salute, lungo questo marciapiede capitava di passeggiare e di fermarsi a bere qualcosa o mangiare angurie e gelati presso uno dei tanti chioschi aperti nella bella stagione. Vi ricorda qualcosa il nome di Oliviero? Uno di quei chioschi ebbe un momento di notorietà nazionale quando negli anni ’80 Michele Serra dirigeva Cuore. Nella rubrica "Botteghe oscure", dedicata ad esercizi commerciali stravaganti anche solo nel nome, fu segnalata la Cocomerhouse, dove talvolta anche chi scrive, in una torrida e afosa notte felsinea, andò a rinfrescarsi materia e spirito.
Già molto ma molto tempo prima che l’aggettivo «verde» si applicasse alle teorie e alle pratiche ecologiche, quei viali erano percorsi da filobus elettrici frequenti, silenziosi e confortevoli; gioia per noi che non avevamo tante macchine e per gli ippocastani che si avvelenavano molto meno di oggi, ricambiando la loro gratitudine sul piano estetico.
Quel che successe in città dopo gli anni ’70 sul piano politico, amministrativo e sociale voglio soltanto accennarlo. Sarà stata la fine dell’«Età dell’oro del capitalismo», come la chiama J.Hobsbawm, sarà stato il ’77, saranno state la massoneria, le banche, le coop e la curia, sta di fatto che Bologna, da allegra e attraente che era, si è sempre più avvicinata alla definizione che ne diede anni fa il suo vescovo, quella di città «sazia e disperata». Dal sindaco Zangheri al sindaco Vitali l’aderenza delle amministrazioni ai movimenti sociali innovativi, nonché la loro credibilità politica, hanno raggiunto un livello disperante di credibilità. E se ciò che era stato promesso e impostato negli anni ’70 – Cervellati sull’urbanistica, Loperfido, Rebecchi e Ancona sul piano sociosanitario, ecc – non fu poi realizzato se non in parte, ciò fu dovuto alla sconfitta più generale della strategia delle riforme in Italia. Al contrario, quel che avvenne a partire dagli anni ’80 furono annunci roboanti, sul proscenio della politica parlata, e trattative e accordi dietro le quinte fra i poteri forti. Proviamo ad evocare.
1. Referendum nel 1984 sulla pedonalizzazione del centro storico. Favorevoli: 70%; applicazione: non pervenuta.
2. Annuncio della costruzione della metropolitana nel 1987. Oggi si fa ancora fatica a mandare avanti il progetto di sistema ferroviario metropolitano, con tutti i binari che corrono sul territorio comunale.
3. Alla fine del 1987 il rettore di Unibo Fabio Roversi Monaco annuncia la celebrazione del nono centenario dell’ateneo che si articolerà durante tutto l’anno successivo. Fu l’occasione che sancì la fine del centro storico come quartiere residenziale e il suo avvio a divenire «cittadella» degli studi, del divertimento, ecc. E oggi persino gli uffici comunali sono stati spostati in sede periferica.
E i nostri viali di circonvallazione? Qualcuno mi dovrebbe spiegare come mai, dinanzi alla previsione dell’ovvio, ossia l’aumento esponenziale del traffico automobilistico, mai seriamente contrastato da una politica incentivatrice del mezzo pubblico, nessuno abbia mai fatto nulla, salvo tagliare ogni tanto qualche albero ammalato. Non so cosa abbiano fatto gli studiosi, ma certo i politici non se ne sono dati pena. Nella nuova situazione di intasamento e inquinamento, chi ha potuto (chioschi e prostitute) si è spostato altrove; chi non ha potuto (gli alberi) attende sconsolatamente la sua fine.
La così proclamata «Tangenziale della bicicletta» corre proprio sul letto di morte di questi alberi. Il che è triste di per sé. Ma ancor più triste è rendersi conto della follia che deve aver colto qualche nostro amministratore. Al quale vorrei ricordare quanto avveniva nelle vecchie miniere di carbone. Si teneva un animale, cane o uccellino in gabbia. E quando lo si vedeva stramazzare, questo era il segno che ci si doveva rapidamente togliere da lì. Mancava l’ossigeno. Ora, non ci dice niente la sofferenza degli ippocastani? E che altro dovrebbe dirci se non il fatto che lungo i nostri viali di circonvallazione manca l’ossigeno? Ebbene, proprio lungo un percorso caratterizzato da deficit di ossigeno e dalla sovrabbondanza di gas derivati dalla combustione dei motori, lungo un percorso così si chiede a degli esseri umani di produrre lo sforzo supplementare del pedalare respirando quell’aria.
Magari fra dieci anni, a fronte di un aumento delle affezioni polmonari, benigne e persino maligne, qualcuno produrrà risultati statistici e qualcun altro farà la scena di tirarsi una secchiata d’acqua facendo finta di essere molto sensibile ai temi della ricerca. A questo qualcun altro la secchiata dovremmo tirarla noi e subito. Ma non di acqua...
P.S. – Mi dite perché chiamare tangenziale una cosa che tangenziale non è? Non sarà per via delle tangenti? Ma no, cosa vai a pensare!
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Lo sviluppo delle nostre città è stato, come sappiamo, mostruoso. Invece della razionalità ha dominato l’anarchia dello spontaneismo, invece dell’obiettivo del maggior benessere degli abitanti quello della massimizzazione del patrimonio dei proprietari immobiliari. Oggi patiamo le conseguenze di errori commessi nel corso di decenni. Un effetto devastante ha avuto la scelta politica di favorire, in Italia, la motorizzazione individuale. Il traffico automobilistico ha soffocato le città, e l’assenza di una corretta pianificazione del territorio ha peggiorato le cose. Le stagioni felici vi sono state, i tentativi di affrontare i problemi nel verso giusto anche. Vogliamo ricordare, a Bologna, il salvataggio delle colline, le battaglie per la pedonalizzazione e per la riqualificazione del centro storico, gli autobus a zero lire per i cittadini, quello per la pianificazione del territorio provinciale? Poi la stagione della speranza e dei tentativi che coglievano il punto è tramontata. Si affrontano i problemi un pezzettino alla volta, più attenti all’efficacia propagandistica dell’azione (o della promessa) che della sua efficacia. Perciò nascono i paradossi che Carlo Loiodice denuncia. Ricordo che a Strasburgo, in Francia, quando gli amministratori decisero di istituire una modernissima linea di tram urbano nel centro cittadino, i tecnici comunali si impuntarono e pretesero che, nell’occasione, si riprogettasse completamente l’intero assetto fisico della sede stradale, da parete edificata a parete edificata (da mur à mur) portando tutta l’area pedonale al livello dei predellini del tram, pedonalizzando dovunque possibile e riducendo al minimo l’accesso alle automobili. Sarebbe stato bello se si fosse operato così anche a Bologna, riprogettando l’insieme della sede dei viali assicurando la priorità nel progetto alla salvaguardia della salute e del verde, alla mobilità dei pedoni e dei ciclisti e all’utilizzazione di impianti meccanizzati per il trasporto collettivo in alternativa all’automobile individuale.
Ma i politici (gli eletti) avrebbero dovuto avere due requisiti, che oggi sono del tutto assenti: la capacità di una visione di lungo periodo, centrata sull’obiettivo del benessere degli abitanti, a partire dai più deboli, e quella di scegliere gli strumenti adatti. Due di questi, particolarmente utili, sono oggi addirittura in via di liquidazione: una buona “burocrazia “, cioè un apparato tecnico-amministrativo motivato, capace, autorevole, e il ricorso sistematico al metodo della pianificazione, cioè dell’unico metodo di rispondere in modo efficace e trasparente a un insieme di problemi le cui soluzioni sono interconnesse.
« La "paradisiaca» campagna attorno a Palermo, ricoperta di agrumeti, teatro da decenni di speculazioni edilizie e terra di conquista delle mafie senza alcun contrasto, è ancora priva di tutele. Mentre nuovi interessi preparano un altro assalto cementizio». Il manifeso, 17 luglio 2014
Meno di quarant’anni fa, Fernand Braudel, in un suo saggio sulle terre del Mediterraneo, riservava l’attributo che è proprio di un paesaggio perfetto esclusivamente alla campagna attorno a Palermo: la Conca d’oro, ricoperta di alberi di limone e mandarino, era «paradisiaca». Ma già da vent’anni era arrivato l’inferno. Tra il 1965 e il 1970 ogni anno avevano cambiato uso oltre 200 ettari – 3000 nei due decenni – e da terre di leggendaria fertilità erano diventate una brutta periferia di cemento e di asfalto. Fu «il sacco di Palermo». Mafia, politica e affari avevano assunto un unico volto: quello di Lima e Ciancimino, con la complicità della Chiesa e dell’aristocrazia proprietaria, nel silenzio della borghesia e degli intellettuali con la sola eccezione del giornale L’Ora.
In quegli anni si raggiungeranno, scriverà la Commissione Antimafia, «vertici sconosciuti nell’inosservanza delle leggi» e gli orti e i frutteti che costituivano il prevalente uso del suolo, esprimendo al meglio i caratteri di utilità e bellezza che sono propri delle pianure costiere mediterranee fertili e irrigue, si ritrovarono ai margini della piana, fazzoletti profumati e colorati tra i palazzi della speculazione. Solo qualche ampio agrumeto resisteva ancora integro: nella borgata di Ciaculli la mafia li aveva riservati per sé, futuro bottino mentre procedeva all’assalto del centro storico. Il consumo di suolo, negli anni che seguirono, si attenuò appena, scese a 70 ettari tra il 1990 e il 2000 e quindi arrivò a 40. Il sacco di Palermo sembrava però non avere fine: prima il Quartiere Zen, monumento all’autocompiacimento degli studi di architettura, poi le 314 villette arrampicate sulla «collina della vergogna», quindi l’abusivismo irrefrenabile (60.000 richieste di condono) e centri commerciali su oltre cento ettari. L’ultimo di questi, aggiungendo la beffa al danno, fu battezzato «Conca d’oro».
Non servì neanche un buon piano regolatore. Quello di Cervellati, redatto nel 1994 ma definitivamente approvato nel 2002, riservava grande attenzione al verde agricolo: l’agrumeto di Ciaculli – il più vasto e integro della città – benché privato, veniva vincolato come bene di interesse pubblico. In quegli anni un progetto finanziato dalla Ue, che mirava alla creazione di un parco agricolo periurbano, regalò alla città il premio di “città sostenibile”, agli agricoltori l’acqua per irrigare a metà prezzo e continuare così a coltivare con profitto gli agrumeti storici, agli abitanti e ai turisti il piacere di passeggiare tra le zagare e i frutti degli agrumi. Durò poco, appena un anno: la politica locale non lo considerò prioritario e la Regione si limitò, nell’approvazione del Prg, a considerare i giardini (così i siciliani chiamano i loro frutteti) di Ciaculli normale zona di verde agricolo. Si apriva la strada alle varianti: quella dei centri commerciali, delle cooperative edili e dei piani integrati mentre nuove concessioni occupavano le aree ancora disponibili del piano regolatore.
Nel 2012, reputando necessario avviare la revisione del piano Cervellati, la giunta della nuova amministrazione Orlando votò le direttive generali per la formazione del nuovo Prg: abusivismo e varianti avevano mutato lo stato dei luoghi e bisognava soddisfare gli standard urbanistici. Come se non bastasse, la precedente amministrazione — di centrodestra — si era esercitata in un immaginifico piano strategico che, nel nome della «valorizzazione delle risorse ecologiche e ambientali», prevedeva centri direzionali, nuovi mercati generali, una tangenziale che riuniva le due autostrade verso Trapani o Messina, un “water front” che riqualificava i porticcioli della costa. Il consumo di suolo era pronto a riprendere nuova lena. Porti turistici nelle borgate di pescatori, nuovo cemento sugli agrumeti e una tangenziale da incubo: alle pendici delle montagne che chiudono la Conca, 18,5 chilometri con 6 svincoli, un viadotto di mille metri e cinque gallerie per complessivi 9 km, con grandi rischi di dissesto idrogeologico in un territorio già compromesso e un costo previsto di 800 milioni di euro che la stessa Anas, che ha redatto lo studio preliminare, definisce ai limiti della sostenibilità. Facile immaginare – è la lezione del sacco – cosa succederebbe dei residui ettari di verde al di qua della tangenziale pedemontana.
Le direttive del nuovo Prg del 2012 parlano di assenza di armonia tra il vecchio Prg e il piano strategico, che più volte viene dichiarato superato, ma mai formalmente respinto. La sua presenza tra gli allegati alle direttive alimenta anzi una continua polemica tra chi non si accontenta di generici impegni ma vorrebbe atti chiari: un no deciso alla tangenziale e uno stralcio nel vecchio Prg, annunciato ma mai arrivato, delle zone verdi esistenti per evitare nuove urbanizzazioni, come quelle in variante del cimitero da realizzare proprio a Ciaculli o dei nuovi mercati generali nel quartiere di Bonagia su un’area di oltre 20 ettari, che confina con il ninfeo barocco della settecentesca Villa Trabia di Campofiorito. Un clima di sospetto permane tra l’amministrazione e la gran parte delle associazioni di cittadini, che invocano quel processo di urbanistica partecipata annunciato, ma mai decollato per reciproche diffidenze.
In attesa che si istituisca l’ufficio del nuovo piano o, come si è anche ipotizzato, si proceda adeguando il vecchio con definiti piani particolareggiati, il futuro urbanistico di Palermo rimane incerto, tra notizie allarmanti: un nuovo centro commerciale, un mega acquario, l’idea mai abbandonata di un centro direzionale.
A chi teme un nuovo assalto cementizio non può bastare che si scriva che deve contenersi il consumo di suolo. Servono politiche concrete e non adesioni a slogan. Potrebbe bastare dare seguito a due delibere di giunta. Una riguarda i 235 ettari della Favorita, parco ibrido tra aree naturali, giardini storici e paesaggi agrari tradizionali, per il quale è necessario arrivare a un piano di gestione; e non bastano populistici proclami di chiusura al traffico di strade oggi irrinunciabili per collegare la frequentatissima borgata balneare di Mondello. L’altra riguarda quel 25% della superficie complessiva della Conca d’oro ancora non coperto dal cemento e per la cui salvaguardia si deve puntare ad una difesa attiva degli spazi verdi che promuova l’attività agricola, incentivando vecchi e nuovi produttori e, considerando l’ interesse pubblico, sostenga gli interessi ambientali, sociali, culturali e non sia affidata solo alla legge del mercato per quanto interessato a tipicità e qualità. Se così non fosse, se non si riuscisse a sostenere la presenza degli agricoltori, all’abbandono dei giardini, come avviene in misura ogni giorno crescente, seguirebbe l’invasione dei rovi e degli ailanti, la morte degli alberi da frutto, gli incendi, le discariche, l’abusivismo e poi, chissà, nuovi palazzi.
Non si tratta di affermare una visione nostalgica che guarda a un glorioso passato agricolo ma operare – e, essendo stato assessore all’ambiente fino allo scorso aprile, penso che ce ne siano tutte le premesse politiche – per la nascita di un sistema agricolo locale, urbano e periurbano, centrato sul raccordo (a km zero) tra produzione e consumo, sul riconosciuto ruolo polifunzionale dell’agricoltura non solo produttrice di alimenti, ma anche depositaria di valori e di stili di vita, capace di gestire in modo equilibrato le risorse naturali e ambientali e di tutelare e salvaguardare un paesaggio agrario tra i più illustri.
Per giungere a questo, grazie alla spinta di un comitato civico costituito da più di settanta enti e associazioni, veniva firmato un protocollo d’intesa con la Regione che avrebbe dovuto portare ad un piano di investimento integrato per utilizzare le risorse della programmazione comunitaria 2014–2020. Con la Favorita (tra i più grandi parchi urbani nel mondo, ricco di storia e natura), con la rinascita dell’agricoltura della Conca d’oro, insieme al recupero dei giardini di cultura islamica del Genoard, con i tanti giardini storici che percorrono la storia del paesaggio mediterraneo, con una diversa attenzione a un sistema verde multifunzionale di eccezionale valore, vale la pena di riproporre la domanda che Guido Piovene si pose in un suo viaggio in Sicilia del 1957: «Come sarà Palermo tra una cinquantina d’anni? Forse nessuna città italiana costringe a questa domanda con tanta nettezza».
Tutti piangono la città, la società e l'ambiente feriti a morte, insieme a lavoro e operai. Quarant'anni fa si prevedevano le conseguenze, nessuno ascoltava, Cederna considerato una Cassandra: ma le visioni della sacerdotessa di Apollo erano sempre giuste. Il manifesto, 15 maggio 2014
«Soffocata a occidente dall’enorme zona industriale (centro siderurgico Italsider) e a oriente da una sgangherata espansione edilizia, Taranto offre oggi al visitatore uno spettacolo raccapricciante, esempio da manuale di che cosa può produrre il sonno della ragione, cioè il sistematico disprezzo per le norme elementari del vivere associato nel nostro tempo». Non è un’inchiesta dei giorni nostri, è un articolo profetico di Antonio Cederna sul Corriere della Sera del 18 aprile del 1972, quarantadue anni fa. In un pezzo di qualche giorno prima aveva scritto: «Era logico pensare che un’impresa così gigantesca che coinvolge tutto il territorio dovesse essere inquadrata in un provvedimento urbanistico ed economico strettamente coordinato e integrato con ogni altra attività (agricoltura, media e piccola industria, difesa delle risorse ambientali, edilizia economica e popolare, eccetera) provvedendo nello stesso tempo ad affrontare i problemi creati dal proprio peso schiacciante (dalla progressiva analisi del traffico all’inquinamento dell’aria e dell’acqua).
Niente di tutto questo: è triste dover riconoscere che l’industria a partecipazione statale, che beneficia di enormi contributi e agevolazioni da parte dello Stato pretende di far a meno di piani che appena esorbitino dal suo limitato settore e, giovandosi della debolezza dei responsabili a tutti i livelli, impone le proprie scelte particolari alla comunità». Cederna si riferisce al raddoppio (da mille a duemila ettari) del centro siderurgico allora avviato, con lavori ciclopici che alteravano la geografia dei luoghi, in contrasto con gli strumenti urbanistici.
Eppure, in quegli stessi anni, il Comune di Taranto era attraversato da sorprendenti spinte innovative, quasi contemporaneamente a Bologna, e cominciava a progettare il recupero del centro storico, cioè di Città Vecchia, l’isola, anima e simbolo di Taranto, che separa il Mar Piccolo dal Mar Grande, dove si erano insediati i primi coloni greci. Fu una vicenda straordinaria legata al nome dell’architetto Franco Blandino, che ha dedicato la vita allo studio, alla conservazione e alla rinascita della sua città (esperienza che Enrico Grifoni e altri giovani urbanisti stanno cercando di rilanciare). Nel 1974 il Consiglio d’Europa riconobbe a Bologna e a Taranto il primato in materia di recupero del patrimonio abitativo storico. E grazie alle leggi di riforma degli anni Settanta e a cessioni volontarie il comune acquisì circa trecento alloggi degradati destinandoli a edilizia popolare. La maggior parte delle poche famiglie che oggi abitano nella Città Vecchia sono inquilini di quegli alloggi. Il recupero andò avanti abbastanza coerentemente fino all’inizio degli anni Ottanta, sostenuto in particolare dal sindaco comunista Giuseppe Cannata, in carica dal 1976 al 1983.
Poi, a mano a mano, è cambiato tutto e il recupero è finito su un binario morto. Nel 1993 fu eletto sindaco Giancarlo Cito, una specie di Berlusconi in formato ridotto. Anche lui, all’inizio degli anni Novanta, usando spregiudicatamente una sua televisione locale, raccolse crescenti consensi e nel 1993 fu eletto sindaco con un suo partito, AT6 — Lega d’Azione Meridionale. Assunse iniziative spettacolari, ma durò poco. Nel 1995 fu rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Deputato nel 1996, è stato poi definitivamente condannato e incarcerato. Da ricordare anche Rossana Di Bello, la prima donna sindaco di Taranto dal 2000 a 2006, esponente di Forza Italia, che provocò un pauroso dissesto nelle finanze comunali.
Intanto Taranto diventa sempre più «la piccola appendice di un gigantesco monnezzaio» (Adriano Sofri). Accanto al più grande centro siderurgico d’Europa convivono un porto industriale, una raffineria, un cementificio, due termovalorizzatori, centinaia di altre attività cresciute vertiginosamente: un immane complesso industriale è scagliato addosso a una città dalle strutture fragilissime. Dall’inizio dell’industrializzazione, la superficie urbanizzata si è almeno decuplicata, da circa 500 a oltre 5.000 ettari, più della metà per attività produttive.
Una città e un paesaggio fino a cinquant’anni fa di emozionante bellezza, sono oggi irriconoscibili. L’isola versa in condizioni orribili, è in rovina, in gran parte disabitata e murata per impedire l’accesso nelle aree a rischio di crolli. I muri esposti ai venti che vengono dalla fabbrica sono marcati dai segni rossastri delle polveri dei parchi minerari criminosamente collocati a ridosso del cimitero, del centro storico e del quartiere Tamburi. Ai bambini del quartiere è proibito giocare negli spazi verdi (si fa per dire) contaminati da berillio, antimonio, piombo, zinco, cobalto nichel e altri veleni. La rovina colpisce anche la campagna in gran parte trasformata in una sconfinata e desolata distesa di sterpaglie bruciate dal sole e dagli incendi. Viene proibito l’allevamento del bestiame e sono soppressi gli animali contaminati. Sono state smaltite in discarica montagne di cozze coltivate nel Mar Piccolo.
Ma la politica locale e nazionale e i sindacati stanno dalla parte dell’industria, in difesa purchessia del lavoro, poco attenti alle conseguenze micidiali di una dissennata industrializzazione. I primi controlli ambientali a norma di legge cominciano nel 2006 con la presidenza di Nichi Vendola alla Regione Puglia. All’assenza di politiche pubbliche la città risponde con la ricerca privata di migliori condizioni ambientali. I tarantini voltano le spalle alla fabbrica e fuggono verso est, da capo San Vito a Marina di Pulsano e oltre, in quella «sgangherata periferia» che dalla denuncia di Cederna del 1972 ha continuato a essere comandata dal cemento e dall’asfalto. In trent’anni, i residenti in città sono diminuiti di circa 30 mila, una specie di si salvi chi può.
La scena cambia repentinamente nel luglio del 2012, quando la giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco impone all’Ilva della famiglia Riva di sospendere la produzione fino a quando non fossero eliminate le emissioni nocive. L’Italia del Palazzo rimane spiazzata e cerca impossibili compromessi. Il ministro dell’Ambiente Corrado Clini arriva a negare la storia sostenendo che è stata la città a circondare la fabbrica. Il contrasto fra la magistratura da una parte e il governo e l’Ilva dall’altra diventa imbarazzante e settori sempre più vasti dell’opinione pubblica si schierano a sostegno della magistratura.
Si susseguono le inchieste, i servizi giornalistici, le interviste, i sondaggi, che affrontano soprattutto il rapporto fabbrica-salute dando conto dei gravissimi danni inflitti ai lavoratori e a tutti i tarantini dall’apocalittico inquinamento. Ma non mancano le disperate dichiarazioni di chi preferisce la morte alla disoccupazione.
La vasta discussione sull’inquinamento trascura però quasi del tutto le vistose responsabilità del Comune e degli altri pubblici poteri in materia di politiche territoriali. Mentre avanza il degrado, le scelte più importanti fra Comune e Regione hanno riguardato il discutibile impianto — in località Cimino, in prossimità del centro commerciale Auchan e della lottizzazione Sircom, sempre nella sgangherata periferia orientale — del nuovo polo ospedaliero S. Cataldo, che sostituisce l’antico ospedale della SS. Annunziata e quello più recente di Statte.
Invece, a Taranto, proprio per compensare la prepotenza di una spietata industrializzazione sarebbe stato importante — è importante — un impegno eccezionale di Comune e Regione per non arrendersi alla spirale perversa della degradazione e dell’abbandono. Ma forse non tutto è perduto se in un recente documento di Anna Migliaccio destinato alla Regione si legge quanto segue. «Per riconciliare ambiente e società bisogna approntare la cura per i danni accertati e, contemporaneamente, costruire una nuova via allo sviluppo locale, ripartendo dai valori patrimoniali resistenti. Taranto è una città ancora ricca di risorse e, malgrado le offese, capace ancora di convincente bellezza. (…). Dallo splendore resistente di questa antichissima città del Mediterraneo si può e si deve ripartire per ritrovare il bandolo del futuro»
Un articolo sul nodo di Sant'Elia e un'intervista al sindaco Massimo Zedda completano l'inchiesta su Cagliari oggi. Il manifesto, 17 aprile 2014
IL COMUNE SI GIOCA LA PARTITA
di Costantino Cossu
Sant’Elia. Qui all’inizio c’erano soltanto paludi, sull’orlo del mare, di fronte all’enorme spazio azzurro d’acqua e di cielo del Golfo degli Angeli. Era la zona più a sud della città, poche case, un intrico di viuzze attorno al campanile della chiesa. Un borgo abitato da pescatori. Da loro lavoro veniva il pesce che finiva nel vecchio mercato di San Benedetto. Prima ancora del borgo, nel Seicento che a Cagliari fu spagnolo, qui avevano messo, per decreto vice regio, il Lazzaretto, il luogo per la cura dei lebbrosi, degli intoccabili. Restò tutto più o meno così (a parte il Lazzaretto,da fine Ottocento abbandonato e cadente) sino ai primi anni Settanta del secolo scorso.
Dopo la ferita dei bombardamenti del 1943, che avevano raso al suolo buona parte del cento storico, Cagliari negli anni del boom economico (i Cinquanta e poi per tutti i Sessanta), era cresciuta. Sede dell’amministrazione regionale, centro politico ma anche economico dell’isola. Un’imprenditoria quasi tutta legata ai traffici commerciali con la penisola, comprare e rivendere, rivendere e comprare. Poca industria vera, sino all’arrivo dei Moratti con la loro raffineria a Sarroch, sul finire degli anni Sessanta. Ma anche, in una città in tumultuoso sviluppo urbanistico,speculatori edilizi e palazzinari. Nei primi anni Settanta a Sant’Elia accaddero due cose che cambiarono per sempre il volto del quartiere: la decisione di trasformare la ex zona paludosa bonificata in un’area di edilizia popolare e quella di costruire al limite est il nuovo stadio del Cagliari Calcio.
Decisioni prese da un’amministrazione comunale di segno moderato, dominata dalle correnti democristiane più conservatrici. Alle quali, però, nessuno si oppose. Cagliari cresceva in popolazione a ritmi esponenziali, la fame di case era grande. E poi la squadra di football era quella dello scudetto, la squadra di Gigi Riva “Rombo di tuono”: si poteva negare all’undici guidato da Manlio Scopigno, che aveva regalato a una città mezzo nobile d’antico lignaggio iberico e mezzo stracciona un sogno che sembrava impossibile? No. E così, sotto la piccola collina dove continuavano a stare i pescatori, nell’avvallamento dove prima era soltanto acqua stagnante e saline, sorsero enormi orrendi palazzoni dove mettere quelli che cercavano casa e non potevano permettersi i prezzi di mercato. E insieme ai casermoni, lo stadio nuovo. Due simboli del benessere conquistato, una carta di credito per l’ingresso nel palcoscenico sul quale si costruiva una miserevole identità nazionale
«RESTAURO E RIUTILIZZO
PER FERMARE IL SACCHEGGIO»
intervista di Costantino Cossu al sindaco Massimo Zedda
Che cosa significa, per uno che sta a sinistra, diventare sindaco di una città governata per decenni, dal secondo dopoguerra in poi, da forze politiche espressione di un blocco sociale conservatore che ha dato al tessuto urbanistico la forma corrispondente a ben precisi interessi economici? Massimo Zedda, prima Pd e poi Sel, è diventato sindaco di Cagliari il 30 maggio del 2011, alla testa di uno schieramento di centrosinistra. Una svolta, in larga parte inattesa. Un’occasione storica.
La sua elezioni a sindaco, quasi tre anni fa, rappresentò una rottura e accese le speranze di un cambiamento radicale. Che bilancio si può fare oggi?
Abbiamo dato uno stop netto al saccheggio urbanistico della città. Ci siamo mossi da subito lungo una linea di adeguamento del piano urbanistico comunale alle direttive di tutela sancite dal piano paesaggistico approvato nel 2006 dalla giunta Soru. Abbiamo approvato il piano particolareggiato del centro storico, il piano della mobilità, il piano di utilizzo dei litorali. Tutto secondo un’ottica di restauro e di riutilizzo del patrimonio edilizio già esistente, in particolare di quello di proprietà pubblica: del comune, della Regione Sardegna, del demanio. Basta con l’aumento delle volumetrie e con il dissennato consumo del territorio. Rispetto al passato è una svolta radicale.
Qualche vostra decisione in dettaglio?
Intanto la pedonalizzazione di vaste aree del centro storico, in passato intasate e snaturate da un traffico caotico, senza regole. Meno auto private e un potenziamento del trasporto pubblico e la definizione di un sistema di parcheggi intorno al centro, con l’obiettivo di fornire un servizio a chi usa le auto per arrivare dalle periferie senza che questo significhi, come nel passato, l’invasione delle strade e delle piazze da parte del traffico privato. Tenendo conto anche che il centro storico di Cagliari è molto ampio. I quattro quartieri antichi di Marina, Stampace, Villanova e Castello insieme coprono un’area molto più vasta, ad esempio, di quella della parte storica di una città come Praga.
Per la spiaggia del Poetto che cosa avete fatto?
Come si sa quel litorale nel passato recente è stato devastato da un ripascimento disastroso. Al problema dell’erosione della spiaggia si è risposto aggiungendo sabbia prelevata dai fondali al largo del Golfo di Cagliari. Con esiti che hanno modificato le caratteristiche ambientali di un sito che per la città ha una rilevanza anche urbanistica centrale. Noi abbiamo puntato invece su interventi strutturali, che hanno come obiettivo quello di una riqualificazione urbanistica dell’intero litorale, che si estende per otto chilometri dalla Sella del diavolo sino alla città di Quartu. Abbiamo trovato i fondi per un progetto che è già in fase esecutiva e che modificherà in maniera sostanziale il volto e la funzione urbanistica di tutta la zona. Istituiremo, ad esempio, un’area pedonale che sarà una specie di cordone tra la spiaggia e la strada che corre parallela all’arenile.
Il tessuto urbanistico di Cagliari è ricco di aree demaniali in uso a strutture militari. Cosa avete fatto per recuperarle alla città?
Come amministrazione comunale abbiamo cercato di costruire un fronte unitario con la Regione Sardegna per aprire un confronto con il ministero della Difesa che consentisse una “liberazione” se non totale almeno parziale di quelle aree, che sono davvero molto vaste e tutte di grande pregio urbanistico e ambientale, dai vincoli militari. Non abbiamo trovato grande sensibilità nella giunta di centrodestra presieduta da Ugo Cappellacci. Contiamo di riprendere il discorso con il nuovo esecutivo, guidato da Francesco Pigliaru dopo la vittoria del centrosinistra alle elezioni regionali dello scorso febbraio.
E per le periferie? In particolare per Sant’Elia?
Sant’Elia in realtà non è una periferia. È un quartiere ormai pienamente inserito nel cuore del tessuto urbanistico. Lì esiste un enorme problema di disagio sociale e di emarginazione che stiamo affrontando attraverso la creazione di strutture permanenti di integrazione sociale. Le scelte che sono state fatte in passato hanno trasformato Sant’Elia in un corpo separato. Correggere quelle storture è uno dei compiti che ci siamo assegnati. Vedere la questione soltanto in termini di ordine pubblico è sbagliato. Bisogna puntare invece ad inserire pienamente il quartiere nella vita della città. Ed è esattamente questo che stiamo cercando di fare, con non pochi risultati incoraggianti
«La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama "sviluppo"». .Il manifesto, 17 aprile 2014
I nuragici ermetici. Poi i Fenici tracciano le rotte. Poi la città diventa Punica e poi romana per molti secoli. Poi i Vandali. Poi Bisanzio e i due evi medi. L’epoca dei Giudicati, le invasioni moresche, i Pisani e i Genovesi. Eleonora d’Arborea e il suo nuovo ordinamento, la Carta de Logu. Poi, a lungo, gli spagnoli e la decadenza. Il Settecento, i Savoia, il Regno di Sardegna la rivoluzione poi e la modernizzazione ottocentesca. Gli echi del Risorgimento.
Poi il XX secolo. Antonio Gramsci fa il suo liceo a Cagliari. La carneficina della Grande Guerra. Pastori e contadini, riuniti nella Brigata Sassari mandati a morire sul Carso e Emilio Lussu. Poi il fascismo, la seconda guerra, l’occupazione tedesca senza sangue, i bombardamenti anglo-americani del ‘43. La città inizia la sua ricostruzione e l’inurbamento è feroce. Nasce una nuova classe dirigente insieme ai nuovi brutti quartieri, anni 50 e 60, che la raffigurano. L’edilizia caccia via l’architettura. Impresari e commercianti disegnano la città sulla propria immagine e producono una generazione politica conformata, come un calco di gesso, alla loro visione materiale delle cose. I cosiddetti intellettuali si rifugiano in un mondo sognante vicino all’infanzia, lontano dalle azioni.
Ma qualcosa cambia negli ultimi decenni. Si smette di masticare i fiori di loto e la memoria ritorna nella testa di alcuni. La città si guarda, si riconosce. Si risveglia un’anima critica che comunica, osserva ed è interessata alle proprie origini. E ricava energia dal passato senza essere passatista. Guarda indietro per essere moderna perché quando uno sa da dove viene non ha bisogno di altro. E si oppone alla frenesia del fare a tutti i costi. Però l’altra anima, quella mercantile, resta forte.
La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama «sviluppo» mentre dimostra che quando la politica si confonde con l’impresa ci si ammala di un morbo che si chiama sviluppite.
Cagliari è un’incubatrice di questa malattia. Però la storia è incancellabile. I luoghi resistono e mettono in movimento gli avvenimenti. I morti della necropoli di Tuvixeddu possiedono la forza dell’assoluto e ancora determinano conseguenze. La rocca medievale resiste ai tentativi di renderla «progredita» con scale mobili e ferraglia. Il promontorio sacro della Sella del Diavolo resterà intatto anche se la città famelica gli gira intorno. E l’acropoli di Castello resisterà ai nuovi assedianti che oggi vogliono un volgare garage dentro le sue mura.
Nel 1956 avevo cinque anni. Il braccio quasi lussato quando passeggiavo a traino delle mani inaccessibili di mio padre, il lungomare, il mercato al centro della città, le barche che tornavano tanto cariche che i pescatori stavano in piedi sui cumuli di pescato, allora i polpi sembravano piovre, le anguille scappavano dalle cesti nelle corsie del mercato, i pesci boccheggiavano. Era bello e sarebbe stato più bello ancora se fosse durato.
Ma i fatti si muovevano per necessità che non comprendevo. E non obbedivano a nessuno. Ero troppo piccolo per capire cosa accadeva alla mia città, troppo basso per vedere le prime gru. Oppure, semplicemente, non guardavo perché, appeso alla mano di mio padre, osservavo solo le cose vicine oppure l’orizzonte marino, l’unico orizzonte per me.
So che i monti che vedevo a meridione erano il profilo dei monti del golfo, ma allora credevo che fosse l’Africa perché sentivo ripetere che la città più vicina alla mia era Tunisi. Poche ore di traversata.Dalle mie rive, certo, non si vedeva l’Africa. Fu una delusione. Però continuai a crederci.
Un giorno mamma ci portò a vedere una nuova meraviglia che il maestro, ammirato dal progresso benché conservasse la sua casa come un salotto di Nonna Speranza, ci aveva già annunciato a scuola. Il grattacielo.
Be’, era solo un brutto palazzo di dodici piani. Ma era il nuovo presente e tutti volevano solo presente e futuro. Mai visto dal vero un palazzo così alto.Non fu stupore quello che provai vedendo quel lungo parallelepipedo grigio con decine e decine di finestre funerarie. Ancora oggi ricordo la sensazione di perdita che provai e ricordo che non compresi, ero troppo bambino, quel sentimento.
Quella costruzione infantilmente chiamata grattacielo, che ancora esiste, ha segnato la nascita in città dell’eternamente brutto. Sì, quel palazzo era brutto dalla nascita, talmente brutto che diventò proverbiale.
Però il brutto è epidemico e quando inizia si moltiplica con enigmatica testardaggine. Non lo fermi più. Deve, si vede, necessariamente trascorrere e concludersi un’epoca.
Eppure tutti vedevano. Fu un’amnesia di massa che non è mai cessata da allora. E chissà se riacquisteremo mai la memoria. Ma, l’ho detto, tutti volevano abbandonare il passato, anche quello buono.
Mia nonna, mentre passeggiavo e giocavo in un terrapieno da dove si vedeva la città in basso, mi disse un giorno che cominciava a esserci troppo cemento e che tutti questi nuovi arrivati dal contado — così chiamava gli inurbati che arrivavano da ogni parte dell’isola — stavano rendendo deforme la città. Che lei era comunista, ma questo non le impediva di capire che c’erano persone rese feroci proprio dall’arrivo in città e che avevano l’urgenza di far vedere chi erano. Che costruire un muro, una casa, un palazzo era il modo più facile di far vedere quello che si vale. E che un ignorante non sa mai di essere ignorante.
Appena tirano su un muro si fanno chiamare cavalieri e commendatori, ripeteva. D’altronde il cemento aveva reso facile e possibile a tutti l’azione di costruire. L’intera nazione ribolliva di cemento, ma io non lo sapevo. E neppure nonna. Però osservava la sua città.
Lei vedeva la bruttezza del cemento, capiva che non si può mettere insieme cemento e pietra perché invecchiano in modo diverso, che la pietra si smussa e che il cemento faceva solo angoli.
Il cemento è un materiale che non sa invecchiare. La pietra, invece, è già vecchia, esiste da milioni di anni. Il cemento costringe chi lo usa a disegnare forme squallide.
Era squallido anche il bar aperto al piano terra nel «grattacielo», cattive le brioche, il caffè puzzava di bruciato e un moscone giaceva a pancia all’insù, mummificato per sempre in un angolo della vetrina pretenziosa. Dentro quel palazzone c’erano però alcuni segnali importanti del presente che seduceva la comunità e la convinceva che il passato era vergognoso.
Però è vero che nella mia città una luce che non finiva neppure la notte e un sole felice anche d’inverno mi facevano sentire fortunato e lontano da ogni pericolo.
Traslocammo nel 1962 in una nuova casa. E tutto mutò.
La nostalgia è un sentimento indispensabile, ma deve essere organizzato. Sennò si soffre. Oltretutto distorce, nelle sua forma malata, la realtà, i ricordi e l’interpretazione del presente.Traslocammo, dicevo, che avevo dodici anni. Una casa luminosa, moderna, con due bagni, con davanzali, una portineria, l’ascensore e vicina all’orto botanico.
Quel quartiere era il confine della città storica, però mi sembrava un salto nel futuro. E ogni volta che passavamo vicino alla vecchia casa trascinavo la mano che mi conduceva per entrare dentro il portone. Come quei cani che tirano quando sono vicini alla casa del padrone morto.
Il trasloco cambiò i giorni e le ore della famiglia, cambiò perfino l’espressione dei genitori, il linguaggio, i vestiti, le abitudini a tavola, la pulizia domestica e perfino l’igiene del corpo, gli odori e la memoria degli odori .Il trasloco è l’allegoria del cambiamento inevitabile, ma non necessario.
Con il camion carico di mobili apparve la differenza tra presente e passato, tra una fine e un inizio.
Babbo aveva battuto a macchina il suo nome su un foglio, ritagliato la striscia di carta e l’aveva infilato nella fessura del nuovo campanello. Poi aveva letto a voce alta il proprio nome e schiacciato il pulsante. Quel trillo era il segnale della città nuova.
Riferimenti
Le precedenti puntate della serie di inchieste sulle città italiane dopo 30 anni di neoliberalismo sono state dedicate a Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio), Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), Parma (20 marzo 2014) Roma(27 marzo), Firenze (3 aprile), Reggio Calabria e Messina (10 aprile).
Prosegue l'analisi del manifesto sulle cittàitaliane. Dopo Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio),Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), Parma (20marzo 2014) Roma(27 marzo), Firenze (3 aprile) due città di frontiera che vogliono diventareuna: la più grande del Mezzogiorno. Prossimamente Torino e Cagliari, 10 aprile 2014
Tra la punta dello stivale e la Sicilia c’è un tratto di mare, di poco più di tre chilometri che alcune volte diventa un lago salato, facile da attraversare con una piccola barca a remi, ma anche a nuoto come avviene ogni anno il 15 agosto e a Capodanno per un antica tradizione. Altre volte questo mare si agita, ha le convulsioni, solo le grandi navi portacontainer riescono a passare mentre le due rive si allontanano, l’Aspromonte scompare dalla vista dei messinesi e un’ombra scura sulla costa siciliana impedisce ai reggini di vedere Zankle, Messene, Messina.
Reggio e Messina, città sorelle e, a volte, acerrime nemiche, hanno vissuto nel corso della storia le stesse catastrofi naturali (più di venti terremoti/maremoti catastrofici di cui i più recenti sono stati il 1783 e il 1908) che ne hanno segnato la memoria e l’identità, ma hanno anche intrecciato e mescolato le popolazioni delle due sponde, le culture e i riti religiosi, la gastronomia e il dialetto. Reggio è la meno calabrese delle città della Calabria così come Messina è la meno siciliana: sono città di frontiera, rispetto a Palermo e Catanzaro, i capoluoghi regionali. Appartengono allo Stretto, a questo paesaggio unico al mondo, carico di miti antichi quanto la nostra civiltà, di fenomeni naturali straordinari (come la fata Morgana), di uno skyline armonioso e suggestivo che solo la follia dello sviluppismo delle grandi opere voleva deturpare e distruggere con la costruzione del faraonico Ponte. Un’opera voluta anche dai siciliani e calabresi che vivono lontano dallo Stretto e vedono questo tratto di mare come un ostacolo, una perdita di tempo, perché non sanno godere di questo spettacolo perenne che unisce le due città, come la vite che s’intreccia all’ulivo.
Ricostruite dopo il terribile terremoto del 1908, il più devastante al mondo per numero di morti (oltre 100.000) durante il secolo scorso, le due città hanno seguito traiettorie diverse sul piano socio-economico. Durante il fascismo che realizzò velocemente la ricostruzione, Messina ebbe un ambizioso piano urbanistico (piano Borzì) e cospicui finanziamenti da parte del governo fascista per via degli stretti rapporti del suo arcivescovo con il duce. La città fu ridisegnata con grandi viali, ampie piazze, e grandi edifici pubblici in stile fascista, nonché palazzi e ville nobiliari in stile liberty. Fino alla seconda guerra mondiale il porto di Messina aveva un ruolo importante nell’esportazione di vino e agrumi siciliani (in particolare i limoni, il 90% dell’export nazionale di questo agrume), del legname dell’Aspromonte, della seta prodotta a Villa San Giovanni e delle essenze di bergamotto prodotte a Reggio. Aveva inoltre delle fabbriche di essenze agrumarie e tessili e altre industrie create da imprenditori stranieri e locali. Divisa tra due forti massonerie, una laica-mazziniana e l’altra cattolica, la città esprimeva un livello culturale molto più alto della media delle altre città del Mezzogiorno anche grazie alla prestigiosa Università nata nel XV secolo, una delle più antiche del nostro Sud.
Di contro, Reggio era una piccola città-fortezza, disegnata intorno al castello aragonese del XV secolo. Fu ricostruita sulla stessa struttura urbanistica pre-terremoto, solo più in alto perché era stato il maremoto a fare il maggior numero di vittime. La sua ricchezza non veniva dal mare, ma dall’entroterra e il potere era in mano a una decadente nobiltà e a una piccola borghesia commerciale. Ma, aveva una grande fonte di ricchezza e di lavoro: la lavorazione del bergamotto, le cui essenze hanno costituito la base dell’industria cosmetica fino a quando, nel 1954, non è stato trovato un sostituto chimico.
Dagli anni ’50 del secolo scorso le due città subirono un progressivo processo di deindustrializzazione, di perdita del rapporto produttivo con le proprie risorse, di crescente peso della pubblica amministrazione e della spesa assistenziale. Un fenomeno che è stato comune alla gran parte delle regioni meridionali, dove solo dal 1951 al 1971 l’industria manifatturiera ha fatto registrare un saldo negativo di 17.525 unità a fronte di un aumento di 144.130 unità che si registra nel Centro-Nord . È un processo di deindustrializzazione che colpisce la Pmi meridionale e porta ad una delegittimazione del mercato capitalistico. Il ventennio dello sviluppo economico italiano è stato il ventennio della desertificazione produttiva nel Mezzogiorno, che non ha retto alla progressiva globalizzazione dei mercati, e ha prodotto un vuoto socio-economico e politico che altri soggetti hanno riempito.
A Messina, la crisi produttiva e occupazionale è stata in parte sostituita dalla spesa pubblica e la crescita abnorme delle pubbliche istituzioni: Comune, Provincia, Ospedale, Policlinico, Università. Alla borghesia produttiva e liberale (a Messina nel 1948 il Partito liberale prese il 14%, un record in Italia) si è andata sostituendo la borghesia statale, i burocrati e i politici che intercettavano i flussi crescenti di spesa pubblica. La crisi profonda della città inizia negli anni ’70 del secolo scorso e segue la parabola della spesa pubblica. Il suo declino è inarrestabile, ma lento, sordido, non suscita reazioni, tanto da confermare l’ingiuria per i messinesi di essere dei buddaci, cioè pesci che stanno a bocca aperta, parlano tanto, ma non combinano niente. La corruzione, l’incapacità, la mancanza di una cittadinanza attiva, fanno sì che la città continui a spegnersi lentamente, con brevi ritorni di fiamma come accadde nel periodo 1994-‘98 durante la giunta Providenti. Un’eccezione in oltre quarant’anni di decadenza.
Dall’altra parte dello Stretto il crollo nelle vendite delle essenze di bergamotto e delle arance (per via della concorrenza spagnola), fonti primarie di ricchezza della città, venne solo in parte compensato dalla crescita della spesa pubblica. Il crollo della nobiltà latifondista, della borghesia commerciale, non trovò un soggetto sociale capace di egemonia finché non scoppiò la guerra per il Capoluogo nel 1970. Durò quasi un anno e fu l’ultima rivolta popolare di massa del Mezzogiorno, su cui si inserirono interessi esterni legati alla strategia della tensione, e si saldarono i rapporti tra Massoneria, servizi segreti e ‘ndrangheta. Ma, la gente che era scesa in piazza e che morì o fu ferita e arrestata aveva, oltre l’orgoglio di appartenenza, l’obiettivo di combattere per gli unici posti di lavoro credibili: quelli della pubblica amministrazione. Mentre la sinistra, Pci in testa, parlava di fabbriche e industrializzazione, la popolazione credeva solo al Capoluogo come fonte d’occupazione e di reddito. Questa rivolta segnò una cesura storica netta: la violenza della repressione governativa, l’azzeramento della classe politica democristiana, portò a un vuoto totale di potere e di legalità che durò molti anni. Crebbe allora l’abusivismo edilizio, fino a quel momento marginale, fino a dar vita nei decenni successivi, alla costruzione del 90 per cento di case abusive. Intorno al centro storico la città è cresciuta come uno sterminato e informe agglomerato di case mangiandosi la campagna un tempo lussureggiante. Ma, soprattutto, emerse con forza il ruolo egemone della borghesia mafiosa composta da professionisti, imprenditori, politici e il braccio armato di quella organizzazione che si chiama ‘ndrangheta, diventata la più potente delle mafie. Senza Stato, né Mercato, Reggio divenne un laboratorio per la via criminale all’accumulazione capitalistica che si è diffuso in tutto il mondo.
Nel nuovo secolo lo scenario socio-politico dell’area dello Stretto apparentemente non cambiò. Messina continuò nel suo declino e passò da un Commissariamento del Comune all’altro, per corruzione, dissesto finanziario o semplice caduta della giunta comunale. Reggio, che aveva vissuto un piccolo momento di rinascita (la cosiddetta «Primavera reggina» del compianto sindaco Italo Falcomatà), ricadde nello sconforto e finì nelle mani di un abile politico, già leader del Fronte della Gioventù, che si inventò il modello Reggio: spesa pubblica a go-go per spettacoli e divertimenti, clientelismo sfrenato e bilancio comunale truccato e fuori controllo.
Negli ultimi anni la storia delle due città ha subito un’accelerazione e una svolta imprevedibile. Il bello della vita è questo: quando non ti aspetti più niente, quando sembra che non ci siano più speranze, quando sei rattristato da una giornata carica di nuvole, pioggia e vento, improvvisamente un raggio di luce appare sullo Stretto e cambia la tua visione, la tua percezione del futuro.
A Reggio il modello Scopelliti è finito nelle mani della magistratura, mentre la città langue sotto il peso di un lungo Commissariamento incapace di risolvere il dissesto finanziario dovuto alle passate amministrazioni. È una città in fuga, dove partono non solo i laureati ma tutti quelli che possono, e la stessa borghesia mafiosa ha smesso di investire da anni, spostando i capitali verso il Nord Italia e le aree più ricche del mondo. Quasi ogni notte una bomba sveglia gli abitanti (l’ultima proprio al lato della prefettura) e sono ripresi gli omicidi mafiosi, dopo una lunga pax seguita al «Trattato» del 1992 in cui i capiclan posero fine alla guerra di ‘ndrangheta che costò settecento omicidi in sette anni.
A Messina, nessuno se lo aspettava o ci avrebbe scommesso un euro, nelle elezioni comunali del giugno scorso ha vinto la lista civica di Renato Accorinti, militante pacifista, ecologista e leader del movimento No Ponte. Una figura di sindaco che ha stupito l’Italia interna e non solo, e che è il frutto di una improvvisa rivolta della città al malaffare e alla borghesia parassitaria che l’ha governata per decenni. La giunta Accorinti, composta da tecnici socialmente impegnati, ha un programma ambizioso di riscatto della città e in pochi mesi ha già segnato un visibile cambiamento (Renato Accorinti è il sindaco più amato dagli italiani secondo l’ultimo sondaggio Ipsos). Ma, il fatto istituzionalmente più rilevante è la volontà di questa giunta di costruire la città metropolitana dello Stretto, unendo Reggio e Messina e i Comuni limitrofi. Diverrebbe la terza città del Mezzogiorno per popolazione e, soprattutto, un laboratorio di sostenibilità sociale e ambientale, a partire dai trasporti necessari per dare la continuità territoriale alle due sponde. La sfida della giunta Accorinti ha contagiato la sponda reggina e l’idea di una città dello Stretto che venga fondata sui valori dell’ambiente, dell’economia solidale e della pace, sta cominciando a navigare da una sponda all’altra. Se il tiranno Anassila era riuscito a unificare le due città con la forza, oggi questa unione avviene sotto il segno di una democrazia che cresce dal basso.
L'articolo integra l'analisi urbanistica di Parma di Paolo Scarpa, con un'ampia finestra sulle contraddizioni del sindaco grillino. Unn "rivoluzionario" imbrigliato dalla realpolitik della gestione quotidiana. Il manifesto, 20 marzo 2014
Pizzarotti ci ha costruito la campagna elettorale, l'impianto doveva essere fermato, smontato, venduto a pezzi ai cinesi. Ma da dieci mesi brucia immondizia nel cuore della food valley, a due passi dalla Barilla
Se è vero che la rivoluzione non russa, nella Stalingrado grillina sembra comunque sonnecchiare. Volevano rivoltare la città i giovani sanculotti a 5 Stelle che, ormai due anni fa, conquistarono il Comune di Parma in uno sfavillio di proclami e buone intenzioni. Strada facendo i loro forconi si sono spuntati contro la realpolitik della gestione quotidiana, inducendoli a più miti consigli.
«Rifiuti zero», il loro acuto grido di battaglia in campagna elettorale con il «No» a quell’impianto di incenerimento allora in costruzione a una manciata di chilometri dal centro storico. Doveva essere fermato, smontato, venduto a pezzi ai cinesi e, il resto, riconvertito dagli olandesi in un impianto di selezione evoluto. Parma come San Francisco, mecca internazionale del riciclo virtuoso. E Parma, umiliata dalle manette che avevano travolto la giunta comunale di Pietro Vignali, si aggrappò al credo ambientalista di Federico Pizzarotti, felice di riconquistare i riflettori nazionali per lo strabiliante risultato del voto, non più per le ruberie della città champagne.
Ma da dieci mesi l’inceneritore fuma alle porte della città, a due passi dalla Barilla, nel cuore della food valley. L’inaugurazione ufficiale avverrà tra qualche settimana, intanto comunque brucia i rifiuti del capoluogo e di un pezzo della provincia anche se all’orizzonte si profila il rischio che possa ospitare spazzatura da altri territori (se ne sta discutendo in Regione) fosse solo per restituire il favore di dieci anni di esportazione parmigiana. Ipotesi immediatamente stroncata dall’amministrazione pentastellata, con la stessa forza con la quale aveva bocciato anche l’accensione del camino. «Dovranno passare sul cadavere di Pizzarotti» tuonò in piena campagna elettorale Beppe Grillo contro quello che bollò come un tumorificio. «Avremo un cadavere schiacciato» chiosò con ironia Elvio Ubaldi, il sindaco che quel progetto lo vide nascere.
Eppure Pizzarotti, quel forno, dimostrò di volerlo spegnere davvero. Lo mise addirittura, nero su bianco, nel programma di insediamento: «Stop alla costruzione dell’inceneritore e sua riconversione in un centro di riciclo e recupero». E la sua maggioranza monocolore votò compatta. «Non ho mai detto che lo avrei fermato, ma che avrei fatto il possibile» afferma invece oggi il sindaco, sconfessando pubblicamente il suo stesso documento. Un’aperta contraddizione che i parmigiani accettano con rassegnato distacco, salvo che la questione non leda l’orgoglio locale. Se Grillo parte all’attacco — «Chi mangerà il parmigiano e i prosciutti imbottiti di diossina?» — il sindaco, animato da sano realismo, si affretta invece a premiare, proprio nella giornata del santo patrono, l’imbufalito Consorzio di tutela del salume ducale. «Un brand, quello del Prosciutto di Parma sinonimo di eccellenza e di qualità», si legge nella motivazione dal sentore riparatorio.
Più che una rivoluzione, quindi, quell’inceneritore si sta rivelando una via crucis per il primo cittadino, partito con candido slancio. «Mica mettiamo una bomba, si va da Iren e si parla», disse a urne ancora calde. E per tutta risposta la multiservizi, che aveva già investito 194 milioni di euro, chiese un risarcimento danni per stop al cantiere da 27 milioni (sulla cui congruità dovrà a breve decidere il Tar) ai quali se ne potrebbero aggiungere altri 7 a causa di un fermo deciso dallo stesso Pizzarotti.
Ma anche l’accensione costa e l’obiettivo «rifiuti zero» resta un miraggio nonostante la raccolta differenziata spinta sia stata estesa a tutta la città per portare Parma al di sopra di quel misero 50% che la relega a fondo classifica tra i comuni della regione. L’amministrazione 5 Stelle ce la sta mettendo tutta, ma il sistema di raccolta, lo stesso adottato da Iren in tutte le zone servite, è aspramente criticato dall’opposizione comunale che chiede un ritorno ai più igienici cassonetti mentre oggi i sacchetti dell’immondizia si accumulano nelle strade con i parmigiani confusi che abbandonano sui marciapiedi tutto quello che non sanno come e dove smaltire.
«La colpa di Pizzarotti agli occhi di Grillo - scrive il capogruppo del Pd in consiglio comunale Nicola Dall’Olio - è di non essere più, e probabilmente non essere mai stato, rivoluzionario». E sull’inceneritore aggiunge: «Non ha avuto il coraggio di immolarsi per fermarlo a ogni costo». I parmigiani però non hanno rispolverato la ghigliottina perché dopo la Parma champagne sembrano accontentarsi di un’onesta malvasia. «Almeno questi non rubano», il commento più diffuso che circola nei bar. Con buona pace della rivoluzione attesa.
«Fino all’inizio della seconda metà degli Settanta, urbs e civitas erano tenute insieme. Ma il silenzio istituzionale sui fatti del ’77 e la tempestiva riconversione privatistica della gestione pubblica hanno portato alla crisi della coincidenza tra pratica politica e sentimento civico». il manifesto, 12 marzo 2014
«A che punto è la città?/La città in un angolo singhiozza./Improvvisamente da via Saragozza/le autoblindo entrano a Bologna./C’è un ragazzo sul marmo, giustiziato». Così Roberto Roversi ne Il Libro Paradiso. L’anno era il 1977, il giorno era l’11 marzo, il corpo quello di uno studente, Francesco Lo Russo, ucciso dalle forze dell’ordine nel corso di una manifestazione. E il senso dell’evento (a una lettura immediata come quella di Federico Stame) venne individuato nel tentativo di ricomprensione da parte dello stato dell’intera società civile bolognese all’interno del sistema politico-istituzionale nazionale, secondo la logica di una tensione tra governo urbano comunista e potere centrale di segno opposto alimentatasi nel corso dell’intero dopoguerra.
Ma i fatti del 1977, dal marzo che registrò la frattura tra città e università fino al Convegno Internazionale sulla Repressione in settembre, significarono molte altre cose, toccando in profondità, senza che la stessa cittadinanza ne fosse davvero consapevole, la natura di Bologna, la sua memoria e perciò la sua coscienza: al punto che l’intera transizione post-comunista della città, quella ancora in atto, riesce a svolgersi e a (auto)legittimarsi soltanto sulla base del sistematico, strutturale silenzio istituzionale su di essi. Proprio quel silenzio che ha garantito e garantisce la sopravvivenza della politica (della polis) al prezzo della progressiva divaricazione tra civitas e urbs, tra le possibilità di messa in comune della capacità cittadina di manipolazione simbolica e la crescita della città nella forma di semplice manufatto urbano, di complesso plurifunzionale di costruzioni, secondo la concezione andante di organismo urbano: quella che, codificata nell’Encyclopédie, domina da più di due secoli i nostri dizionari, e perciò la nostra mente. Lo stesso silenzio rispetto al quale la mancata elaborazione del lutto per il crollo del muro di Berlino, alla fine degli anni Ottanta, si porrà, nel nostro Paese, come replica allargata e ancora più fragorosa. Come ha scritto in proposito, icasticamente, Mauro Boarelli: «Anche quella che veniva esibita con orgoglio come la capitale del comunismo europeo non ha trovato alcuno spazio pubblico per confrontarsi con la propria storia».
Nel dopoguerra e ancora fino all’inizio della seconda metà degli Settanta, al tempo del «buongoverno» inaugurato da Giuseppe Dozza, i funzionari della polis ponevano al contrario la massima cura nel tenere insieme l’urbs e la civitas, lo sviluppo e la manutenzione della città materiale con quello della coscienza civica intesa come riconoscimento di un unico, comune sentire, oltre che di comuni concreti bisogni. Erano i tempi della «democrazia sociale» bolognese, al cui interno la riorganizzazione dei servizi era concepita, per riprendere una distinzione di Nadia Urbinati, non come un semplice atto dovuto ma come una proattiva «funzione della cittadinanza democratica», in grado cioè di favorire la complessiva emancipazione sociale di tutti i soggetti, anche quelli che in apparenza del singolo servizio non usufruivano: si pensi soltanto all’invenzione della scuola a tempo pieno, in grado di riconfigurare il complesso delle relazioni tra i tempi del lavoro, dell’apprendimento e della cura famigliare, e perciò di trasformare la struttura temporale del meccanismo dell’intera città; oppure si pensi, prima ancora, alla riflessione sul decentramento e alla nascita dei quartieri, volta a consolidare la partecipazione dei bolognesi alla vita in comune.
Se a partire dalla fine degli anni Ottanta l’autocritica manca, la riconversione in senso privatistico della gestione pubblica è però tempestiva, quasi che proprio questa fosse l’implicita ragione del nuovo corso del governo locale. Giusto al 1989 risale il progetto di privatizzare le farmacie comunali volute da Dozza nel 1949, mandato poi ad effetto un decennio dopo dal sindaco Walter Vitali in seguito a un referendum consultivo che i dirigenti del Pds invitarono a disertare: con pieno successo, anche se in assoluto dispregio degli strumenti di partecipazione diretta previsti dallo Statuto comunale.
In tale episodio si è voluto vedere l’avvio del processo di «trasmutazione di tutti i valori» dell’amministrazione pubblica di sinistra culminata nel progetto di riforma nazionale dei servizi locali promosso durante il secondo governo Prodi. Ma nell’immediato le conseguenze di tale decisione sull’ethos civico bolognese furono evidentemente demolitorie: ridotto in tal modo alla passiva esibizione dei caratteri culturali e identitari petroniani (non escluso lo stesso buon governo definitivamente ridotto a mito) esso diverrà il terminale sempre meno ricettivo di pratiche e discorsi sempre più discosti rispetto al comune sentire.
Al riguardo la parabola è esemplare, e tutta orientata nel senso della progressiva crisi della coincidenza tra pratica politica e sentimento civico: parte dal sindaco Giorgio Guazzaloca (1999–2004), il primo sindaco di centro-destra, alfiere di una stereotipata «bolognesità» e termina con la gestione commissariale dell’ex ministra Annamaria Cancellieri (2010–11), vale a dire con l’azzeramento di ogni possibile rappresentanza politica locale. In mezzo due figure, molto differenti tra loro, vissute però dalla cittadinanza, per ragioni diverse, come due autentici infortuni: il sindaco Sergio Cofferati (2004–9), percepito alla fine dai bolognesi in termini di quasi assoluta estraneità, e il sindaco Flavio Delbono (2009–10) il cui brevissimo governo terminò scandalosamente nelle aule giudiziarie.
Dato in tal modo fondo a ogni plausibile mossa e gettata la spugna, altro non restò alla fine al ceto politico che affidarsi, in contraddizione con tutta la storia amministrativa precedente, all’emissario del governo centrale, significativamente invitato dai due principali antagonisti partiti, alla fine del suo mandato, a presentarsi alle elezioni comunali come candidato di spicco nelle proprie liste.
Le ragioni di tale cortocircuito politico-amministrativo appartengono però non alla cronaca ma alla storia, alla matrice della coscienza politica, all’estesa mente (mind) urbana costituita dalla collettività nel suo rapporto con la materiale struttura cittadina (brain) che allo stesso tempo la produce e ne è il prodotto. E proprio l’ignoranza della natura di tale matrice è oggi all’origine dell’incapacità della politica locale ad assolvere il proprio compito: a Bologna più manifestamente che altrove.
Già un secolo fa avvertiva Adolf Loos che non si ha idea della quantità di veleno che abili pubblicazioni spargono ogni giorno sull’idea di città, al punto da impedire ogni autentica comprensione del fatto urbano. Tale veleno consiste in sostanza nella trasformazione della realtà urbana in semplice aggregato edilizio, appunto secondo la canonica definizione illuministica all’inizio richiamata, formulata da Diderot in persona. Così, riportata all’organismo cittadino, la celebre affermazione della Thatcher per cui «non esiste la società, esistono solo gli individui, di sesso maschile e femminile» enuncia non soltanto la fine di ogni idea di civitas, di collettività civile, ma anche di ogni relazione tra questa e l’urbs, secondo un processo di riduzione dell’idea di città che culmina oggi nel concetto di smart city: che significa non città «intelligente», come si dice, ma piuttosto «furbescamente alla moda», da gestire secondo programmi elettronici volti alla trasformazione in senso aziendale della città stessa.
Bologna però non è una città intelligente, è molto di più: è una città per natura cognitiva, nel senso che fin dalle origini il suo compito è stato quello di svolgere ruoli quaternari, connessi cioè alla produzione, all’interpretazione e alla messa in circolazione di informazione specializzata. A volerla restringere all’essenziale, nell’ultimo millennio e mezzo la sua storia svolge in maniera esemplare la vicenda dell’autorganizzazione di un sistema che attraverso la propria crescente complessificazione trasforma la propria struttura concreta senza però mutare la propria logica, e con essa la propria costituzionale identità. E ciò in virtù della capacità di trarre partito dalla perturbazione per rinchiudersi in maniera diversa su se stessa, generando nuovi ruoli e attività in grado di mantenere e rinforzare la natura originaria del funzionamento. Essenziale resta il fatto che per qualsiasi organismo i meccanismi dell’autorganizzazione sono quelli dell’attività cognitiva, i soli a permettere, attraverso il riconoscimento e il superamento della crisi, la nascita di nuove funzioni in grado di garantirne la sopravvivenza e la crescita. E che cosa fu, all’alba del Mille, l’invenzione a Bologna dello «Studio», dell’università, se non il risultato di tale attività da parte dell’organismo urbano bolognese?
Di converso: che cosa furono i fatti del 1977 se non l’effetto della sopravvenuta incapacità da parte di Bologna di accogliere, trattare, metabolizzare e rimettere in circuito il carico informazionale che dalla seconda metà degli anni Sessanta si era diretto verso di essa, e tradurlo in termini politici? Della incapacità di superare insomma un’ulteriore soglia del proprio processo auto organizzativo, di operare come mille anni prima nel senso di una progressiva articolazione della propria natura quaternaria, la sola il cui sviluppo sarebbe stato in grado di continuare a preservarne l’identità e perciò la coscienza, anzi il complesso delle coscienze?
Sul cerchio di gesso che marca contro il muro di via Mascarella il segno dei proiettili che l’11 marzo del 1977 uccisero Francesco Lo Russo qualcuno ha di recente apposto un tag nero: concretissimi soggetti, diversi dagli stessi studenti, provenienti da lontano e portatori di culture altre sono nel frattempo diventati visibili e si aggirano sotto i portici e lungo i viali. In fondo, come ha scritto Edgar Morin, «tutto ciò che esiste e si crea è qualcosa d’improbabile che hic et nunc diventa necessario». Il ritardo del dispositivo politico bolognese nel pensare la possibilità che «le cose potessero andare diversamente», per dirla con Karl Kraus, vale a dire il ritardo politico di Bologna dovuto alla sua mancanza di memoria, si traduce così nel dover fare i conti con necessità della cui portata soltanto oggi, a fatica e senza più grandi riferimenti, essa inizia a rendersi conto.
«Nel cuore dell’Appennino, nonostante tutti gli sfregi che ha subito è un posto comodo, al centro della Campania. Dove si può anche trovare il silenzio e la luce dell’Irpinia d’Oriente. Ma sembra fatta apposta per dimostrare come il Sud possa sprecare le sue bellezze e le sue opportunità». Il manifesto, 6 marzo 2014
Arrivo ad Avellino verso le nove. Per arrivarci da casa mia ci vuole un’ora di autostrada che somiglia assai poco a un’autostrada. Attraverso una provincia ancora bellissima, a dispetto del valzer delle betoniere seguito al terremoto dell’ottanta.
Avellino è più viva di tante cittadine europee. C’è una rinnovata vivacità, i buoni ci sono ancora, anche se sono attori non protagonisti. Nonostante tutti gli sfregi che ha subito è un posto comodo, al centro della Campania. In meno di un’ora si possono raggiungere posti famosi come Paestum e la costiera amalfitana, ma si può anche trovare il silenzio e la luce dell’Irpinia d’Oriente. Avellino è in mezzo all’Appennino. Il suo futuro non è la decadenza, perché non sarà la decadenza il futuro dell’Appennino.
Intanto il suo presente è molto simile a una via crucis, una città che sembra fatta apposta per dimostrare come il Sud possa sprecare le sue bellezze e le sue opportunità.
Prima stazione
Entro in città dalla la zona del nuovo ospedale. Lo chiamano città ospedaliera. Non so chi ha costruito la struttura, non deve essere un bravo architetto. Ma il problema più grande è fuori. Arrivare al pronto soccorso è come fare una caccia al tesoro. E poi si sono dimenticati di fare i parcheggi davanti alla struttura. I lavori per porre rimedio ovviamente vanno a rilento. E così chi entra ad Avellino da questo lato subito può farsi l’idea di una città slow, ma il riferimento è ai cantieri, non al cibo.
Seconda stazione
Sono davanti al teatro Gesualdo. Anche qui l’opera ha una disegno architettonico molto discutibile, anche qui il disastro è fuori. Prima hanno cercato di recuperare dei ruderi microscopici di un castello col risultato che adesso non si notano i ruderi, ma una scala di metallo. Ora forse si vorrebbe sistemare lo spazio intorno al teatro, ma i lavori procedono per avanzamenti millimetrici. Lo spiazzo che vorrebbero ricavarne è una sorta di Aspettando Godot dell’urbanistica. Dunque il teatro si fa dentro e anche fuori, dove vanno in scena infinite repliche del teatro dell’assurdo.
Terza stazione
Piazza Macello. Qui ci sono gigantesche palazzine anni sessanta, qui c’è sempre stato e c’è ancora il punto da cui partono e arrivano i pullman. Si parla da decenni di far traslocare l’autostazione, ma non succede nulla. I lavori sono stati fatti, i soldi sono stati spesi. Questo conta, per il resto i pullman possono restare dove sono. Per spendere altri soldi hanno provato a fare una piazza. Non è venuta bene, forse gli unici a goderne sono i cani che possono fare indisturbati i loro bisogni.
Quarta stazione
Vado verso il centro della città. Qui c’è il cantiere totem, la metafora di tutti i fallimenti della politica avellinese. Difficile credere che potesse essere utile un tunnel in una città che ha meno di sessantamila abitanti. Il progetto originario è stato stravolto e la possibile utilità è ancor più diminuita. I lavori al momento sono arenati e il tunnel è solo una buca dove sono stati buttati un sacco di soldi pubblici.
Quinta stazione
Sono arrivato al corso. Questo è il centro della città, la spada dritta, la gruccia a cui è appeso tutto il resto. Qui i lavori per farne un’isola pedonale sono stati portati al termine. Un luogo molto bello, nonostante ci siano ancora molti palazzi che attendono di essere ricostruiti. L’effetto è strano. Non si vedono biciclette, gli avellinesi senza macchina sembrano creature a disagio, a parte i luminari dello struscio che parlano di sport e di politica. Avellino è una città che parla molto di sport e di politica. Le due cose hanno destini congiunti. L’ascesa della squadra di calcio alla serie A e la sua lunga permanenza nell’olimpo del calcio coincise con il fulgore dei politici irpini. Il più noto è De Mita, poi ci sono Mancino e Bianco, Gargani, De Vito. Su queste figure si è scritto molto, non è il caso di aggiungere altro, se non che sono tutti ancora in attività, a parte De Vito, sindaco del mio paese, morto senza il calore del popolo al suo capezzale. Non so quale sarà il destino degli altri, auguro a tutti lunga vita, ma ho la sensazione che il volere a tutti i costi mantenere un ruolo stia offuscando la loro opera anche agli occhi dei loro sodali.
Sesta stazione
Vado verso il centro storico e la sensazione molto netta è che non esiste. A fianco al Duomo c’è un cantiere allo stato fossile, sembra provenire da un’altra era geologica. Non ci sono negozi, non si vedono persone. Hanno ricostruito le case, ma sembra un luogo senza futuro. In tante città del Sud i centri storici hanno ripreso un bel vigore, basti pensare a Bari o a Lecce. Qui c’è solo la pessima edilizia del post-terremoto e qualche cantiere. Gli avellinesi, a parte rarissime eccezioni, sembra proprio che non ce l’hanno in testa il cuore della loro città. Una volta qui aveva sede il centro Dorso. C’è ancora, ma da quando è morto Elio Sellino, l’editore che lo dirigeva, non ci ho più messo piede. Sellino aveva una grande passione per l’Irpinia, ha fatto molte cose per valorizzarne la storia passata e per ravvivare la vita intellettuale: non si può dire che le sue imprese abbiano avuto particolari riconoscimenti.
Settima stazione
Avellino ha come propaggine due paesi che si sono saldati alla città, cumulando le loro bruttezze a quelle cittadine: al Sud i paesi di maggiore dinamismo economico quasi sempre sono i più incuranti della bellezza. La strada che va verso Mercogliano è perennemente intasata di traffico. Ogni volta che mi trovo in questo ingorgo sento che non ha nessuna logica, come se servisse solo a dare l’idea di stare in città.
Ottava stazione
Sono col mio amico Livio Borriello. Dei tanti scrittori della città è quello a cui sono più legato. Avellino non è un posto privo di talenti. Un altro mio amico è il bravissimo videoartista Antonello Matarazzo. In questo caso il riferimento alle stazioni della via crucis si giustifica col fatto che una città piena di energie intellettuali non è mai riuscita a costruire un evento culturale duraturo e capace di uscire dai confini cittadini. Artisti, scrittori, teatranti avellinesi hanno sicuramente meno attenzioni di quelle che meritano; e meriterebbero, per cominciare, che l’ex cinema Eliseo, ristrutturato da tempo, non restasse chiuso come bersaglio per i vandali; e che l’ex palazzo della Dogana trovasse la via per essere sottratto alla ragnatela dei propositi mai realizzati.
Nona stazione
Sono davanti a una costruzione vasta e pretenziosa. A vederla da lontano pare la sede di una grande multinazionale. Ti avvicini e scopri che si tratta della sede di una piccola banca. Una volta si chiamava Banca Popolare dell’Irpinia. Ha cambiato nome già una volta e sta per cambiarlo di nuovo. Non ci sono più i soldi del post– terremoto. Insomma, sono davanti a una grandeur che adesso sembra decisamente fuori posto. L’Irpinia non è diventata quello che immaginavano negli anni ottanta i notabili democristiani.
Decima stazione
Nel mio girovagare in cerca di una città che non c’è da nessuna parte, ora sono davanti alla clinica Malzoni. Anche qui un senso di decadenza. La sanità pubblica, tenuta per anni volutamente in condizioni pietose, ha fatto qualche passo avanti, e questa clinica che godeva di un prestigio immotivato, sta facendo molti passi indietro.
Undicesima stazione
Di nuovo nel centro della città. Qui una volta c’era il carcere borbonico. Ora è uno spazio assai bello che può accogliere attività culturali. Il cruccio in questo caso è che anche quando si fa qualcosa di interessante non sembra godere dell’interesse dei cittadini. L’estate scorsa ci provò un coraggioso editore ad allestire un nutrito programma che si chiamava la Bella estate. Risposta tiepida, come tutte le cose che si fanno fuori dai recinti dello sport e della politica.
Dodicesima stazione
Ipercoop. Qui trovo molta gente. Vago tra li scaffali stracolmi di merce, non trovo tracce di prodotti irpini. Una terra che ha ancora tanti contadini non trova il modo di consumare i suoi prodotti. Anche da questo punto di vista la città ha le sue colpe. Invece di essere quello che è: una città in mezzo a montagne bellissime, un capoluogo che guarda ai suoi paesi, Avellino sembra protendersi inutilmente verso occidente, verso Napoli e Salerno, col risultato di prenderne i difetti e non i pregi.
Tredicesima stazione
Col mio amico Livio mi faccio un giro per i quartieri periferici. Rispetto ad altre città del Sud, non sembra esserci una grande differenza col centro. Il motivo è che in questo caso non è la periferia a far sfigurare il centro, ma il centro che tende a imitare la periferia. Mazzini, Valle, San Tommaso, cambiano i quartieri, ma i palazzi più o meno sono sempre gli stessi e pure le macchine parcheggiate e pure le facce della gente. Forse la nota più dolente viene dal quartiere Ferrovia dove c’è un sito di interesse nazionale da bonificare: l’ex stabilimento dell’Isochimica dove si scoibentava amianto. Amianto sotterrato dappertutto in quel quartiere, anche sotto i binari della ferrovia. Piccola consolazione: nella chiesa del quartiere c’è Il murale della pace, una pregevole opera di arte contemporanea.
Avellino è particolarmente omogenea nel suo grigiore. Più giriamo e più mi sembra di fare il giro della mosca nella bottiglia. È una sensazione che mi danno molte città, come se la grandezza e il senso dell’infinito ormai si fossero andati a nascondere nei luoghi più piccoli e sperduti.
Quattordicesima stazione
Passiamo davanti al mercatone. Doveva essere un contenitore di botteghe artigiane. Aperto per alcuni mesi, si è rivelato ingestibile. Architettura pessima per forma e dimensioni, costo di riqualificazione altissimo. Si aspetta solo che il tempo la trasformi in rovina.
Mi sono stancato, ho voglia di tornare verso l’altura. Lascio la parola al mio amico Livio Borriello e alla sua percezione del grigiore cittadino: Dire Avellino non è dire il nome di una città, ma quello di un posto, di una variante di luogo. Il nome Avellino non evoca nessun mondo, nessuna dimensione psichica, come accade per le vere città che hanno delle vere caratteristiche. Proprio questo però è il suo aspetto interessante, essere una città neutra, una città incolore e trasparente.
«Si è costruito molto e in modo mediocre negli ultimi 30 anni. Un ciclo edilizio perpetuo, che neanche la crisi ha fermato, dove città e campagna si sono confuse». La seconda inchiesta sel manifesto sulle città d'oggi, 13 febbraio 3014
Sassari nasce in un territorio vasto, ottimo per l’uso agricolo; ma per la sua popolazione la vita non sarà facile. Il risultato della faticosa traversata nel tempo, tra carestie e pestilenze, è un insediamento gracile, eppure sorprendente se confrontato con i limitati mezzi a disposizione.
Sarà sembrata una città prestante quand’era racchiusa dalle mura, di cui resta qualche lacerto a certificarne il ruolo nel povero sistema difensivo della Sardegna, con tutti quei campanili e gli edifici adibiti funzioni di direzione e di servizio che l’hanno accreditata come capoluogo di una vasta provincia. Così qualcuno ci ha creduto, fino al XVIII secolo, che potesse contendere il primato a Cagliari, favorita dalla presenza stabile del vicerè. Non le manca l’impronta ottocentesca: i luccichii di un teatro, e poi un piano di ampliamento, progettato secondo i criteri collaudati in Terraferma, una sferzata di energia dopo il 1837. Un disegno buono per un secolo, cornice alle architetture in linea con il sentimento nazionale, e poi premessa alla città moderna, con lo sguardo rivolto ai migliori modelli.
La popolazione è cresciuta con un ritmo lento ma costante; per quanto afflitta dalla sovrabbondanza di indigenti alloggiati in case basse e malsane, una circostanza che suscita grande inquietudine dopo la tragica epidemia del 1855. Appena confortata dalla processione dei Candelieri che ogni anno a Ferragosto rinnova il voto contro la peste.
Preoccupazioni fondate; e infatti negli anni ’50 del Novecento si diffonde la Tbc con picchi di mortalità molto più elevati di quelli riscontrati fino a quel momento in Sardegna. Si spiega con l’indice di affollamento (fino a 10 persone/vano), la penuria d’acqua, le fogne inefficienti. Un’emergenza igienico-sanitaria che s’immagina di affrontare con la ricetta di Concezio Petrucci, autore del Piano regolatore generale fascista, facendo tabula rasa del vecchio centro. Con un’idea vaga sul trasferimento della popolazione. I meno abbienti allo sbando, o in lista per accedere al programma Ina-Casa nelle aree di Monte Rosello. I più fortunati impegnati da un po’ a mettersi in salvo, con mezzi propri, lontano dalle vecchie strade Purior hic aer è scritto sulla facciata di una casa, timidamente liberty, nel colle dei Cappuccini).
Si è formato così un pregiudizio, chiave di volta di una ideologia resistente: il nucleo antico causa di tutti i mali, infetto e insanabile. Che sottintende la rinuncia a prestargli cure; meglio amputare, come/dove capita, per ricostruire a piacere; applausi per chi concorre alla catarsi. Primo cimento: due palazzoni (grattacieli — li chiamano i sassaresi) che gettano la loro ombra ben oltre la piazza che a mala pena li contiene.
Una trasformazione fuori misura ma modello per altri interventi più moderati nei dintorni, eccitati dalla convinzione che la vita della città continuerà a svolgersi in quell’area circoscritta dove la borghesia più istruita e facoltosa esprime una multiforme vitalità (nella sede del Pci di Enrico Berlinguer o nella parrocchia di Francesco Cossiga).
Compattezza e frammenti
Non ci sono sintomi che facciano prevedere la dispersione dell’insediamento che si avvierà di lì a poco. Alla propensione secessionista obbedisce la pianificazione intrapresa nei primi anni ’50, attuata nel decennio successivo. Il più rilevante esito di quelle previsioni centrifughe è il quartiere marginal-popolare di Santa Maria di Pisa dove si relega quasi tutta l’edilizia economica dell’ultimo mezzo secolo. Una mossa esiziale per il disegno della città, impedimento per ogni futuro proposito di coesione sociale. A cui si somma lo sparpagliamento nel territorio agricolo di abitazioni unifamiliari su lotti di varia misura, e anche in questo caso i suburbi, più o meno laschi, sono connotati dalla omogeneità del reddito: a sud le ville dei più fortunati, a nord, lungo il percorso dell’antica strada reale, il regno di autocostruttori, spesso abusivi, tollerati dalle amministrazioni altrimenti chiamate a farsi carico di un vasto disagio abitativo.
La crisi del vecchio centro murato è evidente quando, nel 1983, è approvato il nuovo piano regolatore, compiacente verso ogni propensione alla crescita, soprattutto nelle forme più speculative. Dappertutto, e ancora in danno del paesaggio urbano: questa volta alla fisionomia modernista, con la serie di demolizioni di eleganti casette del primo Novecento sostituite da più vantaggiosi edifici multipiano.
Si è costruito molto e in modo mediocre e ovunque negli ultimi 30 anni, anche per rispondere alla immigrazione dai paesi. Non sarebbe difficile quantificare la crescita e preoccuparsi della sproporzione. Il patrimonio edilizio che nel 1919 è costituito da circa 2600 edifici — realizzato in 5–600 anni — è aumentato di almeno sei volte volte nel tempo breve di mezzo secolo (a cui non corrisponde un cosi importante incremento di abitanti). La estensione di territorio investito dal processo di urbanizzazione, fotografata nel passaggio di secolo, è almeno venti volte quello della struttura urbana com’era negli anni Cinquanta, con i suoi preziosi oliveti e orti a contorno.
«Predda Niedda»
Dopo il 1980 è già difficile capire dove finisce la città e comincia la campagna, ma pochi ci fanno caso. Prevale la convinzione che si tratti del metabolismo giusto. E neppure la crisi economica — dagli esordi alla maturità — spinge a riconsiderare la smisurata fiducia riposta nel ciclo edilizio perpetuo, anche da parte delle banche domestiche (quando fiducia sta per credito). Si preferisce conservare l’atteggiamento corrivo che ha contribuito alla graduale svalutazione della città imbruttita dall’ingordigia, e indifferente come altrove al rischio di una bolla immobiliare.
Il più grande errore? Un’area chiamata «Predda Niedda» (pietra nera), centinaia di ettari urbanizzati con denaro pubblico: una «zona industriale d’interesse regionale» (Zir), ma sono pochissime le manifatture in una moltitudine di ipernegozi e negozietti a contorno. Il bilancio: 172mq di superficie commerciale ogni 1.000 abitanti nel distretto sassarese, un rapporto molto più elevato delle medie nel Centro e nel Nord del Paese e che a Cagliari si ferma a 121 mq.
Questo schiacciante trionfo della grande distribuzione ha provocato lo scollamento tra residenze e attività commerciali, amalgama indispensabile per dare senso all’abitare. E quindi la crisi delle attività commerciali nella città compatta, che pensano di risollevarsi omologandosi agli standard e ai codici estetici di «Predda Niedda» premiata da una cangiante movida pomeridiana.
Un nuovo piano urbanistico è in costruzione da una decina di anni. Le previsioni dell’amministrazione di centrosinistra non hanno trovato il consenso della Regione. Il confronto sulle importanti censure è in corso, e non è facile prevederne gli esiti. L’impressione è che l’attività di pianificazione non sia stata accompagnata da un dibattito all’altezza delle attese. Così permangono sottovalutazioni, specie della città «sdraiata», della seconda Sassari dove abitano ormai 30mila cittadini, un quarto della popolazione. Una doppiezza inesplorata: da una parte la città densa con profili da strapaese; dall’altra lo strampalato blob che la accerchia, con le figure tipiche e gli svantaggi della metropoli dissipatrice, energivora, inquinante, disequilibrata e disequilibrante, iniqua. E sconveniente, perché questo modo di vivere ha già un costo insostenibile.
È urgente guardarla bene questa realtà, tutt’altro che fantasmatica: per accettarla senza subirne le scosse, e quindi per governarla. Andando oltre le definizioni spicce (come quella di non-luogo — uffa!).
Nel frattempo sarebbe opportuno smetterla di compromettere altro suolo. Riconsiderando la crescita proposta: un volume per oltre 30mila nuovi abitanti, inconciliabile con il previsto decremento di popolazione di 10mila nel 2030. L’estensione delle urbanizzazioni ad aree ancora libere renderebbe più marcate le distanze, accrescendo le esclusioni e le disuguaglianze.
Anziché una “opinione”, da Giorgio Todde autorevole collaboratore una lezione di urbanistica, una denuncia politica, un appello: chi lo raccoglie con una sua adesione nei “Commenti”, contribuisce alla buona politica contro la cattiva, alla città delle persone contro quella degli affari
Su Stangioni significa, in sardo, lo stagno, la palude grande.
Chi, a Cagliari, si oppone al nuovo quartiere sovietico detto Su Stangioni che sorgerebbe su una piana all’estremità del territorio cagliaritano, accanto a un vecchio inceneritore che ha sparso veleno per decine d’anni, un quartiere collegato solo da strade a scorrimento veloce, un ghetto più vicino all’hinterland che alla città, chi si oppone sarebbe radical chic. Mentre dei problemi spacciati per veri se ne occupano con le maniche rimboccate quelli che dicono di “pensare concretamente alla città”.
Tra gli obiettivi degli uomini “del fare” rientrerebbe l’impresa di “riportare a Cagliari i cagliaritani emigrati nell’hinterland perché il centro era troppo caro”. E di trasferirli a Su Stangioni, ultimo lembo extra moenia del territorio di Cagliari. Dall’hinterland all’hinterland, insomma.
Così gli abitanti continuerebbero a entrare in città solo per lavorare e a uscirne per andare a dormire. Un obiettivo speculare per indegnità a quello dei centri storici alla spina, vivi solo di notte, abitati da pochi spericolati residenti con il sonnifero sul comodino.
Cagliari non è un’eccezione nel Paese.
Cagliari – da 220mila abitanti nel 1981 a 150.000 nel 2012 - ha da tempo praticamente esaurito il proprio territorio.E l’hinterland, dove oggi si trovano i 70mila abitanti che mancano alla città, è diventato il luogo nel quale la speculazione edilizia si è scatenata con più violenza. E hanno pianificato: il vuoto al centro e il pieno nell’hinterland. Basta un giretto lungo le squallide statali 554 e 130 per comprendere e rabbrividire.
Però quest’area disastrata è stata insignita del titolo di area vasta con lo scopo, nobile solo in origine, di fornirle un unico governo. Da più di dieci anni si chiama area vasta di Cagliari l’area che comprende il capoluogo e 15 comuni intorno. Una popolazione di circa 420.000 abitanti che decrescerebbe se non ci fosse una modesta immigrazione extracomunitaria.
Pochi e costretti a una pericolosa dispersione urbana. Nell’hinterland la densità abitativa è bassa, meno di 600 abitanti per chilometro quadro, dissolti in uno spazio spropositato. Nell'area vasta lavorano circa 140mila persone. Quasi 90mila a Cagliari. L’80% di chi entra a Cagliari ogni mattina sceglie l’auto.
L’area vasta di Cagliari è, sotto ogni aspetto, un compiuto esempio di insostenibilità economica e sociale. Niente di nuovo. Spersonalizzazione, cancellazione dei caratteri e rapporti sociali che definivano le diverse comunità, la sindrome da spaesamento ormai epidemica. E poi, un auto ogni due abitanti, inquinamento, tempi di spostamento insopportabili, incidenti. Tutto questo considerato non una patologia, ma una tassa da pagare a una finta, grottesca modernità.
L'agglomerato urbano comprende in realtà anche una decina di altri comuni oggi tenuti fuori dall’area vasta, ma afflitti dalle stesse malattie. Con gli abitanti di questi comuni si raggiungono i 490mila abitanti su un territorio di oltre 1.800 chilometri quadrati. La popolazione della provincia, che non coincide con l’area vasta, è di 563mila abitanti. Un rompicapo amministrativo.
E la scuola? In questa popolazione sono presenti, nel 2001, diecimila analfabeti totali e più di cinquantamila dichiarano di saper leggere e scrivere un testo semplice ma di non aver conseguito nessun titolo di studio. Dati desolanti e in peggioramento.
Insomma, l’area vasta sarda ripete le percentuali abitative di aree che nelle facoltà di architettura sono di solito indicate come nocivo esempio di sprawl. Curiosamente Atlanta ed Elmas, il paragone suscita un sorriso, spargono i loro abitanti nel territorio più o meno con le stesse percentuali.
Qua come altrove è la politica, sospinta dagli affari, che ha consentito la completa dissociazione tra fabbisogni reali e il costruito in eterna, tragica moltiplicazione. Senza un disegno urbanistico e senza una filosofia dell’abitare.
Occorreva un governo e una visione sovra-comunale. Ma nessun sindaco, nessuna municipalità ha accettato, se non a parole, un’autorità condivisa.
Il Piano Strategico Intercomunale c’è, ma è solo carta, senza contare che quando un progetto è definito “strategico” allora siamo di certo in pericolo. Le espressioni “risiedere, muoversi agevolmente, godere dell’ambiente e di fruire dei servizi” dovevano essere “strategici” però sono rimasti parole e le vere azioni “strategiche” sono consistite nel ricoprire di cemento l’area vasta.
Ogni Comune ha deciso il suo Puc oppure ha deciso che è meglio non possederne uno. Ma in tutti i casi le Giunte comunali sono rimaste i soliti centri d’affari dedicati all’edilizia che “regge il mondo”. E hanno vinto i localismi.
Anche la definizione di Area Metropolitana è rimasta volutamente vuota. Una legge regionale annunciò nel ’97 il riassetto delle province sarde e che il territorio di Cagliari si sarebbe potuto riorganizzare facendo coincidere l’assetto provinciale con l'Area metropolitana dotata di un’Autorità che la governasse. Tutti sanno come è andata a finire e la commedia muta in tragedia.
Intanto nel Piano attuativo regionale per la spesa dei fondi destinati alle aree sottoutilizzate 2007/13 – si trattava di 2278 milioni di euro - le parole “trasporto pubblico, coesione sociale, ambiente” sono state sostituite da parole molto più remunerative come“strade, svincoli, assi di scorrimento”. Soldi per fare strade, insomma. E infatti oltre il 90% delle risorse riguarda collegamenti stradali. Pochissimo per aeroporti, porti e ferrovie. Hanno vinto gli affari e non c’è speranza di uscire da una perniciosa concezione della nostra area urbana ridotta a territorio di speculazione.
Intanto il nuovo quartiere de Su Stangioni resta un progetto che respira di nuovo perché qualcuno, anche nel Pd cagliaritano, tenta di rianimarlo.
Ancora case disperse e ancora la distorsione e l’abuso di parole come “sostenibile, ecologico, verde” nel tentativo di contrabbandare come housing sociale l’ordinario cemento, mentre la città, svuotata, quindicimila appartamenti vuoti, si sfalda e si disperde nel solito orrendo nulla urbano.
Rudimenti di urbanistica.
Il consumo irrazionale di suolo, quello distaccato dal fabbisogno reale, deve cessare anche a Cagliari, la bruttezza delle campagne divorate dal “cemento a vanvera” deve cessare, la vita di relazione deve essere facile, il trasporto pubblico deve vincere. Non si vive vicino a un territorio inquinato per decenni dall’incenerimento dei rifiuti. E non si vive in un luogo brutto.
Su Stangioni è un luogo che evoca acque ferme, paludi malsane. Nessuna manna, solo polveri avvelenate. Si deve definire il livello di inquinamento di quest’area e solo dopo favorire la ricostituzione di un nuovo paesaggio campestre e, magari, agricolo. Non esiste altra via.
E’ necessario stabilire un punto fermo dove finisce la città e dove inizia la campagna. Esattamente come accade nei Paesi dove l’urbanizzazione si è data regole certe. E quel punto, quel confine esiste già. Molto lontano da Su Stangioni e molto prossimo alla città attuale.
Ai “sostenitori” del progetto è consigliabile un volo sopra i Paesi europei dove amano davvero i loro suoli per vedere come le città abbiano un confine netto e come da quel punto inizi l’agro. Noi vogliamo la città compatta dove per il bene comune si vive, si va in una scuola vicina, in un teatro vicino, in un cinema vicino, in ambulatori e ospedali vicini, in botteghe vicine, dove si cresce, si matura e si invecchia in compagnia di altri esseri umani e dove una comunità conserva le sue caratteristiche e peculiarità proprio perché si vive vicini.
Nuove micro città sono come la gramigna: consumano i luoghi, sprecano risorse comuni e producono malessere.
La politica, la parte buona che sopravvive, cerca oggi a Cagliari di evitare il cemento a Su Stangioni. Ma una parte del Pd locale pensa e agisce contro ogni abbiccì urbanistico. L’interesse di pochi non deve determinare la crescita della città, noi non dobbiamo pagare urbanizzazioni folli, insediamenti insensati, dannosi e antieconomici.
Per questo siamo sicuri che il pensiero raccolto intorno a Eddyburg è profondamente contrario a un progetto brutto, vecchio, scriteriato, svantaggioso e nocivo come quello di Su Stangioni. E che sarà accanto a chi si oppone a questo inaccettabile progetto.
Riferimenti
Se volete sapere di più sulla lottizzazione di Su Stangiuni, che non piace al sindaco ma piace a parte consistente della sua maggioranza scaricate e leggete il dossier del gruppo di lavoro sul consumo di suolo del Circolo Copernico
Verso la rottura il miracoloso equilibrio tra città e campagna che il PRG di Giovanni Astengo (1965-72) aveva tentato di tutelare? Sembra di si. Occhi aperti su Assisi. Il Fatto Quotidiano, 25 settembre2013
Se Assisi è ancora quella che è, e cioè “un esempio unico di continuità storica di una città con il suo paesaggio culturale e l’insieme del sistema territoriale” (così la motivazione con la quale l’Unesco ha inserito la città nel canone del patrimonio dell’umanità), non lo si deve (solo) alla provvidenza di Dio, ma anche alla saggezza e alla lungimiranza dei suoi cittadini. Virtù, queste ultime, che si sono incarnate nel Piano Regolatore Generale del Comune di Assisi approvato nel 1972 e redatto sotto la guida dell’architetto Giovanni Astengo: un piano che ha permesso ad Assisi di superare, se non intatta, certo ancora “viva ” la stagione della grande cementificazione che ha stravolto l’Italia.
Ora c’è chi ritiene che quella saggezza si sia decisamente appannata. Lo scorso 8 agosto il Movimento 5 Stelle ha presentato, al Senato, un'interrogazione a risposta scritta ai Ministri dell’Ambiente e per i Beni Culturali in cui si chiede, tra l’altro, “quali misure intendano adottare per garantire, in uno dei luoghi più importanti al mondo, l’adozione di un piano regolatore regionale che non permetta nuova cementificazione”. Al fondo dell’interrogazione sta una forte preoccupazione per l’approvazione del nuovo Piano regolatore di Assisi, che manda in pensione quello di Astengo senza averne – secondo molti – le virtù. L’interrogazione ricalca in parte un dettagliato studio dell’ingegner Paolo Marcucci, consigliere comunale di opposizione, che dimostra come “rispetto al precedente Piano Astengo, la linea di inedificabilità assoluta a protezione del Colle Storico è stata arretrata verso la città murata, rendendo tale parte della zona agricola collinare posta al di sotto della città murata di Assisi priva della necessaria tutela”. La stessa riduzione di tutela si registra per le zone collinari ad ovest delle mura, e nella già provata pianura. In più il piano licenziato dal Comune prevede l'inserimento di nuove zone edificabili sulle mitiche colline di Assisi, e in zone finora agricole.
Il sindaco di Assisi ha risposto alle critiche nel modo peggiore, e cioè annunciando querele contro chi rovinerebbe l'immagine della città. Già: ma chi davvero la sta rovinando?
Ci sono molti equivoci sull’Ilva e Taranto, come il conflitto fra lavoro e salute Ma lo scandalo è nelle istituzioni della politica, che non hanno fatto il loro mestiere, ma ceduto il loro cervello a «una cultura allegramente industrialista». La Repubblica, 18 maggio 2013
Ci sono molti equivoci sull’Ilva e Taranto. Come il conflitto fra lavoro e salute. Come se i lavoratori non fossero cittadini – e figli mariti fratelli genitori – e sicurezza e malattie sul lavoro non fossero essenziali per tutti. L’equivoco vuol coprire un passato in cui l’azienda ha ottenuto una extraterritorialità, violando leggi e manipolando l’opinione; e oggi raschia un fondo di barile esausto, scansandone il risarcimento.
E c’è l’equivoco di una disfida fra una famiglia di imprenditori e i loro dirigenti (cui il governo si associò fino a offuscare la distinzione) e una giudice fotoromanzata, fanatica per gli uni, eroica per altri – riconoscendo comunque gli uni e gli altri che abbiano finora, magistrati dell’accusa e giudice, parlato solo attraverso gli atti. L’equivoco fa passare come un aggiornato duello rusticano un trapasso d’epoca nel modo di lavorare e di abitare. Quello che si è chiamato sistema Ilva non si spiega solo con la trama di corruzioni e intimidazioni: la carne è debole, ma ad abbattere gli argini occorreva l’alibi di una cultura allegramente “industrialista” e un’abitudine al quieto vivere fra poteri, padronali, curiali, amministrativi e spesso di malavita, così radicata da rendere fin superflua la consapevole corruzione.
Si dice amaramente, a Taranto: “si sono venduti pure gratis”. Così i colpi di scena che portano in carcere personaggi di rango pubblico, e il misto di sorpresa e scandalo che li accoglie (simulati ormai l’una e l’altro) oscurano la posta, che non è da magistrati: che si deve produrre, amministrare e fare politica e sindacato in altro modo. Rotta dall’avvento dei magistrati, dei custodi giudiziali, di carabinieri e Guardia di Finanza indipendenti, l’extraterritorialità ha portato allo scoperto decenni di monnezze sepolte sotto asfalto o riversate nelle acque o gettate nelle fornaci: abusi di una tale portata dovrebbero essere riseppelliti e continuati? Fin qui è affare di magistrati altrimenti responsabili di una colossale omissione, altro che eccesso di zelo. Da qui in poi, tocca alla società e le istituzioni altre, quelle che l’abitudine minaccia altrettanto e più della corruzione.
Un comunicato stampa del Comitato per lo sviluppo sostenibile e di qualità della zona industriale di Osoppo (UD) illustra le ragioni dell'opposizione ad un consistente ampliamento della zona industriale e le alternative formulate da cittadini e associazioni (m.b.)
La zona industriale di Osoppo e Buja, che è un’opportunità di lavoro e crescita per l’intera zona, si sta trasformando, per cattiva gestione, in una minaccia per i centri abitati di Osoppo, Rivoli e Saletti e per la sicurezza, la salute e l’ambiente.
E' cronaca di questi giorni la notizia dell'approvazione, da parte della Regione, della Variante del Comune di Osoppo che prevede l'ampliamento della zona industriale, già bocciato dai cittadini con 529 osservazioni e opposizioni. Legambiente, il Comitato per lo sviluppo sostenibile e di qualità della zona industriale e il Comitato ARCA hanno elaborato proposte tese a ridurre e rendere sostenibile l'impatto dell'ampliamento, che prevede un avvicinamento al centro abitato dagli attuali 1.200 metri a soli 400 metri, e del previsto tracciato della bretella autostradale Cimpello - Sequals - Gemona.
Si chiede un ampliamento meno esteso e impattante, la creazione di adeguate zone cuscinetto e di barriere di separazione verso i centri abitati di Osoppo, Rivoli e Saletti, la ristrutturazione delle viabilità Esistenti per realizzare adeguati collegamenti tra le aree produttive della pedemontana del gemonese e del pordenonese in alternativa alla bretella autostradale Cimpello-Gemona, una crescita produttiva e occupazionale basata su ricerca e innovazione, la certificazione ambientale dell’Area industriale su modello europeo, il riuso e il recupero delle aree e dei capannoni inutilizzati presenti nel territorio, la creazione di un parco agricolo del territorio per la promozione e recupero di produzioni agricole di qualità.
Attualmente la zona industriale ha una superficie di 2.316.125 mq. Con l’ampliamento previsto di 815.000 mq si raggiungerà una estensione di 3.131.125 mq. Attualmente la zona è sottoutilizzata con una superficie edificata di 441.841 mq, la nuova estensione prevista permetterebbe la costruzione di capannoni per 1.292.457 mq triplicando così la superficie coperta realizzabile rispetto a quella esistente. Adottando un rapporto di un occupato ogni 200 mq si avrebbe la possibilità di insediare attività per un’occupazione di 6.400 unità sui 1.700 occupati oggi presenti: una dimensione del tutto insostenibile e sovradimensionata per il territorio in cui la zona industriale è collocata. Questo senza considerare il recupero delle strutture e infrastrutture che la recessione economica lascia inutilizzate!
Si sostiene, verso l’Opinione pubblica, che l’Ampliamento porterà nuova occupazione, ma se questi sono i numeri c’è sproporzione tra la sostenibilità occupazionale e la tutela della salute e dell’Ambiente.
Questa zona industriale è nata già troppo vicino a centri abitati preesistenti e ad aree di pregio agricolo e ambientale e l’Insediamento è sorto su un “Lago” Sotterraneo che alimenta un acquedotto che serve un bacino di popolazione superiore ai 300.000 abitanti.
Numerosi sono i problemi ambientali irrisolti e che richiedono di essere affrontati alla radice: presenza di uno stabilimento a rischio incidente rilevante, scarichi in atmosfera non completamente rilevati e indagati, scarichi idrici con una fognatura colabrodo e un sistema di “Depurazione” Degli scarichi industriali basato sulla dispersione nelle falde acquifere e nella zona delle risorgive e sulla loro diluizione, il depuratore sotto sequestro da parte della Procura della Repubblica, mancanza di una zonizzazione acustica, insufficiente approccio alla questione delle energie rinnovabili e al recupero e risparmio energetico, mancanza di uno studio di inserimento paesaggistico rispetto agli elementi di pregio ambientale e monumentale anche molto prossime come il greto del Tagliamento, la zona delle Risorgive e il Colle di Osoppo.
Gravi anomalie sono presenti nelle procedure seguite dal CIPAF e dai Comuni di Gemona, Osoppo e Buja ai fini dell'ampliamento di cui si parla ormai da oltre dieci anni. Anomalie presenti anche nella recente approvazione regionale. Sono improvvisamente decadute, senza che nulla di nuovo si verificasse (anzi in presenza di un aggravamento della crisi economica), le richieste degli Uffici regionali di motivazione dell’Entità dell’Ampliamento. Queste richieste erano state all’Origine della riserva vincolante formulata dalla Regione nel 2009 e avevano determinato la richiesta del Sindaco di Osoppo, ai medesimi Uffici “Di non dare corso temporaneamente all’Iter di competenza in quanto, su richiesta del CIPAF, si intendono approfondire i contenuti del superamento di alcune riserve”. Questo aveva portato a una sospensione della procedura di quattro anni. Oggi questa richiesta di motivazioni di fatto “Decade”.
Ed è certamente anomalo che nel frattempo, da parte di alcuni industriali insediati nella zona industriale, si sia proceduto ad acquisire terreni agricoli per circa 180.000 mq che, nel momento in cui divenissero edificabili per insediamenti industriali, triplicherebbero il loro valore.
La suburbanizzazione di fatto dei centri città, con quartieri recintati virtuali come denunciato da Anna Minton nel suo Ground Control, ormai salta agli occhi. Corriere della Sera, 3 aprile 2013, postilla (f.b.)
LONDRA — I «fantasmi» più ricchi al mondo abitano a Belgravia, quel lussuosissimo miglio quadrato schiacciato fra Buckingham Palace e Chelsea. Ci sono, si nascondono e scappano. Le loro case sono fra le più care, o forse sono le più care, sulla faccia della Terra ma la sera hanno sempre le luci spente e le finestre sbarrate. Case di «fantasmi», appunto. Ma che «fantasmi». Tipo l'oligarca russo Oleg Deripaska che ha la residenza in Belgrave Square, un palazzo a tre piani. Tirò fuori, nel 2003, dalle sue finanze private ben blindate nel paradiso fiscale delle British Virgin Islands qualcosa come venticinque milioni di sterline per acquistare il meraviglioso palazzo una volta di proprietà, parliamo degli anni Trenta, del parlamentare conservatore Henry Channon. L'aristocratico tory lo usava per i ricevimenti e per ospitare l'allora principe di Galles, il re Edoardo VIII che poi abdicò per amore di Wallis Simpson.
Pur avendo investito una fortuna (briciole per l'ex studente di Fisica all'Università di Mosca divenuto, secondo la rivista americana Forbes, il nono uomo più facoltoso del pianeta), Oleg Deripaska e la moglie a Belgrave Square non si vedono mai, o quasi. Nelle pieghe di una delle tante guerre giudiziarie fra oligarchi russi è venuto fuori, ad esempio, che nel 2005 l'imprenditore amico di Putin non vi passò che 27 notti. E solo 19 nel 2006. Mai per più di tre o quattro giorni consecutivi. Davvero, Oleg Deripaska, il principe dei «fantasmi» di questa Londra a mille carati dove un immobile può costare anche 75 milioni di sterline e un appartamento 21 milioni, quello di Eaton Square venduto dalla scrittrice Nigella Lawson e dal marito Charles Saatchi collezionista d'arte, cofondatore col fratello della agenzia pubblicitaria Saatchi&Saatchi, proprietario della Saatchi Gallery. Tutta gente che c'è ma non si vede. Una toccata e fuga.
Un rapporto della Savills, società di intermediazione immobiliare, pubblicato dal New York Times in un servizio di Sarah Lyall, rivela che il 37 per cento degli acquirenti di case a Belgravia non vi risiede. Avere una «base» nell'enclave più esclusiva di Londra è una questione d'immagine per russi, per arabi, per cinesi e per indiani. Un capriccio per i nuovi «fantasmi». Ma si può ben comprendere vista la storia passata e recente di Belgravia, dove per altro ci sono pure il consolato e l'istituto di cultura italiani. Poco dà più lustro di un «rifugio» nella zona che all'inizio dell'Ottocento fu sviluppata dal duca di Westminster, quel Richard Grosvenor col titolo pure di duca di Belgrave, proprietario dei terreni a sud di Buckingham Palace.
L'elenco dei cittadini famosi di Belgravia è lungo. Miliardari di oggi (Roman Abramovich ha ceduto alla ex moglie Irina un palazzo con 19 camere da letto) e premier di ieri (Margaret Thatcher in Chester Square). E poi musicisti immensi: Mozart in Ebury Street 180 pare abbia composto la sua prima sinfonia. O manager di musicisti immensi: Brian Epstein dei Beatles. Autori e attori di prima grandezza: Ian Fleming (padre di 007) al 22b di Ebury Street e nella stessa via, dopo, Michael Caine. Vivien Leigh (la Rossella O'Hara diVia col Vento) col marito Laurence Olivier stava invece in Eaton Square al 48, e non lontano, più avanti, sarebbero arrivati Cristopher Lee (Dracula, Il Signore degli anelli,Star Wars) e i due James Bond, Sean Connery e Roger Moore. Infine le modelle: Elle Macpherson il «fantasma» più bello.
Difficile sfuggire, per oligarchi e sceicchi, per imprenditori indiani o cinesi, al richiamo di Belgravia. Solo che hanno trasformato il quartiere in un covo di «fantasmi». Se non è coprifuoco, la sera, quasi ci siamo. Case miliardarie usate pochi giorni all'anno. E allora ecco che si aggira l'incubo del gruppo degli squatters di Belgravia. Specializzati in occupazioni. Nel 2009, tanto per citare un caso, nel giro di pochi giorni sei «senza dimora» si divertirono a impadronirsi di due palazzine in Belgrave Square, con la loro biancheria appesa fuori, lasciando attonita la famiglia vicina degli Abramovich.
Ora chi fa discutere è la signora Stephanie Demouh, 38 anni, sei figli, africana del Togo. È povera ma è riuscita a entrare nei programmi di assistenza edilizia: i servizi sociali pagano la residenza (e che residenza) nel cuore di Belgravia, a lei e famiglia. E non intende muoversi. Un po' di vivacità e di colore. Pure la notte. Nella cittadella dei «fantasmi».
Postilla
Val la pena ricordare qui che un paio di estati fa, ai tempi delle rivolte giovanili nelle città britanniche, mentre ancora fumavano le braci di negozi saccheggiati e incendiati, qualcuno sottolineò come esistesse una stretta correlazione fra urbanistica e rivolte, nel senso che queste erano scoppiate di preferenza là dove convivevano fasce di reddito diverse. Forse non è un caso che le spinte della destra ad allentare i vincoli di cambio di destinazione d'uso, di espulsione dei ceti popolari dai nuclei centrali, di pressione per nuovi quartieri ghetto rigorosamente in area greenfield, si siano intensificate nel medesimo periodo. Insomma, anche queste gated communities per ricchi, come gli shopping mall chiusi in zone di riqualificazione, o altri organismi suburbani geneticamente modificati, fanno parte (volenti o nolenti) dell'assalto alla città moderna come l'abbiamo conosciuta. Esiste una risposta? Forse, ma forse non è molto progressista né intelligente cercarla predigerita nelle solite formule novecentesche (f.b.)
per i veri appassionati – un po' masochisti - oltre a ripassarsi o leggersi per la prima volta le anticipazioni di Anna Minton, anche un giro nel ricco sito della Savils Real Estate United Kingdom http://www.savills.co.uk/
Come ha ben intuito da anni chiunque si oppone all'appiattimento implicito in certe idee di città moderna, spazi fisici e virtuali autoritari sono da respingere. Financial Times, 27 marzo 2013 (f.b.)
Titolo originale: New York’s wonder shows planners’ limits – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
I lettori di questo giornale in visita a New York di solito girano in centro, fanno compere, si spingono fino a Wall Street, in macchina o in metropolitana. Quando ho un po' di tempo in più, io vagabondo in tutta quell'area senza una destinazione particolare. Greenwich Village, Chelsea, la Bowery e il Lower East Side sono ricche di architetture curiose, negozi particolari, bar affascinanti, strati su strati di storia sociale americana. Non scopro certo nulla di particolare, niente che vada oltre quanto osservato brillantemente cinquant'anni fa da Jane Jacobs nel suo La Vita e la Morte delle Grandi Città. Un libro nato dalla battaglia contro Robert Moses, responsabile statale e cittadino delle grandi opere che voleva costruire anche una Lower Manhattan Expressway, superstrada sopraelevata che portasse gli automobilisti direttamente da Queens al New Jersey attraverso il ponte di Williamsburg e l'Holland Tunnel. Distruggendo nel suo passaggio interi quartieri e la loro storia.
La Jacobs raccontava, attraverso meticolose osservazioni, come la vita delle città fosse il prodotto di una serie di interazioni sociali difficili da programmare. Vivere in un ambiente denso, lungi da rappresentare un male, era invece fonte di vitalità. Vie brevi, articolate su parecchi isolati, consentivano ad abitanti e passanti di imboccare vari percorsi, fare varie esperienze. La Jacobs spiegava anche perché le città fortemente progettate di tutto il mondo, come Canberra, Brasilia, Chandigarh o anche la città giardino di Letchworth, sono tanto monotone. E i suoi lettori capivano come tutte le superstrade realizzate da Moses avessero fortemente minato la vitalità dei quartieri periferici di New York.
La battaglia fu vinta: l'idea della Lower Manhattan Expressway venne abbandonata. Ma si vinse anche una assai più importante guerra, quando Moses, probabilmente la persona più potente a New York per mezzo secolo, alla fine fu destituito nel 1968. Le ruspe che avevano abbattuto la Penn Station si fermarono davanti alla Grand Central, e gli effetti non si limitarono ad una sola città. Nell'arco di un decennio, finiva tutta l'epoca del predominio di certa architettura modernista. I progetti urbani si fecero più modesti, e da attuarsi in modo incrementale.
Se le interazioni sociali impreviste stanno alla base di una città vitale, stanno anche alla base di organizzazioni altrettanto vitali. Non credo proprio che Marissa Mayer di Yahoo abbia mai conosciuto Jane Jacobs, e probabilmente questa alta dirigente di impresa tecnologica avrebbe avuto poco da dirsi con la militante di quartiere. Ma esistono comunque evidenti analogie fra la decisione di Yahoo di abbandonare le strategie di telelavoro, e il rifiuto della Jacobs di certa piatta progettazione urbana.
Anche gli entusiasti delle strutture virtuali, così come i progettisti della città razionalista, vorrebbero imporre una certa forma organizzativa a sistemi complessi che riescono a comprendere solo in parte. Il telelavoro, è l'equivalente cyber-spaziale di uno schematico corridoio di uffici, ciascuno con la porta chiusa. Oggi gli architetti che progettano uffici hanno abbandonato questa idea di corridoio, per ambienti aperti in cui le relazioni non hanno bisogno di passare per l'apertura di una porta, né per una telefonata o email. “Comunicazione e collaborazione sono importanti dobbiamo lavorare fianco a fianco” spiega una circolare interna di Yahoo, che potrebbe anche essere stata scritta dalla Jacobs.
La Jacobs suscitava le ire degli urbanisti di allora, convinti che dai loro progetti potesse nascere un mondo razionale, popolato da quelle facce sorridenti che si vedono nei disegni degli architetti. Anche Yahoo si attirerà critiche del genere da parte dei tecnofili, quelli che hanno difficoltà a distinguere tra un'amicizia via Facebook e il contatto fisico. Gente come Ray Kurzweil, quello che ha inventato il riconoscimento ottico del carattere e il passaggio dalla voce al testo scritto. Il suo ultimo libro, How to Create a Mind, ha come sottotitolo la promessa decisamente poco modesta di “rivelare i segreti del pensiero umano. Kurzweil sostiene che questo pensiero sia basato su un numero di schemi definito e riconoscibile. Ne segue che le macchine potranno – e abbastanza presto, esattamente nel 2029 – sostituirsi all'intelligenza umana. Basta avere sottomano una specie di grossa enciclopedia di schemi di funzionamento.
Anche gli urbanisti modernisti erano convinti di poter elencare tutte le funzioni di una città, e organizzarle ciascuna per spazi definiti. Allo stesso modo di Robert Moses, oggi Kurzweil certamente capisce una parte del pensiero umano e delle esigenze contemporanee, ma non basta. La prospettiva scelta da Jane Jacobs era molto più sottile e sfumata sui comportamenti quotidiani. E basta una passeggiata per le zone di Manhattan dove abitava e che tanto amava, per capire quanto poco corrispondano a certe idee dei programmatori, di ieri come di oggi.
Insistono per far rivivere un vecchio scandalo (per loro era un ottimo affare solidamente sponsorizzato), al quale sia eddyburg che Report dedicarono molta attenzione. Il Fatto quotidiano, 27 marzo 2013
Richiesta di risarcimento del fratello del Cavaliere per la mancata costruzione di "Milano 4" sull'area della Cascinazza. La giunta di centrodestra non era riuscita a sbloccare la pratica nonostante l'impegno dell'assessore Paolo Romani (poi indagato), quella di centrosinistra ha definitivamente vincolato l'area a parco. Dovrà dire addio a ruspe e cazzuola e ai suoi sogni di costruire Milano 4, ma Berlusconi junior non ha alcuna intenzione di arrendersi e ha deciso di chiedere i danni per la mancata edificazione per una cifra che si aggira sui 60 milioni di euro.
Non arriveranno più i 420mila metri cubi di cemento sul celebre terreno della Cascinazza di Monza acquistato negli anni Ottanta da Paolo Berlusconi, fratello del Cavaliere, perché tutti i suoi50 ettari sono destinati ad entrare nel Parco della media valle del Lambro. , revocando la Variante al Pgt costruita dall’ex ministro Paolo Romani mandato come assessore all’Urbanistica proprio per chiudere la questione nel 2008). La Giunta «rossa», tra l’altro, non solo ha deciso che non sarebbe arrivato nuovo cemento, ma ha perfino vincolato per sempre l’area a Parco, stabilendone la tutela e impedendo edificazioni future se non con qualche recupero della vecchia cascina.
Un bello sgambetto per la proprietà dell’area (che oggi è la Lenta Ginestra, società che ha incorporato la Istedin di Paolo Berlusconi con un finanziamento soci infruttifero di scopo per corrispettivi 40 milioni di euro) che però non ha alcuna intenzione di arrendersi.
Stavolta, considerando che la Variante al Pgt redatta quando era assessore Paolo Romani aveva fatto rivalutare il terreno di almeno 60 milioni di euro, la società si è rivolta al Tar chiedendo il risarcimento per danni patiti per un corrispettivo pari al valore economico dell’edificabilità, una cifra che sfiora appunto i 60 milioni. Il Comune di Monza ha dato ora mandato all’avvocato per resistere in giudizio e l’assessore all’Urbanistica Claudio Colombo si è detto tranquillo. «Anche perché – ha svelato – la proprietà nel notificare il ricorso impugnando la delibera di revoca aveva commesso un errore e al posto di inviarla a Monza, l’aveva spedita al comune di Milano. Con conseguente decadimento del ricorso e scadenza dei termini per agire contro la decisione dell’Amministrazione».
Naufragata così la possibilità di contestare la mancata edificazione, adesso la società si può limitare a chiedere i danni. La vicenda, insomma, dopo trent’anni continua. Acquistato nel 1980 dai Ramazzotti (quelli dell’Amaro), il terreno era costato 11mila lire al metro quadro perché era considerato agricolo (vi sorgeva solo l’antica Cascina, da cui la zona prende il nome oltre ad essere a rischio esondazione del fiume Lambro). I nuovi proprietari però avevano chiesto subito l’edificabilità appellandosi a un vecchio piano di lottizzazione del 1962 già decaduto. Tentativi di edificare tutti falliti, fino a quando la Cassazione nel dicembre 2006 aveva espresso l’ultima parola, dando ragione al Comune che non permetteva l’edificazione e torto alla Istedin. «Deve essere rigettato il ricorso che chiedeva diritto ad edificare e nessun indennizzo è dovuto alla proprietà», stabilì la Corte, chiudendo così la questione. Ma adesso la società che ha acquisito per incorporazione Istedin ha deciso di riprovarci.
Riferimenti: Vedi su eddyburg questo servizio e numerosi altri articoli nella cartella SOS Padania
Auguri al sindaco di Rimini. Gli ricordiamo che i proprietari di terreni resi edificabili dal piano regolatorevigente non hanno alcun “diritto edificatorio” da rivendicare contro unasaggia, motivata ed equa variante delle previsioni urbanistiche comunali. La Repubblica,ed. Bologna, 26 marzo 2013
Rimini è l’unica città nel Paese che può vantarsi (?) di avere procreato un verbo, presente in ogni vocabolario della lingua italiana: riminizzare. Sinonimo, più o meno, di «costruire in maniera disordinata e selvaggia». La domanda che mi faccio in queste ore, le più dure da quando nel giugno 2011 sono stato eletto sindaco, è questa: sarà consentito a Rimini di lasciare il poco onorevole spazio dedicato dal dizionario nazionale? E mi rispondo: no. Non bastassero il patto di stabilità che, di fatto, ha azzerato qualunque capacità di investimento da parte dei Comuni; oppure il combinato disposto tra Comune “esattore per conto terzi” di tasse odiose, pressione sociale centuplicata dalla crisi economica, desertificazione di qualunque credibilità partitica. Nella “capitale delle vacanze” la matassa va ingarbugliandosi intorno al tema urbanistico. I fatti sono presto detti: ventidue mesi fa, al suo insediamento, questa Amministrazione comunale e questa maggioranza avevano investito gran parte del proprio mandato sullo stop al consumo del territorio. E non per un ideologico “basta al cemento” ma sulla base di una semplice lettura che vedeva nel cambiamento epocale determinato da una società in crisi le ragioni di una svolta nel modello di sviluppo. Così, mentre l’Europa si attrezza con quartieri senz’auto, alimentati esclusivamente da energie rinnovabili, in Italia, in Emilia Romagna e a Rimini, lo sviluppo non può prescindere dal mattone. E sul mattone Governi vanno silenziosamente in crisi.
Nel tortuoso passaggio da Piano regolatore a Piano strutturale e Masterplan, l’amministrazione comunale di Rimini sta tentando di fermare il milione e 200 mila metri quadrati di nuove richieste di ‘capacità edificatoria’ avanzate con le osservazioni. Sono circa 20 mila nuove case o uffici o negozi che calerebbero in un contesto che già si fregia del titolo onorario di cui sopra e che in questo momento conta già su 15 mila abitazioni sfitte. Secondo pareri, normative, prassi, non si può dire ‘no’. C’è quindi chi pensa che il Comune non debba che vidimare le precedenti scelte o assecondare le nuove richieste. A questa apparente inevitabilità, ci siamo opposti.
Il risultato? Dubbi affioranti in maggioranza causa “intimidazioni” legali dei costruttori, una denuncia per abuso d’ufficio nei miei confronti, la pressione ormai insostenibile di chi ti sbatte in faccia anche i drammi occupazionali per giustificare la resa alle antiche consuetudini. Da parte mia, andrò fino in fondo, sino alle estreme conseguenze, legali e politiche. Non mi troverei a mio agio nella parte di chi, come il mio collega di Parma, dopo una campagna elettorale fiammeggiante ha alzato le mani davanti all’inceneritore acceso, dicendo “non potevo fare altro”. E non voglio neanche rifugiarmi nello speakers’ corner tanto di moda del riformismo: a Rimini e in Emilia Romagna, sull’urbanistica, non basta più dirsi riformisti, occorre una determinazione più alta e soprattutto più coraggiosa. Altrimenti… anche nei prossimi 50 anni basterà sfogliare il dizionario e andare alla lettera R, sicuri di ritrovarci, incancellabili.
Il modello di sviluppo turistico suburbano costiero tanto amato da generazioni di amministratori sardi, e il suo automatico rovescio della medaglia: il degrado urbano, o peggio sociale
La Costa Smeralda si prepara ad accogliere ruspe e mattoni per il più consistente intervento edilizio dai tempi del Principe Aga Khan. Niente di nuovo sotto il sole: l'obiettivo dichiarato è quello di “svecchiare la clientela abituale” e attirare nuovi frequentatori, più giovani e super ricchi. Questo l'intento della nuova gestione della Costa Smeralda made in Qatar. Il tutto è ancora in fase di definizione e le proposte progettuali dovranno essere valutate dagli uffici, ma niente lascia presagire che gli attuali rendering non vedranno la luce.
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Rendering di un progetto |
La stampa dedica tutta l’attenzione sui progetti destinati alle coste, senza tuttavia occuparsi né della città di Olbia attorno a cui ruota questo processo, né del chiaro intento di archiviare definitivamente il Piano Paesaggistico Regionale varato dalla giunta regionale di Renato Soru. In questa parte di Sardegna la classica visione dello sviluppo territoriale saldamente legata a grandi flussi di denaro, volumi e aumenti di cubature beneficia, più che altrove, delle concessioni previste dai più recenti strumenti legislativi in materia di (sedicente) rilancio economico, ciclicamente riconfermati. Ora come allora.
Il processo di specializzazione turistica e di elitarizzazione della costa nord-orientale sarda sembra, dunque, più vivo che mai e volgendo lo sguardo verso l'entroterra la situazione, per altri versi, non appare meno segregata. Propongo di seguito alcune considerazioni sulla città di Olbia che scaturiscono da una riflessione più ampia maturata nell’ambito di una ricerca nazionale su “Spazi pubblici, popolazioni mobili e processi di riorganizzazione urbana”.
Olbia costituisce la realtà urbana più significativa dell’area nord-orientale della Sardegna per numero di abitanti, concentrazione di attività economiche e servizi e al tempo stesso rappresenta l'emblema della debolezza di un sistema territoriale incapace innanzitutto di individuare una propria vocazione che, da un lato, sia alternativa a quella di incubatore di manodopera estiva per i vari resort limitrofi e, dall'altro lato, si proponga semmai di investire e promuovere le risorse del luogo - e il luogo stesso - in una logica più articolata e di lungo termine.
Già a partire dall'organizzazione della città di Olbia è possibile cogliere una serie di elementi che tradiscono un certo caos di fondo. Attraversare la città è un ottimo esercizio per capire i meccanismi che regolano un sistema urbano e nel caso di Olbia questa pratica consente di mettere insieme vari pezzi di un puzzle che a fatica si incastrano perché l'immagine di città che dovrebbero formare non è affatto definita.
A titolo d'esempio può essere utile adottare come prospettiva di osservazione gli spazi pubblici urbani. In una città cresciuta freneticamente negli ultimi cinquant'anni, sulla scia del boom della Costa Smeralda, l'accumulazione disordinata di manufatti destinata ad accogliere le nuove popolazioni inurbate ha di fatto prevalso su qualsiasi ragionamento attorno alle modalità con cui governare l'espansione in atto. Con i risultati che si possono osservare oggi: una città largamente inclusiva per quanto riguarda la circolazione automobilistica e assai carente su molti altri versanti. Primo fra tutti, gli spazi destinati all'incontro e alla socialità.
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Barriere all'acessibilità del parco
(foto Sara Spanu) |
Basti pensare che è tutto sommato recente la riqualificazione di un'area ex demaniale, il cosiddetto parco urbano “Fausto Noce”, in pieno centro olbiese, forse l'unica area della città abbastanza estesa da consentirne un utilizzo diversificato in termini di attività sportive o più semplicemente per svago e intrattenimento. Seppur isola felice in mezzo al traffico, frequentata da numerosi visitatori, il parco urbano si presenta come un'occasione mancata. Intanto per via del fatto che non si apre per nulla agli spazi adiacenti, mentre risulta fortemente rinchiusa entro confini e recinti, addirittura fiancheggiata dalla presenza di corsi d'acqua invalicabili, quasi fosse una fortezza.
E in effetti l'idea di una realtà un po' segregata la trasmette: non solo per via degli orari e dei punti di accesso, che evidentemente ne regolano la fruizione, ma anche per come lo stesso spazio è organizzato all'interno. Parte del parco è riservata a strutture sportive anche importanti, il cui utilizzo tuttavia è prerogativa di atleti e società sportive, e l'accesso strettamente riservato. Gli spazi di libera fruizione si sviluppano attorno alle strutture presenti, talune persino in grave stato di degrado, e non sembrano rivestire la funzione prioritaria che ci si attenderebbe da un parco pubblico, ossia essere un luogo di identificazione, attrazione e destinato a favorire usi e accessi diversificati da parte di popolazioni eterogenee.
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Gli utenti esclusi dal verde
(foto Sara Spanu) |
Su piccola scala l'organizzazione di questo spazio ricalca ciò che si replica anche appena fuori dai cancelli, ovvero il prevalere di una fruizione della città fortemente individualizzata, a forte orientamento automobilistico sia dal punto di vista della percezione che della fruizione, che scoraggia un uso diffuso degli spazi collettivi: sia perché spesso mancano, sia perché sono colonizzati da altri usi. Anche in questo caso è sufficiente attraversarla a piedi (modo di trasporto evidentemente considerato marginale da chi la città la progetta e organizza e governa) per rendersi conto rapidamente che la mobilità pedonale non sempre è stata contemplata nelle scelte spaziali, stata lasciata più che altro al caso o a soluzioni di tipo fai-da-te. Analogamente, la crescita disordinata e non pianificata della città si intuisce anche dalla scarsità di slarghi e piazze, c'è poco o nulla per favorire le relazioni e il senso di identificazione, come coltura della dimensione pubblica e collettiva della città.
Certo ribaltare una situazione pregressa sarebbe operazione tutt'altro che semplice, ma forse basterebbe cominciare da iniziative che tendano a riqualificare sia gli spazi che gli usi. Molte realtà urbane ci sono riuscite, se si pensa alla riappropriazione del waterfront da parte di città come Barcellona e Genova in epoca recente. Anche a Olbia un po' è percepibile un tentativo del genere, che però non si configura certo come disegno complessivo entro cui gli interventi puntuali indichino una logica, una strategia. Viene da chiedersi: gli sforzi in qualche modo messi in atto, che tipo di effetti intendono produrre e, più in generale, a quale idea di città si ispirano?
Più che rientrare in un progetto di città a lungo termine, orientato ad accrescere la qualità urbana degli spazi, l'idea di Olbia che emerge osservando i suoi spazi e l'uso che i cittadini provano a farne, corrisponde alla logica cumulativa che se ieri è servita nel bene e nel male ad assecondare l'espansione demografica e territoriale, oggi non attribuisce né potrebbe attribuire agli spazi della città un'identità lasciata in sospeso, proprio a causa di una crescita troppo rapida e mal gestita. Per provare a farlo ci si affida ad una prassi consolidata in voga nelle città contemporanee, di ricorrere all'inserimento di manufatti architettonici di richiamo.
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Invece di una piazza, un'architettura
(foto Sara Spanu) |
Ma il dubbio torna: con quale finalità? L'inaugurazione della Piazza Mercato in seguito al restyling di qualche anno fa venne presentata come occasione per rilanciare il centro storico: una maestosa copertura di vetrate ondulate e ferro che sovrasta un parcheggio interrato. Anche non mettendo nel conto il fatto che un errore di progettazione rende ad oggi inutilizzabile quel parcheggio (e in sostanza anche la piazza un luogo malsano se non addirittura pericoloso) è difficile ritenere che il rilancio del centro antico olbiese possa dirsi in qualche modo iniziato: l'operazione, come altre, non sembra rientrare in strategie più complesse di intervento in grado di rispondere in maniera articolata a esigenze differenti. In altre parole, manca un ripensamento complessivo dell'organizzazione della città e dei suoi spazi non in termini di occasioni di rilancio economico o singoli manufatti da ostentare, ma di qualità urbana e quindi di accessibilità, flessibilità, sicurezza.
I centri commerciali di modello extraurbano, qui come altrove e probabilmente a maggior ragione, sopperiscono alla cronica mancanza di qualità urbana che Olbia evidentemente non è in grado di offrire, specie in termini di spazi in cui incontrarsi e stare insieme. E qui persino l'aeroporto si propone a sua volta - in un'accezione provocatoria - come “spazio pubblico” di supplenza, ma di fatto in aperta concorrenza alla città. Alla funzione originaria di scalo e terminale, se ne affiancano altre, localizzate qui e non a Olbia centro, che di fatto sottraggono energie e risorse alla città vera per spostarle altrove e sottoporle a ben altri meccanismi. In tutto questo, spicca l'assenza di una guida politica autorevole capace di porre un freno al progressivo impoverimento urbano, innanzitutto di tipo sociale e culturale, offuscato da investimenti miliardari e sedicenti piani di sviluppo locale.
Si svuota della sua funzione e del lavoro che l'ha alimentata per oltre un secolo la cartiera Burgo di Mantova, monumento di architettura moderna. Corriere della Sera Lombardia, 16 gennaio 2013, postilla (f.b.)
MANTOVA — Non è solo una fabbrica, la cartiera Burgo di Mantova, che l'altro giorno ha annunciato la chiusura il 9 febbraio, lasciando a casa 188 dipendenti. Piuttosto, l'altra faccia della città, quella che si specchia sulla sponda opposta dei laghi. Di là il profilo suggestivo disegnato dai palazzi dei Gonzaga. Di qui la cartiera, anch'essa opera d'arte, la «fabbrica sospesa» disegnata nel 1961 da Pier Luigi Nervi, che aveva appeso con tiranti d'acciaio il tetto dell'edificio a due enormi alzate in cemento armato. Non per una ragione estetica, ma per far stare sotto la fabbrica, in un'unica campata, un potente macchinario americano, da 300-400 metri di carta al minuto.
C'era fame di carta da giornale, all'epoca. Non come adesso, che di quotidiani se ne vendono sempre meno. Ma per scriverla tutta, la storia della cartiera, bisogna partire da ancora più indietro. Marzo 1902. La società Binda Lamberti &C. compra 12 ettari di terreno in zona Poggioreale. Un imprenditore inglese, Arturo Burton Buchley, a fine Ottocento ci aveva impiantato una piccola raffineria, che aveva avuto vita breve. Nel 1904 apre il primo impianto di produzione di cellulosa. Dopo una serie di passaggi di proprietà, nel 1931 l'ingegnere genovese Luigi Burgo la compra dai banchieri svizzeri Vonwiller.
La cartiera diventa più grande, risorge anche dalle ceneri di un incendio del 1938 e, durante la guerra, viene militarizzata: la cellulosa serve infatti a produrre esplosivi. Scampato alla guerra e al fascismo, l'ingegner Burgo intuisce che, nella nuova Italia democratica, la carta da giornale può trasformarsi in cartamoneta. Si lancia su quel mercato e ne diventa il leader. A metà anni Sessanta gli operai sono quasi 700. Nel 1974, quando un altro disastroso incendio la devasta, la fabbrica produce quasi la metà di tutta la carta da giornale italiana.
I primi problemi, con vertenze e licenziamenti, si fanno sentire già negli anni Ottanta, ma il declino irreversibile avviene quattro anni fa, con la riduzione della domanda, l'aumento della concorrenza straniera e l'impennata dei costi. Nel frattempo l'azienda cambia ancora proprietà, passando nelle mani delle banche e della famiglia di imprenditori vicentini Marchi. Lunedì pomeriggio, Burgo Group, annuncia la chiusura.
«Dal 2008 — racconta Gian Paolo Franzini, segretario provinciale Slc Cgil — insistiamo per una riconversione o una diversificazione della produzione, che forse avrebbero potuto limare le perdite (un milione al mese nell'ultimo anno) e l'indebitamento (oltre 900 milioni)».
I lavoratori, riuniti ieri in assemblea, continuano a sperare in una rivoluzione produttiva, nell'ingresso di nuovi capitali. Ma da Confindustria dicono: «Per ora non ci sono strade aperte in tal senso».
Postilla
Naturalmente i migliori auguri e auspici perché la questione occupazionale, per i lavoratori e le famiglie che dipendono direttamente e indirettamente dalla cartiera, trovi rapidamente e positivamente sbocco. Il caso del complesso progettato da Pierluigi Nervi, un manufatto che si studia ovunque su tutti i testi di Storia dell'Architettura, com esempio mirabile di “moderno che dialoga alla pari con l'antico”, può però diventare emblematico di un tema urbanistico di grande attualità, nel nostro paese e non solo, proprio per la sua rilevanza, nonché per la collocazione in un territorio come quello mantovano, generalmente piagato dalle classiche distese di capannoni vuoti e inutili, a consumare ex fertili campagne, come la distesa che si può ammirare giusto alle spalle della cartiera, appena oltre la circonvallazione est. Se si vuole davvero dialogare alla pari con l'antico, con la qualità unica paesistica ambientale e culturale rappresentata dal centro storico e dal lago su cui si affaccia l'imponente struttura, è essenziale rivederne il rapporto col suolo, che un'idea di manufatto industriale vetusta ma tecnicamente accettata ha sinora ridotto quasi a nulla. Per diventare parte integrante della città, oltre al suo rapporto sociale ed economico attraverso il lavoro, il monumento deve recuperare continuità territoriale, e non chiudersi nel beato isolamento, magari sfruttando la storia industriale per riciclarsi in una gated community sui generis. Cosa che invece avviene spesso e volentieri con tanti complessi industriali dismessi, come a Londra recentemente con la centrale di Battersea, quella famosa in tutto il mondo per la copertina dell'album Animals, dei Pink Floyd, diventata quello che in gergo viene definito uno “yuppodromo”. Un caso da seguire, quindi, nella sua evoluzione, perché paradigmatico e potenziale modello, in positivo o in negativo (f.b.)