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Pompei «è una città alla quale manca la condizione dell’abitare, ma della dimensione urbana possiede molte altre caratteristiche. Vive in un ambiente dal quale dipendono sia il suo stato di salute sia molte cause del suo degrado».Un estratto del libro "Pompei, Italia" di Francesco Erbani. La Repubblica, 25 agosto 2015

Vista dall’alto, dal terrapieno dove sorge la Casina Dell’Aquila, Pompei trasmette un senso di calma. Il silenzio sembra mescolarsi a una specie di muta saggezza e riveste le pareti scoperchiate, le pietre e i colonnati della città antica. In una mattina d’estate, con il sole che emette solo opachi bagliori, quel che anima le strade, il frastuono di chi visita gli scavi non intacca la quiete che pare attinga la propria misura direttamente dal mondo classico di cui Pompei è testimone. È una trama di muri e di vegetazione, di opere dell’uomo e della natura, un paesaggio culturale che, se si volta lo sguardo verso nord, scivola senza che apparentemente nulla lo contamini fino al Vesuvio, lo “sterminator Vesevo” al quale Giacomo Leopardi nella “Ginestra” conferisce il ruolo di arbitro di un destino contro cui gli esseri umani hanno pochi o nessuno strumento per opporsi. La città morta, insomma, vista da qui sovrasta ogni cosa viva, pulsante, nervosa e rumorosa, e quasi fortifica l’illusione che solo il passato sia sede dell’armonia e che qualunque contatto con il contemporaneo sia un’intrusione, indebita e rovinosa.

È, appunto, un’illusione. Meglio: una pericolosa illusione consolatoria. Senza rapporti con il contemporaneo, con il contesto, Pompei non è più nulla, non essendo un oggetto chiuso dentro la bacheca di un museo. È una città alla quale manca la condizione dell’abitare, ma della dimensione urbana possiede molte altre caratteristiche. Vive in un ambiente dal quale dipendono sia il suo stato di salute sia molte cause del suo degrado.

L’area archeologica è grande 66 ettari, la parte scavata 44. Conta 1.500 domus, vanta 242 mila metri quadrati di superfici murarie, 18 mila di superfici dipinte, 20 mila di intonaci, 12 mila di pavimenti. Pompei non è in un museo e neanche in un lembo desertico né è avvolta da una specie di green belt, una cintura protettiva, una camera di compensazione con tanti filtri che depurano tutto ciò che entra, materiale o immateriale che sia. Pompei vive, sebbene morta, in un contesto dove la densità di popolazione è fra le più alte d’Europa. La sua storia inizia nel VI secolo avanti Cristo, ma ora è parte – grosso modo il 5 per cento – di un comune che si chiama sempre Pompei, nato appena nel 1928 e dove risiedono oltre 25 mila persone. Alle quali si aggiungono, almeno, le 44 mila di Torre Annunziata, le 64 mila di Castellammare di Stabia e le 50 mila di Scafati, tre paesi che stringono la città antica in una morsa edilizia spaventosamente dilatatasi dagli anni Cinquanta del Novecento nella piana del fiume Sarno, fra il Vesuvio e il monte Faito, spazzando via campi fertilissimi e lasciando pochi lacerti di un tessuto residenziale che va ancora tristemente fiero della propria gentilezza, talvolta di una sontuosa solennità – la Reggia di Portici, le ville vesuviane. Mescolando legalità e illegalità, in quest’area della provincia di Napoli si è prodotta una qualità abitativa che anche solo un fugace sguardo coglie nell’inusuale e casuale brutalità.

Pompei è qui dentro, in un ammasso senza vuoti. È una città recintata, gli accessi sono limitati alle ore diurne (salvo rari casi). È una città laboratorio, la si studia, vi si scava. Ma la sua antica e silenziosa saggezza fa i conti con il disagio di questa terra, con gli indici della disoccupazione, in specie giovanile, indici già alti ma aggravati dalla crisi industriale degli ultimi decenni; con la criminalità camorrista; con un ceto politico e amministrativo – non tutto, per carità – che articola il proprio consenso in termini clientelari e che guarda proprio agli scavi di Pompei come serbatoio cui attingere a mani basse; con ambienti imprenditoriali che immaginano grandi affari dentro e soprattutto fuori delle sue mura; con un mondo di piccoli e spesso miserabili commerci ambulanti, attività che si affollano agli ingressi, in parte abusive o con licenze frutto di contrattazioni politiche. E poi i visitatori. Due milioni e mezzo, circa, ogni anno. (…) Pompei è un enigma italiano, metafora della condizione generale del nostro patrimonio storico e culturale, del suo stato di conservazione, dei valori che esprime e della qualità della sua fruizione. Ed è metafora di un paese, di tanti aspetti della sua vicenda politica e sociale, un paese che, prendendosi scadente cura di quel patrimonio, mostra un volto di sé rivelatore di un malessere che si fatica anche solo a definire e di una condizione non all’altezza dell’eredità ricevuta e poco adeguata al futuro che quest’eredità lascia intravedere. Pompei assume su di sé altre metafore. È la metafora di un atteggiamento politico, culturale e finanche antropologico per cui ci si muove in maniera ondivaga, inseguendo emergenze, l’ultima emergenza, forzando gli apparati amministrativi e varando provvedimenti di legge sempre in affanno, in contraddizione l’uno con l’altro, e orientandosi al massimo sulla breve durata. (…) Pompei è poi metafora delle relazioni con l’Europa, relazioni segnate da adesioni e ripulse che s’inseguono a singhiozzo, da richieste d’aiuto e timori di commissariamenti, da solidarietà e messe in mora. Dalle casse di Bruxelles provengono i 105 milioni del Grande Progetto Pompei destinati a restaurare oltre una cinquantina di domus e ad altri interventi. Deliberati nel 2012, a marzo del 2015 erano stati spesi in una percentuale minima: appena 5,9 i milioni versati per una manciata di cantieri chiusi, ma non ancora collaudati. Il programma dei lavori prevede come scadenza inderogabile il dicembre 2015, pena il rien- tro di quel pacco di milioni nei forzieri europei, a meno che non si trovi un accordo con Bruxelles per una proroga.

E ancora: come non leggere in tante recenti storie pompeiane la metafora di una dialettica fra il Grande Intervento e la cura minuta e costante, fra la Grande Opera e la manutenzione puntuale? È una dialettica giocata al tavolo di una retorica che contrappone il fare al riflettere e al discutere. Una retorica che molte cose dice dell’ethos contemporaneo e che in Italia è diventata spesso conflitto su regole e deroghe, sulle funzioni di controllo proprie di una democrazia complessa e sulle accelerazioni forzate, dettate da insofferenza verso quei controlli e scandite da invettive contro un’imprecisata burocrazia: una guerra fra procedure ordinarie e straordinarie – invocando, per gestire queste ultime, commissari, prefetti, manager e generali.

E, sempre restando all’ambito dei beni culturali, Pompei è metafora di altre discussioni, spesso ridotte a ritornello: quella su pubblico e privato, su quanto spetti allo Stato (obbligato dall’articolo 9 della Costituzione) e quanto possano fare imprese, persone singole, associazioni di cittadini, cooperative di giovani; e quella su conservazione e fruizione, perennemente sbilanciata e incapace di verificare nel concreto quanto il buon assetto della prima possa servire alla seconda e quanto un corretto esercizio della seconda sia essenziale per la prima.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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IL LIBRO

Il brano che qui pubblichiamo è in libreria da dopodomani L’autore lo presenta al Festivaletteratura di Mantova venerdì 11 settembre alle 16,30

«Sono passati dieci anni dalle devastazioni dell’uragano Katrina, ma la città non è mai guarita: i crimini si sono moltiplicati, la ricostruzione è stato un affare solo per i ricchi, migliaia di afroamericani sono “esiliati” in altre città “Non è stato solo un disastro naturale. È stata una catastrofe razziale”». La Repubblica, 25 agosto 2015

«Avevo nove anni quando l’uragano Katrina si è abbattuto su di noi. È quel giorno che sono diventata nera». Madeleine Le Cesne, giovane poetessa afroamericana, ricorda così la tragedia di dieci anni fa: una «catastrofe razziale», per il modo in cui un’intera popolazione venne abbandonata per giorni alla mercè delle acque, nel collasso della protezione civile, senza i soccorsi degni della nazione più ricca del mondo. Fu quel giorno che Madeleine capì cosa voleva dire essere nera. Fu quel giorno, anche, che perse la sua innocenza. «Che cosa ricordo della New Orleans della mia infanzia? Rovine. Case abbandonate. Cimiteri. Campi di gioco distrutti. La nostra evacuazione verso il Texas. La fine di ogni fiducia. I miei genitori avevano sempre pagato le tasse, avevano sempre votato, ma nessuno si è occupato di loro. Casa nostra fu distrutta. Quest’anno, diventata maggiorenne, io non mi sono neppure iscritta al registro degli elettori».

Amarezza, disincanto, cinismo: la voce severa di questa ragazza poeta interpreta una generazione. Com’è diversa dall’aspetto ufficiale che New Orleans vuole offrire al resto del mondo, in questa settimana di celebrazioni ufficiali. Sono arrivato qui per una conferenza organizzata dalla rivista The Atlantic , quattro giorni prima della visita dei “tre presidenti”: Barack Obama, George W. Bush e Bill Clinton saranno tutti in città giovedì, per le commemorazioni solenni. New Orleans ha messo l’abito da festa. Per il turista distratto è più bella che mai: i palazzi storici del French Quarter, dell’epoca coloniale spagnolesca o di Luigi XIV, hanno le verande e le balaustre di ferro battuto ridipinte e lustrate, meglio che nel Mardi Gras carnevalesco. La vegetazione tropicale è lussureggiante, il quartiere residenziale del Garden District è elegante come ai tempi delle piantagioni schiaviste. Per gli intenditori il jazz è sempre sublime, per esempio allo Snug Harbor Cafe sulla Frenchmen Street o al Royal Sonesta sulla Bourbon. Ma la giornalista nera Gwen Ifill della Pbs mi mette in guardia contro le apparenze: «Questa città non è più la stessa. Non è guarita dopo quella tragedia. Fu la peggiore esperienza nella storia americana recente». È lei a sottolineare come nella “rinascita” di New Orleans «l’edificio nuovo più visibile, arrivando all’aeroporto, è un supercarcere ».

A parlare ossessivamente di rinascita, di riscatto, di “resilienza”, è il sindaco Mitch Landrieu che incontro alla conferenza di The Atlantic allo Sheraton. 55 anni, democratico, bianco. Figlio e fratello di politici di professione, anche lui il prodotto di una politica “dinastica”. Landrieu interpreta a meraviglia la volontà di riscatto di questa città, il pensare positivo.

Ha preparato nei minimi dettagli le celebrazioni di questa settimana, anche il contestatissimo invito a Bush. Landrieu non vuole cancellare le responsabilità politiche gravi di «colui che era il comandante supremo nell’ora della catastrofe». Ricorda che «la tragedia di Katrina non fu affatto una calamità naturale, fu un collasso delle istituzioni, un fallimento umano, politico, organizzativo. I danni li provocarono gli uomini, non l’uragano. La furia dell’uragano era quasi passata, quando ci fu il vero disastro e cioè il cedimento degli argini, e l’inondazione di interi quartieri cittadini». Ammette che «ancora oggi, a dieci anni di distanza, siamo solo un po’ più preparati, potremmo resistere a un uragano forza 3, ma non ad uno che raggiunga la forza 5».

Landrieu sa anche che la sua fortuna politica è indissolubilmente legata a Katrina. Che travolse il suo predecessore nero, Ray Nagin, poi condannato a dieci anni di carcere per corruzione. Soprattutto, Katrina ha modificato gli equilibri demografici ed anche elettorali di questa città. «Centomila neri evacuati non sono più tornati, la maggior parte di loro adesso vivono a Houston e Atlanta». Senza quel calo vistoso nella popolazione nera, oggi New Orleans forse non avrebbe un sindaco bianco. Né avrebbe una maggioranza bianca in consiglio comunale. È questa nuova classe dirigente guidata da Landrieu, a recitare il mantra della resilienza e della rinascita. Anche se democratico, Landrieu non prende veramente le distanze da quel grande esperimento economico, poli- tico e sociale che la destra repubblicana volle lanciare qui dopo Katrina. Che cos’è stato questo esperimento, lo ricorda un giovane artista afroamericano, Lolis Eric Elie, scrittore e regista cinematografico. «La ricostruzione della mia città — dice — ha esposto il volto peggiore del capitalismo americano. Chi dice che oggi New Orleans è rinata, usa un solo metro di misura: l’arricchimento dei ricchi».

Per capire a cosa allude Elie sono andato a seguire una contro-celebrazione del decimo anniversario di Katrina, organizzata dal centro culturale Ashe sull’Oretha Castle Haley Boulevard. Una denuncia accorata delle due principali novità introdotte nel dopo-Katrina: la privatizzazione degli alloggi popolari e delle scuole pubbliche. Noncurante della figuraccia fatta dalla sua Amministrazione nei giorni dell’uragano, Bush nel dopo-Katrina affidò New Orleans ai guru del neoliberismo. Ebbero carta bianca per sperimentare le loro ricette più estreme. Voucher ai poveri invece delle case popolari: col risultato che i poveri restano senza alloggi, perché i padroni di appartamenti privati non li vogliono. Voucher anche al posto delle scuole statali: ma le “charter school” (istituti privati che ricevono aiuti pubblici) sono libere di selezionare la popolazione studentesca, rifiutando i meno bravi per non sfigurare nelle statistiche sulle promozioni.

Tracie Washington è una leader riconosciuta della comunità nera: militante dei diritti civili, avvocatessa, presidente del Louisiana Justice Center. «La New Orleans in cui sono nata e cresciuta — dice — era una città speciale per l’intensità dei legami fra di noi. Mi era impossibile passeggiare in un quartiere senza riconoscere quasi tutti. Eravamo davvero una grande famiglia, abituati a frequentarci da generazioni. Oggi l’aver perso centomila abitanti neri, è un’amputazione, la perdita di un pezzo di quel che significava New Orleans. Questa è una città dove il 52% dei maschi adulti afroamericani sono disoccupati. Dove la gentrification espelle i neri anche dal centro storico, e gli artisti che suonano nei locali jazz non possono abitare lì vicino, neppure possono permettersi di pagare il parcheggio nel French Quarter».

Il sindaco obietta che i problemi sociali e il declino della sua città sono ben più antichi di Katrina. «Nel 1960 New Orleans aveva 680 mila abitanti — dice Landrieu — cioè più del doppio di oggi, lo spopolamento è stato graduale, inarrestabile. E sì che siamo un’area economicamente strategica per tutta la nazione. Non siamo solo la culla storica del jazz o un gioiello di architettura: qui si raffina e si trasporta più di un terzo di tutto il petrolio americano. Eppure dopo i 150 miliardi di danni provocati da Katrina, gli aiuti pubblici per la ricostruzione non sono arrivati neanche alla metà».

L’emergenza nuova che New Orleans deve fronteggiare, è un’escalation di violenza, con gli omicidi che sono risaliti quasi ai massimi storici nonostante la popolazione sia ridotta. Landrieu ammette la sua impotenza, e perfino l’incapacità di capirne le cause: «Non è un problema solo locale visto che sta accadendo anche a Chicago, Baltimora, Oakland, perfino a Boston. La stragrande maggioranza delle vittime assomigliano ai loro omicidi: sono giovani maschi neri. Noi in Louisiana mettiamo più gente in carcere che in qualsiasi altra parte d’America e del mondo, evidentemente non è questa la risposta. E continuiamo ad avere alti tassi di recidiva, chi esce dal carcere commette nuovi delitti».

Landrieu sta preparando New Orleans per un evento ben più festoso del decimo anniversario di Katrina: si avvicina il terzo centenario della fondazione della città, che coinciderà con la conclusione del suo mandato. Resilienza, rilancio, rinascita, sono gli slogan che la New Orleans bianca, ricca e turistica vuole diffondere nel resto del mondo. Di qui anche la scelta del sindaco democratico di commemorare Katrina in modo «inclusivo», senza polemiche di parte, senza regolamenti di conti: «Bush da presidente fu lento e inadeguato — dice Landrieu — ma non fu solo lui a sbagliare. Nessuno di noi fu immune da colpe». Vedere Bush qui insieme a Obama servirà almeno a ricordare una cosa: chi oggi teorizza che c’è una recrudescenza della “questione razziale” perché l’America ha un presidente nero dimostra di avere la memoria corta.

Una testimonianza dal Mezzogiorno. I problemi urbanistici di Catanzaro e l’indicazione di soluzioni ragionevoli per una migliore condizione urbana, non solo in un'area di una parte dell'Italia troppo spesso dimenticata

Nota scritta in occasione di Convegno sul tema “Catanzaro tra passato e presente” organizzato dalla Fondazione Imes e Italia Nostra per discutere di PSC (piano strutturale comunale) che il Comune intende varare al più presto per ridisegnare il volto della città. La hanno tenuto un Convegno su “Catanzaro tra passato e presente” per discutere di PSC (piano strutturale comunale) che il Comune intende varare al più presto per ridisegnare il volto della città. Il convegno è stato un primo momento per mettere in campo proposte alternative a quelle delle forze che guidano l’amministrazione locale e che si muovono su una linea di continuità con gli interessi della speculazione edilizia e della rendita fondiaria.

Da decenni Catanzaro ha sconfinato dalle sue mura. Ha seguito, come molte città, un modello insediativo diffuso che è andato – per quanto la riguarda - nelle più svariate direzioni (Siano, S.Elia, Mater Domini, Gagliano, S.Maria, Cava, e poi, da Cz Lido a Sellia fino a Cropani e Botricello, da Cz Lido a Copanello fino a Montepaone e Soverato). Il continuum urbano di Cz, fatto di residenze, attività commerciali e di servizio, qualche piccola impresa, presenta un aspetto frantumato, sparpagliato, di disordine. Un territorio informe e pieno e di contraddizioni. E con un centro storico che sembra aver smarrito la sua identità dopo lo sventramento dei primi anni sessanta. L’insediamento dell’Università e della Regione a Germaneto hanno creato un nuovo polo urbano che, in assenza di politiche adeguate, rischia di dare un colpo definitivo alla città storica.

L’evoluzione urbana della città è stata, quindi, caratterizzata da un’occupazione a macchia d’olio del suolo. Naturalmente, i governi nazionali e locali hanno dato il loro contributo: con l’abbandono di fatto di qualsiasi idea di pianificazione del territorio, e poi con la politica dei condoni, con continue sanatorie, varianti, cambi di destinazione, opere infrastrutturali e quant’altro. I cambiamenti sono stati affidati a processi apparentemente spontanei, ma in realtà rispondenti a precisi interessi della speculazione e della rendita, e hanno prodotto costi sociali e ambientali molto alti. I confini geografici della città non corrispondono più ai suoi confini amministrativi e richiamano l’urgenza di pensare ai problemi della città con strumenti programmatici di area vasta. Come affrontare altrimenti questioni come la mobilità, i rifiuti e, ancora, la sanità e l’università?

Il mito dell'automobile

Pensiamo, per citare uno dei problemi, all’impatto della motorizzazione privata e al fenomeno del pendolarismo, esploso con lo spostamento massiccio di popolazione dal centro cittadino alle aree periurbane. Ai problemi del traffico si sono date risposte che hanno rappresentato rimedi peggiori del male. Invece di dotarsi di un trasporto pubblico locale degno di questo nome, efficiente e capace di riconnettere un territorio molto vasto, disarticolato e frammentato, si è pensato di costruire tangenziali, sopraelevate, tunnel, che hanno creato ancora più traffico e inquinamento. Le automobili si sono impadronite della città, hanno occupato strade, piazze, marciapiedi, sono causa di incidenti, di stress, di malattie. Hanno infine impoverito la vita di relazione e la vivibilità della città. Tutto ciò è avvenuto nella totale indifferenza dei cittadini, senza reazioni e senza avvertire particolari differenziazioni tra destra e sinistra. D’altra parte, non poteva essere altrimenti. Siamo cresciuti, infatti, nel mito dell’automobile, che fa il paio con un altro mito, quello della casa in proprietà (di cui parlerò più avanti).

L’automobile è considerata corum populi il principale strumento di mobilità, una scelta di libertà. Mito dell’automobile e mito della casa, dunque, sono la cifra caratterizzante dello sviluppo urbano e, direi, dello sviluppo in generale. Uno sviluppo che, da un lato, si basa sul ricambio sempre più veloce di beni e prodotti - l’economia del ricambio, appunto, o anche dell’”usa e getta” (si acquistano beni per rimpiazzare quelli in uso) - e dall’altro lato si basa sul grande spreco di suolo, di risorse, di energia. Si sono costruiti milioni di immobili e realizzate infrastrutture non sempre utili e senza alcun riguardo verso le nostre campagne, verso le montagne, verso le coste, i laghi e i fiumi. E verso il paesaggio. C’è un gran parlare di debito pubblico e di crisi finanziaria, ma si parla poco dell’enorme debito accumulato con la natura per una gestione urbanistica dissennata.

La vicenda di Catanzaro racconta, nella sua emblematicità, la storia urbanistica del Mezzogiorno e di gran parte del nostro paese e impone a tutti una riflessione sulla necessità di mettere in discussione un modello di sviluppo e, in particolare, un modello di espansione edilizia e urbana che ha fatto proliferare periferie degradate e ha distrutto le città per come le abbiamo conosciute anche noi, nati dopo il secondo dopoguerra. Ma l’espansione, come dicevo, è anche la principale responsabile delle ferite inferte al territorio. E’ tra le cause di tanti disastri ambientali (frane, alluvioni, fenomeni pericolosi e irreversibili di inquinamento delle falde acquifere). Le nostre case sono diventate più vulnerabili perché anche normali eventi naturali si abbattono su una situazione compromessa dal cattivo uso che l’uomo ha fatto e fa del suolo e delle risorse naturali. Infine l’espansione ha la principale responsabilità degli innumerevoli scempi a un paesaggio tanto straordinario da meritarci l’appellativo di “Bel Paese”. Nella logica espansiva, infatti, il paesaggio è res nullius, non un bene da salvaguardare, ma cosa di nessuno, da poter mortificare e persino annullare.

Se, dunque, negli anni settanta e ottanta, e in modo sempre più accelerato negli anni novanta, siamo passati dalla città compatta alla città estesa, che resta il modello urbano dominante, il tema ora è invertire la rotta. La sfida è passare dall’espansione alla manutenzione urbana. La stessa rigenerazione, come si dice, va inserita dentro un’azione paziente e più complessiva di manutenzione e di risanamento del territorio. Qualcosa di diverso - ma non per forza divergente - del rammendo o ricucitura urbana di cui parla Renzo Piano. Solo questo passaggio, tra l’altro, rende possibile avviare un’azione per il risanamento e la tutela del territorio e del paesaggio. Passare dall’espansione alla manutenzione presuppone leggi regionali, piani regolatori, piani casa, piani operativi coerenti con questo obiettivo. Il contrario di quanto avviene oggi. Infatti tutti concordano nel mettere uno stop o un freno al consumo di suolo, salvo poi mettere in atto comportamenti, a livello istituzionale, che sacrificano l’interesse generale sull’altare degli interessi di parte. Il fatto è che i cosiddetti “diritti edificatori” sono considerati intoccabili e persino gli abusi edilizi sono ancora tollerati da chi dovrebbe vigilare.

Nonostante le buone intenzioni e le belle parole è prevalente l’idea secondo cui tutto il territorio è urbanizzabile, negoziabile, edificabile. La rendita immobiliare e urbana si nutre di questa convinzione, che è l’esatto opposto di un’idea di programmazione. Così, grazie all’urbanistica “contrattata” tra amministrazioni locali e proprietari dei suoli (e costruttori) le aree urbane sono cresciute mediamente del 300%. Dal 2000 ad oggi sono stati cementificati circa tre milioni di ettari di terreno agricolo. Si sono realizzati milioni di nuovi alloggi, migliaia di super/ipermercati, decine di migliaia di nuovi km di strade. E’ stata l’apoteosi del cemento e dell’asfalto. Si è rinunciato a riconvertire spazi urbani inutilizzati o degradati, a intervenire prioritariamente sul patrimonio edilizio esistente, che dovrebbe essere recuperato e riqualificato – specialmente quello risalente a più di cinquant’anni, che rappresenta il 50% del totale -.

Il mito della casa

Contemporaneamente l’espansione urbana ha creato gravi distorsioni sul piano economico e sociale. Pensiamo al rapporto tra espansione e casa. L’espansione si è alimentata del mito della casa in proprietà, magari della villetta fuori le mura come indice di benessere, segno di un nuovo status raggiunto. E il mito della casa in proprietà è stato un grande incentivo all’espansione. Milioni di giovani coppie sono state indotte ad acquistare un appartamento impegnando, per 20-30 anni, metà del reddito familiare. Una scelta irrazionale, spesso avulsa da ogni serio ragionamento sul proprio futuro, specie in una situazione dominata da un percorso di vita e di lavoro molto accidentato. Molte giovani coppie hanno acquistato casa al di fuori di una obiettiva considerazione sul lavoro, che è sempre più mobile, e senza una valutazione sulle conseguenze che l’investimento sulla casa avrebbe avuto sugli altri consumi o, magari, sulla impossibilità di investire in direzioni più utili come, ad esempio, la pensione integrativa. Tutte cose sacrificate al mito della casa in proprietà.

Non voglio qui entrare nel merito della questione abitativa in Italia e dell’assenza di un mercato dell’affitto degno di questo nome. Voglio soltanto ricordare che l’espansione edilizia e urbana è stata funzionale a un’idea superata dell’abitare, non più adatta ai tempi moderni, ha finito sostanzialmente con l’ingrassare la rendita fondiaria e immobiliare. Non è un caso che il livello della rendita annua oggi in Italia si aggira intorno ai 400 miliardi di euro, cioè è quasi pari all’ammontare complessivo delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. E nel sistema bancario l’ammontare dei mutui da estinguere è di circa 350 miliardi, con gravi sofferenze per milioni di famiglie – soprattutto quelle che hanno comprato negli ultimi dieci/quindici anni - che si sono indebitate per inseguire il sogno della casa, ma ora spesso non ce la fanno a onorare le scadenze. Il tutto, com’è evidente, è stato un colossale trasferimento di denaro dal lavoro alla rendita. Soldi transitati dalle tasche dai redditi medi o medio-bassi ai redditi alti. Qui sta anche l’origine di tante e nuove diseguaglianze, ingiustizie, iniquità fiscali.

Abbiamo parlato dell’espansione e dei suoi effetti nefasti. Ma paradossalmente anche i processi di rigenerazione urbana possono diventare ulteriori regali alla rendita ed essere fonte di distorsioni se la progettazione degli interventi non è agganciata ad una corretta considerazione del contesto sociale e se prescinde dalle condizioni abitative o non tiene conto delle esigenze reali del territorio. E’ sempre presente infatti il rischio che la rigenerazione comporti la gentrification ovvero la sostituzione dei vecchi residenti con residenti più facoltosi. A parte alcuni esempi positivi, concentrati soprattutto nei quartieri pubblici (quelli delle case popolari), la rigenerazione produce effetti non sempre desiderabili in conseguenza della crescita dei prezzi immobiliari. A trarne vantaggio sono i ricchi, che così beneficiano anche degli investimenti pubblici, mentre gli altri, il più delle volte, devono abbandonare il campo.

Dal valore di scambioal valore d'uso

Quindi non basta soltanto un cambio di paradigma dall’espansione alla manutenzione. Il punto è spostare il baricentro dal “valore di scambio” al “valore d’uso”. Dalla mera ricerca del profitto, come si diceva una volta, a una maggiore attenzione verso gli interessi della collettività, a cominciare dai residenti e delle fasce sociali più deboli. La politica di manutenzione va sostenuta con forte determinazione, con provvedimenti urbanistici efficaci, con misure fiscali adeguate. Altrimenti è sempre la spinta del mercato a prevalere, in sostanza la spinta di chi ritiene più conveniente continuare a costruire ex novo. Il massimo che la lobby dei costruttori è disposta a cedere è la rottamazione/ricostruzione degli edifici più vecchi o fatiscenti – che in alcuni casi è pure necessaria – ma non è comprensiva né esaustiva delle politiche di manutenzione e rigenerazione urbana per come le intendiamo noi. Passare dal valore di scambio al valore d’uso negli interventi urbani significa, ad esempio, incorporare le nuove domande abitative nei processi di trasformazione; significa che i processi di rigenerazione non seguano solo la logica della “valorizzazione”; significa utilizzare e riqualificare gli spazi disponibili tenendo conto dei bisogni sociali effettivi. Significa migliorare i servizi. Tutto ciò è possibile solo con un prelievo sulla rendita urbana. Spostare il baricentro sul valore d’uso si può a condizione di restituire alla collettività, ai cittadini, una parte degli enormi guadagni di cui hanno beneficiato e ancora beneficiano i proprietari fondiari, i costruttori, le banche. Ci vuole una vera riforma fiscale, ma ancora non sappiamo se quella annunciata dell’attuale governo conterrà misure di equità, capaci di ridimensionare il peso e il ruolo della rendita finanziaria e immobiliare in Italia.

Un uso sapiente della leva fiscale potrebbe, invece, rimettere in sesto le dissestate finanze locali e consentire di trovare i finanziamenti per intervanti innovativi:

1. Con l’istituzione di un’imposta in grado di intercettare le plusvalenze immobiliari, il capital gain derivante dagli interventi di rigenerazione e, più in generale, dai programmi di riqualificazione urbana. Il Comune potrebbe così trovare le risorse da riutilizzare in un’opera continua di manutenzione, che non può essere una una tantum.
2. Ripristinando l’Imu sulla prima casa per le famiglie più facoltose, quelle che superano i sessanta – settanta mila euro.
3. Estendendo gli sgravi fiscali per le ristrutturazioni edilizie anche alla messa in sicurezza degli edifici contro il rischio sismico o altre calamità naturali.

Naturalmente occorre sapere utilizzare bene – e senza dispersioni – anche i fondi europei a disposizione.

Per concludere, i processi di trasformazione urbana - e quelli di riqualificazione in particolare – hanno una stretta correlazione con i processi economici e hanno un impatto diretto sull’assetto sociale, sui rapporti di forza, sui nuovi equilibri che si determinano sul territorio. In una parola possono essere un fattore di rafforzamento della rendita urbana o diventare un fattore si sviluppo sostenibile. Dipende dalla capacità delle forze in campo.

La capitale globale della finanza e della speculazione immobiliare che le è tanto organica, dovrebbe suonare un campanello d'allarme, sul crescere di una certa idea di città, ma l'informazione forse non lo coglie. La Repubblica, 5 marzo 2015, postilla (f.b.)

Date un’occhiata all’orizzonte, la prossima volta che vi trovate sul Tamigi: vedrete una foresta di alberi meccanici. Non è un’illusione ottica: la riva meridionale del fiume somiglia a un gigantesco cantiere. Sono già stati approvati piani per costruirci, nei prossimi dieci anni, duecentocinquanta grattacieli o perlomeno edifici di oltre venti piani l’uno. Un’esagerazione, dirà chi ama la Londra di casette vittoriane; ma intanto l’industria edilizia festeggia e ci sono all’opera più gru qui che in tutto il Regno Unito. Un’altra esagerazione. Ma è questa, ormai, la misura standard della capitale britannica. Sotto qualunque aspetto la si esamini, la città all’ombra (si fa per dire) del Big Ben sommerge il resto della nazione che le sta intorno. E pure, a spingere lo sguardo più in là, il resto d’Europa. E forse, a ben rifletterci, il resto del mondo. Nemmeno New York, scrive questa settimana il Financial Times, rappresenta la globalizzazione quanto Londra. In America, comunque, esistono altre grandi città: Los Angeles, Chicago. Il gigantismo di Londra divora e fa scomparire tutti.

Nei giorni scorsi ha raggiunto il suo record storico di popolazione: 8 milioni e 615 mila abitanti. Quarant’anni fa erano 6 milioni e mezzo. Tra dieci anni si stima che saranno ancora di più: 10 milioni (e sono già 12 milioni adesso, in effetti, contando gli sterminati sobborghi). Ancora più significativa del totale, tuttavia, è la composizione della popolazione: il 40 per cento degli abitanti sono nati all’estero, percentuale destinata a diventare maggioranza entro un decennio. Nelle sue strade si parlano 300 lingue. Ci sono almeno 50 comunità etniche di 50 mila o più persone: come dire 50 piccole città straniere racchiuse in una sola. L’etnia più numerosa? I polacchi. Noi italiani siamo al sesto posto.

Lo strapotere di Londra ha ucciso le altre città del regno. La seconda maggiore è Birmingham, 1 milione di abitanti: alzi la mano chi l’ha visitata. Manchester e Liverpool non decollano. Edimburgo vive del festival estivo e comunque ambisce a diventare capitale di uno stato indipendente – la Scozia. A proposito: il valore di tutti gli immobili di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, le tre regioni autonome del Regno Unito, è pari ai dieci quartieri più posh di Londra (che di quartieri, in tutto, ne ha 88). Il valore medio di una casa, nel resto del paese, è 220 mila sterline (270 mila euro). A Londra è più del doppio, mezzo milione di sterline. Nelle zone più chic come Chelsea e South Kensington è due milioni. Il boom del mattone è finanziato dai ricchi: tutti quelli della terra vogliono un pied-a-terre da queste parti e proprio ieri l’Independent ha rivelato un giro di paradisi fiscali e riciclaggio di denaro dietro gli investimenti immobiliari. Ma a Londra circolano più soldi anche per gli altri. Il reddito medio britannico è 25 mila sterline, quello di Londra 50 mila. Se Londra fosse una nazione, negli ultimi quattro anni il suo pil sarebbe cresciuto del 12 per cento, più del doppio di quello britannico.

E’ anche una città di forti diseguaglianze, con sacche di profonda miseria e costi proibitivi: in questi giorni una campagna di poster denuncia il caro- vita con lo slogan «sono costretto ad andarmene». E’ pure più violenta dell’immagine che se ne fanno i turisti a spasso per il centro: nel 2014 ci sono stati 93 omicidi (ma nel 2001 erano 200), le gang giovanili fanno stragi di adolescenti, l’ultimo un 15enne ucciso da una coltellata a Islington, quartiere alla moda dove un tempo viveva Tony Blair, per rubargli la bici. Eppure frotte di immigrati ci sbarcano da tutto il mondo, attirati come da una calamita che offre di più: più opportunità, più cultura, più tutto. Un columnist propone che diventi una città-nazione, suggerendo come confine l’M25, la circonvallazione che le gira intorno: lunga 275 chilometri, per avere un’idea delle dimensioni. Londra potrebbe perfino avere il proprio campionato di calcio e sarebbe di ottimo livello: ha 6 squadre di Premier League e altrettante in B. Due sono agli ottavi di Champions: più di quante ne ha l’Italia.

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Come ci racconta localmente, ad esempio, il blog del cronista Dave Hill sul
Guardian, presumibilmente ignorato dal corrispondente italiano, questi due mondi delle scintillanti torri di Central London e delle diseguaglianze sociali e urbane, non sono solo due facce di una medaglia, ma hanno un vero e proprio rapporto di causa ed effetto: da un lato la consegna nelle mani delle finanziarie internazionali di quella enorme fetta di metropoli in via di trasformazione e speculazione, dall'altro la conseguente espulsione (a volte ai limiti della violenza) di tutto ciò che le è incompatibile, vale a dire le fasce di reddito basse, medie, a volte anche medio-alte. Così l'emergenza casa, nella mente un po' perversa dei Conservatori più liberisti, si traduce anche in emergenza all'italiana, da sfruttare a proprio piacimento per allentare i vincoli ambientali della greenbelt. Ovvero allarghiamo l'area metropolitana in quanto area costruita (più o meno come succede a Milano con le Tangenziali esterne del centrodestra) per dare nuove case agli espulsi dal centro. Mentre il sindaco Boris Johnson, grande sponsor di queste forme di investimento finanziario colonizzatore e micidiale, si fa bello per la sua idea di “mobilità sostenibile”, con un po' di biciclette e le piste sospese che piacciono tanto a certi disattenti ambientalisti di maniera. Con la devolution delle maggiori autonomie, richiesta per questa specie di città-stato moderna, il ciclo si chiuderebbe: speriamo in un rivolgimento delle maggioranze politiche, locali e nazionali (f.b.)

Bologna: nel traffico inquinante dei viali non moriranno solo gli ippocastani, ma soffocheranno anche gli umani. Ma ciò che conta, per gli amministratori d'oggi, è l'immagine. Postilla

Come cittadino, mi sento sempre più disadattato. La comunicazione politica mi irrita a causa del suo tenore mistificato e farlocco e nessuno si ribella. Guardate questa. «Bologna. Il 13 settembre si inaugura la Tangenziale della bicicletta .

Per i pochi che non lo sanno, Bologna anticamente aveva delle mura che furono abbattute verso la fine del XIX secolo. Al loro posto sorge oggi una sorta di lungo marciapiede che rinchiude la città in un anello che s’interrompe all’altezza delle antiche e ancora visibili (non proprio tutte) dodici porte, attraversate dalle vie radiali che conducono all’esterno verso Rimini, Ravenna, Modena, ecc. All’interno e all’esterno di questo marciapiede corrono le due carreggiate, ciascuna a doppia corsia, dei cosiddetti viali di circonvallazione.

Sorta di autostrada ancora cinquant’anni fa; oggi collo di bottiglia, specialmente in certe ore e all’altezza di certe porte. Sotto il marciapiede vivono, vivacchiano, sopravvivono o addirittura muoiono le radici di alti ippocastani che spuntano dalle aiuole e svettano verso un cielo raramente limpido. Farebbero un bel vedere in generale e anche ombra durante l’estate se non fossero ridotti alle condizioni di malati al Lazzaretto. Quando erano più in salute, lungo questo marciapiede capitava di passeggiare e di fermarsi a bere qualcosa o mangiare angurie e gelati presso uno dei tanti chioschi aperti nella bella stagione. Vi ricorda qualcosa il nome di Oliviero? Uno di quei chioschi ebbe un momento di notorietà nazionale quando negli anni ’80 Michele Serra dirigeva Cuore. Nella rubrica "Botteghe oscure", dedicata ad esercizi commerciali stravaganti anche solo nel nome, fu segnalata la Cocomerhouse, dove talvolta anche chi scrive, in una torrida e afosa notte felsinea, andò a rinfrescarsi materia e spirito.

Già molto ma molto tempo prima che l’aggettivo «verde» si applicasse alle teorie e alle pratiche ecologiche, quei viali erano percorsi da filobus elettrici frequenti, silenziosi e confortevoli; gioia per noi che non avevamo tante macchine e per gli ippocastani che si avvelenavano molto meno di oggi, ricambiando la loro gratitudine sul piano estetico.

Quel che successe in città dopo gli anni ’70 sul piano politico, amministrativo e sociale voglio soltanto accennarlo. Sarà stata la fine dell’«Età dell’oro del capitalismo», come la chiama J.Hobsbawm, sarà stato il ’77, saranno state la massoneria, le banche, le coop e la curia, sta di fatto che Bologna, da allegra e attraente che era, si è sempre più avvicinata alla definizione che ne diede anni fa il suo vescovo, quella di città «sazia e disperata». Dal sindaco Zangheri al sindaco Vitali l’aderenza delle amministrazioni ai movimenti sociali innovativi, nonché la loro credibilità politica, hanno raggiunto un livello disperante di credibilità. E se ciò che era stato promesso e impostato negli anni ’70 – Cervellati sull’urbanistica, Loperfido, Rebecchi e Ancona sul piano sociosanitario, ecc – non fu poi realizzato se non in parte, ciò fu dovuto alla sconfitta più generale della strategia delle riforme in Italia. Al contrario, quel che avvenne a partire dagli anni ’80 furono annunci roboanti, sul proscenio della politica parlata, e trattative e accordi dietro le quinte fra i poteri forti. Proviamo ad evocare.
1. Referendum nel 1984 sulla pedonalizzazione del centro storico. Favorevoli: 70%; applicazione: non pervenuta.
2. Annuncio della costruzione della metropolitana nel 1987. Oggi si fa ancora fatica a mandare avanti il progetto di sistema ferroviario metropolitano, con tutti i binari che corrono sul territorio comunale.
3. Alla fine del 1987 il rettore di Unibo Fabio Roversi Monaco annuncia la celebrazione del nono centenario dell’ateneo che si articolerà durante tutto l’anno successivo. Fu l’occasione che sancì la fine del centro storico come quartiere residenziale e il suo avvio a divenire «cittadella» degli studi, del divertimento, ecc. E oggi persino gli uffici comunali sono stati spostati in sede periferica.

E i nostri viali di circonvallazione? Qualcuno mi dovrebbe spiegare come mai, dinanzi alla previsione dell’ovvio, ossia l’aumento esponenziale del traffico automobilistico, mai seriamente contrastato da una politica incentivatrice del mezzo pubblico, nessuno abbia mai fatto nulla, salvo tagliare ogni tanto qualche albero ammalato. Non so cosa abbiano fatto gli studiosi, ma certo i politici non se ne sono dati pena. Nella nuova situazione di intasamento e inquinamento, chi ha potuto (chioschi e prostitute) si è spostato altrove; chi non ha potuto (gli alberi) attende sconsolatamente la sua fine.

La così proclamata «Tangenziale della bicicletta» corre proprio sul letto di morte di questi alberi. Il che è triste di per sé. Ma ancor più triste è rendersi conto della follia che deve aver colto qualche nostro amministratore. Al quale vorrei ricordare quanto avveniva nelle vecchie miniere di carbone. Si teneva un animale, cane o uccellino in gabbia. E quando lo si vedeva stramazzare, questo era il segno che ci si doveva rapidamente togliere da lì. Mancava l’ossigeno. Ora, non ci dice niente la sofferenza degli ippocastani? E che altro dovrebbe dirci se non il fatto che lungo i nostri viali di circonvallazione manca l’ossigeno? Ebbene, proprio lungo un percorso caratterizzato da deficit di ossigeno e dalla sovrabbondanza di gas derivati dalla combustione dei motori, lungo un percorso così si chiede a degli esseri umani di produrre lo sforzo supplementare del pedalare respirando quell’aria.

Magari fra dieci anni, a fronte di un aumento delle affezioni polmonari, benigne e persino maligne, qualcuno produrrà risultati statistici e qualcun altro farà la scena di tirarsi una secchiata d’acqua facendo finta di essere molto sensibile ai temi della ricerca. A questo qualcun altro la secchiata dovremmo tirarla noi e subito. Ma non di acqua...
P.S. – Mi dite perché chiamare tangenziale una cosa che tangenziale non è? Non sarà per via delle tangenti? Ma no, cosa vai a pensare!


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Lo sviluppo delle nostre città è stato, come sappiamo, mostruoso. Invece della razionalità ha dominato l’anarchia dello spontaneismo, invece dell’obiettivo del maggior benessere degli abitanti quello della massimizzazione del patrimonio dei proprietari immobiliari. Oggi patiamo le conseguenze di errori commessi nel corso di decenni. Un effetto devastante ha avuto la scelta politica di favorire, in Italia, la motorizzazione individuale. Il traffico automobilistico ha soffocato le città, e l’assenza di una corretta pianificazione del territorio ha peggiorato le cose. Le stagioni felici vi sono state, i tentativi di affrontare i problemi nel verso giusto anche. Vogliamo ricordare, a Bologna, il salvataggio delle colline, le battaglie per la pedonalizzazione e per la riqualificazione del centro storico, gli autobus a zero lire per i cittadini, quello per la pianificazione del territorio provinciale? Poi la stagione della speranza e dei tentativi che coglievano il punto è tramontata. Si affrontano i problemi un pezzettino alla volta, più attenti all’efficacia propagandistica dell’azione (o della promessa) che della sua efficacia. Perciò nascono i paradossi che Carlo Loiodice denuncia. Ricordo che a Strasburgo, in Francia, quando gli amministratori decisero di istituire una modernissima linea di tram urbano nel centro cittadino, i tecnici comunali si impuntarono e pretesero che, nell’occasione, si riprogettasse completamente l’intero assetto fisico della sede stradale, da parete edificata a parete edificata (da mur à mur) portando tutta l’area pedonale al livello dei predellini del tram, pedonalizzando dovunque possibile e riducendo al minimo l’accesso alle automobili. Sarebbe stato bello se si fosse operato così anche a Bologna, riprogettando l’insieme della sede dei viali assicurando la priorità nel progetto alla salvaguardia della salute e del verde, alla mobilità dei pedoni e dei ciclisti e all’utilizzazione di impianti meccanizzati per il trasporto collettivo in alternativa all’automobile individuale.

Ma i politici (gli eletti) avrebbero dovuto avere due requisiti, che oggi sono del tutto assenti: la capacità di una visione di lungo periodo, centrata sull’obiettivo del benessere degli abitanti, a partire dai più deboli, e quella di scegliere gli strumenti adatti. Due di questi, particolarmente utili, sono oggi addirittura in via di liquidazione: una buona “burocrazia “, cioè un apparato tecnico-amministrativo motivato, capace, autorevole, e il ricorso sistematico al metodo della pianificazione, cioè dell’unico metodo di rispondere in modo efficace e trasparente a un insieme di problemi le cui soluzioni sono interconnesse.

« La "paradisiaca» campagna attorno a Palermo, ricoperta di agrumeti, teatro da decenni di speculazioni edilizie e terra di conquista delle mafie senza alcun contrasto, è ancora priva di tutele. Mentre nuovi interessi preparano un altro assalto cementizio». Il manifeso, 17 luglio 2014

Meno di quarant’anni fa, Fer­nand Brau­del, in un suo sag­gio sulle terre del Medi­ter­ra­neo, riser­vava l’attributo che è pro­prio di un pae­sag­gio per­fetto esclu­si­va­mente alla cam­pa­gna attorno a Palermo: la Conca d’oro, rico­perta di alberi di limone e man­da­rino, era «para­di­siaca». Ma già da vent’anni era arri­vato l’inferno. Tra il 1965 e il 1970 ogni anno ave­vano cam­biato uso oltre 200 ettari – 3000 nei due decenni – e da terre di leg­gen­da­ria fer­ti­lità erano diven­tate una brutta peri­fe­ria di cemento e di asfalto. Fu «il sacco di Palermo». Mafia, poli­tica e affari ave­vano assunto un unico volto: quello di Lima e Cian­ci­mino, con la com­pli­cità della Chiesa e dell’aristocrazia pro­prie­ta­ria, nel silen­zio della bor­ghe­sia e degli intel­let­tuali con la sola ecce­zione del gior­nale L’Ora.
In que­gli anni si rag­giun­ge­ranno, scri­verà la Com­mis­sione Anti­ma­fia, «ver­tici sco­no­sciuti nell’inosservanza delle leggi» e gli orti e i frut­teti che costi­tui­vano il pre­va­lente uso del suolo, espri­mendo al meglio i carat­teri di uti­lità e bel­lezza che sono pro­pri delle pia­nure costiere medi­ter­ra­nee fer­tili e irri­gue, si ritro­va­rono ai mar­gini della piana, faz­zo­letti pro­fu­mati e colo­rati tra i palazzi della spe­cu­la­zione. Solo qual­che ampio agru­meto resi­steva ancora inte­gro: nella bor­gata di Cia­culli la mafia li aveva riser­vati per sé, futuro bot­tino men­tre pro­ce­deva all’assalto del cen­tro sto­rico. Il con­sumo di suolo, negli anni che segui­rono, si atte­nuò appena, scese a 70 ettari tra il 1990 e il 2000 e quindi arrivò a 40. Il sacco di Palermo sem­brava però non avere fine: prima il Quar­tiere Zen, monumento all’autocompiacimento degli studi di archi­tet­tura, poi le 314 vil­lette arram­pi­cate sulla «col­lina della ver­go­gna», quindi l’abusivismo irre­fre­na­bile (60.000 richie­ste di con­dono) e cen­tri com­mer­ciali su oltre cento ettari. L’ultimo di que­sti, aggiun­gendo la beffa al danno, fu bat­tez­zato «Conca d’oro».
Non servì nean­che un buon piano rego­la­tore. Quello di Cer­vel­lati, redatto nel 1994 ma defi­ni­ti­va­mente appro­vato nel 2002, riser­vava grande atten­zione al verde agri­colo: l’agrumeto di Cia­culli – il più vasto e inte­gro della città – ben­ché pri­vato, veniva vin­co­lato come bene di inte­resse pub­blico. In que­gli anni un pro­getto finan­ziato dalla Ue, che mirava alla crea­zione di un parco agri­colo periur­bano, regalò alla città il pre­mio di “città soste­ni­bile”, agli agri­col­tori l’acqua per irri­gare a metà prezzo e con­ti­nuare così a col­ti­vare con pro­fitto gli agru­meti sto­rici, agli abi­tanti e ai turi­sti il pia­cere di pas­seg­giare tra le zagare e i frutti degli agrumi. Durò poco, appena un anno: la poli­tica locale non lo con­si­derò prio­ri­ta­rio e la Regione si limitò, nell’approvazione del Prg, a con­si­de­rare i giar­dini (così i sici­liani chia­mano i loro frut­teti) di Cia­culli nor­male zona di verde agri­colo. Si apriva la strada alle varianti: quella dei cen­tri com­mer­ciali, delle coo­pe­ra­tive edili e dei piani inte­grati men­tre nuove con­ces­sioni occu­pa­vano le aree ancora dispo­ni­bili del piano regolatore.
Nel 2012, repu­tando neces­sa­rio avviare la revi­sione del piano Cer­vel­lati, la giunta della nuova ammi­ni­stra­zione Orlando votò le diret­tive gene­rali per la for­ma­zione del nuovo Prg: abu­si­vi­smo e varianti ave­vano mutato lo stato dei luo­ghi e biso­gnava sod­di­sfare gli stan­dard urba­ni­stici. Come se non bastasse, la pre­ce­dente ammi­ni­stra­zione — di cen­tro­de­stra — si era eser­ci­tata in un imma­gi­ni­fico piano stra­te­gico che, nel nome della «valo­riz­za­zione delle risorse eco­lo­gi­che e ambien­tali», pre­ve­deva cen­tri dire­zio­nali, nuovi mer­cati gene­rali, una tan­gen­ziale che riu­niva le due auto­strade verso Tra­pani o Mes­sina, un “water front” che riqua­li­fi­cava i por­tic­cioli della costa. Il con­sumo di suolo era pronto a ripren­dere nuova lena. Porti turi­stici nelle bor­gate di pesca­tori, nuovo cemento sugli agru­meti e una tan­gen­ziale da incubo: alle pen­dici delle mon­ta­gne che chiu­dono la Conca, 18,5 chi­lo­me­tri con 6 svin­coli, un via­dotto di mille metri e cin­que gal­le­rie per com­ples­sivi 9 km, con grandi rischi di dis­se­sto idro­geo­lo­gico in un ter­ri­to­rio già com­pro­messo e un costo pre­vi­sto di 800 milioni di euro che la stessa Anas, che ha redatto lo stu­dio pre­li­mi­nare, defi­ni­sce ai limiti della soste­ni­bi­lità. Facile imma­gi­nare – è la lezione del sacco – cosa suc­ce­de­rebbe dei resi­dui ettari di verde al di qua della tan­gen­ziale pede­mon­tana.
Le diret­tive del nuovo Prg del 2012 par­lano di assenza di armo­nia tra il vec­chio Prg e il piano stra­te­gico, che più volte viene dichia­rato supe­rato, ma mai for­mal­mente respinto. La sua pre­senza tra gli alle­gati alle diret­tive ali­menta anzi una con­ti­nua pole­mica tra chi non si accon­tenta di gene­rici impe­gni ma vor­rebbe atti chiari: un no deciso alla tan­gen­ziale e uno stral­cio nel vec­chio Prg, annun­ciato ma mai arri­vato, delle zone verdi esi­stenti per evi­tare nuove urba­niz­za­zioni, come quelle in variante del cimi­tero da rea­liz­zare pro­prio a Cia­culli o dei nuovi mer­cati gene­rali nel quar­tiere di Bona­gia su un’area di oltre 20 ettari, che con­fina con il nin­feo barocco della set­te­cen­te­sca Villa Tra­bia di Cam­po­fio­rito. Un clima di sospetto per­mane tra l’amministrazione e la gran parte delle asso­cia­zioni di cit­ta­dini, che invo­cano quel pro­cesso di urba­ni­stica par­te­ci­pata annun­ciato, ma mai decol­lato per reci­pro­che dif­fi­denze.
In attesa che si isti­tui­sca l’ufficio del nuovo piano o, come si è anche ipo­tiz­zato, si pro­ceda ade­guando il vec­chio con defi­niti piani par­ti­co­la­reg­giati, il futuro urba­ni­stico di Palermo rimane incerto, tra noti­zie allar­manti: un nuovo cen­tro com­mer­ciale, un mega acqua­rio, l’idea mai abban­do­nata di un cen­tro dire­zio­nale.
A chi teme un nuovo assalto cemen­ti­zio non può bastare che si scriva che deve con­te­nersi il con­sumo di suolo. Ser­vono poli­ti­che con­crete e non ade­sioni a slo­gan. Potrebbe bastare dare seguito a due deli­bere di giunta. Una riguarda i 235 ettari della Favo­rita, parco ibrido tra aree natu­rali, giar­dini sto­rici e pae­saggi agrari tra­di­zio­nali, per il quale è neces­sa­rio arri­vare a un piano di gestione; e non bastano popu­li­stici pro­clami di chiu­sura al traf­fico di strade oggi irri­nun­cia­bili per col­le­gare la fre­quen­ta­tis­sima bor­gata bal­neare di Mon­dello. L’altra riguarda quel 25% della super­fi­cie com­ples­siva della Conca d’oro ancora non coperto dal cemento e per la cui sal­va­guar­dia si deve pun­tare ad una difesa attiva degli spazi verdi che pro­muova l’attività agri­cola, incen­ti­vando vec­chi e nuovi pro­dut­tori e, con­si­de­rando l’ inte­resse pub­blico, sostenga gli inte­ressi ambien­tali, sociali, cul­tu­rali e non sia affi­data solo alla legge del mer­cato per quanto inte­res­sato a tipi­cità e qua­lità. Se così non fosse, se non si riu­scisse a soste­nere la pre­senza degli agri­col­tori, all’abbandono dei giar­dini, come avviene in misura ogni giorno cre­scente, segui­rebbe l’invasione dei rovi e degli ailanti, la morte degli alberi da frutto, gli incendi, le disca­ri­che, l’abusivismo e poi, chissà, nuovi palazzi.
Non si tratta di affer­mare una visione nostal­gica che guarda a un glo­rioso pas­sato agri­colo ma ope­rare – e, essendo stato asses­sore all’ambiente fino allo scorso aprile, penso che ce ne siano tutte le pre­messe poli­ti­che – per la nascita di un sistema agri­colo locale, urbano e periur­bano, cen­trato sul rac­cordo (a km zero) tra pro­du­zione e con­sumo, sul rico­no­sciuto ruolo poli­fun­zio­nale dell’agricoltura non solo pro­dut­trice di ali­menti, ma anche depo­si­ta­ria di valori e di stili di vita, capace di gestire in modo equi­li­brato le risorse natu­rali e ambien­tali e di tute­lare e sal­va­guar­dare un pae­sag­gio agra­rio tra i più illu­stri.

Per giun­gere a que­sto, gra­zie alla spinta di un comi­tato civico costi­tuito da più di set­tanta enti e asso­cia­zioni, veniva fir­mato un pro­to­collo d’intesa con la Regione che avrebbe dovuto por­tare ad un piano di inve­sti­mento inte­grato per uti­liz­zare le risorse della pro­gram­ma­zione comu­ni­ta­ria 2014–2020. Con la Favo­rita (tra i più grandi par­chi urbani nel mondo, ricco di sto­ria e natura), con la rina­scita dell’agricoltura della Conca d’oro, insieme al recu­pero dei giar­dini di cul­tura isla­mica del Genoard, con i tanti giar­dini sto­rici che per­cor­rono la sto­ria del pae­sag­gio medi­ter­ra­neo, con una diversa atten­zione a un sistema verde mul­ti­fun­zio­nale di ecce­zio­nale valore, vale la pena di ripro­porre la domanda che Guido Pio­vene si pose in un suo viag­gio in Sici­lia del 1957: «Come sarà Palermo tra una cin­quan­tina d’anni? Forse nes­suna città ita­liana costringe a que­sta domanda con tanta nettezza».

Tutti piangono la città, la società e l'ambiente feriti a morte, insieme a lavoro e operai. Quarant'anni fa si prevedevano le conseguenze, nessuno ascoltava, Cederna considerato una Cassandra: ma le visioni della sacerdotessa di Apollo erano sempre giuste. Il manifesto, 15 maggio 2014

«Sof­fo­cata a occi­dente dall’enorme zona indu­striale (cen­tro side­rur­gico Ital­si­der) e a oriente da una sgan­ghe­rata espan­sione edi­li­zia, Taranto offre oggi al visi­ta­tore uno spet­ta­colo rac­ca­pric­ciante, esem­pio da manuale di che cosa può pro­durre il sonno della ragione, cioè il siste­ma­tico disprezzo per le norme ele­men­tari del vivere asso­ciato nel nostro tempo». Non è un’inchiesta dei giorni nostri, è un arti­colo pro­fe­tico di Anto­nio Cederna sul Cor­riere della Sera del 18 aprile del 1972, qua­ran­ta­due anni fa. In un pezzo di qual­che giorno prima aveva scritto: «Era logico pen­sare che un’impresa così gigan­te­sca che coin­volge tutto il ter­ri­to­rio dovesse essere inqua­drata in un prov­ve­di­mento urba­ni­stico ed eco­no­mico stret­ta­mente coor­di­nato e inte­grato con ogni altra atti­vità (agri­col­tura, media e pic­cola indu­stria, difesa delle risorse ambien­tali, edi­li­zia eco­no­mica e popo­lare, ecce­tera) prov­ve­dendo nello stesso tempo ad affron­tare i pro­blemi creati dal pro­prio peso schiac­ciante (dalla pro­gres­siva ana­lisi del traf­fico all’inquinamento dell’aria e dell’acqua).

Niente di tutto que­sto: è tri­ste dover rico­no­scere che l’industria a par­te­ci­pa­zione sta­tale, che bene­fi­cia di enormi con­tri­buti e age­vo­la­zioni da parte dello Stato pre­tende di far a meno di piani che appena esor­bi­tino dal suo limi­tato set­tore e, gio­van­dosi della debo­lezza dei respon­sa­bili a tutti i livelli, impone le pro­prie scelte par­ti­co­lari alla comu­nità». Cederna si rife­ri­sce al rad­dop­pio (da mille a due­mila ettari) del cen­tro side­rur­gico allora avviato, con lavori ciclo­pici che alte­ra­vano la geo­gra­fia dei luo­ghi, in con­tra­sto con gli stru­menti urbanistici.
Eppure, in que­gli stessi anni, il Comune di Taranto era attra­ver­sato da sor­pren­denti spinte inno­va­tive, quasi con­tem­po­ra­nea­mente a Bolo­gna, e comin­ciava a pro­get­tare il recu­pero del cen­tro sto­rico, cioè di Città Vec­chia, l’isola, anima e sim­bolo di Taranto, che separa il Mar Pic­colo dal Mar Grande, dove si erano inse­diati i primi coloni greci. Fu una vicenda straor­di­na­ria legata al nome dell’architetto Franco Blan­dino, che ha dedi­cato la vita allo stu­dio, alla con­ser­va­zione e alla rina­scita della sua città (espe­rienza che Enrico Gri­foni e altri gio­vani urba­ni­sti stanno cer­cando di rilan­ciare). Nel 1974 il Con­si­glio d’Europa rico­nobbe a Bolo­gna e a Taranto il pri­mato in mate­ria di recu­pero del patri­mo­nio abi­ta­tivo sto­rico. E gra­zie alle leggi di riforma degli anni Set­tanta e a ces­sioni volon­ta­rie il comune acquisì circa tre­cento alloggi degra­dati desti­nan­doli a edi­li­zia popo­lare. La mag­gior parte delle poche fami­glie che oggi abi­tano nella Città Vec­chia sono inqui­lini di que­gli alloggi. Il recu­pero andò avanti abba­stanza coe­ren­te­mente fino all’inizio degli anni Ottanta, soste­nuto in par­ti­co­lare dal sin­daco comu­ni­sta Giu­seppe Can­nata, in carica dal 1976 al 1983.

Poi, a mano a mano, è cam­biato tutto e il recu­pero è finito su un bina­rio morto. Nel 1993 fu eletto sin­daco Gian­carlo Cito, una spe­cie di Ber­lu­sconi in for­mato ridotto. Anche lui, all’inizio degli anni Novanta, usando spre­giu­di­ca­ta­mente una sua tele­vi­sione locale, rac­colse cre­scenti con­sensi e nel 1993 fu eletto sin­daco con un suo par­tito, AT6 — Lega d’Azione Meri­dio­nale. Assunse ini­zia­tive spet­ta­co­lari, ma durò poco. Nel 1995 fu rin­viato a giu­di­zio per con­corso esterno in asso­cia­zione mafiosa. Depu­tato nel 1996, è stato poi defi­ni­ti­va­mente con­dan­nato e incar­ce­rato. Da ricor­dare anche Ros­sana Di Bello, la prima donna sin­daco di Taranto dal 2000 a 2006, espo­nente di Forza Ita­lia, che pro­vocò un pau­roso dis­se­sto nelle finanze comunali.

Intanto Taranto diventa sem­pre più «la pic­cola appen­dice di un gigan­te­sco mon­nez­zaio» (Adriano Sofri). Accanto al più grande cen­tro side­rur­gico d’Europa con­vi­vono un porto indu­striale, una raf­fi­ne­ria, un cemen­ti­fi­cio, due ter­mo­va­lo­riz­za­tori, cen­ti­naia di altre atti­vità cre­sciute ver­ti­gi­no­sa­mente: un immane com­plesso indu­striale è sca­gliato addosso a una città dalle strut­ture fra­gi­lis­sime. Dall’inizio dell’industrializzazione, la super­fi­cie urba­niz­zata si è almeno decu­pli­cata, da circa 500 a oltre 5.000 ettari, più della metà per atti­vità produttive.

Una città e un pae­sag­gio fino a cinquant’anni fa di emo­zio­nante bel­lezza, sono oggi irri­co­no­sci­bili. L’isola versa in con­di­zioni orri­bili, è in rovina, in gran parte disa­bi­tata e murata per impe­dire l’accesso nelle aree a rischio di crolli. I muri espo­sti ai venti che ven­gono dalla fab­brica sono mar­cati dai segni ros­sa­stri delle pol­veri dei par­chi mine­rari cri­mi­no­sa­mente col­lo­cati a ridosso del cimi­tero, del cen­tro sto­rico e del quar­tiere Tam­buri. Ai bam­bini del quar­tiere è proi­bito gio­care negli spazi verdi (si fa per dire) con­ta­mi­nati da beril­lio, anti­mo­nio, piombo, zinco, cobalto nichel e altri veleni. La rovina col­pi­sce anche la cam­pa­gna in gran parte tra­sfor­mata in una scon­fi­nata e deso­lata distesa di ster­pa­glie bru­ciate dal sole e dagli incendi. Viene proi­bito l’allevamento del bestiame e sono sop­pressi gli ani­mali con­ta­mi­nati. Sono state smal­tite in disca­rica mon­ta­gne di cozze col­ti­vate nel Mar Piccolo.

Ma la poli­tica locale e nazio­nale e i sin­da­cati stanno dalla parte dell’industria, in difesa pur­ches­sia del lavoro, poco attenti alle con­se­guenze mici­diali di una dis­sen­nata indu­stria­liz­za­zione. I primi con­trolli ambien­tali a norma di legge comin­ciano nel 2006 con la pre­si­denza di Nichi Ven­dola alla Regione Puglia. All’assenza di poli­ti­che pub­bli­che la città risponde con la ricerca pri­vata di migliori con­di­zioni ambien­tali. I taran­tini vol­tano le spalle alla fab­brica e fug­gono verso est, da capo San Vito a Marina di Pul­sano e oltre, in quella «sgan­ghe­rata peri­fe­ria» che dalla denun­cia di Cederna del 1972 ha con­ti­nuato a essere coman­data dal cemento e dall’asfalto. In trent’anni, i resi­denti in città sono dimi­nuiti di circa 30 mila, una spe­cie di si salvi chi può.

La scena cam­bia repen­ti­na­mente nel luglio del 2012, quando la giu­dice per le inda­gini pre­li­mi­nari Patri­zia Todi­sco impone all’Ilva della fami­glia Riva di sospen­dere la pro­du­zione fino a quando non fos­sero eli­mi­nate le emis­sioni nocive. L’Italia del Palazzo rimane spiaz­zata e cerca impos­si­bili com­pro­messi. Il mini­stro dell’Ambiente Cor­rado Clini arriva a negare la sto­ria soste­nendo che è stata la città a cir­con­dare la fab­brica. Il con­tra­sto fra la magi­stra­tura da una parte e il governo e l’Ilva dall’altra diventa imba­raz­zante e set­tori sem­pre più vasti dell’opinione pub­blica si schie­rano a soste­gno della magistratura.

Si sus­se­guono le inchie­ste, i ser­vizi gior­na­li­stici, le inter­vi­ste, i son­daggi, che affron­tano soprat­tutto il rap­porto fabbrica-salute dando conto dei gra­vis­simi danni inflitti ai lavo­ra­tori e a tutti i taran­tini dall’apocalittico inqui­na­mento. Ma non man­cano le dispe­rate dichia­ra­zioni di chi pre­fe­ri­sce la morte alla disoccupazione.

La vasta discus­sione sull’inquinamento tra­scura però quasi del tutto le vistose respon­sa­bi­lità del Comune e degli altri pub­blici poteri in mate­ria di poli­ti­che ter­ri­to­riali. Men­tre avanza il degrado, le scelte più impor­tanti fra Comune e Regione hanno riguar­dato il discu­ti­bile impianto — in loca­lità Cimino, in pros­si­mità del cen­tro com­mer­ciale Auchan e della lot­tiz­za­zione Sir­com, sem­pre nella sgan­ghe­rata peri­fe­ria orien­tale — del nuovo polo ospe­da­liero S. Cataldo, che sosti­tui­sce l’antico ospe­dale della SS. Annun­ziata e quello più recente di Statte.

Invece, a Taranto, pro­prio per com­pen­sare la pre­po­tenza di una spie­tata indu­stria­liz­za­zione sarebbe stato impor­tante — è impor­tante — un impe­gno ecce­zio­nale di Comune e Regione per non arren­dersi alla spi­rale per­versa della degra­da­zione e dell’abbandono. Ma forse non tutto è per­duto se in un recente docu­mento di Anna Migliac­cio desti­nato alla Regione si legge quanto segue. «Per ricon­ci­liare ambiente e società biso­gna appron­tare la cura per i danni accer­tati e, con­tem­po­ra­nea­mente, costruire una nuova via allo svi­luppo locale, ripar­tendo dai valori patri­mo­niali resi­stenti. Taranto è una città ancora ricca di risorse e, mal­grado le offese, capace ancora di con­vin­cente bel­lezza. (…). Dallo splen­dore resi­stente di que­sta anti­chis­sima città del Medi­ter­ra­neo si può e si deve ripar­tire per ritro­vare il ban­dolo del futuro»

Un articolo sul nodo di Sant'Elia e un'intervista al sindaco Massimo Zedda completano l'inchiesta su Cagliari oggi. Il manifesto, 17 aprile 2014
IL COMUNE SI GIOCA LA PARTITA
di Costantino Cossu
Sant’Elia. Qui all’inizio c’erano sol­tanto paludi, sull’orlo del mare, di fronte all’enorme spa­zio azzurro d’acqua e di cielo del Golfo degli Angeli. Era la zona più a sud della città, poche case, un intrico di viuzze attorno al cam­pa­nile della chiesa. Un borgo abi­tato da pesca­tori. Da loro lavoro veniva il pesce che finiva nel vec­chio mer­cato di San Bene­detto. Prima ancora del borgo, nel Sei­cento che a Cagliari fu spa­gnolo, qui ave­vano messo, per decreto vice regio, il Laz­za­retto, il luogo per la cura dei leb­brosi, degli intoc­ca­bili. Restò tutto più o meno così (a parte il Lazzaretto,da fine Otto­cento abban­do­nato e cadente) sino ai primi anni Set­tanta del secolo scorso.

Dopo la ferita dei bom­bar­da­menti del 1943, che ave­vano raso al suolo buona parte del cento sto­rico, Cagliari negli anni del boom eco­no­mico (i Cin­quanta e poi per tutti i Ses­santa), era cre­sciuta. Sede dell’amministrazione regio­nale, cen­tro poli­tico ma anche eco­no­mico dell’isola. Un’imprenditoria quasi tutta legata ai traf­fici com­mer­ciali con la peni­sola, com­prare e riven­dere, riven­dere e com­prare. Poca indu­stria vera, sino all’arrivo dei Moratti con la loro raf­fi­ne­ria a Sar­roch, sul finire degli anni Ses­santa. Ma anche, in una città in tumul­tuoso svi­luppo urbanistico,speculatori edi­lizi e palaz­zi­nari. Nei primi anni Set­tanta a Sant’Elia accad­dero due cose che cam­bia­rono per sem­pre il volto del quar­tiere: la deci­sione di tra­sfor­mare la ex zona palu­dosa boni­fi­cata in un’area di edi­li­zia popo­lare e quella di costruire al limite est il nuovo sta­dio del Cagliari Calcio.

Deci­sioni prese da un’amministrazione comu­nale di segno mode­rato, domi­nata dalle cor­renti demo­cri­stiane più con­ser­va­trici. Alle quali, però, nes­suno si oppose. Cagliari cre­sceva in popo­la­zione a ritmi espo­nen­ziali, la fame di case era grande. E poi la squa­dra di foot­ball era quella dello scu­detto, la squa­dra di Gigi Riva “Rombo di tuono”: si poteva negare all’undici gui­dato da Man­lio Sco­pi­gno, che aveva rega­lato a una città mezzo nobile d’antico lignag­gio ibe­rico e mezzo strac­ciona un sogno che sem­brava impos­si­bile? No. E così, sotto la pic­cola col­lina dove con­ti­nua­vano a stare i pesca­tori, nell’avvallamento dove prima era sol­tanto acqua sta­gnante e saline, sor­sero enormi orrendi palaz­zoni dove met­tere quelli che cer­ca­vano casa e non pote­vano per­met­tersi i prezzi di mer­cato. E insieme ai caser­moni, lo sta­dio nuovo. Due sim­boli del benes­sere con­qui­stato, una carta di cre­dito per l’ingresso nel pal­co­sce­nico sul quale si costruiva una mise­re­vole iden­tità nazionale

«RESTAURO E RIUTILIZZO
PER FERMARE IL SACCHEGGIO»
intervista di Costantino Cossu al sindaco Massimo Zedda

Che cosa signi­fica, per uno che sta a sini­stra, diven­tare sin­daco di una città gover­nata per decenni, dal secondo dopo­guerra in poi, da forze poli­ti­che espres­sione di un blocco sociale con­ser­va­tore che ha dato al tes­suto urba­ni­stico la forma cor­ri­spon­dente a ben pre­cisi inte­ressi eco­no­mici? Mas­simo Zedda, prima Pd e poi Sel, è diven­tato sin­daco di Cagliari il 30 mag­gio del 2011, alla testa di uno schie­ra­mento di cen­tro­si­ni­stra. Una svolta, in larga parte inat­tesa. Un’occasione storica.

La sua ele­zioni a sin­daco, quasi tre anni fa, rap­pre­sentò una rot­tura e accese le spe­ranze di un cam­bia­mento radi­cale. Che bilan­cio si può fare oggi?
Abbiamo dato uno stop netto al sac­cheg­gio urba­ni­stico della città. Ci siamo mossi da subito lungo una linea di ade­gua­mento del piano urba­ni­stico comu­nale alle diret­tive di tutela san­cite dal piano pae­sag­gi­stico appro­vato nel 2006 dalla giunta Soru. Abbiamo appro­vato il piano par­ti­co­la­reg­giato del cen­tro sto­rico, il piano della mobi­lità, il piano di uti­lizzo dei lito­rali. Tutto secondo un’ottica di restauro e di riu­ti­lizzo del patri­mo­nio edi­li­zio già esi­stente, in par­ti­co­lare di quello di pro­prietà pub­blica: del comune, della Regione Sar­de­gna, del dema­nio. Basta con l’aumento delle volu­me­trie e con il dis­sen­nato con­sumo del ter­ri­to­rio. Rispetto al pas­sato è una svolta radicale.

Qual­che vostra deci­sione in dettaglio?
Intanto la pedo­na­liz­za­zione di vaste aree del cen­tro sto­rico, in pas­sato inta­sate e sna­tu­rate da un traf­fico cao­tico, senza regole. Meno auto pri­vate e un poten­zia­mento del tra­sporto pub­blico e la defi­ni­zione di un sistema di par­cheggi intorno al cen­tro, con l’obiettivo di for­nire un ser­vi­zio a chi usa le auto per arri­vare dalle peri­fe­rie senza che que­sto signi­fi­chi, come nel pas­sato, l’invasione delle strade e delle piazze da parte del traf­fico pri­vato. Tenendo conto anche che il cen­tro sto­rico di Cagliari è molto ampio. I quat­tro quar­tieri anti­chi di Marina, Stam­pace, Vil­la­nova e Castello insieme coprono un’area molto più vasta, ad esem­pio, di quella della parte sto­rica di una città come Praga.

Per la spiag­gia del Poetto che cosa avete fatto?
Come si sa quel lito­rale nel pas­sato recente è stato deva­stato da un ripa­sci­mento disa­stroso. Al pro­blema dell’erosione della spiag­gia si è rispo­sto aggiun­gendo sab­bia pre­le­vata dai fon­dali al largo del Golfo di Cagliari. Con esiti che hanno modi­fi­cato le carat­te­ri­sti­che ambien­tali di un sito che per la città ha una rile­vanza anche urba­ni­stica cen­trale. Noi abbiamo pun­tato invece su inter­venti strut­tu­rali, che hanno come obiet­tivo quello di una riqua­li­fi­ca­zione urba­ni­stica dell’intero lito­rale, che si estende per otto chi­lo­me­tri dalla Sella del dia­volo sino alla città di Quartu. Abbiamo tro­vato i fondi per un pro­getto che è già in fase ese­cu­tiva e che modi­fi­cherà in maniera sostan­ziale il volto e la fun­zione urba­ni­stica di tutta la zona. Isti­tui­remo, ad esem­pio, un’area pedo­nale che sarà una spe­cie di cor­done tra la spiag­gia e la strada che corre paral­lela all’arenile.

Il tes­suto urba­ni­stico di Cagliari è ricco di aree dema­niali in uso a strut­ture mili­tari. Cosa avete fatto per recu­pe­rarle alla città?

Come ammi­ni­stra­zione comu­nale abbiamo cer­cato di costruire un fronte uni­ta­rio con la Regione Sar­de­gna per aprire un con­fronto con il mini­stero della Difesa che con­sen­tisse una “libe­ra­zione” se non totale almeno par­ziale di quelle aree, che sono dav­vero molto vaste e tutte di grande pre­gio urba­ni­stico e ambien­tale, dai vin­coli mili­tari. Non abbiamo tro­vato grande sen­si­bi­lità nella giunta di cen­tro­de­stra pre­sie­duta da Ugo Cap­pel­lacci. Con­tiamo di ripren­dere il discorso con il nuovo ese­cu­tivo, gui­dato da Fran­ce­sco Pigliaru dopo la vit­to­ria del cen­tro­si­ni­stra alle ele­zioni regio­nali dello scorso febbraio.

E per le peri­fe­rie? In par­ti­co­lare per Sant’Elia?
Sant’Elia in realtà non è una peri­fe­ria. È un quar­tiere ormai pie­na­mente inse­rito nel cuore del tes­suto urba­ni­stico. Lì esi­ste un enorme pro­blema di disa­gio sociale e di emar­gi­na­zione che stiamo affron­tando attra­verso la crea­zione di strut­ture per­ma­nenti di inte­gra­zione sociale. Le scelte che sono state fatte in pas­sato hanno tra­sfor­mato Sant’Elia in un corpo sepa­rato. Cor­reg­gere quelle stor­ture è uno dei com­piti che ci siamo asse­gnati. Vedere la que­stione sol­tanto in ter­mini di ordine pub­blico è sba­gliato. Biso­gna pun­tare invece ad inse­rire pie­na­mente il quar­tiere nella vita della città. Ed è esat­ta­mente que­sto che stiamo cer­cando di fare, con non pochi risul­tati incoraggianti

«La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama "sviluppo"». .Il manifesto, 17 aprile 2014

I nura­gici erme­tici. Poi i Fenici trac­ciano le rotte. Poi la città diventa Punica e poi romana per molti secoli. Poi i Van­dali. Poi Bisan­zio e i due evi medi. L’epoca dei Giu­di­cati, le inva­sioni more­sche, i Pisani e i Geno­vesi. Eleo­nora d’Arborea e il suo nuovo ordi­na­mento, la Carta de Logu. Poi, a lungo, gli spa­gnoli e la deca­denza. Il Set­te­cento, i Savoia, il Regno di Sar­de­gna la rivo­lu­zione poi e la moder­niz­za­zione otto­cen­te­sca. Gli echi del Risorgimento.

Poi il XX secolo. Anto­nio Gram­sci fa il suo liceo a Cagliari. La car­ne­fi­cina della Grande Guerra. Pastori e con­ta­dini, riu­niti nella Bri­gata Sas­sari man­dati a morire sul Carso e Emi­lio Lussu. Poi il fasci­smo, la seconda guerra, l’occupazione tede­sca senza san­gue, i bom­bar­da­menti anglo-americani del ‘43. La città ini­zia la sua rico­stru­zione e l’inurbamento è feroce. Nasce una nuova classe diri­gente insieme ai nuovi brutti quar­tieri, anni 50 e 60, che la raf­fi­gu­rano. L’edilizia cac­cia via l’architettura. Impre­sari e com­mer­cianti dise­gnano la città sulla pro­pria imma­gine e pro­du­cono una gene­ra­zione poli­tica con­for­mata, come un calco di gesso, alla loro visione mate­riale delle cose. I cosid­detti intel­let­tuali si rifu­giano in un mondo sognante vicino all’infanzia, lon­tano dalle azioni.

Ma qual­cosa cam­bia negli ultimi decenni. Si smette di masti­care i fiori di loto e la memo­ria ritorna nella testa di alcuni. La città si guarda, si rico­no­sce. Si risve­glia un’anima cri­tica che comu­nica, osserva ed è inte­res­sata alle pro­prie ori­gini. E ricava ener­gia dal pas­sato senza essere pas­sa­ti­sta. Guarda indie­tro per essere moderna per­ché quando uno sa da dove viene non ha biso­gno di altro. E si oppone alla fre­ne­sia del fare a tutti i costi. Però l’altra anima, quella mer­can­tile, resta forte.

La città è cre­sciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filo­so­fia del costruire. Amne­sia del pas­sato. Ha rico­perto di asfalto e cemento il suo con­tado agri­colo e lo chiama hin­ter­land. Detur­pato la sua spiag­gia abba­gliante. Vio­lato con bitume, palazzi e fab­bri­che gli sta­gni scon­fi­nati a est e a ovest. E tutto que­sto lo chiama «svi­luppo» men­tre dimo­stra che quando la poli­tica si con­fonde con l’impresa ci si ammala di un morbo che si chiama sviluppite.

Cagliari è un’incubatrice di que­sta malat­tia. Però la sto­ria è incan­cel­la­bile. I luo­ghi resi­stono e met­tono in movi­mento gli avve­ni­menti. I morti della necro­poli di Tuvi­xeddu pos­sie­dono la forza dell’assoluto e ancora deter­mi­nano con­se­guenze. La rocca medie­vale resi­ste ai ten­ta­tivi di ren­derla «pro­gre­dita» con scale mobili e fer­ra­glia. Il pro­mon­to­rio sacro della Sella del Dia­volo resterà intatto anche se la città fame­lica gli gira intorno. E l’acropoli di Castello resi­sterà ai nuovi asse­dianti che oggi vogliono un vol­gare garage den­tro le sue mura.

Nel 1956 avevo cin­que anni. Il brac­cio quasi lus­sato quando pas­seg­giavo a traino delle mani inac­ces­si­bili di mio padre, il lun­go­mare, il mer­cato al cen­tro della città, le bar­che che tor­na­vano tanto cari­che che i pesca­tori sta­vano in piedi sui cumuli di pescato, allora i polpi sem­bra­vano pio­vre, le anguille scap­pa­vano dalle cesti nelle cor­sie del mer­cato, i pesci boc­cheg­gia­vano. Era bello e sarebbe stato più bello ancora se fosse durato.

Ma i fat­ti si muo­ve­vano per neces­sità che non com­pren­devo. E non obbe­di­vano a nessuno. Ero troppo pic­colo per capire cosa acca­deva alla mia città, troppo basso per vedere le prime gru. Oppure, sem­pli­ce­mente, non guar­davo per­ché, appeso alla mano di mio padre, osser­vavo solo le cose vicine oppure l’orizzonte marino, l’unico oriz­zonte per me.

So che i monti che vedevo a meri­dione erano il pro­filo dei monti del golfo, ma allora cre­devo che fosse l’Africa per­ché sen­tivo ripe­tere che la città più vicina alla mia era Tunisi. Poche ore di traversata.Dalle mie rive, certo, non si vedeva l’Africa. Fu una delu­sione. Però con­ti­nuai a crederci.

Un giorno mamma ci portò a vedere una nuova mera­vi­glia che il mae­stro, ammi­rato dal pro­gresso ben­ché con­ser­vasse la sua casa come un salotto di Nonna Spe­ranza, ci aveva già annun­ciato a scuola. Il grat­ta­cielo.

Be’, era solo un brutto palazzo di dodici piani. Ma era il nuovo pre­sente e tutti vole­vano solo pre­sente e futuro. Mai visto dal vero un palazzo così alto.Non fu stu­pore quello che pro­vai vedendo quel lungo paral­le­le­pi­pedo gri­gio con decine e decine di fine­stre fune­ra­rie. Ancora oggi ricordo la sen­sa­zione di per­dita che pro­vai e ricordo che non com­presi, ero troppo bam­bino, quel sentimento.

Quella costru­zione infan­til­mente chia­mata grat­ta­cielo, che ancora esi­ste, ha segnato la nascita in città dell’eternamente brutto. Sì, quel palazzo era brutto dalla nascita, tal­mente brutto che diventò proverbiale.

Però il brutto è epi­de­mico e quando ini­zia si mol­ti­plica con enig­ma­tica testar­dag­gine. Non lo fermi più. Deve, si vede, neces­sa­ria­mente tra­scor­rere e con­clu­dersi un’epoca.

Eppure tutti vedevano. Fu un’amnesia di massa che non è mai ces­sata da allora. E chissà se riac­qui­ste­remo mai la memoria. Ma, l’ho detto, tutti vole­vano abban­do­nare il pas­sato, anche quello buono.

Mia nonna, men­tre pas­seg­giavo e gio­cavo in un ter­ra­pieno da dove si vedeva la città in basso, mi disse un giorno che comin­ciava a esserci troppo cemento e che tutti que­sti nuovi arri­vati dal con­tado — così chia­mava gli inur­bati che arri­va­vano da ogni parte dell’isola — sta­vano ren­dendo deforme la città. Che lei era comu­ni­sta, ma que­sto non le impe­diva di capire che c’erano per­sone rese feroci pro­prio dall’arrivo in città e che ave­vano l’urgenza di far vedere chi erano. Che costruire un muro, una casa, un palazzo era il modo più facile di far vedere quello che si vale. E che un igno­rante non sa mai di essere ignorante.

Appena tirano su un muro si fanno chia­mare cava­lieri e com­men­da­tori, ripeteva. D’altronde il cemento aveva reso facile e pos­si­bile a tutti l’azione di costruire. L’intera nazione ribol­liva di cemento, ma io non lo sapevo. E nep­pure nonna. Però osser­vava la sua città.

Lei vedeva la brut­tezza del cemento, capiva che non si può met­tere insieme cemento e pie­tra per­ché invec­chiano in modo diverso, che la pie­tra si smussa e che il cemento faceva solo angoli.

Il cemento è un mate­riale che non sa invec­chiare. La pie­tra, invece, è già vec­chia, esi­ste da milioni di anni. Il cemento costringe chi lo usa a dise­gnare forme squallide.

Era squal­lido anche il bar aperto al piano terra nel «grat­ta­cielo», cat­tive le brio­che, il caffè puz­zava di bru­ciato e un moscone gia­ceva a pan­cia all’insù, mum­mi­fi­cato per sem­pre in un angolo della vetrina pretenziosa. Den­tro quel palaz­zone c’erano però alcuni segnali impor­tanti del pre­sente che sedu­ceva la comu­nità e la con­vin­ceva che il pas­sato era vergognoso.

Però è vero che nella mia città una luce che non finiva nep­pure la notte e un sole felice anche d’inverno mi face­vano sen­tire for­tu­nato e lon­tano da ogni pericolo.

Tra­slo­cammo nel 1962 in una nuova casa. E tutto mutò.

La nostal­gia è un sen­ti­mento indi­spen­sa­bile, ma deve essere orga­niz­zato. Sennò si sof­fre. Oltre­tutto distorce, nelle sua forma malata, la realtà, i ricordi e l’interpretazione del presente.Tra­slo­cammo, dicevo, che avevo dodici anni. Una casa lumi­nosa, moderna, con due bagni, con davan­zali, una por­ti­ne­ria, l’ascensore e vicina all’orto botanico.

Quel quar­tiere era il con­fine della città sto­rica, però mi sem­brava un salto nel futuro. E ogni volta che pas­sa­vamo vicino alla vec­chia casa tra­sci­navo la mano che mi con­du­ceva per entrare den­tro il por­tone. Come quei cani che tirano quando sono vicini alla casa del padrone morto.

Il tra­sloco cam­biò i giorni e le ore della fami­glia, cam­biò per­fino l’espressione dei geni­tori, il lin­guag­gio, i vestiti, le abi­tu­dini a tavola, la puli­zia dome­stica e per­fino l’igiene del corpo, gli odori e la memo­ria degli odori .Il tra­sloco è l’allegoria del cam­bia­mento ine­vi­ta­bile, ma non necessario.

Con il camion carico di mobili apparve la dif­fe­renza tra pre­sente e pas­sato, tra una fine e un inizio.
Babbo aveva bat­tuto a mac­china il suo nome su un foglio, rita­gliato la stri­scia di carta e l’aveva infi­lato nella fes­sura del nuovo cam­pa­nello. Poi aveva letto a voce alta il pro­prio nome e schiac­ciato il pul­sante. Quel trillo era il segnale della città nuova.

Riferimenti
Le precedenti puntate della serie di inchieste sulle città italiane dopo 30 anni di neoliberalismo sono state dedicate a Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio), Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), Parma (20 marzo 2014) Roma(27 marzo), Firenze (3 aprile), Reggio Calabria e Messina (10 aprile).

Prosegue l'analisi del manifesto sulle cittàitaliane. Dopo Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio),Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), Parma (20marzo 2014) Roma(27 marzo), Firenze (3 aprile) due città di frontiera che vogliono diventareuna: la più grande del Mezzogiorno. Prossimamente Torino e Cagliari, 10 aprile 2014

Tra la punta dello sti­vale e la Sici­lia c’è un tratto di mare, di poco più di tre chi­lo­me­tri che alcune volte diventa un lago salato, facile da attra­ver­sare con una pic­cola barca a remi, ma anche a nuoto come avviene ogni anno il 15 ago­sto e a Capo­danno per un antica tra­di­zione. Altre volte que­sto mare si agita, ha le con­vul­sioni, solo le grandi navi por­ta­con­tai­ner rie­scono a pas­sare men­tre le due rive si allon­ta­nano, l’Aspromonte scom­pare dalla vista dei mes­si­nesi e un’ombra scura sulla costa sici­liana impe­di­sce ai reg­gini di vedere Zan­kle, Mes­sene, Messina.

Reg­gio e Mes­sina, città sorelle e, a volte, acer­rime nemi­che, hanno vis­suto nel corso della sto­ria le stesse cata­strofi natu­rali (più di venti terremoti/maremoti cata­stro­fici di cui i più recenti sono stati il 1783 e il 1908) che ne hanno segnato la memo­ria e l’identità, ma hanno anche intrec­ciato e mesco­lato le popo­la­zioni delle due sponde, le cul­ture e i riti reli­giosi, la gastro­no­mia e il dia­letto. Reg­gio è la meno cala­brese delle città della Cala­bria così come Mes­sina è la meno sici­liana: sono città di fron­tiera, rispetto a Palermo e Catan­zaro, i capo­luo­ghi regio­nali. Appar­ten­gono allo Stretto, a que­sto pae­sag­gio unico al mondo, carico di miti anti­chi quanto la nostra civiltà, di feno­meni natu­rali straor­di­nari (come la fata Mor­gana), di uno sky­line armo­nioso e sug­ge­stivo che solo la fol­lia dello svi­lup­pi­smo delle grandi opere voleva detur­pare e distrug­gere con la costru­zione del farao­nico Ponte. Un’opera voluta anche dai sici­liani e cala­bresi che vivono lon­tano dallo Stretto e vedono que­sto tratto di mare come un osta­colo, una per­dita di tempo, per­ché non sanno godere di que­sto spet­ta­colo perenne che uni­sce le due città, come la vite che s’intreccia all’ulivo.

Rico­struite dopo il ter­ri­bile ter­re­moto del 1908, il più deva­stante al mondo per numero di morti (oltre 100.000) durante il secolo scorso, le due città hanno seguito tra­iet­to­rie diverse sul piano socio-economico. Durante il fasci­smo che rea­lizzò velo­ce­mente la rico­stru­zione, Mes­sina ebbe un ambi­zioso piano urba­ni­stico (piano Borzì) e cospi­cui finan­zia­menti da parte del governo fasci­sta per via degli stretti rap­porti del suo arci­ve­scovo con il duce. La città fu ridi­se­gnata con grandi viali, ampie piazze, e grandi edi­fici pub­blici in stile fasci­sta, non­ché palazzi e ville nobi­liari in stile liberty. Fino alla seconda guerra mon­diale il porto di Mes­sina aveva un ruolo impor­tante nell’esportazione di vino e agrumi sici­liani (in par­ti­co­lare i limoni, il 90% dell’export nazio­nale di que­sto agrume), del legname dell’Aspromonte, della seta pro­dotta a Villa San Gio­vanni e delle essenze di ber­ga­motto pro­dotte a Reg­gio. Aveva inol­tre delle fab­bri­che di essenze agru­ma­rie e tes­sili e altre indu­strie create da impren­di­tori stra­nieri e locali. Divisa tra due forti mas­so­ne­rie, una laica-mazziniana e l’altra cat­to­lica, la città espri­meva un livello cul­tu­rale molto più alto della media delle altre città del Mez­zo­giorno anche gra­zie alla pre­sti­giosa Uni­ver­sità nata nel XV secolo, una delle più anti­che del nostro Sud.

Di con­tro, Reg­gio era una pic­cola città-fortezza, dise­gnata intorno al castello ara­go­nese del XV secolo. Fu rico­struita sulla stessa strut­tura urba­ni­stica pre-terremoto, solo più in alto per­ché era stato il mare­moto a fare il mag­gior numero di vit­time. La sua ric­chezza non veniva dal mare, ma dall’entroterra e il potere era in mano a una deca­dente nobiltà e a una pic­cola bor­ghe­sia com­mer­ciale. Ma, aveva una grande fonte di ric­chezza e di lavoro: la lavo­ra­zione del ber­ga­motto, le cui essenze hanno costi­tuito la base dell’industria cosme­tica fino a quando, nel 1954, non è stato tro­vato un sosti­tuto chimico.

Dagli anni ’50 del secolo scorso le due città subi­rono un pro­gres­sivo pro­cesso di dein­du­stria­liz­za­zione, di per­dita del rap­porto pro­dut­tivo con le pro­prie risorse, di cre­scente peso della pub­blica ammi­ni­stra­zione e della spesa assi­sten­ziale. Un feno­meno che è stato comune alla gran parte delle regioni meri­dio­nali, dove solo dal 1951 al 1971 l’industria mani­fat­tu­riera ha fatto regi­strare un saldo nega­tivo di 17.525 unità a fronte di un aumento di 144.130 unità che si regi­stra nel Centro-Nord . È un pro­cesso di dein­du­stria­liz­za­zione che col­pi­sce la Pmi meri­dio­nale e porta ad una dele­git­ti­ma­zione del mer­cato capi­ta­li­stico. Il ven­ten­nio dello svi­luppo eco­no­mico ita­liano è stato il ven­ten­nio della deser­ti­fi­ca­zione pro­dut­tiva nel Mez­zo­giorno, che non ha retto alla pro­gres­siva glo­ba­liz­za­zione dei mer­cati, e ha pro­dotto un vuoto socio-economico e poli­tico che altri sog­getti hanno riempito.

A Mes­sina, la crisi pro­dut­tiva e occu­pa­zio­nale è stata in parte sosti­tuita dalla spesa pub­blica e la cre­scita abnorme delle pub­bli­che isti­tu­zioni: Comune, Pro­vin­cia, Ospe­dale, Poli­cli­nico, Uni­ver­sità. Alla bor­ghe­sia pro­dut­tiva e libe­rale (a Mes­sina nel 1948 il Par­tito libe­rale prese il 14%, un record in Ita­lia) si è andata sosti­tuendo la bor­ghe­sia sta­tale, i buro­crati e i poli­tici che inter­cet­ta­vano i flussi cre­scenti di spesa pub­blica. La crisi pro­fonda della città ini­zia negli anni ’70 del secolo scorso e segue la para­bola della spesa pub­blica. Il suo declino è inar­re­sta­bile, ma lento, sor­dido, non suscita rea­zioni, tanto da con­fer­mare l’ingiuria per i mes­si­nesi di essere dei bud­daci, cioè pesci che stanno a bocca aperta, par­lano tanto, ma non com­bi­nano niente. La cor­ru­zione, l’incapacità, la man­canza di una cit­ta­di­nanza attiva, fanno sì che la città con­ti­nui a spe­gnersi len­ta­mente, con brevi ritorni di fiamma come accadde nel periodo 1994-‘98 durante la giunta Pro­vi­denti. Un’eccezione in oltre quarant’anni di decadenza.

Dall’altra parte dello Stretto il crollo nelle ven­dite delle essenze di ber­ga­motto e delle arance (per via della con­cor­renza spa­gnola), fonti pri­ma­rie di ric­chezza della città, venne solo in parte com­pen­sato dalla cre­scita della spesa pub­blica. Il crollo della nobiltà lati­fon­di­sta, della bor­ghe­sia com­mer­ciale, non trovò un sog­getto sociale capace di ege­mo­nia fin­ché non scop­piò la guerra per il Capo­luogo nel 1970. Durò quasi un anno e fu l’ultima rivolta popo­lare di massa del Mez­zo­giorno, su cui si inse­ri­rono inte­ressi esterni legati alla stra­te­gia della ten­sione, e si sal­da­rono i rap­porti tra Mas­so­ne­ria, ser­vizi segreti e ‘ndran­gheta. Ma, la gente che era scesa in piazza e che morì o fu ferita e arre­stata aveva, oltre l’orgoglio di appar­te­nenza, l’obiettivo di com­bat­tere per gli unici posti di lavoro cre­di­bili: quelli della pub­blica ammi­ni­stra­zione. Men­tre la sini­stra, Pci in testa, par­lava di fab­bri­che e indu­stria­liz­za­zione, la popo­la­zione cre­deva solo al Capo­luogo come fonte d’occupazione e di red­dito. Que­sta rivolta segnò una cesura sto­rica netta: la vio­lenza della repres­sione gover­na­tiva, l’azzeramento della classe poli­tica demo­cri­stiana, portò a un vuoto totale di potere e di lega­lità che durò molti anni. Crebbe allora l’abusivismo edi­li­zio, fino a quel momento mar­gi­nale, fino a dar vita nei decenni suc­ces­sivi, alla costru­zione del 90 per cento di case abu­sive. Intorno al cen­tro sto­rico la città è cre­sciuta come uno ster­mi­nato e informe agglo­me­rato di case man­gian­dosi la cam­pa­gna un tempo lus­su­reg­giante. Ma, soprat­tutto, emerse con forza il ruolo ege­mone della bor­ghe­sia mafiosa com­po­sta da pro­fes­sio­ni­sti, impren­di­tori, poli­tici e il brac­cio armato di quella orga­niz­za­zione che si chiama ‘ndran­gheta, diven­tata la più potente delle mafie. Senza Stato, né Mer­cato, Reg­gio divenne un labo­ra­to­rio per la via cri­mi­nale all’accumulazione capi­ta­li­stica che si è dif­fuso in tutto il mondo.

Nel nuovo secolo lo sce­na­rio socio-politico dell’area dello Stretto appa­ren­te­mente non cam­biò. Mes­sina con­ti­nuò nel suo declino e passò da un Com­mis­sa­ria­mento del Comune all’altro, per cor­ru­zione, dis­se­sto finan­zia­rio o sem­plice caduta della giunta comu­nale. Reg­gio, che aveva vis­suto un pic­colo momento di rina­scita (la cosid­detta «Pri­ma­vera reg­gina» del com­pianto sin­daco Italo Fal­co­matà), ricadde nello scon­forto e finì nelle mani di un abile poli­tico, già lea­der del Fronte della Gio­ventù, che si inventò il modello Reg­gio: spesa pub­blica a go-go per spet­ta­coli e diver­ti­menti, clien­te­li­smo sfre­nato e bilan­cio comu­nale truc­cato e fuori controllo.

Negli ultimi anni la sto­ria delle due città ha subito un’accelerazione e una svolta impre­ve­di­bile. Il bello della vita è que­sto: quando non ti aspetti più niente, quando sem­bra che non ci siano più spe­ranze, quando sei rat­tri­stato da una gior­nata carica di nuvole, piog­gia e vento, improv­vi­sa­mente un rag­gio di luce appare sullo Stretto e cam­bia la tua visione, la tua per­ce­zione del futuro.

A Reg­gio il modello Sco­pel­liti è finito nelle mani della magi­stra­tura, men­tre la città lan­gue sotto il peso di un lungo Com­mis­sa­ria­mento inca­pace di risol­vere il dis­se­sto finan­zia­rio dovuto alle pas­sate ammi­ni­stra­zioni. È una città in fuga, dove par­tono non solo i lau­reati ma tutti quelli che pos­sono, e la stessa bor­ghe­sia mafiosa ha smesso di inve­stire da anni, spo­stando i capi­tali verso il Nord Ita­lia e le aree più ric­che del mondo. Quasi ogni notte una bomba sve­glia gli abi­tanti (l’ultima pro­prio al lato della pre­fet­tura) e sono ripresi gli omi­cidi mafiosi, dopo una lunga pax seguita al «Trat­tato» del 1992 in cui i capi­clan posero fine alla guerra di ‘ndran­gheta che costò set­te­cento omi­cidi in sette anni.

A Mes­sina, nes­suno se lo aspet­tava o ci avrebbe scom­messo un euro, nelle ele­zioni comu­nali del giu­gno scorso ha vinto la lista civica di Renato Acco­rinti, mili­tante paci­fi­sta, eco­lo­gi­sta e lea­der del movi­mento No Ponte. Una figura di sin­daco che ha stu­pito l’Italia interna e non solo, e che è il frutto di una improv­visa rivolta della città al malaf­fare e alla bor­ghe­sia paras­si­ta­ria che l’ha gover­nata per decenni. La giunta Acco­rinti, com­po­sta da tec­nici social­mente impe­gnati, ha un pro­gramma ambi­zioso di riscatto della città e in pochi mesi ha già segnato un visi­bile cam­bia­mento (Renato Acco­rinti è il sin­daco più amato dagli ita­liani secondo l’ultimo son­dag­gio Ipsos). Ma, il fatto isti­tu­zio­nal­mente più rile­vante è la volontà di que­sta giunta di costruire la città metro­po­li­tana dello Stretto, unendo Reg­gio e Mes­sina e i Comuni limi­trofi. Diver­rebbe la terza città del Mez­zo­giorno per popo­la­zione e, soprat­tutto, un labo­ra­to­rio di soste­ni­bi­lità sociale e ambien­tale, a par­tire dai tra­sporti neces­sari per dare la con­ti­nuità ter­ri­to­riale alle due sponde. La sfida della giunta Acco­rinti ha con­ta­giato la sponda reg­gina e l’idea di una città dello Stretto che venga fon­data sui valori dell’ambiente, dell’economia soli­dale e della pace, sta comin­ciando a navi­gare da una sponda all’altra. Se il tiranno Anas­sila era riu­scito a uni­fi­care le due città con la forza, oggi que­sta unione avviene sotto il segno di una demo­cra­zia che cre­sce dal basso.

L'articolo integra l'analisi urbanistica di Parma di Paolo Scarpa, con un'ampia finestra sulle contraddizioni del sindaco grillino. Unn "rivoluzionario" imbrigliato dalla realpolitik della gestione quotidiana. Il manifesto, 20 marzo 2014

Pizzarotti ci ha costruito la campagna elettorale, l'impianto doveva essere fermato, smontato, venduto a pezzi ai cinesi. Ma da dieci mesi brucia immondizia nel cuore della food valley, a due passi dalla Barilla

Se è vero che la rivo­lu­zione non russa, nella Sta­lin­grado gril­lina sem­bra comun­que son­nec­chiare. Vole­vano rivol­tare la città i gio­vani san­cu­lotti a 5 Stelle che, ormai due anni fa, con­qui­sta­rono il Comune di Parma in uno sfa­vil­lio di pro­clami e buone inten­zioni. Strada facendo i loro for­coni si sono spun­tati con­tro la real­po­li­tik della gestione quo­ti­diana, indu­cen­doli a più miti consigli.

«Rifiuti zero», il loro acuto grido di bat­ta­glia in cam­pa­gna elet­to­rale con il «No» a quell’impianto di ince­ne­ri­mento allora in costru­zione a una man­ciata di chi­lo­me­tri dal cen­tro sto­rico. Doveva essere fer­mato, smon­tato, ven­duto a pezzi ai cinesi e, il resto, ricon­ver­tito dagli olan­desi in un impianto di sele­zione evo­luto. Parma come San Fran­ci­sco, mecca inter­na­zio­nale del rici­clo vir­tuoso. E Parma, umi­liata dalle manette che ave­vano tra­volto la giunta comu­nale di Pie­tro Vignali, si aggrappò al credo ambien­ta­li­sta di Fede­rico Piz­za­rotti, felice di ricon­qui­stare i riflet­tori nazio­nali per lo stra­bi­liante risul­tato del voto, non più per le rube­rie della città champagne.

Ma da dieci mesi l’inceneritore fuma alle porte della città, a due passi dalla Barilla, nel cuore della food val­ley. L’inaugurazione uffi­ciale avverrà tra qual­che set­ti­mana, intanto comun­que bru­cia i rifiuti del capo­luogo e di un pezzo della pro­vin­cia anche se all’orizzonte si pro­fila il rischio che possa ospi­tare spaz­za­tura da altri ter­ri­tori (se ne sta discu­tendo in Regione) fosse solo per resti­tuire il favore di dieci anni di espor­ta­zione par­mi­giana. Ipo­tesi imme­dia­ta­mente stron­cata dall’amministrazione pen­ta­stel­lata, con la stessa forza con la quale aveva boc­ciato anche l’accensione del camino. «Dovranno pas­sare sul cada­vere di Piz­za­rotti» tuonò in piena cam­pa­gna elet­to­rale Beppe Grillo con­tro quello che bollò come un tumo­ri­fi­cio. «Avremo un cada­vere schiac­ciato» chiosò con iro­nia Elvio Ubaldi, il sin­daco che quel pro­getto lo vide nascere.

Eppure Piz­za­rotti, quel forno, dimo­strò di volerlo spe­gnere dav­vero. Lo mise addi­rit­tura, nero su bianco, nel pro­gramma di inse­dia­mento: «Stop alla costru­zione dell’inceneritore e sua ricon­ver­sione in un cen­tro di rici­clo e recu­pero». E la sua mag­gio­ranza mono­co­lore votò com­patta. «Non ho mai detto che lo avrei fer­mato, ma che avrei fatto il pos­si­bile» afferma invece oggi il sin­daco, scon­fes­sando pub­bli­ca­mente il suo stesso docu­mento. Un’aperta con­trad­di­zione che i par­mi­giani accet­tano con ras­se­gnato distacco, salvo che la que­stione non leda l’orgoglio locale. Se Grillo parte all’attacco — «Chi man­gerà il par­mi­giano e i pro­sciutti imbot­titi di dios­sina?» — il sin­daco, ani­mato da sano rea­li­smo, si affretta invece a pre­miare, pro­prio nella gior­nata del santo patrono, l’imbufalito Con­sor­zio di tutela del salume ducale. «Un brand, quello del Pro­sciutto di Parma sino­nimo di eccel­lenza e di qua­lità», si legge nella moti­va­zione dal sen­tore riparatorio.

Più che una rivo­lu­zione, quindi, quell’inceneritore si sta rive­lando una via cru­cis per il primo cit­ta­dino, par­tito con can­dido slan­cio. «Mica met­tiamo una bomba, si va da Iren e si parla», disse a urne ancora calde. E per tutta rispo­sta la mul­ti­ser­vizi, che aveva già inve­stito 194 milioni di euro, chiese un risar­ci­mento danni per stop al can­tiere da 27 milioni (sulla cui con­gruità dovrà a breve deci­dere il Tar) ai quali se ne potreb­bero aggiun­gere altri 7 a causa di un fermo deciso dallo stesso Pizzarotti.

Ma anche l’accensione costa e l’obiettivo «rifiuti zero» resta un mirag­gio nono­stante la rac­colta dif­fe­ren­ziata spinta sia stata estesa a tutta la città per por­tare Parma al di sopra di quel misero 50% che la relega a fondo clas­si­fica tra i comuni della regione. L’amministrazione 5 Stelle ce la sta met­tendo tutta, ma il sistema di rac­colta, lo stesso adot­tato da Iren in tutte le zone ser­vite, è aspra­mente cri­ti­cato dall’opposizione comu­nale che chiede un ritorno ai più igie­nici cas­so­netti men­tre oggi i sac­chetti dell’immondizia si accu­mu­lano nelle strade con i par­mi­giani con­fusi che abban­do­nano sui mar­cia­piedi tutto quello che non sanno come e dove smaltire.

«La colpa di Piz­za­rotti agli occhi di Grillo - scrive il capo­gruppo del Pd in con­si­glio comu­nale Nicola Dall’Olio - è di non essere più, e pro­ba­bil­mente non essere mai stato, rivo­lu­zio­na­rio». E sull’inceneritore aggiunge: «Non ha avuto il corag­gio di immo­larsi per fer­marlo a ogni costo». I par­mi­giani però non hanno rispol­ve­rato la ghi­gliot­tina per­ché dopo la Parma cham­pa­gne sem­brano accon­ten­tarsi di un’onesta mal­va­sia. «Almeno que­sti non rubano», il com­mento più dif­fuso che cir­cola nei bar. Con buona pace della rivo­lu­zione attesa.

«Fino all’inizio della seconda metà degli Settanta, urbs e civitas erano tenute insieme. Ma il silenzio istituzionale sui fatti del ’77 e la tempestiva riconversione privatistica della gestione pubblica hanno portato alla crisi della coincidenza tra pratica politica e sentimento civico». il manifesto, 12 marzo 2014

«A che punto è la città?/La città in un angolo singhiozza./Improvvisamente da via Saragozza/le auto­blindo entrano a Bologna./C’è un ragazzo sul marmo, giu­sti­ziato». Così Roberto Roversi ne Il Libro Para­diso. L’anno era il 1977, il giorno era l’11 marzo, il corpo quello di uno stu­dente, Fran­ce­sco Lo Russo, ucciso dalle forze dell’ordine nel corso di una mani­fe­sta­zione. E il senso dell’evento (a una let­tura imme­diata come quella di Fede­rico Stame) venne indi­vi­duato nel ten­ta­tivo di ricom­pren­sione da parte dello stato dell’intera società civile bolo­gnese all’interno del sistema politico-istituzionale nazio­nale, secondo la logica di una ten­sione tra governo urbano comu­ni­sta e potere cen­trale di segno oppo­sto ali­men­ta­tasi nel corso dell’intero dopo­guerra.
Ma i fatti del 1977, dal marzo che regi­strò la frat­tura tra città e uni­ver­sità fino al Con­ve­gno Inter­na­zio­nale sulla Repres­sione in set­tem­bre, signi­fi­ca­rono molte altre cose, toc­cando in pro­fon­dità, senza che la stessa cit­ta­di­nanza ne fosse dav­vero con­sa­pe­vole, la natura di Bolo­gna, la sua memo­ria e per­ciò la sua coscienza: al punto che l’intera tran­si­zione post-comunista della città, quella ancora in atto, rie­sce a svol­gersi e a (auto)legittimarsi sol­tanto sulla base del siste­ma­tico, strut­tu­rale silen­zio isti­tu­zio­nale su di essi. Pro­prio quel silen­zio che ha garan­tito e garan­ti­sce la soprav­vi­venza della poli­tica (della polis) al prezzo della pro­gres­siva diva­ri­ca­zione tra civi­tas e urbs, tra le pos­si­bi­lità di messa in comune della capa­cità cit­ta­dina di mani­po­la­zione sim­bo­lica e la cre­scita della città nella forma di sem­plice manu­fatto urbano, di com­plesso plu­ri­fun­zio­nale di costru­zioni, secondo la con­ce­zione andante di orga­ni­smo urbano: quella che, codi­fi­cata nell’Ency­clo­pé­die, domina da più di due secoli i nostri dizio­nari, e per­ciò la nostra mente. Lo stesso silen­zio rispetto al quale la man­cata ela­bo­ra­zione del lutto per il crollo del muro di Ber­lino, alla fine degli anni Ottanta, si porrà, nel nostro Paese, come replica allar­gata e ancora più fra­go­rosa. Come ha scritto in pro­po­sito, ica­sti­ca­mente, Mauro Boa­relli: «Anche quella che veniva esi­bita con orgo­glio come la capi­tale del comu­ni­smo euro­peo non ha tro­vato alcuno spa­zio pub­blico per con­fron­tarsi con la pro­pria storia».

Nel dopo­guerra e ancora fino all’inizio della seconda metà degli Set­tanta, al tempo del «buon­go­verno» inau­gu­rato da Giu­seppe Dozza, i fun­zio­nari della polis pone­vano al con­tra­rio la mas­sima cura nel tenere insieme l’urbs e la civi­tas, lo svi­luppo e la manu­ten­zione della città mate­riale con quello della coscienza civica intesa come rico­no­sci­mento di un unico, comune sen­tire, oltre che di comuni con­creti biso­gni. Erano i tempi della «demo­cra­zia sociale» bolo­gnese, al cui interno la rior­ga­niz­za­zione dei ser­vizi era con­ce­pita, per ripren­dere una distin­zione di Nadia Urbi­nati, non come un sem­plice atto dovuto ma come una proat­tiva «fun­zione della cit­ta­di­nanza demo­cra­tica», in grado cioè di favo­rire la com­ples­siva eman­ci­pa­zione sociale di tutti i sog­getti, anche quelli che in appa­renza del sin­golo ser­vi­zio non usu­frui­vano: si pensi sol­tanto all’invenzione della scuola a tempo pieno, in grado di ricon­fi­gu­rare il com­plesso delle rela­zioni tra i tempi del lavoro, dell’apprendimento e della cura fami­gliare, e per­ciò di tra­sfor­mare la strut­tura tem­po­rale del mec­ca­ni­smo dell’intera città; oppure si pensi, prima ancora, alla rifles­sione sul decen­tra­mento e alla nascita dei quar­tieri, volta a con­so­li­dare la par­te­ci­pa­zione dei bolo­gnesi alla vita in comune.

Se a par­tire dalla fine degli anni Ottanta l’autocritica manca, la ricon­ver­sione in senso pri­va­ti­stico della gestione pub­blica è però tem­pe­stiva, quasi che pro­prio que­sta fosse l’implicita ragione del nuovo corso del governo locale. Giu­sto al 1989 risale il pro­getto di pri­va­tiz­zare le far­ma­cie comu­nali volute da Dozza nel 1949, man­dato poi ad effetto un decen­nio dopo dal sin­daco Wal­ter Vitali in seguito a un refe­ren­dum con­sul­tivo che i diri­genti del Pds invi­ta­rono a diser­tare: con pieno suc­cesso, anche se in asso­luto dispre­gio degli stru­menti di par­te­ci­pa­zione diretta pre­vi­sti dallo Sta­tuto comu­nale.

In tale epi­so­dio si è voluto vedere l’avvio del pro­cesso di «tra­smu­ta­zione di tutti i valori» dell’amministrazione pub­blica di sini­stra cul­mi­nata nel pro­getto di riforma nazio­nale dei ser­vizi locali pro­mosso durante il secondo governo Prodi. Ma nell’immediato le con­se­guenze di tale deci­sione sull’ethos civico bolo­gnese furono evi­den­te­mente demo­li­to­rie: ridotto in tal modo alla pas­siva esi­bi­zione dei carat­teri cul­tu­rali e iden­ti­tari petro­niani (non escluso lo stesso buon governo defi­ni­ti­va­mente ridotto a mito) esso diverrà il ter­mi­nale sem­pre meno ricet­tivo di pra­ti­che e discorsi sem­pre più disco­sti rispetto al comune sentire.

Al riguardo la para­bola è esem­plare, e tutta orien­tata nel senso della pro­gres­siva crisi della coin­ci­denza tra pra­tica poli­tica e sen­ti­mento civico: parte dal sin­daco Gior­gio Guaz­za­loca (1999–2004), il primo sin­daco di centro-destra, alfiere di una ste­reo­ti­pata «bolo­gne­sità» e ter­mina con la gestione com­mis­sa­riale dell’ex mini­stra Anna­ma­ria Can­cel­lieri (2010–11), vale a dire con l’azzeramento di ogni pos­si­bile rap­pre­sen­tanza poli­tica locale. In mezzo due figure, molto dif­fe­renti tra loro, vis­sute però dalla cit­ta­di­nanza, per ragioni diverse, come due auten­tici infor­tuni: il sin­daco Ser­gio Cof­fe­rati (2004–9), per­ce­pito alla fine dai bolo­gnesi in ter­mini di quasi asso­luta estra­neità, e il sin­daco Fla­vio Del­bono (2009–10) il cui bre­vis­simo governo ter­minò scan­da­lo­sa­mente nelle aule giu­di­zia­rie.

Dato in tal modo fondo a ogni plau­si­bile mossa e get­tata la spu­gna, altro non restò alla fine al ceto poli­tico che affi­darsi, in con­trad­di­zione con tutta la sto­ria ammi­ni­stra­tiva pre­ce­dente, all’emissario del governo cen­trale, signi­fi­ca­ti­va­mente invi­tato dai due prin­ci­pali anta­go­ni­sti par­titi, alla fine del suo man­dato, a pre­sen­tarsi alle ele­zioni comu­nali come can­di­dato di spicco nelle pro­prie liste.

Le ragioni di tale cor­to­cir­cuito politico-amministrativo appar­ten­gono però non alla cro­naca ma alla sto­ria, alla matrice della coscienza poli­tica, all’estesa mente (mind) urbana costi­tuita dalla col­let­ti­vità nel suo rap­porto con la mate­riale strut­tura cit­ta­dina (brain) che allo stesso tempo la pro­duce e ne è il pro­dotto. E pro­prio l’ignoranza della natura di tale matrice è oggi all’origine dell’incapacità della poli­tica locale ad assol­vere il pro­prio com­pito: a Bolo­gna più mani­fe­sta­mente che altrove.

Già un secolo fa avver­tiva Adolf Loos che non si ha idea della quan­tità di veleno che abili pub­bli­ca­zioni spar­gono ogni giorno sull’idea di città, al punto da impe­dire ogni auten­tica com­pren­sione del fatto urbano. Tale veleno con­si­ste in sostanza nella tra­sfor­ma­zione della realtà urbana in sem­plice aggre­gato edi­li­zio, appunto secondo la cano­nica defi­ni­zione illu­mi­ni­stica all’inizio richia­mata, for­mu­lata da Dide­rot in per­sona. Così, ripor­tata all’organismo cit­ta­dino, la cele­bre affer­ma­zione della That­cher per cui «non esi­ste la società, esi­stono solo gli indi­vi­dui, di sesso maschile e fem­mi­nile» enun­cia non sol­tanto la fine di ogni idea di civi­tas, di col­let­ti­vità civile, ma anche di ogni rela­zione tra que­sta e l’urbs, secondo un pro­cesso di ridu­zione dell’idea di città che cul­mina oggi nel con­cetto di smart city: che signi­fica non città «intel­li­gente», come si dice, ma piut­to­sto «fur­be­sca­mente alla moda», da gestire secondo pro­grammi elet­tro­nici volti alla tra­sfor­ma­zione in senso azien­dale della città stessa.

Bolo­gna però non è una città intel­li­gente, è molto di più: è una città per natura cogni­tiva, nel senso che fin dalle ori­gini il suo com­pito è stato quello di svol­gere ruoli qua­ter­nari, con­nessi cioè alla pro­du­zione, all’interpretazione e alla messa in cir­co­la­zione di infor­ma­zione spe­cia­liz­zata. A volerla restrin­gere all’essenziale, nell’ultimo mil­len­nio e mezzo la sua sto­ria svolge in maniera esem­plare la vicenda dell’autorganizzazione di un sistema che attra­verso la pro­pria cre­scente com­ples­si­fi­ca­zione tra­sforma la pro­pria strut­tura con­creta senza però mutare la pro­pria logica, e con essa la pro­pria costi­tu­zio­nale iden­tità. E ciò in virtù della capa­cità di trarre par­tito dalla per­tur­ba­zione per rin­chiu­dersi in maniera diversa su se stessa, gene­rando nuovi ruoli e atti­vità in grado di man­te­nere e rin­for­zare la natura ori­gi­na­ria del fun­zio­na­mento. Essen­ziale resta il fatto che per qual­siasi orga­ni­smo i mec­ca­ni­smi dell’autorganizzazione sono quelli dell’attività cogni­tiva, i soli a per­met­tere, attra­verso il rico­no­sci­mento e il supe­ra­mento della crisi, la nascita di nuove fun­zioni in grado di garan­tirne la soprav­vi­venza e la cre­scita. E che cosa fu, all’alba del Mille, l’invenzione a Bolo­gna dello «Stu­dio», dell’università, se non il risul­tato di tale atti­vità da parte dell’organismo urbano bolognese?

Di con­verso: che cosa furono i fatti del 1977 se non l’effetto della soprav­ve­nuta inca­pa­cità da parte di Bolo­gna di acco­gliere, trat­tare, meta­bo­liz­zare e rimet­tere in cir­cuito il carico infor­ma­zio­nale che dalla seconda metà degli anni Ses­santa si era diretto verso di essa, e tra­durlo in ter­mini poli­tici? Della incapacità di supe­rare insomma un’ulteriore soglia del pro­prio pro­cesso auto orga­niz­za­tivo, di ope­rare come mille anni prima nel senso di una pro­gres­siva arti­co­la­zione della pro­pria natura qua­ter­na­ria, la sola il cui svi­luppo sarebbe stato in grado di con­ti­nuare a pre­ser­varne l’identità e per­ciò la coscienza, anzi il com­plesso delle coscienze?

Sul cer­chio di gesso che marca con­tro il muro di via Masca­rella il segno dei pro­iet­tili che l’11 marzo del 1977 ucci­sero Fran­ce­sco Lo Russo qual­cuno ha di recente appo­sto un tag nero: con­cre­tis­simi sog­getti, diversi dagli stessi stu­denti, pro­ve­nienti da lon­tano e por­ta­tori di cul­ture altre sono nel frat­tempo diven­tati visi­bili e si aggi­rano sotto i por­tici e lungo i viali. In fondo, come ha scritto Edgar Morin, «tutto ciò che esi­ste e si crea è qual­cosa d’improbabile che hic et nunc diventa neces­sa­rio». Il ritardo del dispo­si­tivo poli­tico bolo­gnese nel pen­sare la pos­si­bi­lità che «le cose potes­sero andare diver­sa­mente», per dirla con Karl Kraus, vale a dire il ritardo poli­tico di Bolo­gna dovuto alla sua man­canza di memo­ria, si tra­duce così nel dover fare i conti con neces­sità della cui por­tata sol­tanto oggi, a fatica e senza più grandi rife­ri­menti, essa ini­zia a ren­dersi conto.

«Nel cuore dell’Appennino, nonostante tutti gli sfregi che ha subito è un posto comodo, al centro della Campania. Dove si può anche trovare il silenzio e la luce dell’Irpinia d’Oriente. Ma sembra fatta apposta per dimostrare come il Sud possa sprecare le sue bellezze e le sue opportunità». Il manifesto, 6 marzo 2014

Arrivo ad Avel­lino verso le nove. Per arri­varci da casa mia ci vuole un’ora di auto­strada che somi­glia assai poco a un’autostrada. Attra­verso una pro­vin­cia ancora bel­lis­sima, a dispetto del val­zer delle beto­niere seguito al ter­re­moto dell’ottanta.

Avel­lino è più viva di tante cit­ta­dine euro­pee. C’è una rin­no­vata viva­cità, i buoni ci sono ancora, anche se sono attori non pro­ta­go­ni­sti. Nono­stante tutti gli sfregi che ha subito è un posto comodo, al cen­tro della Cam­pa­nia. In meno di un’ora si pos­sono rag­giun­gere posti famosi come Pae­stum e la costiera amal­fi­tana, ma si può anche tro­vare il silen­zio e la luce dell’Irpinia d’Oriente. Avel­lino è in mezzo all’Appennino. Il suo futuro non è la deca­denza, per­ché non sarà la deca­denza il futuro dell’Appennino.

Intanto il suo pre­sente è molto simile a una via cru­cis, una città che sem­bra fatta appo­sta per dimo­strare come il Sud possa spre­care le sue bel­lezze e le sue opportunità.

Prima sta­zione

Entro in città dalla la zona del nuovo ospe­dale. Lo chia­mano città ospe­da­liera. Non so chi ha costruito la strut­tura, non deve essere un bravo archi­tetto. Ma il pro­blema più grande è fuori. Arri­vare al pronto soc­corso è come fare una cac­cia al tesoro. E poi si sono dimen­ti­cati di fare i par­cheggi davanti alla strut­tura. I lavori per porre rime­dio ovvia­mente vanno a rilento. E così chi entra ad Avel­lino da que­sto lato subito può farsi l’idea di una città slow, ma il rife­ri­mento è ai can­tieri, non al cibo.

Seconda sta­zione

Sono davanti al tea­tro Gesualdo. Anche qui l’opera ha una dise­gno archi­tet­to­nico molto discu­ti­bile, anche qui il disa­stro è fuori. Prima hanno cer­cato di recu­pe­rare dei ruderi micro­sco­pici di un castello col risul­tato che adesso non si notano i ruderi, ma una scala di metallo. Ora forse si vor­rebbe siste­mare lo spa­zio intorno al tea­tro, ma i lavori pro­ce­dono per avan­za­menti mil­li­me­trici. Lo spiazzo che vor­reb­bero rica­varne è una sorta di Aspet­tando Godot dell’urbanistica. Dun­que il tea­tro si fa den­tro e anche fuori, dove vanno in scena infi­nite repli­che del tea­tro dell’assurdo.

Terza sta­zione

Piazza Macello. Qui ci sono gigan­te­sche palaz­zine anni ses­santa, qui c’è sem­pre stato e c’è ancora il punto da cui par­tono e arri­vano i pull­man. Si parla da decenni di far tra­slo­care l’autostazione, ma non suc­cede nulla. I lavori sono stati fatti, i soldi sono stati spesi. Que­sto conta, per il resto i pull­man pos­sono restare dove sono. Per spen­dere altri soldi hanno pro­vato a fare una piazza. Non è venuta bene, forse gli unici a goderne sono i cani che pos­sono fare indi­stur­bati i loro bisogni.

Quarta sta­zione

Vado verso il cen­tro della città. Qui c’è il can­tiere totem, la meta­fora di tutti i fal­li­menti della poli­tica avel­li­nese. Dif­fi­cile cre­dere che potesse essere utile un tun­nel in una città che ha meno di ses­san­ta­mila abi­tanti. Il pro­getto ori­gi­na­rio è stato stra­volto e la pos­si­bile uti­lità è ancor più dimi­nuita. I lavori al momento sono are­nati e il tun­nel è solo una buca dove sono stati but­tati un sacco di soldi pubblici.
Quinta sta­zione

Sono arri­vato al corso. Que­sto è il cen­tro della città, la spada dritta, la gruc­cia a cui è appeso tutto il resto. Qui i lavori per farne un’isola pedo­nale sono stati por­tati al ter­mine. Un luogo molto bello, nono­stante ci siano ancora molti palazzi che atten­dono di essere rico­struiti. L’effetto è strano. Non si vedono bici­clette, gli avel­li­nesi senza mac­china sem­brano crea­ture a disa­gio, a parte i lumi­nari dello stru­scio che par­lano di sport e di poli­tica. Avel­lino è una città che parla molto di sport e di poli­tica. Le due cose hanno destini con­giunti. L’ascesa della squa­dra di cal­cio alla serie A e la sua lunga per­ma­nenza nell’olimpo del cal­cio coin­cise con il ful­gore dei poli­tici irpini. Il più noto è De Mita, poi ci sono Man­cino e Bianco, Gar­gani, De Vito. Su que­ste figure si è scritto molto, non è il caso di aggiun­gere altro, se non che sono tutti ancora in atti­vità, a parte De Vito, sin­daco del mio paese, morto senza il calore del popolo al suo capez­zale. Non so quale sarà il destino degli altri, auguro a tutti lunga vita, ma ho la sen­sa­zione che il volere a tutti i costi man­te­nere un ruolo stia offu­scando la loro opera anche agli occhi dei loro sodali.

Sesta sta­zione

Vado verso il cen­tro sto­rico e la sen­sa­zione molto netta è che non esi­ste. A fianco al Duomo c’è un can­tiere allo stato fos­sile, sem­bra pro­ve­nire da un’altra era geo­lo­gica. Non ci sono negozi, non si vedono per­sone. Hanno rico­struito le case, ma sem­bra un luogo senza futuro. In tante città del Sud i cen­tri sto­rici hanno ripreso un bel vigore, basti pen­sare a Bari o a Lecce. Qui c’è solo la pes­sima edi­li­zia del post-terremoto e qual­che can­tiere. Gli avel­li­nesi, a parte raris­sime ecce­zioni, sem­bra pro­prio che non ce l’hanno in testa il cuore della loro città. Una volta qui aveva sede il cen­tro Dorso. C’è ancora, ma da quando è morto Elio Sel­lino, l’editore che lo diri­geva, non ci ho più messo piede. Sel­lino aveva una grande pas­sione per l’Irpinia, ha fatto molte cose per valo­riz­zarne la sto­ria pas­sata e per rav­vi­vare la vita intel­let­tuale: non si può dire che le sue imprese abbiano avuto par­ti­co­lari riconoscimenti.

Set­tima stazione

Avel­lino ha come pro­pag­gine due paesi che si sono sal­dati alla città, cumu­lando le loro brut­tezze a quelle cit­ta­dine: al Sud i paesi di mag­giore dina­mi­smo eco­no­mico quasi sem­pre sono i più incu­ranti della bel­lezza. La strada che va verso Mer­co­gliano è peren­ne­mente inta­sata di traf­fico. Ogni volta che mi trovo in que­sto ingorgo sento che non ha nes­suna logica, come se ser­visse solo a dare l’idea di stare in città.

Ottava sta­zione

Sono col mio amico Livio Bor­riello. Dei tanti scrit­tori della città è quello a cui sono più legato. Avel­lino non è un posto privo di talenti. Un altro mio amico è il bra­vis­simo videoar­ti­sta Anto­nello Mata­razzo. In que­sto caso il rife­ri­mento alle sta­zioni della via cru­cis si giu­sti­fica col fatto che una città piena di ener­gie intel­let­tuali non è mai riu­scita a costruire un evento cul­tu­rale dura­turo e capace di uscire dai con­fini cit­ta­dini. Arti­sti, scrit­tori, tea­tranti avel­li­nesi hanno sicu­ra­mente meno atten­zioni di quelle che meri­tano; e meri­te­reb­bero, per comin­ciare, che l’ex cinema Eli­seo, ristrut­tu­rato da tempo, non restasse chiuso come ber­sa­glio per i van­dali; e che l’ex palazzo della Dogana tro­vasse la via per essere sot­tratto alla ragna­tela dei pro­po­siti mai realizzati.

Nona sta­zione

Sono davanti a una costru­zione vasta e pre­ten­ziosa. A vederla da lon­tano pare la sede di una grande mul­ti­na­zio­nale. Ti avvi­cini e sco­pri che si tratta della sede di una pic­cola banca. Una volta si chia­mava Banca Popo­lare dell’Irpinia. Ha cam­biato nome già una volta e sta per cam­biarlo di nuovo. Non ci sono più i soldi del post– ter­re­moto. Insomma, sono davanti a una gran­deur che adesso sem­bra deci­sa­mente fuori posto. L’Irpinia non è diven­tata quello che imma­gi­na­vano negli anni ottanta i nota­bili democristiani.

Decima sta­zione

Nel mio giro­va­gare in cerca di una città che non c’è da nes­suna parte, ora sono davanti alla cli­nica Mal­zoni. Anche qui un senso di deca­denza. La sanità pub­blica, tenuta per anni volu­ta­mente in con­di­zioni pie­tose, ha fatto qual­che passo avanti, e que­sta cli­nica che godeva di un pre­sti­gio immo­ti­vato, sta facendo molti passi indietro.

Undi­ce­sima stazione

Di nuovo nel cen­tro della città. Qui una volta c’era il car­cere bor­bo­nico. Ora è uno spa­zio assai bello che può acco­gliere atti­vità cul­tu­rali. Il cruc­cio in que­sto caso è che anche quando si fa qual­cosa di inte­res­sante non sem­bra godere dell’interesse dei cit­ta­dini. L’estate scorsa ci provò un corag­gioso edi­tore ad alle­stire un nutrito pro­gramma che si chia­mava la Bella estate. Rispo­sta tie­pida, come tutte le cose che si fanno fuori dai recinti dello sport e della politica.

Dodi­ce­sima stazione

Iper­coop. Qui trovo molta gente. Vago tra li scaf­fali stra­colmi di merce, non trovo tracce di pro­dotti irpini. Una terra che ha ancora tanti con­ta­dini non trova il modo di con­su­mare i suoi pro­dotti. Anche da que­sto punto di vista la città ha le sue colpe. Invece di essere quello che è: una città in mezzo a mon­ta­gne bel­lis­sime, un capo­luogo che guarda ai suoi paesi, Avel­lino sem­bra pro­ten­dersi inu­til­mente verso occi­dente, verso Napoli e Salerno, col risul­tato di pren­derne i difetti e non i pregi.

Tre­di­ce­sima stazione

Col mio amico Livio mi fac­cio un giro per i quar­tieri peri­fe­rici. Rispetto ad altre città del Sud, non sem­bra esserci una grande dif­fe­renza col cen­tro. Il motivo è che in que­sto caso non è la peri­fe­ria a far sfi­gu­rare il cen­tro, ma il cen­tro che tende a imi­tare la peri­fe­ria. Maz­zini, Valle, San Tom­maso, cam­biano i quar­tieri, ma i palazzi più o meno sono sem­pre gli stessi e pure le mac­chine par­cheg­giate e pure le facce della gente. Forse la nota più dolente viene dal quar­tiere Fer­ro­via dove c’è un sito di inte­resse nazio­nale da boni­fi­care: l’ex sta­bi­li­mento dell’Isochimica dove si scoi­ben­tava amianto. Amianto sot­ter­rato dap­per­tutto in quel quar­tiere, anche sotto i binari della fer­ro­via. Pic­cola con­so­la­zione: nella chiesa del quar­tiere c’è Il murale della pace, una pre­ge­vole opera di arte contemporanea.

Avel­lino è par­ti­co­lar­mente omo­ge­nea nel suo gri­giore. Più giriamo e più mi sem­bra di fare il giro della mosca nella bot­ti­glia. È una sen­sa­zione che mi danno molte città, come se la gran­dezza e il senso dell’infinito ormai si fos­sero andati a nascon­dere nei luo­ghi più pic­coli e sperduti.

Quat­tor­di­ce­sima stazione

Pas­siamo davanti al mer­ca­tone. Doveva essere un con­te­ni­tore di bot­te­ghe arti­giane. Aperto per alcuni mesi, si è rive­lato inge­sti­bile. Archi­tet­tura pes­sima per forma e dimen­sioni, costo di riqua­li­fi­ca­zione altis­simo. Si aspetta solo che il tempo la tra­sformi in rovina.

Mi sono stan­cato, ho voglia di tor­nare verso l’altura. Lascio la parola al mio amico Livio Bor­riello e alla sua per­ce­zione del gri­giore cit­ta­dino: Dire Avel­lino non è dire il nome di una città, ma quello di un posto, di una variante di luogo. Il nome Avel­lino non evoca nes­sun mondo, nes­suna dimen­sione psi­chica, come accade per le vere città che hanno delle vere carat­te­ri­sti­che. Pro­prio que­sto però è il suo aspetto inte­res­sante, essere una città neu­tra, una città inco­lore e trasparente.

«Si è costruito molto e in modo mediocre negli ultimi 30 anni. Un ciclo edilizio perpetuo, che neanche la crisi ha fermato, dove città e campagna si sono confuse». La seconda inchiesta sel manifesto sulle città d'oggi, 13 febbraio 3014

Sas­sari nasce in un ter­ri­to­rio vasto, ottimo per l’uso agri­colo; ma per la sua popo­la­zione la vita non sarà facile. Il risul­tato della fati­cosa tra­ver­sata nel tempo, tra care­stie e pesti­lenze, è un inse­dia­mento gra­cile, eppure sor­pren­dente se con­fron­tato con i limi­tati mezzi a disposizione.

Sarà sem­brata una città pre­stante quand’era rac­chiusa dalle mura, di cui resta qual­che lacerto a cer­ti­fi­carne il ruolo nel povero sistema difen­sivo della Sar­de­gna, con tutti quei cam­pa­nili e gli edi­fici adi­biti fun­zioni di dire­zione e di ser­vi­zio che l’hanno accre­di­tata come capo­luogo di una vasta pro­vin­cia. Così qual­cuno ci ha cre­duto, fino al XVIII secolo, che potesse con­ten­dere il pri­mato a Cagliari, favo­rita dalla pre­senza sta­bile del vicerè. Non le manca l’impronta otto­cen­te­sca: i luc­ci­chii di un tea­tro, e poi un piano di amplia­mento, pro­get­tato secondo i cri­teri col­lau­dati in Ter­ra­ferma, una sfer­zata di ener­gia dopo il 1837. Un dise­gno buono per un secolo, cor­nice alle archi­tet­ture in linea con il sen­ti­mento nazio­nale, e poi pre­messa alla città moderna, con lo sguardo rivolto ai migliori modelli.

La popo­la­zione è cre­sciuta con un ritmo lento ma costante; per quanto afflitta dalla sovrab­bon­danza di indi­genti allog­giati in case basse e mal­sane, una cir­co­stanza che suscita grande inquie­tu­dine dopo la tra­gica epi­de­mia del 1855. Appena con­for­tata dalla pro­ces­sione dei Can­de­lieri che ogni anno a Fer­ra­go­sto rin­nova il voto con­tro la peste.

Pre­oc­cu­pa­zioni fon­date; e infatti negli anni ’50 del Nove­cento si dif­fonde la Tbc con pic­chi di mor­ta­lità molto più ele­vati di quelli riscon­trati fino a quel momento in Sar­de­gna. Si spiega con l’indice di affol­la­mento (fino a 10 persone/vano), la penu­ria d’acqua, le fogne inef­fi­cienti. Un’emergenza igienico-sanitaria che s’immagina di affron­tare con la ricetta di Con­ce­zio Petrucci, autore del Piano rego­la­tore gene­rale fasci­sta, facendo tabula rasa del vec­chio cen­tro. Con un’idea vaga sul tra­sfe­ri­mento della popo­la­zione. I meno abbienti allo sbando, o in lista per acce­dere al pro­gramma Ina-Casa nelle aree di Monte Rosello. I più for­tu­nati impe­gnati da un po’ a met­tersi in salvo, con mezzi pro­pri, lon­tano dalle vec­chie strade Purior hic aer è scritto sulla fac­ciata di una casa, timi­da­mente liberty, nel colle dei Cappuccini).

Si è for­mato così un pre­giu­di­zio, chiave di volta di una ideo­lo­gia resi­stente: il nucleo antico causa di tutti i mali, infetto e insa­na­bile. Che sot­tin­tende la rinun­cia a pre­star­gli cure; meglio ampu­tare, come/dove capita, per rico­struire a pia­cere; applausi per chi con­corre alla catarsi. Primo cimento: due palaz­zoni (grat­ta­cieli — li chia­mano i sas­sa­resi) che get­tano la loro ombra ben oltre la piazza che a mala pena li contiene.

Una tra­sfor­ma­zione fuori misura ma modello per altri inter­venti più mode­rati nei din­torni, ecci­tati dalla con­vin­zione che la vita della città con­ti­nuerà a svol­gersi in quell’area cir­co­scritta dove la bor­ghe­sia più istruita e facol­tosa esprime una mul­ti­forme vita­lità (nella sede del Pci di Enrico Ber­lin­guer o nella par­roc­chia di Fran­ce­sco Cossiga).

Com­pat­tezza e frammenti

Non ci sono sin­tomi che fac­ciano pre­ve­dere la disper­sione dell’insediamento che si avvierà di lì a poco. Alla pro­pen­sione seces­sio­ni­sta obbe­di­sce la pia­ni­fi­ca­zione intra­presa nei primi anni ’50, attuata nel decen­nio suc­ces­sivo. Il più rile­vante esito di quelle pre­vi­sioni cen­tri­fu­ghe è il quar­tiere marginal-popolare di Santa Maria di Pisa dove si relega quasi tutta l’edilizia eco­no­mica dell’ultimo mezzo secolo. Una mossa esi­ziale per il dise­gno della città, impe­di­mento per ogni futuro pro­po­sito di coe­sione sociale. A cui si somma lo spar­pa­glia­mento nel ter­ri­to­rio agri­colo di abi­ta­zioni uni­fa­mi­liari su lotti di varia misura, e anche in que­sto caso i suburbi, più o meno laschi, sono con­no­tati dalla omo­ge­neità del red­dito: a sud le ville dei più for­tu­nati, a nord, lungo il per­corso dell’antica strada reale, il regno di auto­co­strut­tori, spesso abu­sivi, tol­le­rati dalle ammi­ni­stra­zioni altri­menti chia­mate a farsi carico di un vasto disa­gio abitativo.

La crisi del vec­chio cen­tro murato è evi­dente quando, nel 1983, è appro­vato il nuovo piano rego­la­tore, com­pia­cente verso ogni pro­pen­sione alla cre­scita, soprat­tutto nelle forme più spe­cu­la­tive. Dap­per­tutto, e ancora in danno del pae­sag­gio urbano: que­sta volta alla fisio­no­mia moder­ni­sta, con la serie di demo­li­zioni di ele­ganti casette del primo Nove­cento sosti­tuite da più van­tag­giosi edi­fici multipiano.

Si è costruito molto e in modo medio­cre e ovun­que negli ultimi 30 anni, anche per rispon­dere alla immi­gra­zione dai paesi. Non sarebbe dif­fi­cile quan­ti­fi­care la cre­scita e pre­oc­cu­parsi della spro­por­zione. Il patri­mo­nio edi­li­zio che nel 1919 è costi­tuito da circa 2600 edi­fici — rea­liz­zato in 5–600 anni — è aumen­tato di almeno sei volte volte nel tempo breve di mezzo secolo (a cui non cor­ri­sponde un cosi impor­tante incre­mento di abi­tanti). La esten­sione di ter­ri­to­rio inve­stito dal pro­cesso di urba­niz­za­zione, foto­gra­fata nel pas­sag­gio di secolo, è almeno venti volte quello della strut­tura urbana com’era negli anni Cin­quanta, con i suoi pre­ziosi oli­veti e orti a contorno.

«Predda Niedda»

Dopo il 1980 è già dif­fi­cile capire dove fini­sce la città e comin­cia la cam­pa­gna, ma pochi ci fanno caso. Pre­vale la con­vin­zione che si tratti del meta­bo­li­smo giu­sto. E nep­pure la crisi eco­no­mica — dagli esordi alla matu­rità — spinge a ricon­si­de­rare la smi­su­rata fidu­cia ripo­sta nel ciclo edi­li­zio per­pe­tuo, anche da parte delle ban­che dome­sti­che (quando fidu­cia sta per cre­dito). Si pre­fe­ri­sce con­ser­vare l’atteggiamento cor­rivo che ha con­tri­buito alla gra­duale sva­lu­ta­zione della città imbrut­tita dall’ingordigia, e indif­fe­rente come altrove al rischio di una bolla immobiliare.

Il più grande errore? Un’area chia­mata «Predda Niedda» (pie­tra nera), cen­ti­naia di ettari urba­niz­zati con denaro pub­blico: una «zona indu­striale d’interesse regio­nale» (Zir), ma sono pochis­sime le mani­fat­ture in una mol­ti­tu­dine di iper­ne­gozi e nego­zietti a con­torno. Il bilan­cio: 172mq di super­fi­cie com­mer­ciale ogni 1.000 abi­tanti nel distretto sas­sa­rese, un rap­porto molto più ele­vato delle medie nel Cen­tro e nel Nord del Paese e che a Cagliari si ferma a 121 mq.

Que­sto schiac­ciante trionfo della grande distri­bu­zione ha pro­vo­cato lo scol­la­mento tra resi­denze e atti­vità com­mer­ciali, amal­gama indi­spen­sa­bile per dare senso all’abitare. E quindi la crisi delle atti­vità com­mer­ciali nella città com­patta, che pen­sano di risol­le­varsi omo­lo­gan­dosi agli stan­dard e ai codici este­tici di «Predda Niedda» pre­miata da una can­giante movida pomeridiana.

Un nuovo piano urba­ni­stico è in costru­zione da una decina di anni. Le pre­vi­sioni dell’amministrazione di cen­tro­si­ni­stra non hanno tro­vato il con­senso della Regione. Il con­fronto sulle impor­tanti cen­sure è in corso, e non è facile pre­ve­derne gli esiti. L’impressione è che l’attività di pia­ni­fi­ca­zione non sia stata accom­pa­gnata da un dibat­tito all’altezza delle attese. Così per­man­gono sot­to­va­lu­ta­zioni, spe­cie della città «sdra­iata», della seconda Sas­sari dove abi­tano ormai 30mila cit­ta­dini, un quarto della popo­la­zione. Una dop­piezza ine­splo­rata: da una parte la città densa con pro­fili da stra­paese; dall’altra lo stram­pa­lato blob che la accer­chia, con le figure tipi­che e gli svan­taggi della metro­poli dis­si­pa­trice, ener­gi­vora, inqui­nante, dise­qui­li­brata e dise­qui­li­brante, ini­qua. E scon­ve­niente, per­ché que­sto modo di vivere ha già un costo insostenibile.

È urgente guar­darla bene que­sta realtà, tutt’altro che fan­ta­sma­tica: per accet­tarla senza subirne le scosse, e quindi per gover­narla. Andando oltre le defi­ni­zioni spicce (come quella di non-luogo — uffa!).

Nel frat­tempo sarebbe oppor­tuno smet­terla di com­pro­met­tere altro suolo. Ricon­si­de­rando la cre­scita pro­po­sta: un volume per oltre 30mila nuovi abi­tanti, incon­ci­lia­bile con il pre­vi­sto decre­mento di popo­la­zione di 10mila nel 2030. L’estensione delle urba­niz­za­zioni ad aree ancora libere ren­de­rebbe più mar­cate le distanze, accre­scendo le esclu­sioni e le disuguaglianze.

Anziché una “opinione”, da Giorgio Todde autorevole collaboratore una lezione di urbanistica, una denuncia politica, un appello: chi lo raccoglie con una sua adesione nei “Commenti”, contribuisce alla buona politica contro la cattiva, alla città delle persone contro quella degli affari

Su Stangioni significa, in sardo, lo stagno, la palude grande.

Chi, a Cagliari, si oppone al nuovo quartiere sovietico detto Su Stangioni che sorgerebbe su una piana all’estremità del territorio cagliaritano, accanto a un vecchio inceneritore che ha sparso veleno per decine d’anni, un quartiere collegato solo da strade a scorrimento veloce, un ghetto più vicino all’hinterland che alla città, chi si oppone sarebbe radical chic. Mentre dei problemi spacciati per veri se ne occupano con le maniche rimboccate quelli che dicono di “pensare concretamente alla città”.

Tra gli obiettivi degli uomini “del fare” rientrerebbe l’impresa di “riportare a Cagliari i cagliaritani emigrati nell’hinterland perché il centro era troppo caro”. E di trasferirli a Su Stangioni, ultimo lembo extra moenia del territorio di Cagliari. Dall’hinterland all’hinterland, insomma.

Così gli abitanti continuerebbero a entrare in città solo per lavorare e a uscirne per andare a dormire. Un obiettivo speculare per indegnità a quello dei centri storici alla spina, vivi solo di notte, abitati da pochi spericolati residenti con il sonnifero sul comodino.

Cagliari non è un’eccezione nel Paese.

Cagliari – da 220mila abitanti nel 1981 a 150.000 nel 2012 - ha da tempo praticamente esaurito il proprio territorio.E l’hinterland, dove oggi si trovano i 70mila abitanti che mancano alla città, è diventato il luogo nel quale la speculazione edilizia si è scatenata con più violenza. E hanno pianificato: il vuoto al centro e il pieno nell’hinterland. Basta un giretto lungo le squallide statali 554 e 130 per comprendere e rabbrividire.

Però quest’area disastrata è stata insignita del titolo di area vasta con lo scopo, nobile solo in origine, di fornirle un unico governo. Da più di dieci anni si chiama area vasta di Cagliari l’area che comprende il capoluogo e 15 comuni intorno. Una popolazione di circa 420.000 abitanti che decrescerebbe se non ci fosse una modesta immigrazione extracomunitaria.

Pochi e costretti a una pericolosa dispersione urbana. Nell’hinterland la densità abitativa è bassa, meno di 600 abitanti per chilometro quadro, dissolti in uno spazio spropositato. Nell'area vasta lavorano circa 140mila persone. Quasi 90mila a Cagliari. L’80% di chi entra a Cagliari ogni mattina sceglie l’auto.

L’area vasta di Cagliari è, sotto ogni aspetto, un compiuto esempio di insostenibilità economica e sociale. Niente di nuovo. Spersonalizzazione, cancellazione dei caratteri e rapporti sociali che definivano le diverse comunità, la sindrome da spaesamento ormai epidemica. E poi, un auto ogni due abitanti, inquinamento, tempi di spostamento insopportabili, incidenti. Tutto questo considerato non una patologia, ma una tassa da pagare a una finta, grottesca modernità.

L'agglomerato urbano comprende in realtà anche una decina di altri comuni oggi tenuti fuori dall’area vasta, ma afflitti dalle stesse malattie. Con gli abitanti di questi comuni si raggiungono i 490mila abitanti su un territorio di oltre 1.800 chilometri quadrati. La popolazione della provincia, che non coincide con l’area vasta, è di 563mila abitanti. Un rompicapo amministrativo.

E la scuola? In questa popolazione sono presenti, nel 2001, diecimila analfabeti totali e più di cinquantamila dichiarano di saper leggere e scrivere un testo semplice ma di non aver conseguito nessun titolo di studio. Dati desolanti e in peggioramento.

Insomma, l’area vasta sarda ripete le percentuali abitative di aree che nelle facoltà di architettura sono di solito indicate come nocivo esempio di sprawl. Curiosamente Atlanta ed Elmas, il paragone suscita un sorriso, spargono i loro abitanti nel territorio più o meno con le stesse percentuali.

Qua come altrove è la politica, sospinta dagli affari, che ha consentito la completa dissociazione tra fabbisogni reali e il costruito in eterna, tragica moltiplicazione. Senza un disegno urbanistico e senza una filosofia dell’abitare.

Occorreva un governo e una visione sovra-comunale. Ma nessun sindaco, nessuna municipalità ha accettato, se non a parole, un’autorità condivisa.

Il Piano Strategico Intercomunale c’è, ma è solo carta, senza contare che quando un progetto è definito “strategico” allora siamo di certo in pericolo. Le espressioni “risiedere, muoversi agevolmente, godere dell’ambiente e di fruire dei servizi” dovevano essere “strategici” però sono rimasti parole e le vere azioni “strategiche” sono consistite nel ricoprire di cemento l’area vasta.

Ogni Comune ha deciso il suo Puc oppure ha deciso che è meglio non possederne uno. Ma in tutti i casi le Giunte comunali sono rimaste i soliti centri d’affari dedicati all’edilizia che “regge il mondo”. E hanno vinto i localismi.

Anche la definizione di Area Metropolitana è rimasta volutamente vuota. Una legge regionale annunciò nel ’97 il riassetto delle province sarde e che il territorio di Cagliari si sarebbe potuto riorganizzare facendo coincidere l’assetto provinciale con l'Area metropolitana dotata di un’Autorità che la governasse. Tutti sanno come è andata a finire e la commedia muta in tragedia.

Intanto nel Piano attuativo regionale per la spesa dei fondi destinati alle aree sottoutilizzate 2007/13 – si trattava di 2278 milioni di euro - le parole “trasporto pubblico, coesione sociale, ambiente” sono state sostituite da parole molto più remunerative come“strade, svincoli, assi di scorrimento”. Soldi per fare strade, insomma. E infatti oltre il 90% delle risorse riguarda collegamenti stradali. Pochissimo per aeroporti, porti e ferrovie. Hanno vinto gli affari e non c’è speranza di uscire da una perniciosa concezione della nostra area urbana ridotta a territorio di speculazione.

Intanto il nuovo quartiere de Su Stangioni resta un progetto che respira di nuovo perché qualcuno, anche nel Pd cagliaritano, tenta di rianimarlo.

Ancora case disperse e ancora la distorsione e l’abuso di parole come “sostenibile, ecologico, verde” nel tentativo di contrabbandare come housing sociale l’ordinario cemento, mentre la città, svuotata, quindicimila appartamenti vuoti, si sfalda e si disperde nel solito orrendo nulla urbano.

Rudimenti di urbanistica.

Il consumo irrazionale di suolo, quello distaccato dal fabbisogno reale, deve cessare anche a Cagliari, la bruttezza delle campagne divorate dal “cemento a vanvera” deve cessare, la vita di relazione deve essere facile, il trasporto pubblico deve vincere. Non si vive vicino a un territorio inquinato per decenni dall’incenerimento dei rifiuti. E non si vive in un luogo brutto.

Su Stangioni è un luogo che evoca acque ferme, paludi malsane. Nessuna manna, solo polveri avvelenate. Si deve definire il livello di inquinamento di quest’area e solo dopo favorire la ricostituzione di un nuovo paesaggio campestre e, magari, agricolo. Non esiste altra via.

E’ necessario stabilire un punto fermo dove finisce la città e dove inizia la campagna. Esattamente come accade nei Paesi dove l’urbanizzazione si è data regole certe. E quel punto, quel confine esiste già. Molto lontano da Su Stangioni e molto prossimo alla città attuale.

Ai “sostenitori” del progetto è consigliabile un volo sopra i Paesi europei dove amano davvero i loro suoli per vedere come le città abbiano un confine netto e come da quel punto inizi l’agro. Noi vogliamo la città compatta dove per il bene comune si vive, si va in una scuola vicina, in un teatro vicino, in un cinema vicino, in ambulatori e ospedali vicini, in botteghe vicine, dove si cresce, si matura e si invecchia in compagnia di altri esseri umani e dove una comunità conserva le sue caratteristiche e peculiarità proprio perché si vive vicini.

Nuove micro città sono come la gramigna: consumano i luoghi, sprecano risorse comuni e producono malessere.

La politica, la parte buona che sopravvive, cerca oggi a Cagliari di evitare il cemento a Su Stangioni. Ma una parte del Pd locale pensa e agisce contro ogni abbiccì urbanistico. L’interesse di pochi non deve determinare la crescita della città, noi non dobbiamo pagare urbanizzazioni folli, insediamenti insensati, dannosi e antieconomici.

Per questo siamo sicuri che il pensiero raccolto intorno a Eddyburg è profondamente contrario a un progetto brutto, vecchio, scriteriato, svantaggioso e nocivo come quello di Su Stangioni. E che sarà accanto a chi si oppone a questo inaccettabile progetto.

Riferimenti

Se volete sapere di più sulla lottizzazione di Su Stangiuni, che non piace al sindaco ma piace a parte consistente della sua maggioranza scaricate e leggete il dossier del gruppo di lavoro sul consumo di suolo del Circolo Copernico

Verso la rottura il miracoloso equilibrio tra città e campagna che il PRG di Giovanni Astengo (1965-72) aveva tentato di tutelare? Sembra di si. Occhi aperti su Assisi. Il Fatto Quotidiano, 25 settembre2013

Se Assisi è ancora quella che è, e cioè “un esempio unico di continuità storica di una città con il suo paesaggio culturale e l’insieme del sistema territoriale” (così la motivazione con la quale l’Unesco ha inserito la città nel canone del patrimonio dell’umanità), non lo si deve (solo) alla provvidenza di Dio, ma anche alla saggezza e alla lungimiranza dei suoi cittadini. Virtù, queste ultime, che si sono incarnate nel Piano Regolatore Generale del Comune di Assisi approvato nel 1972 e redatto sotto la guida dell’architetto Giovanni Astengo: un piano che ha permesso ad Assisi di superare, se non intatta, certo ancora “viva ” la stagione della grande cementificazione che ha stravolto l’Italia.

Ora c’è chi ritiene che quella saggezza si sia decisamente appannata. Lo scorso 8 agosto il Movimento 5 Stelle ha presentato, al Senato, un'interrogazione a risposta scritta ai Ministri dell’Ambiente e per i Beni Culturali in cui si chiede, tra l’altro, “quali misure intendano adottare per garantire, in uno dei luoghi più importanti al mondo, l’adozione di un piano regolatore regionale che non permetta nuova cementificazione”. Al fondo dell’interrogazione sta una forte preoccupazione per l’approvazione del nuovo Piano regolatore di Assisi, che manda in pensione quello di Astengo senza averne – secondo molti – le virtù. L’interrogazione ricalca in parte un dettagliato studio dell’ingegner Paolo Marcucci, consigliere comunale di opposizione, che dimostra come “rispetto al precedente Piano Astengo, la linea di inedificabilità assoluta a protezione del Colle Storico è stata arretrata verso la città murata, rendendo tale parte della zona agricola collinare posta al di sotto della città murata di Assisi priva della necessaria tutela”. La stessa riduzione di tutela si registra per le zone collinari ad ovest delle mura, e nella già provata pianura. In più il piano licenziato dal Comune prevede l'inserimento di nuove zone edificabili sulle mitiche colline di Assisi, e in zone finora agricole.

Il sindaco di Assisi ha risposto alle critiche nel modo peggiore, e cioè annunciando querele contro chi rovinerebbe l'immagine della città. Già: ma chi davvero la sta rovinando?

Ci sono molti equivoci sull’Ilva e Taranto, come il conflitto fra lavoro e salute Ma lo scandalo è nelle istituzioni della politica, che non hanno fatto il loro mestiere, ma ceduto il loro cervello a «una cultura allegramente industrialista». La Repubblica, 18 maggio 2013

Ci sono molti equivoci sull’Ilva e Taranto. Come il conflitto fra lavoro e salute. Come se i lavoratori non fossero cittadini – e figli mariti fratelli genitori – e sicurezza e malattie sul lavoro non fossero essenziali per tutti. L’equivoco vuol coprire un passato in cui l’azienda ha ottenuto una extraterritorialità, violando leggi e manipolando l’opinione; e oggi raschia un fondo di barile esausto, scansandone il risarcimento.

E c’è l’equivoco di una disfida fra una famiglia di imprenditori e i loro dirigenti (cui il governo si associò fino a offuscare la distinzione) e una giudice fotoromanzata, fanatica per gli uni, eroica per altri – riconoscendo comunque gli uni e gli altri che abbiano finora, magistrati dell’accusa e giudice, parlato solo attraverso gli atti. L’equivoco fa passare come un aggiornato duello rusticano un trapasso d’epoca nel modo di lavorare e di abitare. Quello che si è chiamato sistema Ilva non si spiega solo con la trama di corruzioni e intimidazioni: la carne è debole, ma ad abbattere gli argini occorreva l’alibi di una cultura allegramente “industrialista” e un’abitudine al quieto vivere fra poteri, padronali, curiali, amministrativi e spesso di malavita, così radicata da rendere fin superflua la consapevole corruzione.

Si dice amaramente, a Taranto: “si sono venduti pure gratis”. Così i colpi di scena che portano in carcere personaggi di rango pubblico, e il misto di sorpresa e scandalo che li accoglie (simulati ormai l’una e l’altro) oscurano la posta, che non è da magistrati: che si deve produrre, amministrare e fare politica e sindacato in altro modo. Rotta dall’avvento dei magistrati, dei custodi giudiziali, di carabinieri e Guardia di Finanza indipendenti, l’extraterritorialità ha portato allo scoperto decenni di monnezze sepolte sotto asfalto o riversate nelle acque o gettate nelle fornaci: abusi di una tale portata dovrebbero essere riseppelliti e continuati? Fin qui è affare di magistrati altrimenti responsabili di una colossale omissione, altro che eccesso di zelo. Da qui in poi, tocca alla società e le istituzioni altre, quelle che l’abitudine minaccia altrettanto e più della corruzione.

Un comunicato stampa del Comitato per lo sviluppo sostenibile e di qualità della zona industriale di Osoppo (UD) illustra le ragioni dell'opposizione ad un consistente ampliamento della zona industriale e le alternative formulate da cittadini e associazioni (m.b.)

La zona industriale di Osoppo e Buja, che è un’opportunità di lavoro e crescita per l’intera zona, si sta trasformando, per cattiva gestione, in una minaccia per i centri abitati di Osoppo, Rivoli e Saletti e per la sicurezza, la salute e l’ambiente.

E' cronaca di questi giorni la notizia dell'approvazione, da parte della Regione, della Variante del Comune di Osoppo che prevede l'ampliamento della zona industriale, già bocciato dai cittadini con 529 osservazioni e opposizioni. Legambiente, il Comitato per lo sviluppo sostenibile e di qualità della zona industriale e il Comitato ARCA hanno elaborato proposte tese a ridurre e rendere sostenibile l'impatto dell'ampliamento, che prevede un avvicinamento al centro abitato dagli attuali 1.200 metri a soli 400 metri, e del previsto tracciato della bretella autostradale Cimpello - Sequals - Gemona.

Si chiede un ampliamento meno esteso e impattante, la creazione di adeguate zone cuscinetto e di barriere di separazione verso i centri abitati di Osoppo, Rivoli e Saletti, la ristrutturazione delle viabilità Esistenti per realizzare adeguati collegamenti tra le aree produttive della pedemontana del gemonese e del pordenonese in alternativa alla bretella autostradale Cimpello-Gemona, una crescita produttiva e occupazionale basata su ricerca e innovazione, la certificazione ambientale dell’Area industriale su modello europeo, il riuso e il recupero delle aree e dei capannoni inutilizzati presenti nel territorio, la creazione di un parco agricolo del territorio per la promozione e recupero di produzioni agricole di qualità.

Attualmente la zona industriale ha una superficie di 2.316.125 mq. Con l’ampliamento previsto di 815.000 mq si raggiungerà una estensione di 3.131.125 mq. Attualmente la zona è sottoutilizzata con una superficie edificata di 441.841 mq, la nuova estensione prevista permetterebbe la costruzione di capannoni per 1.292.457 mq triplicando così la superficie coperta realizzabile rispetto a quella esistente. Adottando un rapporto di un occupato ogni 200 mq si avrebbe la possibilità di insediare attività per un’occupazione di 6.400 unità sui 1.700 occupati oggi presenti: una dimensione del tutto insostenibile e sovradimensionata per il territorio in cui la zona industriale è collocata. Questo senza considerare il recupero delle strutture e infrastrutture che la recessione economica lascia inutilizzate!

Si sostiene, verso l’Opinione pubblica, che l’Ampliamento porterà nuova occupazione, ma se questi sono i numeri c’è sproporzione tra la sostenibilità occupazionale e la tutela della salute e dell’Ambiente.
Questa zona industriale è nata già troppo vicino a centri abitati preesistenti e ad aree di pregio agricolo e ambientale e l’Insediamento è sorto su un “Lago” Sotterraneo che alimenta un acquedotto che serve un bacino di popolazione superiore ai 300.000 abitanti.
Numerosi sono i problemi ambientali irrisolti e che richiedono di essere affrontati alla radice: presenza di uno stabilimento a rischio incidente rilevante, scarichi in atmosfera non completamente rilevati e indagati, scarichi idrici con una fognatura colabrodo e un sistema di “Depurazione” Degli scarichi industriali basato sulla dispersione nelle falde acquifere e nella zona delle risorgive e sulla loro diluizione, il depuratore sotto sequestro da parte della Procura della Repubblica, mancanza di una zonizzazione acustica, insufficiente approccio alla questione delle energie rinnovabili e al recupero e risparmio energetico, mancanza di uno studio di inserimento paesaggistico rispetto agli elementi di pregio ambientale e monumentale anche molto prossime come il greto del Tagliamento, la zona delle Risorgive e il Colle di Osoppo.

Gravi anomalie sono presenti nelle procedure seguite dal CIPAF e dai Comuni di Gemona, Osoppo e Buja ai fini dell'ampliamento di cui si parla ormai da oltre dieci anni. Anomalie presenti anche nella recente approvazione regionale. Sono improvvisamente decadute, senza che nulla di nuovo si verificasse (anzi in presenza di un aggravamento della crisi economica), le richieste degli Uffici regionali di motivazione dell’Entità dell’Ampliamento. Queste richieste erano state all’Origine della riserva vincolante formulata dalla Regione nel 2009 e avevano determinato la richiesta del Sindaco di Osoppo, ai medesimi Uffici “Di non dare corso temporaneamente all’Iter di competenza in quanto, su richiesta del CIPAF, si intendono approfondire i contenuti del superamento di alcune riserve”. Questo aveva portato a una sospensione della procedura di quattro anni. Oggi questa richiesta di motivazioni di fatto “Decade”.

Ed è certamente anomalo che nel frattempo, da parte di alcuni industriali insediati nella zona industriale, si sia proceduto ad acquisire terreni agricoli per circa 180.000 mq che, nel momento in cui divenissero edificabili per insediamenti industriali, triplicherebbero il loro valore.

La suburbanizzazione di fatto dei centri città, con quartieri recintati virtuali come denunciato da Anna Minton nel suo Ground Control, ormai salta agli occhi. Corriere della Sera, 3 aprile 2013, postilla (f.b.)

LONDRA — I «fantasmi» più ricchi al mondo abitano a Belgravia, quel lussuosissimo miglio quadrato schiacciato fra Buckingham Palace e Chelsea. Ci sono, si nascondono e scappano. Le loro case sono fra le più care, o forse sono le più care, sulla faccia della Terra ma la sera hanno sempre le luci spente e le finestre sbarrate. Case di «fantasmi», appunto. Ma che «fantasmi». Tipo l'oligarca russo Oleg Deripaska che ha la residenza in Belgrave Square, un palazzo a tre piani. Tirò fuori, nel 2003, dalle sue finanze private ben blindate nel paradiso fiscale delle British Virgin Islands qualcosa come venticinque milioni di sterline per acquistare il meraviglioso palazzo una volta di proprietà, parliamo degli anni Trenta, del parlamentare conservatore Henry Channon. L'aristocratico tory lo usava per i ricevimenti e per ospitare l'allora principe di Galles, il re Edoardo VIII che poi abdicò per amore di Wallis Simpson.

Pur avendo investito una fortuna (briciole per l'ex studente di Fisica all'Università di Mosca divenuto, secondo la rivista americana Forbes, il nono uomo più facoltoso del pianeta), Oleg Deripaska e la moglie a Belgrave Square non si vedono mai, o quasi. Nelle pieghe di una delle tante guerre giudiziarie fra oligarchi russi è venuto fuori, ad esempio, che nel 2005 l'imprenditore amico di Putin non vi passò che 27 notti. E solo 19 nel 2006. Mai per più di tre o quattro giorni consecutivi. Davvero, Oleg Deripaska, il principe dei «fantasmi» di questa Londra a mille carati dove un immobile può costare anche 75 milioni di sterline e un appartamento 21 milioni, quello di Eaton Square venduto dalla scrittrice Nigella Lawson e dal marito Charles Saatchi collezionista d'arte, cofondatore col fratello della agenzia pubblicitaria Saatchi&Saatchi, proprietario della Saatchi Gallery. Tutta gente che c'è ma non si vede. Una toccata e fuga.

Un rapporto della Savills, società di intermediazione immobiliare, pubblicato dal New York Times in un servizio di Sarah Lyall, rivela che il 37 per cento degli acquirenti di case a Belgravia non vi risiede. Avere una «base» nell'enclave più esclusiva di Londra è una questione d'immagine per russi, per arabi, per cinesi e per indiani. Un capriccio per i nuovi «fantasmi». Ma si può ben comprendere vista la storia passata e recente di Belgravia, dove per altro ci sono pure il consolato e l'istituto di cultura italiani. Poco dà più lustro di un «rifugio» nella zona che all'inizio dell'Ottocento fu sviluppata dal duca di Westminster, quel Richard Grosvenor col titolo pure di duca di Belgrave, proprietario dei terreni a sud di Buckingham Palace.

L'elenco dei cittadini famosi di Belgravia è lungo. Miliardari di oggi (Roman Abramovich ha ceduto alla ex moglie Irina un palazzo con 19 camere da letto) e premier di ieri (Margaret Thatcher in Chester Square). E poi musicisti immensi: Mozart in Ebury Street 180 pare abbia composto la sua prima sinfonia. O manager di musicisti immensi: Brian Epstein dei Beatles. Autori e attori di prima grandezza: Ian Fleming (padre di 007) al 22b di Ebury Street e nella stessa via, dopo, Michael Caine. Vivien Leigh (la Rossella O'Hara diVia col Vento) col marito Laurence Olivier stava invece in Eaton Square al 48, e non lontano, più avanti, sarebbero arrivati Cristopher Lee (Dracula, Il Signore degli anelli,Star Wars) e i due James Bond, Sean Connery e Roger Moore. Infine le modelle: Elle Macpherson il «fantasma» più bello.

Difficile sfuggire, per oligarchi e sceicchi, per imprenditori indiani o cinesi, al richiamo di Belgravia. Solo che hanno trasformato il quartiere in un covo di «fantasmi». Se non è coprifuoco, la sera, quasi ci siamo. Case miliardarie usate pochi giorni all'anno. E allora ecco che si aggira l'incubo del gruppo degli squatters di Belgravia. Specializzati in occupazioni. Nel 2009, tanto per citare un caso, nel giro di pochi giorni sei «senza dimora» si divertirono a impadronirsi di due palazzine in Belgrave Square, con la loro biancheria appesa fuori, lasciando attonita la famiglia vicina degli Abramovich.

Ora chi fa discutere è la signora Stephanie Demouh, 38 anni, sei figli, africana del Togo. È povera ma è riuscita a entrare nei programmi di assistenza edilizia: i servizi sociali pagano la residenza (e che residenza) nel cuore di Belgravia, a lei e famiglia. E non intende muoversi. Un po' di vivacità e di colore. Pure la notte. Nella cittadella dei «fantasmi».

Postilla

Val la pena ricordare qui che un paio di estati fa, ai tempi delle rivolte giovanili nelle città britanniche, mentre ancora fumavano le braci di negozi saccheggiati e incendiati, qualcuno sottolineò come esistesse una stretta correlazione fra urbanistica e rivolte, nel senso che queste erano scoppiate di preferenza là dove convivevano fasce di reddito diverse. Forse non è un caso che le spinte della destra ad allentare i vincoli di cambio di destinazione d'uso, di espulsione dei ceti popolari dai nuclei centrali, di pressione per nuovi quartieri ghetto rigorosamente in area greenfield, si siano intensificate nel medesimo periodo. Insomma, anche queste gated communities per ricchi, come gli shopping mall chiusi in zone di riqualificazione, o altri organismi suburbani geneticamente modificati, fanno parte (volenti o nolenti) dell'assalto alla città moderna come l'abbiamo conosciuta. Esiste una risposta? Forse, ma forse non è molto progressista né intelligente cercarla predigerita nelle solite formule novecentesche (f.b.)

per i veri appassionati – un po' masochisti - oltre a ripassarsi o leggersi per la prima volta le anticipazioni di Anna Minton, anche un giro nel ricco sito della Savils Real Estate United Kingdom http://www.savills.co.uk/

Come ha ben intuito da anni chiunque si oppone all'appiattimento implicito in certe idee di città moderna, spazi fisici e virtuali autoritari sono da respingere. Financial Times, 27 marzo 2013 (f.b.)

Titolo originale: New York’s wonder shows planners’ limits – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

I lettori di questo giornale in visita a New York di solito girano in centro, fanno compere, si spingono fino a Wall Street, in macchina o in metropolitana. Quando ho un po' di tempo in più, io vagabondo in tutta quell'area senza una destinazione particolare. Greenwich Village, Chelsea, la Bowery e il Lower East Side sono ricche di architetture curiose, negozi particolari, bar affascinanti, strati su strati di storia sociale americana. Non scopro certo nulla di particolare, niente che vada oltre quanto osservato brillantemente cinquant'anni fa da Jane Jacobs nel suo La Vita e la Morte delle Grandi Città. Un libro nato dalla battaglia contro Robert Moses, responsabile statale e cittadino delle grandi opere che voleva costruire anche una Lower Manhattan Expressway, superstrada sopraelevata che portasse gli automobilisti direttamente da Queens al New Jersey attraverso il ponte di Williamsburg e l'Holland Tunnel. Distruggendo nel suo passaggio interi quartieri e la loro storia.

La Jacobs raccontava, attraverso meticolose osservazioni, come la vita delle città fosse il prodotto di una serie di interazioni sociali difficili da programmare. Vivere in un ambiente denso, lungi da rappresentare un male, era invece fonte di vitalità. Vie brevi, articolate su parecchi isolati, consentivano ad abitanti e passanti di imboccare vari percorsi, fare varie esperienze. La Jacobs spiegava anche perché le città fortemente progettate di tutto il mondo, come Canberra, Brasilia, Chandigarh o anche la città giardino di Letchworth, sono tanto monotone. E i suoi lettori capivano come tutte le superstrade realizzate da Moses avessero fortemente minato la vitalità dei quartieri periferici di New York.

La battaglia fu vinta: l'idea della Lower Manhattan Expressway venne abbandonata. Ma si vinse anche una assai più importante guerra, quando Moses, probabilmente la persona più potente a New York per mezzo secolo, alla fine fu destituito nel 1968. Le ruspe che avevano abbattuto la Penn Station si fermarono davanti alla Grand Central, e gli effetti non si limitarono ad una sola città. Nell'arco di un decennio, finiva tutta l'epoca del predominio di certa architettura modernista. I progetti urbani si fecero più modesti, e da attuarsi in modo incrementale.

Se le interazioni sociali impreviste stanno alla base di una città vitale, stanno anche alla base di organizzazioni altrettanto vitali. Non credo proprio che Marissa Mayer di Yahoo abbia mai conosciuto Jane Jacobs, e probabilmente questa alta dirigente di impresa tecnologica avrebbe avuto poco da dirsi con la militante di quartiere. Ma esistono comunque evidenti analogie fra la decisione di Yahoo di abbandonare le strategie di telelavoro, e il rifiuto della Jacobs di certa piatta progettazione urbana.

Anche gli entusiasti delle strutture virtuali, così come i progettisti della città razionalista, vorrebbero imporre una certa forma organizzativa a sistemi complessi che riescono a comprendere solo in parte. Il telelavoro, è l'equivalente cyber-spaziale di uno schematico corridoio di uffici, ciascuno con la porta chiusa. Oggi gli architetti che progettano uffici hanno abbandonato questa idea di corridoio, per ambienti aperti in cui le relazioni non hanno bisogno di passare per l'apertura di una porta, né per una telefonata o email. “Comunicazione e collaborazione sono importanti dobbiamo lavorare fianco a fianco” spiega una circolare interna di Yahoo, che potrebbe anche essere stata scritta dalla Jacobs.

La Jacobs suscitava le ire degli urbanisti di allora, convinti che dai loro progetti potesse nascere un mondo razionale, popolato da quelle facce sorridenti che si vedono nei disegni degli architetti. Anche Yahoo si attirerà critiche del genere da parte dei tecnofili, quelli che hanno difficoltà a distinguere tra un'amicizia via Facebook e il contatto fisico. Gente come Ray Kurzweil, quello che ha inventato il riconoscimento ottico del carattere e il passaggio dalla voce al testo scritto. Il suo ultimo libro, How to Create a Mind, ha come sottotitolo la promessa decisamente poco modesta di “rivelare i segreti del pensiero umano. Kurzweil sostiene che questo pensiero sia basato su un numero di schemi definito e riconoscibile. Ne segue che le macchine potranno – e abbastanza presto, esattamente nel 2029 – sostituirsi all'intelligenza umana. Basta avere sottomano una specie di grossa enciclopedia di schemi di funzionamento.

Anche gli urbanisti modernisti erano convinti di poter elencare tutte le funzioni di una città, e organizzarle ciascuna per spazi definiti. Allo stesso modo di Robert Moses, oggi Kurzweil certamente capisce una parte del pensiero umano e delle esigenze contemporanee, ma non basta. La prospettiva scelta da Jane Jacobs era molto più sottile e sfumata sui comportamenti quotidiani. E basta una passeggiata per le zone di Manhattan dove abitava e che tanto amava, per capire quanto poco corrispondano a certe idee dei programmatori, di ieri come di oggi.

Insistono per far rivivere un vecchio scandalo (per loro era un ottimo affare solidamente sponsorizzato), al quale sia eddyburg che Report dedicarono molta attenzione. Il Fatto quotidiano, 27 marzo 2013

Richiesta di risarcimento del fratello del Cavaliere per la mancata costruzione di "Milano 4" sull'area della Cascinazza. La giunta di centrodestra non era riuscita a sbloccare la pratica nonostante l'impegno dell'assessore Paolo Romani (poi indagato), quella di centrosinistra ha definitivamente vincolato l'area a parco. Dovrà dire addio a ruspe e cazzuola e ai suoi sogni di costruire Milano 4, ma Berlusconi junior non ha alcuna intenzione di arrendersi e ha deciso di chiedere i danni per la mancata edificazione per una cifra che si aggira sui 60 milioni di euro.

Non arriveranno più i 420mila metri cubi di cemento sul celebre terreno della Cascinazza di Monza acquistato negli anni Ottanta da Paolo Berlusconi, fratello del Cavaliere, perché tutti i suoi50 ettari sono destinati ad entrare nel Parco della media valle del Lambro. , revocando la Variante al Pgt costruita dall’ex ministro Paolo Romani mandato come assessore all’Urbanistica proprio per chiudere la questione nel 2008). La Giunta «rossa», tra l’altro, non solo ha deciso che non sarebbe arrivato nuovo cemento, ma ha perfino vincolato per sempre l’area a Parco, stabilendone la tutela e impedendo edificazioni future se non con qualche recupero della vecchia cascina.

Un bello sgambetto per la proprietà dell’area (che oggi è la Lenta Ginestra, società che ha incorporato la Istedin di Paolo Berlusconi con un finanziamento soci infruttifero di scopo per corrispettivi 40 milioni di euro) che però non ha alcuna intenzione di arrendersi.

Stavolta, considerando che la Variante al Pgt redatta quando era assessore Paolo Romani aveva fatto rivalutare il terreno di almeno 60 milioni di euro, la società si è rivolta al Tar chiedendo il risarcimento per danni patiti per un corrispettivo pari al valore economico dell’edificabilità, una cifra che sfiora appunto i 60 milioni. Il Comune di Monza ha dato ora mandato all’avvocato per resistere in giudizio e l’assessore all’Urbanistica Claudio Colombo si è detto tranquillo. «Anche perché – ha svelato – la proprietà nel notificare il ricorso impugnando la delibera di revoca aveva commesso un errore e al posto di inviarla a Monza, l’aveva spedita al comune di Milano. Con conseguente decadimento del ricorso e scadenza dei termini per agire contro la decisione dell’Amministrazione».

Naufragata così la possibilità di contestare la mancata edificazione, adesso la società si può limitare a chiedere i danni. La vicenda, insomma, dopo trent’anni continua. Acquistato nel 1980 dai Ramazzotti (quelli dell’Amaro), il terreno era costato 11mila lire al metro quadro perché era considerato agricolo (vi sorgeva solo l’antica Cascina, da cui la zona prende il nome oltre ad essere a rischio esondazione del fiume Lambro). I nuovi proprietari però avevano chiesto subito l’edificabilità appellandosi a un vecchio piano di lottizzazione del 1962 già decaduto. Tentativi di edificare tutti falliti, fino a quando la Cassazione nel dicembre 2006 aveva espresso l’ultima parola, dando ragione al Comune che non permetteva l’edificazione e torto alla Istedin. «Deve essere rigettato il ricorso che chiedeva diritto ad edificare e nessun indennizzo è dovuto alla proprietà», stabilì la Corte, chiudendo così la questione. Ma adesso la società che ha acquisito per incorporazione Istedin ha deciso di riprovarci.

Riferimenti: Vedi su eddyburg questo servizio e numerosi altri articoli nella cartella SOS Padania

Auguri al sindaco di Rimini. Gli ricordiamo che i proprietari di terreni resi edificabili dal piano regolatorevigente non hanno alcun “diritto edificatorio” da rivendicare contro unasaggia, motivata ed equa variante delle previsioni urbanistiche comunali. La Repubblica,ed. Bologna, 26 marzo 2013

Rimini è l’unica città nel Paese che può vantarsi (?) di avere procreato un verbo, presente in ogni vocabolario della lingua italiana: riminizzare. Sinonimo, più o meno, di «costruire in maniera disordinata e selvaggia». La domanda che mi faccio in queste ore, le più dure da quando nel giugno 2011 sono stato eletto sindaco, è questa: sarà consentito a Rimini di lasciare il poco onorevole spazio dedicato dal dizionario nazionale? E mi rispondo: no. Non bastassero il patto di stabilità che, di fatto, ha azzerato qualunque capacità di investimento da parte dei Comuni; oppure il combinato disposto tra Comune “esattore per conto terzi” di tasse odiose, pressione sociale centuplicata dalla crisi economica, desertificazione di qualunque credibilità partitica. Nella “capitale delle vacanze” la matassa va ingarbugliandosi intorno al tema urbanistico. I fatti sono presto detti: ventidue mesi fa, al suo insediamento, questa Amministrazione comunale e questa maggioranza avevano investito gran parte del proprio mandato sullo stop al consumo del territorio. E non per un ideologico “basta al cemento” ma sulla base di una semplice lettura che vedeva nel cambiamento epocale determinato da una società in crisi le ragioni di una svolta nel modello di sviluppo. Così, mentre l’Europa si attrezza con quartieri senz’auto, alimentati esclusivamente da energie rinnovabili, in Italia, in Emilia Romagna e a Rimini, lo sviluppo non può prescindere dal mattone. E sul mattone Governi vanno silenziosamente in crisi.

Nel tortuoso passaggio da Piano regolatore a Piano strutturale e Masterplan, l’amministrazione comunale di Rimini sta tentando di fermare il milione e 200 mila metri quadrati di nuove richieste di ‘capacità edificatoria’ avanzate con le osservazioni. Sono circa 20 mila nuove case o uffici o negozi che calerebbero in un contesto che già si fregia del titolo onorario di cui sopra e che in questo momento conta già su 15 mila abitazioni sfitte. Secondo pareri, normative, prassi, non si può dire ‘no’. C’è quindi chi pensa che il Comune non debba che vidimare le precedenti scelte o assecondare le nuove richieste. A questa apparente inevitabilità, ci siamo opposti.

Il risultato? Dubbi affioranti in maggioranza causa “intimidazioni” legali dei costruttori, una denuncia per abuso d’ufficio nei miei confronti, la pressione ormai insostenibile di chi ti sbatte in faccia anche i drammi occupazionali per giustificare la resa alle antiche consuetudini. Da parte mia, andrò fino in fondo, sino alle estreme conseguenze, legali e politiche. Non mi troverei a mio agio nella parte di chi, come il mio collega di Parma, dopo una campagna elettorale fiammeggiante ha alzato le mani davanti all’inceneritore acceso, dicendo “non potevo fare altro”. E non voglio neanche rifugiarmi nello speakers’ corner tanto di moda del riformismo: a Rimini e in Emilia Romagna, sull’urbanistica, non basta più dirsi riformisti, occorre una determinazione più alta e soprattutto più coraggiosa. Altrimenti… anche nei prossimi 50 anni basterà sfogliare il dizionario e andare alla lettera R, sicuri di ritrovarci, incancellabili.

Il modello di sviluppo turistico suburbano costiero tanto amato da generazioni di amministratori sardi, e il suo automatico rovescio della medaglia: il degrado urbano, o peggio sociale

La Costa Smeralda si prepara ad accogliere ruspe e mattoni per il più consistente intervento edilizio dai tempi del Principe Aga Khan. Niente di nuovo sotto il sole: l'obiettivo dichiarato è quello di “svecchiare la clientela abituale” e attirare nuovi frequentatori, più giovani e super ricchi. Questo l'intento della nuova gestione della Costa Smeralda made in Qatar. Il tutto è ancora in fase di definizione e le proposte progettuali dovranno essere valutate dagli uffici, ma niente lascia presagire che gli attuali rendering non vedranno la luce.

Rendering di un progetto

La stampa dedica tutta l’attenzione sui progetti destinati alle coste, senza tuttavia occuparsi né della città di Olbia attorno a cui ruota questo processo, né del chiaro intento di archiviare definitivamente il Piano Paesaggistico Regionale varato dalla giunta regionale di Renato Soru. In questa parte di Sardegna la classica visione dello sviluppo territoriale saldamente legata a grandi flussi di denaro, volumi e aumenti di cubature beneficia, più che altrove, delle concessioni previste dai più recenti strumenti legislativi in materia di (sedicente) rilancio economico, ciclicamente riconfermati. Ora come allora.

Il processo di specializzazione turistica e di elitarizzazione della costa nord-orientale sarda sembra, dunque, più vivo che mai e volgendo lo sguardo verso l'entroterra la situazione, per altri versi, non appare meno segregata. Propongo di seguito alcune considerazioni sulla città di Olbia che scaturiscono da una riflessione più ampia maturata nell’ambito di una ricerca nazionale su “Spazi pubblici, popolazioni mobili e processi di riorganizzazione urbana”.

Olbia costituisce la realtà urbana più significativa dell’area nord-orientale della Sardegna per numero di abitanti, concentrazione di attività economiche e servizi e al tempo stesso rappresenta l'emblema della debolezza di un sistema territoriale incapace innanzitutto di individuare una propria vocazione che, da un lato, sia alternativa a quella di incubatore di manodopera estiva per i vari resort limitrofi e, dall'altro lato, si proponga semmai di investire e promuovere le risorse del luogo - e il luogo stesso - in una logica più articolata e di lungo termine.

Già a partire dall'organizzazione della città di Olbia è possibile cogliere una serie di elementi che tradiscono un certo caos di fondo. Attraversare la città è un ottimo esercizio per capire i meccanismi che regolano un sistema urbano e nel caso di Olbia questa pratica consente di mettere insieme vari pezzi di un puzzle che a fatica si incastrano perché l'immagine di città che dovrebbero formare non è affatto definita.

A titolo d'esempio può essere utile adottare come prospettiva di osservazione gli spazi pubblici urbani. In una città cresciuta freneticamente negli ultimi cinquant'anni, sulla scia del boom della Costa Smeralda, l'accumulazione disordinata di manufatti destinata ad accogliere le nuove popolazioni inurbate ha di fatto prevalso su qualsiasi ragionamento attorno alle modalità con cui governare l'espansione in atto. Con i risultati che si possono osservare oggi: una città largamente inclusiva per quanto riguarda la circolazione automobilistica e assai carente su molti altri versanti. Primo fra tutti, gli spazi destinati all'incontro e alla socialità.

Barriere all'acessibilità del parco
(foto Sara Spanu)

Basti pensare che è tutto sommato recente la riqualificazione di un'area ex demaniale, il cosiddetto parco urbano “Fausto Noce”, in pieno centro olbiese, forse l'unica area della città abbastanza estesa da consentirne un utilizzo diversificato in termini di attività sportive o più semplicemente per svago e intrattenimento. Seppur isola felice in mezzo al traffico, frequentata da numerosi visitatori, il parco urbano si presenta come un'occasione mancata. Intanto per via del fatto che non si apre per nulla agli spazi adiacenti, mentre risulta fortemente rinchiusa entro confini e recinti, addirittura fiancheggiata dalla presenza di corsi d'acqua invalicabili, quasi fosse una fortezza.

E in effetti l'idea di una realtà un po' segregata la trasmette: non solo per via degli orari e dei punti di accesso, che evidentemente ne regolano la fruizione, ma anche per come lo stesso spazio è organizzato all'interno. Parte del parco è riservata a strutture sportive anche importanti, il cui utilizzo tuttavia è prerogativa di atleti e società sportive, e l'accesso strettamente riservato. Gli spazi di libera fruizione si sviluppano attorno alle strutture presenti, talune persino in grave stato di degrado, e non sembrano rivestire la funzione prioritaria che ci si attenderebbe da un parco pubblico, ossia essere un luogo di identificazione, attrazione e destinato a favorire usi e accessi diversificati da parte di popolazioni eterogenee.

Gli utenti esclusi dal verde
(foto Sara Spanu)

Su piccola scala l'organizzazione di questo spazio ricalca ciò che si replica anche appena fuori dai cancelli, ovvero il prevalere di una fruizione della città fortemente individualizzata, a forte orientamento automobilistico sia dal punto di vista della percezione che della fruizione, che scoraggia un uso diffuso degli spazi collettivi: sia perché spesso mancano, sia perché sono colonizzati da altri usi. Anche in questo caso è sufficiente attraversarla a piedi (modo di trasporto evidentemente considerato marginale da chi la città la progetta e organizza e governa) per rendersi conto rapidamente che la mobilità pedonale non sempre è stata contemplata nelle scelte spaziali, stata lasciata più che altro al caso o a soluzioni di tipo fai-da-te. Analogamente, la crescita disordinata e non pianificata della città si intuisce anche dalla scarsità di slarghi e piazze, c'è poco o nulla per favorire le relazioni e il senso di identificazione, come coltura della dimensione pubblica e collettiva della città.

Certo ribaltare una situazione pregressa sarebbe operazione tutt'altro che semplice, ma forse basterebbe cominciare da iniziative che tendano a riqualificare sia gli spazi che gli usi. Molte realtà urbane ci sono riuscite, se si pensa alla riappropriazione del waterfront da parte di città come Barcellona e Genova in epoca recente. Anche a Olbia un po' è percepibile un tentativo del genere, che però non si configura certo come disegno complessivo entro cui gli interventi puntuali indichino una logica, una strategia. Viene da chiedersi: gli sforzi in qualche modo messi in atto, che tipo di effetti intendono produrre e, più in generale, a quale idea di città si ispirano?

Più che rientrare in un progetto di città a lungo termine, orientato ad accrescere la qualità urbana degli spazi, l'idea di Olbia che emerge osservando i suoi spazi e l'uso che i cittadini provano a farne, corrisponde alla logica cumulativa che se ieri è servita nel bene e nel male ad assecondare l'espansione demografica e territoriale, oggi non attribuisce né potrebbe attribuire agli spazi della città un'identità lasciata in sospeso, proprio a causa di una crescita troppo rapida e mal gestita. Per provare a farlo ci si affida ad una prassi consolidata in voga nelle città contemporanee, di ricorrere all'inserimento di manufatti architettonici di richiamo.

Invece di una piazza, un'architettura
(foto Sara Spanu)

Ma il dubbio torna: con quale finalità? L'inaugurazione della Piazza Mercato in seguito al restyling di qualche anno fa venne presentata come occasione per rilanciare il centro storico: una maestosa copertura di vetrate ondulate e ferro che sovrasta un parcheggio interrato. Anche non mettendo nel conto il fatto che un errore di progettazione rende ad oggi inutilizzabile quel parcheggio (e in sostanza anche la piazza un luogo malsano se non addirittura pericoloso) è difficile ritenere che il rilancio del centro antico olbiese possa dirsi in qualche modo iniziato: l'operazione, come altre, non sembra rientrare in strategie più complesse di intervento in grado di rispondere in maniera articolata a esigenze differenti. In altre parole, manca un ripensamento complessivo dell'organizzazione della città e dei suoi spazi non in termini di occasioni di rilancio economico o singoli manufatti da ostentare, ma di qualità urbana e quindi di accessibilità, flessibilità, sicurezza.

I centri commerciali di modello extraurbano, qui come altrove e probabilmente a maggior ragione, sopperiscono alla cronica mancanza di qualità urbana che Olbia evidentemente non è in grado di offrire, specie in termini di spazi in cui incontrarsi e stare insieme. E qui persino l'aeroporto si propone a sua volta - in un'accezione provocatoria - come “spazio pubblico” di supplenza, ma di fatto in aperta concorrenza alla città. Alla funzione originaria di scalo e terminale, se ne affiancano altre, localizzate qui e non a Olbia centro, che di fatto sottraggono energie e risorse alla città vera per spostarle altrove e sottoporle a ben altri meccanismi. In tutto questo, spicca l'assenza di una guida politica autorevole capace di porre un freno al progressivo impoverimento urbano, innanzitutto di tipo sociale e culturale, offuscato da investimenti miliardari e sedicenti piani di sviluppo locale.

Si svuota della sua funzione e del lavoro che l'ha alimentata per oltre un secolo la cartiera Burgo di Mantova, monumento di architettura moderna. Corriere della Sera Lombardia, 16 gennaio 2013, postilla (f.b.)

MANTOVA — Non è solo una fabbrica, la cartiera Burgo di Mantova, che l'altro giorno ha annunciato la chiusura il 9 febbraio, lasciando a casa 188 dipendenti. Piuttosto, l'altra faccia della città, quella che si specchia sulla sponda opposta dei laghi. Di là il profilo suggestivo disegnato dai palazzi dei Gonzaga. Di qui la cartiera, anch'essa opera d'arte, la «fabbrica sospesa» disegnata nel 1961 da Pier Luigi Nervi, che aveva appeso con tiranti d'acciaio il tetto dell'edificio a due enormi alzate in cemento armato. Non per una ragione estetica, ma per far stare sotto la fabbrica, in un'unica campata, un potente macchinario americano, da 300-400 metri di carta al minuto.

C'era fame di carta da giornale, all'epoca. Non come adesso, che di quotidiani se ne vendono sempre meno. Ma per scriverla tutta, la storia della cartiera, bisogna partire da ancora più indietro. Marzo 1902. La società Binda Lamberti &C. compra 12 ettari di terreno in zona Poggioreale. Un imprenditore inglese, Arturo Burton Buchley, a fine Ottocento ci aveva impiantato una piccola raffineria, che aveva avuto vita breve. Nel 1904 apre il primo impianto di produzione di cellulosa. Dopo una serie di passaggi di proprietà, nel 1931 l'ingegnere genovese Luigi Burgo la compra dai banchieri svizzeri Vonwiller.

La cartiera diventa più grande, risorge anche dalle ceneri di un incendio del 1938 e, durante la guerra, viene militarizzata: la cellulosa serve infatti a produrre esplosivi. Scampato alla guerra e al fascismo, l'ingegner Burgo intuisce che, nella nuova Italia democratica, la carta da giornale può trasformarsi in cartamoneta. Si lancia su quel mercato e ne diventa il leader. A metà anni Sessanta gli operai sono quasi 700. Nel 1974, quando un altro disastroso incendio la devasta, la fabbrica produce quasi la metà di tutta la carta da giornale italiana.

I primi problemi, con vertenze e licenziamenti, si fanno sentire già negli anni Ottanta, ma il declino irreversibile avviene quattro anni fa, con la riduzione della domanda, l'aumento della concorrenza straniera e l'impennata dei costi. Nel frattempo l'azienda cambia ancora proprietà, passando nelle mani delle banche e della famiglia di imprenditori vicentini Marchi. Lunedì pomeriggio, Burgo Group, annuncia la chiusura.

«Dal 2008 — racconta Gian Paolo Franzini, segretario provinciale Slc Cgil — insistiamo per una riconversione o una diversificazione della produzione, che forse avrebbero potuto limare le perdite (un milione al mese nell'ultimo anno) e l'indebitamento (oltre 900 milioni)».
I lavoratori, riuniti ieri in assemblea, continuano a sperare in una rivoluzione produttiva, nell'ingresso di nuovi capitali. Ma da Confindustria dicono: «Per ora non ci sono strade aperte in tal senso».

Postilla

Naturalmente i migliori auguri e auspici perché la questione occupazionale, per i lavoratori e le famiglie che dipendono direttamente e indirettamente dalla cartiera, trovi rapidamente e positivamente sbocco. Il caso del complesso progettato da Pierluigi Nervi, un manufatto che si studia ovunque su tutti i testi di Storia dell'Architettura, com esempio mirabile di “moderno che dialoga alla pari con l'antico”, può però diventare emblematico di un tema urbanistico di grande attualità, nel nostro paese e non solo, proprio per la sua rilevanza, nonché per la collocazione in un territorio come quello mantovano, generalmente piagato dalle classiche distese di capannoni vuoti e inutili, a consumare ex fertili campagne, come la distesa che si può ammirare giusto alle spalle della cartiera, appena oltre la circonvallazione est. Se si vuole davvero dialogare alla pari con l'antico, con la qualità unica paesistica ambientale e culturale rappresentata dal centro storico e dal lago su cui si affaccia l'imponente struttura, è essenziale rivederne il rapporto col suolo, che un'idea di manufatto industriale vetusta ma tecnicamente accettata ha sinora ridotto quasi a nulla. Per diventare parte integrante della città, oltre al suo rapporto sociale ed economico attraverso il lavoro, il monumento deve recuperare continuità territoriale, e non chiudersi nel beato isolamento, magari sfruttando la storia industriale per riciclarsi in una gated community sui generis. Cosa che invece avviene spesso e volentieri con tanti complessi industriali dismessi, come a Londra recentemente con la centrale di Battersea, quella famosa in tutto il mondo per la copertina dell'album Animals, dei Pink Floyd, diventata quello che in gergo viene definito uno “yuppodromo”. Un caso da seguire, quindi, nella sua evoluzione, perché paradigmatico e potenziale modello, in positivo o in negativo (f.b.)

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