Giorgio Fiorentini, Abitare a Milano, Il Corriere della Sera ed. Milano, 18 aprile 2007
Si può abitare a Milano in vari modi. Stefano Boeri, nel suo libro «Milano. Cronache dell'abitare», li elenca in modo caleidoscopico: abitare in una baraccopoli, in un letto per migranti, in una casa per anziani, per studenti, in un centro d'accoglienza e via via fino alle isole residenziali e ai «ghetti di lusso» dove tutti i servizi sono «su misura». Su questi modi di abitare si possono fare due considerazioni: difficilmente creano coesione e inclusione sociale e i prezzi delle case (e degli affitti) sono troppo cari.
Per risolvere il primo problema bisognerebbe superare le diversità che creano separazioni. Penso che la Milano dell'Expo 2015 debba investire fortemente nello spalmare le diverse etnicità nel tessuto connettivo di tutta la città. Tentando di rompere i ghetti o le aree monoetniche; magari creando una miscellanea di offerta di servizi in sintonia con le varie diversità e già orientati alla prospettiva delle seconde generazioni degli immigrati. Altrimenti si creerà una forza centrifuga che espellerà i meno abbienti salvo piccole enclave di abitazioni di sussidiarietà e di badantismo per la popolazione anziana.
Ma il «caro prezzi d'acquisto» delle case e il «caro affitti» sono l'altra realtà socialmente dirompente per Milano. Anche questa ostacolo alla coesione e all'inclusione sociale. A Milano dal 2001 al 2005 i prezzi delle case sono aumentati circa del 50%. Queste barriere di prezzo rischiano di ridimensionare la progettualità virtuosa per un welfare equamente distribuito. Una via, parziale ma concreta, per superare il caro prezzi è rappresentata dal modello di «autocostruzione assistita»: cooperative e non profit svolgono azioni di autocostruzione e autoriabilitazione in nuove aree edificabili e ad immobili degradati. Sono cantieri autogestiti e assistititi tecnicamente in modo sussidiario da ong, associazioni, cooperative. Cittadini in team solidale costruiscono reciprocamente le proprie case lavorando nel weekend, durante le ferie e in altri periodi con un risparmio fino al 70% dei costi di costruzione.
E' interessante notare che le famiglie che hanno fatto domanda di autocostruzione sono al 60% autoctone e 40% di origine straniera. Per dirla con con Luca Doninelli nei suoi «Scritti insurrezionali su Milano»: dove c'è Milano c'è casa.
Tommaso De Berlanga, La casa comincia con un tavolo, il manifesto, 18 aprile 2007
Il problema della casa si presenta in carne e ossa fuori dalla sala dove si svolge il primo incontro del Tavolo di concertazione sulle politiche abitative. Curiosamente, tra tutti i soggetti invitati (ministri di infrastrutture, solidarietà sociale, economia, politiche giovanili, per la famiglia; presidenti di regioni, province autonome, Anci, Federcasa, sindacati e costruttori) mancavano proprio i rappresentanti di inquilini, sfrattati, senza casa, occupanti e chi più ne sa di cosa voglia dire vivere senza un tetto sicuro sulla testa.
Così oltre 2.000 persone hanno raccolto l'invito delle associazioni storiche romane (Asia-RdB, Coordinamento di lotta, Sunia, Action, Comitato obiettivo casa, ecc) «assediando» pacificamente l'Istituto San Michele a Ripa, in piena Trastevere. Il ministro Paolo Ferrero ha quindi accolto una delegazione di manifestanti, a nome del governo, per ascoltare le loro proposte e invitarli, in risposta, a partecipare a «un tavolo parallelo» da cui criticare e in qualche modo «controllare» i lavori della sede istituzionale.
Ma i problemi fondamentali, apparsi subito chiari, sono due: risorse scarse e assenza di una visione di politiche abitative che risponda alla dimensione del malessere sociale. Lo stesso Ferrero ha ammesso che «servirebbero 10 miliardi», ma che bisognerà accontentarsi di molto meno («briciole», ha riassunto Angelo Fascetti dell'Asia). Soprattutto, all'interno del governo prevale un'impostazione assolutamente «mercatista», che recalcitra di fronte all'intervento pubblico per avviare una politica della casa diversa dall'attuale. Il massimo che si riesce a concepire è infatti il «recupero degli alloggi pubblici sfitti (pochissimi, ndr), autorizzazione ai comuni di acquisire alloggi da mettere sul mercato, verificare il complesso delle proprietà del Demanio, utilizzare gli immobili sequestrati alla mafia, rendere disponibili alloggi degli enti previdenziali». Nessuna intenzione invece di mettere in discussione la legge 431 (quella che abolì l'equo canone, scatenando la corsa verso il cielo degli affitti), né di rimpinguare un patrimonio pubblico massacrato da dismissioni e cartolarizzazioni. Nessuna risposta nemmeno alle proposte del Sunia: «introdurre la detraibilità dell'affitto dal reddito», per creare un «conflitto di interessi tra locatario e affittuario», e la «tracciabilità del pagamento», con l'obbligo di effettuarlo per assegno o bonifico (si azzererebbe o quasi il fenomeno dell'affitto «in nero»).
«Servirebbe un milione di alloggi», spiegano i comitati di movimento. Meno dei contratti di locazione che scadranno entro quest'anno, mettendo altrettante famiglie di fronte all'alternativa tra consegnare la propria busta paga al padrone di casa oppure lanciarsi nel «mercato delle occupazioni». Probabile perciò una manifestazione nazionale a maggio.
Le politiche seguite negli ultimi 20 anni hanno infatti privilegiato l'acquisto privato sul libero mercato, creando una quota enorme di popolazione indebitata con i mutui. Per chi è rimasto in affitto, il canone può arrivare a incidere fino al 60-70% dello stipendio. Una ricerca del Cresme - condotta per conto di Legacoop e Ancab - pubblicata proprio ieri, dimostra l'entità del fenomeno e il livello abnorme di redditività dell'investimento immobiliare in alcune aree (in certe città un nuovo immobile può rendere fino al 290%), visto che i costi di costruzione sono invece relativamente omogenei su tutto il territorio nazionale. Delude, in questo caso, la proposta: da ricercare «facendo i conti con il mercato», ma chiedendo alle amministrazioni locali di «far reinvestire» parte di questa redditività in aree e immobili da destinare all'emergenza abitativa.
Su eddyburg, il riferimento immediato è ai contributi più recenti diGiovanni Caudosul tema (f.b.)
Era noto, molte famiglie italiane se ne erano accorte: in Italia chi vive in affitto vive male. Ora un’indagine del Censis condotta per il Sunia e la Cgil e svolta con il metodo del campione telefonico a 5 mila famiglie in affitto, aggiorna e definisce anche il quadro socioeconomico di questo disagio.
1. I dati sulla consistenza confermano che nel mercato immobiliare italiano quello dell’affitto é un mercato marginale. Le famiglie in affitto rappresentano il 18,7%. Con valori più bassi ci sono l’Irlanda, la Spagna, la Slovenia, l’Ungheria. In Europa mediamente il mercato dell’affitto costituisce il 35-40% degli alloggi, il dato italiano si attesta, quindi, più o meno alla metà. Marginale é anche la quota degli affitti sociali, appena il 4,5%, qui la media europea é 4 volte tanto, il 21%.
2. Il forte incremento registrato dai canoni di affitto negli ultimi 7 anni: più 112,4% nelle città italiane con oltre 250 mila abitanti che diventa un +128,1% nelle sole città del Centro Italia. Incremento che, relativamente allo stesso contesto, misurato per il triennio 2003-2006 è del +25,9%. Si registra quindi un notevole incremento dei canoni che si é ulteriormente accentuato negli ultimi tre anni. In scadenza quest’anno ci sono altre decine di migliaia di contratti di affitto e il rischio é che, in assenza di interventi di calmieramento, questo trend sia destinato a crescere ancora di più.
3. La composizione socio economica delle 4 milioni 180 mila famiglie in affitto. Il 66% di queste famiglie sono monoreddito (la media nazionale é del 49%), il 76% ha un reddito fino a 20 mila euro. La composizione delle famiglie in affitto é per il 70,4% di 2/4 persone, ma c’é anche un 19,2% di famiglie monopersonali. Quasi un terzo dei capifamiglia ha come fonte di reddito la propria pensione (32,9%), mentre sono operai poco meno di 4 su 10 capifamiglia (39,6%). Infine, un quarto (25,1%) dei capifamiglia sono donne.
4. Incidenza del canone. Le famiglie con un reddito fino a 15 mila euro devono dare per l’affitto il 48% del reddito. Ma la spesa complessiva per la casa, ovvero il canone di affitto e le spese per le bollette, e il condominio, ammonta a 615 euro/mese (media nazionale) che sale a 760 euro/mese nelle città con oltre 250 mila abitanti. Pertanto l’incidenza della spesa per la casa sul reddito diventa per le famiglie con reddito fino a 10 mila euro, rispettivamente come dato medio nazionale e come dato medio relativo solo alle grandi città, del 62% e dell’86%. Per le famiglie con un reddito di 25 mila euro/anno l’incidenza del canone sul reddito é, se si vive in una grande città, di poco al di sotto del 40% (38,3%).
Il costo della casa al 2006, confrontato con i rilevamenti precedenti come quello dell’indagine Istat sui consumi delle famiglie (473 euro, dato 2003), registra un incremento che in tre anni é di circa il 30%.
Gli incrementi dei canoni di affitto se rapportati alla composizione sociale delle famiglie evidenziano come negli ultimi anni si sia prodotto un crescente squilibrio sociale, una erosione reale di reddito dalle fasce più deboli verso i ceti sociali più abbienti. Un travaso dai più poveri verso i più ricchi.
Una delle prime privatizzazioni é stata quella degli affitti, nel dicembre 1998 con la legge 431, governo d’Alema, fu abolito l’equo canone ma anche il regime dei patti in deroga. La convinzione era che liberalizzando i canoni il mercato si sarebbe autoregolato e avremmo avuto più offerta di alloggi in affitto e quindi più competizione e quindi più vantaggi per gli affittuari. Le cose come si vede dai dati sono andati in modo diverso (+112,4% di incremento in 7 anni).
Il prossimo 17 aprile si insedia il tavolo governativo sulla casa, composto da 5 ministeri e da un numero consistente di rappresentanze sindacali, associazioni di categoria, proprietà e imprese. Alcune associazioni di categoria, come il Sunia suggeriscono di ripartire proprio da qui: abolire la 431 e l’utopia del mercato libero e affermare invece il principio di porre un tetto ai canoni di mercato.
Questa è la storia di un'utopia diventata realtà. Ha a che fare col vivere insieme, condividendo alcuni spazi e servizi coi vicini di casa (lavanderia, stireria; ludoteca, biblioteca, orto, giardino, palestra ecc.) pur mantenendo la privacy nel proprio appartamento. L'idea è interessante. Anche se non è così nuova per chi ha vissuto la ventata degli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Le neotribù attuali però non sono formate dai nipoti dei figli dei fiori ne da idealisti new age, ma da un panorama eterogeneo di single, giovani e meno giovani, coppie senza figli, famiglie più o meno numerose, anziani in cerca di socialità. E non si chiamano più "comune" o "casa collettiva" ma "cohousing". Che vuoi dire, appunto, abitare insieme. Nasce in Danimarca nei primi anni ottanta e viene adottato con successo in Usa, Gran Bretagna, Australia, Canada. È un modo organizzato di vivere in edifici pensati per più nuclei, scegliendosi i vicini di casa. Si abbattono i costi fissi di alcune aree perché uso e proprietà sono ripartiti su più persone. La convivenza tra più generazioni è facilitata, così come gli scambi di vicinato. Altro valore forte, il basso impatto: l'edificio dovrà consumare pochissimo (ci sono dei richiami a casa clima, casa passiva, bioarchitettura). Abitare in cohousing vuoi dire molte cose, ma una soprattutto: trovare persone interessate a un modo comune di concepire la vita a partire dalla dimensione quotidiana. Ogni gruppo fa storia a se e il percorso che può essere intrapreso è "su misura". Siamo andati a vedere le prime esperienze di cohousing in Italia.
IN TOSCANA TRA DUNE E PINETE
“Noi ce l'abbiamo fatta, volete venire a vivere con noi?". Con questa scritta a grandi lettere tipo murales il gruppo dei coabitanti di Calambrone (sul litorale tirrenico) accoglie i visitatori e si presenta ai nuovi arrivati. Il sito si chiama Cohlonia e sta nascendo negli spazi di Villa Maltoni, capolavoro dell'architettura razionalista anni Trenta di Angiolo Mazzoni. Tutt'intorno, il Parco di Migliarino San Rossore e le dune di sabbia. Cohousing Ventures si è accordata con la proprietà per destinare la porzione nord dell'ex colonia estiva al primo progetto di coabitazione toscano, probabilmente l'unico al mondo in una vil1a protetta dalle Belle Arti. C'è ancora qualche appartamento disponibile, su una quarantina di appartamenti con affaccio sul parco o sul mare e le visite sono numerose, in quello che potrebbe diventare un lifepark sul mare di stile californiano (24.000 mq di parco e quasi 1.000 di spazi in condivisione). «Per noi sarà un posto dove vivere, non andare in vacanza: tanto spazio per i bambini, tanto verde, accesso diretto al mare», raccontano Claudio e Stefania, che si trasferiscono qui per il piccolo Romeo di nove mesi. «Ma non solo: siamo cresciuti entrambi in piccole realtà, poco cemento e molta natura. A Milano abbiamo imparato e lavorato, ora siamo pronti a un ritorno alle origini». Stefania sogna una sala comune dove tenere corsi di yoga, Claudio di regalare al figlio pomeriggi di gioco condiviso coi vicini di casa. Gli altri cohouser di Calambrone sono golfisti, architetti, ingegneri, farmacisti con la voglia di ritmi tranquilli, ma anche nomadi itineranti tra campagna e città. Del resto a pochi chilometri c'è Pisa e in trenta minuti si arriva a Lucca e Livorno.
LA COMMUNITY VOLA LEGGERA
«Con Comunityone siamo partiti per dare vita a un luogo che potesse essere la nostra personalissima isola che non c'è». Enrico è la mente di questo neonato cohousing nel quartiere tra viale Monza e il naviglio della Martesana, zona nord Milano. Dodici nuclei di giovani artisti, neoarchitetti, studenti. «Avevamo a disposizione uno spazio industriale di mille mq, in una periferia milanese in rapida trasformazione, adiacente ai nuovi quartieri universitari della Bicocca e ottimamente servita dai mezzi di trasporto pubblico, la metro fermata Precotto è a poche centinaia di metri. Qui abbiamo immaginato casette invisibili con stanze "volanti", da vivere in condivisione; comunità dentro la comunità. Abbiamo scommesso sull'importanza vitale della bellezza; abbiamo salvato il salvabile perché il tempo è valore. Inestimabile». Insieme a Enrico, due amici con cui divide il taglio più grande dell'edificio, al primo piano, con un'ampia terrazza. Le altre undici unità sono tutte a piano terra, con l'affaccio sulla corte interna, piccole aiuole ritagliate nella pavimentazione ( «dove pianteremo alberi da frutto su un letto di sedum, la stessa erba usata sui tetti verdi»). Anche Lune, studi in comunicazione allo Ied, condivide il suo spazio nella Comunityone: vuole viverci bene e organizzare eventi nella sala comune. «Il business plan richiedeva la realizzazione di dodici appartamenti, parte per il mercato della vendita e parte destinati all'affitto. I materiali scelti sono umili e austeri: ferro, lamiera, legno, cemento, elementi naturali lasciati a vista», continua Enrico. «Il lavoro preliminare sulle piante ha generato grandi stanze utilizzabili come piccoli monolocali con soppalchi privati, soggiorno-studio al piano terreno e zona notte soppalcata. Abbiamo voluto spazi comuni che unissero la funzionalità necessaria a un'opportunità di aggregazione. É nata così , l'idea della lavanderia-centro della vita, di comunità affacciata sul giardino: qui, si potrà usufruire di macchine professionali per lavaggio e asciugatura mentre ci si scambia due chiacchiere. E guadagnare spazio all'interno degli appartamenti, riducendo costi e consumi". I più sportivi potranno allenarsi i con gli attrezzi dell'attigua palestra. Invenzioni hi-tech: una colonna d'acciaio zincato all'entrata di ogni appartamento raccoglie i cavi per le tecnologie disponibili e quelle che si renderanno necessarie per il buon cablaggio. Un canale d'alluminio è annegato nel pavimento e utilizzabile per il passaggio di cavi elettrici. Comunityone ha "la natura in testa": col tetto d'erba che copre le abitazioni e vive con le stagioni, garantendo il massimo dell'isolamento termico sia nei mesi caldi che durante l'inverno (grazie anche al sistema di ventilazione che crea una intercapedine d'aria tra la soletta in cemento egli strati superiori).
CASE, FABBRICHE E MUSEI
Sempre a nord di Milano, ma più a ovest, c'è il quartiere Bovisa, con le sue fabbriche riconvertite a terziario e abitazione, i nuovi insediamenti per la cultura, gli spazi per il tempo libero: la sede bis della Triennale, il futuro nuovo Istituto Mario Negri, decine di associazioni e di gruppi creativi. Uno Skate Park dove i giovani metropolitani si allenano e la " BauBau's factory", dove fotografi, architetti, designers, pittori lavorano in uno spazio interattivo. Qui sta nascendo l'edificio di quella che a tutti gli effetti è stata la prima comunità in cohousing italiana: in via Donadoni 12, sempre sotto la supervisione di Innosense (il pluriesperto Mortara, che ha seguito Cohlonia) su base Cohouhsing.it, arriva Bovisa Urban Village. È in questa zona in forte espansione, a 400 passi dalla sede del Politecnico, che parte il progetto di recupero industriale di un'ex fabbrica primi '900. Ci sarà spazio per 30 tra loft e mansarde con garage, giardini e terrazze private e 700 mq di spazi comuni, tra cui una piscina con solarium. «Non è un villaggio modello in stile utopistico-socialista tipo Crespi d'Adda, come temevo quando mi sono iscritta, ne una comune in cui tutti girano scalzi e le donne partoriscono in casa...», testimonia Paola, una delle prime a formare il gruppo (giornalista, una bimba di due anni). «Il punto è che chi fa una scelta di questo tipo ha già una cultura più o c meno intensamente orientata al rispetto dell'ambiente, al risparmio energetico, all'ecosostenibilità. E alla disponibilità reciproca». Il prezzo delle unità abitative - da 50 a 140 mq accorpabili - è inferiore a quello di mercato (3.200/3.400 euro al mq) e comprende la quota parte di tutti gli spazi comuni e i servizi condivisi. «Single, matrimonio o Dico? Be', io scelgo la tribù metropolitana. È un desiderio di convivenza che mi porto dietro da quando ero bambina, divisa tra la casa dei nonni in paese e quella dei genitori in città. Nella prima era tutto un andare e venire di persone, si intrecciavano relazioni e storie. In città eravamo chiusi. Da grande, sposata, ho cercato di riempire casa mia di amici, vicini, ragazzi alla pari, bambini in affido. Il mio happy end non è una coppia, è tanti. Gli sconosciuti del cohousing stanno diventando miei amici», dice Francesca, la "giorn-artista" del gruppo.
«Vengo dalla provincia e quello che cerco è una normale dimensione umana anche in questa città, dove ora lavoro», aggiunge Simone, sociologo sondaggista. «Ho colto quest'opportunità perché mi sembra tutto chiaro, esplicito. La zona mi piace, la gente anche. E lo stile dei coordinatori mi assomiglia. Sarà facile stabilire i confini tra pubblico e privato». Intrigante e molto partecipato anche il secondo esperimento in coabitazione.
Bioabitat sorgerà ad Abbiategrasso, hinterland verde milanese. Qui sono in gran parte giovani coppie con bambini, col desiderio di lasciare la città per una dimensione più aperta e naturale della vita. Con Giordana Ferri (gruppo Cohousing.it) stanno progettando insieme un insediamento molto sostenibile: due unità abitative di quattro piani, collegate da edifici con servizi condivisi. Gli appartamenti in duplex hanno un'esposizione est-ovest ideale e tanto verde intorno. Il prezzo sarà significativamente inferiore a quello di mercato, nonostante si tratti di case con importanti contenuti di bioedilizia e sostenibilità. Il primo spazio in Italia per lavorare in condivisione parte invece a Lambrate, a due passi dalla ex Faema di via Ventura, in un'altra vecchia fabbrica. Un polo creativo, un'officina di idee, un laboratorio di cose nuove che può ospitare fino a 30/40 avviate imprese, botteghe, studi professionali, agenzie web e di pubblicità, studi di architettura, associazioni. È la conferma che Milano è una città dalle molte opportunità. Secondo una ricerca DIS-Indaco del Politecnico (con GPF&Associati) il 43% dei milanesi è contento di vivere in questa città e 1'80% è sostanzialmente soddisfatto della casa in cui abita (anche se in affitto), ma per il 60% la casa è un "luogo aperto" non un rifugio. Tra i 3.500 milanesi che hanno risposto al questionario, il 90% denuncia la perdita della dimensione di quartiere e aspira a una vita permeata di forti valori sociali (amicizia, condivisione...). Il 40% non ha mai conosciuto i propri vicini di casa ma il 75% desidererebbe avviare scambi. Quasi il 50% vorrebbe abitare in un quartiere vero e "caldo".
E IL FUTURO?
Lo abbiamo chiesto al fondatore di Cohousing.it, presidente di Innosense - agenzia per l'innovazione sociale che ha dato avvio all'avventura italiana in collaborazione col DIS-Indaco del Politecnico di Milano (che ha fatto la ricerca preliminare). «Altri progetti nell'area di Milano e il primo a Roma. In contemporanea, la prima iniziativa di cohousing dedicata alla terza età (spero in Liguria). E un paio di insediamenti partecipati per quelli con coraggio e cuore, pronti a lasciare la città per rifondare la loro vita (ci stiamo muovendo su Volterra). Poi dipende da quanto velocemente crescerà la rete di promotori locali del cohousing a cui stiamo lavorando. In Italia c'è spazio per avviare almeno una decina di progetti l'anno». Vedremo anche le case per vacanze "condivise"? «Non credo: il cohousing tra persone che si vedono 3/4 settimane all'anno è una contraddizione in termini. Ma stiamo avviando interventi dove si possono comprare casa e laboratorio, altri che prevedono affitti prolungati, minicohousing da 5/6 famiglie in città. Spero anche nei retrofit-cohousing, che nascono dagli abitanti di un condominio che un giorno decidono di usare insieme i locali al pianterreno abbandonati, i negozi su strada sfitti, le terrazze comuni, gli androni e il garage in car-sharing. Non è così difficile. All'estero si fa anche questo con molte, piacevoli sorprese». Nei sogni di Mortara e del suo team (forse anche di molti che ci leggono) ci sono poi borghi abbandonati ristrutturati con garbo e in una logica di condivisione. «E magari un accordo col Fai per riabitare luoghi e siti che si aprono a malapena una volta l'anno e, perché no, una legge quadro che incentivi il cohousing nei piani di recupero di interi quartieri come Bagnoli a Napoli o i Mercati Generali a Roma», Il cohousing genera potenti "cellule staminali" di rigenerazione e integrazione sociale.
Titolo originale: The Renter's Manifesto – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Qui in Gran Bretagna tutti parlano dei lavoratori di Treorchy, Galles, che hanno perso il posto perché l’azienda simbolo Burberry ha trasferito la produzione in zone più a buon mercato del mondo. Non c’è bisogno qui di scendere in particolari, visto che ci sono storie simili anche negli Stati Uniti e altrove. Qualunque comunità, piccola o grande che sia, che dipende molto da una sola impresa, è molto vulnerabile a queste trasformazioni del panorama produttivo. Chiedetelo agli abitanti di Flint, Michigan.
Spesso si dà la colpa alla globalizzazione, ma non è solo questa la fonte di cambiamento. Anche la concorrenza nazionale può risultare altrettanto potente, come vi confermerà qualunque barista che abbia uno Starbucks nella stessa via. O le cantonate prese dai dirigenti: Toyota sta dimostrando che si guadagna a costruire automobili negli Stati Uniti, ma non a Detroit, e non con lavoratori sindacalizzati. Poi c’è l’evoluzione tecnologica. Basta pensare a tutti i dattilografi che sono stati costretti a imparare nuovi mestieri e trovarsi nuovi lavori, per via della potenza di Microsoft Office.
Le grandi città possono trovarsi in situazioni difficili se si specializzano troppo e poi scoprono che i tempi sono cambiati. Detroit è un esempio. Lo stesso vale per Manchester nel nord-ovest inglese. Birmingham, nelle midlands, ha una storia diversa, una città genericamente attiva, che fa di tutto, niente in particolare. Come ha sottolineato l’attenta osservatrice delle economie Jane Jacobs, Birmingham era ritenuta ad alta inefficienza se paragonata alle raffinate produzioni di Manchester, ma quando è arrivato il ciclo al ribasso, Manchester ne è rimasta devastata, mentre Birmingham ha continuato a barcamenarsi. Chicago, Seattle, New York, e Londra si sono reinventate in modi simili, più e più volte.
Il che ci porta al mistero di questa settimana: perché la gente abita ancora a Detroit, che ha tanto sofferto e per tanto tempo? Perché non trasferirsi a Chicago o a New York? Originariamente le persone si trasferivano in posti come Treorchy perché lì c’era il carbone da estrarre. Adesso che le miniere hanno chiuso – e anche la fabbrica della Burberry – perché ci restano?
Una delle ragioni, ovviamente, è che i legami sociali contano. A molti piace restare vicino a dove sono nati. Ma molti altri preferirebbero cercare nuove occasioni: vorrei dire, anche, nuove esperienze. Mio padre ha trasferito la famiglia quattro volte in quattro posti diversi sparsi per l’Inghilterra, inseguendo il lavoro. Anch’io mi sono spostato parecchio per trovare l’occupazione giusta, e raramente me ne sono pentito.
Ma i legami emotivi non sono l’unica cosa che ci trattiene. Ci sono costrizioni bizantine per la migrazione fra stati. Philippe Legrain, autore di Immigrants: Your Country Needs Them, sostiene che un sistema migratorio più libero promuoverebbe città creative ed economicamente più solide. Ha ragione.
Anche quando guardiamo alle migrazioni interne, ci sono degli ostacoli formidabili. Ovunque la gente sembra particolarmente propensa ad essere proprietaria dell’abitazione – come nel Regno Unito, in Spagna, in alcuni degli stati USA – ne soffre di conseguenza il sistema dell’occupazione. L’economista inglese Andrew Oswald ha dimostrato come in tutti i paesi europei, e negli stati USA, ad alti livelli di proprietà dell’abitazione corrispondano alti livelli di disoccupazione. Fattori più comunemente usati, quali un welfare molto generoso o gli alti livelli di sindacalizzazione, non spiegano la disoccupazione tanto bene quanto la tendenza alla proprietà della casa. Avere casa in affitto ed essere flessibili fa miracoli per quanto riguarda la possibilità di riuscire a trovare sempre un’occupazione interessante.
Ricerche recenti pubblicate dall’ Economic Journal indicano come chi possiede la propria abitazione tenda a formare reti locali più dense, che contribuiscono a stabilizzare posti di lavoro. Ma questi posti di lavoro sono meno ben collocati che altrove, e le distanze casa-lavoro più lunghe. Dunque ha ragione il professor Oswald a sostenere che dovremmo fare di tutto per rimuovere gli ostacoli ad affittare una casa, o a venderne una per comprarne un’altra. Sarebbe anche molto pratico se si potessero costruire case vicino a Manhattan.
Ma anche se facessimo tutto questo, gli economisti Ed Glaeser e Joe Gyourko spiegano che resta ancora un grave ostacolo: le case non camminano. Per quanto vadano male le cose a Detroit o a Treorchy, quelle case sono sempre lì, e se sono abbastanza economicamente accessibili, la gente continuerà a volerci abitare. Il risultato probabile è una grigia forma di sergregazione: Chi crede di poter trovare un buon lavoro nelle città in crescita si trasferirà lì, pagando affitti elevati. Chi ha meno fiducia, non vuole rischiare di smettere di essere disoccupato in una casa a poco prezzo, per diventare disoccupato in un’abitazione che costa molto. Detroit continuerà ad avere abitanti per parecchio tempo.
Una sintesi del testo che segue è stato pubblicato su la Repubblica, sabato 17 febbraio 2007 in Milano Cronaca con il titolo “Perché i prezzi delle case non cresceranno”. Si interviene nel dibattito sulla proposta del Comune di aumento degli oneri, negando che possa influire sull’aumento dei prezzi degli immobili.
Il dibattito che si è sviluppato sulle decisioni della Giunta Milanese in materia di fiscalità immobiliare – oneri di costruzione in aumento, ICI in riduzione – è importante, perché finalmente inizia ad illuminare un tema in genere oscuro, poco trasparente, poco frequentato dalla stampa, come quella della tassazione della rendita fondiaria-immobiliare. Un tema che incide in modo rilevantissimo sul benessere dei cittadini: in quanto acquirenti di immobili, in quanto proprietari di patrimoni, in quanto fruitori dei servizi di una città – verde, impianti sportivi, servizi di assistenza, mobilità, istruzione ecc. - che dovrebbero in larga misura crescere insieme alla città privata ed essere finanziati da una parte dei plusvalori generati dalle trasformazioni. Un tema tuttavia che, come molti altri, presenta delle specificità e difficoltà concettuali che non sono ben padroneggiate dai normali attori del dibattito pubblico – commentatori, politici o anche “addetti ai lavori”.
E’ così che un approccio ragionieristico ad almeno uno dei problemi affrontati, quello degli effetti dell’aumento previsto degli oneri di urbanizzazione e costruzione, sta a mio avviso creando errate valutazioni e fuorviando il dibattito stesso rispetto ai veri problemi sul tappeto.
Si afferma da più parti che l’aumento degli oneri farà lievitare i prezzi degli appartamenti, e qualcuno suggerisce anche l’entità degli aumenti: il 2%. Si tratta di un non-senso e di una previsione sbagliata: i valori dei suoli, urbani e rurali, ma anche il valore del metro quadro costruito, non hanno alcun rapporto col costo di costruzione; essi dipendono essenzialmente dal livello e dalla natura della domanda, a fronte di un’offerta limitata e difficilmente espandibile, caratterizzata da specificità di qualità e di localizzazione. Se così non fosse, come spiegare l’incremento dei valori immobiliari a Milano, che per appartamenti recenti centrali, semicentrali o anche periferici sono aumentati in media rispettivamente del 64%, del 54% e dell’83% in termini reali (e cioè deflazionati; dati Megliomilano) fra il 1998 e il 2005? E tutto ciò a fronte della costanza, se non della riduzione dei costi di costruzione in termini reali, grazie alla manodopera immigrata. La realtà è che, in presenza di due forti novità come la fuga del risparmio dalla borsa e dalle obbligazioni e la caduta del costo dei mutui immobiliari (dal 14% al 5% fra il 1996 e il 1998 grazie al vituperato euro), si è riversato sul mercato un enorme incremento di domanda (le compravendite sono aumentate in Italia in modo continuo da 600.000 nel 1997 a 1 milione nel 2006, dati Cresme) che è stato particolarmente intenso in città come Milano che godono anche di una rilevante attenzione da parte di operatori internazionali. Con grande vantaggio in termini di profitti lordi, come appare chiarissimo a tutti.
In secondo luogo: la rendita fondiaria (e la sua tassazione) non costituisce, secondo i padri dell’economia, un costo di produzione (che si riflette sui prezzi) ma una quota distributiva, un reddito che entra direttamente nella tasche dell’operatore, in misura maggiore o minore a seconda delle circostanze (della domanda). Ha dunque perfettamente ragione l’assessore Masseroli a negare spinte sui prezzi, che anzi mostrano già una tendenza alla stabilizzazione se non alla riduzione.
A Milano gli operatori immobiliari hanno goduto nell’ultimo decennio di questo fortissimo incremento della domanda, in presenza di regole urbanistiche di trasformabilità dell’uso dei suoli di chiara impronta deregolativa e soprattutto di una tassazione delle trasformazioni assolutamente (per non dire scandalosamente) leggera. Andiamo dall’abbassamento degli standard minimi (cessione di aree al Comune) contenuto nella nuova legge urbanistica regionale alla non imposizione di cessioni a standard sulle innumerevoli e rilevanti microtrasformazioni immobiliari; dalla ridicola entità degli extra-oneri negoziati dall’amministrazione nel caso dei PII maggiori a casi di esplicita massimizzazione della rendita emergente dalla trasformazione, attraverso concentrazioni di volumi costruibili ai limiti della sostenibilità, come nel caso del recinto interno della Fiera.
Gli oneri di urbanizzazione devono essere aumentati, non già in modo limitato come si propone, ma in modo sostanziale, per avvicinarci al livello dei paesi europei e soprattutto per compensare la comunità per i rilevanti effetti ambientali della crescente densità immobiliare e del consumo di spazi liberi. Una recentissima modifica alla legge urbanistica approvata dalla Giunta Regionale introduce un contributo suppletivo sulle nuove costruzioni che sottraggono suolo agricolo: si tratta di un concetto innovativo e benvenuto, dato l’elevatissimo consumo di suolo che caratterizza il nostro paese e l’area milanese in particolare; un concetto che deve però essere esteso e trovare traduzione in un’equa dimensione quantitativa, assai diversa dalla irrisoria determinazione di legge (da 0,5 a 1,5% del contributo di costruzione, già ridottissimo).
Veniamo infine alla riduzione dell’ICI. Questa imposta ha un significato solo operativo,mentre manca di una solida base logica: permette facilmente di fare cassa. Dunque la sua variazione risponde a esigenze di bilancio, che l’amministrazione deve valutare, e dipende dalle preferenze politiche delle coalizioni al potere. Una possibile riduzione potrebbe infatti essere diretta solo a certe categorie di proprietari (ad esempio solo sulla prima casa); oppure può essere estesa a tutti, anche alle società, nel caso di un orientamento, politico ed etico, opposto.
Nel caso dell’ICI, il vero intervento necessario concerne la verifica degli estimi catastali, ad evitare inesattezze e disparità di trattamento inaccettabili più che per aumentare gli introiti complessivi. Soprattutto, poter evidenziare incrementi di valore che derivano da interventi pubblici migliorativi, nel campo delle infrastrutture di mobilità o della qualità urbana, avvicinerebbe l’ICI alla più razionale ma difficilmente esigibile tassazione sull’incremento di valore degli immobili – una tassa che Milano ha utilizzato strategicamente nella breve finestra temporale della sua esistenza, nei primi anni ’60, per finanziare in parte la linea 1 della metropolitana.
D’inverno i barboni, i senza casa, fanno notizia. Il freddo rigido diventa insopportabile e così la morte di qualcuno di loro giunge fino alla nostra attenzione.
A Parigi è successo qualcosa di nuovo e di diverso. Tre giovani attori hanno cominciato a comprare tende da campeggio e le hanno date ai senza casa. Le hanno sistemate lungo il Canal S. Martin tra quai de Valmy e quai de Jemmapes, giusto alle spalle di Place de La République. Il 20 dicembre scorso le tende erano 260, le persone alloggiate molte di più, in alcune una sola, in altre anche 4: in tutto forse 300-400 persone. Una tenda per ripararsi ma soprattutto una tenda per farsi vedere. Rendere visibile l’invisibile, questo l’effetto principale. Le foto di questo strano accampamento, tutto colore rosso, hanno cominciato a circolare. La cultura dell’immagine e della fantasmagoria urbana è servita questa volta per mettere al centro dell’attenzione gli invisibili e con essi il crescente disagio abitativo che ormai accomuna molte città e metropoli europee. Jean Baptiste Legrand è il presidente dell’associazione “Les Enfants de don Quichotte” responsabile dell’iniziativa: lo si incontra al Cafè 96 che funziona da punto di riferimento: si possono chiedere informazioni, contribuire con delle donazioni o prestare un pò del proprio tempo. Alcuni abitanti delle tende ricambiano il proprietario del bar sparecchiando i tavoli.
La municipalità ha bloccato l’installazione di nuove tende ma, in cambio, l’associazione ha ottenuto l’impegno a trovare una sistemazione stabile. Oggi, 3 febbraio, le tende sono 117, il lavoro di rialloggiarli procede, se ne è fatta carico la Fnarf, Fédération d’association. Al momento 147 persone hanno avuto una sistemazione stabile. Le persone rimaste nelle tende sono i casi più difficili da risolvere, alcuni sono senza documenti. Ma il successo dell’iniziativa è indubbio. Il governo francese si è dovuto impegnare in risposta all’eco suscitato sulla stampa a predisporre un piano d’urgenza per i senza casa. E’ di ieri l’assegnazione fatta dall’ENA, la mitica scuola della pubblica amministrazione francese, all’associazione Emmaus di un immobile nel pieno centro di Parigi. L’edificio di otto piani, posto all’angolo tra il Boulevard S.Germain e la rue del Buci, nel quartiere Latino, consentirà di alloggiare una cinquantina di persone.
Ma l’iniziativa è servita anche ad imporre la questione del diritto alla casa da trattare al pari di quello alla salute. Una carta del diritto alla casa sulla quale in Francia il governo di destra sembra volersi impegnare. A Bobigny, nella sede municipale si sono svolti (il 2 Febbraio) gli stati generali europei per l’appello al diritto alla casa. In alcuni paesi europei questo diritto è già sancito nella costituzione: Belgio, Spagna, Grecia, Portogallo, Finlandia, Olanda, Svezia. In altri è sancito solo con legge ordinaria. Un gruppo di lavoro del Parlamento Europeo denominato “Urban Logement” ha pubblicato nell’aprile 2006 una Carta europea dell’alloggio, ma al momento è solo un documento di intenzioni. Sancire il diritto alla casa per contrastare la crescente difficoltà di accesso alla casa, e quindi ad uno dei beni indispensabili per poter avere una vita dignitosa, è solo un segnale di quanto sia grave la questione casa nell’attuale modello economico e sociale. Una difficoltà che riguarda tutti i paesi europei.
Rendere visibile l’invisibile, visto l’esito della vicenda parigina, proporrei di esporre un lenzuolo colorato ad ogni finestra di ogni alloggio che i nostri comuni stanno (s)vendendo. Ci renderemmo conto forse meglio di quanto sta succedendo e di quanto grave è questo processo di dismissione di beni pubblici. Tanto più grave perché avviene proprio nel momento in cui è più acuta la difficoltà di accesso alla casa non solo per i ceti sociali meno abbienti ma anche per quello che una volta chiamavamo ceto medio.
Nota: vedi anche - su Mall - la ricostruzione della vicenda, di qualche tempo fa, dallo International Herald Tribune (f.b.)
«La destra francese è meglio di noi. Sul problema della casa è dieci anni più avanti dell´Italia che è immobile da anni. E se non affrontiamo subito il problema la situazione già drammatica diventerà ingestibile: una vera guerra tra poveri, tra italiani e immigrati».
L´insospettabile sponsor della politica neo gaullista è il ministro della solidarietà sociale Paolo Ferrero, di Rifondazione Comunista. Che con queste parole commenta l´inchiesta di Repubblica sugli immigrati costretti a dormire «a ore», a turno, pagando anche 400 euro per un cuscino a tempo determinato.
Italiani sfruttatori?
«In alcuni casi sì, ma soprattutto di memoria corta. Negli anni ‘50 a Torino erano loro gli operai che affittavano lo stesso materasso in tre dormendoci a turno, in base ai ritmi della fabbrica. E questo quando andava bene, perché spesso sul palazzo c´era un cartello: non si affitta ai terùn. E dei meridionali si diceva quello che si dice oggi degli immigrati: che spaccavano tutto, che cucinavano per terra».
Vero o falso?
«La realtà è che la convivenza forzata, il vivere in stamberghe senza luce, senza gas porta al degrado. Io so solo che quando gli immigrati hanno avuto anche un piccolo spazio ma tutto loro, l´ho trovato molto più pulito di casa mia».
Stamberghe, case ghetto perché?
«Due i motivi, la Bossi Fini che fa sì che una persona che lavora, che ha un reddito ma ufficialmente è clandestina, sia ricattabile sul problema casa e quindi sfruttata».
Colpe dello Stato?
«Abbiamo distrutto negli anni il patrimonio dell´edilizia pubblica. Nell´84 si costruirono 34mila alloggi popolari, nel 2004 neppure 2000. L´Italia ha solo il 4 % di alloggi popolari, la Francia il 20%, la Spagna investe 8 miliardi l´anno in questo settore».
Francia batte Italia, almeno sulle case?
«Sì, e per di più stanno discutendo un progetto di legge per cui la casa diventa un diritto soggettivo, come la sanità da noi, e hanno in progetto 150mila alloggi popolari. Da noi nulla e questo rischia di portare ad una guerra tra poveri».
Guerra tra poveri?
«Sì, è sulla mancanza di case, sui servizi il vero terreno di scontro sociale. Se non vogliamo che ci si avvii ad un razzismo dilagante bisogna intervenire. Se lasciamo marcire la situazione la pagheremo nei prossimi anni».
Allora costruite?
«Nella finanziaria non c´è una lira, ma ho chiesto di mettere il tema della casa al centro del tavolo del welfare».
E ora?
«Intanto oggi è in discussione l´approvazione del disegno di legge per il blocco degli sfratti per le fasce deboli. Nel disegno è previsto che entro due mesi ci sia un tavolo in cui le regioni ci facciano sapere il loro fabbisogno abitativo. Da lì la stesura di un piano di intervento concreto».
E per i ghetti?
«Nella finanziaria ci sono 50 milioni di euro per la politica di inclusione, per il superamento dei ghetti come via Anelli a Padova. Un lungo lavoro con regioni, comuni, servizi sociali per creare comunità, convivenza tra immigrati e italiani e non mondi di esclusi. Soldi che verranno spesi così anche per individuare i ghetti e trovare alloggi in giro per la città dove inserire le famiglie arrivate dall´estero; con l´intervento dei servizi, con mediatori culturali, assemblee di cittadini. Ovviamente il tutto con l´aiuto e la cooperazione economica di regioni e comuni».
La critica al programma 20.000 case in affitto in corso di realizzazione nel Comune di Firenze [1]è diventata pienamente attuale per due motivi. Il primo è che il TAR ha bloccato uno dei cantieri, quello di via Arnoldi, dando ragione ai residenti e dimostrando che se le amministrazioni pubbliche e le sovrintendenze non sanno difendere gli interessi collettivi e i beni comuni, quando la misura è colma si trovano inaspettate tutele. Il secondo è che la Regione Toscana intende assumere come modello per rispondere alla questione abitativa, il tipo di partnership pubblico privato promosso con il programma in questione, di cui abbiamo puntualmente descritto i risultati nell’articolo citato[2]. La sua critica assume così un valore non solo contingente ma strutturale.
Dopo l’approvazione definitiva e l’inizio dei lavori nelle aree fiorentine del programma 20.000 case in affitto, è stato attivato un altro programma con modalità del tutto simili. Si tratta del “Programma integrato di intervento per l’incremento e diversificazione dell’offerta di abitazioni in locazione” facente anch’esso parte del “Programma regionale di edilizia residenziale pubblica 2003-2005” della Regione Toscana. Anche in questo caso al bando regionale indirizzato ai comuni toscani ha risposto il Comune di Firenze che ha predisposto un proprio avviso pubblico rivolto ai privati per selezionare proposte di intervento. Fra le proposte avanzate l’unica “proposta ammissibile” è stata quella presentata dalla Società Affitto Firenze riguardante l’area Canova Giuntoli nella quale è prevista la realizzazione di 20 alloggi di edilizia residenziale agevolata (20 alloggi, 1.700 mq. di superficie complessiva, contributo richiesto 948.600 euro su un costo complessivo di 2.108.000 euro); 24 alloggi di edilizia residenziale non agevolata, cioè privata (alloggi di 97 mq. medi e costo complessivo di 4.656.000 euro) e un intervento commerciale e servizi alla persona (150 mq. con costo complessivo 300.000 euro), il tutto attuato da Affitto Firenze. Il programma prevede anche la realizzazione di 20 alloggi da parte del Comune e un centro sociale di quartiere. Come d’uso il programma “risulta in contrasto con le previsioni del vigente PRG” e “pertanto la sua realizzazione richiede una apposita variante al PRG”. L’avvio del procedimento della variante è del 11/7/2006. Le destinazioni delle aree coinvolte nel PRG vigente erano “sottozona G2 con simbolo attrezzatura pubblica amministrativa di progetto”, “sottozona G1 con simbolo verde pubblico di progetto”, porzione di “area classe 9: verde privato e aree di pertinenza di edifici pubblici e privati” e parte di viabilità esistente. Con la variante l’area diventa “zona omogenea C sottozona C1.2 – di nuovo impianto a bassa densità all’interno di un piano urbanistico esecutivo di iniziativa pubblica con conseguente spostamento del perimetro del centro storico minore all’interno del quale, attualmente si trova l’area destinata a classe 9”. In questo caso con la giustificazione delle case da costruire, oltre all’usuale eliminazione delle aree destinate a servizi da standard obbligatori (aree G), si arriva anche a modificare il limite del centro storico: in effetti una volta distrutto quello che ne faceva parte il limite sarà effettivamente quello proposto. Da rilevare che questo progetto ha ricevuto l’approvazione della Regione Toscana e l’ammissione al finanziamento è stata approvata con deliberazione giunta regionale n. 851/1075 del 6/12/2005 e con decreto dirigenziale regionale n. 1479 del 27/3/2006.
La Regione Toscana sta preparando lo “Statuto dell’edilizia sociale” e il modello a cui dare sistematicità è quello del Programma regionale 2003-2005 di cui fanno parte le “20.000 case in affitto” e le case in affitto “calmierato”.
Viene da chiedersi come sia possibile utilizzare lo slogan “C’è del nuovo nella politica della casa”, per l’ennesima riproposizione del vecchio, almeno di 20 anni, e ormai comunemente ritenuto fallimentare intervento in “partenership pubblico privato”. Fallimentare non per il privato, che ottiene tutte le facilitazioni di un intervento pubblico per realizzare il suo profitto/rendita immobiliare, ma per il bene pubblico, per quello che si ottiene per i bisogni sociali. A dircelo è per esempio Susan Fainstein, esperta di fama mondiale, che ha analizzato i risultati di questo connubio negli anni 80 nei paesi che per primi se ne sono fatti promotori: il Regno Unito e USA[3]. Susan Fainstein sulla base di una indagine su una serie di casi sottolinea come questo tipo di programmi, che possono consentire concessioni edilizie in deroga alla zonizzazione vigente, o un aumento di densità edificatorie, o sgravi fiscali per gli operatori privati in cambio della realizzazione di abitazioni sociali e servizi pubblici siano risultati poco redditizi per la collettività. (Susan Fainstein, Promoting economic development. Urban planning in the United States and Great Britain, APA Journal, n.22 1991 e Smith 1989). Analogo il giudizio di Smith in merito alle politiche promosse da alcune città californiane (M.P. Smith, “The use of linked development policies in U.S. Cities”, in N. Parkinson, B. Foley, D.R. Judd (editor) Regenerating the Cities. The UK Crisis and the US Experience, Scott Foresmann, Glenview, 1989).
In tema di partnership pubblico privato va poi rilevato un trucco che rischia di inficiare molti calcoli economici di fattibilità finanziaria e di distribuzione di oneri e compiti fra pubblico e privato. Troppo spesso i calcoli delle imprese all’interno delle “partnership pubblico privato” invece di assumere il prezzo delle aree (la rendita urbana) come un guadagno, lo assumono come un costo inficiando tutti i calcoli. Infatti furbescamente le imprese immobiliari considerano solo la fase finale del processo, quella di edificazione, come se l’impresa promotrice comprasse i terreni a valori corrispondenti alla destinazione a nuova costruzione. Al contrario il processo decisionale e realizzativo inizia con l’idea del progetto e spesso l’area è comperata prima di ottenere la variante e l’uso del suolo desiderato ed è quindi il proponente/costruttore ad appropriarsi della rendita e non il proprietario iniziale. Oppure l’area è stata comperata molto tempo prima a prezzi agricoli e poi quando è il momento, ottenendo le destinazioni d’uso più lucrose si incamera la rendita. Inoltre le imprese ascrivono fra i costi gli interessi per i prestiti presso le banche, mentre siccome di prassi vendono le case prima di costruirle, i costi per gli interessi li pagano i compratori e non loro. Costi gonfiati che fanno sì che il prof Roberto Camagni (professore ordinario di Economia urbana al Politecnico di Milano) in una recente conferenza abbia parlato di un profitto del 9% denunciato dai costruttori dei programmi integrati a Milano contro uno reale del 97%.
I rischio è che la politica abitativa proposta dalla Regione Toscana rafforzi la segregazione sociale dove c’è e la crei dove non c’è ancora. Infatti le finalità dello statuto dell’edilizia sociale [4] sono:
- le soluzioni al disagio abitativo vanno individuate “secondo articolazioni di area vasta”, a prima vista sembra positivo perché appare che il problema venga affrontato alla scala appropriata, purtroppo è solo un escamotage, infatti nel concreto vuole dire che nell’area vasta il problema potrà essere “risolto”, guarda caso, nelle aree più periferiche o comunque meno pregiate per il mercato;
- valorizzare il ruolo dell’associazionismo, del volontariato e “di tutti i soggetti in grado di concorrere alla ricerca di soluzioni alloggiative per situazioni di maggiore gravità e urgenza”, che possono comprendere l’accompagnamento sociale: questa scelta comporta una grave segregazione sociale e un trattamento da minorati per persone che invece sono semplicemente (e drammaticamente) prive di reddito, di proprietà e/o di un lavoro congruamente retribuito;
- sollecitare e orientare “la partecipazione dei privati nella realizzazione di programmi integrati di riqualificazione urbana finalizzati all’incremento e alla diversificazione dell’offerta di abitazioni a canone calmierato”; per sollecitare e orientare le amministrazioni pattuiscono scambi ineguali e cessione gratuita di beni comuni;
- riferire “la fissazione dei requisiti per l’accesso e la permanenza nel patrimonio residenziale pubblico ai caratteri quali-quantitativi e localizzativi dei diversi segmenti dell’offerta di edilizia sociale e in ragione delle condizioni familiari, economiche e alloggiative dei richiedenti, da parametrarsi in modo uniforme su tutto il territorio regionale”; di fatto si tratta di un ingresso trionfale delle ragioni e dei criteri del mercato immobiliare nell’edilizia residenziale pubblica. In parole semplici significa estorcere quanto più possibile dall’inquilino e legare ogni qualità a un prezzo;
- “articolare l’offerta di abitazioni in locazione a canoni regolati in ragione dei diversi segmenti della domanda sociale, in funzione di una più equa e razionale utilizzazione dell’edilizia residenziale pubblica…” [5], ma in una intervista [6] l’assessore regionale Conti è ancora più esplicito: invocando “una politica legata a un’idea di città che sia strumento di attuazione delle strategie, non di svalutazione delle aree, come accadeva in molti casi per i PEEP” (ndr piani di edilizia economica e popolare) afferma che “questo è possibile attraverso un ampliamento e una diversificazione dell’offerta pubblica di abitazioni che è la condizione per una più equa e dinamica utilizzazione del patrimonio a canone sociale e un modo per favorire l’uscita dall’Erp di chi pur non avendo più i requisiti di reddito non è comunque in grado di accedere al mercato privato”. Vuole dire lasciare nelle case a canone sociale (di proprietà di Casa Spa) solo le persone che hanno un reddito inferiore al massimo consentito (13.000 euro annue, somma dei redditi di tutti i conviventi, computati al 60 % per lavoratori dipendenti e pensionati). Apparentemente giusto in realtà crea ghettizzazione e non certo integrazione: nelle case a canone sociale dovranno abitare solo casi di povertà estremi.
L’unico vero vincolo per gli interventi di edilizia residenziale pubblica (ERP) è l’immediata cantierabilità, tempi certi per inizio e ultimazione dei lavori.
L’assessore regionale Conti nell’intervista citata[7] indica come positivo il fatto che il Comune di Firenze abbia introdotto la norma che in ogni nuovo insediamento il 20% sia destinato a Edilizia residenziale pubblica. Ma vediamo di che 20% si tratta. Nel caso dell’area Belfiore su via Benedetto Marcelli, ex Fiat, gestita dalla Società Belfiore Spa (posseduta al 100% da Fidia SPA, il cui presidente Riccardo Fusi è il presidente della Baldassini, Tognozzi e Pontello) destinata ad albergo, il 23/2/2005 (DGC 2005/G/00966 – 2005/01145) un accordo fra società Belfiore spa e Comune prevede di riservare alla “residenza, nella forma della locazione abitativa temporanea (ndr. per 10 anni), una quota pari al 20% della superficie utile lorda complessiva dell’intervento come individuato nelle tavole… del piano di recupero”. Ma prevede di realizzare gli alloggi in affitto temporaneo non nell’area Belfiore, ma “in altro complesso immobiliare in corso di costruzione posto in Firenze tra via Toscanini e la via Respighi..e precisamente negli alloggi… di proprietà Società parco delle cascine spa con sede in Firenze via Baracca 9”.
Va aperta una parentesi sull’uso dei termini che talvolta rende poco chiaro il bilancio fra edilizia davvero sociale, a canone sociale in affitto, ed edilizia in vendita costruita da cooperative ed imprese con finanziamenti pubblici. L’edilizia residenziale pubblica comprende edilizia sovvenzionata, cioè quella con i canoni sociali, ma anche l’edilizia agevolata e convenzionata (entrambe il più delle volte case da cedere in proprietà costruite da parte di cooperative ed imprese con finanziamenti pubblici). La terminologia più antica che data 1919[8] prevede la distinzione fra le case economiche e quelle popolari. Le prime erano le case di proprietà del Comune o degli IACP, assegnate in locazione, destinate agli operai. Le case popolari, destinate agli impiegati, erano costruite da cooperative e assegnate ai soci in proprietà anche individuale (oppure erano assegnate in affitto nel caso di cooperative a proprietà indivisa). Un po’ di confusione ha creato il fatto che ci sono case sovvenzionate (cioè con pesanti sovvenzioni pubbliche a fondo perduto) che sono cedute in proprietà. Ora si è aggiunto il termine housing sociale con il quale talvolta si designano le case da affittare a canone calmierato, costruite da imprese e cooperative con finanziamenti pubblici e facilitazioni di vario tipo. Quindi quando si leggono i dati sull’edilizia residenziale pubblica bisogna considerare che comprendono anche la costruzione sussidiata di case da vendere a prezzi un po’ inferiori a quelli di mercato e che poi, dopo 5 anni possono essere vendute sul libero mercato, con qualche vantaggio individuale, ma anche con un costo sociale che non contribuisce certo a risolvere la questione abitativa..
Nei discorsi sulla casa da un po’ la Regione si è accorta che ci sono “fasce sociali sin qui escluse da ogni provvedimento perché collocate appena al di sopra delle soglie minime per l’accesso agli alloggi di edilizia sociale ma impossibilitate a muoversi nel libero mercato con i prezzi inaccessibili che esso propone”. Per questa fascia di popolazione prevede gli alloggi a costo intermedio del tipo delle 20.000 case in affitto: edilizia agevolata cioè con finanziamenti pubblici e prezzi di affitto controllato, che risultano comunque troppo alti e ben al di sopra di quelli della vecchia “sovvenzionata”.
Se numerosi gruppi sociali che non possono accedere al mercato non sono ammessi neppure all’edilizia a canone sociale ci sono due semplici soluzioni che agiscono su questi due supposti vincoli che una Regione ha tutto il potere di correggere, visto che ha competenze nella programmazione delle risorse destinate al settore dell’edilizia residenziale pubblica; nella gestione ed attuazione degli interventi, nell’assegnazione degli alloggi e la determinazione dei relativi canoni:
- uno è modificare le regole di accesso all’edilizia a canone sociale, elevando il livello massimo di reddito consentito e ammettendo a pieno titolo anche i singoli, i giovani, gli anziani, le coppie senza figli e altri tipi di convivenza anche in gruppo. La logica democristiana e buonista ha sempre dato la precedenza a chi aveva numerosi figli, più erano meglio era, e alla povertà (chi non era abbastanza povero doveva/poteva comprasi la casa con i mutui agevolati). Ma anche chi non ha figli e ha redditi bassi non può accedere al mercato. O meglio può accedere al mercato a patto di comprimere la qualità dell’abitare attraverso il sovraffollamento (5/10 in un alloggio), o comunque attraverso la coabitazione forzata con familiari o amici, o attraverso l’utilizzo di locali che non sono o non dovrebbero essere abitabili (cantine, soffitte etc).
- regolare gli affitti (tutti) e imporre che non superino un tetto dipendente dalla qualità dell’alloggio (che dipende dal costo di produzione dell’alloggio) e non dalla localizzazione il cui prezzo dipende da una qualità prodotta (e pagata) collettivamente e non dal costruttore. La regolazione degli affitti nei Paesi Bassi dall’inizio del XX secolo ha seguito questa strada e ha permesso un vasto accesso alla casa in affitto a prezzi veramente accessibili. Contemporaneamente, visto che sembrano mancare, è necessario varare apposite leggi e regolamenti che puniscano duramente (con l’esproprio a costo zero) chi affitta locali non abitabili, assegnando la responsabilità dell’uso reale di quanto viene affittato ai proprietari e non agli inquilini. Recentemente abbiamo letto che famiglie vivevano in cantine pagandole 600 euro al mese. Fatti di questo genere non devono essere tollerati (ricordate, la legalità?).
Contemporaneamente è ovviamente necessario realizzare edilizia in proprietà pubblica da affittare a canoni sociali in quantità sufficiente a risolvere la domanda, come si propone nella parte conclusiva del saggio già citato nella nota 1.
Alcuni dati: a Londra il 50% delle nuove costruzioni devono essere “affordable housing” (case a prezzi accessibili). In Francia l’obiettivo è che il 20% dello stock abitativo debba essere sociale (non si adotta la percentuale solo per la nuova costruzione, ma la percentuale da raggiungere è sullo stock complessivo esistente). In Catalogna lo standard prescrive che dal 20 al 30% dello stock debba essere di edilizia sociale. Insomma in Italia per raggiungere un tale standard dovremmo avvertire BTP, Coop. Unica, Lorenzo Giudici, Fratini, Ligresti, Coppola, che da ora in poi, ci dispiace ma si possono costruire solo case di edilizia sociale in affitto a canone sociale.
La percentuale di alloggi di edilizia sociale in rapporto al totale di alloggi esistenti è:
in Olanda il 35%; in Danimarca il 19%, in Francia il 16% e in Italia in 4%.
In ultima istanza si tratta di liberare spazio a
LA CITTÀ IN COMUNE
La qualità del vivere la città, il diritto alla città, è composta da una pluralità di caratteristiche e di possibilità, di fruizioni, funzioni e di invenzioni. Non può essercene una senza le altre. Ci vogliono tutte insieme, ed è la loro contemporanea presenza che ci dà il senso di cosa significhi vivere in modo soddisfacente in una città o di cosa dovrebbe e potrebbe significare: la casa ma anche i servizi, ma anche il tessuto connettivo, la qualità dell’aria e dell’acqua, del suolo, di tutto l’ambiente, i luoghi di incontro e di apprendimento, di cultura e d’arte, la creatività e la capacità di imparare. Tutti necessari come non si può dire che basti l’acqua o il cibo o la felicità da sole a farci vivere, sono tutte necessarie.
Purtroppo nella vita di tutti noi c’è l’esperienza simile seppur diversa di porte chiuse, giardini recintati, spazi e accessi negati: per proprietà, per prepotenza. Eppure la città nasce per la presenza di spazi comuni di scambio, di incontro. Senza quelli non ha senso avere una città.
“…la città è una proprietà comune dei suoi abitanti. E’, in senso economico, un bene pubblico… il valore astronomico assegnato al centro della città emerge solamente dal fatto che è al centro delle attività di milioni di persone. Loro, non i proprietari, hanno creato questi valori, che evidentemente appartengono ai cittadini” (Colin Ward)
Nei percorsi fra la ricerca di tutto quello di cui avremmo bisogno e il suo ottenimento, individuale o collettivo, ci imbattiamo nella privatizzazione di quelli che rivendichiamo come beni comuni. E’ l’accumulazione da espropriazione che significa espropriare qualcuno dei suoi beni o dei suoi diritti per l’accrescimento del capitale privato. I diritti che tradizionalmente sono stati proprietà comune vengono espropriati attraverso la privatizzazione. La privatizzazione dell’acqua impone che la si paghi a chi se ne è appropriato, e ora ne è proprietario o gestore, mentre tutti dovrebbero avere accesso a questo bene comune. Quando i settori pubblici, come la scuola o la sanità, si vedono sottratti i finanziamenti pubblici, sempre più persone devono rivolgersi al settore privato. E anche in questo caso qualcuno accumula grazie a questa privatizzazione. La proprietà privata della terra, la cui privatizzazione ha una lunga storia, da sempre ostacola la risposta universale ai più elementari bisogni di alloggio e di spazio sociale e pubblico. Ma blocca anche qualsiasi tentativo di salvaguardare e di proteggere l’interesse collettivo, in modo efficace e definitivo, dalla voracità insaziabile dei grandi proprietari e delle imprese immobiliari, che talvolta la pianificazione territoriale pubblica ha cercato di proporre. Anche l’inquinamento dell’aria e dell’acqua si configura come una privatizzazione, perché ci viene sottratta aria ed acqua di qualità da chi usa e deteriora questo patrimonio comune per il proprio vantaggio economico; basti pensare alle industrie che inquinano per risparmiare sui depuratori o per non spendere su innovazioni che permettano produzioni davvero pulite. L’accumulazione da espropriazione comporta la sottrazione di diritti universali, e la loro privatizzazione in modo che diventino una responsabilità individuale, invece che responsabilità sociale.
C’è più che un filo che lega la questione del diritto alla città e all'accesso alla terra (casa, servizi sociali, spazi pubblici e di comunicazione, spazi sociali e culturali) e le questioni degli elementi e dei processi naturali (acqua, suolo, aria, flora e fauna, ambiente, loro qualità e lotta agli inquinamenti, compresa la questione dei rifiuti e delle nocività), dei servizi a rete privatizzati o in via di privatizzazione (acqua, energia, trasporto pubblico, rifiuti, telefoni..). C’è la nostra vita a legarli e una domanda che li vede come premesse minime tutte necessarie e irrinunciabili.
Noi diciamo che sono beni comuni (in forma di risposte ai bisogni e in forma di qualità del vivere), ma c'è chi li vede e li tratta come risorse da sfruttare e come merci. E questo ci impone di affrontare anche le ragioni economiche della loro sottrazione: rendita fondiaria, profitto, tipo di produzione delle merci (cosa, quanto, per chi) in generale e la connessa generazione abnorme di rifiuti, questione nocività e tariffe, la produzione dell’ambiente costruito. E ci impone anche di affrontare chi e quali imprese, talvolta multinazionali, sono gli attori, i promotori di questi investimenti e gli accaparratori di profitti e rendite. E il ruolo della pubbliche amministrazioni in questo gioco. La centralità della rendita fondiaria nell'analisi del territorio risiede nel suo ruolo strutturale nel localizzare (o situare) le attività (e le classi sociali, gruppi sociali) sul territorio. Con tendenza alla segregazione sociale e funzionale.
In questi anni abbiamo visto nascere e crescere lotte per l’accesso alla casa e ai servizi pubblici, contro gli sfratti e gli sgomberi, per spazi sociali e collettivi, contro le innumerevoli speculazioni immobiliari volte a costruire a spese di tutti per il vantaggio di pochi, contro gli inceneritori, i rigassificatori, contro l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, della terra, contro l’elettrosmog, per la salvaguardia della nostra salute e della qualità dell’ambiente in cui viviamo e di cui facciamo parte, per la qualità del servizio e per i diritti dei lavoratori del trasporto pubblico locale, per la proprietà comune e la gestione pubblica di tutti i servizi: gas, elettricità, acqua, trasporto pubblico…ma anche dell’intero territorio..
Che cosa hanno in comune?
Invece della città per pochi e della città divisa…
LA CITTÀ IN COMUNE
È fatta di infinite proposte possibili, ma anche di principi inviolabili e irrinunciabili:
- uguaglianza nella diversità, impedendo che presunte differenze escludano dai diritti;
- nessun diritto individuale o collettivo può comprendere diritti su altre persone (per esempio sulle donne), tali da pregiudicarne il diritto all’autodeterminazione;
- non è ammessa nessuna giustificazione alla violenza sulle donne e alla sottrazione del diritto di tutte all’autodeterminazione. Tre principi fondamentali: integrità fisica (del corpo femminile) come bene indisponibile; inviolabilità del corpo (femminile); autodeterminazione (delle donne);
- integrità fisica, inviolabilità del corpo (nessuna ammissibilità a nessuna forma di tortura), autodeterminazione per tutti (abbiamo sottolineato in particolare questi stessi diritti per le donne perché sono sotto attacco);
- non ammissibilità dello sfruttamento delle persone (nessun diritto individuale o collettivo può comprendere il diritto di sfruttamento di altre persone);
- non ammissibilità della distruzione e dello sfruttamento della natura e promozione di usi degli elementi naturali che garantiscano la loro riproduzione e così facendo la nostra stessa salute e benessere;
- uso comune dei beni e servizi territoriali senza che nessuno ne possa pregiudicare l’uso e la fruizione da parte degli altri attraverso la proprietà privata, la dissipazione, la distruzione o l’inquinamento;
- nessun confine per le persone; libertà di circolazione e di movimento per tutte;
- reddito (e servizi sociali, compresi casa e diritto alla città) per tutti.
La città come bene comune è
LA CITTÀ IN COMUNE
[1] Una circostanziata critica alla realizzazione fiorentina del “Programma 20000 case in affitto” si trova nell’articolo pubblicato sul sito eddyburg: Marvi Maggio, “La casa a Firenze. Alloggi in affitto a che prezzo?”
[2] Ibidem.
[3] Gibelli, M.C., “Tre famiglie di piani strategici: verso un modello reticolare e visionario” in Curti F., Gibelli M.C. (editor), Pianificazione strategica e gestione dello sviluppo urbano, Alinea, Firenze, 1996.
[4] Regione Toscana, Giunta Regionale, Direzione generale delle politiche territoriali ambientali, Settore politiche abitative e riqualificazione degli insediamenti - edilizia residenziale pubblica, Verso lo statuto dell’edilizia sociale, settembre 2006.
[5] Ibidem, pag.9.
[6], “Intervista a Riccardo Conti, Assessore al territorio ed alle infrastrutture della Regione Toscana, di Leonardo Rignanese”, Urbanistica Informazioni, n.2007, maggio-giugno 2006, pag,69.
[7] Ibidem, pag.69.
[8] Vedi Lodovico Meneghetti, “La casa della città pubblica” in http://eddyburg.it.
Costruire altre case? Se ne può fare a meno
(20 dicembre 2005)
Ripartiamo da metà novembre quando Berlusconi, nella sua quotidiana ricerca di frottole per convincere ancora qualcuno a votarlo, se ne uscì con lo slogan “case per tutti”. Il giorno appresso già aveva cambiato: «Volevo dire per chi è sotto-sfratto». Dato però che la tentazione di dire sciocchezze è per lui irresistibile, aggiunse: «Faremo le case su terreni a prezzo agricolo»: memore forse di quando era lui a comprar terre agricole e a fare poi in modo che diventassero edificabili... Altri tempi. Oggi chi gliele dovrebbe portare strade, acqua e fognature a costruzioni sorte in aperta campagna? E a spese di chi?
Non varrebbe nemmeno la pena di ricordare insulsaggini simili se la costruzione di nuove case non comparisse anche nei programmi di centrosinistra e sinistra. Ho in mente le “dieci buone azioni di governo per l’ambiente” proposte a settembre da un gruppo di ambientalisti di spicco alla Festa di Liberazione, dove al punto 9 si parla di «finanziamento immediato di un Piano nazionale di edilizia economica e popolare». E qui ci si impone, direi, una riflessione di fondo. Sempre prendendo le mosse dalla sesquipedale ignoranza berlusconiana della realtà del paese che lo porta a parlare di terre agricole come se ce ne fossero a non finire e se non valessero niente. Orientamento mentale purtroppo condiviso ancora da molti: sinistre incluse. Mentre non dovremmo dimenticare mai che siamo un paese ad alta densità demografica (e cioè con un territorio scarso rispetto alla popolazione) e che nella seconda metà del secolo scorso la superficie agraria italiana si era già dimezzata. Il che vuol dire che se le cose del mondo dovessero mettersi male (cosa per niente improbabile) difficilmente ce la faremmo a sfamarci coi frutti della nostra terra.
E dunque l’idea - tutta nuova - che faremmo bene a metterci in testa e aver sempre presente è che ogni metro quadrato di terra fertile ha oggi un valore (reale, non solo venale) incomparabilmente maggiore di qualunque edificio ci si possa far sopra. Non solo per la capacità di produrre alimenti, ma per accrescere (se pure di poco) la superficie del manto di vegetazione che concorre a “fissare” l’anidride carbonica e ad arginare l’effetto-serra. Pensiero controcorrente rispetto a tutto il passato, oltre che rispetto ai decenni ruggenti del boom edilizio postbellico. Ma è veramente ora, direi, di metterci a ragionare su questa diversa lunghezza d’onda.
Ma allora le case?... Un momento. Già da vent’anni le statistiche parlano di un numero di abitazioni in Italia quasi-doppio di quello delle famiglie. E’ anche vero che con l’aumento dei “singles” è aumentato anche il numero delle unità familiari. In tutti i casi, però, le più recenti rilevazioni Istat parlano di tremilioniottocentomila famiglie in difficoltà per l’alloggio contro - attenzione! - 6,6 milioni di alloggi vuoti inutilizzati. E se questi dati sono attendibili ne discende una indicazione precisa: che esiste in Italia in larga misura la possibilità di risolvere i problemi abitativi facendo ricorso al patrimonio edilizio esistente (debitamente ristrutturato e ammodernato ove occorra, ovviamente) senza bisogno di occupare altri metri quadrati di terra con altro cemento. Chiaro che questo comporterebbe una scelta politica diametralmente opposta alla linea berluscon-tremontiana di svendita dei patrimoni pubblici, a partire da quelli degli Istituti Case Popolari (Iacp). Favorire, al contrario, le acquisizioni da parte dei Comuni di alloggi esistenti da dare in affitto a chi più ne ha bisogno secondo criteri eminentemente sociali. Questo anche perché (in riferimento alla proposta Brunetta di dare in proprietà, parte a pagamento e parte in regalo, tutte le case Iacp) di una quota di alloggi in affitto il paese ha comunque bisogno per garantire un certo grado di mobilità ai cittadini. E dato che le difficoltà alloggiative hanno soprattutto a che fare con le disponibilità economiche e non con carenze reali di abitazioni, è giusto che sia l’Ente locale a garantire il “diritto alla casa” come parte integrante del welfare state. Tenendo conto ovviamente del variare nel tempo di situazioni e bisogni.
Ma c’è un altro motivo - meno considerato - per rinunciare alla costruzione di nuove case popolari coi vecchi sistemi. Qui mi rifaccio a una mia antica esperienza di lavoro nel Piano Fanfani Ina-Casa degli anni 50 (me la sento già la domanda: “ma tu, quanti anni hai? ”. Parecchi, compagno, parecchi: finché c’è fiato però...). Di quell’esperienza, dicevo, tra i molti pro-e-contro m’è rimasto impresso soprattutto il malanimo con cui i neo-assegnatari entravano in case loro assegnate a scatola chiusa, senza che nessuno gli avesse chiesto un parere né per il dove né per il come. Avvertivano questo sistema come un’offesa: come un esser trattati da mendicanti cui si fa l’elemosina. E reagivano male: col disamore, la trascuratezza, la morosità. Non andava magari sempre così, ma nelle periferie urbane spesso il quadro era questo.
Quel che voglio mettere in rilievo è quanto è importante che i cittadini partecipino in qualche modo alle decisioni sul dove e sul come abitare. Ed è chiaro che questo è più facile se si offre loro la scelta fra un ventaglio di possibilità all’interno
dei tessuti edilizi esistenti. Qui mi riallaccio a una “Delibera programmatica sulle politiche abitative” (n°175, 15/09/05) del Comune di Roma. Un buon documento, che prevede al riguardo ogni modalità di azione possibile: dai completamenti di opere già in corso alle nuove costruzioni e ai programmi di acquisti comunali di alloggi. Con l’affidamento a un’apposita “Agenzia per gli affitti” della gestione del tutto. Ecco: in rapporto a questa impostazione (già parecchio avanzata rispetto al passato) vorrei azzardarmi a sostenere che oggi bisogna trovare il coraggio di cancellare del tutto la voce “nuove costruzioni” (e possibilmente anche i completamenti che comportino ancora occupazioni di spazi) e concentrarci esclusivamente sulle modalità di acquisizione comunale di alloggi esistenti da mettere a disposizione di chi ha più bisogno. Che significa dare al problema una impostazione tutta diversa.
Con quali soldi i Comuni potranno procedere alle acquisizioni, chiedete? La Delibera elenca una serie di modi: a scomputo di imposte dovute (tassa di successione compresa, se ce la faremo a ripristinarla per i patrimoni maggiori); a seguito di requisizioni di edilizia abusiva e sequestri di patrimoni frutto di attività criminali; in occasione di aste giudiziarie per fallimenti e “amministrazioni controllate”; attraverso intese con gli Iacp e con amministrazioni pubbliche proprietarie di alloggi (le Ferrovie, ad esempio)... Quel che occorrerebbe in sostanza è arrivare a dotare, sia pure per gradi, i Comuni italiani (quantomeno i maggiori) di patrimoni edilizio-abitativi abbastanza consistenti e variati da poter incidere in senso positivo sotto il profilo sociale sul fabbisogno di alloggi. Questo anche giovandosi, a favore dei nuovi- inquilini, di sgravi fiscali, “buoni-assistenza”, canoni di locazione calibrati caso-per-caso e quant’altro.
Configurare cioè un ruolo comunale attivo nella soluzione del problemacasa, da portare avanti d’intesa coi cittadini più interessati direttamente. Immigrati e nomadi inclusi, naturalmente. Chiaro che qui la faccenda si fa più difficile ancora. Quel che conforta però è il dato dei 560.000 alloggi già acquistati in proprietà da famiglie extra-comunitarie in Italia: spesso nelle parti più degradate delle periferie, ma anche nei vecchi villaggi ex-rurali in abbandono...
Come dire: il problema ha tendenza a trovare da sé certe sue soluzioni. Tendenza che va favorita e aiutata, ovviamente. Senza nemmeno starci a preoccupar troppo in questa fase, direi, delle possibilità che si formino enclaves etnico-religiose spinte a isolarsi, ma curando che si realizzino condizioni civili di abitazione per tutti, e soprattutto facendo in modo che le rappresentanze dei diversi gruppi etnici partecipino - alla pari con gli altri - alle discussioni e alle scelte per l’habitat.
La strada mi sembra sia quella indicata da Sandro Medici presidente del Municipio romano di Cinecittà con la requisizione di alloggi inutilizzati (per la quale rischia di finire sotto- processo) e di Massimiliano Smeriglio presidente del Municipio-Garbatella con gli spostamenti di residenza concordati direttamente con le famiglie nomadi. E dovrebbe portare a fare delle sedi di Municipio e di quartiere dell’“Agenzia Comunale per gli affitti” i luoghi istituzionalmente preposti al dibattito pubblico fra cittadini e non-cittadini per queste scelte, cui giungere attraverso l’esercizio dei metodi della democrazia diretta.
Non sarebbero scelte da poco, d’accordo. Proprio per questo mi sembra arrivato il momento di aprire la discussione al riguardo.
Case nuove e case vuote.
Più metricubi edificati o più terre libere nel nostro futuro?
(4 gennaio 2005)
ntefatto. Il 20 dicembre - prendendo spunto dalla sparata-a-vanvera berlusconiana sulle case per tutti - avevo parlato dei danni provocati dal costruire ancora riducendo le già scarse dotazioni di aree libere verdi del nostro paese, e della possibilità di far fronte al bisogno di abitazioni ricorrendo alla gran quantità di alloggi vuoti esistenti. Mi rendevo conto ovviamente del carattere provocatorio di questo discorso (nessuno può pensare che certi processi si possano invertire di segno da un giorno all’altro) e concludevo augurandomi che almeno se ne parlasse.
Sono stato subito accontentato. Il 27 dicembre Vincenzo Simoni, segretario nazionale dell’Unione Inquilini ha risposto contestando - in termini cortesi - questa mia posizione. Anche se ne ha confermato la premessa, in sostanza, spiegando bene come e perché ai proprietari può convenire lasciar vuoti gli alloggi se non ne ricavano gli affitti che vogliono, e usarli come garanzie per ottenere prestiti in banca. Magari “per acquistare altre unità immobiliari”.
Dice altre cose che mi trovano in tutto d’accordo. Sulle aree ex-industriali “dismesse” da destinare preferibilmente alla costruzione di alloggi. Sul bisogno di nuove leggi per l’equo canone e il divieto di sfratto “per finita locazione”. Sul triplicare le tasse sugli alloggi lasciati sfitti (provvedimenti che già di per sé risolverebbero in buona parte il problemacase senza bisogno di costruirne di nuove: proprio come dicevo)... Cose, comunque, che comporterebbero “una totale inversione politica”: che non c’è perché “il dominio della rendita immobiliare è assoluto”, perché “le leggi favoriscono il libero mercato”, perché d’altra parte “l’immiserimento di milioni di famiglie” (dovuto anche al caro-affitti e ai mutuicasa) “è sotto gli occhi di tutti”.
Quindi il problema-casa rimane, così come restano gli obblighi di soccorso per gli sfrattati e di sostegno a chi non ce la fa a pagare l’affitto. Per ciò non possiamo permetterci di escludere il ricorso a nuove costruzioni. Sembra che non faccia una grinza. Se non fosse che...
Lui vede nella mia impostazione «uno iato tra quel che sarebbe giusto in ogni tempo e quel che si deve fare in una determinata situazione ». Sarà anche vero. Sta di fatto però che queste cose io e lui le andiamo scrivendo sul foglio di Rifondazione Comunista: una forza che si è dato come obiettivo proprio di cambiare le cose. Se non proviamo a guardare lontano su queste pagine, quando mai lo faremo?... Io perdipiù ragiono da ambientalista. Come dire che penso soprattutto al futuro. E se nel presente le necessità di cui parla Simoni sono incontestabili, non è per ciò meno vero che ogni metro quadrato di terra occupato dalle costruzioni è sottratto alla vegetazione - all’agricoltura e alla natura - per sempre. Per sempre.
Di questo aspetto del problema - del ruolo vitale delle terre libere da costruzioni - Simoni non parla. E non mi sta bene. Sta qui per me “lo iato della sua impostazione”. Sia chiaro: ha ragione nel senso che il bisogno di alloggi è attuale, concreto e quantificabile, mentre la necessità di salvare da edificazioni le aree libere è più diluita nel tempo e meno dimostrabile quantitativamente. Il che non toglie però che sia vera, e che sia destinata a pesare sempre più sulla qualità delle nostre vite e sul futuro di tutto il paese.
Per ciò non mi può star bene che non se ne tenga conto. Che vengano sottovalutate le possibilità (che ci sono, Simoni stesso ne dà conferma) di risolvere il problemacasa facendo ricorso in misura più vasta al patrimonio abitativo esistente. Che si continui e parlare alla vecchia maniera di “nuovi Piani di edilizia economica e popolare” senza tenerne conto, senza dare priorità sistematica a quest’altra possibilità. Non mi sta bene che sia liquidata sbrigativamente accennando a «francobolli urbanistici collegati a una estenuante sequela di modestissimi recuperi». Qui traspare, tra l’altro, una sorta di qualunquistica insofferenza per i “lacci e lacciòli”: la rassegnazione cioè all’incapacità comunale di amministrare la cosa pubblica in forme complesse con competenza e con cura. La paura di affrontare lo scabrosissimo tema del risanamento-rinnovamento dei modi di amministrare, essenziale per un paese che voglia dirsi civile.
Certo, è più facile tirar su metricubi su terreni sgombri che seguire decine e decine di casi diversi di acquisizioni di immobili. D’altra parte però se si fa il paragone fra i costi delle nuove costruzioni e le acquisizioni comunali possibili con gli stessi soldi, e magari anche fra l’occupazione che può venire dai nuovi cantieri o dai ri-adattamenti di costruzioni esistenti... Ma perché nessuno ha il coraggio di farli, quei conti?
In tutti i casi: parlarne non può che far bene. Spero proprio che “dopo” non capiti più a nessuno di sdottorare di ambiente in astratto ignorando i problemi concreti, né di imbarcarsi a fantasticare di maxiprogrammi edilizi senza un pensiero per i terreni sui quali dovrebbero sorgere. E che alle possibilità di risolvere i problemi abitativi all’interno delle zone già edificate si dedichi una attenzione molto ma molto maggiore.
Ultimo punto. Al mio accenno al malanimo degli assegnatari Ina-Casa degli Anni 50 nell’accedere ad alloggi assegnati “a scatola chiusa” Simoni contrappone il ricordo felice della sua giovinezza in un complesso Ina-Casa a Firenze. Sarà che io ho vissuto parecchie di quelle esperienze nel Sud dove ancora si faceva la fame, sarà che ricordo scene selvagge di distruzione e degrado di spazi e attrezzature comuni... Un episodio (semiserio) però ve lo devo. La consegna dei primi alloggi Ina-Casa a Palermo. Il vescovo, gli onorevoli, la benedizione, i discorsi: poi tutti dentro nei nuovi alloggi. E subito sui balconi, pennelli e barattoli di vernice alla mano, i giovanotti a pittare in rosso sui muri falci-e-martelli... Ricordo le facce dei democristiani di allora: «ma come? Non ci sono grati?» (tradotto: non voteranno per noi? ma allora chi ce l’ha fatto fare?)... E di Firenze Ina- Casa- “Isolotto” (bel quartierino, coi giardinetti pieni di rose) ricordo una distinta signora tutta indaffarata a spiegare che lei “lì” c’era capitata per sbaglio: «si immagini, con questa gente» e arricciava il naso... Non so se ho reso l’idea di quel che intendevo. E quanto alle iniziative sociali e politiche che nascevano allora in quei complessi e che Simoni ricorda (penso al quartiere Ina-Casa Tuscolano di Roma, a Giuliano Prasca che riuscì a far fare un campo sportivo su un’area destinata in progetto a un edificio-torre) non rappresentavano anch’esse una forma di ribellione contro quel tipo di ghettizzazione coatta? Non dimostravano la voglia di quei cittadini di decidere in prima persona?... Ha ragione Simoni. Cose da discutere ancora ce ne sarebbero tante.
Il governo battuto dall'opposizione rientra nel «normale» gioco politico. Meno normale che le truppe berlusconiane - la Casa delle libertà - si siano accanite contro la povera gente: sono al massimo 200 mila le famiglie a rischio di sfratto. Oltretutto. quello bocciato ieri al senato non era l'ennesimo blocco degli sfratti che per legge tutti i governi dal dopoguerra a oggi sono stati «costretti» ad approvare. Insomma, non si trattava di una legge generalista di blocco, ma di un decreto molto selettivo, visto che a essere garantite (per appena tre mesi) erano le famiglie a basso reddito e con figli a carico o con persone con seri handicap. O, ancora peggio, di famiglie con malati terminali o ultrasettantenni.
Che diranno ai loro elettori e alle loro coscienze i cattolici senatori dell'Udc? E come si giustificherà Fini con la sua base popolare che ricorda con nostalgia l'epoca delle case popolari del fascismo? Brinderanno alla vittoria della minoranza ottenuta sulle spalle di 200 mila famiglie? Il silenzio quasi assordante della Casa della libertà è un segnale che, forse, qualcuno un po' di vergogna ce l'ha. Al contrario dell'Uppi, l'associazione dei piccoli proprietari di case che ha brindato alla bocciatura. A conferma che ormai quasi tutto quello che è piccolo in Italia (a partire dalla struttura industriale) fa schifo. Di più: i piccoli proprietari non si rendono conto di essere una razza in via di estinzione che porta acqua unicamente ai grandi gruppi immobiliari che si sono impadroniti (esentasse) di enormi patrimoni.
Negli anni '70 nei cortei urlavamo «la casa si prende, l'affitto non si paga: questa è la nostra riforma della casa». Forse c'era un po' di estremismo. Forse. La riposta è stata l'equo canone che (secondo i padroni) ha ingessato il mercato. Ma quello che è peggio case in affitto non se ne trovavano più. Oppure l'affitto si doveva pagare (salato) in nero. Di qui, sempre dei padroni, la richiesta: liberalizziamo il mercato degli affitti. Vedrete che le case torneranno a essere disponibili e la concorrenza produrrà una riduzione degli affitti.
Ma non è andata così: gli enti pubblici, le assicurazioni hanno cominciato a vendere il loro patrimonio e milioni di famiglie la casa sono state costrette a comprarla. Con grandi sacrifici, mangiando «pane e sputo» come si dice a Roma. Gli immobiliaristi hanno poi fatto il resto: soprattutto nelle grandi città hanno comprato (e venduto) grandi quantità di immobili. Con loro sull'affitto non si tratta: arrivano con moduli prestampati dove la cifra è già scritta. E case di periferia diventano quasi care come appartamenti del centro. Prendere o lasciare.
L'Italia è all'ultimo posto in Europa per patrimonio pubblico abitativo. Un tempo era al primo posto: beati i tempi del piano «Fanfani case» quando lo stato direttamente o indirettamente costruiva case in abbondanza svolgendo (magari con qualche scandalo) il suo ruolo. Certo, i soldi molto spesso arrivavano dagli stessi lavoratori, attraverso la ritenuta (la Gescal) prelevata direttamente dalla busta paga. Ora quella ritenuta non c'è più, ma sono in molti a farsi forti con i soldi (il Tfr) dei lavoratori: i padroni e dal prossimo anno lo stato. In cambio i lavoratori non hanno nulla: potrebbero pretendere che il governo di centro sinistra utilizzi parte di quei soldi per finanziare l'edilizia per le famiglie con problemi economici e sociali. Epifani, Angeletti e Bonanni e Angeletti dovrebbero battere un colpo.
Titolo originale: More of the young and hip fight urban urge– Traduzione di Fabrizio Bottini
I giovani non sposati di solito amano le folle delle grandi città, la vivace vita notturna, il rumoroso e frenetico ritmo dell’esistenza urbana. Lo amano così tanto da essere disponibili a pagare cari prezzi per alloggi stipati e vita in comune.
Per qualcuno, il prezzo sta diventando troppo caro. L’attrazione delle mille luci della grande città si sta attenuando, ora che i prezzi delle case hanno raggiunto quote esorbitanti. Qualcuno che è cresciuto fantasticando della vita nella “grande città” si sta adattando in qualche centro meno fascinoso, o addirittura nel suburbi.
”Per molti giovani, soprattutto quelli cresciuti nel nord-est, ci sono due sole città: New York e Boston”, dice Nick Lentino, 31 anni, originario del Massachusetts occidentale.
Ma dove abita, Lentino? Hartford, Connecticut.
È un bel po’ distante dall’ambiente cosmopolita, dal ritmo rapido di New York o Boston: ma molto più buon mercato. Lentino si è appena comprato un alloggio di una camera, da 60 mq in un condominio ad appartamenti degli anni ’50 ristrutturato a meno di un chilometro dal centro. Prezzo: 95.000 dollari.
”Devo essere onesto. In certi momenti mi piacerebbe, essere a Boston o a New York” racconta Lentino, assistente del direttore per le iscrizioni al Goodwin College di Hartford. Ma anche così, ogni volta che ha qualche attacco di rimpianto, va a New York per un fine settimana in visita da amici, i quali spendono il doppio di quanto lui paga di mutuo per affittare uno spazio che è la metà del suo.
”Non riesco a immaginare come la gente riesca: a) a risparmiare soldi oppure b) sopravvivere da uno stipendio all’altro per tutto l’anno” dice Lentino. “A Boston è lo stesso. I miei amici sono arrivati al punto di non potercela fare più appena i genitori hanno tagliato i rifornimenti”.
Alcune ricerche stanno cominciando a documentare le difficoltà di alloggio per i giovani a New York e in alte aree metropolitane ad alto numero di ottani. Il Center for an Urban Future, gruppo di ricerca di New York, e la Mt. Auburn Associates, società di consulenza per lo sviluppo economico, hanno reso noto recentemente un rapporto che conclude: “L’alto costo di spazi per lavoro e alloggi a New York ha spinto un numero crescente di artisti e lavoratori creativi a decidere che semplicemente non vale la pena di stare lì: in particolare quando altre città offrono incentivi per spostarsi”.
Il rapporto cita il progetto del sindaco Michael Bloomberg per nuovi 65.000 alloggi in tutta la città e il sostegno alla creazione di spazi per gruppi culturali.
Robin Keegan, co-autrice del rapporto, dice che New York può ancora attirare persone giovani e creative appena uscite dal college, ma il problema è dove andranno a stare. “Si arriva ad un punto in cui il costo della vita è davvero cruciale” sostiene.
Filadelfia, talvolta oggetto di battute per la sua mancanza di attrattiva se paragonata alla vicina New York, ora viene promossa da alcuni ex residenti della Grande Mela come “un nuovo quartiere”. Sta attirando piccole quantità di giovani del mondo artistico dalle zone costose di Manhattan e Brooklyn.
Le città diventano di tendenza, e costose
I giovani non hanno smesso di sciamare verso gioielli urbani come San Francisco, Chicago, Boston o New York. Uno studio recente condotto da CEOs for Cities, un gruppo con base a Chicago di leaders urbani, mostra come i giovani da 25 a 34 anni nelle 50 principali aree metropolitane siano tre volte superiori a quanti fossero negli anni ’80, entro cinque chilometri dal centro città. La ricerca si basa sul dati del censimento 2000, rilevati prima che lievitassero i prezzi immobiliari.
”Sono molto importanti per le città” dice Joe Cortright, economista di Portland, Oregon, che ha condotto la ricerca per CEO. “Sono il sogno demografico dei settori HR ( human resources) delle imprese in rapida crescita”.
Anche i residenti suburbani più radicati stanno riscoprendo le gioie della città. I costruttori convertono vecchie fabbriche e uffici in costosi loft, e i pensionati coi fondi più ricchi o le famiglie senza figli li prendono la volo. I quartieri urbani operai vengono ristrutturati e elevati di livello.
La rinascita della moda urbana fra le persone di tutte le età sta rendendo l’abitare in città meno alla portata di giovani e non agiati.
”Diciamocelo, le mille luci non brillano così tanto come quando questi erano centri terziari” dice William Frey, demografo alla Brookings Institution, un think tank. “La priorità assoluta è di avere una casa a prezzi accessibili”.
Ma molti elementi spingono nella direzione opposta.
• Il costo delle case. Il prezzo medio USA per un alloggio unifamiliare era in ottobre di 218.000 dollari, secondo la National Association of Realtors. È più del triplo di questa cifra nell’area di San Francisco ($ 721.900), più del doppio a New York ($ 461.100, senza contare Manhattan), e circa il doppio a Boston ($ 430.900). Sono in aumento anche i prezzi degli affitti.
Le persone che guadagnano un reddito medio possono permettersi solo il 2% delle case nell’area di Los Angeles e il 24% a Boston.
”Il peggior nemico di un vero rinascimento urbano è stata la spinta eccessiva in alto e la speculazione sul mercato delle zone centrali” afferma Joel Kotkin, ricercatore anziano alla New America Foundation, un think tank [piuttosto di destra e notoriamente pro- sprawl n.d.T.], autore di The City: A Global History. “Costruiscono questi condomini, e sono così supervalutati ... Molti di questi posti non sono certo costruiti per giovani”.
Laris Kreslins, che pubblica Arthur, rivista di arte, politica e cultura, sostiene di essersi indebitato per vivere a New York. Se ne è tornato a casa, nel seminterrato della abitazione dei genitori a Gaithersburg, Maryland, suburbio di Washington, D.C.
”È un modo per rimettermi in piedi” dice. Lavorava a tempo parziale in una scuola privata e gestiva la rivista. Poi insieme alla sua ragazza Kendra Gaeta hanno scoperto Filadelfia. Hanno comprato una casa da quattro camere all’inizio del 2005 vicino al Philadelphia Museum of Art. Ora gestiscono un sito web - movetophilly.com – che propone occasioni di alloggi e quartieri di tendenza.
”Tra le persone della mia età e ceto, quello che sento è che la maggior parte lavora molto, ma non riesce a risparmiare perché vive e paga affitti in posti come L.A. o New York” racconta Kreslins, 30 anni. “Si chiedono, 'Perché sto in affitto quando potrei spendere gli stessi soldi in un mutuo?'”
• Flessibilità nel lavoro. Le imprese che si collocano all’interno di mercati della casa difficili stanno in qualche modo rispondendo. Bill Trenchard, direttore generale di LiveOps, compagnia di teleservizi a Palo Alto, California, nell’area della baia di San Francisco, dice che vuole avere dipendenti in ogni parte degli USA.
”Cervelli, talenti, ovunque si trovino” dice. “È la vera trasformazione di atteggiamento rispetto a cinque anni fa, o anche solo due, quando pensavamo che ci fossero enormi vantaggi ad aver gente dentro l’edificio”.
La LiveOps ha dipendenti che stanno anche in Ohio. Si tratta tendenzialmente di dipendenti giovani, molti ventenni e trentenni.
Ci sono mercati della casa completamente fuori dalla realtà” sostiene Richard Florida, professor alla George Mason University di Fairfax, Virginia, e autore di The Rise of the Creative Class. “Non esiste più un punto di ingresso per i giovani”.
Florida ritiene che la creatività giochi un ruolo tanto importante nell’economia del 21° secolo che le città devono adattarsi ai bisogni del pensiero creativo: si tratti di artisti o di ingegneri. Uno dei modi è lasciare che la gente lavori dove può permettersi di vivere.
Elizabeth Howie, originaria di Seattle di 27 anni, era determinata a vivere una vita di città. Quale posto migliore di San Francisco? Laureata in scienze alla UCLA, ha trovato lavoro in una impresa di biotecnologie nella zona a sud di San Francisco. “Era molto importante abitare in città, essere un giovane in città ... vivere in una zona che aveva molti ristoranti, bar” racconta.
Era disposta a pagare il prezzo: 4.200 dollari al mese per l’affitto di un appartamento da tre camere che condivideva con altre due persone. Impiegava 30 minuti per andare al lavoro.
”Era pazzesco, ma sapevamo che si doveva pagare per vivere in città” ricorda la Howie.
Poi se ne andò, da San Francisco. Il mercato degli affitti ribassò con l’esplosione della bolla high-tech nel 2000, ma pagava ancora 1.100 dollari al mese, e condivideva lo spazio con altre due persone.
”Vedevo molti miei amici che non abitavano a San Francisco comperare casa” dice. “Io a San Francisco non poteva farlo” anche con un salario attorno ai 60.000 dollari. “Se avessi continuato ad abitare in città, non so se sarei stata in grado di comprare casa”.
La Howie lasciò il suo posto di account manager alla LiveOps è si spostò di 150 km sino a Sacramento, capitale dello stato e non particolarmente nota come luogo di tendenza. Ha comprato una casa da tre camere con giardino a 390.000 dollari. L’edificio è aumentato di valore per 50.000 dollari in sei mesi. Ci abita col suo compagno, che ha aperto un ristorante rivolto ai palati raffinati di Sacramento, quegli abitanti che sono fuggiti dagli alti prezzi della costa della California.
La LiveOps le ha ridato il lavoro. Opera da casa sua a Sacramento e va negli uffici di Palo Alto ogni settimana.
• Suburbi urbani. La maggior parte dei posti di lavoro si trova a più di 5 chilometri dai centri città, nei suburbi e negli esurbi. Con più gente a lavorare dove abita, i quartieri dormitorio iniziano ad assumere l’aria di città vive 24 ore al giorno. “Se lavori nella cintura esterna di Houston, abitare in centro diventa meno attraente” sostiene Kotkin.
Nei sobborghi più lontani di Washington, D.C., vicino al Dulles International Airport, imprese high-tech come America Online, Oracle e altre hanno creato migliaia di posti di lavoro per giovani qualificati.
”Ora esistono nel suburbio possibilità che non si sono mai verificate prima” dice Kotkin. “Chi è nomade nel mondo dell’alta tecnologia, di fatto si sposta da un suburbio all’altro”.
Condomini, appartamenti e case di città crescono attorno alle zone centrali nelle aree più lontane dei sobborghi di Washington; a Naperville in Illinois, a ovest di Chicago; o a Long Beach, la cittadina porto della California a sud di Los Angeles. Bar, ristoranti, caffè, cinema – ritrovi ubiqui vuoi per la bohéme che per lo high-tech – spuntano ovunque nel suburbio. Alcuni dei negozi alternativi o dell’usato più di tendenza sono ora nelle vecchie fasce commerciali suburbane, dove gli affitti sono più alla portata.
”Si vede qualche fettina di bohéme dappertutto: non solo nei sobborghi ma anche in cittadine di seconda o terza fascia, come a Utica (N.Y.)” dice Robert Lang, direttore del Metropolitan Institute alla Virginia Tech.
• Voglia di andarsene da casa. Jill Markward, 25 anni, è cresciuta a Long Island, all’ombra di Manhattan. Dopo il college, ha lavorato nelle ricerche di mercato, ma “Dovevo vivere ancora coi miei perché era tropo caro”.
La Markward ama l’ambiente artistico e di musei di New York, ma sapeva che avrebbe dovuto vivere dai suoi se fosse rimasta nell’area. Quando ha trovato un altro lavoro alla JetBlue Airways, si è trovata con due possibilità di collocazione: il John F. Kennedy International Airport, a 20 minuti da casa dei suoi, oppure il Fort Lauderdale-Hollywood International Airport.
Markward ha scelto la Florida. Ora condivide un appartamento di due camere con una coppia in un complesso vicino all’aeroporto con piscina, idromassaggio e palestra. La sua quota è di 400 dollari al mese.
”Se fossi a Long Island, potrei trovare un appartamento da due camere a 1.200 dollari, ma sarebbe nel seminterrato di qualcuno in un quartiere suburbano” racconta Markward. Sarebbe solo una stanza, senza lavatrice o asciugatrice”.
Un’indagine dei ricercatori della Stony Brook University di New York, ha rilevato che il 70% degli abitanti di Long Island con età dai 18 ai 34 anni stanno considerando la possibilità di andarsene, contro il 62% dello scorso anno. I motivi comprendono gli affitti costosi a causa della mancanza di appartamenti, e case tanto care da non poterne comprare una.
La percentuale di chi vive in famiglia è salita dal 31% dello scorso anno al 45% di ora.
”Certo non è New York City” racconta la Markward della sua nuova casa a Hollywood, Florida. “Ma posso guidare fino a Miami in 30 minuti. ... C’è meno traffico. Il tempo è magnifico”.
Leggo il programma per la Scuola di Eddyburg 2006. I temi da discutere per “costruire la città pubblica” sarebbero la casa, la mobilità, l’ambiente. Penso al primo tema, a quello che negli anni dell’impegno ‘dei professori’ verso i sindacati dei lavoratori e degli inquilini si chiamava Il problema della casa. Sono passati trent’anni dall’affollato seminario con questo titolo al Politecnico milanese nei mesi di maggio e giugno 1976. Erano ancora vivi gli effetti culturali dello sciopero generale per la casa che nel 1969 aveva bloccato l’intero paese. La condizione abitativa non poteva essere cambiata sostanzialmente; ma i risultati delle elezioni amministrative del 1975 e delle elezioni politiche del 1976, con il primato democristiano messo in discussione dal successo del Partito comunista, contenevano anche la convinzione dei lavoratori di poter finalmente ottenere una maggior giustizia sociale quindi anche il diritto all’abitazione equa, equa per qualità e prezzo ma anche per posizione rispetto al luogo di lavoro.
La storia del paese era già corsa in un altro senso e così procederà. Le storie particolari dell’urbanistica e dell’architettura sono storie di crisi degli ideali e, per questo, di alienazione all’interesse privato e al traffico politico. La “casa”, come avrebbe potuto corrispondere alle vecchie rivendicazioni e aspettative?
Pochi mesi fa i politici e molti fra sociologi e urbanisti erano propensi a ritenere il problema risolto grazie alla diffusione della proprietà dell’abitazione, infatti sembravano accettare stime non credibili, come quella enunciata da Berlusconi nelle sue disperate esplosioni, 86 %. La proprietà all’ultimo censimento riguardava il 71% delle famiglie, non può essersi tanto estesa in soli quattro anni. Intanto i fatti hanno mostrato la verità indipendentemente dalla diatriba intorno, come recita la burocrazia, al “titolo di godimento dell’abitazione”. I cittadini privi delle risorse necessarie per comprare o vessati dagli affitti esosi o comunque privi di un alloggio decente sono tornati in piazza per rilanciare i vecchi proclami sul diritto alla casa. Certi politici e amministratori locali si svegliano e riconoscono la crisi abitativa emergente soprattutto nelle città maggiori, sanno che non la si può nascondere dietro la scusa che essa riguarda una minoranza della popolazione. A Milano entrambi i candidati alla carica di sindaco hanno indicato questo problema come centro del loro impegno. L’imprudente Letizia Moratti ha promesso addirittura la costruzione di 45.000 alloggi popolari, una cifra assurda, fuor di ogni effettiva possibilità di realizzazione, tuttavia di per se stessa segno di un mercato edilizio pieno di offerte d’affitto del tutto sfasate rispetto alla domanda proveniente dai lavoratori, in particolare gl’impiegati sia stabili sia precari che nel settore terziario delle aree urbane metropolitane rappresentano il ceto operaio del nostro tempo: per salario, fatica, stress da lavoro e da insensato pendolarismo.
La radicale separazione fra i mercati del lavoro e dell’abitazione è il cuore del problema nelle metropoli. Diritto alla casa giusta, scontata la ragione del prezzo equo – affitto o ammortamento del mutuo – significa in definitiva per i lavoratori diritto a risiedere nella città pubblica in modo da ridurre a una misura umanamente accettabile, com’è concesso ai ceti dtentori di alti redditi, tutte le componenti penose: totale incongruenza fra luogo di residenza e luogo di lavoro, perdita di ore negli spostamenti, appartenenza della casa a contesti edilizi brutti e carenti di servizi, insufficienza dimensionale e bassa qualità funzionale e architettonica dell’alloggio.
Il tema della casa nella città pubblica coincide col progetto di restituire alla città la sua natura residenziale sottrattagli dal processo economico sociale liberistico. L’ente pubblico ha favorito il processo invece di controllarlo: per non aver adottato l’ottica dei diritti dei lavoratori e invece aver accettato la sudditanza a una trasformazione terziaria finanziaria in buona parte speculativa. Un immobiliarismo produttore di rendite gigantesche distrugge la residenza urbana nella città madre del contesto metropolitano e ne getta al di fuori gli abitanti. Si dirà che, oggi, è alla dimensione più ampia che dobbiamo guardare. Ma è proprio tale visione che ha permesso di evidenziare la negazione del compito storico della città.
Uno sguardo alla storia della città e del territorio offre subito un buon appiglio: tra tipo di città (o di territorio) e forma di sviluppo sociale esiste una sicura relazione. Si potrebbe rileggere il famoso saggio di Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, 1858 (in Scritti storici e geografici, Le Monnier, Firenze 1957, vol. II, pp.393-437) e il primo bellissimo saggio della Storia d’Italia Einaudi dovuto a Lucio Gambi, Valori storici del quadri ambientali (in vol. I, I caratteri originali, Torino 1972, pp. 5-60).
La piena espansione del capitalismo attraverso la rivoluzione industriale – il modello abituale cui ricorriamo è l’Inghilterra dal XVIII secolo – procede specialmente per concentrazione in aree relativamente ristrette dopo la fase primitiva della manifattura nelle campagne, una sorta di lavoro a domicilio diremmo oggi (noi italiani ricordiamo come la prima industria delle seta nascesse nelle masserie dedite all’agricoltura povera della pianura asciutta a nord di Milano). Alla concentrazione territoriale della produzione e del lavoro consegue una domanda di concentrazione delle abitazioni che di fatto è un comando cui gli operai devono sottostare e diventare così oggetto del doppio sfruttamento, nel lavoro e nell’abitazione.
Da questo momento il problema urbano può essere considerato anche come problema dell’abitazione dei lavoratori. Del tutta secondaria l’avvertenza che allora il lavoro prevalente fosse da operaio e oggi da impiegato di mediocre livello.
Mentre fino al XVIII secolo i motivi che spingono la popolazione ad ammassarsi (sappiamo che prima nelle città viveva una piccola minoranza) non sono collegati strettamente alle necessità di un modo specifico di produzione, con la città industriale capitalistica esigente il pieno controllo e sfruttamento della forza di lavoro la scelta circa il modo di abitare e il tipo di abitazione si riduce fino ad annullarsi. Ripassando l’analisi sociale e urbana di Engels in La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845 (Editori Riuniti, Roma 1973), magari aggiungendo l’interpretazione di Renzo Stefanelli nell’introduzione di La questione delle abitazioni in Italia (Sansoni, Firenze 1976), troviamo logico che il limite fosse la perdita della salute, la degradazione sociale se non la morte.
Possiamo arrischiare un qualche principio, una teoria valida per allora e, riguardo alla essenza di una condizione sociale che nell’insieme non osiamo paragonare, per oggi? Sì, anzi possiamo scrivere una specie di equazione non vergognandoci di ricorrere a uno schema di tipo storico dialettico:
remunerazione del lavoro dipendente uguale alla sommatoria dei mezzi di sussistenza, comprendendo in quest’ultimi l’abitazione, ossia una componente indispensabile della riproduzione, questa necessaria, benché di misura variabile, per assicurare la produzione, in qualsiasi maniera vogliamo considerarla per l’allora e per l’oggi.
Peggiore abitazione, peggiore salario
La peggior abitazione, come il peggior salario, appunto il limite di cui sopra, è relativa alla condizione storica dei rapporti riproduttivi e produttivi, compreso il livello raggiunto dalle conquiste sociali dei lavoratori. È grande la differenza di situazioni medie distanti due secoli e mezzo, ma è innegabile che l’odierno capitalismo mondiale presenta geografie talmente differenti entro la famigerata globalizzazione da sbatterci in faccia anche modelli salariali e abitativi persino travalicanti il confine della sopravvivenza, come nelle miniere inglesi del Settecento o, per il merito del tema qui in causa, nella Manchester studiata da Engels: anche nel nostro paese, per il quale un Engels nostro contemporaneo potrebbe ricavare narrazioni terribili da come molti immigrati abitano nelle nostre città. E non solo qui se posso citare, fra mille casi, quello di Cassibile in Sicilia dove immigrati africani, come schiavi destinati alla raccolta delle patate, lavorano dodici ore al giorno per trentacinque euro e “abitano” in un boschetto in condizioni peggiori che nella più atroce delle bidonville africane o sudamericane – vedi in “la Repubblica” del 6 giugno. Ad ogni modo la realtà storica dimostra che operai e altri lavoratori consimili hanno sempre avuto un salario al di sotto della soglia d’accesso a un’abitazione nella città “privata” coerente ai bisogni.
Un esclusivo mercato delle abitazioni nelle mani dei proprietari fondiari e degli stessi industriali è stata la preminente causa strutturale che ha promosso fin dalla prima metà del XIX secolo gli atti di governo (stati, municipi, altri enti pubblici d’ogni tipo, associazioni assistenziali e morali) finalizzati alla costruzione di abitazioni pubbliche. La cultura delle riforme incentrata sulla politica sociale per la casa e la città si espanderà decisamente in Europa nel XX secolo, in certi periodi e in relazione a specifiche situazioni politiche. E sarà parte fondamentale della cultura socialdemocratica europea fino a oggi; anche quando si esalterà su posizioni più radicali, esempio doveroso il riferimento teorico all’austromarxismo che ispirerà le scelte del Comune di Vienna negli anni Venti per la realizzazione di grandi corti di abitazione sociale dentro al corpo vivo della città, senz’altro decisive per il ribaltamento del mercato.
Si è detto che la politica della casa e dei quartieri pubblici, salvo casi eccezionali come nella “Vienna rossa”, ha svolto il compito che le classi dominanti intrise di occorrente illuminismo gli hanno assegnato. Lo scopo, assicurare la riproduzione della città capitalistica, entità sociale e fisica dove i rapporti di forza e di potere fra le classi sarebbero inevitabilmente favorevoli al profitto e alla rendita. Insomma, occorreva impedire gli effetti di un eccessivo disordine sul funzionamento dell’economia, evitare le pericolose ripercussioni sociali derivanti dalla mancanza di una qualche risposta all’insopportabile condizione abitativa dei lavoratori. L’evoluzione della realtà ha messo in gioco ben altre motivazioni e complicazioni. Anche laddove si ponga l’obiettivo di mediare fra i diversi strati sociali l’intervento pubblico detiene un’importanza indiscutibile; persino, secondo Stefanelli, indipendentemente dalla quota assoluta di abitazioni che contribuisce a edificare poiché esprime comunque condizioni nuove. Ho qualche dubbio. Se l’iniziativa pubblica vuole incidere in maniera significativa sul mercato della casa, la quantità, unita all’adeguatezza dell’ubicazione urbana e dell’architettura, è essenziale.
L’abitazione pubblica in Italia nella prima metà del novecento
Le vicende dell’abitazione pubblica in Italia si discostano da quelle in altri stati europei che la cultura urbanistica italiana ha spesso citato come esempi desiderabili.
Il regolamento di attuazione della Legge Luzzatti (1904) instaura criteri minuziosi relativi alla Casa economica e popolare pubblica, e privata qualora l’imprenditoria scelga di costruire case di quel tipo (standard per le parti fondamentali dell’abitazione, piani particolareggiati per i quar-tieri). Le precisazioni del Testo unico del 1908 creano le basi per realizzazioni come le Borgate di Roma e i Villaggi di Milano mentre comincia ad affermarsi l’attività degli Istituti autonomi per le casi popolari (Iacp), concentrata soprattutto nelle due grandi città.
Da ora in avanti l’intervento pubblico, entro un’apparente unificazione dei diritti definita dal tetto qualitativo della tipologia sovvenzionata, appare differenziato secondo il tipo di istituzione e tende a selezionare i gruppi sociali fra quelli che possono permettersi l’onere di un mutuo finalizzato alla proprietà dell’alloggio e gli altri che possono pagare solo un canone modico.
Lo schema selettivo si raffinerà col celebre Testo unico del 1919, responsabile della chiarezza, per così dire, con cui si attua la divisione classista dei destinatari secondo procedure le cui conseguenze saranno irreversibili. Punto di snodo è la scissione della precedente definizione unica della casa in due spezzoni, Casa economica e Casa popolare, insieme alla separazione fra ceto operaio e ceto medio impiegatizio. Alle due categorie attengono differenze secondo tre titoli: ente realizzatore, modo di assegnazione/utilizzo dell’abitazione, caratteristiche tipologiche e funzionali. Al ceto operaio spetteranno in Case economiche a proprietà indivisa alloggi del Comune, dell’Iacp, eccetera, assegnati in locazione, dotati al massimo di tre locali, di servizi ridotti, di finiture scadenti; all’altro ceto, appartamenti in Casa popolare cooperativa assegnati ai soci anche in proprietà individuale, ampiezza fino a sei vani, accesso da ripiano scala (negazione del disimpegno “collettivista” a ballatoio), rifiniture di ottima qualità.
Gli sviluppi successivi non potranno che confermare la tendenza. Le politiche economiche delle classi dirigenti e il consolidamento del fascismo premuroso verso i ceti medi provocheranno l’inversione del peso dei ceti sociali destinatari degli alloggi Iacp. A Milano fra il 1909/10 e il 1926/27 gli utenti operai delle case dell’istituto diminuiranno dal 67% del totale al 47 % (dati in D. Franche e R. Chiumeo, Urbanistica a Milano in regime fascista, La Nuova Italia, Firenze 1972, una ricerca esemplare).
Il regime fascista attua piani regolatori caratterizzati dagli sventramenti nelle parti centrali e popolari della città coerenti alla propensione dell’economia urbana a spostarsi dalla produzione alla finanza e soprattutto, o in ogni caso, alla speculazione immobiliare. Ne fanno le spese le famiglie operaie residenti nel cuore urbano: “i lavoratori vengono respinti dal centro della città alla periferia, le case operaie, e comunque i piccoli appartamenti, diventano rari e cari, e spesso non si trovano affatto”. Scritto da qualche storico in epoca post-fascista? No, da Engels, ancora, nel 1872 (La questione delle abitazioni, edizione italiana Rinascita, Roma 1950, parte seconda, I).
L’attività degli Iacp, ancorché lontana da una risposta alle esigenze quantitative nemmeno sommandovi quella del Comune e di altri istituti, pende, si è visto, verso un ruolo classista e lo accentua selezionando i destinatari anche mediante la localizzazione. A Milano gl’insediamenti di buona qualità in zone anche appena oltre la circonvallazione “spagnola” oggi delimitante il centro storico, sono riservati agli impiegati. Saranno questi gli alloggi a essere messi in vendita o a riscatto massicciamente a partire dalla fine degli anni Settanta grazie alla nuova politica degli Istituti e del Comune, decisi a entrare nel mercato anziché a contenderlo come avrebbe dovuto suggerire la loro natura originaria pubblica e sociale.
Per parte sua il Movimento moderno, pur al corrente della rivoluzione razionalista europea, non riesce a sperimentare in concreto ed estesamente una nuova urbanistica e una nuova architet-tura della casa popolare. Quante volte ci siamo trovati a “salvare” la città fascista di Sabaudia? Non riuscivamo a trovare altro. E poi verrà il bravo Ferreri ad ambientarvi un film dove la città pontina apparirà, oltre che metafisica, davvero bella… I veri problemi urbanistici della città e il problema della casa nella città per i lavoratori restano aperti, drammatici. (vedi Avere non avere casa a Milano la citazione dell’Indagine sul problema delle abitazioni operaie in provincia di Milano di Piero Bottoni e Mario Pucci, pubblicata sorprendentemente nel 1939 dall’amministrazione provinciale: operai delle fabbriche urbane, residenti milanesi o pendolari settimanali, costretti ad “abitare” in stalle di cascine abbandonate e fatiscenti, baracche, tettoie ai confini comunali e nei comuni prossimi).
Il dopoguerra
Nel dopoguerra certi spunti ritenuti ancor oggi positivi offerti dalla prima autentica legge urbanistica italiana, 17 agosto 1942, saranno smentiti dai fatti. La ricostruzione edilizia nelle città bombardate sulla base di una serie di decreti a cominciare dal marzo 1945 e infine della legge del 27 ottobre 1951 scatenerà gli speculatori fondiari e i costruttori avidi di enormi cubature aggiuntive. La questione delle casa per i lavoratori, il principio di nuovi quartieri popolari di qualità troveranno poche occasioni per trasformarsi in risultati soddisfacenti. Ci siamo ridotti a nominare sempre gli stessi casi che non voglio riproporre qui. L’attività degli istituti susseguitisi dal dopoguerra, Pioo (Piano incremento occupazione operaia), Ina-casa, Gescal…, oltre ai precedenti Iacp, Incis e via a elencare, le scarse iniziative dei Comuni – per tacere dell’assenteismo sociale delle grandi aziende verso i dipendenti – quando approderanno a insediamenti di edilizia sovvenzionata di un certo rilievo quantitativo li accetteranno come mal progettati, ultra-periferici, privi di buoni servizi, scadenti d’architettura.
Il direttore di “Urbanistica” Giovanni Astengo sul primo numero della nuova serie dopo la guerra (luglio-agosto 1949) lamenta il troppo magro attivo del bilancio urbanistico, “disorganica sequenza di opere pubbliche… disordinata e maldestra ricostruzione dei centri urbani grandi e piccoli… massimo sfruttamento… poco felici e purtroppo numerosi esempi di costruzioni del Genio civile e di altri Enti… precisamente quella situazione di disordine che una seria e positiva azione di programmazione urbanistica avrebbe potuto facilmente prevenire e superare”. Astengo indica la causa del fallimento nella “impreparazione psicologica e tecnica dei politici, degli amministratori, del pubblico”, nella arretratezza della maggioranza degli urbanisti che “nell’anteguerra correvano dietro alle lusinghe degli sventramenti o delle piazze imperiali… e dei puri tecnici che si occupavano unicamente di strade e di allineamenti”, e anche nella polemica razionalista “che non ha molto giovato a preparare la strada all’urbanistica moderna”. Giuste lamentele e denunce, ma insufficienti. Astengo probabilmente non può ancora avvedersi dei cambiamenti nella società che avrebbero determinato l’evolversi della situazione urbana, e in particolare della “casa”, in senso contrario alle speranze coltivate dagli architetti di sinistra dopo la Liberazione. È già in azione l’alleanza fra i detentori delle posizioni urbane di potere economico, industriale finanziario fondiario, e la Democrazia cristiana, che deve d’altronde gestire coerentemente la vittoria del ’48 conseguita su posizioni anticomuniste/antisocialiste e restauratrici dell’ordine sociale dell’anteguerra: sicché deve assicurare mediante sia i bassi salari sia la completa libertà di sfruttamento edilizio i massimi livelli del profitto e della rendita e le nuove opportunità di lucro aperte dalle manovre congiunte su entrambi. Non sarà difficile costruire attorno a un tale programma un blocco sociale comprensivo di altri ceti oltre alla borghesia imprenditrice-renditiera agendo lungo due linee politico sociali: creare assenso o acquiescenza con mezzi clientelari permessi dai forti margini delle operazioni speculative, approfittare dell’oggettivo bisogno di casa incanalandolo specialmente verso una domanda di casa in proprietà.
Nei decenni successivi il modello non subirà modifiche significative. Quando le lotte operaie del 1962-63 riusciranno a rompere la logica dei bassi salari (esemplare il contratto strappato all’Alfa Romeo) rendendo un po’ più incerta la cuccagna dei facili profitti senza il minimo impegno negli investimenti per la ricerca né tanto meno per l’abitazione sociale, sarà il piatto della rendita che si sposterà più in alto. Non saranno la prima legge moderna per l’edilizia economica popolare, quella del 18 aprile 1962, ampiamente elusa o applicata malamente in Piani di zona urbani periferici perfettamente idonei a non impedire ai padroni del territorio di continuare a mettere le mani sulla città come e dove vogliono, o la cosiddetta legge ponte del 6 luglio 1967 (col famoso, rovinoso anno di franco) a impedire che entro gli anni Sessanta lo sfruttamento capitalistico della città e del territorio diventi puro e semplice saccheggio.
Quando nell’ottobre 1971 sortirà in funesto ritardo una legge esplicitamente rivolta alla “casa” (la 865, chi la ricorda più, a destra e a sinistra?) si potranno coltivare ben poche speranze di riparazione a una lunga storia di misfatti urbanistici ed edilizi che hanno stravolto tutto il nostro stare, vivere, appunto sperare.
Così il cerchio si richiude su quella memoria dell’estate 1976 e si riapre ai cenni sull’attualità. Nonostante tante famiglie proprietarie la casa equa della città pubblica non c’è per i lavoratori soggetti alle nuove forme di sfruttamento. Persino ciò che avrebbe potuto costituire la base per nuove proposte puntando sul patrimonio pubblico esistente nelle maggiori città, Roma e Milano in testa, ha tradito l’attesa, anche per l’incredibile noncuranza se non silenziosa condivisione della sinistra. La vendita di intere case d’abitazione pubbliche in posizione urbana strategica preferibilmente a un unico imprenditore, cacciandone i vecchi inquilini dietro la scusa della ristrutturazione, dopo le prime prove alla fine dei Settanta – vedi sopra il cenno relativo a Milano – è diventata ben presto la regola (Avere non avere casa a Milano, 18 marzo 2006). Anche il cambiamento in ogni regione del titolo degli enti deputati alla realizzazione e gestione di alloggi teoricamente pubblici, da Istituto ad Azienda, ha un netto significato, certo non solo simbolico. Sono sparite le parole giuste, “casa”, “popolare”, “economico”. Per esempio A l e r, Azienda lombarda per l’edilizia residenziale: un’azienda come un’altra dentro il calderone della privatizzazione, del liberismo, della società antisociale. Chi se ne frega della città pubblica?
0. Rientrare a casa
Il tema della casa, ed in particolare il problema abitativo che interessa le aree deboli della domanda sociale, sembra essere tornato, dopo anni di silenzio e di scarsa attenzione, nella discussione pubblica.
Si tratta di un ritorno non ciclico che trascina con sé profondi cambiamenti. Cambiamenti che costituiscono una premessa imprescindibile sia per la costruzione di quadri di comprensione appropriati che per la progettazione di percorsi di trattamento efficaci: un nuovo campo e nuove regole, mentre rendono superati i modelli di risposta utilizzati in precedenza, aprono a possibili e necessari nuovi giochi.
1. Ripresa rispetto a cosa e ripresa perché?
La questione abitativa entra nell’agenda pubblica tra la fine del 1800 e l’inizio del secolo ventesimo come aspetto non marginale da affrontare per restituire alla città dignità, decoro, igiene. Dal 1860 al 1902 Milano passa da 186.000 abitanti a 442.000.
La trasmissione di malattie e di pestilenze, il rischio di contagio e di diffusione di infezioni rendono gli insediamenti fatti di baracche, gli accampamenti provvisori e autocostruiti, le strutture abitate in stato di abbandono focolai pericolosi e insalubri, una minaccia da eliminare e comunque da evitare. Il modo in cui la questione abitativa si presenta ed è costruita all’inizio del Novecento porta a tenere insieme interessi pubblici e privati: lo IACP viene costituito nel 1908 con Regio Decreto, dopo approvazione del Consiglio Comunale e dietro istanza presentata dal Sindaco, come organismo “i cui scopi e fondamenti risultano essere quelli di un ente morale prevalentemente di indole sociale e di assistenza pubblica, esulando completamente il concetto del profitto con l’obiettivo di dare alle classi popolari alloggi quanto più possibile sani e comodi a prezzi quanto più possibile limitati” (Guerrieri 2000).
Partecipano alla fondazione del nuovo Ente il Comune di Milano con denaro liquido e attraverso l’apporto di aree e immobili, la Cassa di Risparmio, il Monte di Pietà, la Banca Popolare, la Banca Commerciale, la Banca Cooperativa Milanese. L’Istituto, nel 1920 arriva a coinvolgere Pirelli e Breda per la costruzione di villaggi operai. Ospita inoltre il ‘consiglio degli inquilini’, organo di rappresentanza degli abitanti della case pubbliche e parte integrante dell’assetto organizzativo-istituzionale dell’ente.
Nel 1923 l’Istituto viene commissariato dal Prefetto; un nuovo regime si profila per l’Istituto (e non solo per l’Istituto) che fino all’inizio degli anni Trenta procede instancabilmente nell’opera di realizzazione di nuovi alloggi: tra il 1926 e il 1929 sorgono venti nuovi quartieri: i vani passano dai 13.100 per circa 6.000 famiglie circa a 30.850 vani per 13.500 famiglie (Broglio 1929).
Si tratta di una seconda fase della storia della casa popolare che vede negli anni venti e trenta un periodo importante di crescita e di diversificazione tipologica (alla casa popolare si affianca la casa economica, gli alloggi ultrapopolari definite anche case per gli sfrattati, le ‘case minime’ dei quartieri Trecca, Baggio, Bruzzano e Vialba).
Il riordino delle strutture deputate alla realizzazione e alla gestione delle case pubbliche porterà ad una articolazione ‘provinciale’ degli Istituti e alla creazione di un organismo che andava a centralizzare l’attività dei diversi Istituti (non più così autonomi): il Consorzio nazionale a carattere obbligatorio fra gli istituti autonomi per le case popolari, ente intermedio fra le articolazioni periferiche e il Ministero dei Lavori Pubblici.
Spinto anche dalla retorica fascista antiurbana e dall’intenzione mussoliniana di sviluppare una politica di bonifica sociale e di contenimento dell’espansione urbana l’attività dell’Istituto milanese si sposta decisamente nei comuni dell’hinterland e delle aree semirurali (Lodi, Legnano, Monza, Sesto San Giovanni, Legnano, Lainate).
La terza fase si apre con la stagione della ricostruzione postbellica e del rilancio socio-economico di un paese piegato dalla povertà.
Nel 1951 a Milano risiedono 1.243.000 abitanti, 160.000 sistemati in alloggi di fortuna, 20.000 i baraccati, 50.000 le famiglie che vivono in coabitazione. Gli immigrati, nello stesso anno, risultano essere 17.000.
Nel 1949 il ‘Piano Fanfani’ rilancia l’attività di costruzione utilizzata come leva per avviare il processo di ripresa economica e occupazionale in Italia. L’attività di costruzione di ‘case per i lavoratori’ viene potenziata al massimo. Nasce l’INA-Casa come struttura centrale di gestione dei finanziamenti finalizzati all’edilizia pubblica in locazione o a riscatto.
I nuovi piani di investimento e le nuove leggi portano l’Istituto, in particolare nella città di Milano, considerata nodo strategico nella geografia della rete che guida la crescita economica dell’intero paese, a trasformarsi in agente inserito a pieno titolo nel processo di costruzione e attuazione delle politiche di sviluppo urbano e considerato sempre meno per la sua funzione sociale e assistenziale. Lo Iacp è attore centrale nella definizione degli indirizzi di piano e avvia la realizzazione di interi quartieri; un modello di azione e un ruolo che porterà l’ente all’idea dei quartieri autosufficienti nei quali si provvederà a realizzare non solo le case ma anche strutture di servizio, il commercio, lo spazio pubblico, le infrastrutture di collegamento (quartiere Comasina, Mangiagalli, Varesina, Harar, …).
Tra gli anni ’50 e ’60 la nuova legislazione e le disponibilità finanziarie determinano una articolazione e una diversificazione dei soggetti incaricati di aumentare il patrimonio abitativo pubblico: l’Incis, l’Ina-Casa, l’Unra-Casa, l’Ente edilizio per i mutilati, case per ferrovieri, per i postelegrafonici, per i senza tetto, per i profughi, il Fondo per l’incremento edilizio, le Cooperative di dipendenti statali, gli Istituti per case popolari aziendali.
Un sistema che viene a complicarsi progressivamente e che porta, dentro ad un quadro normativo in continua trasformazione, in un clima sociale teso e fortemente conflittuale, all’interno di un rapporto non chiarito tra amministrazioni Comunali e governo centrale, dentro ad un gioco di forze in cui sempre più consistenti appaiono gli interessi che spingono verso l’edilizia economica (agevolata e convenzionata) per l’accesso alla proprietà, alla paralisi del sistema pubblico di produzione di abitazioni popolari.
Nel 1960, a Milano, vengono realizzati 9.000 alloggi di edilizia popolare; nell’intera provincia, tra il 1978 e il 1995, vengono realizzati in media 620 alloggi all’anno.
Dal 1981 al 2001 le famiglie che abitano in affitto (pubblico e privato) nei Comuni capoluogo della Lombardia passano dal 58% al 22%.
Mentre si chiude la stagione gloriosa dell’edilizia pubblica in locazione i cui alloggi prodotti nel tempo vengono progressivamente alienati e stralciati per tentare di colmare il deficit di bilancio degli Istituti (nel 1985 a Milano lo IACP è costretto a vendere le case per poter pagare lo stipendio ai suoi dipendenti) determinando una perdita consistente di patrimonio pubblico, si vengono a delineare le coordinate che definiscono il sistema della domanda abitativa vecchia e nuova e il meccanismo deputato a governare e organizzare il meccanismo di produzione dell’offerta pubblica.
2. Qualcosa è cambiato
Le trasformazioni riguardano tanto le condizioni di contesto - la configurazione della domanda e il tipo di bisogno espresso (chi domanda cosa), l’emergere di aree di esclusione, il blocco e la scomparsa dei canali tradizionali di finanziamento pubblico - quanto le prospettive di intervento e le dinamiche che regolano i processi di costruzione delle risposte – il trasferimento alle Regioni delle competenze in materia abitativa chiamate a definire gli indirizzi delle politiche pubbliche e a programmare la spesa (riferimento al PRERP 2002-2004), i nuovi assetti organizzativi che hanno interessato gli ex Istituti Autonomi Case Popolari , la recente riforma delle locazioni abitative e degli sfratti (Rossini, Cattaneo, 2000), la revisione della disciplina che governa l’assegnazione delle case popolari e che definisce le linee per la determinazione dei canoni relativi all’edilizia residenziale pubblica.
Spostamenti di superficie che si appoggiano su una piattaforma non meno instabile. In modo differente la questione della casa interagisce e ha relazioni con il nuovo assetto del sistema locale dei servizi sociali ridisegnato dalla legge 328/00, con le prospettive di riforma degli strumenti di governo del territorio, con l’irrigidimento delle politiche di accoglienza e di integrazione rivolte alla popolazione immigrata che trovano nella triangolazione casa-lavoro-permesso di soggiorno della legge Bossi-Fini un meccanismo di controllo e di limitazione e sempre meno un sistema di sostegno all’inserimento e di tutela del nuovo abitante.
La necessità di un cambiamento non è solo dettata da una insoddisfazione generale per le forme ordinarie di intervento pubblico messe in atto in particolare dal secondo dopoguerra (Tosi, 1994) ma anche dalla impossibilità pratica di proseguire su quella strada.
I modelli di riposta costruiti attorno alla politica abitativa pubblica non solo non rappresentano più una possibile via d’uscita ma sono col tempo diventati una parte del problema. Domande emergenti e istanze rimaste per troppo tempo senza risposta si combinano andando a definire un quadro di sollecitazioni che se non riesce più a fare breccia nella politica interpella in forme nuove le politiche e coloro che, a diverso titolo, si trovano a ricoprire un ruolo nel processo di costruzione degli interventi; “le condizioni sono cambiate: progettare vuol dire oggi affrontare problemi, utilizzare metodi, esprimere intenzioni differenti da un pur recente passato. (…) Tutto ciò vuol dire sottoporsi ad una notevole dose di rischio intellettuale, forse anche ritrovare un motivo di maggiore impegno etico-politico” (Secchi, 1984).
3. Dalla domanda di casa alle domande sulla casa
Intanto nella città, provando a leggerla con gli occhi di chi, disoccupato, la guarda dal suo balcone di casa, sempre più simile ad una baracca in cui si tenta, con un celophan trasparente, di rimediare alla mancanza di una cantina e di un ripostiglio senza però perdere il prezioso affaccio che apre su viale Molise e rimedia in parte al taglio ridotto dell’alloggio, il processo di integrazione e di cucitura tra gli insediamenti popolari costruiti nel corso del secolo appena trascorso e il resto del tessuto urbano non si è compiuto e, quando è avvenuto, è stato prevalentemente fisico: strade, collegamenti, fermate degli autobus e delle metropolitane, qualche servizio di quartiere. Milano sembra aver escluso il problema delle connessioni forti, dell’integrazione; ha seguito e subito un modello di crescita per frammenti, pezzi di città che riescono ad ignorarsi reciprocamente. Ciascuno insegue la sua città dentro ad uno spazio dilatato e opaco che non riesce a produrre processi leggibili di sensemaking, che fatica ad organizzarsi, a strutturarsi come luogo collettivo, come luogo (in) comune (Weick 1995), come luogo in cui si conosce e si riconosce la società che abita.
Mentre guardiamo alla regione metropolitana ci troviamo a fare i conti con una città per parti, separata, isolata al suo interno, anestetizzata. Una città che forse preferisce guardare fuori, pensarsi altrove, piuttosto che guardarsi dentro.
L’interrogativo sui destini dell’edilizia pubblica e della casa popolare riporta l’attenzione sulla città come spazio dell’abitare, dell’abitare plurale, fatto di diverse strategie. In particolare sposta l’attenzione su quelle storie e su quei percorsi faticosi, che con grandi difficoltà trovano il modo per dimorare, svilupparsi o per resistere. Di queste storie sembra non esserci traccia nell’agenda pubblica: queste storie restano marginali, sconosciute, invisibili. Non esistono.
Come affrontare il processo di riemersione, ammesso che ci interessi?
Una prima questione intercetta il livello politico e culturale: la questione abitativa non è risolta. Sicuramente è cambiata ed è chiamata ad affrontare problemi nuovi, in forme nuove.
La capacità di risposta pubblica al problema casa si appoggia a Milano su un patrimonio di circa 60.000 alloggi; 2/3 di proprietà Aler, 1/3 di proprietà comunale. Con una lista di attesa di circa 32.000 domande (17 mila risultanti dai tre bandi precedenti e 12.500 domande derivanti dal bando 2001) nella città sono stati realizzati, dal 1995 al 2001, 470 alloggi pubblici. Ogni anno il Comune si ritrova 1.000 alloggi liberi (i cosiddetti alloggi di risulta) che rappresentano l’unica possibilità attraverso cui soddisfare le richieste di case popolari. Non solo non si riesce ad assegnare alloggi ma quei pochi che vengono assegnati intercettano la quota più problematica della domanda: sfratti esecutivi, ex pazienti degli ospedali psichiatrici, anziani e invalidi con redditi inesistenti, donne sole senza lavoro con minori a carico.
Per queste ragioni è un problema non aver la casa ma è un problema (differente) anche averla senza essere nelle condizioni di poterla mantenere e gestire (Irer 2001), di riuscire a con-vivere nello stesso stabile con gli altri inquilini, di stare nei cortili di quartieri abitati da 1500, 2 mila persone lasciate a se stesse; senza portineria, senza regole, senza supporti. Stiamo andando incontro ad una città che ha pochi pensieri, poche risorse ed energie, pochi progetti da rivolgere ai suoi abitanti (Balducci, Rabaiotti 2001). Una città che non riesce a costruire politiche pubbliche intendendo con questo quelle politiche che se non vengono promosse e sostenute dal pubblico non le fa nessun altro. La quota pubblica nelle politiche appare sempre più spesso affidata ai residui di politiche altre. In questo senso la casa ci aiuta: funziona da spia, da segnale, da avvertimento.
Una seconda questione è di natura scientifica, disciplinare. Per diversi anni non si è più parlato di casa, nelle università, nelle scuole, negli istituti di ricerca. Il vuoto non è solo nelle agende pubbliche. Abbiamo anche noi smesso di interrogarci, di voler capire, di provare a conoscere. Un pezzo di storia della città è sfuggito anche alle discipline che hanno fatto del territorio il loro centro di attenzione: le analisi economiche, sociali, geografiche, politiche, antropologiche, la progettazione urbanistica, edilizia. E’ necessario riprendere una riflessione che si è fermata alcuni decenni fa: esistevano allora riviste, pubblicazioni, corsi e discorsi.
Il cambiamento che segna oggi la questione abitativa, profondamente diversa per le trasformazioni che hanno interessato la struttura del meccanismo di regolazione tra domanda e offerta, chiede che si riprenda il tema, che la casa torni ad essere oggetto di attenzione e di studio. Da una parte vi è infatti una emergenza sociale che chiede di essere disarticolata: una domanda che va specificata iniziando da un ragionamento che chiarisca “chi chiede cosa” e poi provi a dimensionare, ad organizzare, ad orientare; dall’altra vi è lo spiazzamento delle istituzioni deputate a governare la questione. Regioni e Comuni sono per la prima volta di fronte a problemi e temi inediti. Mentre hanno a disposizione le risorse trasferitegli dal governo centrale (forse le ultime) tendono a riprodurre un modello di intervento tradizionale senza potersi permettere la disponibilità economica e finanziaria quasi illimitata quale è stata, per diversi decenni, quella rappresentata dal fondo Gescal.
La prima preoccupazione degli Enti Locali è diventata quella della rigenerazione dei capitali: la rigidità dei bilanci pubblici chiede che le riserve destinate all’edilizia popolare siano in grado di auto-alimentarsi, che il capitale investito oggi rientri domani: il canone sociale si estende verso l’alto con l’introduzione del canone moderato. Invece che intercettare la domanda più bassa e svantaggiata o esclusa si dà la possibilità ai redditi medi di entrare nell’edilizia pubblica pagando un canone di locazione più elevato. Le Aler si trovano nella necessità di portare in pareggio bilanci che sono spesso sfuggiti al controllo e per farlo intervengono sull’unico capitolo di cui possono disporre: la valorizzazione del patrimonio esistente e il suo incremento (privilegiando appunto l’introduzione di alloggi a canone moderato).
Compare in questi anni un timido terzo settore abitativo il cui ruolo appare per il momento ancora incerto ma non privo di potenzialità.
Servono indicazioni, progetti, indirizzi alla cui definizione e costruzione la ricerca non può sottrarsi.
Ha ancora senso parlare di affitto sociale? Dove conduce la strada che vuole tutti i cittadini proprietari di casa dentro ad un quadro che, ridotte le protezioni sociali, espone sempre più persone al rischio di caduta rendendole vulnerabili? Quali effetti sta producendo sul meccanismo dell’offerta l’ingresso di operatori internazionali della finanza immobiliare? Siamo in grado di riformulare un discorso sulla casa che porti pubblico e privato ad identificare un terreno comune e a verificare la possibilità di sviluppare un ragionamento congiunto intorno all’abitare sociale? Cosa sta accadendo nei quartieri popolari che mancano di presidi, che vengono gestiti illegalmente, che per diverse tipologie sociali rappresentano l’unico modo per avere un tetto? Quali diventano i nodi sensibili da attivare in un contesto profondamente mutato?
Un terzo livello del ragionamento è quello associato al governo, alle forme attraverso cui si sta affrontando il problema e alle modalità attraverso le quali si potrebbe diversamente affrontare (Tosi, a cura di, 2003). E’ il livello su cui si gioca anche l’assistenza tecnica e l’intervento di consulenza. Con la riforma del titolo V della Costituzione anche la materia abitativa è passata dallo Stato alle Regioni.
Il Programma Regionale per l’Edilizia Residenziale Pubblica (PRERP) 2002-2004 ha definito, in Lombardia, gli indirizzi per le politiche del triennio e la programmazione della spesa.
Siamo nel mezzo della prima parentesi attuativa del documento di programmazione e stiamo assistendo all’affanno delle Amministrazioni locali interessate, in alcuni casi, a concorrere per poter ottenere le risorse messe a bando. Ad oggi sono stati attivati e si sono concluse le operazioni relative a 5 delle 10 misure di intervento previste nel PRERP. Sono in corso di svolgimento i bandi relativi ai Contratti di Quartiere e ai Programmi Comunali per l’Edilizia Residenziale Sociale.
Con riferimento ai Contratti di Quartiere il nostro Dipartimento si trova impegnato in una attività di consulenza richiesta dal Comune di Milano.
Chi di noi è impegnato in questo lavoro sa cosa voglia dire affiancare l’Amministrazione di questa città su un tema così delicato e in una congiuntura così particolare.
Ci rendiamo conto di quanto le istituzioni si trovino a dover rincorrere problemi sconosciuti o dati per scontati, avvertiamo quanto sia difficile costruire azioni non banali dovendo rispettare le scadenze e i vincoli del bando, constatiamo quanto sia urgente e necessario utilizzare paradigmi differenti e grane analitiche più sottili nel momento in cui avviciniamo chi abita negli edifici che si dovranno ristrutturare, modificare, recuperare.
Nel ritmo accelerato in cui ci troviamo a lavorare si avverte il rischio che, alla fine, anche questa esperienza andrà ad affiancarsi alle altre occasioni che abbiamo avuto e che, anche per la paura di aprire un percorso di confronto e di valutazione interno e tra noi e la città, la lasceremo cadere senza che possa fare storia e insegnarci qualcosa.
Forse impropriamente vengono richieste a noi capacità, competenze, ruoli che spetterebbero ad altri (come mai la Regione non ha pensato ad accompagnare l’attuazione di questo primo Programma con la costituzione di un gruppo di assistenza tecnica in grado di sostenere lo sforzo dei Comuni chiamati per la prima volta a giocare ad un gioco che non hanno mai praticato? Perché il Comune non si attiva per portare i diversi settori chiamati in causa a convergere per aggiungere risorse e competenze nel lavoro su questi quartieri? Come mai non si ritiene opportuno giocare al rialzo e rendere evidente lo sforzo che in questo momento si sta compiendo per mettere mano alla disastrosa situazione in cui versano alcuni isolati di case popolari?).
Avvertiamo il pericolo, l’imbarazzo e il limite di questa posizione ed è invece più difficile cogliere l’opportunità: quella di poter riavviare un discorso sulla casa, di essere nelle condizioni di riprendere una riflessione interrotta. Anche questo vuoto è parte della penuria.
4. Il riconoscimento e la ripresa
Sappiamo che politiche e piani di intervento sono parte del racconto che ci parla della domanda abitativa e dell’offerta, ci dicono della retorica e della strategia, delle intenzioni esplicite e di quelle non dette, delle regole e delle priorità, dei successi e dei fallimenti (Olmo 1992). Un’altra parte del racconto è quella che sfugge dalle maglie delle iniziative ufficiali: è rappresentata dalle voci deboli di chi abita, di chi ancora trova la forza per parlare, di chi sostiene quelli che la forza l’hanno persa (Comitato Inquilini Molise-Calvairate Ponti 2003). Molte voci si incrociano, si confondono e, nella disattenzione urbana, si perdono. Essere stati lontani rende oggi difficile ascoltarle, riconoscerle, considerarle.
“Esprimere è essenziale per scoprire e per scoprirsi.
Studiare è necessario per crescere, identificarsi, maturare,
ma i libri sono soltanto una fonte dell’apprendere.
Occorre saper leggere anche rocce, alberi, voli, creature,
il mare, le nuvole, le stelle. Leggere nel lavoro”
(Dolci 1993)
Da qualche anno a questa parte la casa è sparita dai dibattiti sulla città.
E’ questo il tempo della ripresa. Di una ripresa che sia fatta di saperi e conoscenze plurali, articolate, ibride; questa è la condizione necessaria per mettere mano all’agenda e provare a fissare un primo appuntamento.
Un passo in questa direzione possiamo e dobbiamo farlo anche noi.
“Case di carta e nuova questione abitativa” era stato il titolo del contributo trattato alla scuola di Eddyburg nel settembre 2005 e di un articolo scritto e pubblicato su eddyburg.
La lettura dell’editoriale di Carlo Olmo e la pagina che il giornale dell’architettura dedica al tema (si riporta di seguito l’articolo di Francesco Toso) ripropongono l’attualità di quell’analisi. Dalla quale emergeva che lo scenario di fondo che sta producendo un progressivo impoverimento delle famiglie in affitto non è conseguenza di eventi esterni (la crisi della new economy o la tragedia delle Torri gemelle o ancora l’economia di guerra nella quale sembra siamo precipitati).
La crescita del mercato immobiliare data ormai dal 1998 e trova la sua origine nel processo di ristrutturazione del nostro sistema produttivo (grandi imprese ma non solo). Tramite le banche questo processo di ristrutturazione è stato fatto pagare alle famiglie (quelle in affitto, ma anche quelle che contraggono i mutui per l’acquisto della casa, ormai le banche concedono mutui anche a 40 anni). In una spirale poco virtuosa le banche sostengono tramite la concessione di mutui la domanda di casa, la domanda fa mantenere alti i valori immobiliari. I canoni di affitto, invece, saltato con la legge 431 del 1998 qualsiasi tetto sono ormai (quasi unico paese in Europa) senza limiti: il proprietario chiede e l’inquilino se ce la fa paga altrimenti si arrangia.
Se è così, è urgente intervenire per far fronte alla vera emergenza sociale del nostro paese che riguarda non tanto chi non ha una casa ma soprattutto quelli che troveranno sempre più difficile pagare il canone di affitto. Il Cresme ci dice che saranno circa 1.760.000 le famiglie in difficoltà nel 2007.
Le ricette non sono facili. In campagna elettorale la casa ha fatto capolino per qualche settimana a seguito della proposta di Berlusconi di regalare il patrimonio pubblico agli inquilini. Il centro sinistra non ha seguito la boutade tentando una risposta articolata, complessa come la situazione richiede. Adesso si aspetta con ansia un segno di vita in questa direzione.
Vogliamo evidenziare due questioni che ci sembrano irrinunciabili, data l’analisi che ormai è condivisa da tutti i ricercatori e gli osservatori.
1. Il mercato da solo non basta, c’è bisogno di una intelligenza di processo del soggetto pubblico che intervenga non alla vecchia maniera, un programma massiccio di edilizia pubblica per la quale non ci sarebbero le risorse, ma favorendo tutte le iniziative indirette (fiscalità, incentivi nella ristrutturazione,…) che favoriscano l’immissione nel mercato di alloggi in affitto a canone calmierato.
2. Avviare un progetto di valenza nazionale, soprattutto nelle aree a forte tensione abitativa, destinato a favorire, nelle diverse forme possibili, la realizzazione di housing sociale. Si tratta di realizzare alloggi destinati solo all’affitto ricorrendo a risorse economiche di mercato ma non speculative da realizzare in aree pubbliche o acquisite dal soggetto pubblico per queste finalità e destinate all’utenza più vulnerabile: lavoratori precari, famiglie monopersonali, giovani coppie, … . Alloggi che potrebbero servire anche per aiutare le metropoli come Roma e Milano a favorire la presenza di giovani, di nuovi talenti, quelli che si spostano nelle grandi metropoli del mondo contribuendo in modo crescente al loro sviluppo sociale ed economica.
In alcune città italiane qualcosa in questa direzione sta già avvenendo e ci sono delle sperimentazioni interessanti ma, data la consistenza del problema, è necessario uno sforzo di valenza strategica del paese. L’Italia riparte anche da qui.
L’affitto: quante famiglie non ce la fanno.
di Francesco Toso
da il Giornale dell’architettura
L'ultima fase espansiva del mercato immobiliare ha prodotto un generale aumento del volume di ricchezza patrimoniale fra le famiglie italiane. Ciò non significa che abbia automaticamente favorito la diffusione del benessere, anzi, come spesso accade, le dinamiche di forte e persistente accelerazione dei mercati -nel caso immobiliare otto anni di fase espansiva, in cui si è avuta la compravendita di circa 7 milioni di case-indeboliscono sempre una quantità più o meno contenuta di popolazione. Sicuramente, il settore che esce più debole e redditualmente più povero di prima dalla lunga crescita del mercato immobiliare è quello dei locatari: il Cresme ha misurato in oltre 1,3 milioni le famiglie in affitto che, a fine 2005, soffrivano uno stato di tensione economica causato, o aggravato, dall'aumento dei canoni. Ma ancora peggio sarà quest'anno e il prossimo: si stima che nel 2007a causa dei rincari, dei rinnovi contrattuali e dei nuovi contratti, quasi 1,8 milioni di nuclei (oltre la metà delle famglie in affitto presso privati) patirà delle conseguenze fortemente negative dall'aumento dei prezzi che si è verificato in questi anni.
Prezzi che oggi, a ridosso del picco più espansivo (collocabile fra il 2005 e l'anno in corso) registrato nell'ultimo ciclo immobiliare, risultano cresciuti in misura assolutamente non comparabile con la dinamica delle retribuzioni: negli ultimi sei anni, i valori immobiliari di compravendita, mediamente a livello nazionale, sono aumentati del 51%; nelle grandi città del 65%. Con punte del 139%a Firenze; 97% a Roma; 77% a Torino.
Al riguardo c'è da osservare, sfiorando appena l'argomento, che l'esuberanza dei mercati ha prodotto degli ambiti di fragilità economica anche nell'area della proprietà (si pensi soltanto ai frequenti livelli di indebitamento ai limiti delle proprie capacità, soprattutto in un quadro occupazionale dove prevale la percezione di instabilità e insicurezza). Ora, rimanendo nell'ambito dell'affitto, la crescita del valore di mercato delle abitazioni ha trainato le attese di rédditività per i proprietari di alloggi da locare. Anzi, questa fase sembra essere connotata da un carattere speculativo se si considera che il tasso di rendimento dei nuovi affitti (in particolare nelle città dove è più consolidato) è aumentato rispetto a qualche anno addietro: i nuovi canoni di locazione sono incrementati del 49% nella media nazionale e ben dell'85% nelle grandi città. Con picchi del 140% a Venezia; 105% a Napoli; oltre i1 90% a Milano e Roma. Insomma, tassi di crescita superiori a quelli registrati dai prezzi degli immobili. È già qui evidente come il rapporto fra il costo dell'abitare e la retribuzione da lavoro abbia oltrepassato per molti il limite della sostenibilità. Ma per quanti?
Un rapido calcolo: se il livello attuale medio dei canoni di locazione sullo stock delle abitazioni in affitto è stimato pari a 5,3 euro/mq al mese ne deriva che, per un alloggio di 75 mq i canoni di locazione medi sono pari a 400 curo al mese. In relazione al reddito netto e al numero delle famiglie in locazione risulta che l'incidenza media del costo dell'affitto sul reddito netto è intorno al 24%, con un picco medio del 47% per coloro che rientrano nella classe di reddito fino a 10.000 euro. Usualmente si considera un'incidenza dell'affitto sul reddito pari al 30% come limite massimo entro il quale una famiglia entra in tensione finanziaria.
Un calcolo sulla base di informazioni ISTAT (sulla povertà relativa e assoluta) e Banca d'Italia (sulle fasce di reddito per titolo di godimento) ci porta a stimare nel 2005una situazione di difficoltà economica per 1.355.000 famiglie in affitto presso proprietari privati. Non solo: laddove si stimi che in funzione delle durate contrattuali nel settore privato si abbiano annualmente oltre 750.000 rìnnovi contrattuali a valori tendenti a quelli del mercato, si presume che fra il 2005 e il 2007, con un incremento annuale in linea con quelli recenti (8%), l'incidenza dei canoni sui redditi delle famiglie in fase di rinnovo contrattuale si attesti in media al 32,2%, con un picco del 65,9%per le famiglie con redditi inferiori ai 10.000 euro. Se queste considerazioni diventassero, com'è probabile, effettive, la media degli affitti dello stock abitativo nel 2007 si attesterebbe al 26% con punte del 52% per le classi di reddito familiare netto fino a 10.000 euro e del 31% per le classi di reddito comprese tra 10 e 20.000 euro (con crescita del reddito stimata in base al tasso di inflazione previsto).
Ma il dato ancor più drammatico riguarda coloro che per la prima volta entreranno nel mercato della locazione nel prossimo biennio. Costoro troveranno una situazione nella quale l'incidenza dei canoni di locazione sul mercato libero (7,4 euro/mq al mese in media) sarà pari al 32% del loro reddito medio familiare netto, ossia a un livello definibile «fragile» ai fini del mantenimento di un livello di vita dignitoso. In altri termini, prevedibilmente nel 2007, saranno circa 1.760.000 le famiglie in condizione di forte inadeguatezza reddituale rispetto alla spesa per la casa in locazione.
Titolo originale:Second-home owners are among the most selfish people in Britain – scelto e tradotto per Eddyburg da Fabrizio Bottini
Quale maggior fonte di ingiustizia, del fatto che alcune persone non hanno casa, mentre altre ne hanno due? Eppure il commercio vampiro di seconde case continua a crescere – del 3% l’anno – senza alcuna interferenza del governo o da parte della coscienza dei compratori. Ogni acquisto di seconda casa priva un altro della prima. Ma parlar chiaro di questo significa qualificarsi come guastafeste e saccente.
Se si va a Worth Matravers – quel villaggio di bomboniere nel Dorset dove il 60% delle case sono di proprietà di fantasmi – non si trovano orde di homeless accampate sui marciapiedi dentro a scatole di cartone. Il mercato non funziona in questo modo. I giovani del villaggio, che non riescono a comprare qui, si sono spostati, contribuendo ad aumentare le pressione abitativa altrove. L’impatto del mercato fantasma può risultare invisibile agli acquirenti, ma ciò non significa che non sia reale. I proprietari di seconde case sono probabilmente le persone più egoiste del Regno Unito.
In Inghilterra e Galles ci sono 250.000 seconde case. In Inghilterra 221.000 persone sono classificate homeless o abitanti in ricoveri o sistemazioni temporanee (questi casi disperati comprendono il 24% della domanda di abitazione sociale). Non sto sostenendo che se trasformassimo in abitazione qualunque casa sottoutilizzata avremmo risolto il più grave problema dei senza casa. Dico solo che la condizione di senza casa è stata esacerbata dal fatto che il governo non assicura che le case siano utilizzate per viverci.
Si tratta di un problema che ha ricevuto una rara attenzione mediatica settimana scorsa quando la Affordable Rural Housing Commission ha pubblicato il proprio rapporto. Ipotizzava che si potessero tassare i proprietari di seconde case di certe aree in modo più pesante, o che fosse necessaria una autorizzazione urbanistica per trasformare un’abitazione in una casa fantasma. Queste idee, per quanto moderate e di prima ipotesi, sono state accolte con rabbia. “Se il governo adotta queste proposte” ha ruggito il Telegraph, “sarà per punire ancora gli elettori del ceto medio in base ad una cultura del risentimento piena di invidia”. Sul Guardian, Simon Jenkins ha ipotizzato che le proposte della commissione potessero negare “agli attuali proprietari il valore della proprietà e di conseguenza la mobilità per loro e i loro figli. É una folle tassa sulla proprietà applicata ai poveri rurali ... Pensare che chi porta nuovo denaro e, in molti casi, nuove attività economiche nelle campagne britanniche, sia un male sociale, è sinistrismo arcaico”.
Se preoccuparsi dei problema dei senza casa trasforma in dinosauri della sinistra, beh, alzo il mio artiglio. É vero che premere sulle seconde case diminuirà i prezzi nelle campagne, un poco. Questa è una parte della questione. Ma non è che i proprietari rurali soffrano di basse valutazioni. Il giorno prima di questo articolo, la Halifax ha proposto cifre che mostrano come la casa rurale media costi 208.699 sterline (ovvero 6,7 volte i guadagni medi annuali), mentre la casa media di città costa 176.115 sterline. Jenkins sembra chiederci di badare più ai profitti di chi è già ricco che a chi non ha altro che una scatola per dormirci dentro. É anche vero che nei fine settimana e durante la stagione estiva I proprietari di seconde case possono portare nuova attività per i negozi locali; specialmente il genere di boutique pittoresca che si affumica il proprio pesce e vende vasetti di marmellata con sopra cappelli di carta. Ma per il resto dell’anno, visto che il villaggio è mezzo vuoto, le attività muoiono.
Anche l’impatto ambientale deve essere magnifico. É già abbastanza arduo sistemare le case che ci servono nelle campagne, figuriamoci quelle finte per i frequentatori del fine settimana. Aprite le pagine di qualunque supplemento immobiliare e troverete annunci per “alloggi vacanze” in Cornovaglia, Dorset, Pembrokeshire o Norfolk. Spuntano aeroporti regionali (o tentano di spuntare) ovunque i finanzieri della City cominciano a spingere economicamente via gli abitanti del posto (chi ha seconde case all’estero fa anche più danni: un’indagine ipotizza che causino in media sei viaggi aerei di andata e ritorno l’anno). Per non parlare dei costi ambientali di mantenere due case, e senza dubbio di lasciar accese le luci di sicurezza e le apparecchiature in standby mentre si continua la vita altrove.
Per tutti questi motivi, credo che le proposte della commissione non siano sufficienti. Considerano il problema della seconda proprietà come questione locale, limitato alle aree più ambite della campagna. Non si conta il più vasto contributo di questo tipo di proprietà a produrre homeless, o alla distruzione dell’ambiente. Né si coglie il punto – quasi sempre mancato dai mezzi di comunicazione – che la maggioranza delle seconde case (155.000 su 250.000) stanno in città e cittadine, dove uomini d’affari di mezza età trasformano quella che potrebbe essere la prima casa di una giovane coppia in un pied-à-terre. Accetto il fatto che si tratti di una Commissione per la casa rurale, ma non posso fare a meno di chiedermi se per caso un riconoscimento del genere non avrebbe causato qualche turbamento a Elinor Goodman – capo della commissione- che ha una seconda casa a Westminster.
Vorrei vedere la proprietà di seconde case diventare proibitivamente costosa, ovunque si trovino. Continua ad essere più economico possedere una seconda, che una prima casa. Il governo ha ridotto la deduzione sulla tassa locale delle case fantasma dal 50% al 10%, ma pare offensive che possa comunque esistere una deduzione di qualunque tipo. Peggio, come ha sottolineato ieri una lettera al Guardian, la gente compra case da fine settimana come finti luoghi di vacanza e li usa come “attività in perdita” contro il fisco. Scappatoie del genere devono essere eliminate. Perché non applicare una tassa comunale del 500% per tutte le seconde case, che le amministrazioni locali siano obbligate a ipotecare: in altre parole a utilizzare per nuove abitazioni sociali? Non impedirebbe ai più ricchi di comprarsi altre, ma almeno chi sta ai gradini inferiori della scala sociale ne avrebbe qualcosa in cambio.
Spesso ci dicono che tasse punitive di questo tipo non funzionano, perché le coppie potrebbero registrare le case separatamente. Ma questo potrebbe funzionare soltanto per chi non è né sposato né in unione civile. Non impedisce al governo di prelevare la tassa sui capital-gains.
Il vero problema è che quasi ogni parlamentare col collegio fuori da Londra ha due o più case, e ci sono pochissimi giornalisti affermati che non stiano succhiando la vita di un villaggio da qualche parte, o un giornale che non dipenda dagli annunci immobiliari. Due settimane fa il Sunday Times ha scritto che la parlamentare del Labour Barbara Follett, proprietaria di una casa da 2 milioni di sterline nel collegio elettorale (a Stevenage), di un appartamento a Soho e altre case a Antigua e Cape Town, dichiara 76.357 di spese ai Comuni per gli ultimi quattro anni della casa londinese. Forse non è difficile capire perché i parlamentari non stanno chiedendo a gran voce che si faccia qualcosa. Venerdì, Peter Mandelson – l’uomo che dice ciò che pensa Blair – ha dichiarato a una conferenza stampa che la principale sfida del Labour è di trovare soluzione “alle ansie del ceto medio che lavora duro ... non è il vecchio territorio del Labour che abbiamo dimenticato e che si sta allontanando, ma il territorio del New Labour che occupiamo dal 1997 che è a rischio”.
In altre parole, le possibilità che il governo obblighi l’abbandono delle seconde case sono più o meno pari a zero. Ma questo non ci deve impedire di sottolineare come sia inaccettabile lasciare che i ricchi sottraggano ai poveri le loro case.
Nota: a proposito del rapporto della Commissione sulla Casa Rurale, più volte citato, su Mall articoli di Anne Perry, Beverly Goldberg, e l'intero documento scaricabile (f.b.)
Titolo originale: New York Asks Help From Poor in Housing Crisis – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
La New York City Housing Authority, proprietaria di casa per oltre 400.000 cittadini poveri, è di fronte a un buco di bilancio di 168 milioni di dollari, e ha proposto di ridurre il disavanzo facendo pagare ai residenti nuove tariffe, e aumentandone delle vecchie per varie cose, dall’uso di una lavastoviglie al farsi sturare un gabinetto.
L’ente afferma che il suo deficit di gestione nasce dagli enormi aumenti dei costi dell’energia e delle pensioni, mentre i finanziamenti federali per le abitazioni pubbliche sono stati tagliati. Dal 2001, sostiene l’agenzia, sono stati spesi 357 milioni prelevati dalle riserve per compensare successivi disavanzi di bilancio; quest’anno, per la prima volta, non ci sono più riserve a sufficienza per coprire il buco.
Così è stato proposto di far pagare agli inquilini 5,75 dollari al mese per l’uso di una lavatrice, 5 per una lavastoviglie, 10 per un congelatore autonomo. Le tariffe per il parcheggio aumenteranno da 5 a 75 dollari l’anno a partire dal 1 aprile.
L’ente prevede di aumentare le tariffe esistenti per decine di servizi, come la riparazione dei danni agli appartamenti diversi dalla normale usura, di far pagare – per la prima volta – cose come recuperare le chiavi perse nella tromba dell’ascensore fuori dagli orari di ufficio. Le modifiche tariffarie saranno probabilmente efficaci, a parte quelle per i parcheggi, dopo il 1 maggio.
Il consiglio della Housing Authority ha chiesto al personale responsabile di predisporre un piano di ripianamento del bilancio conservando al tempo stesso alcuni servizi essenziali, riducendo al minimo l’impatto sulle categorie di residenti più vulnerabili e individuando quelle che vengono chiamate “modalità creative di articolare l’erogazione di servizi”. L’ente ha anche chiesto aiuto ai competenti uffici federali e cittadini.
”I nodi stanno venendo al pettine” ha commentato il deputato Jerrold L. Nadler di Manhattan, aggiungendo che il governo federale si sta prendendo meno responsabilità per le abitazioni pubbliche. “La Housing Authority ha, in un modo inventivo o nell’altro, tenuto tutto insieme con lo spago. Questo potrebbe essere devastante”.
I continui tagli delle spese probabilmente avranno un profondo effetto in tutto il paese, con le 1,2 unità di alloggio a livello nazionale a rischio di deterioramento, temono gli esperti del settore.
La New York Housing Authority, la più grande del paese, gestisce 345 complessi in tutta la città, con 2.700 edifici e 181.000 appartamenti. Metà del suo bilancio di gestione proviene da sussidi federali; la maggior parte del resto dagli affitti degli inquilini, il cui reddito familiare medio è inferiore ai 19.000 dollari l’anno.
Arlyne Allen, che vive nelle Amsterdam Houses sul West Side di Manhattan col marito e tre figli adolescenti, e si occupa professionalmente di day care, commenta le nuove tariffe: “Mi toccheranno parecchio. Non ci si può permettere neppure quelle di adesso”. Se potesse, dice, si trasferirebbe in Pennsylvania a cercare una casa che si può permettere sul mercato privato.
Secondo l’agenzia, le spese sono salite alle stelle. I contributi pensionistici per i dipendenti si sono incrementati dello 866%, sino a 62,6 milioni di dollari, fra il 2001 e il 2005, in parte a causa di fluttuazioni di mercato e nuove leggi statali, lo stesso problema di moltissime agenzie pubbliche. In più, i costi dei servizi sono aumentati del 45%, quelli sanitari del 42% e gli stipendi dei lavoratori del 39%.
Nel frattempo, affermano i funzionari dell’ente, i sussidi di gestione federali per le abitazioni pubbliche sono rimasti invariati, e il bilancio federale della authority si è ridotto di 14 milioni. L’agenzia è responsabile anche di 21.000 appartamenti prima finanziati dal comune e dallo stato, che ora non ricevono più alcun sussidio.
Di conseguenza, l’ente si è trovato di fronte buchi di bilancio ogni anno dal 2001. Il disavanzo totale per il 2006 è di 182 milioni di dollari, che si sostiene siano scesi a 168 grazie a provvedimento come una proposta riduzione del personale, accorpamento di funzioni ed eliminazione di alcune posizioni scoperte.
Secondo le norme federali, l’ authority deve mantenere un minimo equivalente al valore delle spese di gestione di due mesi, o circa 270 milioni, per far fronte a cambiamenti o ritardi. Negli anni recenti, questa riserva è scesa sino a 320 milioni, dagli oltre 800, sostengono i funzionari.
”È grosso, davvero grosso” dice Howard Marder, portavoce dell’ente, del disavanzo che non è più possibile coprire. “Non è mai stato così”.
Le tariffe per gli inquilini si prevede genereranno circa entrate per 1,5 milioni. L’agenzia sostiene che la maggior parte delle “ utility surcharges” sulle apparecchiature sono applicate senza aumenti da oltre dieci anni.
Gli inquilini dicono che ne sono state sempre imposte pochissime. “Solo in casi estremi quando una porta era bucata da proiettili o qualcuno prendeva a calci il portoncino di ingresso, e non si poteva parlare di usura” dice Gerri Lamb, presidente cittadina del Resident Council of Presidents, gruppo di inquilini. “E certo non con cifre così alte. Ho abitato nelle case pubbliche per oltre 35 anni e non cè mai stato un elenco di tariffe distribuito agli abitanti”.
Saul Ramirez, direttore esecutivo della National Association of Housing and Redevelopment Officials, individua il disavanzo di bilancio nel “costante disinvestimento” nelle abitazioni pubbliche da parte del governo federale. “O ovvio – dice – che ci sia stato un declino, sino ad un punto critico, nella gestione”.
BOLOGNA. Mentre il Governo nazionale, anche nell’ultimo scorcio di mandato, conferma il suo disinteresse per ogni tipo di politica e di intervento finanziario capaci di indicare una direzione di gestione dell’emergenza abitativa, dall’istituto di ricerche «Nomisma» arrivano alcuni dati interessanti, che contribuiscono, tra l’altro, a frenare l’entusiasmo di chi vede nella dimensione proprietaria della casa l’unica via possibile ed efficiente per affrontare questo diritto primario delle famiglie.
Alla fine del mese di novembre 2005 l’istituto fondato da Romano Prodi ha pubblicato una ricerca, commissionata dall’ASPPI, dal titolo «Il mercato abitativo italiano: un’analisi territoriale sullo stato, la conservazione, la redditività», nella quale vengono esaminati, tra l’altro, i vantaggi delle diverse soluzioni abitative cui si affidano i cittadini delle grandi città italiane.
Il rapporto tra mutuo e affitto – scrive Nomisma nella ricerca – risulta mediamente pari all’87%, quota che non favorendo né l’una né l’altra soluzione, lascia ampio spazio ad altri fattori di costo e di incertezza che accompagnano la decisione dell’acquisto. Comprare casa sembra quindi una scelta non sempre vantaggiosa, almeno economicamente. Soprattutto in città come Bologna, dove – stando sempre ai risultati della ricerca – per appartamenti di dimensioni inferiori ai centro metri quadrati – cioè alle dimensioni medie della produzione residenziale degli ultimi decenni - risulta in netto vantaggio l’affitto rispetto al mutuo. Condizione accentuata, in prospettiva, dall’aumento dei tassi del costo del denaro previsto dalla BCE.
Ma perché mai dovrebbe risultare vantaggioso affittare una casa a un canone pur inferiore della rata del mutuo, ma improduttivo in termini d’investimento nel luogo periodo?
Intanto perché alla rata del mutuo si sommano spese che gli affittuari non hanno: imposte statali e comunali, costi di istruttoria e gestione delle pratiche del mutuo e delle transazioni, spese per manutenzioni ordinarie e straordinarie dell’immobile, spese per eventi incidentali. Voci di costo che spesso, per i proprietari con maggiori vincoli di bilancio familiare, rappresentano carichi difficilmente affrontabili, se non a scapito di altri consumi, in un ciclo che rischia da un lato di ingessare l’economia e dall’altro di ridurre le possibilità di sviluppo degli individui.
Poi – non ultime – ci sono le esigenze lavorative. L’instabilità del mercato del lavoro, la mobilità richiesta dei nuovi paradigmi produttivi, le incertezze congiunturali, sono tutti fattori che inibiscono la «stanzialità residenziale», in special modo nella popolazione più giovane, che trova tuttavia un mercato, e uno Stato, in grave ritardo nel rispondere a queste esigenze.
Nonostante le indicazioni che emergono dalle rilevazioni empiriche si continuano però ad immettere sul mercato nuove abitazioni per la vendita e a sostenerla in vari modi (mutui agevolati, stanziamenti pubblici a fondo perduto ecc.), ritenendola una strategia coerente con le necessità della popolazione. Ciò che a prima vista sembrerebbe paradossale, o miope, trova una parziale giustificazione se si considera che la produzione edilizia non solo ha sostenuto, in questi ultimi e difficili anni, l’economia e le imprese, ma ha alimentato le entrate degli enti locali e ha fornito lavoro per la popolazione di nuova immigrazione.
Nelle opulente e trainanti città dell’Emilia-Romagna – e non solo qui – il settore delle costruzioni, negli ultimi due decenni ha mostrato tassi di crescita da record, arrivando anche a raddoppiare gli addetti grazie soprattutto agli incrementi di produzione, per certi versi paragonabili a quelli registrati durante il boom edilizio degli anni sessanta. Così oggi, anche per conseguenza dei diversi dispositivi federalisti, non stupisce che un terzo delle entrate correnti dei comuni emiliani provengano dall’ICI, che una quota assai rilevante derivi dai contributi di costruzione, e che il governo urbanistico sia annichilito dalla «ragion di stato» dei bilanci.
Questo sistema ha prodotto anche un’altra esternalità negativa, difficilmente trascurabile: una parte rilevante delle famiglie, specialmente quelle di nuova formazione, non è nelle condizioni economiche di pagare agevolmente né un affitto né un mutuo. Una condizione di indifferenza rilevata, in altro senso, anche dal mercato, nella citata indagine di «Nomisma».
Si tratta di capire, a questo punto, che futuro possano avere una città, una regione o un Paese, sostenuti da una economia implicitamente orientata a sottrarre vivibilità alle famiglie. E che senso possa avere, in assenza di una severa riforma della fiscalità locale, la politica abitativa pubblica.
Il problema sollevato da Giovenale nei suoi due articoli del 20 dicembre e del 4 gennaio sulla necessità o meno di nuove costruzioni per affrontare il disagio abitativo si lega indissolubilmente a quello della cosiddetta “programmazione negoziata”, che a partire dai Programmi Integrati di Intervento introdotti nel 1992 ha progressivamente dissolto ogni orizzonte di bilancio pubblico complessivo nei criteri di utilizzo della città e del territorio.
Se si ragiona in termini di piano di governo complessivo, la quota di edilizia sociale è una parte dell’edificabilità ritenuta ambientalmente sostenibile e va, quindi, sottratta a quella privata; se, invece, si ragiona in termini di “programmazione negoziata”, l’edilizia sociale (così come le attrezzature urbane necessarie) è una quota aggiuntiva contrattata con la proprietà dopo che questa ha fissato autonomamente il proprio livello di redditività e la sostenibilità ambientale della quantità edificabile è una variabile dipendente dagli altri fattori (redditività privata + servizi pubblici e sociali).
Il tema si era già posto nel 1962 con la legge 167 sull’edilizia popolare, sia pure in termini non strettamente di sostenibilità ambientale, ma piuttosto di corretto assetto insediativo. L’art. 3 della legge diceva: “Le aree da comprendere nei piani (di edilizia pubblica) sono di norma scelte nelle zone destinate ad edilizia residenziale nei piani regolatori vigenti... Ove si manifesti l’esigenza di reperire in parte le aree in zone non destinate all’edilizia residenziale nei piani regolatori...si può procedere con varianti agli stessi.”
E’ noto che i Comuni, di sinistra o di destra che fossero, ritennero preferibile destinare in massa nuove aree agricole all’edificazione pubblica, ritenendolo socialmente più tollerabile che incidere sulle aspettative edificatorie dei privati, ma a scapito della logica insediativa (ciò che può spiegare il malanimo degli utenti assegnatari cui ha accennato Simoni nella sua precisazione) e in prospettiva storica della sostenibilità ambientale dell’insediamento, come abbiamo verificato poi.
Oggi il tema si ripropone col dilagare della “programmazione negoziata”, presentata dai fautori del neoliberismo urbanistico come superamento della tradizionale e a loro parere vetusta concezione pianificatoria per approdare a quella di una neonata “economistica”, che denuncia clamorosamente come questa negoziazione “ad personam” riduca il tanto declamato principio di “sussidiarietà” dell’Ente pubblico ad una sua succube subordinazione agli interessi economici forti, senza nessuna interlocuzione con le esigenze dei cittadini e con i criteri di sostenibilità ambientale degli interventi.
Occorre, invece, che le quantità edificatorie previste siano vengano definite dai Comuni, sia pure nelle forme più attuali ed articolate, in base ai criteri di sostenibilità ambientale dell’insediamento e alle dotazioni di aree e servizi pubblici necessari alle esigenze di vita dei cittadini.
Ciò significa chiudere definitivamente la stagione della “programmazione negoziata”, che si è dimostrata un gioco truccato, in cui a perdere sono sempre gli interessi ambientali e di vivibilità urbana dei cittadini.
L’obiettivo della ripresa della capacità di indirizzo pubblico va oggi assunto con chiarezza e determinazione dalle forze politiche del centrosinistra anche alla luce delle direttive europee sulla Valutazione Ambientale Strategica e della concezione della città e del territorio come beni comuni non negoziabili.
E’ sorprendente che nel momento in cui anche da parte di alcuni esponenti DS si propone l’adozione di criteri di valutazione del PIL che tengano conto dei costi di sostenibilità ambientale, alleanze trasversali tra rappresentanti UDC/FI/Margherita (Verga, Lupi, Mantini) continuino a sostenere la liceità di una preminente visione economistica in tema di strumenti di governo della città e del territorio.
In seguito alla lunga fase di crescita del prezzo di acquisto e di affitto delle abitazioni l’accesso alla casa è diventato proibitivo per larga parte della popolazione, mentre il patrimonio immobiliare rimane per una parte significativa improduttivo e segnato da un’opacità fiscale. Tre problemi che vanno affrontati insieme, innanzitutto attraverso una profonda e complessiva revisione del trattamento fiscale della casa, da articolare sotto diversi profili. Si dovrebbe inoltre avviare un grande piano per la costruzione di alloggi nelle grandi e nelle medie città, per favorire l’accesso all’abitazione delle giovani coppie.
Siamo nella fase finale di una lunga fase di crescita del prezzo delle abitazioni, che ha determinato effetti sociali ed economici importanti. Si vendono molte case, grazie ai tassi di interesse contenuti, ma l’accesso all’abitazione per larga parte della popolazione è diventato proibitivo per l’elevato prezzo di acquisto e per l’alto livello raggiunto dagli affitti in particolare nelle grandi città. La casa è il problema principale che devono affrontare le giovani coppie, ed è diventato un problema grave anche per molti anziani non proprietari, le cui pensioni non sono sufficienti a sostenere il maggior costo degli affitti.
Dal punto di vista economico il problema è altrettanto rilevante perché la componente immobiliare è una parte rilevante del patrimonio degli italiani, ma è per una parte considerevole un patrimonio inattivo e improduttivo, il che ne fa una ricchezza utilizzata in maniera inefficiente, come dimostra il gran numero di case sfitte e l’ancora più grande numero di abitazioni che hanno dimensioni non ottimali rispetto alle esigenze di colore che le occupano. Nel suo complesso il patrimonio immobiliare è anche caratterizzato da una grande opacità fiscale e da una tassazione che non favorisce la trasparenza, la mobilità, una più corretta allocazione delle risorse e una vera efficienza del mercato. Tutti e tre questi problemi vanno affrontati congiuntamente, al fine di avere un mercato immobiliare più trasparente ed efficiente, una più efficiente allocazione delle risorse, una più facile mobilità delle persone sul territorio, un più facile accesso all’abitazione per le giovani coppie.
Gli strumenti per affrontare la questione possono essere di varia natura. Il primo riguarda il trattamento fiscale della casa, al momento dell’acquisto e della vendita, nel perdurare della proprietà, nell’affitto attivo e passivo, e riguarda tutti i soggetti coinvolti: venditori e compratori, intermediari, proprietari locatori e locatari. L’obiettivo di una revisione complessiva del trattamento fiscale della casa non deve essere quello dell’aumento di gettito ma della trasparenza fiscale e di un trattamento che favorisca la migliore allocazione delle risorse. Il maggiore gettito dovrebbe essere quello derivante dalla trasparenza (e quindi da una sostanziale riduzione dell’evasione), e dalla maggiore vitalità economica del settore.
Partiamo da una situazione falsata alla base da estimi catastali che non corrispondono ai valori effettivi degli immobili. Il primo punto da affrontare quindi è quello di una revisione dei valori catastali per portarli a livelli realistici. Perché l’aumento dei valori catastali non si trasformi in un aumento del prelievo, contestualmente vanno riviste tutte le aliquote che hanno come riferimento i valori catastali al fine di rendere l’aggiornamento del catasto indifferente ai fini del prelievo. Il secondo punto è modificare le imposte sulle transazioni, in modo da rendere meno oneroso il passaggio di proprietà, o addirittura fiscalmente nullo per chi passa da una abitazione ad un’altra più consona alle proprie esigenze (per dimensione o localizzazione o qualsivoglia altra ragione). Cambiare casa deve diventare più facile e sostanzialmente meno costoso, per facilitare il passaggio da una città ad un’altra o da un quartiere ad un altro, secondo le esigenze crescenti determinate dalla mobilità del lavoro; il passaggio da una casa piccola ad una più grande con il crescere della famiglia e da una grande ad una più piccola per esempio per gli anziani. Una effettiva corrispondenza tra i valori catastali e quelli di mercato, insieme ad una tassazione più equilibrata delle compravendite, può rendere più trasparenti fiscalmente le transazioni senza danneggiare soverchiamente il gettito. Si possono prevedere sconti fiscali per passaggi di abitazione.
Va anche prevista una parziale deducibilità, da distribuire in più anni, dei costi di intermediazione, sia per ridurre l’onere rilevante di questa voce, sia per rendere - attraverso l’interesse alla trasparenza fiscale di venditore ed acquirente - meno facile l’evasione in questo settore. Va affrontato sul piano fiscale anche il trattamento degli affitti, che oggi vanno a cumularsi al reddito del locatore (persona fisica) con l’applicazione dell’aliquota marginale più alta. Questo rende meno conveniente affittare e favorisce una massiccia evasione. Una soluzione potrebbe essere assoggettare l’affitto percepito ad una aliquota fissa (per esempio del 20%) in linea con il trattamento fiscale (auspicabile) delle rendite di natura finanziaria. Questa equiparazione ha una logica funzionale ma anche di equità all’interno di un più equilibrato trattamento delle rendite di qualsiasi natura. Per equità e al contempo per scoraggiare l’evasione si dovrebbe introdurre anche la detraibilità di una quota dell’affitto, uguale per tutti, per esempio nella misura di 200 euro mensili. L’impatto sul gettito sarebbe probabilmente compensato dalla riduzione dell’evasione e darebbe un sollievo non marginale alle famiglie (ma si dovranno individuare misure per non svantaggiare i proprietari della casa di abitazione rispetto agli affittuari). Anche nel caso degli affitti dovrebbe essere consentita la parziale deducibilità dei costi di intermediazione, sia per ridurre l’evasione che per rendere meno onerosa la mobilità. L’intera normativa dovrebbe estendersi, soprattutto a fini di trasparenza fiscale, anche agli affitti temporanei.
Per favorire un adeguato livello di manutenzione delle case andrebbe ribadita la deducibilità parziale dei costi ristrutturazione, mentre - Bruxelles permettendo - andrebbe ridotta sostanzialmente l’Iva sugli interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione per combattere una delle più diffuse aree di evasione fiscale. Tutto ciò dovrebbe essere accompagnato da norme efficaci per garantire il rispetto della durata dei contratti di locazione, al fine di rimuovere uno degli ostacoli più rilevanti all’affitto.
Insieme alla profonda revisione del trattamento fiscale della casa che qui proponiamo, andrebbe avviato un grande piano per la costruzione di alloggi nelle grandi e nelle medie città per favorire l’accesso all’abitazione delle giovani coppie. Questi piani, da elaborare in collaborazione con i comuni interessati, potrebbero essere finanziati con fondi privati (anche con l’emissione di titoli a lunghissimo termine garantiti dalle pubbliche amministrazioni e, se possibile anche con contributi in conto interessi) da ammortizzare con piani di riscatto trentennali o anche di maggiore durata.
L'articolo è tratto da questo sito, nel quale è inserito anche un breve commento di Edoardo Salzano. Si vedano anche, in qusta cartella, l'intervento di Giovanni Caudo e le proposte presentate da un gruppo di architetti alla conferenza programmatica dei DS.
In queste ultime settimane il problema della casa è tornato di grande attualità. E’ entrato nell’agenda politica e anche in quella del presidente del consiglio. I giornali hanno seguito a ruota il crescere di interesse e hanno alimentato speranze. Le lotte di strada nelle periferie parigine hanno ulteriormente acceso riflettori e illuminato la questione della casa che si è in alcuni momenti confusa con altri temi: l’immigrazione, il degrado urbano, le periferie italiane, ecc… .
Le forze politiche, in particolare quelle di opposizione, impegnate nella predisposizione dei programmi per la prossima campagna elettorale hanno ricevuto stimoli e sollecitazioni che andavano nella direzione di una nuova centralità della questione casa. Io stesso ho partecipato ad alcuni di questi incontri e ho avuto modo di raccogliere impressioni e stimoli oltre a leggere e commentare documenti e contributi di analisi e di proposte sull’emergenza casa.
Ora che il clamore sembra essersi in parte attenuato penso sia utile fissare qualche punto fermo nel tentativo di evitare che sull’onda dell’emergenza restino nascosti alcuni argomenti che a mio parere sono ineludibili.
Il quadro generale entro cui si collocano queste riflessioni è contenuto negli articoli pubblicati su Eddyburg negli ultimi due anni, a cui rimando.
L’emergenza abitativa, ma possiamo ancora usare il termine disagio, è determinata, in prevalenza, non dalla domanda di alloggi di chi non ha casa ma da chi ha una casa e paga, sempre con maggiore difficoltà, un canone di affitto. La liberalizzazione del mercato degli affitti e la finanziarizzazione del mercato immobiliare hanno scaricato sulle famiglie la crescita della redditività del patrimonio immobiliare.
Negli ultimi 7-8 anni il mercato immobiliare ha ulteriormente accentuato il suo profilo selettivo, esso soddisfa in prevalenza la domanda di casa in proprietà e non risponde ai fabbisogni delle fasce sociali più deboli ma anche, e sempre di più, a quelli delle classi medie e ai molti soggetti che articolano la domanda abitativa (famiglie monopersonali, giovani, lavoratori precari, immigrati, studenti, anziani soli, …). Le società immobiliari hanno fatto profitti mai visti e incrementano il fatturato da un anno all’altro.
I fattori nuovi, quelli che sembrano più determinanti, nel riaffacciarsi della questione abitativa e che la connotano in modo del tutto diverso dal passato sono:
a. la frammentazione della domanda a seguito dell’articolazione dei bisogni abitativi, dei modelli di abitare, delle differenziazioni sociali e culturali;
b. la pressione esercitata dal mercato immobiliare sulle famiglie del cosiddetto ceto-medio a seguito dell’aumento dei canoni di locazione e dell’incremento di valore degli immobili.
Negli stessi anni si è registrato un consistente arretramento della presenza del soggetto pubblico sul versante sia dell’offerta di alloggi sia della formulazione di politiche attive. Nel 1984 le abitazioni costruite con sovvenzioni pubbliche ammontavano a poco meno di 35.000, nel 2004 erano meno di 1.500. Oggi il soggetto pubblico promuove appena l’1% delle iniziative immobiliari.
Dovrebbe quindi esserci un primo atto di sano realismo, proprio da sinistra, che far fare tutto e solo al mercato non è più possibile. Qualcuno nel 1998 con la legge 431 sulla liberalizzazione dei canoni di affitto ci ha creduto, oggi per cominciare a parlare sarebbe bene che si dicesse con chiarezza che quella impostazione non ha funzionato.
Sarebbe bene che si tornasse invece a puntare su un rinnovato protagonismo del soggetto pubblico, non tanto (ovviamente!) nel predisporre direttamente le soluzioni quanto nel porre in essere politiche pubbliche che favoriscano risposte, anche da parte del mercato, in grado di corrispondere ai caratteri delle nuove questioni abitative.
Pertanto qualsiasi azione di policy che rincorre l’attuale andamento del mercato immobiliare è destinata, nonostante le buone intenzioni, a non incontrare la domanda di chi vive una condizione abitativa con crescente vulnerabilità.
Se si condivide questo quadro di contesto i principi che dovrebbero essere contenuti in una azione di programmazione sono:
1. Intercettare con la fiscalità parte degli incrementi di valore, plusvalenze, realizzati dagli investitori immobiliari a fronte del processo di finanziarizzazione degli immobili e favorire l’emersione dei contratti di affitto, oggi in nero. Reinvestire questi introiti a livello locale per finalità sociali.
2. Avviare politiche urbanistiche attive a regia pubblica che comportino il riuso del patrimonio di immobili pubblici e la realizzazione di interventi di riqualificazione urbana e la loro valorizzazione coinvolgendo gli operatori privati.
3. Realizzare un progetto nazionale di housing sociale favorendo la presenza sul mercato di nuovi soggetti e finanziato con la raccolta di risorse economiche non speculative.
1. L’azione sulla fiscalità si può tradurre in alcuni interventi, alcuni dei quali di immediata operatività:
- aumentare la tassa di registro (a favore degli enti locali) per tutte le compravendite di immobili che avvengono nelle aree a forte tensione abitativa (le principali aree metropolitane);
- differenziare la tassazione degli immobili. Gli immobili che risultano affittati con regolare contratto vengono tassati fuori dall’IRPEF con una tassazione equivalente a quella degli strumenti finanziari (oggi il 12,5%). Mentre gli immobili che risultano non affittati vengono tassati dentro l’IRPEF con un canone imputato e contribuiscono all’ammontare dei redditi (la tassazione è quella progressiva sulla base delle soglie di reddito). Per chi stipula contratti di locazione a canoni concordati si possono prefigurare ulteriori incentivi;
- consentire all’affittuario di detrarre dalle tasse, nell’ambito del reddito del nucleo familiare, il canone di affitto secondo soglie di progressività collegate alle diverse soglie di reddito.
Interventi nel medio lungo termine.
- Riclassificazione catastale degli immobili e riequilibrio della rendita catastale.
2. Politiche urbanistiche attive.
Due diversi azioni:
- Recupero e riuso del patrimonio di edilizia pubblica, a partire da quello realizzato con i grandi interventi della legge ex 167. In questi quartieri è possibile avviare interventi di ristrutturazione anche urbanistica che portano ad un migliore uso delle aree, alla realizzazione di servizi e attrezzature, oggi solo sulla carta, e che comportino la realizzazione di spazi pubblici lì dove oggi ci sono solo aree pubbliche spesso degradate.
- Acquisizione di immobili (non solo suoli) per edilizia sociale nell’ambito degli interventi di nuova edificazione e di trasformazione e recupero avviate dagli operatori privati. In molti comuni questo intervento consente già di acquisire il 20-30% dell’edificabilità oltre alle aree destinate agli standard.
3. Il progetto di Housing sociale.
Il PHS ha un carattere integrativo (complementare) alle altre iniziative di policy che la nuova questione abitativa richiede. Esso ha un carattere delimitato ed è rivolto essenzialmente a conseguire due obiettivi generali:
- intervenire nelle grandi aree metropolitane dove maggiore è la pressione dell’emergenza abitativa;
- rispondere alla domanda di quelle famiglie che hanno un reddito troppo alto per l’edilizia residenziale pubblica ma troppo basso per accedere ai valori di mercato, dell’affitto o dell’acquisto. Si tratta di dare risposte concrete ai bisogni di specifici gruppi sociali: giovani coppie, spesso con occupazione precaria, anziani, immigrati e altri soggetti con bisogni abitativi che non prevedono la proprietà della casa ma la considerano un bene d’uso.
Il PHS è finalizzato alla realizzazione di alloggi a basso costo. Le condizioni essenziali per la sua realizzazione sono tre: a) individuare il suolo da edificare a costo basso o nullo; b) intercettare risorse economiche non speculative; c) attivare forme di gestione di tipo privato. In particolare esso si articola:
- nel dare priorità, nella fase di avvio, all’uso di suoli di proprietà pubblica già acquisiti, ad esempio, con la realizzazione dei grandi interventi di edilizia pubblica economica e popolare e oggi non utilizzati o male utilizzati;
- nel promuovere l’utilizzo di risorse non speculative capaci di attivare interventi di dimensioni significative coinvolgendo il soggetto pubblico e il settore del no profit cui spetterà la gestione tecnico operativa;
- nell’individuare interventi che contribuiscano al recupero e alla realizzazione di spazi pubblici prevedendo attività di animazione sociale delle nuove comunità dei residenti e di quelli già insediati.
Il territorio del progetto urbanistico nei prossimi anni sarà quello già urbanizzato. Sarà necessario conoscerlo, modificarlo, ricostruirlo. Dovremmo ripensarlo a partire, come avviene in altri paesi europei, dai grandi quartieri di edilizia pubblica. Il PHS incrocia questo tema più ampio che riguarda il progetto della trasformazione della città contemporanea. E’ necessario aumentare il livello di conoscenza sulla città pubblica costruita. A Roma, ad esempio, si tratta di conoscere un patrimonio consistente (circa 7.000 ha) e di individuare le possibili risorse da poter attivare nei processi di trasformazione della città.
La realizzazione del PHS, compatibilmente con il disposto del titolo V che affida alle Regioni le competenze in materia di alloggi, avviene attraverso un programma nazionale che individui le condizioni normative e le agevolazioni che possono favorire:
- la nascita di soggetti che hanno come scopo la realizzazione di housing sociale nella forma di agenzie di scopo che possono essere costituiti dagli enti locali, o di fondazioni promosse da operatori economici con caratteristiche sociali. Questi soggetti hanno il compito di attivare le risorse economiche non speculative da impegnare per la realizzazione delle case a basso costo. Le risorse possono essere acquisite sul mercato finanziario da soggetti di mediazione finanziaria o attraverso il ricorso al risparmio statale da attivare per finalità sociali (ex CDDPP);
- l’attivazione di progetti integrati a regia pubblica, finalizzati alla rigenerazione dei quartieri, che comportino l’intervento sui quartieri di edilizia pubblica (o comunque sul patrimonio di aree pubbliche) allo scopo di valorizzarlo (senza prevederne l’alienazione) integrando differenti modelli di intervento e ricorrendo anche a forme di tassazione differenziata per favorire la mixitè sociale della popolazione.
E’ di grande interesse per almeno due ragioni. 1. Perchè è un esempio, mai più raggiunto, di compiuta analisi economico-sociale di una realtà (il “blocco edilizio”) che ha ostacolato, e continua a ostacolare, i tentativi di governare efficacemente l’ambiente della vita dell’uomo e della società. Purtroppo il metodo dell’analisi marxista non è stato negli anni successivi nè superato, nè applicato al campo indagato dall’Autore. 2.Perchè le realtà economica e sociale che il saggio descrive sopravvive in larga misura alle trasformazioni intervenute negli ultimi decenni nell’economia, nella società, nella politica e nella cultura. Per incidens mi limito a ricordare la finanziarizzazione dell’economia e il rafforzato intreccio tra rendite finanziarie e rendite immobiliare a scapito del salario e del profitti; la crescente prevalenza dei “valori” individuali, la frammentazione dei corpi sociali, la graduale emarginazione dei beni comuni; la scomparsa di un’egemonia di sinistra nello schieramento di opposizione, l’accodamento al potere delle posizioni culturali una volta d’avanguardia, limpidamente testimoniato dalle posizioni assunte dell’Istituto nazionale di urbanistica. (A quest’ultimo proposito rinvio al mio Commiato dall’INU, i cui argomenti gettano forse qualche luce sull’atteggiamento attuale del gruppo dirigente dell’INU)
Può anche apparire singolare, ma in Italia – dove la parte di ispirazione marxista ha tanto discusso e discute di processi di formazione di un nuovo blocco storico – manca, quasi del tutto, un’analisi del blocco storico esistente, quello dominante, che sarebbe necessario conoscere e disaggregare. Questa considerazione, non priva di significato culturale e politico, vale anche per la complessiva questione delle abitazioni, rispetto alla quale solo di recente, e di passaggio, a un convegno del PCI è stato detto che intorno ad essa “si cementa un blocco sociale, che è una delle cerniere essenziali del blocco di potere dominante”. Questa analisi però continua a mancare, nonostante che già un secolo fa Engels – schematicamente quanto si vuole – avesse individuato proprio questa capacità aggregante della questione, quando – in polemica con la rivendicazione proudhoniana di trasformare il canone di fitto in canone di riscatto – sosteneva che “gli esponenti più accorti delle classi dominanti hanno i sempre indirizzato i loro sforzi ad accrescere il numero dei piccoli proprietari, allo scopo di allevarsi un esercito contro il proletariato”. Al riguardo si può aggiungere che nello stesso arco della nostra esperienza (pensiamo alla secca liquidazione della legge Sullo) non ci sono mancate prove della potenza d’urto di questo esercito.
Fatte queste constatazioni di assenza, resta tuttavia da aggiungere qui – per difficoltà oggettive e soggettive – non si intende offrire lettore una compiuta analisi di quel che si potrebbe definire “il complesso edilizio”, ma solo un avvio di questa analisi, nella forma di una serie di schematiche osservazioni relative alle stratificazioni che fanno parte, o sono in qualche modo subordinate, a questo “complesso” e ai legami, anche sovrastrutturali, che sono condizione della sua conservazione. Ma prima di addentrarci in queste osservazioni appaiono utili alcune sommarie informazioni sulla entità e le caratterizzazioni dell’“affare casa”.
Nel 1968 il prodotto lordo al costo dei fattori del settore costruzioni (fondamentalmente a uso residenziale) è stato pari a 3.341 miliardi di correnti, cioè di non molto inferiore al prodotto dell’agricoltura (4.096 lordi) e sensibilmente superiore a quello dell’industria meccanica (2.790 miliardi ). Se poi al prodotto lordo dell’industria delle costruzioni aggiungiamo quello del settore fabbricati residenziali (cioè l’ammontare dei fitti pagati per l’uso del patrimonio edilizio esistente), che ammonta a ben 2.310 miliardi di lire, arriviamo a una somma complessiva di 5.651 miliardi, largamente superiore a quella del prodotto dell’agricoltura e pari a un po’ più del 15% del prodotto nazionale lordo complessivo. Tale rilevanza economica del settore viene confermata e sottolineata dalla sua incidenza (30% circa nella media degli ultimi dieci anni) sul totale degli investimenti fissi lordi e sul totale delle spese per consumi finali (quasi il 10% nel 1968). Si può ancora aggiungere che dall’edilizia dipendono totalmente produzioni non trascurabili come quelle del cemento, dei laterizi, del legno e dei mobili, e dipendono in larga misura molte produzioni del settore meccanico. Per ultimo si può considerare economicamente significativo anche l’elevatissimo indice di gradimento che, a livello locale e nazionale, hanno assessorati e ministero ai lavori pubblici. La consistenza economica e le ramificazioni del complesso fondiario industriale-finanziario dell’edilizia appaiono evidenti.
Nonostante le profonde interrelazioni tra pubblico e privato, il segno di questo settore è tuttavia nettamente privatistico. Il settore dell’edilizia, proprio dal punto di vista della produzione e della proprietà, è tra i più privatizzati della nostra economia. Il patrimonio edilizio esistente è quasi integralmente privato e, quanto alla produzione, si ricordi che mentre nell’industria gli investimenti fissi lordi si ripartivano tra imprese private e pubbliche rispettivamente nella misura del 64,6% e del 35,4%, nel settore delle costruzioni, invece, l’incidenza degli investimenti pubblici, in tutto il periodo che va dal 1962 al 1968, si è aggirata tra un minimo del 4,1% a un massimo del 7,4%. Tale carattere privato del settore risulta ancora più evidente dal confronto con gli altri paesi nei quali la incidenza dell’intervento pubblico è di gran lunga superiore. Questa assoluta prevalenza privata non deve però indurre nell’errore di credere che l’intreccio tra pubblico e privato sia di scarsa rilevanza: esso si realizza, ed è fonte di grandi affari e di spostamenti di convenienze, attraverso l’intervento normativo, i piani regolatori e particolareggiati, la predisposizione dei servizi pubblici, le grandi opere pubbliche, la politica fiscale e creditizia ecc. Dopo avere sommariamente indicato dimensioni economiche, ramificazioni e carattere privatistico del complesso edilizio, si tratta di individuare le aggregazioni sociali e le articolazioni economiche e culturali che compongono il blocco. Secondo rapporti di maggiore o minore o subordinazione, in questo blocco si raccoglie un coacervo di forze che fa pensare ad alcune pagine del “18 brumaio di Luigi Bonaparte”.
Ci sono tutti: residui di nobiltà fondiaria e gruppi finanziari, imprenditori spericolati e colonnelli in pensione proprietari di qualche appartamento, grandi professionisti e impiegati statali incatenati al riscatto di una casa che sta già deperendo, funzionari e uomini politici corrotti e piccoli risparmiatori che cercano nella casa quella sicurezza che non riescono ad avere dalla pensione, oppure che ritengono di risparmiare in avvenire sul fitto pagando intanto elevati tassi di interesse, grandi imprese e capimastri, cottimisti ecc. Un mondo nel quale, all’infuori di poche sicure coordinate (quelle di sempre, della potenza economica e del potere politico) vasta è l’area magmatica delle improvvise fortune e della prigione, del triste esproprio (pensiamo solo alla sorte di molti piccoli proprietari di case a fitto bloccato). Un mondo, però, che si tiene saldamente insieme strumentalizzando – per rafforzare i più solidi legami di interesse economico – il fanatismo dell’ideologia della casa, la drammatica necessità di ottenere una casa anche a costo di sacrifici, la necessità di avere un lavoro: il contadino fattosi edile, di fronte alla minaccia di non lavorare, è naturalmente portato a considerare inutili e dannose sottigliezze tutti i perfezionamenti democratici dei regolamenti edilizi. Il fatto che questo sistema non sia in grado di dare la casa a tutti finisce con l’essere la condizione di forza del “complesso edilizio”.
1. Fino a oggi i contingenti decisivi dell’esercito conservatore, che i capitalisti si allevano contro il proletariato sono stati sostituiti dalla vasta massa dei proprietari di abitazioni. Nel più recente rapporto del CENSIS sulla situazione sociale del paese si legge:
“solo una parte dell’offerta di abitazioni è collocata, in proprietà o in affitto, presso gli utilizzatori finali del bene abitazione: una quota rilevante, pari, secondo stime relative agli ultimi anni, a circa un terzo viene invece acquistata da piccoli e grandi risparmiatori a scopo di investimento”.
Si può quindi calcolare che quasi centomila abitazioni all’anno siano andate ad accrescere il patrimonio di questi “risparmiatori”, che sono le truppe scelte dell’esercito conservatore e il cui numero, per proporzionalità alle centinaia di migliaia di case che compongono questo monte, va certamente oltre l’ordine delle decine di migliaia. Vi è poi la sterminata fanteria di coloro i quali sono proprietari degli appartamenti nei quali abitano (tra questi rientrano anche coloro che posseggono qualche o molti altri appartamenti oltre quello in cui abitano). Si tratta di una massa in continua e rapida crescita: 4.301.000 nel 1951 5.972.000 nel 1961, 7.562.000 il 20 gennaio del 1966; dall’andamento degli impieghi bancari e degli istituti speciali risulta che la crescita si è ancora accelerata nel 1967 e nel 1968.
La concentrazione delle case in proprietà è, comprensibilmente, maggiore nei comuni non capoluoghi che in quelli capoluoghi, nel Mezzogiorno più che nel triangolo industriale. Questo dato richiama inevitabilmente la questione del rapporto città-campagna (che è chiave rispetto al problema abitazioni) sulla quale occorrerà ritornare.
Le statistiche non dicono nulla sulla figura sociale degli oltre 7,5 milioni di proprietari di case; si limitano a darci le percentuali della distribuzione degli oltre 6 milioni di case in fitto a seconda della condizione professionale o non professionale del capofamiglia. Relativamente al 1966 dati, nell’ordine, sono i seguenti: imprenditore 0,5%; liberi professionisti 0,9%; dirigenti 1,3%; lavoratori in proprio 13,9%; impiegati 12,0%; lavoratori dipendenti 46,1%; coadiuvanti 0,5%; pensionati 20, 2,%; benestanti 0,3%; altri 4,3%.
Questi soli dati sono insufficienti a conclusioni socialmente qualificate, tuttavia se ne possono trarre almeno due indicazioni: la prima è la conferma che il problema dell’affitto interessa fondamentalmente (quasi nella misura dell’80%) i percettori di reddito fisso, lavoratori dipendenti, impiegati e pensionati; la seconda – alla quale si giunge anche attraverso un confronto tra la distribuzione percento e delle case in affitto e la distribuzione percentuale della popolazione totale secondo la condizione professionale e non professionale – conferma anch’essa ciò che si può facilmente intuire, e cioè che la massa prevalente dei proprietari è costituita da imprenditori, liberi professionisti, dirigenti, lavoratori in proprio e impiegati. Questa conclusione – che conferma quella derivante dalla scarsa incidenza dell’edilizia pubblica – contribuisce a dare una qualificazione sociale a quella che è stata qui definita come la fanteria del “complesso edilizio”: la massa rilevante dei proprietari di appartamenti (in generale di un solo appartamento o al massimo di due), più intensa nel centro-sud e nei comuni minori, è costituita fondamentalmente da ceti medi – e medio-alti – professionali, commerciali, imprenditoriali e impiegatizi, venuti in possesso di uno o più appartamenti o per precedente accumulazione familiare, o per aver varcato una soglia di reddito (o di sicurezza di reddito) che ha consentito l’acquisto in contanti o il versamento di una prima quota (aggirantesi grosso modo intorno al milione di lire) e quindi l’impegno di continuare a pagare per quindici o venticinque anni.
Va poi osservato che, in generale, la possibilità di acquisto di un appartamento si accompagna a uno status che consenta accesso o agevolazioni al credito. In sostanza la possibilità di acquisto presuppone condizioni di privilegio anche minimo, ma precluse alle masse lavoratrici: la proprietà della casa diventa, cioè, nell’attuale contesto, per un verso un elemento di distinzione sociale e per l’altro un aggregante, in senso conservatore, di quel complesso di stratificazioni, che – in modo piuttosto indeterminato – va sotto la definizione di ceto medio, al punto che si potrebbe concludere che è impossibile fare una politica di segno progressivo nei confronti del ceto medio senza sciogliere il nodo della casa, e che è impossibile affrontare il problema della casa senza – quanto meno – neutralizzare il ceto medio.
2. Al di sopra di questo schieramento di massa, vi è il gruppo dominante in verità eterogeneo e non fortemente coeso, almeno nelle sue pur consistenti frange marginali.
Ci sono i proprietari di grossi patrimoni immobiliari e gli speculatori, i padroni di piccoli orti suburbani, gli imprenditori che non sono sempre imprenditori soltanto, i gruppi finanziari privati e pubblici. La categoria dei puri proprietari di aree, non numerosa ma decisiva, grosso modo dalle prime fasi del boom edilizio fino al 1964, viene ora perdendo di peso in rapporto all’ingresso nel campo edilizio dei maggiori gruppi industriali del paese.
Il nucleo determinante di questo raggruppamento è sempre più nettamente costituito dalle società immobiliari, e più di recente, da società specificamente commerciali. Nelle società immobiliari la accumulazione di veri e propri demani di aree si unisce all’attività di costruzione e a quella finanziaria, sia per la raccolta di fondi di investimento, sia per il credito (a carissimo prezzo) praticato agli acquirenti a riscatto. Attorno a questo nucleo centrale si può calcolare vi siano un po’ meno di 50.000 imprese di costruzione e di installazione che assolvono, per una loro larga parte, il ruolo di imprese marginali e costituiscono una vera e propria fascia di copertura, destinata a essere sacrificata nei periodi di cattiva congiuntura. Vi è poi una massa consistente di piccoli speculatori, di intermediari, di procacciatori di favori ecc. Un mondo che non ha riscontri nell’industria vera e propria e che è specifico della persistente condizione di arretratezza e parassitismo del settore. (Il meccanismo di realizzazione della rendita continua a trascinarsi appresso forme di impronta feudale, ma si tratta pur sempre di un mondo esistente, niente affatto disposto a perire silenziosamente, da solo).
Descrivere e quantizzare il gruppo dominante richiederebbe, quanto meno, alcune ricerche dirette che mancano, ma in via di approssimazione possono avanzarsi due osservazioni.
a. Nel nucleo dominante del “complesso edilizio” si realizza uno dei collegamenti centrali tra le varie componenti dell’attuale potere borghese. Le dimensioni dell’“affare casa” sono tali da far superare ogni pregiudizio di modernità, e nel campo edilizio giocano tutti: per le grandi società assicurative l’investimento immobiliare risponde addirittura a un canone di buona amministrazione, ma intervengono anche i maggiori gruppi industriali e ci sono arrivate ormai, e con grande ampiezza di vedute (dalla tangenziale, al prefabbricato, alla società immobiliare), anche le imprese a partecipazione statale.
La saldatura-collusione con i pubblici poteri si realizza attraverso i piani di opere pubbliche, che sono uno degli esempi più realistici della concentrazione programmata: dato socialmente oggettivo rispetto al quale la proposta di un “buon governo” è solo illusione di resuscitare miti. Basterebbe soffermarsi su due o tre delle maggiori società immobiliari permettere in evidenza questi collegamenti e offrire al lettore anche qualche dato interessante, ma si tratta in generale di fenomeni noti.
Quel che qui si vuole sottolineare è che ci troviamo oramai di fronte a un intreccio di interessi e di forze, consolidato sulla realizzazione di un dato surplus, nel quale si intrecciano, e si confondono in verità, forme diverse di rendita con interesse e profitti industriali e commerciali. Questo surplus viene realizzato in una generalizzata situazione di monopolio rispetto a un bene, la casa, il cui mercato, per le specifiche caratteristiche de1 bene (dove c’è una casa non può essercene un’altra, non trasportabilità ecc.), è tipicamente monopolistico e si svolge secondo le più dispendiose forme di concorrenza monopolistica (differenziazione del prodotto nelle sue infinite possibilità: dal tipo di casa, alla sua localizzazione in quartieri socialmente differenziati ecc.). In questa situazione di mercato monopolistico, e nella quale la rendita (nelle sue varie forme) non è più appropriazione esclusiva del proprietario fondiario, il solo esproprio generalizzato può non essere sufficiente (anzi è assai improbabile che lo sia) a ridurre radicalmente (o nella misura oggi attribuita all’incidenza della rendita) il prezzo di uso della casa. Se non si spezza l’aggregato di potere che si esprime nel “complesso edilizio” anche l’esproprio generalizzato rischia di pervenire allo stesso risultato cui è pervenuta l’accresciuta offerta di aree fabbricabili da parte dei comuni emiliani. Come ha scritto Giuseppe Campos Venuti:
Lungi dall’abbassare il costo dei suoli edificabili, l’abbondanza di aree sul mercato vuol dire soltanto portarle tutte al massimo costo sopportabile dagli utenti, costretti a cedere al ricatto della insopprimibile fame di case che si crea in una società caratterizzata dal fenomeno dell’urbanesimo accelerato.
Del resto, nella nota situazione di penuria di case esistente a Roma non vi sono forse 30.000 abitazioni non utilizzate?
b. Questo blocco, specie con l’ingresso recente nel settore dei maggiori gruppi industriali, si prepara ad attraversare una fase di tensioni sia all’interno di quello che si definisce il nucleo dominante sia nei rapporti tra questo e la sua base di massa. Le categorie come rendita o profitto non sono quantità rispetto alle quali si possono fare sottrazioni o addizioni, ma concreti rapporti sociali che vanno sciolti con uno scontro; per questo occorre guardare ai nuovi elementi di tensione che possono favorire una disgregazione del blocco centrale, se non si vuole correre il rischio di finire con l’attaccare quel guerriero, di cui dice il poeta, che continuava a combattere ed era già morto. Questo è infatti il rischio che si corre quando si pensa di concentrare i propri colpi sulla rendita, e su coloro che si appropriano della sola rendita, nell’illusione di potere restaurare un mercato libero-concorrenziale delle abitazioni, è il rischio che si corre quando si sottovalutano le caratteristiche monopolistiche del mercato delle case e l’incidenza diretta che su questo carattere monopolistico ha, e avrà ancora in futuro, la determinazione storica del bene casa e del suo uso.
3. Rispetto al complessivo “blocco edilizio”, una posizione a sé stante, fondamentalmente antagonistica, ma col pericolo di essere a volte subordinata, ha la massa degli edili, tra le più sfruttate, ma anche tra le più coinvolte. Nel settore delle costruzioni lavorano circa due milioni di persone, nella grande maggioranza edili; questi lavoratori, in buona parte di recente provenienza meridionale o agricola, sono distribuiti in una miriade di aziende di varia dimensione e tra loro diversamente collegate (subappalto dell’impresa maggiore alla minore o, addirittura, semplice fornitura di forza-lavoro da parte di quest’ultima). All’interno della stessa organizza-zione del lavoro esiste una forte gerarchizzazione di fatto (la catena del cottimo), che è causa di divisione interna della categoria; la sicurezza della continuità del lavoro è fortemente soggetta ai cicli stagionali e congiunturali e ai casi della legislazione (legge-ponte per esempio).
Tutte queste cause di debolezza oggettiva e soggettiva comportano che le condizioni di lavoro siano subcontrattuali per moltissimi lavoratori (nella provincia di Milano, che non è certo tra le più arretrate, si calcola che il 30-40% degli edili subisca, in forme diverse, “gravi evasioni” alle norme regolanti il rapporto di lavoro). Una seconda conseguenza delle indicate ragioni di debolezza è costituita dalla permanente minaccia di subordinazione e strumentalizzazione: i casi di utilizzazione della massa degli edili come strumento di copertura o di pressione per deroghe ai regolamenti edilizi o ai piani regolatori, o contro leggi che possono ledere gli interessi del “complesso edilizio” fanno parte delle cronache del nostro paese.
Si aggiunga che proprio: a. la bassa composizione organica del capitale, b. la relativa brevità del ciclo produttivo; c. la coincidenza delle funzioni di speculatore, costruttore e commerciante nella stessa persona o gruppo, consentono ai boss dell’edilizia una elasticità di manovra nei confronti dei lavoratori assai maggiore di quella degli industriali veri e propri. Nel tenace e soffocante sistema di ricatto che tiene unito il vasto ed eterogeneo aggregato del “complesso edilizio” si realizza una pressione continua alla corporativizzazione coatta della categoria degli edili. Anche in questo caso però deve osservarsi che le trasformazioni produttive, che ormai si annunciano nel settore, insieme a prospettive di difficoltà e di tensione, prospettano anche la possibilità di accentuare e rendere più netto il contrasto di classe tra proletario e capitalista, che è specifico al rapporto di lavoro dell’edile.
L’obiettivo politico, proprio in rapporto al problema della casa non ci pare sia tanto quello di impegnare gli edili in lotte per la riforma, quanto piuttosto di rafforzarne il potere contrattuale e quello relativo ai modi di organizzazione del lavoro, in modo da impedirne l’uso strumentale da parte del padronato.
Queste componenti sociali del cosiddetto blocco edilizio, oltre che da ragioni immediatamente economiche, sono tenute insieme anche da legami che possono considerarsi sovrastrutturali: la famiglia, i modelli culturali e il consumo
L’attuale modo di abitare sarebbe certo del tutto diverso ove l’attuale famiglia fosse stata superata e, per converso, si può anche sostenere che una soluzione sociale del problema delle abitazioni non è possibile fino a quando la famiglia imporrà un certo uso della casa. La famiglia è ancora un centro di rapporti di riproduzione, storicamente determinati, e di produzione di servizi; è un centro di. consumi individuali; un rifugio di fronte alle difficoltà e alle durezze della vita nella società. Queste funzioni famigliari si rispecchiano nettamente nelle forme assunte dal bisogno (in origine naturale) di abitare; è un punto questo sul quale ha esattamente ragione Adorno quando dice: “A che punto siamo con la vita privata si vede dalla sede in cui dovrebbe svolgersi”.
Ma non si non si tratta solo di questo. Come la famiglia non si è ancora liberata del tutto da funzioni di produzione e di accumulazione, così la casa non è ancora soltanto un bene di consumo, resta ancora un bene capitale, occasione di investimento privato (anche forzato o poco conveniente come per gli acquisti a riscatto) che continua a mantenere sostenuto il mercato, salda la difesa della rendita, tenace la resistenza alla socializzazione della casa.
Le funzioni di rifugio privato e di centro di consumi privati hanno nell’attuale abitazione privata la loro massima esaltazione e, nella misura in cui, trasformandosi in bene di consumo, la stessa abitazione diventa un esaltazione di consumo socialmente improduttivo. L’abitazione si imbottisce di beni di consumo sempre più costosi e sempre più scarsamente utilizzati; diventa – alle varie scale – momento di raffinamento continuo dei bisogni privati da un lato e quindi, dall’altro (in un sistema capitalistico) momento coattivo di imbarbarimento e di astratta semplificazione dei bisogni. Il risvolto di questa abitazione, bene e centro di consumo, momento di progressivo raffinamento del bisogno privato è quello, sia pur con iperbole giovanile, lucidamente indicato da Marx:
Lo stesso bisogno dell’aria aperta cessa di essere un bisogno nell’operaio; l’uomo ritorna ad abitare nelle caverne, la cui aria è però viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli abita ormai soltanto a titolo precario, rappresentando essa per lui un’estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno può essere cacciato se non paga. Perché egli questo sepolcro lo deve pagare. La casa luminosa, che, in Eschilo Prometeo addita come uno dei grandi doni con cui ha trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più per l’operaio [... ] e parimenti il povero apprende che la sua dimora è qualitativamente opposta alla dimora umana che ha sede nell’al di là, nel cielo della ricchezza.
In questo senso spingono le forze di natura del capitalismo: negli Stati Uniti, insieme al proliferare degli slums accade che non i miliardari, ma anche la middle class si costruisca casette unifamiliari negli stili più inutilmente bizzarri. La struttura del monopolio e l’ideologia della fase monopolistica spingono in questo senso: da una parte la differenziazione del prodotto, dall’altra il principio di distinzione sociale; congiuntamente la distribuzione di surplus e la creazione di sacche di miseria, di fasce di marginali.
La citazione di Marx è solo una indicazione e l’Italia, per varie ragioni, è ancora diversa dagli USA, ma pure nel nostro paese le indagini sulle condizioni abitative non solo dei marginali ma anche di larga parte dei ceti operai non offrono quadri luminosi, e gli esempi di differenziazione di prodotto in rapporto al bene e ai beni di consumo domestico diventano sempre più frequenti.
Del tutto al di fuori del blocco del cosiddetto “complesso edilizio” sono gli inquilini e i cittadini senza casa, i baraccati, gli abitanti alloggi impropri. I primi – come tutti sanno – numerosissimi, da un punto di vista sociale non sono niente: sono soltanto un disaggregato sociale. Non solo va respinta la facile assimilazione del rapporto tra inquilino e padrone di casa a quello tra proletario e capitalista, ma ancora va chiarito – nonostante l’elevato livello del fitto solleciti iniziative più generali – che l’unificazione di base tra inquilini (per contrattare il fitto o altre condizioni di locazione) può realizzarsi soltanto tra persone che abbiano l’elemento aggregante non solo nel contratto di fitto, ma anche nel rapporto di lavoro e nella condizione sociale, cioè in una specificità effettiva, tale che la lotta per la riduzione del fitto non muova da un rapporto mercantile fondamentalmente astratto (padrone di casa-inquilino), ma dal rapporto di lavoro concreto che qualifica socialmente la lotta. Va però sottolineato che il livello raggiunto dai fitti consente, nell’immediato, una serie di iniziative da parte di inquilini abitanti in quartieri anche socialmente eterogenei.
I cittadini senza casa che sono tanti e concentrati soprattutto nelle grandi città, sono quello che negli Stati Uniti si definisce il “proletariato urbano” (o i negri), sono un analogo dei contadini senza terra nelle campagne e, proprio in quanto testimonianza vivente della incapacità di tutti i capitalismi di risolvere il problema, sono il ferro di lancia nella lotta anticapitalistica per la casa. Sono le forze che lottando per conquistarsi la casa, oggettivamente (e con un livello di coscienza certamente più elevato di chi può acquistarsi l’uso della casa sul mercato capitalistico) negano l’assetto capitalistico della società e pertanto portano in germe (nonostante la degradazione culturale e le alterazioni di valori intrinseche alla miseria in una società di ricchi) forme e modi di uso della casa di segno non capitalistico, che comunque vanno oltre l’orizzonte borghese dell’uso individualistico e privatistico della casa. Del resto nelle baracche e nelle coabitazioni il capitale fa ogni giorno giustizia sommaria degli ideali di “focolare”, e di “nido”, e anche di “famiglia”. Ma le forze dei “baraccati”, dei soli cittadini senza casa non bastano a vincere in questa lotta anticapitalistica.
Come la lotta dei contadini senza terra raramente ha superato la soglia della jacquerie, così le impetuose occupazioni di questi mesi rischiano di diventare una guerra contadina, di esaurirsi in una serie di scontri, o nella precaria conquista di alcuni edifici. L’articolazione e la forza del “complesso edilizio”, il peso delle sue componenti, la tenacia e profondità dei suoi leganti, economici e non economici, e soprattutto l’indissolubile dipendenza della penuria di case dall’esistenza del sistema capitalistico comportano che l’offensiva dei cittadini senza casa, per essere efficace, debba iscriversi in una più vasta articolazione di lotte, che investano tutti i gangli dell’attuale equilibrio capitalistico e abbiano obiettivi al livello delle trasformazioni e delle contraddizioni in atto.
Ora, l’attuale situazione si caratterizza da una parte per la persistente esasperazione e offensiva di una importante avanguardia, costituita dai cittadini senza casa, e dall’altra dalla prospettiva di tensioni all’interno del nucleo dominante il “complesso edilizio”, quanto meno per l’ingresso in campo di nuove forze imprenditoriali, private e del capitalismo di stato. Questo ingresso provocherà tensioni all’interno delle forze attualmente dominanti il mercato edilizio e investirà necessariamente la massa degli edili, che dovrà ridiscutere i suoi rapporti col padronato e quindi sarà impegnata in lotte di grande peso. Contemporaneamente è registrabile in alcune sfere di comando della nostra economia (discorsi di Petrilli, di Carli, di Agnelli) la coscienza che l’elevato costo delle case (che aumenta necessariamente il prezzo della forza lavoro), dato l’attuale livello del potere rivendicativo della classe operaia, incide negativamente sulla redditività e competitività della industria. Nell’ipotesi quindi che la classe operaia non subisca, nel breve periodo, gravi sconfitte, è assai probabile che l’intervento pubblico e privato nel settore edile provochi un arresto o anche una lieve flessione nella dinamica ascendente dei fitti e della valorizzazione delle abitazioni di livello medio-basso. In questa ipotesi (che non sarebbe diversa dalle cicliche espropriazioni dei risparmiatori che hanno investito in case), la potente fanteria dei piccolo-medi proprietari di casa avrebbe fa talmente degli ondeggiamenti (basterebbe uno spostamento del risparmio verso gli investimenti in obbligazioni, in molti casi già oggi più convenienti) e il gruppo di potere sarebbe indebolito proprio nella sua decisiva base di massa.
Queste affrettate ipotesi non vogliono delineare una illusoria prospettiva di automatico crollo del “complesso edilizio”, ma la prospettiva di un allentamento della sua coesione e la possibilità di riaggregare in un blocco alternativo parte delle forze che oggi lo compongono, e che le politiche per la casa fin qui fatte (emerge così anche l’inefficacia della politica nei confronti dei ceti medi e delle città meridionali) hanno invece consolidato, o ingrossato.
La possibilità di disaggregazioni e riaggregazioni sottolinea la necessità e l’urgenza di elaborare e costruire una linea efficace, e quindi alternativa a quella riformista, fallita. Una linea alternativa non si inventa: viene prendendo forma, nel corso del tempo, attraverso le esperienze del movimento, la riflessione, il confronto polemico, anche. Nel numero 3-4 del “ Manifesto”, dalle schede, dagli articoli, dall’esame della forma della rendita, emerge già un primo abbozzo di linea alternativa, del quale cerchiamo qui di isolare i tratti essenziali. E va ricordato che a rendere alternativa una linea non basta, né è necessario, l’attribuzione di un obiettivo “più avanzato”. Non occorre essere strutturalisti per capire che il segno di una linea dipende dalla organizzazione dei suoi obiettivi e dai rapporti intercorrenti tra obiettivi e forze sociali. Così una linea che non si fondi su una analisi (e su una organizzazione) delle forze sociali e non consideri l’obiettivo come momento di aggregazione e potenziamento di uno schieramento socialmente qualificato, ma punti invece, sostanzialmente, a sommare rivendicazioni (quando non addirittura proposte) con un riferimento socialmente indeterminato (programmi d’opinione pubblica o programmi genericamente antimonopolisticì) potrà forse essere utile in una fase di difesa, ma sarà sempre una linea verticistica (con netta separazione tra momento sociale e momento politico) e riformista.
Schematizzando al massimo, questa linea si caratterizza per cinque qualificazioni: a. essere anticapitalistica; b. avere come sua avanguardia i lavoratori privi di abitazione e gli inquilini poveri aggregati in base alla loro qualificazione sociale; c. fondarsi su un movimento di vertenze sociali autogestite; d. avere l’obiettivo della casa come servizio sociale, rompendo quindi l’attuale tipizzazione privatistica del prodotto casa e del suo uso; e. avere l’obiettivo della nazionalizzazione del settore edile, oltre all’esproprio generalizzato delle aree.
Di questi punti, esaminati anche negli altri articoli, qui si considerano rapidamente solo il primo e gli ultimi due:
a. Caratterizzare come anticapitalistica la lotta per la casa consegue alla constatazione che il capitalismo in nessun paese è stato finora in grado di assicurare una abitazione abitabile a tutti, e quindi che il problema non si risolve attraverso riforme, ma solo attraverso il rovesciamento del sistema. Le prevedibili obiezioni di nullismo appaiono concretisticamente miopi e avvocatesche. La risposta più facile sarebbe nel dire che il più grosso concentrato di nullismo politico si trova nelle opere di Marx, o che ripubblicare la Questione delle abitazioni di Engels senza una prefazione che spieghi come con la GESCAL o con l’attesa legge urbanistica sia cominciata o comincerà una nuova fase del capitalismo, sarebbe prova di massimalismo intellettualista. E a voler rimanere sempre ai primi elementi di marxismo si potrebbe ancora ricordare che in Salario, prezzo e profitto, Marx – che pure aveva particolarmente insistito sul fatto che il proletariato si sarebbe liberato solo attraverso la distruzione del capitalismo – non ritenesse tutto ciò incompatibile con la lotta operaia per migliorare i salari reali. Dire che questa lotta deve essere anticapitalistica se vuole avere un senso, significa avere chiarezza del problema e quindi della necessità di condurla in connessione con le altre lotte (che debbono essere anch’esse di segno anticapitalistico), quelle operaie e quelle per la conquista di alcuni strati di ceto medio (gli statali per esempio), quelle contadine e quelle meridionali. Significa che questa lotta deve avere, per essere efficace, un respiro ideale e culturale comunista, che deve alimentare – traendone forza essa stessa – un contropotere di classe. Proprio nel caso delle abitazioni vale ripetere che “l’opposizione tra la mancanza di proprietà e la proprietà, sino a che non è intesa come l’opposizione tra il lavoro e il capitale, resta ancora una opposizione indifferente”.
d. Fare della casa un servizio sociale comporta assicurare a tutti l’abitazione in base ai bisogni di ciascuno: è un obiettivo comunista, ma raggiungibile, e già oggi può consentire di migliorare le condizioni di abitazione degli strati inferiori della società. Le esperienze del boom e le decine di migliaia di case vuote dimostrano che non ci troviamo di fronte ad impossibilità per carenza di capacità produttive in astratto, ma ad impossibilità derivanti dai modi di operare di queste capacità, dai profitti o sovraprofitti e sprechi da eliminare. L’ingresso nel settore edilizio di grandi gruppi imprenditoriali annuncia una industrializzazione e una più spinta tipizzazione della produzione; la rivendicazione della casa come servizio sociale può consentire di intervenire su questa tipizzazione e sulla sua graduazione contrastando, sulla base di una impostazione egualitaria, una differenziazione del prodotto in base ai livelli di reddito e cercando di ottenere che la stessa necessaria tipizzazione corrisponda a scelte autonomamente elaborate dagli utenti delle case e dagli architetti. Non si tratta qui di definire modelli di case per il futuro, ma di tornare a ribadire che, in quanto consumo sociale, l’abitare si deprivatizzerà e casa e città dovranno assicurare ricchezza di libertà individuale e intensità di rapporti sociali nel senso di Marx, quando scrive del “comunismo come soppressione positiva della proprietà privata” e dei modi privatistici di vita a quella conseguenti. L’abitare inteso come consumo sociale comporta che la tipologia delle nuove abitazioni, e quindi delle città, si liberi dalla rigidità che ha dominato per secoli e che ancora oggi crea frizioni costose tra modi di costruzione e modi di abitare, di studiare, di curarsi, ecc. Al di fuori della futurologia si vuole solo affermare che casa e città dovranno essere tra l’altro adattabili al variare delle esigenze sociali.
e. Per nazionalizzazione del settore edile deve intendersi che le abitazioni avranno un regime analogo a quello delle scuole, che sono un bene pubblico. Non si tratta, neppure in questo caso, di definire i particolari del futuro, ma di limitarsi ad alcune indicazioni, per esempio che non appare utile estendere la nazionalizzazione al patrimonio edilizio esistente (che col passare del tempo dovrebbe esaurirsi) limitandola invece alle nuove costruzioni. La nazionalizzazione delle cose di nuova fabbricazione è, da una parte una logica conseguenza della rivendicazione, ormai diffusa, che si esprime nella formula “casa come servizio sociale”, e, dall’altra, è una condizione necessaria perché l’agganciamento del canone di fitto alle possibilità di pagamento dell’utente (e anche questa è una rivendicazione diffusa) non dia luogo alla creazione di una serie di ghetti rigidamente distinti a seconda dei livelli di reddito. Vi sono evidentemente una serie di problemi, da quello dell’assegnazione (che potrebbe avvenire anche attraverso simulazioni di mercato) a quello del finanziamento (che potrebbe ricadere sugli utenti o sulla società nel suo complesso), ma si tratta di questioni che troveranno soluzione soltanto nel corso della lotta per la casa e delle altre lotte, nella misura in cui quella e queste andranno avanti. Ma se si vuole che chi non ha abitazione possa conquistarsela e chi la ha possa riappropriarsi di un uso “umano, cioè sociale” della abitazione, crediamo proprio che la via da seguire sia quella, nella quale il cambiamento del modo di produzione si accompagni al cambiamento della natura del prodotto.