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«È inaccettabile che il negriero di ieri sopravviva nei governi che oggi tornano a incatenare la libertà degli africani, subordinandola agli stessi interessi e allo stesso potere oppressore». Padre Alex Zanotelli ha preso in prestito dall’arcivescovo di Tangeri Santiago Agrelo queste parole fortissime per denunciare le colpe di cui l’Occidente e l’Europa si stanno macchiando nell’affrontare la questione dell’immigrazione. Intervenuto oggi, giovedì 25 ottobre, al Nuovo Teatro Orione di Roma per la presentazione del Dossier Statistico Immigrazione 2018, il missionario comboniano ha affrontato da far suo un argomento caldissimo, su cui stanno prendendo il sopravvento strumentalizzazioni politiche che puntano a far raccogliere consensi a chi vuol far apparire lo straniero come il “nemico” e l’“invasore”.
Il rapporto, realizzato dal Centro Studi e Ricerche IDOS in partenariato con il Centro Studi Confronti, con la collaborazione dell’UNAR (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) e con il sostegno economico del Fondo Otto per mille della Chiesa Valdese e dell’Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi, anche in questa sua 28ª edizione si prefigge proprio l’obiettivo di combattere con i numeri e le analisi la disinformazione e la becera propaganda che nel nostro paese si sta consumando sulla pelle dei migranti.
Bastano pochi dei dati contenuti nel dossier per confermare che l’Italia è rimasta intrappolata in una falsa narrazione di questo tema. Stando a un sondaggio del 2018 condotto dall’Istituto Cattaneo, gli italiani sono infatti il popolo con la percezione del fenomeno migratorio più lontana dalla realtà dei fatti. «L’Italia – si legge in proposito nel rapporto – non è né il Paese con il numero più alto di immigrati né quello che ospita più rifugiati e richiedenti asilo. Con circa 5 milioni di residenti stranieri, viene dopo la Germania, che ne conta 9,2 milioni, e il Regno Unito, con 6,1 milioni, mentre supera di poco la Francia (4,6 milioni) e la Spagna (4,4 milioni)».
La maggioranza degli italiani continua, inoltre, a credere che gli sbarchi sulle nostre coste continuino ad aumentare, e invece nel 2018 sono diminuiti dell’87,4% secondo i dati del ministero dell’interno, mentre a lievitare sono stati i morti nel Mediterraneo. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni tra gennaio e settembre 2018 sono stati 1.728, di cui 3 su 4 nella sola rotta tra Italia e Libia. Una strage quotidiana che ha tra le sue cause anche l’accordo per il contrasto dell’immigrazione illegale, stretto tra Roma e Tripoli nel febbraio del 2017 e tradottosi in un massiccio piano di respingimenti verso la Libia.
E, ancora, gli italiani pensano che gli immigrati nel nostro paese siano musulmani, e invece si tratta per la maggior parte (oltre il 50%) di cristiani. E sostengono che gli stranieri rubino loro il lavoro, mentre è certificato che oggi gli immigrati in Italia svolgono impieghi che non confliggono con le nostre richieste di occupazione, semplicemente perché si tratta di mansioni che non vogliamo né siamo costretti a svolgere in quanto precarie, pesanti, pericolose, spesso soggette al lavoro nero o a pratiche di caporalato. Per l’esattezza, come si evince dal dossier, «è straniero il 71% dei collaboratori domestici e familiari (comparto che impiega il 43,2% delle lavoratrici straniere), quasi la metà dei venditori ambulanti, più di un terzo dei facchini, il 18,5% dei lavoratori negli alberghi e ristoranti (per lo più addetti alle pulizie e camerieri), un sesto dei manovali edili e degli agricoltori».
Nel corso della presentazione del rapporto della condizione lavorativa degli immigrati residenti in Italia ha parlato soprattutto Aboubakar Somumahoro, dirigente dell’Unione sindacale di base. Tra le persone intervenute c’è stato anche il direttore di UNAR Luigi Manconi, che da parlamentare nella passata legislatura è stato tra chi si è battuto maggiormente per l’approvazione dello Ius Soli. Luca Anziani, vice-moderatore della Tavola Valdese, ha parlato dell’Italia come di «un paese con poca memoria» andando alla «radice culturale» del problema, «la stessa che in passato ha permesso a Mussolini di approvare prima le leggi razziali e poi quelle antisemite che sono state il preludio alle deportazioni di massa degli ebrei». Mentre Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche di IDOS, nel sottolineare l’importanza della presenza in platea degli studenti delle scuole, ha voluto dedicare simbolicamente questa giornata di confronto e dialogo a Domenico Lucano, il sindaco della “multirazziale” Riace, colpito da un provvedimento di divieto di dimora nel comune calabrese per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e affidamento fraudolento diretto del servizio di raccolta differenziata dei rifiuti. «L’auspicio – ha dichiarato Di Sciullo – è che un’esperienza felicissima di integrazione dei migranti riconosciuta in tutto il mondo non venga svilita da queste decisioni». Ripartire da questa speranza è un impegno che l’Italia dell’accoglienza e del rispetto degli “altri” deve portare avanti. Soprattutto in tempi di tensioni e chiusure come quelli attuali.
il manifesto
«Migranti. se si vuole rovesciare il tavolo di una partita già persa occorre andare non solo alla radice dell’insofferenza per i migranti, ormai trasformata in odio e in angherie quotidiane; e nemmeno solo alla radice dell’austerity che l’ha provocata; bensì capire che cos’è veramente ciò che l’austerity sta bloccando. E’ questa la chiave per affrontare anche molte delle cause all’origine della “crisi migratoria”, che non è un’emergenza, ma un processo secolare»
L’Unione, già Comunità (che vuol dire mettere le proprie risorse in comune) Europea, si sta dissolvendo sotto i nostri occhi. Forse si è già dissolta. A prima vista la causa più evidente del fallimento è la cosiddetta «crisi migratoria». È evidente che trattare decine o centinaia di migliaia di esseri umani come pacchi, come un peso da scaricarsi l’un l’altro e facendo finta, a ogni nuovo arrivo, di affrontare il problema per la prima volta, non è una politica lungimirante.
L’Ue non ha combattuto le politiche di Orbàn quando era ora di farlo, mentre aveva a suo tempo condannato quelle dell’austriaco Haider (ma non quelle di Bossi quando per la Lega l’Unione era già “Forcolandia”). Così ha creato nel suo seno i Salvini, e i molti come lui, in tutto il continente. L’establishment europeo è stato accecato dalla sua “cultura economica”, pensando che il “resto”, l’unità politica, seguisse automaticamente (l’intendence suivra…). Così è passato come un carro armato sulla Grecia (culla della sua “civiltà”) per salvare qualche banca francese o tedesca e ora, dopo aver subito senza reagire la “brexit”, rischia di venir trascinata nel baratro dall’Italia: nazione “fondatrice” dell’Unione, ma Stato quasi fallito. Per cui, se l’Italia e i suoi abitanti sono un vuoto a perdere, con i migranti se la vedano loro…
Eppure nel dopoguerra la ricostruzione dell’Europa, quella che aveva dato vita alla Comunità europea, era stata in gran parte opera di immigrati (metà profughi dell’Est europeo, metà provenienti dalle sponde Nord, Italia compresa, e Sud del Mediterraneo). Immigrati erano stati anche i protagonisti dei “miracoli economici” degli anni ‘60 e della successiva ancorché parziale ascesa dell’Unione a potenza (economica) mondiale. La svolta è arrivata con la crisi del 2008, che ha portato alla luce pulsioni represse da tempo. L’Unione l’ha affrontata con l’austerità, rinunciando con ciò a un ruolo da protagonista; e da allora i migranti - sia profughi, di guerra e, sempre più, anche ambientali, sia gente affamata in cerca di un lavoro - hanno cominciato a venir trattati come la peste. Le destre europee, e il popolo dei social e degli stadi che le segue, lo fanno apertamente, spesso con un linguaggio che è ormai, e in modo ostentato, nazista. Gli altri, le forze “istituzionali”, lo fanno in modo ipocrita, cercando di nasconderlo. Ma, per tutti, profughi e “migranti economici” sono solo un peso e come tali vengono trattati. Da loro c’è solo da ricavare qualche occasione per sfruttarli meglio per ripagarsi del fatto di non essere riusciti a scacciarli.
Così, al centro delle prossime elezioni europee, ma soprattutto di un ben più importante confronto sul futuro delle nostre vite e della convivenza, ci saranno loro, i migranti; o, meglio, la capacità o meno di disfarsene; o la promessa di essere più bravi nel farlo. Privi di alternative, centro e “sinistre” non faranno che accodarsi alle ricette delle destre. Affrontare questa partita aggrappandosi alla zattera che affonda delle sinistre europee e al loro rosario di desiderata mai contestualizzati, mai veramente perseguiti e quasi sempre rinnegati - lavoro, welfare, diritti, istruzione, ricerca… - vuol dire averla già persa. Lo scontro tra accogliere e respingere è già deciso perché dietro ad “accogliere” non c’è né un programma per il “dopo” - che fare di e con chi viene accolto? – né il progetto di un’Europa diversa da quella che c’è; mentre dietro a “respingere” c’è un progetto preciso, anche se mai dichiarato: il trattamento riservato oggi ai migranti è quello in serbo anche per la maggioranza di noi. Perché che cosa ne sarà dell’Europa di domani, qualsiasi strada imbocchi, non riguarda solo i migranti ma tutti noi.
Dunque, se si vuole rovesciare il tavolo di una partita già persa occorre andare non solo alla radice dell’insofferenza per i migranti, ormai trasformata in odio e in angherie quotidiane; e nemmeno solo alla radice dell’ che l’ha provocata; bensì capire che cos’è veramente ciò che l’austerity sta bloccando. E’ questa la chiave per affrontare anche molte delle cause all’origine della “crisi migratoria”, che non è un’emergenza, ma un processo secolare.
A essere bloccata è la conversione ecologica: la capacità di indirizzare forze e pensieri alle misure per far fronte ai cambiamenti climatici e a un degrado ambientale irreversibili. È l’unica scelta in grado di restituire un ruolo all’Europa, ma che è anche senza alternative che non siano la rovina del pianeta e dell’umanità e una guerra permanente contro i migranti destinata a provocare milioni di morti e ad alimentare reclutamenti di massa da parte di formazioni terroristiche. Ma è una svolta che non può più essere affidata a Governi e imprese che hanno dimostrato di non saperla affrontare. Solo quei movimenti attivi nella difesa dei territori e nel sostegno ai migranti, che sono molti e variegati, ma dispersi e scollegati, possono mettere all’ordine del giorno l’intera questione in modo concreto, con buone pratiche e un confronto aperto. Se sapranno farlo potranno riorientare anche una parte di quelle forze politiche e delle istituzioni, a partire dai governi locali, che hanno da tempo perso ogni contatto con la realtà.
La conversione ecologica non può che essere un processo partecipato e svilupparsi a partire dal livello locale, avendo però di mira tutto il pianeta. Ma di esso profughi e migranti sono una componente essenziale, perché possono portare un grande contributo alla realizzazione dei milioni di interventi diffusi necessari (l’opposto delle Grandi opere e dei grandi eventi dell’attuale modello di “sviluppo”); soprattutto se il finanziamento di quegli interventi sarà legato all’inclusione di una consistente quota di migranti tra la manodopera da coinvolgere e non da sfruttare. Assisteremmo allora a una corsa per “accaparrarseli”, mentre continuando a trattare come ora la popolazione immigrata stiamo trasformando l’Europa in un grande campo di concentramento (da gestire accanto alla vita che si svolge “come sempre “), ma anche in un campo di battaglia.
Ma i migranti sono una componente essenziale della conversione ecologica anche perché il loro coinvolgimento è una strada obbligata per la rigenerazione dei loro territori di origine, a cui molti di loro vorrebbero poter tornare e con le cui comunità molti altri mantengono dei contatti. Il risanamento ambientale e sociale (la partecipazione) di quei territori ha bisogno di nuovi attori, che possono essere solo loro; certo non gli attuali Governi locali o quelli che se ne stanno appropriando in continuità con le politiche coloniali del secolo scorso; e meno che mai le multinazionali che ne stanno devastando il territorio: cioè tutti quelli del “prima noi”, non solo qui, ma anche “a casa loro”.
Internazionale
La tragedia dei profughi provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa è una grave crisi umanitaria e geopolitica che minaccia anche il futuro dell’Unione europea. Perché il progetto europeo non era solo la costruzione di un mercato, anche se alcuni paesi lo riducono a questo, ma la proiezione in Europa e nel mondo dei valori umani che sono alla base di un mondo fondato sulla pace e sulla solidarietà tra le specie. La xenofobia, il razzismo e l’egoismo che emergono dalle reazioni di molti governi e molti cittadini minano, in pratica, il sogno europeo.
L’Europa che ora molti difendono è una società anziana e spaventata, circondata da un mondo di un miliardo di africani percepiti come i nuovi barbari. E contro i quali vengono alzate barriere fisiche, legali e militari per sigillare i nostri confini e, in particolare, le coste del Mediterraneo. Sforzo vano, a medio termine. Naturalmente il flusso di immigrati potrebbe essere ridotto sostanzialmente con una politica di sviluppo condiviso, a cui l’Europa, nel proprio interesse, deve contribuire. Ma una questione a sé sono i rifugiati, in fuga da guerre dal Medio Oriente e dall’Africa, causate dalla stupidità e dall’ambizione di Stati Uniti e Russia, ma anche dell’Europa (ricordatevi Tony Blair, José María Aznar, Nicolas Sarkozy e gli altri autoproclamati difensori della civiltà).
Milioni di persone sono state costrette alla fuga e sono ancora senza casa, perché non dobbiamo dimenticare le guerre infinite in cui sono immerse ampie aree dell’Africa. E quando queste persone sono in mare, devi salvarle prima di discutere. E poi devi accoglierle e infine integrarle quando si tratta di rifugiati. Un processo lungo e complesso che viene negato da paesi come l’Italia e dai regimi xenofobi dell’Europa centrale e orientale.
Il gesto del premier spagnolo Pedro Sánchez di accogliere la nave Aquarius alla deriva (segno di un politico che non rinuncia ai princìpi umani, un po’ come Angela Merkel) ha dato origine a una nuova dinamica in cui si finalmente si parla e si negozia tra i governi. Perché solo dalla cooperazione paneuropea può emergere una politica globale e differenziata su immigrazione e asilo. Politica che dovrebbe includere lo sviluppo condiviso nord-sud in relazione all’immigrazione, e lotta legale contro le mafie criminali che trafficano con gli esseri umani. Tuttavia, nonostante un primo tentativo di compromesso guidato da Sánchez, Macron e Merkel, tutto è stato lasciato nella nebbia perché gli xenofobi e i neonazisti oggi hanno l’iniziativa, oltre alla presidenza austriaca dell’Unione europea.
E mentre nelle sale del potere si discute, migliaia di esseri umani vedono le loro vite distrutte senza un orizzonte di salvezza. Se non vi importa di questo, avete smesso di essere umani, e forse un giorno arriverà il vostro turno di vedere la porta chiudersi davanti ai vostri cari. Su questo pianeta, così com’è, o ci salviamo insieme o andiamo tutti all’inferno.
Ma s’intravede qualche raggio di speranza. Se invece di guardare ai governi, paralizzati dalle loro lamentele, guardiamo le persone. Alle migliaia di cittadini che con generosità vanno in aiuto ai propri simili. E sono disposti a fornire alloggio, lavoro, istruzione a coloro che ne hanno urgente bisogno. Questa è la strategia alla base di una delle iniziative più esemplari ed efficaci che si stanno realizzando in Europa: i corridoi umanitari proposti e organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio con il sostegno diretto di Francesco. Un progetto che cerca di affrontare il problema chiave: l’integrazione nelle società in cui vivono i rifugiati. Evitare campi temporanei o ghetti assistiti, fonte di discriminazione e xenofobia.
Il papa ha insistito sulla necessità di organizzare l’accoglienza da parte della società – che siano le famiglie, le parrocchie e le associazioni – per risolvere immediatamente il problema di dove vivere, lavorare, imparare la lingua e mandar a scuola i bambini. Per fare questo, individuano i rifugiati nei campi in cui sono arrivati e organizzano il loro trasferimento legale verso i paesi europei. Come ha fatto lo stesso papa portando sull’aereo vaticano 22 profughi dall’isola di Lesbo.
Questi sono i corridoi umanitari: quelli che vanno dalla geografia della disperazione ai paesi con i quali la Comunità di Sant’Egidio ha stretto accordi. Al momento Italia, San Marino, Belgio, Francia. E recentemente Andorra, che ha promesso di accogliere i rifugiati dalla Somalia e dall’Eritrea. Tutti i costi sono coperti da donazioni. L’unica cosa che serve ai governi è un visto per le famiglie individuate e accolte da Sant’Egidio.
La Spagna non ha sottoscritto questi accordi. E se il ministro degli esteri Josep Borrell pensa, come ha giustamente affermato, che la questione dei rifugiati è la più grave crisi potenziale in Europa, farebbe bene a facilitare quei visti in collaborazione con il ministero dell’interno. Perché solo se la società civile, o le persone, vengono mobilitate, si può creare un tessuto sociale in cui i rifugiati non sono un problema, ma un contributo al paese ospite che ha bisogno di nuovo sangue per compensare il suo invecchiamento. In altre parole, i corridoi umanitari non solo salvano le persone senza alcun costo per il governo, ma consentono ai cittadini di essere parte della soluzione.
Finora sono solo poche migliaia le persone che hanno viaggiato attraverso questi corridoi. Ma anche così sono più dei rifugiati accolti da quattordici paesi europei insieme. E se altre organizzazioni, compresi i comuni, adottassero iniziative simili, l’energia positiva che esiste in mezzo a noi potrebbe essere canalizzata per contrastare gli istinti distruttivi della mancanza di solidarietà che ci minaccia.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano spagnolo La Vanguardia del 23 luglio 2018 e tradotto dall'internazionale.
Tratto dalla pagina qui raggiungibile.
Effimera
La figura, indistinta e pericolosa, del migrante è probabilmente una delle rappresentazioni più forti che si è costruita negli ultimi decenni nella comunicazione politica delle aree più ricche del pianeta. Totalmente priva di riferimenti concreti con la quotidianità delle società europee è presente, priva del diritto di accesso allo spazio della politica, in tutte le forme di comunicazione e in tutti i riferimenti astratti della programmazione istituzionale. I migranti però esistono al di fuori della costruzione dell’immagine del nemico, esistono al margine dello spazio sociale e ci pongono di fronte al fallimento della grande costruzione della democrazia occidentale. Sono, infatti, il limite su cui si infrange il modello di democrazia universale che è stato presentato, a partire dalla metà dello scorso secolo, come l’orizzonte compiuto della nostra storia. Ci dicono, ad esempio, che quel racconto non teneva in considerazione minimamente la maggioranza del pianeta né le condizioni di costante e ineluttabile povertà a cui è costretta da più di cinque secoli la maggioranza della popolazione mondiale.
Il volume curato da Tindaro Bellinvia e Tania Poguish si pone in modo evidente nel solco di quella critica che sta portando una parte sempre più ampia degli studiosi a rimettersi in discussione di fronte all’oggetto del proprio lavoro. Questa critica, da un lato, parte dall’esperienza diretta, dal legame necessario che le scienze sociali devono mantenere con la materialità sociale del vivente, e, dall’altro lato, è il frutto di un processo di riflessione, che tutti gli autori stanno compiendo, sul senso stesso del loro ruolo e sulla possibilità che il pensiero non addomesticato possa agire concretamente nei luoghi più problematici della quotidianità. Affrontando le diverse questioni che vengono poste dal lavoro di superamento dell’eredità coloniale, i vari autori mettono in discussione gli elementi che hanno determinato la costruzione di un discorso scientifico pienamente coinvolto nell’esercizio del contenimento e nell’uso economico delle migrazioni.
l discorso violento sulle migrazioni costruito da un’ampia parte del pensiero politico recente rientra, a tutti gli effetti, nella narrazione coloniale, nonostante si possa ritrovare in luoghi che non sono necessariamente il centro dell’economia globale. È un discorso che presuppone uno spazio di vita civile contrapposto ad una massa informe e barbarica e, quindi, un valore asimmetrico delle esistenze, una differenza tra migrante e cittadino che sintetizza alcune questioni di fondo della società attuale. Sulle migrazioni si è evidenziata in questi anni la capacità finale del neoliberalismo di distruggere anche i residui del discorso universalista del tardo capitalismo europeo. Le vite dei migranti sono evidentemente sacrificabili. Esse sono esistenze di scarto a cui è riconosciuto al massimo l’obiettivo di inserirsi in un contesto che ha bisogno di un esercito di manodopera di riserva: un contesto che oggi non possiede più che una pallida speranza di accesso ai margini del mercato.
La marginalità è l’unica dimensione stabile da cui non si può uscire. Le grandi migrazioni attuali si svolgono tutte all’interno di uno spazio asimmetrico che definisce l’intera esistenza della maggior parte degli abitanti del pianeta, esiliati oltre i confini della ricchezza, in qualunque collocazione geografica si situino. Da questa posizione, dal segno tracciato per definire tale differenza costitutiva, non è riuscita a scostarsi un’ampia parte degli studi sui processi in atto, né, in alcuni casi, le teorie politiche che sostengono l’integrazione.
Nella sua adesione alle esigenze del mercato, con il linguaggio settoriale e con la ricerca di soluzioni per la crescita economica, lo studio delle migrazioni si è rivelato spesso una pratica violenta, che rimanda al dibattito sulla circolazione e la distribuzione globale delle merci. I migranti sono stati considerati, spesso a tutti gli effetti, variabili produttive e inseriti in un discorso generale sulla sicurezza delle società di arrivo (Palidda, 2016). I tre grandi poli delle migrazioni attuali (quelle dirette verso gli USA, a tappe attraverso tutto il continente da Sud a Nord; quelle dirette verso l’Europa, a tappe attraverso due continenti; quelle interne all’asse India-Cina), sono chiaramente alimentati dalla ristrutturazione dell’economia. Le migrazioni in quel caso rispondono allo schema, seppure divenuto più complesso negli anni più recenti, proposto dalla lettura del sistema-mondo: si organizzano da varie periferie in direzione di centri produttivi, nell’ipotesi di incontrare maggiori opportunità di occupazione.
Di fronte ai mutamenti globali dell’economia e alla velocità con cui si realizza la delocalizzazione delle aree produttive, si pone il problema della validità delle definizioni tradizionali dei processi migratori. È evidente che non può esistere in alcun modo una teoria generale delle migrazioni nel contesto globale postcoloniale senza un’analisi precisa dei mutamenti generali nei rapporti di produzione del sistema economico globale. Soprattutto se si assume il punto di vista generale delle teorie sociali in cui le istituzioni che si attribuivano il compito di regolare il diritto di movimento degli esseri umani avevano una precisa relazione con il funzionamento economico della società. Il dibattito sulla relazione tra stato e mercato non può essere considerato marginale, così come non si può sottovalutare l’insieme dei fenomeni che hanno determinato le grandi migrazioni degli ultimi tre secoli, dirette verso i centri urbani e le nuove aree di produzione di valore. Allo stesso modo è impossibile elaborare una nuova teoria analitica sulle migrazioni senza superare l’ottica eurocentrica con cui sono state studiate finora.
L’insieme di questi processi diventa chiaro solo al di fuori del vecchio sistema di controllo e difesa dei confini statali, perché l’azione di controllo condotta finora dalle varie istituzioni presuppone la difesa delle aree di libero scambio e non dell’integrità statale. Non solo, essa presuppone la prevalenza della programmazione economica sull’integrità territoriale. Il risultato dell’insieme di queste caratteristiche disegna un complesso quadro di spostamenti umani che rende evidente la fine del progetto di suddivisione del pianeta prodotto dalla modernità. In quel progetto gli stati avevano un ruolo fondamentale, tracciavano i confini ed esercitavano il controllo diretto sulle potenzialità di movimento degli esseri umani. Rimane da valutare quanto questo slittamento verso forme di controllo puro, prive di un controllo politico di qualunque tipo possa produrre solo uno spazio per l’esercizio di dominio o sia anche la base per la costruzione di nuove forme istituzionali.
Di fronte ai mutamenti globali dell’economia e alla velocità con cui si realizza la delocalizzazione delle aree produttive, si pone il problema della validità delle definizioni tradizionali dei processi migratori. È evidente che non può esistere in alcun modo una teoria generale delle migrazioni nel contesto globale postcoloniale senza un’analisi precisa dei mutamenti generali nei rapporti di produzione del sistema economico globale. Soprattutto se si assume il punto di vista generale delle teorie sociali in cui le istituzioni che si attribuivano il compito di regolare il diritto di movimento degli esseri umani avevano una precisa relazione con il funzionamento economico della società. Il dibattito sulla relazione tra stato e mercato non può essere considerato marginale, così come non si può sottovalutare l’insieme dei fenomeni che hanno determinato le grandi migrazioni degli ultimi tre secoli, dirette verso i centri urbani e le nuove aree di produzione di valore. Allo stesso modo è impossibile elaborare una nuova teoria analitica sulle migrazioni senza superare l’ottica eurocentrica con cui sono state studiate finora.
L’insieme di questi processi diventa chiaro solo al di fuori del vecchio sistema di controllo e difesa dei confini statali, perché l’azione di controllo condotta finora dalle varie istituzioni presuppone la difesa delle aree di libero scambio e non dell’integrità statale. Non solo, essa presuppone la prevalenza della programmazione economica sull’integrità territoriale. Il risultato dell’insieme di queste caratteristiche disegna un complesso quadro di spostamenti umani che rende evidente la fine del progetto di suddivisione del pianeta prodotto dalla modernità. In quel progetto gli stati avevano un ruolo fondamentale, tracciavano i confini ed esercitavano il controllo diretto sulle potenzialità di movimento degli esseri umani. Rimane da valutare quanto questo slittamento verso forme di controllo puro, prive di un controllo politico di qualunque tipo possa produrre solo uno spazio per l’esercizio di dominio o sia anche la base per la costruzione di nuove forme istituzionali.
b. Le migrazioni odierne rideterminano in forme nuove in seguito alla nascita di movimenti controegemonici (de Sousa Santos 2010; Gramsci 2001-2007). È il caso dell’America Latina, in cui le nuove esperienze politiche si oppongono alle forme dirette di controllo politico-sociale realizzate dai vecchi governi e dalle grandi corporation euroamericane, ma avviano anche processi di movimento della popolazione su scala continentale. La manodopera non è più delocalizzata in base a grandi programmi nazionali di distribuzione della popolazione o alla nascita pianificata di aree di investimento, ma inizia, in diversi casi, a ridefinire i confini stessi e le appartenenze (Martinez, 2012; Novick, 2008).
c. Le migrazioni correnti si definiscono come processi centro-periferia, attivati dalla ricerca di manodopera a basso costo all’interno delle aree ricche, ma sono anche il prodotto diretto della nascita di aree speciali di lavoro collocate in zone di confine, come è avvenuto nel caso delle Zonas Económicas Especiales, delle Free Trade Zone e delle Export Processing Zone in diversi casi in Asia Sud Orientale o in America Settentrionale (Mezzadra e Neilson, 2013; Sassen, 2005; Ong, 2005). Le migrazioni recenti giustificano inoltre un enorme apparato di controllo, una guerra a bassa intensità condotta contro i migranti lungo i confini delle aree ricche del pianeta, come avviene in Europa, Stati Uniti, Australia. Si costruisce dunque uno schema di distribuzione globale che può essere considerato un elemento centrale della divisione globale del lavoro all’interno del sistema-mondo (Castillo Fernández, Baca Tavira e Todaro Cavallero, 2016).
d. Le migrazioni attuali sono condizionate anche dalla delocalizzazione delle produzioni in aree povere e a bassissimo costo del lavoro. Si definiscono in questo caso in modo misto, non seguono più i processi tradizionalmente indicati come migrazioni interne o internazionali né sono necessariamente dirette verso grandi aree urbane. Esse contribuiscono anzi, in molti casi, a creare nuovi processi di urbanizzazione (Sassen, 2005).
e. Le migrazioni in corso si muovono al di fuori degli schemi classici di definizione dell’identità, nazionale, religiosa, linguistica, etnica (Appadurai, 1996; Anderson, 1983). Esse vanno oltre le categorie consolidate delle appartenenze e definiscono nuove aggregazioni sociali.
I mutamenti degli ultimi decenni hanno contribuito a rimettere in discussione gli strumenti utilizzati finora, sono stati spesso oggetto di grandi proposte di revisione degli aspetti più profondi delle scienze sociali (de Sousa Santos, 2010; Grosfoguel, Oso e Christou, 2015; Grosfoguel, 2017), ma continuano a scontrarsi con l’eredità culturale coloniale. In molti casi lo studio di questi processi si è strutturato, cioè, seguendo un preciso apparato ideologico che ne ha riproposto il modello di dominio, soprattutto nella costruzione di differenze tra gruppi umani e nell’abuso della categoria di identità etnica (Gil Araujo, 2011b; Avallone, 2015a). In parte si è trattato di quello che Balibar e Wallerstein hanno definito razzismo senza razza, una categoria che loro stessi consideravano non particolarmente nuova nello scenario politico occidentale (Balibar e Wallerstein, 1991; Grosfoguel, Oso e Christou, 2015), individuando una costruzione culturale che ha proseguito il lavoro di differenziazione tra i popoli del pianeta.
L’intero percorso delle migrazioni che sono iniziate insieme ai processi di decolonizzazione ha riproposto la questione in termini differenti, ma, al tempo stesso, ha in vari modi proseguito il progetto coloniale dell’Occidente. Le diverse pratiche coloniali hanno determinato un’eredità che ha condizionato la gestione delle migrazioni, che hanno assunto non solo l’immagine della differenza etnica, neorazziale, ma anche quella dell’assimilazione come processo evolutivo, dell’idea cioè che sussistesse una superiorità delle società di arrivo, un’emancipazione che non è solo economica. Nel complesso degli studi europei, le analisi relative alle migrazioni negli altri continenti sono state spesso affrontate solo come aspetto del percorso verso l’Europa, definita come la civiltà da raggiungere, faro globale di riferimento insieme agli Stati Uniti. Inoltre, tale analisi ha finito con il rappresentare di fatto una questione inespressa di fondo: quella della difesa dell’identità europea (Amselle, 2008). In questo quadro la categoria di integrazione si è rivelata molto ambigua, è stata utilizzata dal punto di vista assimilazionista e da quello multiculturale (Gil Araujo, 2011b; Palidda, 2010), ma soprattutto ha contribuito a costruire uno schema preciso in cui i migranti assumevano il ruolo di elemento estraneo da trasformare all’interno del corpo dello stato.
La continuità ideologica però non corrisponde ad una sostanziale permanenza delle strutture di potere. Proprio l’esercizio del controllo sulle migrazioni ha reso evidenti gli elementi della nuova struttura geopolitica globale che indeboliscono l’assunto principale, la permanenza cioè delle funzioni dello stato moderno, l’unica struttura che possedeva il diritto di decisione, il potere di difendere i confini. La difesa dei confini tracciava anche il solco dell’appartenenza statale-nazionale e si estendeva ai diritti di sopravvivenza generali dei migranti, segnandone l’esistenza, attraverso la separazione naturalizzata tra nazionali e non nazionali (Sayad, 2013). La macchina in cui sono inseriti i migranti segue un principio che non può più essere quello del superamento dei confini statali (Balibar, 2005), anche se è evidente una forte permanenza del pensiero di stato nelle azioni delle istituzioni e nelle gerarchie adottate dagli studi. Le grandi linee fortificate del pianeta, quelle in cui si sta svolgendo un conflitto costante per il contenimento delle migrazioni, sono in genere i punti di accesso ad aree allargate di scambio commerciale e circolazione di beni e persone, non singoli stati. Non è possibile inoltre neanche ricondurre le grandi migrazioni cinesi e indiane degli ultimi due decenni al modello delle migrazioni coloniali o a quello della circolazione interna agli stati.
Sulla crisi della visione tradizionale pesa anche la caratterizzazione contro-egemonica di alcuni movimenti di popolazione, soprattutto in America Latina e in Africa, i casi che creano più problemi all’inquadramento politico delle migrazioni recenti. In tutti e due i casi le dinamiche di rimescolamento della popolazione hanno ridefinito nell’ultimo secolo, più volte e molto velocemente, i quadri geopolitici e gli interessi economici. I mutamenti nelle migrazioni latinoamericane recenti hanno messo in evidenza, ad esempio, come diverse delle nuove esperienze politiche abbiano prodotto un mutamento generale delle condizioni di vita nei luoghi di arrivo, e non siano state solo il risultato di crisi economiche locali (Martinez, 2012; Yépez del Castillo e Herrera, 2014). Mentre quelli africani sono stati sostenuti soprattutto da enormi crisi umanitarie e conflitti armati. Le nuove forme della politica e le nuove rivendicazioni hanno rappresentato anche una forma di reinterpretazione delle gerarchie sociali sia nella percezione dei processi sia nella costruzione di nuovi spazi.
La categoria gramsciana di egemonia può essere utilizzata in questo caso per ridefinire l’analisi delle migrazioni, perché in quel contesto consente di spostare l’attenzione sui soggetti migranti, che si collocano sempre nella categoria di subalterni, sono privi di diritti. L’esistenza di processi controegemonici (de Sousa Santos, 2010; 2003), secondo cui gruppi prima subalterni possono avviare nuovi processi culturali che diventano egemonici, colpisce direttamente le gerarchie utilizzate nell’analisi delle migrazioni. Ciò perché i migranti sono in genere la parte più debole della popolazione nello stato nazione moderno. In diversi casi, la crisi delle identità nazionali comporta una perdita di senso dei limiti statali al movimento umano e la presenza di nuove comunità può favorire tale processo. Bisogna inoltre sottolineare come, in molte aree del pianeta, la subalternità non differenzi più i migranti in modo netto rispetto ai residenti storici. Questa è una novità sostanziale nella costruzione storica della marginalità ed è un elemento su cui si perde un connotato fondamentale dei migranti.
Lo spazio contro-egemonico è precisamente quello della costituzione di nuove aree di espressione della politica, in cui le identità previste dalle strutture pre-esistenti perdono valore. Le migrazioni assumono una caratterizzazione contro-egemonica quando rappresentano la prima tappa di creazione di spazi che non possono più essere riconducibili alle strutture tradizionali. In diversi casi si tratta di processi contro-egemonici perché sono il prodotto dell’attività di gruppi che iniziano a rivendicare identità territoriali di tipo nuovo, non statale, ma comunitario.
Una parte del dibattito scientifico ha risposto a tale problema con la categoria di nazionalismo diasporico (Appadurai, 1996; Anderson, 1983), cioè quella costruzione identitaria che si realizza solo dopo una migrazione in un contesto culturale diverso da quello di origine. Non solo si pone una questione di notevole spessore, quella della nascita delle identità diasporiche che popolano il pianeta, ma anche un problema molto preciso relativo alla possibilità dell’esistenza di identità senza territorio. Il presupposto del nazionalismo diasporico è l’assenza di un territorio, la delocalizzazione dell’identità culturale e la ricerca di forme di integrazione in nuovi gruppi insediati in aree culturali distanti. La presenza di movimenti contro-egemonici è caratterizzata invece da una proposta politica, dalla volontà di costituire comunità all’interno di un conflitto sociale.
Il potere e la colonia
In una loro forma peculiare, gli studi decoloniali, come quelli postcoloniali, sono espressione di un pensiero della crisi, nascono dalla crisi di quello che Anibal Quijano (1991) ha chiamato modello di potere della modernità e dalla fine della grande espansione economica e finanziaria che ha sostenuto tutto il sistema nella seconda metà del XX secolo. La crisi del capitalismo ha spinto verso la formazione di uno spazio globale che, però, è diventato anche il luogo di espressione delle nuove forme di critica radicale. La percezione della conclusione del lungo percorso della modernità capitalista ha portato all’interno del dibattito politico la questione del superamento delle forme di potere, comprese quelle delle stesse esperienze di liberazione nazionale dei paesi colonizzati. La critica si è indirizzata verso la rilettura della storia della nascita degli stati e verso l’affermazione dell’idea del nazionalismo, contestata già da Sayad (2003) come prospettiva di rimodulazione in termini coloniali delle società africane. Lo stato come piena espressione della modernità è infatti una struttura colonialista, la perfetta espressione di quel modello di potere che viene contestato come proprio della storia del pianeta trasformato in una grande Europa. Per superare l’esperienza coloniale è però necessario anche rielaborare l’esistenza delle culture non europee, in un percorso molto difficile di revisione degli elementi culturali coloniali. Nelle specifiche modalità con cui gli studi decoloniali hanno iniziato a postulare la necessità di ridefinire secondo una prospettiva differente tutte le problematiche della società globale, si può identificare anche un percorso che inizia a connettere tra loro aspetti ritenuti spesso distanti dell’analisi sociale, del dibattito ecologico e della prassi politica (Avallone, 2017).
Il percorso non è stato lineare e non è certamente concluso. L’area degli studi decoloniali, ammesso che si possa già definire come un campo autonomo di analisi, deve indubbiamente la propria nascita ad uno scambio globale mediato dal pensiero di opposizione europeo, all’elaborazione latinoamericana del dibattito politico sulla négritude, alla riformulazione delle grandi questioni dell’indipendenza del pensiero africano nello scenario della costruzione delle nuove democrazie dell’America meridionale della fine degli anni Novanta. Il percorso è chiaro: mentre nel dibattito asiatico e poi euro-americano si delineava un’idea della costruzione della società postcoloniale e si definivano i postcolonial studies (Mellino, 2005), come prospettiva di superamento dell’esperienza politica e sociale del progetto coloniale dell’Occidente (Said, 1979), nel dibattito latinoamericano si poneva l’esigenza di rivedere in profondità alcuni assunti della modernità e soprattutto la lunga eredità del colonialismo. Tutto ciò partendo dal presupposto che il colonialismo è ancora vivo, soprattutto nelle sue forme più estreme di sfruttamento e appropriazione (Moore, 2015). Costruire un pensiero decolonizzato significa superare l’insieme delle relazioni di potere che ancora definisce quella totalità eterogenea che è la società globale, superare quell’eredità che ha continuato a delineare il potere e la società in cui vivono gli eredi storici dei popoli colonizzati, insieme agli eredi storici dei colonizzatori.
La decolonialità, il neologismo introdotto da Anibal Quijano e anticipato con parole diverse da altre studiose ed altri studiosi da W.E.B. Du Bois a Silvia Rivera Cusicanqui, rimanda ad una prospettiva più profonda che coinvolge il problema dell’epistemologia (de Sousa Santos, 2010) e della visione dominante anche nella società globale. Ciò che va decolonizzato è il potere, in tutte le sue forme ed espressioni. La colonia permane nei presupposti (neo) coloniali delle strutture di potere a livello globale, ma anche nelle prospettive, nella classificazione del mondo e nella stessa idea di una società futura liberata. Si tratta di un pensiero autonomo latinoamericano, che può ribaltare diversi approcci alla lettura della modernità e alle prospettive di cambiamento. Al tempo stesso, è un approccio che sta determinando, attraverso la partecipazione di intellettuali di varie culture, la costruzione di una nuova prospettiva politica a partire dalla ricerca di un’autodefinizione di cultura.
Ngugi Wa Thiong’o sostiene che l’imperialismo ha creato un’arma molto potente, che chiama bomba culturale, per controllare i popoli colonizzati, spogliati del diritto di parola nelle loro lingue madri e derubati della loro storia. «La bomba culturale induce i popoli a vedere il loro passato come una discarica di insuccessi, dalla quale prendere le distanze. Li induce a desiderare di identificarsi con quanto c’è di più lontano da loro: per esempio con la lingua di altri popoli e non con quella loro propria. Li induce a rispecchiarsi in tutto ciò che è decadente e reazionario, in quelle forze che inibiscono la loro stessa sorgente di vita» (Ngugi Wa, 2015, p.11). Questo atteggiamento viene definito dallo scrittore gikuyu come un desiderio di morte, una partecipazione dei popoli colonizzati alla distruzione della loro identità. Lo stesso desiderio che, secondo Achille Mbembe, si riflette nella volontà di esercitare il potere di vita o di morte, nella necropolitica dell’Occidente (2003). Una distinzione tra chi deve morire e chi può vivere, sempre a patto di ibridarsi con la cultura dei colonizzatori e rinunciare alla propria lingua e alla propria storia.
Nella sua più pura espressione di potere, la colonizzazione è stato uno dei processi costitutivi della modernità e ha definito questioni che sono ancora irrisolte nella costruzione dell’immagine del mondo attuale, così come nella lettura delle disuguaglianze e nella stessa essenza delle migrazioni. Una di queste, evidente nella costruzione del dibattito pubblico sulle migrazioni, è la razzializzazione dei migranti. Quijano sostiene che la razza è un’invenzione dell’espansione coloniale europea in America. La modernità produce la razzializzazione dei popoli non europei e, attraverso la costruzione della razza, si definisce una nuova gerarchia che permane per tutta la modernità. Le migrazioni attuali seguono la struttura della razzializzazione della società, non si tratta solo della modalità con cui sono presentate nel dibattito pubblico, ma della sostanziale subordinazione razzializzata dei migranti. Secondo Quijano, le relazioni di potere si strutturano in conformità alla classificazione razziale delle popolazioni, perché la razza è un elemento di gerarchizzazione universale che stabilisce superiorità e inferiorità e giustifica l’azione del potere (Navarrete, 2014) e questo processo corrisponde alle differenze storiche coloniali, ma anche alla distribuzione attuale della ricchezza.
I modi in cui sono pensate, governate e vissute le migrazioni sono definiti dalle rappresentazioni coloniali dell’altro, dunque dalla colonialità che classifica le popolazioni e ne influenza le possibilità di mobilità spaziale, di accesso ai mercati del lavoro, di inserimento e collocazione sociale. La realtà coloniale è attiva nel presente postcoloniale, con effetti anche sui modi di pensare le migrazioni e le persone migranti. La costruzione coloniale del mondo, al cui centro vi è stata la razza, con i suoi specifici processi di controllo, disciplinamento, assoggettamento e resistenza, fondata sulla divisione tra zone dell’essere e zone del non essere (Fanon, 2015), influenza la definizione del mondo, dove i soggetti legittimi sono solo quelli della prima zona, quelli appartenenti alla zona dell’essere, e sono gli unici a porre le domande ritenute appropriate. È chiara la relazione che c’è tra gerarchie sociali e intellettuali: le prime organizzano le seconde, caratterizzando anche le scienze sociali, le quali «partecipano ad una tradizione intellettuale che attribuisce molta importanza alla distinzione tra oggetti nobili e oggetti ignobili, tra modalità nobili (ciò che si chiama “teoria”, speculazione) e modalità ignobili di affrontare questi soggetti» (Sayad, 1990, 8). Lo studio delle migrazioni si colloca in questa gerarchia in modo coerente con il suo oggetto ignobile, un oggetto dominato sul piano intellettuale e politico-sociale, e tende, per tanto, a riprodurre questa gerarchia, svolgendo il «lavoro del colonizzatore o il lavoro della società di immigrazione» (Sayad 1990: 20-21).
In termini decoloniali, il riconoscimento di questa condizione vuol dire che non ci sono punti di vista neutrali, ma sono sempre all’opera una geo-politica ed una corpo-politica che definiscono uno specifico punto di osservazione, non individuabile, dunque, come una visione oggettiva, perché visioni oggettive non sono possibili (Fanon, 2009; Lander, 2000; Mignolo, 2009). La critica alle gerarchie, all’oggettività scientifica ed alla neutralità dei saperi apre ad una messa in discussione delle categorie prodotte nell’ambito della storia delle stesse discipline sociali, riconoscendo il peso avuto dallo stato e dai rapporti coloniali globali in questa storia, specialmente nel caso dello studio delle migrazioni, il cui oggetto di osservazione, quello dell’immigrato e dell’immigrazione, è stato costruito attraverso un discorso imposto (AA.VV., 2013). Dunque, andare oltre queste categorie, parole di stato e concetti prodotti lungo i rapporti coloniali, è una condizione determinante per liberare gli studi delle migrazioni dagli assunti già dati e dalla domande già definite dai rapporti di forza vigenti tra aree geopolitiche, popoli e razze.
Praticare decolonialità
Il testo curato da Bellinvia e Poguish segue una sequenza precisa che rispecchia il dibattito recente sulle migrazioni, ma prova a rispondere alle questioni che si presentano a chi lavora sul campo. Prima emergono le domande sulla sostanza dei processi e sul modo in cui si possono definire, seguite da analisi sulle modalità storiche con cui si è realizzato sul territorio europeo il mutamento di identità e funzioni delle migrazioni: successivamente vengono poste delle riflessioni sul ruolo di chi pratica attività di ricerca e sulle modalità con cui si può uscire dalla gabbia del pensiero coloniale, riflettendo, come fanno tutti i testi, sulla difficoltà concreta di lavorare all’interno della permanenza di una struttura come lo stato nazione, ponendosi, infine, il problema delle possibili alternative.
I saggi contenuti nel volume affrontano, infatti, il problema della decolonizzazione nei suoi vari aspetti, partendo dalla decostruzione del pensiero europeo, riconsiderata da Lidia Lo Schiavo, che individua un legame tra il decentramento dell’Europa, operato dal pensiero decostruzionista, e il dibattito critico recente. Le migrazioni pongono di fronte all’esigenza di rielaborare anche l’epistemologia, le modalità con cui si definisce lo stesso oggetto di studio. Marco Letizia rende visibile il forte legame tra la questione del potere, come è stata posta da Michel Foucault, e la ridiscussione in cui è impegnato il dibattito attuale, suggerendo anche una riflessione sulla collocazione all’interno dei dispositivi di potere di chi realizza ricerche sul campo.
Tania Poguish affronta direttamente la questione fondamentale della crisi del confine e pone il problema della permanenza del confine nell’Europa fortezza. Una delle questioni più citate nel volume è, in effetti, la presenza del confine come metodo, nell’accezione che Mezzadra e Neilson ne hanno dato, e non è un caso che il punto di partenza del lavoro sia stata la riflessione di Abdelmalek Sayad.
Il lavoro di Eleonora Corace si inserisce in quel dibattito che ha dimostrato come le categorie del politico abbiano definito perfettamente la società attuale. Tra le categorie che vanno ridefinite inserisce quelle proprie della sfera dell’inclusione, che sottende tutti gli elementi della supremazia coloniale ed è carico di aspetti di profonda ambiguità. Seguendo la stessa linea, Sergio Villari ripropone la questione dei rapporti sociali, di dominio e sfruttamento, e, seguendo Sayad e Djouder, sottolinea come i processi di integrazione sottendano una forte dimensione repressiva.
Tindaro Bellinvia ricostruisce i percorsi materiali che portano all’etnicizzazione delle migrazioni e alla criminalizzazione della figura dei migranti, individuando un processo essenziale per il funzionamento dei dispositivi di controllo e per la costruzione dello spazio permanente di marginalità.
Le esperienze condotte sul campo dagli autori ci dimostrano come tutto il sistema italiano dell’accoglienza sia interno al processo della costruzione del margine invalicabile, dell’esclusione permanente cui è destinata la popolazione migrante. Angela Bagnato pone il problema della permanenza del controllo sui corpi e di come ciò si evidenzi anche in uno sfruttamento asimmetrico che colpisce le donne migranti, riproponendo le forme del potere patriarcale. Giovanni Cordova dimostra come la ricerca etnografica possa smontare con facilità l’immagine rassicurante costruita nel dibattito pubblico del sistema italiano dell’accoglienza.
Il saggio di Carmelo Russo contribuisce a ribaltare gli stereotipi sulla costruzione dell’immagine del migrante, ridefinendo l’esperienza e i processi di revisione della memoria delle migrazioni siciliane dirette verso la Tunisia.
Nel loro insieme, i saggi affrontano una molteplicità di vincoli attivi sulle migrazioni attuali, convergendo nella critica alle definizioni normalizzanti ed alle categorie coloniali e di stato che contribuiscono a governarle. Essi pongono, dunque, il tema della possibilità di liberazione politica, culturale ed epistemologica delle migrazioni e delle persone migranti: condizione determinante per costruire relazioni sociali più giuste su scala mondiale.
Liberare le migrazioni
I migranti sono ormai tra i principali attori di conflitti sociali in varie aree del pianeta (Mezzadra e Neilson 2013; Avallone 20l5b). Il loro protagonismo sociale e politico va oltre la storica problematica di integrazione nei paesi di arrivo e riguarda la crescente difficoltà nella costruzione di spazi di vita e l’impossibilità di rientrare nel sistema economico globale per una parte sempre più ampia degli abitanti del pianeta: si riferisce, cioè, allo status di esclusione permanente che si prospetta a vari strati dell’umanità. Di fronte a questa esplosione di esperienze conflittuali, Mezzadra e Neilson descrivono la moltiplicazione dei confini come uno dei processi fondamentali per la sopravvivenza del sistema economico globale. Un processo che si realizza in uno spazio eterogeneo, caratterizzato da alti livelli di controllo sulla libertà di movimento degli individui. La moltiplicazione dei confini corrisponde, nel quadro proposto dai due autori, alla moltiplicazione e parcellizzazione del lavoro e definisce, ormai, un fenomeno capillare in cui aumentano i confini fisici anche interni alle vecchie strutture geopolitiche. La divisione globale del lavoro determina la nascita di nuove forme di parcellizzazione sociale.
Le categorie tradizionali di sovranità e potere costituente, legate all’esistenza di confini stabili, sono state rimesse in discussione, ma non sostituite dall’individuazione di nuove categorie interpretative soprattutto di fronte ad una situazione in cui è il potere economico che istituisce i confini, mentre quello politico li gestisce in subordine. Tale processo può definire anche il percorso in cui la dimensione di marginalità propria dei migranti si estende ad un numero sempre più ampio di abitanti del pianeta e non dipende solo dallo spostamento fisico. Secondo la definizione classica del dibattito critico, lo spazio politico neoliberale si definisce come schema in cui si muovono liberamente capitali e merci, ma non gli esseri umani, così anche la costruzione di nuove forme di identità globale passa dalla moltiplicazione dei confini. In questo quadro l’esigenza di procedere a diverse forme di decolonizzazione dell’analisi postcoloniale è sempre più pressante. Non si tratta solo di analizzare o contrastare la costruzione del migrante come nemico, ma anche di confrontarsi con la nascita di nuove forme di conflittualità che non rivendicano integrazione, nell’accezione tradizionale del termine. Si può partire dall’assunto che la definizione territoriale della categoria di migrazione corrisponde ormai evidentemente ad un solo aspetto del processo. Il problema si può inquadrare come la questione dell’ampliamento del numero di persone collocate oltre il margine, la linea che divide l’accesso alla ricchezza dall’esclusione permanente. Quella linea non corrisponde più alla struttura territoriale costruita dal progetto coloniale dell’Occidente, è un prodotto diretto di quella storia, ma non corrisponde più alla differenziazione territoriale tra paesi dominatori e colonie.
La crisi della sovranità moderna si evidenzia chiaramente nel mantenimento delle formule di controllo prive di territorio e consenso. I migranti portano alla luce la permanenza di elementi forti, di un’eredità coloniale nella struttura stessa delle domande poste dalle scienze sociali. Come suggerisce la lettura di Sayad, non possiamo pensare di ricostituire il passato alla ricerca di forme sociali pre-esistenti la modernità e il capitalismo, non può esistere cioè una scienza sociale non coloniale nei suoi assunti. Può esisterne una decolonizzata, che assolva anche al ruolo storico di sapere di opposizione.
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«... voglio parlare per gli immigrati, per coloro che vivono tale condizione e per coloro che li ricevono. Voglio mostrare la dignità degli immigrati, della loro volontà di integrarsi in un altro paese, del loro coraggio, del loro spirito imprenditoriale, e non ultimo, per dimostrare come con le loro differenze ci arricchiscono. Voglio dimostrare che una vera famiglia umana può essere costruita solo su solidarietà e condivisione...» Sebastião Salgado a proposito del suo reportage sulle migrazioni.
Fonte: Immagine di Sebastião Salgado tratta dal suo libro Migrations (Aperture, 2000), che raccoglie sei anni di documentazione fotografica sulle più grandi migrazioni della terra, degli esodi di migliaia di persone a causa di guerre, povertà, carestie. Il testo è tratto da un intervista di Nancy Madlin a Sebastião Salgado nel novembre del 1999.
Effimera
Immigrazione e criminalità
È luogo comune e fa parte dei discorsi da bar il nesso inscindibile tra immigrazione e criminalità. Un nesso che viene per di più fomentato da dichiarazioni politiche. Tra le tante da cui siamo assediati in questo periodo, ci limitiamo a ricordarne alcune dei tre leader del centro-destra.
“L’aumento dell’insicurezza è dovuto al fatto che si è aggiunta la criminalità di 476mila immigrati che per mangiare devono delinquere. La prima cosa che svaligiano in una casa è il frigorifero e ciò è causato dal modo con cui il nostro Paese non ha saputo rispondere all’immigrazione” (Silvio Berlusconi a Domenica Live, 13 gennaio 2018).
“In un anno i reati compiuti da cittadini stranieri sono stati 250 mila: il 55% dei furti, il 51% dello sfruttamento della prostituzione, il 45% delle estorsioni, il 40% degli stupri, 1.500 stupri in un anno e l’Europa che fa?” (Matteo Salvini al Parlamento Europeo, 6 febbraio 2018).
“Penso sia legittimo dire che l’immigrazione incontrollata va regolata e c’è un problema tra l’immigrazione incontrollata e il problema sicurezza. Ma le istituzioni non possono fare le omertose sui reati degli immigrati” (Giorgia Meloni, Tagadà, 5 febbraio 2018)
La realtà dei dati è diversa. Secondo gli ultimi “numeri” forniti dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria (quindi dal Viminale, il cui ministro è Matteo Salvini) e raccolti dall’Istat, nel periodo 2012-2016 (quello dell’emergenza sbarchi) gli omicidi sono calati da 528 a 400 (-24,2%), i tentati omicidi da 1327 a 1079 (-22,4%), le percosse da 15.659 a 13.819 (- 11,7%), le violenze sessuali da 4689 a 4046 (- 13,7%), lo sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione da 1306 a 948 (- 27,4%), i furti da 1.520.623 a 1.346.630 (- 11,4%), le rapine da 42.631 a 32.918 (- 22,7%), le contraffazioni di marchi e prodotti industriali da 8.920 a 7.755 (- 13,1%). I reati che sono invece aumentati riguardano invece la pedopornografia, l’uso di stupefacenti e i delitti informatici.
Non c’è, dunque, alcuna correlazione fra l’aumento degli stranieri e quello della criminalità. Dato che viene confermato anche da un’analisi di Michelangelo Alimenti che mostra come a fronte di un aumento del 71,18% di stranieri in 10 anni e addirittura di un +681,69% di richiedenti asilo, il numero di reati “attribuibili” a cittadini stranieri sia cresciuto solo del 2%.
Uno dei dati più citati da chi sostiene che gli stranieri compiono più reati degli italiani riguarda la composizione della popolazione carceraria. Negli ultimi anni più o meno un terzo delle persone detenute nelle prigioni italiane è stabilmente di origine straniera, soprattutto extracomunitaria (nel 2016, il 33,8% contro una quota di migranti sulla popolazione di circa il 10%). Uno studio del 2016 di Francesco Palazzo, docente di Diritto penale all’università di Firenze, afferma però di considerare tale dato come fuorviante per analizzare il rapporto fra immigrazione e criminalità. Il motivo è semplice: i detenuti italiani possono accedere molto più facilmente a forme di pena alternativa degli stranieri. Nella prima metà del 2016 sono stati approvati in tutto 19.128 affidamenti in prova ai servizi sociali, di cui solamente 2.722 a detenuti stranieri (circa il 14 per cento). Nello stesso periodo di tempo, la detenzione domiciliare – cioè la possibilità di scontare l’ultima parte della pena a casa propria – è stata concessa a 14.136 detenuti italiani e solamente a 3.306 stranieri. Correggendo questa distorsione, la propensione a “delinquere” degli stranieri è in linea con quella degli italiani, nonostante che in galera ci vadano – come è noto – le persone più povere e svantaggiate (e quindi sarebbe lecito aspettarsi comunque una quota maggiore degli stranieri).
Da notare, infine, che sul tema del rapporto tra immigrazione e criminalità, nel 2012 è stato pubblicato dal Journal of European Economic Association uno studio di tre ricercatori della Banca d’Italia, Milo Bianchi, Paolo Buonanno e Paolo Pinotti, che arriva alla seguente conclusione:
“According to the estimates, immigration increases only the incidence of robberies, while leaving unaffected all other types of crime. Since robberies represent a very minor fraction of all criminal offenses, the effect (of immigration, ndr.) on the overall crime rate is not significantly different from zero”[1].
Immigrazione, previdenza, bilancio pubblico e Pil
Nelle ultime settimane, si è scatenata una polemica tra l’onnipresente Matteo Savini e il presidente dell’Inps, Tito Boeri. Al riguardo, ci limitiamo a fornire alcuni dati:
Per quanto riguarda il bilancio Inps, l’immigrazione è una vera manna. Su 16 milioni di pensionati, gli stranieri sono circa 130mila (80mila pensioni contributive e 50mila pensioni assistenziali), meno dell’1% del totale, per un importo di spesa pari a circa 800 milioni di euro (2015). Di converso, i circa 2,4 milioni di migranti occupati regolarmente versano nella casse previdenziali contributi per un valore al 2015 di circa 11,5 miliardi di euro. Il surplus per le casse dell’Inps è quindi di circa 10, 7 miliardi di euro, un flusso di cassa rilevante anche per il pagamento delle pensioni di oggi. Inoltre, occorre considerare che l’87,6% dei lavoratori stranieri vedrà la propria pensione interamente calcolata con il metodo contributivo. E occorre aggiungere che non tutti vi accederanno: spesso, infatti – come sottolinea il rapporto “La dimensione internazionale delle migrazioni” della Fondazione Leone Moressa – questo non avviene: si stima infatti che negli ultimi anni gli immigrati abbiano lasciato nelle casse dell’Istituto circa 3 miliardi di euro di contributi versati, per prestazioni cui avrebbero avuto diritto se fossero rimasti in Italia.
Da un punto di vista economico, il buon senso ci dovrebbe consigliare che favorire flussi migratori in grado di regolarizzarsi nel più breve tempo possibile (ad esempio, tramite sanatorie, come già avvenuto, con successo, in passato) produce effetti più che positivi sia per l’economia italiana che per i conti pubblici. Esattamente l’opposto di quanto la mala informazione vuole farci credere.
Emigrazioni e immigrazioni
Negli ultimi 12 mesi sono sbarcati in Italia 52.000 stranieri. Ma, in contemporanea sono partiti per la sola Germania, 65.000 italiani (il 25% in più degli sbarchi). Se tutti i media sono concentrati sull’immigrazione, quasi nessuno si sta rendendo conto dell’aumento dell’emigrazione, in un paese che nel periodo tra 1876 e il 1976, ha registrato circa 26 milioni di espatri, originando quello che è stato definito “the largest exodus of people ever recorded from a single nation”[2].
Nel 2016 si sono registrate quasi 160 mila cancellazioni anagrafiche per l’estero. In generale le emigrazioni sono per lo più di cittadini italiani (nel 2016 se ne contano 114 mila, 73%).
Le mete di destinazione sono prevalentemente i Paesi dell’Europa occidentale: Regno Unito (22,0 per cento), Germania (16,5 per cento), Svizzera (10,0 per cento) e Francia (9,5 per cento), i quali accolgono più della metà delle cancellazioni per l’estero. Le province per le quali si registrano i tassi di emigrazione più alti si trovano nel Nord (Bolzano, Vicenza, Mantova, Imperia e Trieste) e in Sicilia (Agrigento, Catania, Caltanissetta ed Enna).
Molti italiani con alto livello di istruzione lasciano il Paese, pochi vi fanno ritorno. Selezionando i migranti italiani con più di 24 anni, nel corso del 2016 si ottiene un saldo migratorio con l’estero di circa 54 mila unità, di cui circa 15 mila hanno almeno la laurea. La fascia d’età in cui si registra la perdita più marcata è quella dei giovani dai 25 ai 39 anni (circa 38 mila unità in meno) e, tra questi, quasi il 30% è in possesso di un titolo universitario o post-universitario. La giovane età di questi emigrati testimonia la difficoltà dell’Italia nel trattenere competenze e professionalità.
Si tratta in ogni caso di dati sottostimati, ovvero della punta di un iceberg. Una ricercacongiunta condotta nel 2016 da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” sulla base di dati Ocse spiega che rispetto ai dati dello Statistisches Bundesamt tedesco e del registro previdenziale britannico (National Insurance Number), le cancellazioni anagrafiche rilevate in Italia rappresentano appena un terzo degli italiani effettivamente iscritti. Pertanto, i dati dell’Istat sui trasferimenti all’estero dovrebbero essere aumentati almeno di 2,5 volte e di conseguenza nel 2016 si passerebbe da 114.000 cancellazioni a 285.000 trasferimenti all’estero, un livello pari ai flussi dell’immediato dopoguerra e a quelli di fine Ottocento.
Ogni emigrazione rende vano l’investimento sociale effettuato sulla persona: 90.000 euro un diplomato, 158.000 o 170.000 un laureato (rispettivamente laurea triennale o magistrale) e 228.000 un dottore di ricerca. Nel corso del 2016, il costo dell’emigrazione è stato quindi stimabile in 3,510 miliardi di euro per i 39.000 diplomati, 5,440 miliardi per i 34.000 laureati. Una perdita di circa 10 miliardi di euro che non può essere compensato dal saldo positivo dell’immigrazione, che abbiamo visto essere pari a 1,4 miliardi.
Proprio guardando a questi dati, si stima che in Italia la popolazione residente attesa sia pari, secondo lo scenario mediano, a 59 milioni nel 2045 e a 54,1 milioni nel 2065 (dati dell’ultimo report dell’Istat, diffuso il 3 maggio 2018). La flessione rispetto al 2017 (60,6 milioni) sarebbe pari a 1,6 milioni di residenti nel 2045 e a 6,5 milioni nel 2065. Si tratta di uno scenario preoccupante che altera ulteriormente il rapporto intergenerazionale, la cui distorsione potrebbe essere compensata oltre che dalla regolarizzazione dei migranti (che hanno un’età media di 10 anni inferiore a quella degli italiani) anche da politiche che favoriscano la permanenza in loco delle generazioni più giovani.
A guisa di conclusione…
Sul tema dell’immigrazioni si gioca il futuro democratico ed economico di questo pese. La disinformazione regna sovrana, alimentata ad arte da una strategia comunicativa potente quanto rozza nella sua semplicità di attizzare comportamenti utilitaristici e opportunistici.
Al riguardo è interessante uno studio condotto da Alberto Alesina, Armando Miano e Stefanie Stantcheva (università di Haward) che ha indagato lo stato dell’informazione e delle opinioni di europei e americani sugli immigrati dei loro paesi, tramite un campione di circa 23.000 nativi in sei nazioni, Francia, Germania, Italia Regno Unito, Stati Uniti, Svezia. In primo luogo, la presenza degli immigrata è sovrastimata sino a essere considerata tre volte quella reale. In Italia, la disinformazione fa ritenere che gli immigrati siano circa il 30% della popolazione quando nella realtà sono meno del 10% (la quota più bassa tra i 6 paesi considerati nello studio). Un dato in linea anche con un’analoga ricerca condotta da Ipsos nel 2017. Inoltre gli italiani pensano che il 50% degli immigrati sia musulmano, quando sono in realtà il 30%. E sono ben il 60% quelli di fede cristiana, mentre gli italiani pensano che siano meno del 30%. Ma c’è di più. Gli italiani ritengono che il 40% degli immigrati sia disoccupato, così da essere concorrenti agli italiani sul mercato del lavoro (“ci portano via il posto di lavoro”) oltre che pesare sulla spesa sociale. Il dato esatto è che poco più del 10% degli immigrati è disoccupato, un valore in linea, se non inferiore, con quello dei nativi.
Ma il dato più interessante di questo studio è il seguente: il campione è stato diviso in due parti. Alla prima parte sono state rivolte delle domande inerenti prima l’immigrazione e successivamente lo stato sociale e la redistribuzione del reddito. Per la seconda metà del campione, l’ordine delle domande è stato invertito.
I primi, con il tema degli immigrati in mente, si sono dimostrati più avversi allo stato sociale rispetto a coloro che prima hanno risposto alle domanda sullo stato sociale e solo dopo ai temi relativi all’immigrazione. Sembra cioè che i nativi siano più generosi con i nativi ma non con i “diversi, ovvero gli immigrati.
Tale comportamento dipende dalla carenza di informazioni corrette sul fenomeno migratorio, il cui peso viene enfatizzato volutamente proprio per favorire e alimentare reazioni di tipo xenofobo. Ne è controprova il fatto che quella parte del campione che è stata correttamente informata sul numero degli immigrati e sulla loro origine, ha manifestato un deciso calo nelle posizioni anti immigrati. Ovvero, gran parte dei sentimenti anti immigrati deriva da percezioni errate.
Possiamo provare a trarre allora due insegnamenti. Primo: abbiamo bisogno di una forte e costante informazione (a qualcuno piace chiamarla contro-informazione ma tocca partire dalla assenza di informazione). Il paradosso (non casuale) è che in tempi di trionfo della comunicazione come leva e processo di valorizzazione, l’esigenza di (buona) informazionesembra meno sentita o fa più fatica a diffondersi. Più facilmente si diffondono le fake news.
Secondo: il sentimento anti-immigrati è figlio di questa non-conoscenza che facilita la sedimentazione di una cultura razzista, dentro uno strutturato disegno di dominio. La maggior parte delle persone rischiano di diventare facile preda di questo processo. A maggior ragione – come sempre – la diffusione di una corretta informazione è socialmente e politicamente vitale.
Note
[1] Trad. it.: “Secondo le stime, l’immigrazione aumenta solo l’incidenza delle rapine, lasciando inalterati tutti gli altri tipi di crimine. Dal momento che le rapine rappresentano una minima parte di tutti i reati penali, l’effetto (dell’immigrazione, ndr.) sul tasso complessivo di criminalità non è significativamente diverso da zero”.
[2] Thomas Sowell, Ethnic America, Basic book, New York, Usa, 2009, cap. 5. Trad. it.: “il più grande esodo che si sia mai verificato in un unico paese”.
Il 10 luglio sulla prima pagina del Fatto quotidiano il direttore Marco Travaglio ha firmato un editoriale dal titolo “Sotto la maglietta” su una delle questioni più delicate e più strumentalizzate dalla politica italiana degli ultimi anni: l’immigrazione lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Travaglio torna a parlare del ruolo delle ong preoccupato che “decine di amici” del suo giornale abbiano deciso d’indossare una maglietta rossa per aderire all’iniziativa lanciata con lo slogan “Fermare l’emorragia di umanità” dal fondatore di Libera don Luigi Ciotti, dopo la chiusura dei porti alle navi delle ong e la morte di centinaia di persone davanti alla Libia.
Travaglio sostiene che ci sia un legame “ormai acclarato” e “rivendicato” tra le ong e i trafficanti libici, ma questa affermazione ha suscitato molto sconcerto in giornalisti ed esperti della materia. “Per interesse personale e professionale avrei bisogno di sapere nel dettaglio ‘acclarato’ da chi e ‘rivendicato’ da chi”, ha chiesto su Twitter il giornalista e conduttore televisivo Diego Bianchi, interpretando i dubbi di molti. La domanda è legittima visto che le numerose indagini che sono state aperte dalle procure siciliane su presunti contatti tra scafisti (e non trafficanti) e navi umanitarie non hanno portato a nessun rinvio a giudizio. Anzi la procura di Palermo ha recentemente archiviato un’indagine su presunte connivenze tra due ong (Sea Watch e Open Arms) e gli scafisti. La notizia è stata riportata anche dal Fatto.
Travaglio ha risposto a Bianchi in un altro editoriale citando come prova “acclarata” alcune intercettazioni che sono state acquisite dalla procura di Trapani nell’ambito di un’indagine contro l’ong tedesca Jugend Rettet. L’indagine, in corso da un anno, non ha ancora portato all’apertura di alcun processo e dunque a nessun dibattimento e a nessuna condanna. Ma per il direttore del Fatto l’indagine ha già dimostrato che le ong hanno avuto contatti con i trafficanti per delle “consegne pattuite” di migranti, come sostenuto dall’accusa.
La tesi della procura di Trapani è stata messa in discussione, inoltre, dal gruppo di oceanografia forense Forensic Architecture della Goldsmiths sulla base dei video e degli audio raccolti dall’equipaggio, delle informazioni registrate nel diario di bordo della Iuventa di Jugend Rettet, delle comunicazioni con la centrale operativa della guardia costiera italiana e delle immagini scattate dai giornalisti a bordo della nave tedesca e di altre imbarcazioni impegnate nei soccorsi. Il giornalista Andrea Palladino ripercorre tutti i punti oscuri dell’indagine della procura di Trapani, mossa dalla denuncia di due agenti della sicurezza privata imbarcati sulla nave Vos Hestia di Save the children. Avevamo parlato delle accuse contro la Jugend Rettet qui e dei video di Forensic Architecture qui.
Un’altra affermazione fatta da Travaglio è che le navi delle ong siano un incentivo per le partenze di migranti. “Le ong agiscono anche con le migliori intenzioni come pull factor (fattore di attrazione) che rende i viaggi meno costosi e rischiosi”. Ma questa accusa (già rivolta anche alla missione militare del governo italiano Mare nostrum nel 2013) è stata smentita da più di uno studio. Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), aveva spiegato che un’attenta e approfondita analisi dei dati aveva fatto emergere la fallacia di questa suggestiva affermazione: “I dati mostrano che tra il 2015 e oggi le attività delle ong non hanno fatto da pull factor e non sono correlate con l’aumento dei flussi. Che le ong operassero in mare o meno, i flussi non ne erano influenzati”.
Un’analisi simile era stata pubblicata nel giugno del 2017 da Lorenzo Pezzani e Charles Heller della Forensic oceanography del Goldsmiths college dell’università di Londra. L’analisi di Heller e Pezzani ha dimostrato che un aumento degli arrivi era già stato registrato nel biennio 2014-2015, quando ancora non c’erano navi delle organizzazioni umanitarie davanti alle coste libiche. Questo elemento è stato in parte riconosciuto dalla stessa Frontex, che nel documento Annual risk analysis 2017 aveva scritto: “Il Mediterraneo centrale è diventato la rotta principale dei migranti africani verso l’Europa e per lungo tempo sarà così”.
Secondo Pezzani e Heller, il numero degli arrivi era aumentato prima che le ong lanciassero le loro missioni di soccorso e questo dimostra l’assenza di un nesso di causalità tra i due eventi. Nel 2017, inoltre, sono aumentate del 46 per cento le traversate verso l’Europa dal Marocco, in un tratto di mare che non è pattugliato da navi umanitarie. Le principali cause dell’aumento delle traversate verso l’Europa sarebbero l’aggravarsi del conflitto in Libia e in generale la presenza di forti fattori di spinta (push factor) come conflitti, dittature, cambiamenti climatici, pressione demografica. Infine, quando la missione militare di ricerca e soccorso Mare nostrum è stata interrotta, alla fine del 2014, non si sono fermati gli arrivi, anzi nei primi mesi del 2015 sono aumentati, anche se non c’erano imbarcazioni di soccorso in quel tratto di mare.
Il 10 luglio sulla prima pagina del Fatto quotidiano il direttore Marco Travaglio ha firmato un editoriale dal titolo “Sotto la maglietta” su una delle questioni più delicate e più strumentalizzate dalla politica italiana degli ultimi anni: l’immigrazione lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Travaglio torna a parlare del ruolo delle ong preoccupato che “decine di amici” del suo giornale abbiano deciso d’indossare una maglietta rossa per aderire all’iniziativa lanciata con lo slogan “Fermare l’emorragia di umanità” dal fondatore di Libera don Luigi Ciotti, dopo la chiusura dei porti alle navi delle ong e la morte di centinaia di persone davanti alla Libia.
Travaglio sostiene che ci sia un legame “ormai acclarato” e “rivendicato” tra le ong e i trafficanti libici, ma questa affermazione ha suscitato molto sconcerto in giornalisti ed esperti della materia. “Per interesse personale e professionale avrei bisogno di sapere nel dettaglio ‘acclarato’ da chi e ‘rivendicato’ da chi”, ha chiesto su Twitter il giornalista e conduttore televisivo Diego Bianchi, interpretando i dubbi di molti. La domanda è legittima visto che le numerose indagini che sono state aperte dalle procure siciliane su presunti contatti tra scafisti (e non trafficanti) e navi umanitarie non hanno portato a nessun rinvio a giudizio. Anzi la procura di Palermo ha recentemente archiviato un’indagine su presunte connivenze tra due ong (Sea Watch e Open Arms) e gli scafisti. La notizia è stata riportata anche dal Fatto.
Travaglio ha risposto a Bianchi in un altro editoriale citando come prova “acclarata” alcune intercettazioni che sono state acquisite dalla procura di Trapani nell’ambito di un’indagine contro l’ong tedesca Jugend Rettet. L’indagine, in corso da un anno, non ha ancora portato all’apertura di alcun processo e dunque a nessun dibattimento e a nessuna condanna. Ma per il direttore del Fatto l’indagine ha già dimostrato che le ong hanno avuto contatti con i trafficanti per delle “consegne pattuite” di migranti, come sostenuto dall’accusa.
La tesi della procura di Trapani è stata messa in discussione, inoltre, dal gruppo di oceanografia forense Forensic Architecture della Goldsmiths sulla base dei video e degli audio raccolti dall’equipaggio, delle informazioni registrate nel diario di bordo della Iuventa di Jugend Rettet, delle comunicazioni con la centrale operativa della guardia costiera italiana e delle immagini scattate dai giornalisti a bordo della nave tedesca e di altre imbarcazioni impegnate nei soccorsi. Il giornalista Andrea Palladino ripercorre tutti i punti oscuri dell’indagine della procura di Trapani, mossa dalla denuncia di due agenti della sicurezza privata imbarcati sulla nave Vos Hestia di Save the children. Avevamo parlato delle accuse contro la Jugend Rettet qui e dei video di Forensic Architecture qui.
Un’analisi simile era stata pubblicata nel giugno del 2017 da Lorenzo Pezzani e Charles Heller della Forensic oceanography del Goldsmiths college dell’università di Londra. L’analisi di Heller e Pezzani ha dimostrato che un aumento degli arrivi era già stato registrato nel biennio 2014-2015, quando ancora non c’erano navi delle organizzazioni umanitarie davanti alle coste libiche. Questo elemento è stato in parte riconosciuto dalla stessa Frontex, che nel documento Annual risk analysis 2017 aveva scritto: “Il Mediterraneo centrale è diventato la rotta principale dei migranti africani verso l’Europa e per lungo tempo sarà così”.
Secondo Pezzani e Heller, il numero degli arrivi era aumentato prima che le ong lanciassero le loro missioni di soccorso e questo dimostra l’assenza di un nesso di causalità tra i due eventi. Nel 2017, inoltre, sono aumentate del 46 per cento le traversate verso l’Europa dal Marocco, in un tratto di mare che non è pattugliato da navi umanitarie. Le principali cause dell’aumento delle traversate verso l’Europa sarebbero l’aggravarsi del conflitto in Libia e in generale la presenza di forti fattori di spinta (push factor) come conflitti, dittature, cambiamenti climatici, pressione demografica. Infine, quando la missione militare di ricerca e soccorso Mare nostrum è stata interrotta, alla fine del 2014, non si sono fermati gli arrivi, anzi nei primi mesi del 2015 sono aumentati, anche se non c’erano imbarcazioni di soccorso in quel tratto di mare.
I morti e gli sbarchi
Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), il dato in meno di un mese è più che raddoppiato. Matteo Villa ha elaborato i dati dell’Unhcr e dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) sulle morti registrate in relazione alle partenze dalla Libia e ha stabilito che dal 1 giugno la rotta del Mediterraneo è diventata la più pericolosa al mondo: “Muore una persona ogni dieci”.
Un dato allarmante che riporta il tasso di mortalità e il numero assoluto dei morti ai livelli di quelli registrati prima della riduzione delle partenze nel luglio del 2017. “Dopo la repentina diminuzione delle partenze dal 16 luglio 2017, il numero assoluto dei morti e dei dispersi si è ridotto, ma ora siamo tornati incredibilmente ai livelli di prima”, afferma Villa.
Secondo il ricercatore, questo fattore è legato a tre elementi: “Le ong sono coinvolte sempre di meno nei salvataggi, i mercantili non intervengono perché temono di essere bloccati per giorni in attesa di avere indicazioni sul porto di sbarco (come è successo al cargo danese Maersk) e la guardia costiera libica non ha né i mezzi né la competenza per occuparsi dei salvataggi”.
La distruzione dei barconi
Inoltre non è vero come dice Travaglio in un secondo editoriale pubblicato l’11 luglio “che i barconi devono essere distrutti per legge”. Nessuna legge impone alle ong di distruggere i gommoni vuoti. Nonostante questo molti soccorritori dopo aver trasferito al sicuro i migranti avevano l’abitudine di affondarli o distruggerli per evitare che i trafficanti li recuperassero. Il codice di condotta imposto dal governo alle ong nel luglio del 2017 chiedeva alle organizzazioni di recuperare ove possibile le imbarcazioni e i motori e di consegnarle o segnalarle alle navi militari nella zona. Ma il codice di condotta ha un valore pattizio, non è una legge dello stato.
La Libia e il traffico di esseri umani
“In Libia l’Oim stima la presenza di 700mila migranti, presenza non significa pronti-a-partire, dato che semplicemente non esiste. Come il direttore Travaglio può facilmente verificare sulle statistiche di Unhcr le persone presenti nei centri di detenzione ufficiali – cioè gestiti dall’ufficio anti immigrazione clandestina del ministero dell’interno libico – sono circa 30mila”, ha scritto Mannocchi su Facebook.
Nel suo editoriale infine Travaglio dice che comunque la priorità dovrebbe essere quella della lotta ai trafficanti di esseri umani, che definisce “i veri responsabili”. A questo proposito il giornalista Lorenzo Bagnoli, che è esperto di questi temi e ha scritto molti pezzi proprio per il Fatto, ha contestato il direttore definendo “pietoso che in tutta questa retorica della lotta ai trafficanti non si ricordi mai che l’unico ‘boss’ che si pensa in carcere, Yedahego Medhanie Mered, in realtà sia ancora libero”.
Bagnoli ha argomentato dicendo che “non sappiamo ancora niente dei trafficanti. Non sappiamo nemmeno se esiste una ‘cupola’ davvero oppure no. Siamo maledettamente indietro su questa tipologia d’indagini. Il potere dei trafficanti non è come quello delle mafie italiane. Non è così ancestrale, è cambiato con il mutare delle migrazioni. Non c’è l’ideologia dell’anti-stato contro lo stato. Forse bisogna dirselo quando si paragonano le mafie italiane con quelle libiche”. Di questo ha scritto approfonditamente il giornalista Lorenzo Tondo sul Guardian e il giornalista Ben Taub sul New Yorker.
Di fronte all'ondata migratoria presente non bisogna dimenticare che gli italiani sono stati essi stessi degli emigranti e che le migrazioni sono eventi che hanno sempre arricchito le regioni verso le quali si sono dirette.
Riprendiamo due testi originariamente pubblicati tra il dicembre 2015 e il gennaio 2016, senza modifiche, salvo nuovi sottotitoli.
ll primato dell’emigrazione italiana
Quando alla fine del 1974 apparve il fascicolo monografico (nn. 11-12) del mensile «Il Ponte» dal titolo Emigrazione cento anni 26 milioni, sembrò prudente manifestare incredulità davanti alle cifre pubblicate. L’incipit nell’introduzione del direttore Enzo Enriques Agnoletti anticipava seccamente le verità che i numerosi saggi del volume avrebbero dimostrato e che i politici al governo e i ceti dominanti avrebbero preferito tener nascosta o fingere fosse normale vicenda riguardante l’economia mondiale e tutti i popoli: «dall’unità d’Italia non meno di ventisei milioni d’Italiani hanno abbandonato definitivamente il nostro paese. È un fenomeno che per vastità, costanza e caratteristiche non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo». Non meno impressionanti i dati presentati nel saggio di Paolo Cinanni, presidente della Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie).
Migrazioni interne e sfruttamento operaio
Come non commuoversi dinanzi a tante tragedie e non ragionare sulle loro cause? D’altra parte, come dimenticare che una nuova popolazione è riuscita a insediarsi qui, a lavorare, a produrre reddito, a contribuire al bilancio attivo nazionale e a ripianare il preoccupante deficit demografico italiano? Quattro milioni e mezzo di persone. Non abbiamo fatto nulla per sostenerne la vitalità, in primo luogo nella ricerca di abitazioni dignitose. Così accettiamo, esempio noto e crudele, il «modo di abitare» senza casa e persino senza baracca dei raccoglitori di frutta nelle regioni meridionali…Poi sopportiamo i Salvini, i Borghezio, i Maroni… e consistenti gruppi di concittadini organizzati in formazioni fascistoidi, xenofobe e razziste che, oltre a manifestare sentimenti di puro odio, falsificano la realtà sociale per ricavarne consenso; sanno infatti che fuori dei loro movimenti una parte dell’opinione pubblica, incolta e perciò propensa a tener per veri luoghi comuni fritti e rifritti sugli stranieri, si presenta come un campo fertile per seminarvi i loro criminosi principi e le loro eversive proposte politiche.
Eppure, al tempo delle grandi migrazioni interne, mai cessate dal dopoguerra ma di portata eccezionale negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, provenienza prevalente – a parte i vicinati regionali – dal meridione e, all’inizio, anche dal Veneto, destinazione il Triangolo industriale, certi comportamenti di istituzioni e di italiani verso italiani potremmo considerarli batteri di una malattia sorta lì, in seguito rimasta latente e riesplosa ai nostri giorni. La realtà e il mito di Piemonte, Lombardia e Liguria, di Torino, Milano e Genova furono richiamo talmente potente da permettere illimitata libertà di sfruttamento in ogni senso del bisogno di lavoro e di abitazione che masse di povera gente sradicata dalle loro terre esprimevano con umiltà e sottomissione. A questo riguardo assumiamo la città di Torino degli undici anni dal 1951 al 1961 (studiata nei corsi di urbanistica insieme con altri contesti nei primi anni Settanta) come maggiormente rappresentativa, simbolo di un’epoca che, per alcuni aspetti e per tutt’altre cause, sembra riprodursi oggi in diverse aree del paese, come fosse una contorsione della nostra storia sociale.
Il caso torinese
Torino simbolo dal momento in cui ne fu raffigurazione la Fiat, industria-richiamo come nessun’altra per tanti connazionali, anche se non era l’azienda a dare lavoro a tutti: «l’importante era essere vicino al benessere, nella città delle prospettive mirabolanti, lontani dalla fame e dalla miseria» (C. Canteri, Immigrati a Torino, Ed. Avanti, 1964). Il lavoro si trovava per lo più nelle fabbriche che vivevano grazie a essa o nei cantieri edili o in una falsa «cooperativa» di facchinaggio, oppure attraverso diffusi racket delle braccia. Intanto gli immigrati che non fossero piemontesi provenienti dalle campagne o dalle valli (aiutati dai parenti torinesi) dovevano scontrarsi con una legge fascista del ’39 avversa all’urbanesimo che sarà abolita solo nel 1960: per avere un lavoro occorreva possedere una residenza, per ottenere la residenza bisognava avere un lavoro; allora si registravano come lavoratori in proprio, ossia come «soci» di quelle pseudo-cooperative che li avviavano ai posti di una qualsiasi occupazione teoricamente stabile taglieggiandoli pesantemente sul salario. E oggi in Italia, se raggiungere la residenza avendo un recapito non è troppo difficile, purché non la si richieda in comuni amministrati da sindaci leghisti, razzisti, neofascisti e similari, è di fatto impossibile conquistare la cittadinanza.
Non diversa era la condizione degli operai utilizzati all’interno degli stabilimenti di Fiat ma non da questa dipendenti. Erano le organizzazioni cui il lavoratore «si affiliava», dette «enti di offerta di lavoro», ad appaltare ogni genere di opere che la fabbrica, ormai avviata a una produzione di massa, aveva convenienza a non esercitare in proprio. L’azienda pagava all’ente per ogni operaio cifre inferiori anche del 50% agli oneri complessivi sopportati per il dipendente regolare. Che cosa fanno oggi le poche fabbriche sopravvissute alla deindustrializzazione del paese se non accettare al loro interno operai estranei all’azienda e ricadenti nel «lavoro somministrato»? Così la Fiat mentre da un lato propagandava una prospettiva di benessere per tutti da un altro accompagnava minimi spunti riformisti con politiche duramente discriminatorie. A queste apparteneva anche la piaga della raccomandazione al padrone attraverso i parroci, che potevano avviare a un posto fisso gli iscritti ai loro elenchi partecipanti in qualche modo alla vita della parrocchia. Uno sguardo all’intera città all’inizio degli anni Sessanta rivelava che la condizione professionale degli immigrati era comunque ai livelli più bassi: circa due terzi manovali comuni, 30% ambulanti e artigiani, pochissimi operai specializzati. Eppure molti di loro dopo anni e anni di esperienza non erano più impreparata forza lavoro idonea solo alle prestazioni più mortificanti e magari pericolose.
Lavoro e casa, uguale discriminazione
Discriminati e sfruttati sul lavoro, discriminati sfruttati e ricattati per la casa. Vent’anni di cronache quotidiane mostrarono che Torino non ebbe eguali nella speculazione sulle spalle degli immigrati, nuova popolazione giovane di cui la città aveva pur bisogno per produrre e riprodursi. La classe dirigente torinese le offrì una gamma di possibilità abitative vergognosa: stalle dismesse ai confini del comune con la campagna, soffitte degradate prive di ogni dotazione igienica nel vecchio centro o nei trascurati quartieri operai tradizionali, «case alloggio» invece sudici dormitori in cui si affittava il posto branda, talvolta a rotazione secondo il susseguirsi dei turni lavorativi di otto ore; infine le bidonville da cui le famiglie furono sgombrate con la forza al momento delle celebrazioni del primo centenario dell’unità, per essere cacciate nelle «casermette» prima adibite a ricovero dei sinistrati. Nel caso dell’alloggio decente e di un salario sicuro l’affitto ne sottraeva un quarto se proveniente dall’impiego in Fiat ma fino a metà se guadagnato in aziende piccole o comunque sottoposte alla grande madre.
Il 1969 simbolo delle nuove rivendicazioni
Torino nel 1951 contava 700.000 residenti. Bastarono dieci-undici anni per diventare una grande città di oltre un milione di abitanti. Arrivò una nuova popolazione di mezzo milione di persone, mentre l’esodo fu di sole 160.000. Uno sconvolgimento epocale, un sovvertimento del precedente stato demografico. Nonostante le mille difficoltà di accoglimento, lavoro, insediamento, insomma di vita urbana lontanissima dal genere di vita dei luoghi di provenienza, fu merito degli immigrati, nuovi torinesi estranei alle tradizioni degli autoctoni, se una città chiusa in se stessa, sorda e sospettosa per consuetudine di una vecchia borghesia, col ceto operaio tradizionale talvolta anch’esso reticente verso le novità, si rifondò, evolvette – lentamente – verso l’accettazione dei compiti che la stessa nuova composizione sociale richiedeva. Ne fu un primo attestato il successo delle celebrazioni per il centenario dell’unità. Tuttavia la Fiat, sempre più estesa, pretendeva ancora la reductio ad unum, cioè a se stessa, della rappresentazione di Torino, che, infatti, tardò a superare il dannoso statuto di città dipendente da una sola imponente monocoltura industriale.
Gli operai immigrati raggiunsero rapidamente la coscienza di classe nel vivo dei rapporti di lavoro e delle relazioni con gli altri lavoratori. Quando nel 1969 il grande sciopero generale non per aumenti salariali, non per diverse condizioni di lavoro, ma, prima volta nella storia sindacale e delle lotte, per il diritto alla casa («casa uguale a servizio sociale» lo slogan sbandierato), imponenti manifestazioni conquistarono le strade e le piazze delle città italiane. I lavoratori di Torino, immigrati e torinesi uniti in una comune rivendicazione vitale, mentre partecipavano alla giornata di lotta nazionale potevano vantare di averla preceduta con un’altra giornata di sciopero e di lotta nella loro città, quando avevano manifestato in massa contro il potere del padronato, al comando il principe della Fiat, vassalli e valvassini obbedienti. Fu vera lotta perché si comandò ai poliziotti, per lo più poveri meridionali grati alle autorità per aver ottenuto un’occupazione, di attaccare duramente i cortei operai: infatti, la ricordiamo ancora oggi con la denominazione impiegata dai quotidiani di allora, «la battaglia di Corso Traiano a Torino».
La differenza della Germania
Angela Dorothea Merkel è intelligente (cioè capisce) molto più degli altri leader europei. Alcuni di loro non lo sono per connaturata inibizione poiché sono fascisti e nazisti quasi dichiarati (Kaczynski e Andrzej Duda, Orban…); altri sembrano come indica la seconda scelta di un qualsiasi dizionario dei sinonimi e dei contrari, idioti – stupidi; altri ancora, chiamiamoli intermedi, si muovono solo secondo gli umori classisti prevalenti; altri infine, piccoli per piccolezza di patria, devono vivere nell’ombra di uno grosso, adeguandosi. Per Angela Merkel, incurante di contestazioni e persino di proprie contraddizioni, la Germania ha di nuovo bisogno di immigrati in massa, come nel passato.
Vogliamo dire, indipendentemente dalla questione tedesca, che la vecchia e durevole logica capitalistica e mercantesca volta a restringere o a espandere la forza lavoro secondo gli investimenti e i disinvestimenti nel gioco fra sviluppo e crisi, può essere battuta da una realizzata condizione sociale e politica incentrata su due atti: riduzione per tutti del tempo di lavoro, magari prendendo spunto dalla provocazione di Paul Lafargue (i francesi hanno provato…) e radicale modificazione del rapporto fra consumo di beni d’uso e di beni di scambio in favore dei primi, compresi quelli immateriali. In altre parole: parallelamente alla diminuzione del tempo penoso (lo è per la stragrande maggioranza), aumento del tempo vissuto con felicità attraverso la cultura, per la crescita di sé razionale e sentimentale.
Il lavoro italiano, la città di Wolfsburg e il Käfer
La Germania è il più popoloso paese dell’Unione, ottantuno milioni di abitanti. Gli stranieri sono più del 10 % (di questi il 20 % vi è nato) ma se si aggiungono gli immigrati pervenuti man mano alla cittadinanza tedesca la percentuale quasi raddoppia, 19%. La tumultuosa ricostruzione sostenuta dall’enorme ammontare degli aiuti americani anche in funzione dell’alleanza antisovietica e la gigantesca espansione industriale degli anni Cinquanta e seguenti richiesero un incessante flusso di mano d’opera da altri stati europei. I meridionali italiani espatriarono in massa, insieme ai turchi (che oggi rappresentano la più numerosa comunità straniera, oltre un milione e mezzo), ai polacchi, ai greci e altri…
Come simbolo del lavoro italiano all’estero scegliamo Wolfsburg (Bassa Sassonia), «Città del Lupo». Furono specialmente nostri muratori e artigiani a costruire, insieme alle prime case, la fabbrica della «Macchina del popolo» voluta da Hitler nel 1938. Volkswagen, programma industriale, politico e para-sociale bloccato dalla guerra e rilanciato dopo la sconfitta, intensificato dal 1955 e negli anni Sessanta grazie al lavoro degli immigrati meridionali. Non fu a caso l’arrivo a Wolfsburg di tantissimi compaesani, fu dovuto a una preferenza, a un atto di fiducia degli industriali e dell’Istituto Federale per il Collocamento della Manodopera e per l’Assicurazione contro la Disoccupazione.
Il racconto dello scrittore Maurizio Maggiani
Wolfsburg cambiò notevolmente lungo i decenni fino ai giorni nostri. Da luogo-fabbrica dedicato solo alla produzione divenne una città di oltre 120.000 abitanti dotata di tutte le risorse che ne designerebbero l’abitabilità e la gradevolezza. Lo scrittore Maurizio Maggiani, autore di quel romanzo fuori del rigo convenzionale che è Il coraggio del pettirosso[ii] racconta in un articolo sul Secolo XIX di una delle sue visite[iii]. Ha amici compatrioti, del resto un quarto degli abitanti ha origini italiane o è tuttora nostro concittadino. L’italianità si trova non solo nei ristoranti nelle gelaterie nei caffè ma anche nelle scuole, nelle biblioteche. Per Maggiani «Wolfsburg è una bella città… ricca di verde, funzionale… i suoi quartieri operai sono formati da villette a schiera, separati da parchi e collegati con ampi viali».
Il maggior vanto civico è la presenza del Phaeno, il più grande museo scientifico interattivo della Germania dotato di 250 postazioni. Progettato da chi? Diamine, dall’immancabile Zaha Hadid (vogliamo subito paragonarlo col meraviglioso Exploratorium di San Francisco, fondato da Frank Oppenheimer nel 1969, un grande spazio entro un’ariosa semplice struttura di ferro, come fosse testimonianza della rivoluzione industriale). Non manca un museo d’arte moderna. Infine la Kulturhaus di Alvar Aalto, che ricordiamo non fra le opere eccelse, funzionava già nel 1962. Maggiani discorre con gli amici, tutti hanno in certo modo nostalgia dell’Italia; «ma, fatte le ferie se ne tornano a starsene nel cuore della Bassa Sassonia a casa loro, che è Wolfsburg, dove il clima non sarà un granché, ma dove dopo le quattro del pomeriggio nessuno lavora più, si va a passeggiare sui viali, a nuotare nei laghi, al cinema, a teatro, a bere birra sul lungofiume…». E la settimana di ferie autunnali, l’asilo nido sotto casa, le tessere per i musei e le gallerie, il medico che li chiama per accertarsi della loro salute? Allora una specie di paradiso? Forse il nostro simpatico romanziere è propenso a romanzare, ma non a contar balle. In ogni caso un tale paesaggio urbano e umano non può riguardare l’intera Germania; e quali conseguenze proprio lì, nella sede madre dell’azienda, provocherà l’attuale vicenda delle emissioni inquinanti truccate in certi modelli?
Lavorare in miniera morte annunciata
Stiamo osservando una fotografia del 1964: in un’aula scolastica immigrati italiani ascoltano qualcuno che li sta istruendo sul lavoro da minatori per essere avviati alle miniere carbonifere di Duisburg, Renania Settentrionale-Vestfalia. Tutta la Ruhr rappresentava, a quell’epoca, una delle massime concentrazioni territoriali minerarie (è noto che sopraggiunto il tempo della chiusura, l’intera regione, con le sue città grandi e piccole, sarà trasformata in un insieme multicentrico ricco di occasioni culturali, paesaggistiche, turistiche). I cavatori italiani meridionali, a nostra memoria, furono più fortunati dei loro colleghi emigrati in Belgio, dove a metà degli anni Cinquanta lavoravano 142.000 minatori, fra i quali 63.000 stranieri comprendenti 44.000 italiani. A Marcinelle, miniera di carbone Bois du Cazier nella periferia meridionale di Charleroi, l’8 agosto 1956 a causa di un irrefrenabile incendio morirono 262 minatori, i sopravvissuti furono solo 13. 136 le vittime italiane, le metà abruzzesi. Sfogliando le notizie in memoriacondivisa.it leggiamo che il ricordo della tragedia è ancora vivo; anche quest’anno nel sito minerario del Bois du Cazier, dal 2012 entrato nel patrimonio mondiale dell’Unesco, si terranno le cerimonie di commemorazione dell’evento.
Ai lavoratori italiani per morire in miniera non occorreva emigrare all’estero. Poco più di due anni prima dello sterminio di minatori a Marcinelle era stata la Maremma, terra di miniere dove l’attività della società Montecatini era iniziata alla fine dell’Ottocento, a essere teatro di una tragedia. Provincia di Grosseto, comune di Roccastrada, frazione di Ribolla (in effetti, un villaggio Montecatini), miniera di lignite sezione Camorra: nella prima mattina del 4 maggio 1954 una spaventosa esplosione di grisù causò la morte di 43 operai. I minatori erano in totale poco più di 1.400, in forte diminuzione dal 1948 coerentemente alla politica della Montedison, smobilitare anno dopo anno: condotta che comportava la riduzione delle provvidenze per la sicurezza del lavoro.
Quando i letterati appartengono alla vicenda sociale
Il libro d’epoca di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola I Minatori della Maremma[iv] dedica un capitolo a La sciagura di Ribolla. Fu per noi una lettura importante. Due ricercatori che saliranno la china della letteratura d’autore e della fama fino al vertice ci ragguagliavano sulla storia e la condizione sociale poco conosciute della loro regione, in maniera così accurata e dimostrativa come solo una vocazione allo studio storico e una diretta partecipazione agli eventi potevano permettere. Chi conosceva quale fosse l’abitare per i lavoratori scapoli arrivati lì provenendo da territori lontani? Ecco i «camerotti» costruiti per cacciarvi i prigionieri di guerra. «Costruzioni a un piano, lunghe e strette, divise all’interno in tante stanzette quadrate…gli scapoli… vivono là dentro, a gruppi di tre o quattro per stanza: brande di ferro, armadietti, pure di ferro, un tavolo, sgabelli… In cima all’armadietto una cassettina di legno… La sensazione è quella, la caserma»[v].
L’io narrante di La vita agra, il capolavoro di Luciano Bianciardi, sente la missione di vendicare le vittime della tragedia: «…venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e di cemento [sarebbe la sede della Montecatini a Milano], chiedendomi a quale finestra, in quale stanza, in quale cassetto, potevano aver messo la pratica degli assegni assistenziali, dove la cartella personale… di tutti i quarantatré morti del quattro maggio. Chiedendomi dove, in che cantone, in che angolo, inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione; metano miscelato con aria in proporzione fra il sei e il sedici per cento. Tanto ce ne vuole perché diventi grisù, un miscuglio gassoso esplosivo se lo inneschi a contatto con qualsiasi sorgente di calore superiore ai seicento gradi centigradi. La missione mia… era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi».[vi]
Note
[i] Katiuscia Curone, Italiani nella Germania degli anni Sessanta: immagine e integrazione dei Gastarbeiter, Wolfsburg 1962-1973, in “Altreitalie”, rivista internazionale di studi sulle popolazioni di origini italiane nel mondo, n. 33, luglio-dicembre 2006.
[ii] Edito da Feltrinelli nel 1995, ha vinto nello stesso anno i premi Viareggio, Repaci, Campiello. Nel 2010 la quattordicesima edizione.
[iii] Maurizio Maggiani, Povera Italia, vista da Wolksburg, in Il Secolo XIX (unito a La Stampa), 31 agosto 2010.
[iv] Luciano Bianciardi – Carlo Cassola, I minatori della Maremma, Editori Laterza, Bari 1956 – Libri del tempo.
[v] Ivi, p. 50-51. «Le famiglie, che dovettero costituirsi parte civile, accettarono le offerte in denaro della Montecatini e il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati e il disastro fu archiviato come ‘mera fatalità’. A seguito del disastro la direzione della Montecatini decise la chiusura della miniera, la cui smobilitazione richiese ben cinque anni», dal sito memoriacondivisa.it.
[vi] La vita agra, 1967, in Luciano Bianciardi - L’antimeridiano - Tutte le opere, a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Cipolla e Alberto Piccinini. Volume primo. Saggi e romanzi, racconti, diari giovanili, Isbn Edizioni e ExCogita Editore, Milano 2005, p. 595.
Comune.info.net.
«Non possiamo restare a guardare, chiudere i porti significa soltanto una cosa: lasciare morire ogni giorno persone nel Mediterraneo. “Proponiamo un piccolo segno visibile, pubblico: un digiuno a staffetta con un presidio davanti al parlamento italiano per dire che non possiamo accettare questa politica delle porte chiuse…”: un appello di Alex Zanotelli, Alessandro Santoro, suor Rita Giaretta e altri, rivolto non solo ai credenti, mostra un pezzo di società che si ostina a ribellarsi»
Appello e presidio contro i porti chiusi
«Avete mai pianto, quando avete visto affondare un barcone di migranti?» così papa Francesco ci interpellava durante la Messa da lui celebrata a Lampedusa per le33.000 vittime accertate (secondo il giornale inglese The Guardian che ne ha pubblicato i nomi) perite nel Mediterraneo per le politiche restrittive della “Fortezza Europa”.
È il naufragio dei migranti, dei poveri, dei disperati, ma è anche il naufragio dell’Europa, e dei suoi ideali di essere la «patria dei diritti umani». La Carta dell’Unione Europa afferma: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata».
È un crimine contro l’umanità, un’umanità impoverita e disperata, perpetrato dall’opulenta Europa che rifiuta chi bussa alla sua porta.
Un rifiuto che è diventato ancora più brutale con lo scorso vertice della UE dove i capi di governo hanno deciso una politica di non accoglienza. Anche l’Italia, decide ora di non accogliere, di chiudere i porti alle navi delle Ong e affida invece tale compito alla Guardia Costiera libica, che se salverà i migranti, li riporterà nell’inferno che è la Libia. Perfino la Commissione Europea ha detto: «Non riportate i profughi in Libia, lì ci sono condizioni inumane».
Per questo stiamo di nuovo assistendo a continui naufragi. L’Onu parla di oltre mille morti in questi mesi.
Papa Francesco ha fatto sue le parole dell’arcivescovo Hyeronymous di Grecia pronunciate nel campo profughi di Lesbos: «Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi, è in grado di riconoscere immediatamente la ‘bancarotta dell’umanità».
È il sangue degli impoveriti, degli ultimi che interpella tutti noi, in particolare noi cristiani che saremo giudicati su: «Ero straniero… e non mi avete accolto”. Noi chiediamo a tutti i credenti, di reagire, di gridare il proprio dissenso davanti a queste politiche disumane.
Noi proponiamo un piccolo segno visibile, pubblico: un digiuno a staffetta con un presidio davanti al Parlamento italiano per dire che non possiamo accettare questa politica delle porte chiuse che provoca la morte nel deserto e nel Mediterraneo di migliaia di migranti.
«Il digiuno che voglio – dice il profeta Isaia in nome di Dio – non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo senza trascurare i tuoi parenti?».
Alex Zanotelli a nome dei Missionari Comboniani.
Raffaele Nogaro, vescovo Emerito di Caserta
Alessandro Santoro a nome della Comunità delle Piagge di Firenze.
Rita Giaretta, suora della Casa Ruth di Caserta
Giorgio Ghezzi, Religioso Sacramentino.
«La Comunità del Sacro Convento aderisce e partecipa nella preghiera» è quanto riferisce padre Enzo Fortunato, direttore della Sala Stampa del Sacro Convento di Assisi.
Martedì 10 luglio 2018 alle ore 12 ci ritroviamo a Roma, in piazza San Pietro, per una giornata di digiuno. Da lì proseguiremo a Montecitorio per testimoniare con il digiuno contro le politiche migratorie di questo governo. E continueremo a digiunare per altri dieci giorni con un presidio davanti a Montecitorio dalle ore 8 alle 14.
Per adesioni al digiuno e partecipazione scrivere a questa email: digiunodigiustizia@hotmail.com
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
Nigrizia
Il libro di Francisco Bethencourt "Razzismi. Dalle crociate al XX secolo Crociate" narra agli inconsapevoli della società contemporanea la vicenda grazie alla quale noi e i nostri simili dalla pelle bianca siamo diventati padroni del mondo, e aiuta a ricordare (quelli di noi che lo avessero dimenticato) che i campi di sterminio e le altre efferatezza del nazifascismo non siano stati una momentanea eclissi nella gran luce della civiltà eurocentrica, ma uno dei suoi molti momenti barbarici. Lavoriamo perchè non ritornino, ricordando con Bertold Brecht che, finché il capitalismo vivrà, il ventre che generò quei crimini è sempre fertile. (e.s.)
Il dramma dei popoli fuggiti dagli inferno creati dal capitalismo dei paesi ricchi raccontato con emozione e sapienza. Una cantata che meriterebbe di circolare ben al di là del piccolo mondo di eddyburg.
MARE NOSTRO
Artista: Storie Storte (ft. MC Bible)
Autore: Giorgia Dalle Ore
il Manifesto,
Lo scontro tra l’Italia e il resto dell’Europa sui migranti sta probabilmente arrivando alla fine e il risultato, qualunque dovesse essere, rischia di decretare molti perdenti e nessun vincitore. Le speranze che dal Consiglio europeo di oggi possano uscire soluzioni condivise per quanto riguarda la gestione dei migranti, col passare delle ore si sono infatti ridotte sempre più al lumicino al punto che già ieri sera a Bruxelles giravano voci preoccupate circa non solo la possibilità che l’Italia possa non firmare il documento finale del vertice, ma anche che i 28 leader europei possano ritrovarsi presto a far fronte a un’eventuale chiusura delle frontiere tra Germania e Austria e tra Austria e Italia. Decisione catastrofica che comporterebbe di fatto la fine di Schengen e il definitivo isolamento dell’Italia.
Intervenendo ieri in parlamento proprio per illustrare i contenuti del Consiglio europeo di oggi, il premier Conte è stato chiaro: per l’Italia punti come la condivisione tra gli Stati della responsabilità dei migranti, l’apertura dei porti europei alle navi che effettuano i salvataggi e il superamento del regolamento di Dublino rappresentano condizioni imprescindibili. «Bisogna scindere il piano dell’individuazione del porto sicuro da quello dello Stato competente a esaminare le richieste di asilo», ha spiegato tra gli applausi della maggioranza.
Senza avere prima incassato questi risultati, per Conte non vale neanche la pena discutere di come bloccare i movimenti secondari dei richiedenti asilo, praticamente l’ultima boa alla quale è aggrappata la sopravvivenza politica della cancelliera Angela Merkel. Ma il premier ha anche fatto suo, senza citarli, il lavoro svolto negli ultimi cinque anni dai governi Letta e Renzi, ricordando come l’Italia abbia salvato l’onore dell’Europa prestando soccorso a decine di migliaia di vite nel Mediterraneo. Un riconoscimento attribuito per la verità nel 2017 al nostro Paese dal presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, che probabilmente all’epoca non pensava certo di dover discutere un giorno con il leader di un Paese il cui ministro degli Interni liquida come «retorica» le torture subite dai migranti in Libia.
Proprio il rapporto con Salvini è del resto per Conte uno dei punti più complicati da gestire. Giusto per facilitare il lavoro del premier in vista del consiglio di oggi, ieri il leghista è tornato a insultare il presidente francese: «Macron fa il matto perché è al minimo della popolarità nel suo Paese», ha esternato lasciando la Camera dopo aver sentito l’intervento del premier. Una complicazione in più per Conte, diviso dalla necessità di muoversi senza marcare in maniera evidente la distanza con il suo vicepremier e quella di non urtare leader europei con i quali seppure sottotraccia – vedi la cena segreta di due sere fa a Roma proprio con Macron e consorte – cerca disperatamente di scongiurare una possibile rottura. Raccomandazione che ieri sera, in un incontro al Quirinale, gli avrebbe rivolto anche il presidente Mattarella.
La strada è dunque in salita, anche se a Conte arrivano segnali incoraggianti. Il leader spagnolo Pedro Sanchez, che ha scelto di schierarsi con Germania e Francia – ha fatto sue alcune richieste italiane chiedendo «l’individuazione di porti sicuri» in modo che la responsabilità de migranti sia distribuita tra tutti i Paesi membri. E aperture in questo senso sarebbero arrivate anche dalla Francia e dalla cancelliera Merkel. Decisa, però, a far rispettare lo stop dei richiedenti asilo che dopo aver presentato domanda di protrzione nello Stato di arrivo si muovono all’interno dell’Unione europea. Punto sul quale l’ennesima bozza di documento finale del vertice non a caso ribadisce come fondamentale, chiedendo agli Stati di adottare «misure interne legislative amministrative» per bloccare i movimenti secondari.
Unico punto in comune a tutti a questo punto è la volontà di esternalizzare le frontiere europee aprendo campi profughi in Paesi terzi. Anche questa però, a poche ore dall’inzio del vertice, sembra essere una strada tutta in salita. In un documento circolato ieri la Commissione Juncker ha escluso che i campi profughi possano sorgere in Paesi europei che non fanno parte dell’Ue, come possono essere i Balcani nella proposta avanzata dall’Austria. E per quanto riguarda la possibilità di collocarli in Nordafrica continuano ad arrivare rifiuti da parte dei Paesi in teoria interessati. Tutti segnali che non lasciano prevedere niente di buono. «La posta in gioco è molto alta e c’è poco tempo per trovare una soluzione», spiegava ieri il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk.
Il 28 e 29 giugno si terrà a Bruxelles una riunione di emergenza dei leader dei paesi dell'Unione Europea per discutere su un approccio unitario alla questione migranti e superare le divisioni emerse già nella 'crisi migratoria' del 2015 e diventate più accese con l'ascesa di forze di estrema destra e populiste in Europa (1).
Non che l'Europa abbia dimostrato la volontà di applicare una politica di accoglienza o di lungimirante strategia per affrontare le problematiche connesse ai flussi migratori. Tutt'altro,il dramma degli oltre 66 milioni di sfollati nel mondo sembra turbare la coscienza europea solo quando i riflettori dei media si accendono su una qualche una tragedia ai confini dell'Europa, Calais, Lampedusa, Lesvo, Bardonecchia.
L'approccio europeo è incentrato: sulla fortificazione delle frontiere con la messa in campo di una sorveglianza sempre più sofisticata; e sulle persone con una ascesa delle deportazioni e diminuzione delle opzioni legali per ottenere permesso di soggiorno o residenzialità. Questo approccio aumenta il numero di sfollati che entrano illegalmente, costringendoli a intraprendere vie sempre più pericolose per sfuggire ai conflitti, alla violenza, alla povertà.. Ma questa strategia di creare una fortezza non si svolge solo sui confini europei, ma è sempre più esternalizzata, e delegata a paesi terzi, con i quali si stipulano accordi tali da estendere a questi paesi le stesse politiche adottate dall'Europa (2).
Le proposte che possono emergere da questo summit non sono rincuoranti, saranno comunque totalmente inadeguate al problema, ma rischiano anche di legalizzare atti criminali di violazione dei diritti umani. Infatti, anche trovare un consenso politico comunque moderato sulle riforme in materia di asilo sembra improbabile in quanto i capi di stato e i primi ministri sembrano invece convergere sull'idea di rafforzare le frontiere esterne. Inclusa la strategia di creazione di 'piattaforme di sbarco regionali' (regional disembarkation platforms) e periferiche dove smistare e distinguere tra migranti economici e coloro che necessitano di protezione internazionale. Definito anche come il "modello australiano", in quanto adottato dall'Australia verso i migranti arrivati in barca, questa strategia comporta l'internamento dei migranti in 'centri' fuori dall'Europa. Nella bozza di questo progetto del Consiglio Europeo si menziona che questi centri verrebbero istituiti in stretta collaborazione con l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), ma un portavoce dell'UNHCR ha dichiarato di non essere ancora stato interpellato su questo, ma invece di avere notato che l'Europa sta lavorando a programmi di reinsediamento dalla Libia e dal Niger con il progetto di crearne un altro in Burkina Faso.
Come espresso nella lettera preparata da Miguel Urban Crespo (Podemos) e indirizzata a Donald Tusk, Jean-Claude Juncker e ai membri del Consiglio europeo, il modello australiano - a cui le piattaforme di sbarco regionali si ispirano - è stato denunciato come inumano dall'ONU.
"La segretezza e la mancanza di responsabilità hanno portato a gravi violazioni della legge internazionale sui diritti umani, inclusa la detenzione arbitraria; crudele, inumano o degradante trattamento o punizione; tortura; e persino un omicidio di un rifugiato per mano del personale. Autolesionismo e i tentativi di suicidio sono frequenti e i detenuti, tra cui donne e bambini, sono stati oggetto di abuso sessuale e fisico. C'è grande disperazione nel centro mentre la disperazione ha derubato la gente della voglia di vivere. [...] L'obbligatorio e prolungato centro di detenzione sia a terra che su una piattaforma impedisce l'accesso alla giustizia, ai servizi di base come assistenza sanitaria o istruzione e diventa discriminante in tutti i settori della vita sulla base dello status attribuito al migrante o alla sua famiglia."
Eddyburg vi terrà aggiornati sugli sviluppi.
Note
(1) Per ulteriori informazioni si legga su eddyburg i due articoli di Bernard Guetta e Pierre Haski.
(2) A questo proposito si veda la copertina No. 32 del 5 giugno per una mappa dei paesi con i quali l'Europa ha o sta stipulando accordi.
Internazionale (i.b.)
Internazionale, 26 giugno 2018
SUI MIGRANTI L’EUROPA SI PRESENTA SEMPRE PIÙ DIVISA
Gli argomenti al centro del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno saranno due: i migranti e l’eurozona. Questo significa che il vertice dei leader dell’Unione, capi di stato o di governo, sarà molto difficile.
Sui migranti esistono tre posizioni diverse. I paesi dell’Europa centrale, quelli del gruppo di Visegrád, sono aperti all’idea di un controllo comune delle frontiere dell’Unione e di un’azione europea nei paesi di transito, ma rifiutano la possibilità di ripartire il peso dei migranti che hanno diritto all’asilo politico.
Poi ci sono le proposte francesi, ormai condivise da Germania, Spagna, Commissione europea e, tutto sommato, anche dai paesi scandinavi e dai Paesi Bassi. Già parzialmente applicate, queste proposte consistono prima di tutto in un’azione collettiva nei paesi di transito per dissuadere (anche con aiuti per il rimpatrio) i migranti economici che vorrebbero rischiare la vita per raggiungere la loro destinazione. In secondo luogo, tra le proposte, c’è il sostegno alla guardia costiera libica affinché intercetti quelli che decidono comunque di attraversare il Mediterraneo. Infine ci sono il rafforzamento del controllo comune delle frontiere e un trasferimento di tutti quelli che vengono salvati in centri chiusi dove sia possibile fare distinzione tra migranti economici e rifugiati politici.
Oltre a queste posizioni c’è la manovra del ministro dell’interno e leader della Lega Matteo Salvini, che in piena contraddizione con il presidente del consiglio italiano e con il resto della coalizione di governo orchestra la tensione con la Francia e limita la sua azione e le sue proposte alla chiusura dei porti italiani per le imbarcazioni cariche di migranti, con lo scopo (finora raggiunto) di guadagnare voti mostrando i muscoli.
A Bruxelles l’obiettivo sarà duplice. Innanzitutto bisognerà trovare un’intesa sull’insieme delle proposte francesi e non soltanto sul controllo delle frontiere e, in secondo luogo, rompere il fronte tra l’estrema destra italiana e centro-europea proponendo che i rifugiati politici possano chiedere asilo in un paese diverso da quello che raggiungono per primo. È quello che spera l’Italia ed è ciò che rifiutano i centro-europei.
Riforme basilari
Non è una chimera, ma resta difficilmente realizzabile, perché la percezione generale è che i flussi migratori continuino ad aumentare, quando in realtà stanno calando sensibilmente dopo il picco del 2015 legato alla tragedia siriana.
Quanto alle riforme dell’eurozona proposte da Francia e Germania, si scontrano con reticenze talmente forti che difficilmente possiamo sperare che vengano adottate dal Consiglio. Nel migliore dei casi potrebbero essere accettate come una “base di discussione”. Il vertice si annuncia davvero complicato.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Internazionale, 25 giugno 2018
SE VINCE LA LINEA DELLA CHIUSURA IL FUTURO DELL’EUROPA È A RISCHIO
di Pierre Haski
La questione dei migranti si è inserita nel cuore della crisi europea. Paradossalmente, più che come questione umanitaria, come oggetto di scontro culturale: una kulturkampf, come si diceva nel diciannovesimo secolo, ovvero una lotta per un ideale di società.
Il soggetto evidentemente non è nuovo e, senza risalire troppo in là nel tempo, divide concretamente gli europei dai tempi della crisi dei rifugiati e dei migranti del 2015. Allora emerse l’incapacità dell’Europa a 28 di trovare un accordo su un piano comune e su una solidarietà minima per affrontare una situazione difficile per alcuni stati membri.
La questione è diventata letteralmente esplosiva nel corso delle elezioni degli ultimi 18 mesi in Europa, segnate dalla vittoria o dalla forte ascesa dei partiti populisti e/o d’estrema destra. L’elezione di Emmanuel Macron, con i suoi ideali liberali ed europeisti, appare col senno di poi più un’eccezione che una battuta d’arresto per l’onda populista.
La questione dei migranti si è inserita nel cuore della crisi europea. Paradossalmente, più che come questione umanitaria, come oggetto di scontro culturale: una kulturkampf, come si diceva nel diciannovesimo secolo, ovvero una lotta per un ideale di società.
Il soggetto evidentemente non è nuovo e, senza risalire troppo in là nel tempo, divide concretamente gli europei dai tempi della crisi dei rifugiati e dei migranti del 2015. Allora emerse l’incapacità dell’Europa a 28 di trovare un accordo su un piano comune e su una solidarietà minima per affrontare una situazione difficile per alcuni stati membri.
La questione è diventata letteralmente esplosiva nel corso delle elezioni degli ultimi 18 mesi in Europa, segnate dalla vittoria o dalla forte ascesa dei partiti populisti e/o d’estrema destra. L’elezione di Emmanuel Macron, con i suoi ideali liberali ed europeisti, appare col senno di poi più un’eccezione che una battuta d’arresto per l’onda populista.
Salvini ha fatto volontariamente esplodere il fragile equilibrio moltiplicando le dichiarazioni violente
La vittoria in Italia della coalizione eterogenea tra la Lega di Matteo Salvini, di estrema destra, e il Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio, è stato il culmine di questa serie di elezioni. Diventato ministro dell’interno, e quindi incaricato della questione migratoria, Salvini ha fatto volontariamente esplodere il fragile equilibrio, moltiplicando le dichiarazioni violente e bloccando l’attracco dell’Aquarius, l’imbarcazione umanitaria che si occupa di soccorrere i migranti in mare.
Laddove l’Europa procedeva a colpi di fragili compromessi e accordi improvvisati, il cambiamento di maggioranza in Italia ha imposto chiarezza, rendendo dunque evidente la crisi.
L’Unione europea è quindi entrata, suo malgrado, in un periodo di alta tensione, che durerà almeno fino alle elezioni europee della primavera del 2019. Ammesso che riesca a sopravvivere fino ad allora.
Due discorsi pronunciati negli ultimi giorni danno il tono dello scontro culturale che si profila all’orizzonte, e senza dubbio del tono della campagna per le elezioni europee, solitamente le meno accese di tutto il calendario elettorale.
Giovedì scorso Emmanuel Macron ha deciso di suonare la carica usando termini non abituali, denunciando “la lebbra che si diffonde” in Europa, in occasione di un discorso pronunciato a Quimper. Il presidente francese ha usato toni solenni per denunciare “la rinascita del nazionalismo” nel continente, senza per questo sostenere una politica migratoria più morbida.
Matteo Salvini si è sentito chiamato in causa e ha replicato con virulenza al capo di stato francese, in particolare sul suo account Twitter, imitando Donald Trump e la sua quotidiana logorrea sul social network.
Ma è un altro il discorso che va analizzato in opposizione a quello di Macron, ed è quello di Viktor Orbán, il presidente ungherese, il quale, il 16 giugno, in occasione del primo anniversario della morte di Helmut Kohl, l’ex cancelliere cristiano-democratico tedesco, ha esposto la sua strategia e il cuore del suo pensiero. Questo testo merita tutta la nostra attenzione.
Ancor più dei nuovi dirigenti italiani, che devono ancora dimostrare la loro capacità di resistere e di agire, è Viktor Orbán a incarnare la “resistenza” all’ordine liberale. È lui che nel 2015, chiudendo l’Ungheria al passaggio dei rifugiati e dei migranti e innalzando il filo spinato alle frontiere, ha preso il controllo della fazione cosiddetta “illiberale”, ovvero non più del tutto democratica.
Viktor Orbán, l’ex dissidente del periodo comunista, che ha avuto una precedente vita liberale prima di diventare illiberale, non parla dai margini estremi del mondo politico, come molti nemici dell’immigrazione, come Salvini o la francese Marine Le Pen, ma dal cuore del sistema, dal Partito popolare europeo (Ppe), la prima formazione del Parlamento europeo, del quale fa parte il suo movimento, Fidesz. La stessa confederazione politica della Cdu di Angela Merkel o dei Repubblicani francesi di Laurent Wauquiez.
Il presidente ungherese sostiene un cambiamento del centro di gravità europeo verso destra
In questo discorso del 16 giugno, Viktor Orbán dice con fermezza “no” a qualsiasi compromesso con gli altri paesi sulla questione migratoria, oggetto di un minivertice europeo il 28 e 29 giugno. Un “no” diretto in primis contro Emmanuel Macron e Angela Merkel.
“Possiamo raggiungere un compromesso nel dibattito sui migranti? No, e non è necessario farlo. Ci sono quelli che sono convinti che la parte avversa debba fare concessioni, che debbano discutere e poi stringersi la mano. È un approccio sbagliato. Alcune questioni non potranno essere risolte con un consenso. Non succederà, e non è necessario. L’immigrazione è una di queste questioni”.
Ma il presidente ungherese non si ferma qui. Suona la carica contro la Commissione europea, paragonata a “Mosca” (!), e da lui accusata di favorire sistematicamente i grandi paesi dell’Europa occidentale. E sostiene un cambiamento del centro di gravità europeo verso destra, molto più a destra. Denuncia il modello tedesco, ovvero la “Groko” (grande coalizione) tra la destra cristianodemocratica e cristianosociale da una parte, e la sinistra socialdemocratica dall’altra, opponendo a essa il modello austriaco, ovvero l’alleanza tra destra ed estrema destra. È quello che Orbán definisce “prendere sul serio le questioni sollevate dai nuovi partiti e dare risposte serie”.
“Noi crediamo che sia venuto il tempo di una rinascita democraticocristiana, e non di un fronte popolare antipopulista. Contrariamente alla politica liberale, la politica cristiana è in grado di proteggere i nostri popoli, le nostre nazioni, le nostre famiglie, la nostra cultura, radicata nel cristianesimo e nell’uguaglianza tra uomini e donne: in altri termini, il nostro stile di vita europeo”, prosegue il presidente ungherese, esprimendosi senza mezzi termini: “Dobbiamo tutti capire che l’islam non farà mai parte dell’identità dei paesi europei”.
Le ultime parole di Viktor Orbán annunciano il programma dei prossimi mesi: “Aspettiamo che il popolo europeo esprima la sua volontà nel corso delle elezioni del 2019. Poi quel che dovrà succedere, succederà”.
Questa dichiarazione del presidente ungherese deve fare riflettere tutti gli attori politici del continente: non bisogna sottovalutare la capacità di quest’ala all’estrema destra del Ppe – che può contare su alleati forti come una parte della destra tedesca, e il cui messaggio non è molto lontano dai dibattiti che agitano la destra francese – di modificare l’equilibrio in seno al Parlamento europeo, e quindi paralizzare o riorientare la costruzione europea.
Utilizzando un termine particolarmente forte, la “lebbra”, anche Emmanuel Macron vuole rendere più drammatica la posta in gioco, dando l’idea di voler lanciare la sua campagna per le elezioni europee con una modalità di “muro contro muro”. Anche se, da vari mesi, evoca la sua inquietudine nel vedere la democrazia liberale europea cedere il passo di fronte alle sirene delle forze illiberali.
Il problema è che lo fa nel momento in cui lui stesso si è indebolito, a causa del suo silenzio sulle sorti dell’Aquarius e sul giro di vite del suo ministro dell’interno Gérard Collomb sulla questione migratoria. Malgrado le critiche Emmanuel Macron ha difeso la sua politica migratoria intermedia “della quale non dobbiamo vergognarci”, ovvero integrare meglio quanti ottengono asilo ed espellere sistematicamente tutti gli altri. Ha peraltro risposto ai suoi detrattori utilizzando accenti populisti, accusando le “élite economiche, giornalistiche e politiche” di avere “un’immensa responsabilità” nel rifiuto dell’Europa.
Sarà difficile, nei prossimi mesi, evitare le trappole politiche di questi dibattiti troncati. Perché se è vero che la posta in gioco è altissima per tutta l’Europa, esistono anche linee di scontro nazionali che possono modificarne la percezione.
Quel che è certo è che il clima si è fatto teso, ed è improbabile che si rassereni con l’avvicinarsi delle elezioni europee. La campagna elettorale per le europee si annuncia brutale e propizia alla manipolazione dell’opinione pubblica, come dimostrato in tutte le recenti elezioni nel mondo. E soprattutto si svolgeranno in un mondo destabilizzato e ansiogeno, con un’Europa che deve fare i conti con il fenomeno Trump. Un mondo nel quale torna nuovamente a porsi la grave questione della guerra e della pace.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Avvenire
«Messaggio del capo dello Stato, che oggi vede Tusk, in occasione della giornata mondiale del rifugiato: “Tragedia drammaticamente attuale. Intervenire con la prevenzione, su conflitti e povertà”»
«Nel sollecitare la comunità internazionale e l'Unione Europea a compiere passi crescenti su questo terreno, la Repubblica Italiana si conforma alle norme sancite dal diritto internazionale relative all'accoglienza di coloro che hanno diritto a protezione». Il messaggio di Sergio Mattarella in occasione della giornata mondiale del rifugiato ribadisce la richiesta del nostro Paese di maggiore condivisione del dovere di accoglienza.
Ma le parole del capo dello Stato - che oggi vedrà, al pari del premier Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk – suonano anche come monito per il nuovo governo a non sottrarsi ai propri doveri di carattere umanitario, pur chiedendo a gran voce a una cambio di passo nelle politiche e negli stessi regolamenti comunitari.
«La tragedia dei rifugiati - donne, uomini e bambini costretti ad abbandonare le proprie case in cerca di un luogo dove poter vivere - è oggi sempre più drammaticamente attuale, come hanno sottolineato anche le Nazioni Unite» scrive il presidente della Repubblica. Che rivendica innanzitutto i grandi meriti acquisiti dal nostro Paese: «Da tempo, l'Italia contribuisce al dovere di solidarietà, assistenza e accoglienza nei confrontidi quanti, costretti a fuggire dalle proprie terre, inseguono la speranza di un futuro migliore per sè e per i propri figli. Obbedisce a sentimento di responsabilità l'impegno dei moltissimi concittadini che, sul suolo nazionale, nel mediterraneo e in altre più lontane aree di crisi del pianeta, tengono vivo lo spirito di umanità che - profondamente radicato nella nostra Costituzione - contraddistingue il popolo italiano». Ne discende un «vivo ringraziamento» da parte del capo dello Stato per «tutti coloro che, in Italia e nel mondo, si adoperano con passione, impegno e dedizione, per questa causa».
Ma ecco la richiesta pressante. Per Mattarella «la comunità internazionale deve operare con scelte politiche condivise e lungimiranti per gestire un fenomeno che interessa il globo intero». E soprattutto, «l'Unione Europea, in particolare, deve saper intervenire nel suo insieme, non delegando solamente ai Paesi di primo ingresso l'onere di affrontare le emergenze. La gestione attuale dei fenomeni migratori deve lasciare il posto a interventi strutturali che rimuovano le cause politiche, climatiche, economiche e sociali che alimentano tante tristi vicende».
Esiste poi un grande tema, che tocca la comunità internazionale nel suo insieme, sul piano della prevenzione delle cause delle grandi migrazioni, dalle guerre alle povertà: «Per governare i grandi spostamenti di esseri umani - afferma il Presidente - occorre prevenire i conflitti e mettere fine a quelli in corso, sostenere i Paesi di origine dei flussi aiutandoli a combattere carestie e malnutrizione, fornire adeguato sostegno ai Paesi limitrofi e alle aree soggette a ostilità». Occorrono, sul piano globale, politiche ispirate ai «principi della responsabilità, della solidarietà e della condivisione dei doveri e dei compiti tra tutti i Paesi interessati». Principi che possono trovare un loro rilancio solo in ambito Onu, dove «l'Italia è fortemente impegnata nei negoziati in vista dell'adozione di un patto mondiale sui rifugiati, che rappresenta lo strumento per offrire risposte concrete e universalmente accettate».
Ma, ammonisce Mattarella «nel sollecitare la comunità internazionale e l'Unione Europea a compiere passi crescenti su questo terreno la Repubblica Italiana si conforma alle norme sancite dal diritto internazionale relative all'accoglienza di coloro che hanno diritto a protezione».
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2018. Un'analisi quantitativa dell'esodo in corso. I numeri dell'esodo in corso potranno essere utili a quanti hanno conservato il lume della ragione, saranno inutili per chi usa la testa come i governanti italiani ed Europei. Con commento. (e.s.)
L'analisi delle dimensioni dell'esodo ne conferma il carattere dirompente sia per i paesi di provenienza sia per quelli assunti come obiettivi dai flussi dei migranti. Ma non si comprende ancora che é necessario individuare e praticare sia soluzioni immediate per l'accoglienza coerente con una «migrazione sicura, ordinata e regolare», secondo le parole di papa Francesco, sia il progressivo smantellamento del sistema economia e di potere che con lo sfruttamento dei colonialismo vecchi e nuovi, sta portando il pianeta e l'umanità alla catastrofe. Chiamalo, se vuoi, capitalismo. (e.s.)
Il Fatto quotidiano, 19 giugno 2018
Giornata mondiale del Rifugiato, oltre 68 milioni di persone costrette alla fuga. “Nel 53% dei casi sono minori”
di Luisiana Gaita
Un nuovo patto globale per i rifugiati non è più rinviabile. A renderlo cruciale sono gli oltre 68 milioni di persone costrette alla fuga a causa di guerre, violenze e persecuzioni. Nel 2017 questo numero ha raggiunto un nuovo record per il quinto anno consecutivo. I motivi sono da riscontrarsi soprattutto nella crisi nella Repubblica Democratica del Congo, nella guerra in Sud Sudan e nella fuga in Bangladesh di centinaia di migliaia di rifugiati rohingya provenienti dal Myanmar. I Paesi maggiormente colpiti sono per lo più quelli in via di sviluppo.
Nel rapporto annuale ‘Global Trends’, pubblicato in occasione della Giornata mondiale del Rifugiato, che cade il 20 giugno, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) traccia una mappa dei flussi di uomini, donne e bambini che abbandonano le proprie case e si lasciano alle spalle il proprio passato per un futuro incerto, spesso altrettanto drammatico. Ogni giorno sono costrette a fuggire 44.500 persone, una ogni due secondi. “Siamo a una svolta, dove il successo nella gestione degli esodi forzati a livello globale richiede un approccio nuovo e molto più complessivo, per evitare che Paesi e comunità vengano lasciati soli ad affrontare tutto questo” dichiara dichiarato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
I dati sui rifugiati – Nel totale dei 68,5 milioni di persone in fuga sono inclusi anche i 25,4 milioni di rifugiati che hanno lasciato il proprio Paese a causa di guerre e persecuzioni, 2,9 milioni in più rispetto al 2016. Si tratta dell’aumento maggiore registrato dall’Unhcr in un solo anno. Nel frattempo, i richiedenti asiloche al 31 dicembre 2017 erano ancora in attesa della decisione in merito alla loro richiesta di protezione sono passati da circa 300mila a 3,1 milioni. Sul numero totale, le persone sfollate all’interno del proprio Paese, invece, sono 40 milioni, poco meno dei 40.3 milioni del 2016. In pratica il numero di persone costrette alla fuga nel mondo è quasi pari al numero di abitanti della Thailandia. Considerando tutte le nazioni nel mondo, una persona ogni 110 è costretta alla fuga. Il Global Trends non esamina il contesto globale relativo all’asilo, a cui l’Unhcr dedica pubblicazioni separate “e che – spiega l’Agenzia – nel 2017 ha continuato a vedere casi di rimpatri forzati, di politicizzazione e uso dei rifugiati come capri espiatori, di rifugiati incarcerati o privati della possibilità di lavorare e di diversi Paesi che si sono opposti persino all’uso del termine ‘rifugiato’”.
La risposta alla crisi – Domenica scorsa Papa Francesco ha evidenziato che la Giornata mondiale dei Rifugiati quest’anno cade nel vivo delle consultazioni tra i governi per l’adozione di un patto mondiale “che si vuole adottare entro l’anno, come quello per una migrazione sicura, ordinata e regolare”. Secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati c’è motivo di sperare: “Quattordici Paesi stanno già sperimentando un nuovo piano di risposta alle crisi di rifugiati e, in pochi mesi, sarà pronto un nuovo Global Compact sui rifugiati e potrà essere adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite”. Da qui l’appello di Filippo Grandi agli Stati e l’invito a sostenersi a vicenda: “Nessuno diventa un rifugiato per scelta, ma noi tutti possiamo scegliere come aiutare”.
Si fugge soprattutto dai paesi in via di sviluppo – Il rapporto offre numerosi spunti di riflessione: l’85% dei rifugiati risiede nei Paesi in via di sviluppo, molti dei quali versano in condizioni di estrema povertà e non ricevono un sostegno adeguato ad assistere tali popolazioni. Quattro rifugiati su cinque rimangono in Paesi limitrofi ai loro. Gli esodi di massa oltre confine sono meno frequenti di quanto si potrebbe pensare guardando il dato dei 68 milioni di persone costrette alla fuga a livello globale. “Quasi due terzi di questi – spiega il rapporto – sono infatti sfollati all’interno del proprio Paese. Dei 25.4 milioni di rifugiati che hanno lasciato il proprio Paese a causa di guerre e persecuzioni, poco più di un quinto sono palestinesi sotto la responsabilità dell’Unrwa(l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente). Dei restanti, che rientrano nel mandato dell’Unhcr, due terzi provengono da soli cinque Paesi: Siria, Afghanistan, Sud Sudan, Myanmar e Somalia. “La fine del conflitto in ognuna di queste nazioni – sottolinea l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati – potrebbe influenzare in modo significativo il più ampio quadro dei movimenti forzati di persone nel mondo”. Il Global Trends offre altri due dati, forse inattesi: il primo è che la maggior parte dei rifugiati vive in aree urbane(58%) e non nei campi o in aree rurali; il secondo è che le persone costrette alla fuga nel mondo sono giovani, nel 53% dei casi si tratta di minori, molti dei quali non accompagnati o separati dalle loro famiglie.
I paesi ospitanti – Come per il numero di Paesi caratterizzati da esodi massicci di persone, anche il numero di quelli che ospitano un elevato numero di rifugiati è relativamente basso: in termini di numeri assoluti la Turchia è rimasta il principale Paese ospitante al mondo, con una popolazione di 3.5 milioni di rifugiati, per lo più siriani. Nel frattempo, il Libano ha ospitato il maggior numero di persone in rapporto alla sua popolazione nazionale. Complessivamente, il 63% di tutti i rifugiati di cui si occupa l’Unhcr si trova in soli 10 Paesi. “Purtroppo le soluzioni a tali situazioni sono state poche – rileva il rapporto – mentre guerre e conflitti hanno continuato a essere le principali cause di fuga, con progressi assai limitati verso la pace”.
Pochi quelli che tornano a casa – Circa cinque milioni di persone hanno potuto tornare alle loro case nel 2017, la maggior parte delle quali però era sfollata all’interno del proprio Paese. Tra queste, inoltre, in migliaia sono rientrate in maniera forzata o in contesti assai precari. A causa del calo dei posti messi a disposizione dagli Stati per il reinsediamento, sono 100mila i rifugiati che sono potuti tornare a casa, un numero diminuito di oltre il 40 per cento. Una sconfitta.
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
openmigration.org.
Il 28 agosto 2014 la Lega non era ancora al governo, e Matteo Salvini si esprimeva così sulla sua pagina Facebook: “Secondo voi dire che FRONTEX PLUS è una PRESA PER IL CULO è troppo forte??? Il 18 ottobre TUTTI A MILANO per dire NO a Mare Nostrum, Frontex, Frontex Plus o come diavolo vorranno chiamare operazioni che, invece di respingere i clandestini, favoriscono l’invasione!”.
Frontex Plus, diventata poi Triton, è stata fino a febbraio di quest’anno la missione di Frontex a difesa della frontiere marittime italiane. Non è “indipendente”: infatti lo scopo è il supporto ai mezzi italiani impiegati per la ricognizione in mare, cioè Guardia di Finanza, Guardia costiera e Polizia di stato. L’Agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere – Frontex appunto – finanzia e aiuta il coordinamento della missione Themis, mentre i paesi partecipanti contribuiscono mettendo a disposizione uomini e mezzi, a seconda delle esigenze espresse dall’Italia.
Alla fine del 2016, la storia tra Salvini e Frontex ha preso un’altra piega: il Financial Times ha pubblicato il famoso report interno (ve ne raccontammo qui) in cui l’agenzia sosteneva che i trafficanti dessero ai migranti “precise indicazioni prima di partire per raggiungere le navi delle Ong”. Luigi Di Maio, ad aprile 2017, ha attribuito a un altro report di Frontex (Risk Analysis 2017) la tanto citata espressione “taxi del mare” per definire le Ong. Quella frase nel report non c’è, ma ci sono critiche all’atteggiamento poco collaborativo delle Ong e a salvataggi che avverrebbero “prima di chiamate d’emergenza”.
Quello è stato l’inizio delle intese tra Lega e Cinque Stelle sull’immigrazione, con Frontex citata a sostegno delle argomentazioni anti-Ong – il primo atto della campagna condotta dalla procura di Catania e dal suo capo Carmelo Zuccaro. “Io sto con Zuccaro, io sto con Frontex”, diceva Salvini a maggio 2017, “che certificano, sostengono e confermano quello che qualunque normodotato in Italia e nel mondo ha ormai intuito: l’immigrazione clandestina è organizzata, finanziata, è un business da 5 miliardi di euro e ha portato a 13 mila morti sul fondo del mare”.
Ora la missione di Frontex cominciata a febbraio è cambiata per nuove esigenze dell’Italia. La “revisione” del mandato è cominciata a luglio del 2017 per volere dell’allora ministro Marco Minniti, che aveva inserito questa missione nella strategia più complessiva dell’Italia in Libia. Come vedremo, il compito principale di raccordo con le autorità marittime locali lo svolge la Marina Militare.
La nuova missione di Frontex è stata battezzata Themis. È la prima a supporto di un governo che dice di voler respingere i “clandestini” in mare.
Da paese di frontiera, è ovvio che l’Italia sia uno dei principali interlocutori di Frontex. Il fatto che il governo Lega-Cinque Stelle abbia in animo di respingere i migranti prima che sbarchino, presumibilmente anche con l’ausilio dei mezzi messi a disposizione da Themis, è invece un fatto unico.
Queste sono le caratteristiche della missione pensata da Minniti e che si ritroverà a gestire, invece, Matteo Salvini. E questo è il modo in cui la missione si inserisce all’interno del piano italiano ed europeo sulla Libia, spesso scoordinato e incomprensibile.
Nella missione Themis partecipano insieme a Frontex 27 stati membri. La missione dispone di dieci navi, due elicotteri e altrettanti aerei e un budget annuale di 39 milioni di euro, con i quali Frontex paga sia per i propri mezzi, sia per quelli appartenenti ai paesi europei impiegati poi nella missione.
Themis ha alcune caratteristiche differenti rispetto alla precedente Triton. In primo luogo, come spiega il Viminale, il limite dalle coste italiane della linea di pattugliamento: Triton arrivava fino a 30 miglia nautiche dalle nostre coste, Themis si fermerà a 24, ossia il confine delle cosiddette acque continue. È il limite canonico delle acque di competenza di un paese, superato in occasione della missione Triton a causa delle condizioni particolari del 2014, il suo anno di nascita. C’è da ipotizzare che il lieve indietreggiare di Themis sia anche un modo per dare maggiore spazio di manovra alle nuove autorità libiche, alle quali l’Italia sta fornendo assistenza per realizzare a Tripoli un nuovo Mrcc, il centro di coordinamento dei salvataggi a Tripoli.
Una seconda differenza tra Triton e Themis riguarda il mandato. Themis non ha come unico scopo il contrasto all’immigrazione irregolare, né si concentra solo sul Mediterraneo centrale: copre anche i flussi di uomini e droga nel Mediterraneo orientale (Albania e Turchia) e occidentale (Tunisia e Algeria), che erano fuori dal mandato di Triton. Uno spostamento di focus legato anche al calo negli sbarchi.
Le nuove aree interessano a Frontex e agli inquirenti italiani soprattutto per gli “sbarchi fantasma” dalla Tunisia. Pescherecci, barche a vela, motoscafi con poche decine di persone a bordo che sbarcano sulle coste della Sicilia meridionale senza che i migranti a bordo passino da strutture di accoglienza o identificazione: ogni loro spostamento è gestito da organizzazioni italo-tunisine. Sono vittime di tratta? Lavoratori forzati? Manodopera criminale? Potenziali terroristi? Le ipotesi sono tutte al vaglio degli inquirenti.
Sulla carta, poi, Themis rompe il vincolo stabilito da Triton per il quale ogni migrante salvato nella missione doveva sbarcare in un porto sicuro italiano. Al momento, però, non sono registrati sbarchi, a parte per urgenze mediche individuali, in porti diversi da quelli italiani. E il 7 giugno c’è stato l’ennesimo braccio di ferro tra Malta e l’Italia, quando le autorità dell’isola non hanno concesso a Sea Watch di sbarcare 120 migranti in un momento in cui l’imbarcazione dell’Ong era in difficoltà per le condizioni del mare. Ora, con il caso Aquarius, lo scontro con La Valletta è diventato aperto e duro.
Poca trasparenza
Da parte di Frontex c’è molta riservatezza sulle operazioni in corso. Piano operativo e contratti di utilizzo di ogni mezzo impiegato in mare sono i documenti fondamentali per capire esattamente cosa faccia Themis. L’agenzia per il pattugliamento delle frontiere, però, fino a oggi ha diffuso questo genere di documenti soltanto a missioni concluse.
“Nella mia esperienza, Frontex è molto riluttante a condividere i dati delle proprie missioni, soprattutto i piani operativi”, spiega Luisa Izuzquiza, ricercatrice indipendente che da un anno e mezzo deposita richieste di accesso agli atti presso gli uffici dell’Agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere. La motivazione con cui le viene negato l’accesso è sempre la stessa: la pubblica sicurezza.
A gennaio 2018, dopo l’ennesimo rifiuto, Luisa Izuzquiza ha portato Frontex di fronte alla Corte di giustizia europea per ottenere la pubblicazione dei contratti impiegati nella scorsa missione, Triton. Alcuni Stati membri, come la Svezia, non hanno avuto problemi a rendere pubblici i documenti con cui mettono a disposizione di Triton i propri mezzi. Tipologia di accordi e costi sono certamente molto simili anche nel caso di Themis. Le spese coperte interamente da Frontex sono un forte incentivo affinché i paesi diano il proprio contributo alle missioni.
A partire da settembre 2015, la Commissione europea ha introdotto gli hotspot, sviluppati in via sperimentale in Grecia e in Italia, come prime strutture di identificazione dei migranti. A Catania c’è la sede della Task force regionale (Eurtf), che coordina le strutture italiane. Qui, per evitare sovrapposizioni fra le missioni gestite da ciascuno, siedono nello stesso ufficio uomini di Frontex, Easo (l’ufficio europeo per il sostegno all’asilo), Europol, Eurojust, operazione Sophia, polizia, Guardia di finanza e Guardia costiera.
Meno chiara, però, è la situazione dei canali di comunicazione delle diverse missioni, specialmente fuori dai confini europei. Il principale canale di condivisione dei dati per i paesi del Mediterraneo si chiama Seahorse Mediterraneo Network, una piattaforma utilizzata dalle polizie dei paesi dell’area allo scopo di “rafforzare il controllo delle frontiere”. È un database al momento adottato da Spagna, Italia, Malta, Francia, Grecia, Cipro e Portogallo. La Commissione europea ha messo sul piatto 10 milioni di euro per fare in modo che possano partecipare allo scambio anche Libia, Egitto, Tunisia e Algeria. Se ne discute da ormai tre anni, ma l’unico paese che sembra poterci (e volerci) entrare – tramite l’Italia – è la Libia. Vuol dire che la guardia costiera locale avrà accesso, almeno via Seahorse, agli stessi database marittimi delle nostre forze dell’ordine.
Nella “Relazione sulla performance per il 2016” del Viminale si legge che Seahorse “è stata installata nel Centro Interforze di Gestione e Controllo (Cigc) Sicral di Vigna di Valle (Roma), teleporto principale del Ministero della Difesa, mentre presso il Centro Nazionale di Coordinamento per l’immigrazione “Roberto Iavarone” – Eurosur, sede del Mebocc [Mediterranean Border Cooperation Center], sono stati installati gli altri apparati funzionali alla rete di comunicazione”.
Il nodo italiano, dunque, sembrerebbe operativo: Seahorse è gestito dal Cigc Sicral, mentre il database-ombrello per mappare in tempo reale tutto ciò che sta accadendo in mare, Eurosur, è gestito dal Centro Roberto Iavarone, che è anche sede del Mebocc, la centrale operativa da cui passano le comunicazioni tra paesi europei, Frontex e paesi terzi.
Nella stessa relazione c’è anche un secondo passaggio, che conferma la partecipazione dei libici: si legge che nel 2016 in tutto sei “ufficiali della Guardia Costiera-Marina Militare Libica” sono stati ospitati in Italia “con funzioni di collegamento con le autorità libiche e per migliorare/stimolare la cooperazione nella gestione degli eventi di immigrazione irregolare provenienti dalla Libia” nell’ambito del progetto Sea Horse Mediterranean Network. Non è chiaro, al momento, se gli ufficiali libici hanno poi avuto l’accesso al sistema Seahorse anche da Tripoli.
La sovrapposizione fra Marina militare italiana e autorità marittima libica
Nel Mediterraneo centrale agisce poi la Marina militare. Rispetto alle tre forze dell’ordine che collaborano con Frontex ha altre regole di ingaggio e un’altra linea di comando. Come ora vedremo, ha anche altre priorità.
Oltre a partecipare alle operazioni congiunte di Eunavformed, infatti, la Marina militare italiana ha riattivato la cooperazione con la Libia nata nel 2002, all’epoca di Gheddafi, con il nome in codice di Nauras. Difficile sapere quali navi vengono utilizzate e quali siano gli obiettivi strategici attuali dell’accordo militare tra Roma e Tripoli.
I pochi elementi certi sono emersi grazie al caso giudiziario che ha portato questa primavera prima al sequestro e poi al dissequestro della nave Open Arms, fermata alla fine di marzo 2018 dopo un salvataggio in zona Sar, che aveva visto un duro scontro con le motovedette libiche. Attraverso le informative del comando generale della Guardia costiera italiana, i magistrati – prima di Catania e poi di Ragusa – hanno potuto ricostruire la gestione dei salvataggi del 15 marzo, quando il Mrcc di Roma aveva affidato il coordinamento delle operazioni alle motovedette libiche. Lì emergeva che la nave Capri della Marina militare italiana era intervenuta fin dalle prime ore del mattino parlando con Roma per conto di Tripoli e chiedendo espressamente di fermare l’intervento della Ong – le informative riportano anche un messaggio partito dall’addetto militare italiano a Tripoli.
Dai brogliacci delle comunicazioni partite e ricevute dal Mrcc di Roma durante le operazioni di salvataggio si ricava inoltre che la Marina militare è intervenuta più volte – sia da unità navali inserite nell’operazione Nauras, sia dal Comando della squadra navale (Cincinav), che dipende direttamente dallo Stato maggiore della Difesa. Tra le carte dell’inchiesta c’è anche una relazione del comando di un’altra nave militare coinvolta, la Alpino – qui nelle vesti di polizia giudiziaria e presente a poche miglia dall’area di salvataggio dove stavano agendo contemporaneamente la Open Arms e la Guardia costiera di Tripoli.
Lo stretto legame che esiste tra la Guardia costiera libica e la Marina Militare italiana appare ancora più evidente da un messaggio inviato dal comando delle motovedette libiche al Mrcc di Roma. Il numero di telefono del mittente – ovvero dell’autorità marittima libica – ha il prefisso +39 della rete italiana, e porta direttamente alla nave Capri. In altre parole, se chiami la Guardia costiera libica risponde la Marina militare italiana. E non è l’unico caso. Un paio di mesi dopo, la nave di soccorso tedesca Sea Watch ha ricevuto una telefonata dai libici durante un’operazione di salvataggio, che appariva sul display con un numero italiano.
Quanto siano coinvolte la Marina militare e la Guardia costiera italiana nel respingimento dei migranti è un tema che presto verrà affrontato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, chiamata a discutere una denuncia presentata nei mesi scorsi contro le autorità di Roma.
il manifesto 12 giugno 2018, Ecco come e perché la cecità dei governanti, la voracità dei padroni e il risorgente razzismo colonialista dell'Europa rappresentata da Salvini sta divorando se stessa e il suo futuro. Con commento, (e.s.)
«Garantiamo una vita serena a questi ragazzi in Africa e ai nostri figli in Italia». Così il ministro della Repubblica Salvini, nell’atto di negare l’accesso ai porti italiani a una nave di Sos Mediterranée con a bordo con 629 profughi (non tutti «ragazzi»; ci sono anche 7 donne incinte, 11 bambini e 123 minori non accompagnati). Ora ad accoglierli sarà la Spagna e non sarà facile, anzi. Ma poi c’è in vista anche il blocco di una seconda nave, la Sea Watch, in attesa di altri naufraghi salvati da navi mercantili e di decine di gommoni stracarichi che non troveranno più navi delle Ong a raccoglierli, per le quali si prospettano ulteriori e drammatiche strette.
La «vita serena in Africa» che Salvini offre a quei ragazzi è il ritorno in Libia.
Con le donne stuprate in modo seriale, gli uomini venduti come schiavi e tutti e tutte torturate, affamati, ricattate, ammazzati come insetti. Quanto a quella garantita ai «nostri figli», anche per loro c’è l’emigrazione; certo in condizioni di maggiore sicurezza, ma per andare a fare i lavapiatti dopo una laurea o un diploma.
Così si svuotano i paesi «periferici» – dell’Africa, con il politiche coloniali tutt’altro che finite; ma anche dell’Europa, con l’«austerità» – delle forze migliori; purché quelle peggiori continuino a governare.
«Tutta l’Europa si fa gli affari suoi», aggiunge «vittorioso» Salvini. Ma in realtà è lui che fa gli affari sporchi per conto di tutti coloro che sono al governo dei paesi europei. Perché per difendersi dal «nemico» – che ormai sono i profughi, e solo loro – la Fortezza Europa ha tracciato due distinti confini: uno alle frontiere esterne dell’Unione: muri, reticolati, filo spinato, guardie, cani, hot spot, eserciti, navi militari, leggi, regolamenti di polizia, accordi e laute mance per i governi dei paesi di transito, truppe mascherate da consiglieri e chilometri di costosissimi impianti di sorveglianza. L’altro alla frontiera delle Alpi (e a Idumeni o a Lesbo), per impedire a chi è già arrivato in Europa senza affogare di raggiungerne il cuore: i paesi dove ha parenti, amici, compatrioti che lo aspettano e forse persino la possibilità di trovare lavoro.
Invece Salvini chiede un maggior impegno europeo nel rafforzamento dei confini «esterni»: più soldi a chi si impegna nei respingimenti, più navi a sbarrare le rotte marine, più leggi e regolamenti liberticidi, più deroghe alle convenzioni internazionali, più campi di concentramento fuori dei confini dell’Unione, ecc. Per questo, di fronte a una timida proposta di riforma della convenzione Dublino 3 – che impone ai profughi di rimanere nello stato di approdo – Salvini si è alleato con i governi più ferocemente ostili ai migranti, quelli capeggiati dall’ungherese Orbán, le cui politiche comportano di fatto un aggravamento degli oneri che gravano sull’Italia.
Nigrizia online,
Non tutti gli italiani sono complici dell'efferata campagna razzista, e nazista dell'uomo che Di Maio e i suoi compari hanno scelto come ministro dll'Interno, e della politica di respingimento dei profughi e migranti che sta perseguendo. Ma lo diventeranno se non saranno capaci di utilizzare per fermarlo gli strumenti di cui dispongono dalla protesta di massa, allo sciopero e al voto. Qui sotto l'appello di Nigrizia. Ma in Italia per la giustizia e l'umanità si mobilitano solo i preti? (e.s.)
, 11 giugno 2018
Migranti. Appello dei missionari comboniani
I missionari comboniani si dicono "esterrefatti e indignati" per il rifiuto del ministero dell'Interno di concedere l'approdo a una nave carica di migranti. Chiedono al governo di proseguire sulla strada dell'accoglienza e a Bruxelles di spostare nel Mediterraneo l'epicentro delle politiche europee.
Come cittadini e cristiani siamo esterrefatti e indignati della decisione del ministro degli interni Matteo Salvini che impedisce alla nave Aquarius di portare in salvo nei porti italiani 629 migranti, salvati in acque territoriali libiche.
Il rifiuto di prestare soccorso ai migranti non ha precedenti nella nostra storia ed è in flagrante violazione delle convenzioni internazionali, di cui anche l’Italia è firmataria, che obbligano il soccorso in mare a chi è in pericolo di morte.
Tra i migranti sulla nave ci sono oltre cento minori non accompagnati e sette donne incinte. Una cinquantina di migranti sono stati salvati mentre erano a rischio di morire annegati.
Deploriamo la decisione di Malta, prima destinazione di sbarco, che si è rifiutata di accettare l’attracco della nave Aquarius. Così come la chiusura di Francia e Spagna ad ogni possibilità di accoglienza dei migranti. Ma è deplorevole e vergognoso che l’Italia decida di allinearsi, facendo così pagare a persone innocenti, bisognose di aiuto, il prezzo di una diatriba tra stati su chi si debba assumere la responsabilità di accogliere i migranti.
Chiediamo pertanto che il nuovo governo italiano ritorni sulla decisione presa dal ministro Salvini e dia immediatamente il benestare alla nave Aquarius di approdare a uno dei porti italiani più vicini a dove si trova ora la nave.
È vero, l’Italia non può essere lasciata sola di fronte a un fenomeno migratorio che ha una portata enorme e implicazioni internazionali (specie nel bacino del Mediterraneo) che chiamano in causa l’attenzione e il peso geopolitico dell’Unione Europea. È quindi corretto e giusto che il governo italiano faccia sentire le propria voce a Bruxelles, chiedendo ai partner europei di farsi carico, anche loro, del dossier migranti.
Ma nello stesso tempo l’Italia non può sottrarsi al dovere di accogliere persone che, in gran parte, cercano di costruirsi una vita migliore in Europa e che, in alcuni casi, fuggono da guerre e da regimi dittatoriali.
È importante che l’Italia mantenga un doppio ruolo: essere un porto sicuro per i migranti e nel contempo non smettere di sollecitare l’Europa a trovare soluzioni percorribili (non semplicemente fondate sul controllo militare delle aree di transito dei migranti, come avviene in Niger e Mali), anche nei paesi di partenza dei migranti.
I partner europei devono essere sollecitati a spostare il baricentro delle proprie politiche verso il Mediterraneo. È qui - in particolare attraverso la pacificazione e la stabilizzazione degli stati nordafricani - che si possono cominciare a costruire nuovi equilibri politici ed economici.
Avvenire, 20 maggio 2018. Prosegue implacabile l'azione dei "governi canaglia" di tutto il mondo per fermare l'inarrestabile esodo dalle regioni che i padroni del mondo capitalista hanno sfruttato, saccheggiato e reso invivibili (e.s.)
Ci domandiamo se i nostri connazionale si rendano conto che dietro le parole con cui i media gettano benzina sui fuocherelli del loro vizi atavici della xenofobia e del razzismo, e dietro si nasconde un gigantesco giro d'affari, che distrae a vantaggio dei Mercanti di morte risorse impiegabili per opere e interventi di generale utilità civile. Il rapporto dicui riferisce Nello Sclavo, che pubblichiamo qui di seguito racconta cose che sarebbe bene tutti conoscessero (e.s.)
e, 20 maggio 2018
Rapporto choc. "Fermate i profughi" (con l'uso della forza)
di Nello Sclavo
«Rapporto choc: dall’Italia all’Ungheria accordi coi despoti per frenare i flussi»
Niente di strano che un’Europa così si sia messa in affari con 35 tra i più controversi governi del mondo, pur di sigillare i confini e tenere alla larga gli ultimi. Lo sostiene il rapporto “Expanding the Fortress – Ampliando la Fortezza”, diffuso dall’istituto transnazionale 'Stop Wapenhandel' (Campagna olandese contro il commercio di armi) e rilanciato dalla Rete Italiana per il Disarmo. «La collaborazione dell’Ue con i Paesi limitrofi per il controllo delle migrazioni ha rafforzato i regimi autoritari, fornito profitti alle imprese della sicurezza e ai produttori di armamenti, distolto risorse dallo sviluppo e indebolito i diritti umani», si legge nel dossier. I ricercatori hanno esaminato il frequente ricorso a intese per l’esternalizzazione delle frontiere.
Esemplare il caso della Turchia del presidente Erdogan, regolarmente criticato da Bruxelles per le ripetute violazioni delle libertà fondamentali, ma a cui sono stati versati 6 miliardi di euro pur di trattenere in Anatolia il più alto numero possibile di profughi siriani. Le misure adottate dall’Ue includono la formazione delle forze di sicurezza di Paesi terzi; donazioni di elicotteri, navi per pattugliamento e veicoli; cessioni di apparecchiature di sorveglianza e monitoraggio; sviluppo di sistemi di controllo biometrico; accordi per i respingimenti. Nella lista, oltre alla Turchia, vi sono Libia, Egitto, Sudan, Niger, Mauritania e Mali. In tutti questi Paesi, «gli accordi hanno portato l’Ue – insistono i ricercatori – a trascurare o attenuare le critiche sulle violazioni dei diritti umani». In Egitto, per fare un esempio, è stata intensificata la cooperazione per il controllo delle frontiere con il supporto del governo tedesco, «malgrado il consolidamento del potere militare al Cairo».
In Sudan, il sostegno per la sicurezza delle frontiere da parte dell’Ue ha permesso al presidente Omar al-Bashir (destinatario di un mandato di cattura della Corte penale internazionale dell’Aja) di rompere l’isolamento internazionale, «consentendo di rafforzare le Forze di supporto rapido, formate da combattenti della milizia Janjaweed», responsabili di crudeli crimini contro i civili nella regione del Darfur. Il dossier esamina da vicino tutti i 35 Paesi a cui l’Ue attribuisce priorità negli sforzi di esternalizzazione delle frontiere. Il 48% (17) ha un governo autoritario e solo quattro possono essere considerati Stati democratici. Il 100% (35) pone rischi estremi o elevati per il rispetto dei diritti umani. Il 51% (18) è classificato come 'basso' negli indici dello sviluppo umano.
In Niger, una delle nazioni più povere al mondo, le intese procedono verso una progressiva militarizzazione, aumentando i rischi per i migranti e accrescendo il potere di bande armate e trafficanti. Allo stesso modo in Mali, Paese che sta riprendendosi dopo la guerra civile, gli 'aiuti' militari dall’Europa per trattenere i migranti minacciano di risvegliare quel conflitto. «L’Unione Europea – sostengono gli autori dello studio – ha voltato le spalle ad un impegno incondizionato per i diritti umani, la democrazia, la libertà e la dignità umana espandendo negli ultimi anni in maniera problematica le proprie politiche di esternalizzazione delle frontiere». Dalle cronache degli ultimi giorni, purtroppo, non arrivano smentite.
il manifesto, 2
«La propaganda contro gli immigrati alimenta politiche sovraniste e xenofobe, che spesso guadagnano il governo dei paesi europei. L’Italia è sul piano inclinato»
Il 25 aprile e il rapporto tra fascismo e razzismo. Non sono la stessa cosa, ma sono parenti stretti. Il razzismo era in auge anche prima dell’avvento del nazifascismo: il colonialismo veniva legittimato con la pretesa superiorità dell’«uomo bianco».
Ma è stato il nazismo, prima, e il fascismo, dopo, indipendentemente uno dall’altro, a fare della “difesa della razza”, poi dell’assoggettamento e infine dello sterminio delle “razze inferiori” le loro bandiere.
Oggi però quel rapporto si invertito. Non è il fascismo a promuovere il razzismo. E’ un razzismo ormai diffuso in tutta Europa, e particolarmente virulento in Italia, che coincide con il rigetto e la fobia nei confronti dell’immigrato, del profugo, dello straniero, a dar fiato alla nostalgia di fascismo e nazismo. Per le destre sovraniste e nazionaliste si è rivelato una “gallina dalle uova d’oro”, grazie anche al sostegno di quasi tutti i mass media; per la maggioranza di coloro che lo condividono, anche se non lo praticano, è uno stato d’animo, una risposta “facile” e immediata che “spiega” il peggioramento e la precarietà della propria condizione.
L’establishment è riuscito a scaricare sul capro espiratorio la “colpa” dei danni che l’alta finanza sta inferendo a tutto il resto della popolazione con una crisi che viene presentata ormai come un dato naturale. Ma è sbagliato sostenere, come fanno alcuni, che fascismo e antifascismo sono solo fattori di distrazione di massa, perché il vero fascismo è quello delle politiche imposte dalla finanza globale, per lo più indicate con il termine, del tutto inappropriato, di neoliberismo. Perché, in caso di necessità – per loro – quelle politiche non sono incompatibili con qualche forma di fascismo. Ma è altrettanto sbagliato invocare un fronte comune (o “un governo di salute pubblica”) che faccia argine a fascismo e nazionalismo, senza vedere che a promuoverli è proprio quel razzismo, negato a parole, che ispira le politiche di respingimento, disumanizzazione e sopraffazione di profughi e migranti, condivise dalla maggior parte dei governi e dei partiti.
Luigi Manconi mette in guardia dal chiamare razzista chi nel razzismo sente di star precipitando perché non ha argomenti da contrapporgli, ma vorrebbe evitarlo. Gli argomenti oggi correnti, spesso basati su falsi infami, o nascondendo la realtà, sono solo quelli che promuovono il razzismo: quelli diffusi tutti i giorni capaci di spalancare le porte all’onnipresenza di Salvini e alle ragioni del “così non si può andare avanti”. Mentre a chi, giorno dopo giorno, affronta. in condizioni sempre più precarie, un’ostilità diffusa verso profughi e migranti non viene prestata alcuna attenzione. Non hanno voce nei partiti, dove si assiste a una corsa alla criminalizzazione sia dei profughi che di chi esprime o pratica la solidarietà nei loro confronti.
Per alcuni il razzismo apertamente professato è un modo per recuperare una propria identità, distrutta dalla precarietà, dalla mancanza di prospettive e dall’ignoranza; facile che in queste condizioni si approdi al fascismo. Ma per i più è solo un modo per “sfogare” il proprio malessere; però è un piano inclinato, lungo cui è facile scivolare, ma è sempre più difficile tornare indietro.
In parte lo abbiamo già visto con le politiche messe in atto da Minniti: più morti in mare grazie alla criminalizzazione e all’allontanamento delle navi della solidarietà; più respingimenti – effettuati e rivendicati dalla “guardia costiera” libica con i mezzi forniti dal governo italiano – per riportare i profughi “salvati” in mare alle stesse violenze, torture, ricatti, schiavitù da cui cercavano di fuggire; qualche rimpatrio forzato (altro che 600mila!), fatto a scopo mediatico, perché farli tutti costa troppo e richiederebbe accordi con i paesi di destinazione, anche “oliando” i regimi corrotti da cui quei profughi sono fuggiti.
Respingere non significa solo restituire dei fuggiaschi disperati alle vecchie schiavitù, ma anche esporli al reclutamento delle bande che hanno reso invivibili i loro paesi: così tra pochi anni l’Europa sarà circondata da guerre e bande armate da est a sud. E dopo il Niger forse andremo, non invitati, e in puro stile coloniale, a fare la guerra ai migranti in altri paesi; per ridurre anche loro come sono stati ridotti Libia, Siria, Iraq e Afghanistan, dove una volta messo il piede è sempre più difficile andarsene. Moltiplicando così il flusso di chi fugge. Ma anche gli “stranieri” e i profughi che sono già arrivati negli anni, e che continueranno ad arrivare anche più numerosi in futuro, condannati per legge a essere “clandestini”, o trattati come intrusi anche dove si erano inseriti, o avrebbero potuto inserirsi, costituiranno sempre di più un “problema” per tutti.
Un alibi per imporre a tutti restrizioni e dispotismo: sul lavoro, a scuola, nella spesa pubblica, nella vita quotidiana, sulla possibilità di associarsi e di lottare: ecco da dove nascerà il nuovo fascismo.
Autorità e governi dell'Unione europea sono ben contenti che l’Italia adotti politiche più feroci verso i migranti: gli risolve un problema che non sanno e non vogliono affrontare. Ma in questo modo trasformano l’Italia (e la Grecia, quando Erdogan riaprirà le dighe che ha eretto, a pagamento) in quello che è oggi per noi la Libia: un campo di concentramento in cui bloccare – e massacrare – quelli che da Ventimiglia, Como e al Brennero non devono più passare.
Esistono le alternative, ma solo se si guarda lontano, verso tutti i paesi che circondano il Mediterraneo, dal Medio oriente al Sahel. Perché quel flusso oggi inarrestabile si potrà invertire solo se quei profughi verranno accolti, inseriti nel lavoro e in una comunità, messi in condizione di contribuire non solo al Pil e alle casse dello Stato, ma anche alla nostra cultura, alla nostra vita quotidiana, al risanamento ambientale del nostro territorio, al contenimento della catastrofe climatica che li ha costretti a fuggire dal loro. Essere poi messi in condizione di far ritorno, se lo desiderano, nelle loro terre di origine. Se ci adopereremo per liberarle dalle armi che vendiamo, dalla guerra e dalle dittature che sosteniamo, dallo sfruttamento delle loro risorse che arricchiscono solo chi è già molto ricco, dal degrado del loro ambiente di cui siamo in gran parte la causa.