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Arturo Carlo Quintavalle
Basilico, la luce sulle città senza uomini
14 Febbraio 2013
Padri e fratelli
Un commosso ricordo del grande fotografo di spazi urbani post-industriali, e non solo, appena scomparso.

Corriere della Sera, 14 febbraio 2013 (f.b.)

Si è spento ieri, dopo un'amara, lunga malattia, Gabriele Basilico, uno dei massimi protagonisti della fotografia europea. Le sue immagini propongono uno sguardo lungo sul mondo delle città, non quelle dei monumenti ma delle periferie, bordi slabbrati e consunti, spazi deserti di figure le cui tracce sono sempre presenti, fili, insegne, cartelli, arredi urbani. Un'invenzione senza confronto, ma che ha una storia.

Nato nel 1944, iscritto al Politecnico, architetto, sceglie subito la fotografia; non dialoga con Henry Cartier-Bresson ma semmai con Ugo Mulas che, fin dai primi anni 60, costruisce i tempi lunghi di uno sguardo sul mondo che tanto peserà sull'esperienza di molti. Basilico sceglie i propri modelli: prima di tutto Walker Evans che fotografa su lastra, condensando in un'immagine, il racconto dei luoghi dell'agricoltura statunitense rovinata dalla crisi del 1929.

Poi Eugène Atget che delle strade vuote, delle vetrine di Parigi, costruisce il mito e la storia. La prima grande ricerca "Milano ritratti di fabbriche" (1978-80) Basilico la racconta così: «Il vento, quasi assecondando una tradizione letteraria, sollevava la polvere, metteva in agitazione le strade, puliva gli spazi fermi, ridonando plasticità agli edifici, rendendo più profonde le prospettive delle strade... per la prima volta ho visto le strade e, con loro, le facciate delle fabbriche stagliarsi nitide, nette e isolate su un cielo inaspettatamente blu intenso... anche l'ombra diventava un elemento compositivo».

Una Milano delle fabbriche ai bordi del tessuto urbano, bloccate nello spazio come nelle foto di Bernd e Hilla Becher, ma con una dimensione di racconto diversa, quella di Mario Sironi e delle sue periferie, quella di Giorgio de Chirico e delle sue scene deserte, ma qui senza statue, solo prospettive taglienti, forme bloccate. È degli inizi degli anni '80 l'incontro con Luigi Ghirri e l'adesione a un altro progetto, quello della mostra «Viaggio in Italia» (1984). L'idea è di riprendere non l'Italia dei monumenti ma quella dei luoghi esclusi, ai margini, l'idea è di ritrovare la dimensione di un nuovo e diverso paesaggio, un paesaggio «altro», quello dei romanzi di Italo Calvino e quello, più vicino al gruppo di Ghirri, dei racconti di Gianni Celati che narra le umide mitologie dei pioppeti senza fine delle campagne del nord.

Ecco, in questa dimensione di racconto, sospesa fra pittura, letteratura e sguardo della memoria, si inserisce l'esperienza della «Mission Datar» (1984-1988) dove Basilico viene chiamato in Francia a riprendere le coste della Normandia, porti e strutture urbane, insieme a un gruppo fra i maggiori fotografi europei. Comincia con numerosi sopralluoghi, si devono pensare le foto prima di scattare: sei mesi di lavoro. Basilico riprende su lastra, col cavalletto, concentra l'immagine il più possibile, lascia, come Evans, come Atget, fuori del campo visivo le persone perché la città, il porto, sono esse stesse racconto, storia. «Sono diventato amico dei luoghi... i luoghi mi aspettavano, il porto di Dunkerque o di Le Havre erano pronti, come ad attendermi, a rilanciare il rito dello sguardo che si trasformava in fotografia».

Ma gli spazi dilatati delle immagini dei porti e delle marine hanno una storia, dei modelli che lo stesso Basilico riconosce: Bellotto con le grandi vedute di Dresda, toni bassi, forme taglienti, scandite, dove il racconto sembra dilatarsi oltre il limite del riquadro; oppure le vedute di Van Goyen o di Ruysdael, quelle del grande '600 olandese. Ecco, è questo il «senso dell'infinito come oggetto, come spazio osservato» che Basilico vuole creare.

L'altro grande momento della sua ricerca è Beirut, la città distrutta dalla guerra, un chilometro quadrato di edifici ripresi lentamente, con cavalletto e macchina a lastre, per fotografare lo spazio della memoria. «Il vuoto per me non significa mai vera assenza: si tratta piuttosto di una fase di silenzio che mi permette di instaurare un dialogo, spero autentico, con la realtà». Dopo vengono altre ricerche sulle periferie che si dilatano divorando le campagne, periferie senza centro, e sono quelle di «Appunti di un viaggio» (2006). E poi ancora le grandi ricerche su Istanbul, Shangai, Mosca, dove spesso «gli edifici svelano una forma antropomorfa: nelle architetture sono nascosti occhi, nasi, orecchie, labbra, volti che aspettano la parola».

In fondo, Basilico, come ogni grande artista, ha scattato sempre pensando a una stessa immagine, e lo scrive: (le mie sono) «le stesse fotografie... con gli stessi punti di vista... le stesse variazioni di luce» e questo per ritrovare, nel suo dialogo con l'enorme spazio degli orizzonti urbani, quella lunga durata che resta il segno più evidente del suo civile, umanissimo racconto.

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