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Luigi Scano
2006. Un’affascinante riflessione e una terribile semplificazione
20 Giugno 2007
Scritti di Gigi Scano
E' vero che “la democrazia è un’ideologia di eguaglianza e il liberalismo della differenza”? Un'opinione sull'opinione di M.P. Guermandi

Ho letto con grandissima attenzione, sentendomene fortemente interrogato, l’opinione di Maria Pia Guermandi intitolata “La libertà dei valori e la democrazia dei diritti”, pubblicata in eddyburg del 15 maggio ultimo scorso: si tratta di una riflessione densa di interrogativi intriganti, spesso spiazzanti, mai banali e liquidabili con una più o meno frettolosa scrollata di spalle.

La sua portata, le sue valenze, gli ineludibili quesiti che pone vanno sempre e comunque ben oltre la casistica bolognese, pure frequentemente ed efficacemente evocata. Così come sono stringentemente contemporanee, eppure non hanno tempo, le aporie implicite in talune sue affermazioni. Quella tra legalità e legittimità, ovvero tra legge della società organizzata e diritti irrinunciabili degli umani, che rinvia, almeno, al mito eterno di Antigone. Quella tra legalità che sigilla le ineguaglianze e legalità che fornisce l’unico potere dei senza potere. E altro ancora potrei dire di uno scritto che forse non condividerei in ogni sua, possibile o forse necessaria, estrema conseguenza, ma che certamente, in tali casi, impegna ineludibilmente a controargomentare mettendosi pienamente in gioco.

Proprio per tutti i motivi che ho sinora esposto, non ho potuto che rammaricarmi di vedere riproposta, in un siffatto intervento, la terribile semplificazione per cui “la democrazia è un’ideologia di eguaglianza e il liberalismo della differenza”, dichiaratamente ripresa da Carl Schmitt, cioè da un rozzo supporter giuridico-politologico del nazionalsocialismo, estraneo sia alla democrazia che al liberalismo, e nemico dell’una e dell’altro.

Eppure il più importante teorico del liberalismo inglese della metà dell’800, John Stuart Mill, scriveva che “i mezzi per il proprio sviluppo, che l’individuo perde quando gli è impedito di soddisfare le sue inclinazioni a danno di altri, sono generalmente ottenuti a spese dello sviluppo altrui. Anche per l’individuo stesso vi è una completa compensazione sotto forma di un migliore sviluppo dell’aspetto sociale della sua natura, reso possibile dai vincoli imposti a quello egoistico” (On Liberty, 1859; ed.it. Sulla libertà, Milano, 1990, pag.109). Su questi fondamenti, non poteva che dare per scontato che il liberalismo dovesse inverarsi nella forma democratica di organizzazione istituzionale, giacché quei diritti e doveri di tutti che sono garantiti dallo Stato di diritto e dall’eguaglianza davanti alla legge divengono significativi, per la più parte dei cittadini, soltanto grazie alla titolarità dei diritti politici, di eguali chances di partecipazione, e quindi grazie al suffragio universale (compreso quello femminile) e uguale. Ma anche i diritti politici rimangono solamente formali, se non è assicurato a tutti un adeguato status sociale ed economico. E, anche anticipando le attualissime riflessioni sui limiti della crescita, asseriva perentoriamente che “nei paesi più avanzati, ciò che economicamente è necessario è una migliore distribuzione della ricchezza […] per coltivare liberamente le grazie della vita [to coltivate freely the graces of life]” (Principles of Political Economy, London, 1911, pag.454). Tant’è che potè concludere che “il nostro ideale andò molto al di là della democrazia e ci avrebbe meritato decisamente la designazione di socialisti” (Autobiography, London, 1873, London , 1969, pag.196).

Vennero poi, e ripresero, e di molto svilupparono, gli assunti ora sommarissimamente ricordati del pensiero di Stuart Mill, i cosiddetti “liberali vittoriani”. E quindi John Maynard Keynes (relativamente al quale penso più a taluni scritti occasionali e “minori” che alla formidabile The General Theory of Employment, Interest and Money, London, 1936, trad. it. Occupazione, interesse e moneta, Torino, 1963) e William Beveridge, il teorico e il costruttore del Welfare State (Full Employment in a Free Society, London, 1944).

Al di là dell’Atlantico, negli anni di Keynes e di Beveridge, si affermava, si sviluppava, creava strutture istituzionali, economiche, sociali, il New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Ometto di citare anche uno solo dei teorici new dealer, eccetto quello che fece allora le sue prime prove, e che recentissimamente ci ha lasciati: John Kenneth Galbraith. Quanto facile sia incasellarne il pensiero nella formuletta schmittiana, lo lascio giudicare a coloro che hanno letto, o che avranno voglia di leggere, o di rileggere, quanto di lui pubblicato in eddyburg, nelle ultime settimane, a firma di Giorgio Ruffolo, di Carla Ravaioli e di Augusto Graziani, nonché gli stralci “straordinariamente anticipatori” tratti dal suo scritto “La Libertà, la Felicità…e anche l’Economia” (Liberty, Happiness…and the Economy, da The Altlantic Monthly, giugno 1967).

Per venire ai tempi nostri, potrei ricordare John Rawls, per il quale ogni ineguaglianza sociale è arbitraria e inaccettabile, salvo che non sia ragionevole presumere che essa si traduca in un vantaggio per la collettività e in particolare per i più svantaggiati (A Theory of Justice, Oxford – London, 1972, trad. it. Una teoria della giustizia, Milano, 1986).

E nella nostra povera Italia? è vero che un pensiero liberale omologo a quello al quale sinora ho fatto riferimento non superò mai, nelle competizioni elettorali (quando ci si cimentò) percentuali “da prefisso telefonico”, ma ciò non legittima l’ignorare che vissero, scrissero, operarono, Piero Gobetti, Guido De Ruggiero, Guido Calogero, Mario Pannunzio e tutto (o quasi) il gruppo di “Il Mondo”, nel contesto del quale quell’Antonio Cederna così spesso, e meritatamente, e doverosamente, ricordato in eddyburg, del cui pensiero non è dato capire un beneamato nulla se non lo si inquadra nel filone che da Carlo Cattaneo, passando per Gaetano Salvemini, arriva a quella famosa (e fumosa, beati loro!) redazione di Campo Marzio prima e di via Colonna Antonina poi.

Ho affastellato nomi e brevissime e apodittiche citazioni. Ma non credo che altro mi potessi permettere di fare.

Se poi volessi indulgere anch’io al vizio delle ipersemplificazioni, potrei fare presente che “la democrazia” è quella che ammannisce a Socrate una bella tisana di cicuta. E anche, seppure in termini meno strutturati e formalizzati, quella che invoca ed esige “crucifige” (da cui le splendide riflessioni di Gustavo Zagrebelsky, in Il “crucifige” e la democrazia, Torino, 1995).

Sorgendo dalla tomba, e alzando il ditino ammonitore, Benjamin Constant mi rimprovererebbe: “Quella era la libertà (la democrazia) degli antichi”. Infatti: quella dei moderni in tanto è altra cosa in quanto è liberal-democrazia. E in quanto tale ci sentiamo impegnati a difenderla, nei paesi dove s’è, più o meno bene, instaurata, dalle derive plebiscitarie, leaderistiche, mass-mediatiche, autoritarie se non totalitarie (qualche volta persino vincendo, magari per una manciata di voti, e avendo ramazzato il ramazzabile).

E, a proposito: è proprio sicura Maria Pia Guermandi che le sue posizioni circa il rifiuto della circoscrizione, della espulsione, della rimozione, della “società marginalizzata”, in quanto vivente fuori della legalità formale, o ai suoi margini (mi scuso se pure io, adesso, sintetizzo intollerabilmente il suo pensiero), troverebbero, illic et nunc, un largo appoggio nelle espressioni democratiche (rappresentative e/o referendarie) della comunità bolognese, ovvero il consenso maggioritario (comunque sondato) della locale “opinione pubblica”?

Vedi caso, trova invece forte “simpateticità” (quantomeno) in un vecchio liberale quale continua, caparbiamente e orgogliosamente, a considerarsi (totalmente a prescindere dai simboli che contrassegna sulle schede elettorali) l’autore di queste modeste noterelle.

Venezia, 21 maggio 2006

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